• Comment la « #prime_Macron » s’est en partie substituée au salaire, et pourquoi c’est fâcheux

    Environ 30 % du montant des primes ont remplacé des hausses de salaire, a calculé l’Insee. Ceci, alors que les salaires peinent à suivre l’envolée de l’inflation.

    « Les salaires ont moins augmenté au quatrième trimestre que ce qui aurait pu être ». Dans sa dernière note de conjoncture, rendue publique mercredi 15 mars 2023, l’Insee met en lumière un des #effets_pervers de la « prime Macron », mise en place pour soutenir le pouvoir d’achat des Français. " Ce que nous avons calculé, c’est que 30" % "du montant de cette prime se serait substitué à du salaire mensuel de base "​, indique Julien Pouget, chef du département de la conjoncture de l’Insee. Autrement dit, 100 € de prime ont remplacé 30 € de hausses de salaire. 

    Les entreprises privilégient la prime

    Un gain pour le salarié ? Pas si sûr. Car contrairement au salaire, rien ne garantit qu’une prime sera reconduite d’une année sur l’autre – à moins qu’un accord d’entreprise le spécifie. Les employeurs ont donc tout intérêt à privilégier cette « #prime_de_partage_de_la_valeur » (#PPV) plutôt qu’une augmentation pérenne. D’autant plus que, second avantage pour eux, elle est exonérée de #cotisations_sociales (dans la limite de 3 000 €, et même 6 000 € pour les entreprises ayant signé un accord d’intéressement). Le salarié y trouve son compte à court terme, mais faute de cotisations, la prime ne rentre pas dans le calcul de ses droits à la #retraite. La prime est aussi exonérée d’impôt sur le revenu pour les salariés gagnant jusqu’à trois fois le Smic.

    Les #salaires_réels ont reculé

    Les versements ont été " massifs fin 2022, avec de potentiels effets d’aubaine "​, commente l’Insee dans sa note de conjoncture. Près de 5 millions de salariés ont perçu cette prime, soit 30 % de l’ensemble des salariés. Le montant moyen est de 806 € par bénéficiaire, pour un total de 4,4 milliards d’euros.

    " Les versements de PPV ont été particulièrement élevés au mois de décembre "​, observe aussi l’Insee. « Le faible dynamisme des #salaires_de_base au quatrième trimestre suggère l’existence d’effets d’aubaine : en l’absence du dispositif de PPV, des employeurs auraient sans doute versé, sous une forme différente, une partie du montant de la prime à leurs salariés. » ​Cette part est estimée à " environ 30" % ».

    En moyenne, sur l’année 2022, les salaires ont augmenté de 5,7 % (l’Insee mesure le « salaire moyen par tête »). Corrigé des effets de l’#inflation, c’est tout de même une hausse réelle de +0,4 %. Toutefois, cette hausse est due en partie à un moindre recours aux dispositifs de chômage partiel, comparé à l’année 2021. Sans cet effet mécanique, et corrigé de l’inflation, les salaires réels ont reculé de 1,8 %. Un recul " inédit depuis le début des années 1980 "​, commente l’#Insee.

    https://www.ouest-france.fr/economie/social/comment-la-prime-macron-sest-en-partie-substituee-au-salaire-et-pourquo
    #primes #salaire #travail #France #macronisme #statistiques #chiffres

  • Surge in arms imports to Europe, while US dominance of the global arms trade increases

    Imports of major arms by European states increased by 47 per cent between 2013–17 and 2018–22, while the global level of international arms transfers decreased by 5.1 per cent. Arms imports fell overall in Africa (–40 per cent), the Americas (–21 per cent), Asia and Oceania (–7.5 per cent) and the Middle East (–8.8 per cent)—but imports to East Asia and certain states in other areas of high geopolitical tension rose sharply. The United States’ share of global arms exports increased from 33 to 40 per cent while Russia’s fell from 22 to 16 per cent, according to new data on global arms transfers published today by the Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI).


    https://www.sipri.org/media/press-release/2023/surge-arms-imports-europe-while-us-dominance-global-arms-trade-increases

    #armes #commerce_d'armes #armement #rapport #SIPRI #2022 #statistiques #chiffres

    • S’impenna l’import di armi in Europa. Gli Stati Uniti dominano il commercio globale

      Nel quinquennio 2018-2022 le importazioni di armi in Europa sono cresciute del 47%, mentre a livello globale è stata registrata una diminuzione del 5,1%. Gli Stati Uniti si confermano il primo esportatore nel mondo, assorbendo il 40% del mercato, la Russia, con il 16%, è staccata. I nuovi dati del Sipri e il ruolo della guerra in Ucraina

      La guerra russa in Ucraina ha spinto il trasferimento internazionale di armamenti e rilanciato la corsa europea al riarmo: nel 2022 Kiev è diventata il terzo maggiore importatore e il quattordicesimo nel quinquennio 2018-2022. È quanto emerge dal report “Trends in international arms transfers, 2022” pubblicato a marzo dall’Istituto indipendente di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri) e che evidenzia come, a fronte di un calo globale del trasferimento di armamenti (-5,1% rispetto al quinquennio 2013-2017), l’Europa registri invece un aumento del 47%. Con punte del 65% nei Paesi membri della Nato. Oltre all’Ucraina, nel continente i principali acquirenti sono il Regno Unito (che a livello globale si attesta al tredicesimo posto) e la Norvegia. Quasi il 60% di sistemi d’arma acquistati in Europa sono stati esportati dagli Stati Uniti, al secondo posto si piazza la Russia, con il 5,8% (l’export di Mosca, tuttavia, è limitato alla Bielorussia). “Anche se i trasferimenti di armi sono diminuiti a livello globale, quelli verso l’Europa sono aumentati notevolmente a causa delle tensioni tra la Russia e la maggior parte degli altri Stati europei -ha spiegato Pieter D. Wezeman, ricercatore senior del Programma trasferimenti di armi del Sipri-. Dopo l’invasione dell’Ucraina, i Paesi europei vogliono dunque importare più armi e più velocemente. Ma la competizione strategica continua anche altrove: le vendite di armamenti verso l’Asia orientale sono aumentate e quelle verso il Medio Oriente restano a un livello elevato”.

      Secondo le analisi del Sipri a livello globale le spese militari sono in crescita dal 2013 e nel 2021 (ultimo anno per cui ci sono dati disponibili) e hanno superato la soglia record dei duemila miliardi di dollari (2.113) un valore quasi raddoppiato rispetto a quello raggiunto a fine anni Novanta. In parallelo, però, i trasferimenti di armi sono calati del 5,1% a livello mondiale. A diminuire il proprio import nel periodo 2018-2022 rispetto ai cinque anni precedenti sono stati soprattutto i Paesi dell’Africa (-40%), delle Americhe (-21%), dell’Asia e dell’Oceania (-7,5%) e in Medio Oriente (-8,8%). Mentre a livello locale la vendita di armi è aumentata verso i Paesi coinvolti in scontri e tensioni geopolitiche, come in Ucraina, in Corea del Sud o Giappone.

      Nel periodo 2018-2022 gli Stati Uniti hanno aumentato il proprio peso sul mercato globale passando dal 33% al 40%. Mentre la quota di mercato del secondo grande produttore, la Russia, è passata dal 22% al 16%: negli ultimi cinque anni il Paese ha registrato un calo delle vendite di sistemi d’arma, principalmente a causa del conflitto in Ucraina, e il suo divario verso la Francia (il terzo esportatore globale) si è ridotto. Gli Stati Uniti hanno aumentato i propri trasferimenti del 14% negli ultimi cinque anni rispetto al quinquennio precedente. La Russia, invece, ha diminuito il proprio export del 31%, passando dal 22% al 16% del mercato: dieci dei suoi otto maggiori partner, in particolare l’India, hanno ridotto gli acquisti dal Pese, in controtendenza solo Cina ed Egitto. “È probabile che l’invasione dell’Ucraina limiti ulteriormente le esportazioni militari di Mosca. Questo perché darà la priorità al rifornimento delle proprie forze armate e la domanda da parte di altri Stati rimarrà bassa a causa delle sanzioni commerciali e delle crescenti pressioni da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati per non finanziare i russi”, ha aggiunto Wezeman.

      In parallelo la Francia ha aumentato le proprie esportazioni militari del 44%, dirette soprattutto verso Asia, Oceania e Medio Oriente. L’India, in particolare, ha ricevuto il 30% delle armi vendute da Parigi. “Questa tendenza sembra destinata a continuare, dato che alla fine del 2022 la Francia aveva un numero di ordini in sospeso per l’esportazione di armamenti di gran lunga superiore a quello della Russia”, sottolinea ancora il Sipri.

      Gran parte della corsa al riarmo è stata causata dalla guerra in Ucraina. Ad esempio, tra il 2018 e il 2021 il principale ordine di armamenti da parte della Polonia comprendeva 32 aerei militari e quattro sistemi difensivi terra-aria dagli Stati Uniti. Ma nel 2022 Varsavia ha annunciato l’acquisto di 394 tank, 96 elicotteri da combattimento e 12 sistemi difensivi dagli Usa oltre a mille carri armati e 48 aerei dalla Corea del Sud. La Germania, invece, ha acquistato a fine 2022 35 bombardieri progettati per il trasporto di testate nucleari tattiche e che sostituiranno i precedenti modelli (ne abbiamo scritto a dicembre).

      L’Italia è al 28esimo posto a livello globale per le importazioni di sistemi d’arma, che acquista quasi esclusivamente dagli Stati Uniti (92%) e ha diminuito i trasferimenti del 41%. In nostro Paese, però, è uno dei principali produttori, al sesto posto (con una quota di mercato del 3,8%) e un incremento del 45% rispetto alla media del periodo 2012-2017: Qatar (24% delle vendite), Egitto (23%) e Turchia (12%) sono le prime tre destinazioni delle armi prodotte in Italia. E secondo le analisi del Sipri, le vendite italiane continueranno a crescere: a fine 2022, infatti, Roma aveva ordini in sospeso per 115 aerei ed elicotteri da combattimento, nove navi da guerra e 1.703 veicoli corazzati.

      “A causa delle preoccupazioni sul fatto che la fornitura di aerei da combattimento e missili a lungo raggio avrebbe potuto aggravare ulteriormente la guerra in Ucraina, gli Stati della Nato hanno rifiutato le richieste del Paese nel 2022. Allo stesso tempo, però, hanno fornito tali equipaggiamenti ad altri Stati coinvolti in situazioni di conflitto, in particolare in Medio Oriente e nell’Asia meridionale”, segnala poi il Sipri.

      A livello globale i maggiori importatori restano Asia e Oceania, che hanno ricevuto il 41% dei trasferimenti di armamenti, in queste due regioni infatti si trovano sei dei dieci maggiori acquirenti a livello globale: Australia, Cina, Corea del Sud, Pakistan, India e Giappone. Nell’area le importazioni sono state spinte verso l’alto dalle tensioni tra Corea del Nord e del Sud oltre che dal confronto tra Cina e Giappone. Tra il quinquennio 2013-2017 e il 2018-2022 Seoul ha aumentato del 61% i propri acquisti di sistemi d’arma e mentre nello stesso periodo Tokyo ha registrato un impressionante +171%. Infine l’Australia le ha aumentate del 23%. Anche le tensioni geopolitiche tra India e Pakistan hanno fatto crescere gli acquisti militari di entrambi i Paesi. L’India, nonostante un calo del 10%, rimane il maggior importatore a livello globale mentre il Pakistan risulta all’ottavo posto ricevendo per la maggior parte materiale di fabbricazione cinese.

      In Medio Oriente vi sono tre dei maggiori importatori di materiale bellico, Egitto, Qatar (i due più importanti partner dell’Italia) e l’Arabia Saudita, il secondo acquirente globale dopo l’India. L’Arabia Saudita, sempre tra 2018 e 2022, ha ricevuto 91 aerei da guerra e più di 20mila bombe guidate dagli Stati Uniti. Il Qatar ha quadruplicato le sue importazioni negli ultimi cinque anni, in particolare da Stati Uniti e Italia. Il Paese ha comprato 36 cacciabombardieri dalla Francia e altrettanti dagli Stati Uniti, oltre a tre fregate dall’Italia.

      https://altreconomia.it/simpenna-limport-di-armi-in-europa-gli-stati-uniti-dominano-il-commerci

  • Santé mentale et soins psychiques de l’enfant : la surmédication dépasse toutes les bornes scientifiques
    https://theconversation.com/sante-mentale-et-soins-psychiques-de-lenfant-la-surmedication-depas

    Pour la seule année 2021, la consommation chez l’enfant et l’adolescent a augmenté de :

    7,5 % pour les antipsychotiques,

    16 % pour les anxiolytiques,

    23 % pour les antidépresseurs,

    224 % pour les hypnotiques.

    Plus largement, l’analyse de la consommation de 59 classes de médicaments psychotropes délivrés sur ordonnance en pharmacie chez les 0-19 ans pour l’ensemble des bénéficiaires du Régime Général montre que, pour chaque année entre 2018 et 2021, la consommation est supérieure à celle de l’année précédente et inférieure à celle l’année suivante. Ce qui suggère une augmentation continue de la consommation pour l’ensemble des médicaments.

    • (Je pense que c’était clair, mais je parlais des enfants qui ont besoin de soutien et parfois oui oui de traitements chimiques. Tu peux stigmatiser Borne autant qu’il te plaira.)

    • @fil : désolé pour ma réaction mais j’avais mal compris.
      Non, il est hors de question de stigmatiser les enfants et ados à qui sont prescrits ces traitements. De même pour leurs familles.
      Je rajouterai que, sur les notices des médicaments de ce type, il y a des mises en garde quant aux effets secondaires possibles sur les patients les plus jeunes (j’ai pris le cas du Zoloft ou sertraline) :

      Suicide/pensées suicidaires/tentatives de suicide ou aggravation clinique

      La dépression est associée à un risque accru d’idées suicidaires, d’auto-agression et de suicide (comportement de type suicidaire). Ce risque persiste jusqu’à obtention d’une rémission significative. L’amélioration clinique pouvant ne pas survenir avant plusieurs semaines de traitement, les patients devront être surveillés étroitement jusqu’à obtention de cette amélioration. L’expérience clinique montre que le risque de suicide peut augmenter en tout début de rétablissement.

      Les autres troubles psychiatriques dans lesquels la sertraline est prescrite, peuvent être également associés à un risque accru de comportement suicidaire. En outre, ces troubles peuvent être associés à un épisode dépressif majeur. Les mêmes précautions d’emploi que celles mentionnées pour les patients souffrant d’épisodes dépressifs majeurs devront donc être appliquées aux patients présentant d’autres troubles psychiatriques.

      Les patients présentant des antécédents de comportement de type suicidaire ou ceux exprimant des idées suicidaires significatives avant de débuter le traitement présentent un risque plus élevé de survenue d’idées suicidaires ou de comportements de type suicidaire, et doivent faire l’objet d’une surveillance étroite au cours du traitement. Une méta-analyse d’études cliniques contrôlées versus placebo sur l’utilisation d’antidépresseurs chez l’adulte présentant des troubles psychiatriques a montré une augmentation du risque de comportement de type suicidaire chez les patients de moins de 25 ans traités par antidépresseurs par rapport à ceux recevant un placebo.

      Une surveillance étroite des patients, et en particulier de ceux à haut risque, devra accompagner le traitement médicamenteux, particulièrement en début de traitement et lors des changements de dose.

      Les patients (et leur entourage) devront être avertis de la nécessité de surveiller la survenue d’une aggravation clinique, l’apparition d’idées/comportements suicidaires et tout changement anormal du comportement et, si ces symptômes survenaient, de prendre immédiatement un avis médical.

      Population pédiatrique

      La sertraline est déconseillée chez les enfants et adolescents de moins de 18 ans, à l’exception des patients présentant des troubles obsessionnels compulsifs âgés de 6 à 17 ans. Des comportements de type suicidaire (tentatives de suicide et idées suicidaires) et de type hostile (principalement agressivité, comportement d’opposition et colère) ont été plus fréquemment observés au cours des études cliniques chez les enfants et adolescents traités par antidépresseurs par rapport à ceux traités par placebo. Si, en cas de nécessité clinique, la décision de traiter est néanmoins prise, le patient devra faire l’objet d’une surveillance attentive pour détecter l’apparition de symptômes suicidaires en particulier à l’initiation du traitement. La sécurité à long terme relative au développement cognitif, émotionnel, physique et pubertaire des enfants et adolescents âgés de 6 à 16 ans a été évaluée dans une étude observationnelle à long terme pendant 3 ans maximum (voir rubrique 5.1). Quelques cas de retard de croissance et de puberté ont été rapportés après la commercialisation. La pertinence clinique et la causalité ne sont néanmoins pas clairement définies (voir rubrique 5.3 Données de sécurité préclinique correspondantes). Le médecin devra exercer une surveillance des patients pédiatriques poursuivant un traitement à long terme pour détecter toute anomalie de croissance et de développement.

      Alors, non seulement, on te dit que la prise de ce type d’anti-dépresseur (inhibiteur non sélectif de la recapture de la sérotonine) peut augmenter le risque de suicide et d’auto-agression mais qu’en plus, il n’est pas certain qu’il agisse de façon significative sur ce symptôme majeur d’un épisode dépressif. Ils font quand même très fort les fabricants et leurs prescripteurs.

  • Instances of Use of United States Armed Forces Abroad, 1798-2022
    https://crsreports.congress.gov/product/details?prodcode=R42738
    J’aimerais consulter une liste comparable pour le Royaume Uni, l’Allemagne, la France, la Russie, la Chine etc. Apparamment ces pays ne sont pas aussi fiers de leurs guerres que les États Unis alors je n’en ai pas trouvé.

    This report lists hundreds of instances in which the United States has used its Armed Forces abroad in situations of military conflict or potential conflict or for other than normal peacetime purposes. It was compiled in part from various older lists and is intended primarily to provide a rough survey of past U.S. military ventures abroad, without reference to the magnitude of the given instance noted. The listing often contains references, especially from 1980 forward, to continuing military deployments, especially U.S. military participation in multinational operations associated with NATO or the United Nations. Most of these post-1980 instances are summaries based on presidential reports to Congress related to the War Powers Resolution. A comprehensive commentary regarding any of the instances listed is not undertaken here.

    #USA #guerre #statistique

  • Le président tunisien prône des « #mesures_urgentes » contre l’immigration subsaharienne

    Lors d’une réunion, mardi, du Conseil de sécurité nationale, le président tunisien, #Kaïs_Saïed, a tenu un discours très dur au sujet de « #hordes des #migrants_clandestins » en provenance d’Afrique subsaharienne, dont la présence est selon lui source de « #violence, de #crimes et d’#actes_inacceptables », insistant sur « la nécessité de mettre rapidement fin » à cette immigration.

    Il a en outre soutenu que cette immigration clandestine relevait d’une « entreprise criminelle ourdie à l’orée de ce siècle pour changer la composition démographique de la Tunisie », afin de la transformer en un pays « africain seulement » et estomper son caractère « arabo-musulman ».

    Il a appelé les autorités à agir « à tous les niveaux, diplomatiques sécuritaires et militaires » pour faire face à cette immigration et à « une application stricte de la loi sur le statut des étrangers en Tunisie et sur le franchissement illégal des frontières ». « Ceux qui sont à l’origine de ce phénomène font de la traite d’êtres humains tout en prétendant défendre les droits humains », a-t-il encore dit, selon le communiqué de la présidence.

    « Discours haineux »

    Cette charge de Kaïs Saïed contre les migrants subsahariens survient quelques jours après qu’une vingtaine d’ONG tunisiennes ont dénoncé jeudi la montée d’un « #discours_haineux » et du racisme à leur égard. Selon ces organisations « l’État tunisien fait la sourde oreille sur la montée du discours haineux et raciste sur les réseaux sociaux et dans certains médias ». Ce discours « est même porté par certains partis politiques, qui mènent des actions de propagande sur le terrain, facilitées par les autorités régionales », ont-elles ajouté.

    Dénonçant « les violations des droits humains » dont sont victimes les migrants, les ONG ont appelé les autorités tunisiennes « à lutter contre les discours de #haine, la #discrimination et le #racisme envers eux et à intervenir en cas d’urgence pour garantir la dignité et les droits des migrants ».

    La Tunisie, dont certaines portions de littoral se trouvent à moins de 150 kilomètres de l’île italienne de Lampedusa, enregistre très régulièrement des tentatives de départ de migrants, en grande partie des Africains subsahariens, vers l’Italie.

    https://www.infomigrants.net/fr/post/47002/le-president-tunisien-prone-des-mesures-urgentes-contre-limmigration-s
    #Tunisie #migrations #migrants_sub-sahariens #anti-migrants #grand_remplacement #démographie

    ping @_kg_

    • Dans un contexte tendu, certains Tunisiens viennent en aide aux migrants subsahariens

      Après les propos du président Kaïs Saïed, les autorités ont averti : toute personne qui hébergerait des personnes étrangères sans carte de résidence ou déclaration au commissariat violerait la loi. L’avertissement vaut aussi pour les employeurs qui font appel à des travailleurs étrangers non déclarés. Ainsi, de nombreux migrants subsahariens en situation irrégulière se retrouvent expulsés et sans travail du jour au lendemain. Des Tunisiens tentent de les aider en organisant des collectes.

      Samia, dont le prénom a été changé pour préserver son anonymat, est en train de charger une voiture de vêtements et repas, résultats de collectes auprès de Tunisiens, solidaires avec les Subsahariens mis à la rue ces derniers jours.

      « Pour les personnes mises à la rue, malheureusement, il faut des repas prêts. Pour les personnes qui sont chez elles, de la viande des pâtes, du riz, des féculents… Des choses pour tenir, surtout qu’il fait un peu froid. Et puis, du lait pour les bébés, des couches et des lingettes, des produits d’hygiène intime… »

      Un geste de solidarité qui passe par le bouche-à-oreille et les réseaux sociaux, afin d’aider à la fois les migrants en attente d’un rapatriement chez eux et ceux qui restent cloîtrés sans pouvoir aller au travail.

      « La situation, elle, est très alarmante. Elle est très alarmante et elle peut dégénérer rapidement. Alors, j’entends et je comprends très bien que les gens sont contraints d’appliquer la loi. Mais c’est un peu court comme analyse. On peut donner un peu de temps aux personnes pour s’organiser. On peut leur donner une trêve parce qu’il fait froid, et on ne peut pas jeter des familles à la rue. Ça, c’est vraiment affligeant, parce qu’il y a des bébés en très bas âge qui sont à la rue avec les températures qu’il fait », poursuit Samia.

      Elle et son association aident une centaine de personnes, dont des migrants en sit-in depuis deux jours, devant l’organisation internationale pour les migrations.

      –—

      L’analyse de l’historienne Sophie Bessis

      RFI : Comment le pays en est arrivé là ?

      Sophie Bessis : « La première chose, c’est, pour remonter loin dans l’histoire, il y a quand même une vieille tradition raciste anti-Noir en Tunisie qui n’a pas disparu, même si dans les années 1960 et 1970, le panafricanisme qui était à l’honneur avait un petit mis sous boisseau cette vieille tradition qui vient d’une tradition esclavagiste et du fait que les populations noires nationales ont toujours été marginalisées. La Tunisie est en crise actuellement. La recherche de bouc-émissaire est toujours un compagnon d’une population en crise. Nous avons en Tunisie un parti nationaliste, il faudrait se poser la question sur ce qu’il représente et pourquoi. Et la question la plus importante est pourquoi les plus hautes autorités de l’État ont repris cette rhétorique qui est d’un racisme absolument primaire. Ce sont les stéréotypes racistes les plus éculés que l’on retrouve dans toutes les extrêmes droites du monde. »

      À quel point l’externalisation de la sécurité des frontières européennes a-t-elle joué dans le discours des autorités ?

      Il y a une progression des droites européennes qui est tout à fait alarmante en ce qui concerne la question migratoire et il y a une influence réelle disons et les moyens de pression des pays européens sur des pays comme la Tunisie dont vous connaissez l’ampleur de la crise économique, monétaire, financière et sociale donc il n’est pas impossible du tout qu’une partie de cette chasse anti-migrants soient dues aussi à ces pressions anti-européennes. En revanche, là où il faut se poser une question, c’est pourquoi cette violence ? Parce que malheureusement, la politique anti-migrants est devenue quelque chose de banale dans le monde d’aujourd’hui, mais la violence à la fois de la parole publique et la violence des gens contre les Subsahariens oblige aujourd’hui à se poser des questions, sur l’État de la société tunisienne et de son appareil dirigeant.

      L’Union africaine a réagi, qualifiant les propos du président de « choquants » et appelant au calme, mais quel impact pourrait avoir ces déclarations sur la diplomatie tunisienne en Afrique ?

      Il y a une boussole qui a été perdue, il y a une boussole qui est cassée aujourd’hui en Tunisie et j’espère que les pairs africains de la Tunisie et en particulier les pays dont sont originaires une bonne partie des migrants Subsahariens, sera plus ferme à l’égard de la Tunisie.

      https://www.rfi.fr/fr/afrique/20230228-dans-un-contexte-tendu-certains-tunisiens-viennent-en-aide-aux-migrants

    • Étudiant congolais en Tunisie : « Je ne sors plus, je reste confiné chez moi »

      Marc* a 22 ans et vit en Tunisie depuis un an. Muni d’un visa étudiant, ce jeune homme congolais s’est installé à Tunis dans l’espoir de finaliser son cursus universitaire avant de rentrer dans son pays d’origine. Mais depuis le discours anti-migrants du président tunisien, Marc ne sort plus de chez lui de peur de se faire agresser ou embarquer par la police.

      Le 21 février, le président tunisien Kaïs Saïed n’a pas mâché ses mots à l’égard des quelque 21 000 Africains subsahariens vivant en Tunisie. Les accusant d’être source de « violence, de crimes et d’actes inacceptables », le chef de l’État a évoqué la mise en place de « mesures urgentes » pour lutter contre ces « clandestins ». Depuis, dans ce pays frappé par une grave crise économique, un vent de panique souffle parmi les personnes noires - tunisiennes comme immigrées, avec ou sans papiers. Ces derniers jours, les cas de personnes victimes d’attaques verbales et physiques, expulsées manu militari de leur appartement ou arrêtées arbitrairement dans la rue par les forces de l’ordre, se sont multipliées.

      Marc est, pour l’heure, épargné. Étudiant depuis un an à Tunis, installé dans un quartier résidentiel de la capitale et muni d’un titre de séjour étudiant, Marc n’est pas un « clandestin ». Pourtant, son statut ne le protège pas des agressions.
      « Je suis à l’abri chez moi, mais jusqu’à quand ? »

      "Je ne sors plus de chez moi. Je reste confiné. Ces derniers jours, je ne vais plus en cours. J’ai trop peur. Dans la rue, on entend souvent les mêmes phrases : ’Rentrez chez vous ! Rentrez chez vous !’. Comment voulez-vous que j’arrive à l’arrêt de bus ou au métro [au tramway, ndlr] pour aller étudier ? J’ai peur de me faire agresser verbalement ou physiquement sur le trajet.

      J’ai entendu parler de camarades expulsés de chez eux, juste à cause de leur couleur de peau. Certains étaient en règle, d’autres non. Ce n’est pas un papier administratif, mon statut d’étudiant, qui va me protéger. Moi, pour l’instant, on ne me jette pas dehors. Je vis en colocation avec trois autres étudiants congolais. Je suis à l’abri, mais jusqu’à quand ?

      Des dizaines de Subsahariens, dont des familles avec enfants, campent actuellement devant les ambassades de leur pays. Certains y ont trouvé refuge après avoir été chassés de chez eux. Selon les chiffres cités par les ONG, plus 20 000 ressortissants d’Afrique subsaharienne vivent en Tunisie, soit moins de 0,2% de la population totale.

      Il y a eu des attaques à l’arme blanche aussi. Un de mes amis a reçu un coup de couteau alors qu’il sortait d’une épicerie.

      Le discours du président a eu un retentissement terrible. Il y a toujours eu du racisme en Tunisie. Il y a toujours eu des arrestations, il y a toujours eu des contrôles dans la rue de manière arbitraire, mais c’était moins violent. Par exemple, moi, avant, les autorités pouvaient m’arrêter dans la rue, des agents contrôlaient mon identité sur place et ils me laissaient repartir cinq minutes après.
      « On ne prend plus les transports en commun, on prend des taxis »

      Désormais, on arrête les gens et on les embarque directement au poste de police, on peut les mettre en cellule plusieurs jours sans raison. Pour la première fois, il y a quelques jours, des agents m’ont arrêté dans la rue, ils n’ont pas voulu me laisser aller en cours, alors que je leur montrais mes papiers en règle. Ils m’ont embarqué au poste. J’ai eu tellement peur. Ils ont vérifié mon passeport, ma carte d’étudiant et ils m’ont laissé repartir. J’ai eu de la chance.

      Pour d’autres Noirs, ça se passe moins bien. Ils peuvent rester 3, 4, 5 jours au poste.

      Pour vous dire la vérité, pour aller travailler ou aller étudier, les ressortissants noirs ne marchent plus sur les trottoirs, ne prennent plus les transports en commun. Ils prennent des taxis.

      Cette situation a poussé des centaines de personnes à vouloir rentrer dans leurs pays. L’ambassade de Côte d’Ivoire a lancé une campagne de recensement de ses ressortissants souhaitant rentrer au pays. L’ambassade du Mali propose également à ses ressortissants de s’inscrire pour un « retour volontaire ». L’ambassade du Cameroun a, elle aussi, indiqué, dans un communiqué, que ses ressortissants pouvaient se « rapprocher de la chancellerie pour tout besoin d’information ou procédure dans le cadre d’un retour volontaire ». Marc souhaite, lui aussi, rentrer dans son pays.

      J’ai tellement peur que j’ai contacté les agents de l’OIM (Organisation internationale pour les migrations) pour qu’ils m’aident à rentrer chez moi [via le programme de ’retours volontaires’, ndlr], mais pour l’instant personne ne m’a répondu. Je ne comprends pas… En cette période difficile, on devrait avoir le soutien des instances internationales. Mais on n’a rien. C’est le silence radio."

      Si certains migrants ont réussi à rentrer chez eux via leurs ambassades ces dernières heures, des dizaines d’autres errent entre les bureaux du Haut commissariat aux réfugiés des Nations unies (HCR) et ceux de l’OIM, à Tunis. Beaucoup sont de Sierra Leone, de Guinée Conakry, du Cameroun, du Tchad ou du Soudan, des pays parfois sans ambassade dans la capitale tunisienne. Arrivés illégalement, ils se sont retrouvés, après les propos de Kaïs Saïed, soudainement à la rue et privés des emplois informels grâce auxquels ils survivaient.

      *Le prénom a été changé

      https://www.infomigrants.net/fr/post/47231/etudiant-congolais-en-tunisie--je-ne-sors-plus-je-reste-confine-chez-m

    • Racisme en Tunisie. « Le président a éveillé un monstre »

      Depuis quelques jours, la Tunisie est le théâtre d’une furieuse poussée de racisme contre les populations subsahariennes, déclenchée notamment par les récentes déclarations du président Kaïs Saïed. Du sud du pays à la capitale, Tunis, la crainte d’une escalade est grande.

      « Regarde ce qu’ils nous font, c’est terrible ! Comme si on n’était pas vraiment des hommes. » Sur l’écran du smartphone que me tend l’homme qui s’indigne ainsi, Adewale, deux hommes à la peau noire recroquevillés sur un canapé sont menacés par des assaillants encapuchonnés, armés de ce qui ressemble à des couteaux. Les victimes roulent des yeux terrifiés et psalmodient des suppliques. En réponse, leurs agresseurs hurlent, miment des coups. Puis la vidéo TikTok s’arrête et laisse place à une autre : elle montre des hommes et des femmes qui marchent dans la rue en criant des slogans, la mine hostile. « Ça ce sont des gens qui manifestaient contre la présence des Subsahariens dans le pays. Je ne comprends pas pourquoi ils nous détestent tant. »

      Adewale parle d’une voix lasse. Il l’a dit plusieurs fois pendant l’entretien : il n’en peut plus. De sa situation bloquée. De sa vie fracturée. De l’atmosphère viciée de ces derniers jours. Ce jeune Nigérian né à Benin City a beau avoir tout juste 30 ans, il a déjà derrière lui tout un passé de drames. Plus tôt, il m’avait raconté les larmes aux yeux comment sa femme est morte lors d’une tentative de fuir la Libye et de rejoindre l’Europe en bateau. Diminuée par les mauvais traitements endurés en Libye, malade, elle est décédée après un jour de traversée. « C’était le 27 mai 2017, je ne l’oublierai jamais », répète-t-il. Il explique avoir dû faire croire qu’elle s’était assoupie sur ses genoux pour éviter que son corps ne soit jeté à la mer par les autres voyageurs.

      Lui a été récupéré deux jours plus tard par un navire de gardes-côtes tunisiens alors qu’il dérivait au large de Sfax avec ses compagnons d’infortune. Depuis, il survit dans ce pays, obsédé par la perte de sa compagne dont il visite et fleurit régulièrement la tombe. Impossible pour lui de rentrer au Nigeria : la famille de sa compagne décédée le tient pour responsable et lui aurait signifié son arrêt de mort.

      À plusieurs reprises, Adewale me montre des photos personnelles pour mieux illustrer son propos. Défilent des portraits de sa défunte femme souriante, barrés d’un grand « RIP » coloré, suivis de clichés de sa tombe en béton ornée de fleurs. Puis ce sont des images où on le voit travailler sur un chantier de Zarzis, la ville où il réside désormais. Adewale me prend à témoin : c’est un bon travailleur, un ouvrier du bâtiment acharné, levé à l’aube, qui accepte de bosser au noir pour un salaire de misère. Depuis six ans qu’il réside en Tunisie, il n’a pas démérité. Comme tous ses camarades, ajoute-t-il. Alors aujourd’hui il tombe des nues : « Il y a peu de temps, j’ai été agressé dans la rue, à côté de chez moi. Un homme m’a donné un coup de poing dans l’estomac en me disant de rentrer dans mon pays. Tu imagines ? Dans ces cas-là, il ne faut surtout pas répondre sinon tout le monde se rue sur toi. C’est pour ça que je n’ai pas réagi. Mais je ne comprends pas cette haine. »

      Une version arabe du « #grand_remplacement »

      Zarzis n’est pourtant pas l’épicentre des violences racistes qui se déchaînent en Tunisie depuis plusieurs jours. Située dans le sud-est de la Tunisie, à moins de 100 kilomètres de la frontière libyenne, cette ville côtière d’environ 70 000 habitants est réputée plutôt « ouverte », avec une communauté de pêcheurs qui se sont parfois distingués par leur aide apportée aux embarcations de personnes exilées en détresse. Elle abrite aussi depuis peu un cimetière verdoyant nommé « Jardin d’Afrique », ou « Paradis d’Afrique », inauguré en 2021, qui se veut le symbole du respect accordé aux dépouilles des personnes décédées en mer.

      Mais à Zarzis comme ailleurs en Tunisie, la situation est tendue. Le déclencheur ? Un discours du président Kaïs Saïed le mardi 21 février 2023 lors d’une réunion du Conseil de sécurité nationale, qui a déchaîné ou réveillé chez certains une forme de racisme latent. Entre deux saillies sur les « violences, [...] crimes et actes inacceptables » prétendument commis par les « hordes » de personnes exilées clandestines, celui qui, depuis juillet 2021, s’est arrogé tous les pouvoirs, a déclaré que la migration correspondait à une « entreprise criminelle [...] visant à changer la composition démographique de la Tunisie ». L’objectif du complot ? En faire un pays « africain seulement » afin de dénaturer son fond identitaire « arabo-musulman ». Une traduction en arabe de la théorie du « grand remplacement » prônée en France par Renaud Camus, Éric Zemmour et leurs émules. Rodant déjà sur les réseaux sociaux, et portées par le Parti nationaliste tunisien, un mouvement relativement confidentiel jusqu’à ce début d’année, ces thèses ont soudain jailli au grand jour, entraînant une vague de violences qui s’est ressentie jusqu’à Zarzis.

      Adewale raconte ainsi qu’il se fait régulièrement insulter, qu’il ne peut plus se rendre au travail, et que plusieurs de ses amis subsahariens ont été mis à la porte de chez eux par leurs bailleurs pour la seule raison qu’ils étaient noirs. Il ajoute que lui a de chance : le sien est venu toquer à sa porte pour lui dire de le prévenir s’il avait des problèmes. Il n’empêche : il se terre chez lui. Et de dégainer encore une fois son smartphone pour me montrer une énième vidéo TikTok, ce réseau social devenu avec Facebook le vecteur principal du racisme – mais aussi la première source d’information des exilés. « Ça c’était à Sfax hier, explique Adewale, des jeunes ont attaqué un immeuble où vivaient des Subsahariens, et tout le monde a été mis dehors. » Sur l’écran, des hommes, des femmes et des enfants sont assis sur le trottoir avec leurs affaires, l’air désemparé. « Il y a des gens terribles ici », ajoute Adewale.

      « Une forme de psychose qui s’installe »

      Rencontrés à Zarzis, Samuel et Jalil vivent eux aussi dans la peur depuis le discours du 21 février. Ils ne sont pas d’origine subsaharienne, mais ils craignent que les temps à venir soient dramatiques pour les personnes exilées vivant en ville : « On conseille aux migrants qu’on suit de ne pas sortir, ou alors seulement au petit matin, pour aller faire les courses, parce qu’on ne sait pas comment ça peut tourner », explique Jalil. Il ne cache pas craindre une criminalisation de leur activité : « Les policiers savent qu’on assiste les personnes en transit ici. Dans le climat politique actuel, il y a forcément une forme de psychose qui s’installe. »

      L’entretien avec ces deux militants locaux a été fixé par WhatsApp, après vérification de ma situation : est-ce que les autorités savent que je suis journaliste ? Non ? J’en suis bien sûr ? Rendez-vous est finalement donné dans une sorte de villa touristique baroque, à quelques kilomètres du centre-ville. « C’est un peu notre cachette », dit Jalil, souriant de ce terme incongru. Tous deux expliquent en s’excusant que la situation politique les force à prendre des précautions dont ils préféreraient se passer. Âgés d’une quarantaine d’années, Samuel et Jalil s’emploient depuis des années à assister les nombreuses personnes exilées qui atterrissent dans la ville. Ils ont constaté que, bien avant l’envolée raciste du président, les personnes subsahariennes se voyaient déjà appliquer un traitement différencié : « On les accompagne s’ils doivent aller à l’hôpital, car sinon on ne les prend pas en charge. Et quand ils se font agresser, ce n’est même pas la peine pour eux de se rendre à la police, car elle n’enregistrera pas leur plainte. »

      C’est par le biais de ces deux militants que je rencontre leurs amis Yacine et Nathan. Le premier vient du Mali, le second de Côte d’Ivoire. Tous les deux sont passés par la Libye, qu’ils décrivent comme un enfer, entre sévices physiques et travail forcé. Interrogés sur la période passée là-bas, ils éclatent d’un rire nerveux. « C’est notre manière d’évacuer ces moments, explique Yacine. Personne ne peut comprendre l’horreur de ce pays pour un Noir s’il ne l’a pas vécu. »

      Quand ils ont finalement réussi à prendre la mer, après de longs mois d’errance et de labeur, ils ont été récupérés par un navire des gardes-côtes tunisiens, qui les a déposés à Zarzis. Ils ont ensuite été convoyés à Médenine puis à Djerba, où ils ont travaillé dans le bâtiment. De retour à Zarzis, ils ne pensent qu’à une chose : prendre la mer pour l’Europe. Et tant pis si pour cela ils doivent tenter la traversée sur un « iron boat », ces bateaux de métal conçus à la va-vite et qui ont sur certains rivages remplacé les navires en bois ou en résine – une évolution des conditions de navigation qui a provoqué de nombreux drames, ces embarcations de fortune prenant l’eau à la moindre vague.
      Des centaines de morts dans l’indifférence

      Plus de 580 personnes sont mortes en 2022 après avoir pris la mer depuis la Tunisie, dans l’indifférence de la communauté internationale. Pour Yacine et Nathan, qui ont déjà tenté la traversée depuis la Tunisie trois fois – pour se voir à chaque fois ramenés à quai par les gendarmes tunisiens des mers –, il existerait cependant des moyens concrets pour assurer une traversée plus sûre : « Il suffit de bien s’organiser, d’utiliser des applications pour connaître la météo dans les trois jours qui arrivent, et de regarder la hauteur des vagues. Après, tu te confies à Dieu. » Davantage que les éléments, ils craignent les hommes : « Le vrai problème, ce sont les gardes-côtes, qui se montrent violents et dangereux, au point de parfois faire couler les bateaux ».

      À Zarzis, une ville endeuillée par le terrible naufrage du 21 septembre 2022 au cours duquel 18 Tunisiens se sont noyés dans des circonstances troubles semblant impliquer les gardes-côtes, la question ne laisse pas la population insensible. De nombreuses manifestations ont eu lieu, notamment pour exiger des enquêtes sur les circonstances du drame. Début septembre a également été organisée une « commémorAction » réunissant Tunisiens et familles de disparus venus de divers pays africains. Mais dans le contexte actuel, la critique des politiques migratoires se retourne parfois contre les migrants, explique Jalil : « Certains disent que les jeunes Tunisiens sont morts à cause des Subsahariens, parce que le comportement violent des gardes-côtes serait dû à la volonté d’endiguer avant tout le départ des personnes noires. »

      Après plusieurs années passées en Tunisie, Yacine et Nathan assurent que le racisme était déjà sensible avant le discours du président. Refoulements à l’hôpital, loyers plus chers, charges d’électricité gonflées et travail sous-payé les poussent à considérer qu’eux et leurs camarades seraient en fait de pures aubaines pour ce pays. Pas dupes, ils font mine de s’étonner d’un traitement différencié avec des étrangers plus clairs de peau : « On s’est rendu compte que certains étrangers n’étaient pas concernés par les insultes et les mauvais traitements, notamment les Syriens, les Bangladais ou les Marocains. Peut-être que c’est la couleur de peau qui fait la différence ? Il faut dire qu’on est plus visuels ! »

      « Ici, c’est chez nous »

      Si l’ironie est de mise, la gravité aussi. Car les deux amis s’accordent à dire que le discours de Kaïs Saïed a jeté de l’huile sur le feu. Selon Nathan, « jouer sur la haine peut être très efficace, il suffit de voir ce qui se passe sur les réseaux sociaux ». Il s’inquiète logiquement du ralliement d’une partie de la population à cette croisade numérique. S’il a l’habitude de craindre la police, ne pas pouvoir marcher dans la rue ou se rendre à la boutique pour faire ses courses lui semble bien plus grave. Quant aux débordements, ils sont déjà là, s’indigne Yacine :

      Depuis le discours du président, on entend des insultes tout le temps. On te dit : « Ici, c’est chez nous. » Ça peut aussi passer par des petits gestes, quelqu’un à l’arrière d’un taxi qui s’étale de tout son long et ne te laisse qu’un bout de banquette, sans que tu puisses rien dire. Et parfois c’est grave : il y a quelques mois, un jeune Guinéen a été lapidé pour avoir changé une chaîne de télé dans un café. Des jeunes Tunisiens l’ont attendu à l’extérieur. Il a perdu un œil. J’ai peur que ce genre d’événements se reproduise bien plus souvent.

      Aux environs de Zarzis et dans la ville même, la plupart des personnes subsahariennes sont clandestines, n’ont aucune intention de rester en Tunisie et ont les yeux rivés sur la mer – à l’image d’Adewale, de Yacine et de Nathan. Pour beaucoup de celles et ceux passés par la Libye, ils n’ont de toute façon plus de papiers d’identité, les divers exploiteurs de misère croisés dans ce pays les leur ont confisqués. Mais les 21 000 ressortissants de pays subsahariens qui vivent en Tunisie sont tous plus ou moins logés à la même enseigne, qu’ils soient « légaux » ou « illégaux ».

      À Sfax, deuxième ville du pays secouée par plusieurs nuits de violences racistes dont le bilan est encore incertain, la tension imprègne les rues. Interrogés sur les derniers événements, certains Tunisiens déplorent les violences qu’ils attribuent à des jeunes écervelés agissant en bandes. « Ce sont des crétins qui se montent la tête sur Internet », estime un vieil homme rencontré à la terrasse d’un café. Mais d’autres assument un discours dont il ressort qu’il n’y a pas de fumée sans feu et que les victimes l’ont sans doute un peu cherché.

      Quant aux principaux concernés qui osent sortir de chez eux, certains ne croient plus vraiment au dialogue. À l’extérieur de la casbah de Sfax, en bordure de la large avenue des Martyrs, quelques exilés ont dressé les étals d’un petit marché africain – épices, fruits et légumes du pays. Interrogé, un jeune homme aux yeux tristes confie avoir « très peur des jours qui arrivent ». Il me renvoie vers un trio de femmes, apparemment chargées des communications. Tout en remballant leurs sacs de provisions, elles assurent ne pas vouloir témoigner : « On ne veut plus parler, on a trop parlé ! Et ça ne change rien ! C’est de pire en pire ! »

      « Les Noirs n’ont plus de valeur ici ! »

      Devant l’ambassade de Côte d’Ivoire à Tunis, par contre, les langues se délient. Cela fait quelques jours que le lieu excentré en banlieue est un point de rassemblement pour les Ivoiriens désemparés. Certaines familles dorment même sous des tentes, dressées sur un terre-plein à proximité du bâtiment, après qu’elles ont été expulsées de leur habitation. Tous ici affirment être arrivés par avion en Tunisie, donc par la voie légale. Leur désenchantement est immense.

      Parmi la grosse cinquantaine de présents, certains sont venus tenter de faire avancer leur situation administrative – qu’il s’agisse de rester dans le pays ou de le quitter. Beaucoup s’indignent de la question des « pénalités » que le gouvernement tunisien entend faire payer aux personnes désirant rentrer chez elles – et qui, selon la durée du séjour, peuvent atteindre de fortes sommes. Les autorités marchent sur la tête, s’accordent-ils : elles veulent qu’ils partent mais font tout pour que ce ne soit pas possible…

      Au-delà des épineuses questions administratives, les discours tenus ici sont unanimes : le racisme a explosé dans des proportions effrayantes. Prendre les transports en commun revient ainsi à s’exposer à de forts risques d’agression. Les témoignages s’enchaînent. « Moi je suis terrée chez moi depuis bientôt une semaine. C’est la première fois que je sors », dit l’une. « Des jeunes ont cassé ma porte en pleine nuit pour m’expulser de chez moi », s’émeut un autre, qui montre les contusions sur son visage et sur son cou en expliquant avoir été frappé. « J’étais dans le métro avec mes deux enfants quand des jeunes nous ont crié : “Rentrez chez vous, les singes !” », déplore une mère de famille, le petit dernier agrippé à son dos.

      Alors que plusieurs d’entre eux évoquent les rafles policières menées jusqu’à la sortie des crèches et la situation des personnes maintenues en prison, l’un d’eux sort un smartphone pour montrer les images passablement floues d’un homme noir insulté et frappé par ce qui ressemble à des policiers – « ils le torturent ». Puis c’est une autre où des Tunisiens crient « on n’est pas des Africains ! ». Enfin, une dernière qui déclenche des cris outrés quand l’orateur déclare : « Les Noirs n’ont plus de valeur ici ! »
      « Le feu vert à tous les débordements racistes »

      Face à ce déferlement de haine en ligne, les réactions sont contrastées. Un homme me déclare que le jour où il rentrera au pays il s’en prendra aux riches Tunisiens installés en Côte d’Ivoire – œil pour œil. Mais d’autres insistent pour imputer la responsabilité des violences à une minorité haineuse. « Beaucoup de Tunisiens m’ont aidé depuis que je suis arrivé », tient à témoigner Ismaël, jeune étudiant en informatique. Il parle d’une voix posée, évoque en souriant les délires administratifs qu’il a rencontrés jusqu’ici pour tenter de régulariser sa situation. Comme d’autres, il tempère, tente d’entrevoir une porte de sortie pour continuer à vivre dans ce pays qu’il dit aimer. Puis il se ravise : « En fait, je ne sais plus trop quoi penser. Le président a éveillé un monstre, et les derniers jours ont fait trop mal. »

      Une certitude : en pleine dérive autoritaire, le régime de Kaïs Saïed a libéré un fléau qui laissera des traces. « Il a donné le feu vert à tous les débordements racistes, qu’ils soient l’œuvre de la population ou des forces armées », explique un opposant tunisien, vétéran du renversement de Zine El-Abidine Ben Ali, en 2011, qui parle de « fascisme » pour désigner le pouvoir en place. « C’est un basculement très dangereux, contre lequel il va falloir lutter de toutes nos forces. »

      Inquiets, quelques centaines de manifestants se sont donné rendez-vous le 25 février pour dénoncer les discours et les violences racistes dans les rues de Tunis. Une initiative qui ne pèse pour l’instant pas lourd face à l’alliance de la parole présidentielle et des emballements racistes sur les réseaux sociaux.

      https://afriquexxi.info/Racisme-en-Tunisie-Le-president-a-eveille-un-monstre

    • Tunisie : des centaines de ressortissants d’Afrique subsaharienne rapatriés vers le #Mali et la #Côte_d’Ivoire

      Le président de la République tunisienne, Kaïs Saïed, a affirmé, le 21 février, que la présence dans le pays de « hordes » d’immigrés clandestins provenant d’Afrique subsaharienne était source de « violence et de crimes ».

      Des migrants subsahariens en attente de prendre un vol de rapatriement vers leur pays d’origine, au consul du Mali à Tunis, le 4 mars 2023. FETHI BELAID / AFP

      Quelque 300 Maliens et Ivoiriens ont quitté la Tunisie, samedi 4 mars, à bord de deux avions rapatriant des ressortissants d’Afrique subsaharienne cherchant à fuir des agressions et des manifestations d’hostilité après une violente charge du président, Kaïs Saïed, contre les migrants en situation irrégulière.

      Le 21 février, M. Saïed a affirmé que la présence en Tunisie de « hordes » d’immigrés clandestins provenant d’Afrique subsaharienne était source de « violence et de crimes » et relevait d’une « entreprise criminelle » visant à « changer la composition démographique » du pays.

      Samedi, « on a fait embarquer 133 personnes » parmi lesquelles « 25 femmes et 9 enfants ainsi que 25 étudiants » dans l’avion qui a quitté la Tunisie vers 11 heures, a déclaré à l’Agence France-Presse (AFP) un diplomate malien. Deux heures plus tard, un autre appareil devant rapatrier 145 Ivoiriens a décollé de Tunis, selon l’ambassadeur ivoirien en Tunisie, Ibrahim Sy Savané.

      Discours « raciste et haineux »

      Le discours présidentiel, condamné par des ONG comme « raciste et haineux », a provoqué un tollé en Tunisie, où les personnes d’Afrique subsaharienne font état depuis d’une recrudescence des agressions les visant et se sont précipitées par dizaines à leurs ambassades pour être rapatriées.

      Devant l’ambassade du Mali, surchargés de valises et ballots, tous ont dit fuir un climat lourd de menaces. « Les Tunisiens ne nous aiment pas, donc on est obligés de partir, mais les Tunisiens qui sont chez nous doivent partir aussi », a dit à l’AFP Bagresou Sego, avant de grimper dans un bus affrété par l’ambassade pour l’aéroport.

      Arrivé il y a quatre ans, Abdrahmen Dombia a interrompu ses études de mastère en pleine année universitaire : « La situation est critique ici, je rentre parce que je ne suis pas en sécurité. » Baril, un « migrant légal », s’est dit inquiet pour ceux qui restent. « On demande au président, Kaïs Saïed, avec beaucoup de respect de penser à nos frères et de bien les traiter », explique-t-il.
      Newsletter
      « Le Monde Afrique »
      Chaque samedi, retrouvez une semaine d’actualité et de débats, par la rédaction du « Monde Afrique »
      S’inscrire

      Selon le gouvernement ivoirien, 1 300 ressortissants ont été recensés en Tunisie pour un retour volontaire. Il s’agit d’une part importante de la communauté ivoirienne, qui, avec environ 7 000 personnes, est la plus importante d’Afrique subsaharienne en Tunisie, à la faveur d’une exemption de visa à l’arrivée.

      Quelque trente étudiants ivoiriens, en situation régulière, font partie des rapatriés. « Ils ne se sentent pas à l’aise, certains ont été victimes d’actes racistes, certains sont en fin d’études, d’autres les ont interrompues », a précisé à l’AFP par téléphone depuis l’aéroport Michael Elie Bio Vamet, président de l’Association des étudiants ivoiriens en Tunisie. « Il y a des agressions presque tous les jours, des menaces, ou bien ils sont mis dehors par leurs bailleurs, ou agressés physiquement », a-t-il ajouté.

      « Déferlement de haine »

      Pour la plupart issus de familles aisées, des dizaines d’étudiants d’Afrique subsaharienne étaient inscrits dans des universités ou des centres de formation en Tunisie. Apeurés, beaucoup sont déjà repartis par leurs propres moyens, selon leurs représentants.

      L’Association des étudiants et stagiaires africains en Tunisie (AESAT) a documenté l’agression, le 26 février, de « quatre étudiantes ivoiriennes à la sortie de leur foyer universitaire » et d’« une étudiante gabonaise devant son domicile ». Dès le lendemain du discours de M. Saïed, l’AESAT avait donné comme consigne aux étudiants subsahariens « de rester chez eux » et de ne plus « aller en cours ». Cette directive a été prolongée au moins jusqu’au 6 mars.

      Des Guinéens rentrés par le tout premier vol de rapatriement mercredi ont témoigné auprès de l’AFP d’un « déferlement de haine » après le discours de M. Saïed.
      Lire aussi : Article réservé à nos abonnés En Tunisie, le tournant répressif du régime de Kaïs Saïed

      Bon nombre des 21 000 ressortissants d’Afrique subsaharienne recensés officiellement en Tunisie, pour la plupart en situation irrégulière, ont perdu du jour au lendemain leur travail et leur logement. Des dizaines ont été arrêtés lors de contrôles policiers, certains sont encore en détention. D’autres ont témoigné auprès d’ONG de l’existence de « milices »qui les pourchassent et les détroussent.

      Cette situation a provoqué l’afflux de centaines de personnes à leurs ambassades pour être rapatriées. D’autres, encore plus vulnérables car issues de pays sans ambassade à Tunis, ont rejoint un campement improvisé devant le siège de l’Office international pour les migrations (OIM), où elles dorment dans des conditions insalubres.

      Selon l’ambassadeur ivoirien, la Tunisie a promis de renoncer à réclamer aux personnes en situation irrégulière des pénalités (80 dinars, soit 25 euros par mois de séjour irrégulier) qui, pour certains, dépassaient 1 000 euros

      https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/03/04/des-centaines-de-ressortissants-d-afrique-subsaharienne-rapatries-de-tunisie
      #renvois #expulsions #rapatriement #retour_au_pays

    • La Tunisie rongée par les démons du racisme

      L’éruption d’hostilité aux Africains subsahariens encouragée par le président Kaïs Saïed s’ajoute à la régression autocratique et entache encore un peu plus l’image de la Tunisie à l’étranger.

      Il est bien loin, le temps où la Tunisie inspirait hors de ses frontières respect et admiration. Chaque semaine qui passe entache un peu plus l’image de ce pays qui brilla jadis d’une flamme singulière dans le monde arabo-musulman. Que reste-t-il du prestige que lui conférait son statut d’avant-garde en matière de libertés publiques, de pluralisme politique, de droits de femmes et de respect des minorités ? Le chef de l’Etat, Kaïs Saïed, qui s’est arrogé les pleins pouvoirs à la faveur d’un coup de force en juillet 2021, lui impose désormais un tournant répressif, conservateur et xénophobe des plus préoccupants. La Tunisie en devient méconnaissable.

      Dans cette affaire, tout est lié : le retour à l’autocratie va de pair avec la crispation identitaire, les deux se nourrissant d’un prétendu « complot » contre l’Etat et la patrie. L’une des illustrations les plus déprimantes de cette régression est la récente vague de racisme anti-Noirs qui secoue le pays. Dans la foulée de la déclaration du 21 février du président Saïed, qui a fustigé des « hordes de migrants clandestins » associées à ses yeux à un « plan criminel » visant à « modifier la composition démographique » du pays en rupture avec son « appartenance arabo-islamique », l’hostilité se déchaîne contre les étudiants et les immigrés issus de l’Afrique subsaharienne.

      Ces derniers sont chaque jour victimes d’agressions physiques et verbales à Tunis et dans d’autres centres urbains. Le discours conspirationniste du chef de l’Etat, aux accents de type « grand remplacement », a libéré un racisme enfoui au tréfonds de la société tunisienne, héritage de l’esclavage en Afrique du Nord, aux séquelles psychologiques durables.
      L’embarras prévaut

      L’éruption de cette xénophobie cautionnée au plus haut niveau de l’Etat a obscurci la perception de la Tunisie à l’étranger. M. Saïed a beau avoir tenté de nuancer ses propos en précisant qu’il visait les immigrants en situation irrégulière, le mal est fait. Ses brigades de fidèles, dont certains sont affiliés à un Parti nationaliste tunisien aux discours et aux méthodes dignes de l’extrême droite européenne, traquent les Subsahariens. Les Tunisiens les plus progressistes avouent leur « honte » et tentent d’organiser dans l’adversité un front « antifasciste ». La consternation règne aussi dans de nombreuses capitales du continent. L’Union africaine a « condamné » les « déclarations choquantes » du président Saïed.
      Lire aussi : Article réservé à nos abonnés « Le régime de Kaïs Saïed en Tunisie n’a pas changé de nature, mais de degré de répression »

      Dans les capitales européennes, c’est plutôt l’embarras qui prévaut. Si les chancelleries ne manquent pas d’exprimer occasionnellement leur « préoccupation » face au recul de l’Etat de droit en Tunisie, elles n’ont pas réagi à la charge présidentielle contre les migrants subsahariens. Et pour cause : M. Saïed répond plutôt positivement aux appels de l’Europe – au premier chef de l’Italie – à mieux verrouiller ses frontières maritimes afin d’endiguer les traversées de la Méditerranée.

      Le cadenassage de « l’Europe forteresse », qui contribue à fixer en Afrique du Nord des candidats à l’exil européen, n’est pas étranger aux tensions migratoires dont cette région est le théâtre. Cherche-t-on à ménager M. Saïed afin d’éviter qu’il « lève le pied » sur la surveillance de son littoral ? Si telle était l’arrière-pensée, elle ajouterait le cynisme à un dossier déjà suffisamment dramatique.

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/03/04/la-tunisie-rongee-par-les-demons-du-racisme_6164127_3232.html

    • En Tunisie, le douloureux retour au pays des exilées subsahariennes

      Elles ont tout quitté pour venir en Tunisie, trouver un travail et subvenir aux besoins de leur famille dans leur pays. Souvent exploitées ou livrées à elles-mêmes durant leur parcours de vie en Tunisie, des femmes migrantes subsahariennes racontent comment elles ont quitté ou vont quitter le pays, après les propos du président Kaïs Saïed sur son intention de contrer le phénomène migratoire, source de violences et de crimes selon ses mots. Témoignages.

      À l’entrée de l’aéroport de Tunis Carthage, ce samedi 4 mars, l’aube commence à pointer et Mireille fait les cent pas. Emmitouflée dans une écharpe rouge pour se réchauffer, elle se confie : « J’ai vraiment hâte que tout ça se finisse. » Ivoirienne, elle attend, fébrile, avec une centaine d’autres de ses compatriotes en file indienne, valises à la main, le premier vol de rapatriement vers Abidjan, une opération lancée par l’ambassade peu après les propos polémiques de Kaïs Saïed du 21 février sur les migrants subsahariens.

      Dimanche soir, la Présidence de la République et celle du gouvernement tunisien ont tenté d’apaiser le ton tout en disant s’étonner de la « campagne liée au prétendu racisme en Tunisie » et rejette ces accusations. Mais elles ajoutent mettre en place des mesures pour les résidents subsahariens en Tunisie, notamment avec l’octroi de cartes de séjour d’un an pour les étudiants. Le gouvernement a également annoncé faciliter les départs volontaires pour ceux qui le souhaitent et un numéro vert pour signaler les violations de leurs droits.

      Après ses déclarations, qualifiées de « racistes » par de nombreuses associations, beaucoup de migrants ont été expulsés de chez eux par leur propriétaire, et ont perdu leur travail. Les agressions dans la rue se sont multipliées et les chancelleries de plusieurs pays ont décidé d’affréter des avions pour permettre des rapatriements à leurs ressortissants. Près de 2 000 Ivoiriens candidats au départ ont déjà été recensés en moins d’une semaine par l’ambassade et, chaque jour, la liste s’allonge. La Guinée a rapatrié une cinquantaine de ressortissants. Le Mali, 154.

      Depuis 2020, une étude de l’Observatoire national pour la lutte contre la violence à l’égard des femmes en partenariat avec le Fonds des Nations unies pour les questions de santé sexuelle et reproductive (UNFPA), note une « recrudescence » de la présence des femmes migrantes dans les centres d’accueil de femmes victimes de violences. « Les violences faites aux femmes migrantes sont difficilement condamnées et prises en charge par l’État en raison du statut irrégulier des femmes, de leur accès limité aux services en raison de la peur d’être dénoncées ou encore d’être expulsées du pays », peut-on lire dans le rapport.

      Aujourd’hui, le retour précipité au pays, le risque d’une expulsion brutale de leur logement ou d’une agression sont devenus une préoccupation quotidienne de la grande majorité des femmes subsahariennes en Tunisie, déjà souvent exposées à des violences et à la vulnérabilité économique. Mediapart a donné la parole à trois d’entre elles.
      Quatre ans en Tunisie et un traumatisme

      Mireille a été particulièrement choquée par ses derniers jours passés dans le pays. Cette coiffeuse de formation qui avait laissé, quatre ans plus tôt, ses trois enfants en Côte d’Ivoire pour tenter de soutenir financièrement sa famille, n’a vécu que des désillusions. « Dès que je suis arrivée, mes contacts sur place m’ont mise dans le circuit de femmes de ménage. Je gagnais 450 dinars par mois (135 euros) et je travaillais 12 heures par jour, j’ai eu sans arrêt des problèmes de santé à cause des produits nettoyants qu’on nous faisait utiliser et je ne sens plus mon dos », raconte-t-elle.

      Très vite, elle regrette d’être venue mais se rend compte que les pénalités pour avoir excédé sa durée de séjour dans le pays sont lourdes, 80 dinars par mois, à payer à la police des frontières. Ces pénalités sont plafonnées à 3 000 dinars (900 euros) depuis 2017. « Alors, comme d’autres, je me suis retrouvée coincée et j’ai continué de travailler pour tenter d’économiser et de payer mon retour », dit-elle.

      Dans une étude publiée en 2020 par l’ONG Terre d’asile en Tunisie sur le parcours des femmes migrantes, la précarité et la vulnérabilité de femmes comme Mireille étaient déjà dénoncées. L’une des conclusions de l’étude invitait l’État tunisien à « travailler au développement de conditions d’accueil pour les femmes migrantes qui leur permettraient de s’autonomiser, notamment au moyen de l’accès à un travail décent et à un séjour régulier, et d’accéder véritablement à leurs droits », peut-on lire dans la conclusion de l’étude basée sur les témoignages d’une vingtaine de femmes. « Cette autonomisation leur permettra d’être moins vulnérables aux violences, aux arnaques et à la précarité, tout en leur donnant toutes les chances de s’intégrer au sein de la société tunisienne. »

      Pour Mireille, l’intégration a fini en traumatisme. Deux jours après le communiqué de la présidence sur les Subsahariens, sa maison a été mise à sac par deux jeunes Tunisiens dans la nuit du 23 février. « J’étais en train de cuisiner et j’ai entendu des coups à la fenêtre, avec des hommes qui criaient des mots en arabe, au début je n’ai pas compris », raconte-t-elle. Puis elle entend en français : « Les Africains, sortez, on veut plus de vous. »

      Elle prend peur et appelle son employeur, une femme tunisienne avec qui elle s’entend bien. « Elle a tenté de m’aider, raconte-t-elle. Elle voulait que je m’échappe sur la route principale pour passer la nuit chez elle, mais les agresseurs étaient devant ma porte. Il n’y avait aucune échappatoire et mes voisins au-dessus m’ont crié qu’ils étaient armés. »

      La police, alertée aussi par les Subsahariens vivant au-dessus de chez Mireille, arrive sur les lieux mais près d’une heure plus tard. Les deux jeunes ont pu rentrer et saccager toutes les affaires de Mireille, lui voler également une somme de 6 000 dinars (1 800 euros), l’argent qu’elle avait économisé pour rentrer chez elle et pour l’envoyer à sa famille.

      Les migrants en situation irrégulière ne peuvent pas ouvrir de compte en banque et transférer de l’argent à leur famille. L’envoi d’argent se fait surtout par des connaissances qui font des allers-retours, et certains migrants sont obligés d’emmagasiner de l’argent en espèces chez eux, faute de mieux.

      Juste avant que les agresseurs enfoncent la porte, Mireille est hissée par ses voisins à l’aide d’un drap au premier étage de la résidence, en passant par une fenêtre de la cour intérieure qui ne donne pas sur la rue. Jointe au téléphone un jour après son arrivée à Abidjan, elle se rappelle avec émotion ce moment. « Je n’arrête pas de penser jusqu’à maintenant à ce qu’ils m’auraient fait s’ils m’avaient trouvée sur place », témoigne-t-elle d’une voix tremblante.

      Aujourd’hui, elle attend de pouvoir revoir ses enfants dans un centre à Abidjan où ont été dispatchés les premiers rapatriés. « Je ne les ai pas vus depuis quatre ans, le plus important pour moi, c’est de les retrouver, ensuite je réfléchirai à l’après », dit-elle. Elle est partie avec seulement quelques affaires achetées juste avant le départ grâce à des dons.
      L’attente d’un retour, après avoir tout perdu

      Les vidéos de l’incident ont fait le tour des réseaux sociaux et ont alerté sur la recrudescence des agressions envers les Noirs en Tunisie après les propos de Kaïs Saïed, poussant de nombreux migrants à se cloîtrer chez eux ou à tenter de partir au plus vite.

      Devant l’ambassade de Côte d’Ivoire le vendredi 3 mars, Fortune, 33 ans, attend encore d’être convoquée pour faire partie des prochains vols de rapatriement mais un document lui manque, l’extrait de naissance de son enfant, né en Tunisie en 2019. « Lors de sa naissance, je n’ai pas eu l’extrait de naissance, il fallait payer et je n’avais pas d’argent, et ensuite j’avais passé le délai donc j’ai déposé une demande à l’OIM [l’Organisation internationale pour les migrations qui dépend des Nations unies – ndlr] et jusqu’à présent je n’ai pas le document. »

      Elle ne peut pas laisser son fils sur place mais elle se préparait au départ bien avant les propos de Kaïs Saïed. « Dès mon départ vers la Tunisie en 2018, des amies m’avaient avertie du racisme et des mauvais traitements que subissent les Noirs, mais je voulais quand même essayer pour gagner un peu d’argent et financer mes études au pays », dit-elle.

      Elle explique avoir eu de bons employeurs en Tunisie mais, pour elle, les propos de Kaïs Saïed, sont inacceptables. « Il y a différentes manières de dire qu’il faut mieux gérer les flux migratoires irréguliers, je peux comprendre que ça gêne vu que nous sommes tous sans statut légal ici, mais là, dans ses déclarations, j’avais l’impression d’avoir été traité comme un animal », commente-t-elle.

      À ses côtés Naomi, 33 ans, ronge son frein, déprimée. Elle avait investi toutes les économies de son salaire de coiffeuse en Tunisie pour ouvrir son propre salon. Près de 7 000 dinars (2 100 euros) dépensés dans du matériel et une location. « Je comptais sur l’été et les mariages pour gagner de l’argent et l’envoyer au pays », dit-elle. Comme Fortune, elle a tout perdu, la propriétaire lui a demandé de fermer boutique et elle attend devant l’ambassade pour s’enregistrer et partir au plus vite.
      L’impossible régularisation

      Ces deux femmes ont reçu des délais très courts de leurs propriétaires pour quitter leur logement, car les autorités ont annoncé une application stricte de la loi. Un Tunisien ne peut pas louer à un étranger sans lui demander sa carte de résidence ou bien le déclarer dans un commissariat. Une situation d’urgence à laquelle s’ajoute la peur d’être agressée.

      « Là, dès que l’on sort de chez nous, on regarde derrière nous de peur qu’un gosse nous jette des pierres. Cela m’était déjà arrivé avant les propos de Kaïs Saïed mais, désormais, c’est devenu une menace quotidienne », explique Évelyne, 30 ans, qui avait ouvert une crèche dans le quartier de l’Ariana au nord de Tunis pour permettre aux familles subsahariennes qui travaillent de laisser leurs enfants en journée. « Bien sûr que ce n’était pas déclaré, mais comment voulez-vous qu’on fasse ?, demande Évelyne. On dépense de l’argent dans des procédures pour avoir des papiers, et jamais nous n’arrivons à obtenir la carte de résidence. Tout se fait au noir parce que nous n’avons pas d’autre choix, et pendant des années personne n’y a trouvé à redire. »

      La loi tunisienne met sous conditions l’embauche d’un étranger avec la préférence nationale et très peu de migrants arrivent à se régulariser, à l’exception des étudiants.
      Rester et vivre dans la rue, le nouveau fardeau d’Aïcha

      Alors que ces femmes attendent un retour imminent vers leur pays, d’autres n’ont pas d’autre choix que de rester, dans des conditions parfois plus que précaires. Aïcha, 23 ans et originaire de la Sierra Leone, campe avec une centaine d’autres migrants devant le siège de l’OIM depuis une semaine, après avoir été expulsée de son logement.

      Son voyage pour venir en Tunisie en août 2022 par voie terrestre a pris presque trois mois. Durant son périple, elle dit avoir égaré son passeport. « Donc au final, je n’ai jamais pu travailler ici, ou alors des petits jobs ponctuels. En plus je ne parle qu’anglais donc la barrière de la langue était problématique », explique-t-elle. Elle dit attendre que la situation se calme pour voir comment rester dans le pays.

      « Au pire des cas, je rentrerai, mais vraiment j’aimerais bien rester ici, c’est difficile de repartir après avoir tout laissé dans son pays. J’étais étudiante mais je voulais tenter ma chance ailleurs et beaucoup d’amis m’ont dit qu’en Tunisie il y aurait du travail et des conditions de vie meilleures que chez nous », dit-elle. Son rêve est de suivre une formation pour devenir journaliste.

      « Au pays, on voulait que je me marie avec un homme plus âgé, moi je voulais vraiment avoir une carrière et un avenir », poursuit-elle. Mais en attendant, elle vit dans la rue avec d’autres migrants, cherchant des cafés aux alentours qui acceptent qu’elle utilise leurs toilettes. « Jamais je n’aurais imaginé me retrouver dans une telle situation, j’espère que l’OIM va nous trouver une solution ou au moins un abri. » La Tunisie n’a pas de loi régissant les demandeurs d’asile donc de nombreux migrants dans le cas d’Aïcha ne peuvent se tourner que vers les représentants des Nations unies pour demander un statut de réfugié ou demandeur d’asile.

      Depuis le début de la crise déclenchée par le communiqué de la présidence, les associations et organisations internationales disent être submergées par les appels et situations d’urgence. Une chaîne de solidarité organisée par des Tunisiens a été mise en place sur les réseaux sociaux et via le bouche-à-oreille pour apporter des denrées alimentaires à ces migrants et tenter de trouver des logements provisoires pour certains. Mais ce réseau reste discret de peur de tomber dans le viseur des autorités.

      Face à l’ampleur de la crise, les autorités tunisiennes ont indiqué ce week-end, exonérer des pénalités de séjour les migrants en situation irrégulière souhaitant rentrer dans leur pays « assistés par une instance diplomatique, une organisation internationale ou onusienne », un système qui existe déjà depuis 2018 mais avec une clause d’interdiction de retour sur le territoire tunisien.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/050323/en-tunisie-le-douloureux-retour-au-pays-des-exilees-subsahariennes

    • On the racist events in Tunisia – Background and Overview

      Current Situation

      “For several months, a racist campaign against Sub-Saharans in Tunisia has been growing. The president himself subscribed to these racist and conspiracy theories and pointed the finger at the Sub-Saharans, accusing them of being ‚hordes‘ and that sub-Saharan immigration is a ‚criminal enterprise‘ whose goal would be to ‚change the demographic composition of Tunisia‘.“ In the press statement published on the 21 February 2023 following a National Security Council meeting, president Kais Saied resurrected many racist and xenophobic tropes used by other fascist movements. He „ordered security forces to take ‚urgent measures‘. … Many „of the estimated 21,000 sub-Saharan African people in Tunisia – most of whom are undocumented – lost their jobs and housing overnight.“ The Association of African Students and Interns in Tunisia highlights that there is an „ongoing systemic campaign of control and arrests targeting [Black immigration], independently from their status, who are not carrying their residency card with them.“ „In the first three weeks of February, at least 1,540 people were detained, mostly in Tunis and provinces near the Algerian border“.

      The situation has become increasingly violent in the last weeks. In addition to the government forces targeting Black people, „violent attacks perpetrated by citizens, who taunt their victims with racial slurs“ are taking place. Attacked people report about fleeing „pogroming mobs consisting of, they said, 20+ Tunisian young men. ‚We were absolutely running for our lives,‘ said Latisha, who screamed at their son to run faster.“ There are accounts about „[a]rmed mobs“ and rape ‚by these mobs’“. On social media torture videos circulate. „In the suburbs of Tunis, a group of Sub-Saharan Africans have been attacked by young Tunisians who have broken down their doors and set fire to their building. Houses were ransacked.“

      „Everyone who falls under the socially constructed category of ‘African’ – those with or without jobs, those with university classes to attend – are too scared to leave their homes because the racist violence has spread to every street in Tunisia.“ A law from 1968 that criminalizes assistance to „illegal residence“ in Tunisia, is now being applied. Patricia Gnahoré explains „that the evictions started around February 9, when alarmist messages began circulating on social networks: landlords would be facing fines and prison sentences if they housed undocumented Sub-Saharans“. While some people are being supported by friends and activists who try to organize support, many have no choice but to sleep outside, with more than 100 people camping at the International Organization for Migration and in front of different embassies.

      „Guinea [and Mali] and Cote d’Ivoire are repatriating their citizens from Tunisia.“ „However, many people living irregularly in Tunisia have accumulated large sums of outstanding fees over the years, too much for them to pay. While Tunisian authorities are themselves pushing migrants to leave, they still insist on cashing in on those who desperately want to.“

      The African Union highlights that they are in „deep shock and concern at the form and substance of the statement targeting fellow Africans, notwithstanding their legal status in the country.“ The events of the last days strongly impacted Tunisia’s image in the African continent and within the African Union. Furthermore, an AU pan-African conference scheduled for mid-March in Tunis has been postponed. Former Senegalese Prime Minister Aminata Touré even called for Tunisia’s AU membership to be suspended and for the country to be excluded from the Africa Cup.
      Solidarity

      Multiple protests have been taking place in Tunisia with demonstrators denouncing the racist and fascist violence. Already on February 25th „over 1,000 people marched through downtown Tunis to protest what they called Saied’s fascist overtures.“ „Henda Chennaoui, one of the principal figures in the country’s new Front Antifasciste … [highlights that this] ‚the first time in the history of the republic that the president used fascist and racist speech to discriminate against the most vulnerable and the marginalised.’“ Protests in front of Tunisian embassies are being organized around the world, such as in Paris, Berlin as well as Canada.

      In the Front antifasciste – Tunisie activists and associations gather to organize support for Black people in the country. „Tunisian and foreign volunteers brought donations of food, water and blankets, along with some tents to help those displaced. … [However,] associations collecting donations [for migrants] are receiving threats.“
      Political Level

      President Saied is distracting from the political and economic situation in the country. He was elected in Fall 2019 and his governing style has become increasingly authoritarian. „Over the last two weeks, a spate of high-profile arrests has rocked Tunisia, as over a dozen political figures, trade unionists and members of the media have been taken into custody on security or graft charges. Some have been dragged from their homes without warrants; others, put on trial before military courts, despite being civilians. Many are being held in what their lawyers say are inhumane conditions, crammed in cells with scores of prisoners and without beds.“ A terrorism law allows the authorities to hold people „for a maximum of 15 days without charge or consultation with a lawyer“.

      In addition, „Saied has neutered parliament and pushed through a new constitution that gives him near-unlimited control and makes it almost impossible to impeach him.“ This was preceded and enabled by a very volatile situation in the country, as „there was increasing fragmentation within the executive branch, among state institutions, within and between political parties, within civil society, and even between regions of the country.“ The political and economic instability in the country, resulted in wide-spread support of his presidency, which has increasingly shifted to repressive centralization of power.

      The statement and development are connecting to a growing populist discourse. „Saied’s crackdown on undocumented sub-Saharan immigrants has taken place in the context of the rise of the hitherto unknown Parti Nationaliste Tunisien, which has been pushing a racist agenda relentlessly since early February. The party has flooded social media with conspiracy theories and dubiously edited videos that have encouraged Tunisians to report on undocumented neighbours before they can ‚colonise‘ the country – the same conspiratorial language adopted by Saied.“
      Economic Level

      Tunisia „is struggling under crippling inflation and debt worth around 80 percent of its gross domestic product (GDP)“. In addition, there is a shortage of basic foods such as rice, which is putting a lot of pressure on the population. ‘Les Africains’ are used as a scapegoat for the lack of products such as rice. „The rice-crisis is not the first time that populations racialized as ‘African’ are blamed for a social and economic disaster in Tunisia, which in reality is a direct consequence of the state’s abandonment of marginalized communities and the pressures of global capitalism.“ However, since the racist tropes are connecting to a familiar discourse, the „crackdown on immigrants and Saied’s political opponents has … won him favour among many in his working-class political base, who have been at the sharp end of a dire economic crisis.“

      The current events seem to have triggered international responses since Italy now supports Tunisia as it „is seeking to obtain a loan from the IMF due to a severe economic crisis.“ This is being explicitly connected to Europe’s border interests (see section on Externalization & Immigration).

      Ultimately these actions are enhancing the dependencies to Europe and weaken pan-African ties. „Kaïs Saied’s economic incompetence – as well as the refusal of North African governments to prioritize regional and inner-African trade which would allow evading dictates from the Global North and its proxies such as the IMF more effectively – are now once more fueling dynamics that in fact counter pan-African cooperation.“ In fact, the „president’s comments could also have direct consequences for Tunisian companies, which have increasingly expanded into other African countries in recent years. Guinean media report that several wholesalers have suspended imports of Tunisian products. Senegalese and Ivoirian importers want to join the boycott.“

      In addition, according to Human Rights Watch „at least 40 students have been detained so far“. This will have a detrimental impact on the education market, since „[f]or Tunisian private universities, students from other African countries are an essential part of their business model.“

      These factors might have contributed to ​​​​​​the statement posted by the government on Facebook on March 5th, attempting to backpedal the racist campaign and highlighting their „astonishment“ about the violence in the last weeks. Apart from now emphasising „Tunisia’s African identity“ and the significance of the anti-discrimination law from 2018, it announces plans to enhance the legal security of African migrants in Tunisia. Whether and how the statement will be implemented remains to be seen, „It appears likely that Tunisia is now also facing a considerable radicalization of its migration policies. […] Saied’s future migration policies, however, are likely to go beyond the ongoing wave of arrests, and in a worst-case scenario, will go even far beyond.“
      Externalization & Immigration

      „While the European Union’s violent securitization apparatus is indeed responsible for the oppression and murder of sub-Saharan migrants (and Tunisians) in Tunisia, the Tunisian state also contributes to their oppression and murder.“ Many people try to travel to Europe via and from Tunisia. „Its proximity to the EU’s external border has made Tunisia a major hub for migrants. Italy’s coasts are only around 150 kilometers (90 miles) away. Tunisia relaxed visa requirements in 2015, allowing many sub-Saharan and North Africans migrants to move to the country and work. … Authorities frequently turned a blind eye to workers without permits who were saving for a journey to Europe.“ This renders Black migrants very vulnerable to exploitation as well as policy changes.

      Already prior to the current escalation Black people experienced discrimination; Shreya Parikh highlighted in August 2022 that „Sub-Saharan women and men who depend on the labour market have spoken to me of persistent exploitation and racialised violence (both verbal and physical) at workplace.“ This is enhanced and enabled by the uncertain legal situation. „In the case of Tunisia, an im/migration non-policy is deliberately maintained by institutional actors at different levels (border police, internal affairs ministry, private legal agencies promising paper-work) because, among others, it is a lucrative site for corruption.“ This affects mostly Black people. „Most sub-Saharan migrants (like Western European migrants) enter Tunisia as legal migrants because of 3-month visa-free policies; but the Tunisian state forces all migrants to become illegal by its refusal to deliver legal documentation. This means that Tunisia also has European migrants living ‘illegally.’ But in the social and political construction of the ‘illegal migrant,’ white bodies never fit. It is the Black and dark-skinned bodies that are assumed to be illegal and criminal, as is clear from arrests of sub-Saharan migrants who carry residence permits, as well as absence of arrests of European ‘illegal’ migrants.“

      The current developments have to be understood in the context of the externalization of the European border. The Tunisian Forum for Social and Economic Rights (FTDES) highlights that the „European border outsourcing policies have contributed for years to transform Tunisia into a key player in the surveillance of Mediterranean migration routes, including the interception of migrant boats outside territorial waters and their transfer to Tunisia. Discriminatory and restrictive policies in Algeria also contribute to pushing migrants to flee to Tunisia. These policies deepen the human tragedy of migrants in a Tunisia in political and socio-economic crisis.“ Sofian Philip Naceur analyses that „[a]s Saieds government continues to play along as the watchdog for the European border regime, though not without ostentatiously displaying its self-interest in migration control, the Italian government is suddenly soliciting financial support for Tunisia’s deeply troubled public coffers from the EU and the International Monetary Fund (IMF). Interesting timing.“

      So far, the President’s statement has only provoked supportive reactions from European politicians. The French far-right politician, Eric Zemmour, who is one of the most prominent supporters of the conspiracy theory of the „Great Replacement“, supported the statement on Twitter. And the Italian foreign minister Antonio Tajani expressed in a phone call with his Tunisian counterpart that „the Italian government is at the forefront of supporting Tunisia in its border control activities, in the fight against human trafficking, as well as in the creation of legal channels to Italy for Tunisian workers and in the creation of training opportunities as an alternative to migration“ without mentioning the current violence at all. Furthermore, Italy is sending 100 more pick-ups worth more than 3.6 million Euro to reinforce the Tunisian Ministry of the Interior in the fight against ‚irregular‘ immigration.

      Or how Le Monde summarizes: „[The chancelleries] have not reacted to the presidential charge against sub-Saharan migrants. And for good reason: Mr. Said is responding rather positively to calls from Europe – primarily Italy – to better lock its maritime borders in order to stem the flow of migrants across the Mediterranean.“

      https://migration-control.info/on-the-racist-events-in-tunisia-background-overview

      via @_kg_

    • Aggressioni razziste e arresti: così la Tunisia diventa un “hotspot informale” dell’Europa

      I discorsi d’odio del presidente tunisino Saied contro presunte “orde di subsahariani irregolari” che minaccerebbero l’identità “arabo-musulmana” del Paese hanno fatto esplodere la tensione accumulata negli ultimi mesi, tra inflazione e penuria di generi di prima necessità. La “Fortezza Europa”, intanto, gongola. Il reportage

      Ogni mattina a Nadège vengono dati dieci dinari per la spesa. Esce di casa, si incammina fino all’alimentari più vicino e compra il necessario per la famiglia per cui lavora. È l’unico momento in cui le è consentito uscire. Altrimenti, Nadège vive e lavora 24 ore su 24, sette giorni su sette, tra le mura della casa di due persone anziane in un quartiere benestante di Tunisi. La sua paga mensile come domestica è di settecento dinari (225 euro), che diventeranno ottocento (240 euro) se “lavorerà bene”.

      Nadège, assicura, è qui per questo: “Sono venuta in Tunisia per metter da parte qualche soldo da mandare ai miei figli, in Costa d’Avorio”, racconta. Suo cugino, però, lavora nei campi di pomodori in Calabria. Le ha consigliato di partire per l’Italia e cercare lavoro lì. “Il cambio euro-franco Cfa è più conveniente di quello dinaro tunisino-franco Cfa. Guadagnando qualche soldo in Europa posso far vivere degnamente i miei due figli, metter da parte qualcosa e poi tornare da loro una volta che ci saremo sistemati”, spiega la trentenne ivoriana. Tre anni fa, Nadège vendeva sigarette lungo la sterrata che dal suo villaggio portava a Abidjan, ma con i lavori del governo per asfaltare la strada, il suo gabbiotto è stato abbattuto e mai più ricostruito. E lei è rimasta senza nulla.

      Nel 2022 anche Nadège ha tentato di imbarcarsi per Lampedusa da una spiaggia del Sud tunisino. A metà strada, però, la guardia costiera ha intercettato la sua barca e l’ha riportata a riva, nel porto di Sfax. Ha perso tutti i soldi che aveva messo da parte e si è ritrovata punto a capo, in Tunisia, a cercar di nuovo lavoro.

      Come nel caso di buona parte dei cittadini subsahariani presenti nel Paese, molti dei quali -a differenza di Nadège- hanno rinunciato all’idea di imbarcarsi, nessuno le ha mai proposto un contratto. Una volta scaduti i tre mesi di visto, il limite massimo per rimanere in Tunisia, tanti di loro rimangono in situazione di irregolarità accumulando una multa per la permanenza oltre i limiti del visto che aumenta di mese in mese. Dopo anni a lavorare, spesso con paghe misere e giornaliere, molti subsahariani rimangono intrappolati nelle maglie della burocrazia tunisina e, pur volendo tentare di regolarizzarsi e ottenere un permesso di soggiorno per rimanere nel Paese, non ci riescono perché non sono in grado di pagare la multa per lo sforamento del visto, che raggiunge un massimo di 3.000 dinari, mille euro. Ecco come i subsahariani finiscono in una sorta di limbo, bloccati in Tunisia, senza poter raggiungere l’Europa, senza poter tornare indietro. Si ritrovano così a costituire la manodopera in nero di aziende tunisine o estere presenti nel Paese, o di famiglie benestanti, che sfruttano la loro posizione precaria di irregolari per sottopagarli.

      Da metà febbraio di quest’anno Nadège ha dovuto rinunciare anche alla spesa quotidiana per paura di uscire dal cortile di casa. Lei, senza documenti, è oggetto di una campagna d’odio che si diffonde a macchia d’olio in Tunisia. È il 21 febbraio quando, dopo giorni di arresti di esponenti dell’opposizione alle politiche di Kais Saied, un comunicato della presidenza tunisina fa il punto sulla “lotta all’immigrazione irregolare nel Paese”, tema che è stato al centro della visita in Tunisia dei ministeri degli Esteri Antonio Tajani e dell’Interno Matteo Piantedosi di fine gennaio.

      Secondo quel comunicato, la Tunisia sarebbe invasa da “orde di subsahariani irregolari” che minaccerebbero “demograficamente” il Paese e la sua identità “arabo-musulmana”. È stata la miccia che ha fatto esplodere la tensione accumulata negli ultimi mesi, tra inflazione galoppante, impoverimento generale della popolazione e penurie continue di generi di prima necessità. A diffondere queste teorie xenofobe da fine 2022 è il cosiddetto Partito nazionalista tunisino, un gruppo di nicchia riconosciuto nel 2018, che ha intensificato la propria campagna sui social network prendendosela con le persone nere presenti in Tunisia. Non solo potenziali persone migranti in situazione di irregolarità che vorrebbero tentare di imbarcarsi verso l’Italia (come dichiarato dalle autorità), ma anche richiedenti asilo e rifugiati, studenti e lavoratori residenti nel Paese, accusati di “rubare il lavoro”, riprendendo gli slogan classici delle destre europee, spesso usati contro i tunisini stessi.

      Da allora in Tunisia si sono moltiplicate non solo le aggressioni razziste, ma anche gli arresti di cittadini subsahariani senza alcun criterio. Secondo un comunicato della Lega tunisina dei diritti umani, per esempio, otto studenti subsahariani regolarmente residenti nel Paese e iscritti nelle università tunisine sarebbero trattenuti senza alcun motivo nel centro di El-Wuardia, un centro gestito dalle autorità tunisine, non regolamentato, dove è complicato monitorare chi entra e chi esce. L’Associazione degli stagisti ivoriani e l’Aesat, la principale organizzazione degli studenti subsahariani in Tunisia, hanno consigliato alle proprie comunità di non uscire.

      Almeno cinquecento subsahariani si troverebbero invece nella prigione di Bouchoucha (Tunisi), senza che si conoscano le accuse nei loro confronti. A seguito delle misure prese dalla presidenza, molti proprietari di alloggi affittati a cittadini subsahariani hanno chiesto loro di lasciare casa, così come diversi datori di lavoro li hanno licenziati da un giorno all’altro per timore di ritorsioni da parte della polizia nei loro confronti. Centinaia di persone si sono così ritrovate per strada, senza stipendio e senza assistenza, rischiando l’arresto arbitrario, esposti a violenze e aggressioni nelle grandi città.

      In centinaia stanno optando per il rimpatrio nel Paese d’origine chiedendo assistenza per il cosiddetto ritorno volontario, che spesso di volontario ha ben poco. “Torniamo indietro per paura”, è il ritornello che ripetono in molti. Le liste per le richieste dei ritorni volontari gestiti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) erano già lunghe prima del 21 febbraio, tanto che decine di persone che si sono registrate mesi fa attendono in tende di fortuna costruite con sacchi di plastica lungo la via che porta alla sede dell’Oim, nel quartiere di Lac 1, dove hanno sede diverse organizzazioni internazionali.

      “Non ci è stato messo a disposizione un foyer per l’accoglienza”, si giustifica una fonte interna all’organizzazione puntando il dito contro le autorità tunisine. La tendopoli di Lac 1 era già stata smantellata dalle forze di polizia a giugno 2022 ma alle persone migranti non è stata data un’alternativa. Qualche settimana dopo, infatti, si è riformata poco lontano. Oggi si ingrandisce di giorno in giorno.

      È qui che da fine febbraio un gruppo di volontari si fa carico di fornire acqua e cibo alle duecento persone presenti, rimaste senza assistenza. L’Oim è l’unica alternativa per chi non dispone di documenti validi, chi si trova nell’impossibilità di pagare la multa di 3.000 dinari o chi non ha un’ambasciata in Tunisia a cui rivolgersi, come per esempio i cittadini della Sierra Leone, la cui rappresentanza è stata delegata all’ambasciata d’Egitto.

      Chi può, invece, ha tentato di chiedere aiuto alla propria ambasciata di riferimento, accampandosi di fronte all’entrata. Il primo marzo è atterrato in Tunisia il ministro degli Esteri della Guinea, che ha promesso ai propri cittadini di stanziare fondi per voli di rimpatrio. Il primo aereo a decollare è stato quello della Costa d’Avorio, partito sabato 4 marzo alle 7 del mattino dall’aeroporto di Tunisi con a bordo 145 persone.

      Era giugno 2018 quando la Commissione europea proponeva ad alcuni Paesi africani, tra cui la Tunisia, l’istituzione di piattaforme regionali di sbarco dove smistare, fuori dai confini europei, le richieste di asilo. La risposta all’epoca fu “No, non abbiamo né le capacità né i mezzi”, per citare l’ambasciatore tunisino a Bruxelles Tahar Chérif. Cinque anni più tardi, l’Ue sembra esser riuscita nella propria missione di trasformare la Tunisia in un informale hotspot europeo.

      https://altreconomia.it/aggressioni-razziste-e-arresti-cosi-la-tunisia-diventa-un-hotspot-infor

    • As the disturbing scenes in Tunisia show, anti-migrant sentiments have gone global

      President Saied is scapegoating his country’s small black migrant population to distract from political failings. Does this sound familiar?

      A little more than 10 years ago, calls for freedom and human rights in Tunisia triggered the Arab spring. Today, black migrants in the country are being attacked, spat at and evicted from their homes. The country’s racism crisis is so severe that hundreds of black migrants have been repatriated.

      It all happened quickly, triggered by a speech by the Tunisian president, Kais Saied, at the end of February. He urged security forces to take urgent measures against migrants from sub-Saharan Africa, who he claimed were moving to the country and creating an “unnatural” situation as part of a criminal plan designed to “change the demographic makeup” and turn Tunisia into “just another African country that doesn’t belong to the Arab and Islamic nations any more”. “Hordes of irregular migrants from sub-Saharan Africa” had come to Tunisia, he added, “with all the violence, crime and unacceptable practices that entails”.

      For scale, the black migrant population in Tunisia is about 21,000 out of a population of 12 million, and yet a sudden fixation with their presence has taken over. A general hysteria has unleashed a pogrom on a tiny migrant population whose members have little impact on the country’s economics or politics – reports from human rights organisations tell of night-time raids and daylight stabbings. Hundreds of migrants, now homeless, are encamped, cowering, outside the International Organization for Migration’s offices in Tunis as provocation against them continues to swirl.

      Josephus Thomas, a political refugee from Sierra Leone, spoke to me from the camp, where he is sheltering with his wife and child after they were evicted from their home and his life savings were stolen. They sleep in the cold rain, wash in a nearby park’s public toilet and sleep around a bonfire with one eye open in anticipation of night-time ambushes by Tunisian youths. So far, they have been attacked twice. “There are three pregnant women here, and one who miscarried as she was running for her life.” Due to the poor sanitation, “all the ladies are having infections”, he says. “Even those who have a UNHCR card”, who are formally recognised as legitimate refugees, are not receiving the help they are entitled to. “The system is not working.”

      Behind this manufactured crisis is economic failure and political dereliction. “The president of the country is basically crafting state policy based on conspiracy theories sloshing around dark corners of the internet basement,” Monica Marks, , a professor of Middle East studies and an expert on Tunisia, tells me. The gist of his speech was essentially the “great replacement” theory, but with a local twist. In this version of the myth, Europeans are using black people from sub-Saharan Africa to make Tunisia a black-inhabited settler colony.

      Confecting an immigration crisis is useful, not only as a distraction from Saied’s failures, but as a political strategy to hijack state and media institutions, and direct them away from meaningful political opposition or scrutiny.

      The speed with which the hysteria spread shows that these attitudes had been near the surface all along. Racism towards black Arabs and black sub-Saharan Africans is entrenched in the Arab world – a legacy of slavery and a fetishised Arab ethnic supremacy. In Arab north Africa, racism towards black people is complicated even further by a paranoia of proximity – being situated on the African continent means there is an extreme sensitivity to being considered African at all, or God forbid, black. In popular culture, racist tropes against other black Arabs or Africans are widespread, portraying them as thick, vulgar and unable to speak Arabic without a heavy accent.

      The movement of refugees from and through the global south has further inflamed bigotries and pushed governments, democratic or otherwise, towards extinguishing these people’s human rights. Local histories and international policies create a perfect storm in which it becomes acceptable to attack a migrant in their home because of “legitimate concerns” about economic insecurity and cultural dilution.

      Globally, there is a grim procession of countries that have made scapegoating disempowered outsiders a central plank of government policy. But there is a new and ruthless cruelty to it in the UK and Europe. The European Union tells the British prime minister, Rishi Sunak, that his small boat plans violate international law, but the EU has for years followed an inhumane migrant securitisation policy that captures and detains migrants heading to its shores in brutal prisons run by militias for profit. Among them are a “hellhole” in Libya and heavily funded joint ventures with the human rights-abusing dictatorship in Sudan.

      Only last week, in the middle of this storm, the Italian prime minister, Giorgia Meloni, had a warm call with her Tunisian counterpart, Najla Bouden Romdhane, on, among other topics, “the migration emergency and possible solutions, following an integrated approach”. This sort of bloodless talk of enforcement at all costs, Marks says, “speaks to the ease with which political elites, state officials, can render fascism part of the everyday political present”.

      So where do you turn if you are fleeing war, genocide and sexual violence? If you want to exercise a human right, agreed upon in principle more than 70 years ago, “to seek and enjoy in other countries asylum from persecution”? The answer is anywhere, because no hypothetical deterrent is more terrifying than an unsafe present.

      You will embark on an inhuman odyssey that might end with a midnight raid on your home in Tunis, a drowning in the Channel, or, if you’re lucky, a stay in Sunak and Macron’s newly agreed super-detention centres. People in jeopardy will move. That is certain. All that we guarantee through cynical deterrent policies is that we will make their already fraught journey even more dangerous.

      https://www.theguardian.com/commentisfree/2023/mar/13/tunisia-anti-migrant-sentiments-president-saied

    • Immigrés subsahariens, boucs émissaires pour faire oublier l’hémorragie maghrébine

      Les autorités tunisiennes mènent depuis début juillet une campagne contre les immigrés subsahariens accusés d’« envahir » le pays, allant jusqu’à les déporter en plein désert, à la frontière libyenne. Une politique répressive partagée par les pays voisins qui sert surtout à dissimuler l’émigration maghrébine massive et tout aussi « irrégulière », et à justifier le soutien des Européens.

      La #chasse_à_l’homme à laquelle font face les immigrés subsahariens en Tunisie, stigmatisés depuis le mois de février par le discours officiel, a une nouvelle fois mis en lumière le flux migratoire subsaharien vers ce pays du Maghreb, en plus d’ouvrir les vannes d’un discours raciste décomplexé. Une ville en particulier est devenue l’objet de tous les regards : Sfax, la capitale économique (270 km au sud de Tunis).

      Le président tunisien Kaïs Saïed s’est publiquement interrogé sur le « choix » fait par les immigrés subsahariens de se concentrer à Sfax, laissant flotter comme à son habitude l’impression d’un complot ourdi. En réalité et avant même de devenir une zone de départ vers l’Europe en raison de la proximité de celle-ci, l’explication se trouve dans le relatif dynamisme économique de la ville et le caractère de son tissu industriel constitué de petites entreprises familiales pour une part informelles, qui ont trouvé, dès le début de la décennie 2000, une opportunité de rentabilité dans l’emploi d’immigrés subsahariens moins chers, plus flexibles et employables occasionnellement. Au milieu de la décennie, la présence de ces travailleurs, devenue très visible, a bénéficié de la tolérance d’un État pourtant policier, mais surtout soucieux de la pérennité d’un secteur exportateur dont il a fait une de ses vitrines.
      L’arbre qui ne cache pas la forêt

      Or, focaliser sur la présence d’immigrés subsahariens pousse à occulter une autre réalité, dont l’évolution est autrement significative. Le paysage migratoire et social tunisien a connu une évolution radicale, et le nombre de Tunisiens ayant quitté illégalement le pays a explosé, les plaçant en tête des contingents vers l’Europe, aux côtés des Syriens et des Afghans comme l’attestent les dernières #statistiques. Proportionnellement à sa population, la Tunisie deviendrait ainsi, et de loin, le premier pays pourvoyeur de migrants « irréguliers », ce qui donne la mesure de la crise dans laquelle le pays est plongé. En effet, sur les deux principales routes migratoires, celle des Balkans et celle de Méditerranée centrale qui totalisent près de 80 % des flux avec près de 250 000 migrants irréguliers sur un total de 320 000, les Tunisiens se placent parmi les nationalités en tête. Avec les Syriens, les Afghans et les Turcs sur la première route et en seconde position après les Égyptiens et avant les Bengalais et les Syriens sur la deuxième.

      La situation n’est pas nouvelle. Durant les années 2000 — 2004 durant lesquelles les traversées « irrégulières » se sont multipliées, les Marocains à eux seuls étaient onze fois plus nombreux que tous les autres migrants africains réunis. Les Algériens, dix fois moins nombreux que leurs voisins, arrivaient en deuxième position. Lorsque la surveillance des côtes espagnoles s’est renforcée, les migrations « irrégulières » se sont rabattues vers le sud de l’Italie, mais cette répartition s’est maintenue. Ainsi en 2006 et en 2008, les deux années de pics de débarquement en Sicile, l’essentiel des migrants (près de 80 %) est constitué de Maghrébins (les Marocains à eux seuls représentant 40 %), suivis de Proche-Orientaux, alors que la part des subsahariens reste minime.

      La chose est encore plus vraie aujourd’hui. À l’échelle des trois pays du Maghreb, la migration « irrégulière » des nationaux dépasse de loin celle des Subsahariens, qui est pourtant mise en avant et surévaluée par les régimes, pour occulter celle de leurs citoyens et ce qu’elle dit de l’échec de leur politique. Ainsi, les Subsahariens, qui ne figurent au premier plan d’aucune des routes partant du Maghreb, que ce soit au départ de la Tunisie et de la Libye ou sur la route de Méditerranée occidentale (départ depuis l’Algérie et le Maroc), où l’essentiel des migrants est originaire de ces deux pays et de la Syrie. C’est seulement sur la route dite d’Afrique de l’Ouest (qui inclut des départs depuis la façade atlantique de la Mauritanie et du Sahara occidental) que les migrants subsahariens constituent d’importants effectifs, même s’ils restent moins nombreux que les Marocains.
      Négocier une rente géopolitique

      L’année 2022 est celle qui a connu la plus forte augmentation de migrants irréguliers vers l’Europe depuis 2016. Mais c’est aussi celle qui a vu les Tunisiens se placer dorénavant parmi les nationalités en tête de ce mouvement migratoire, alors même que la population tunisienne est bien moins importante que celle des autres nationalités, syrienne ou afghane, avec lesquelles elle partage ce sinistre record.

      Ce n’est donc pas un effet du hasard si le président tunisien s’est attaqué aux immigrés subsahariens au moment où son pays traverse une crise politique et économique qui amène les Tunisiens à quitter leur pays dans des proportions inédites. Il s’agit de dissimuler ainsi l’ampleur du désastre.

      De plus, en se présentant comme victimes, les dirigeants maghrébins font de la présence des immigrés subsahariens un moyen de pression pour négocier une rente géopolitique de protection de l’Europe et pour se prémunir contre les critiques.

      Reproduisant ce qu’avait fait vingt ans plus tôt le dirigeant libyen Mouammar Kadhafi avec l’Italie pour négocier sa réintégration dans la communauté internationale, le Maroc en a fait un outil de sa guerre diplomatique contre l’Espagne, encourageant les départs vers la péninsule jusqu’à ce que Madrid finisse par s’aligner sur ses thèses concernant le Sahara occidental. Le raidissement ultranationaliste que connait le Maghreb, entre xénophobie d’État visant les migrants et surenchère populiste de défiance à l’égard de l’Europe, veut faire de la question migratoire un nouveau symbole de souverainisme, avec les Subsahariens comme victimes expiatoires.
      Déni de réalité

      Quand il leur faut justifier la répression de ces immigrés, les régimes maghrébins parlent de « flots », de « hordes » et d’« invasion ». Ils insistent complaisamment sur la mendicité, particulièrement celle des enfants. Une image qui parle à bon nombre de Maghrébins, car c’est la plus fréquemment visible, et cette mendicité, parfois harcelante, peut susciter de l’irritation et nourrir le discours raciste.

      Cette image-épouvantail cache la réalité d’une importante immigration de travail qui, en jouant sur les complémentarités, a su trouver des ancrages dans les économies locales, et permettre une sorte d’« intégration marginale » dans leurs structures. Plusieurs décennies avant que n’apparaisse l’immigration « irrégulière » vers l’Europe, elle était déjà présente et importante au Sahara et au Maghreb.

      Depuis les années 1970, l’immigration subsaharienne fournit l’écrasante majorité de la main-d’œuvre, tous secteurs confondus, dans les régions sahariennes maghrébines, peu peuplées alors, mais devenues cependant essentielles en raison de leurs richesses minières (pétrole, fer, phosphate, or, uranium) et de leur profondeur stratégique. Ces régions ont connu de ce fait un développement et une urbanisation exceptionnels impulsés par des États soucieux de quadriller des territoires devenus stratégiques et souvent objets de litiges. Cette émigration s’est étendue à tout le Sahel à mesure du développement et du désenclavement de ces régions sahariennes où ont fini par émerger d’importants pôles urbains et de développement, construits essentiellement par des Subsahariens. Ceux-ci y résident et, quand ils n’y sont pas majoritaires, forment de très fortes minorités qui font de ces villes sahariennes de véritables « tours de Babel » africaines.

      À partir de cette matrice saharienne, cette immigration s’est diffusée graduellement au nord, tout en demeurant prépondérante au Sahara, jusqu’aux villes littorales où elle s’est intégrée à tous les secteurs sans exception : des services à l’agriculture et à la domesticité, en passant par le bâtiment. Ce secteur est en effet en pleine expansion et connait une tension globale en main-d’œuvre qualifiée, en plus des pénuries ponctuelles ou locales au gré de la fluctuation des chantiers. Ses plus petites entreprises notamment ont recours aux Subsahariens, nombreux à avoir les qualifications requises. Même chose pour l’agriculture dont l’activité est pour une part saisonnière alors que les campagnes se vident, dans un Maghreb de plus en plus urbanisé.

      On retrouve dorénavant ces populations dans d’autres secteurs importants comme le tourisme au Maroc et en Tunisie où après les chantiers de construction touristiques, elles sont recrutées dans les travaux ponctuels d’entretien ou de service, ou pour effectuer des tâches pénibles et invisibles comme la plonge. Elles sont également présentes dans d’autres activités caractérisées par l’informel, la flexibilité et la précarité comme la domesticité et certaines activités artisanales ou de service.
      Ambivalence et duplicité

      Mais c’est par la duplicité que les pouvoirs maghrébins font face à cette migration de travail tolérée, voire sollicitée, mais jamais reconnue et maintenue dans un état de précarité favorisant sa réversibilité. C’est sur les hauteurs prisées d’Alger qu’on la retrouve. C’est là qu’elle construit les villas des nouveaux arrivants de la nomenklatura, mais c’est là aussi qu’on la rafle. C’est dans les familles maghrébines aisées qu’est employée la domestique noire africaine, choisie pour sa francophonie, marqueur culturel des élites dirigeantes. On la retrouve dans le bassin algéro-tunisien du bas Sahara là où se cultivent les précieuses dattes Deglet Nour, exportées par les puissants groupes agrolimentaires. Dans le cœur battant du tourisme marocain à Marrakech et ses arrière-pays et dans les périmètres irrigués marocains destinés à l’exportation. À Nouadhibou, cœur et capitale de l’économie mauritanienne où elle constitue un tiers de la population. Et au Sahara, obsession territoriale de tous les régimes maghrébins, dans ces pôles d’urbanisation et de développement conçus par chacun des pays maghrébins comme des postes avancés de leur nationalisme, mais qui, paradoxalement, doivent leur viabilité à une forte présence subsaharienne. En Libye, dont l’économie rentière dépend totalement de l’immigration, où les Subsahariens ont toujours été explicitement sollicités, mais pourtant en permanence stigmatisés et régulièrement refoulés.

      Enfin, parmi les milliers d’étudiants subsahariens captés par un marché de l’enseignement supérieur qui en a fait sa cible, notamment au Maroc et en Tunisie et qui, maitrisant mieux le français ou l’anglais, deviennent des recrues pour les services informatiques, la communication, la comptabilité du secteur privé national ou des multinationales et les centres d’appel.
      Un enjeu national

      Entre la reconnaissance de leur utilité et le refus d’admettre une installation durable de ces populations, les autorités maghrébines alternent des phases de tolérance et de répression, ou de maintien dans les espaces de marge, en l’occurrence au Sahara.

      La négation de la réalité de l’immigration subsaharienne par les pays maghrébins ne s’explique pas seulement par le refus de donner des droits juridiques et sociaux auxquels obligerait une reconnaissance, ni par les considérations économiques, d’autant que la vie économique et sociale reste régie par l’informel au Maghreb. Cette négation se légitime aussi du besoin de faire face à une volonté de l’Europe d’amener les pays du Maghreb à assumer, à sa place, les fonctions policières et humanitaires d’accueil et de régulation d’une part d’exilés dont ils ne sont pas toujours destinataires. Mais le véritable motif consiste à éviter de poser la question de la présence de ces migrants sur le terrain du droit. C’est encore plus vrai pour les réfugiés et les demandeurs d’asile. Reconnaître des droits aux réfugiés, mais surtout reconnaitre leur présence au nom des droits humains pose en soi la question de ces droits, souvent non reconnus dans le cadre national. Tous les pays maghrébins ont signé la convention de Genève et accueilli des antennes locales du Haut-Commissariat aux réfugiés des Nations unies (UNHCR), mais aucun d’entre eux n’a voulu reconnaître en tant que tels des immigrés subsahariens qui ont pourtant obtenu le statut de réfugié auprès de ces antennes.

      En 2013, entre la pression d’une société civile galvanisée par le Mouvement du 20 février et le désir du Palais de projeter une influence en Afrique pour obtenir des soutiens à sa position sur le Sahara occidental, le Maroc avait promulgué une loi qui a permis temporairement de régulariser quelques dizaines de milliers de migrants. Elle devait aboutir à la promulgation d’un statut national du droit d’asile qui n’a finalement pas vu le jour. Un tel statut, fondé sur le principe de la protection contre la persécution de la liberté d’opinion, protègerait également les citoyens maghrébins eux-mêmes. Or, c’est l’absence d’un tel statut qui a permis à la Tunisie de livrer à l’Algérie l’opposant Slimane Bouhafs, malgré sa qualité de réfugié reconnue par l’antenne locale du HCR. C’est cette même lacune qui menace son compatriote, Zaki Hannache, de connaître le même sort.

      https://orientxxi.info/magazine/immigres-subsahariens-boucs-emissaires-pour-faire-oublier-l-hemorragie,6

      #répression #Sfax #migrants_tunisiens #rente_géopolitique #souverainisme #afflux #invasion #mendicité #économie #travail #émigration #immigration #précarité #précarisation #marginalisation

    • Tunisie : Pas un lieu sûr pour les migrants et réfugiés africains noirs

      Des forces de sécurité maltraitent des migrants ; l’Union européenne devrait suspendre son soutien au contrôle des migrations

      - La police, l’armée et la garde nationale tunisiennes, y compris les garde-côtes, ont commis de graves abus à l’encontre de migrants, de réfugiés et de demandeurs d’asile africains noirs.
      - Pour les Africains noirs, la Tunisie n’est ni un lieu sûr pour le débarquement de ressortissants de pays tiers interceptés ou sauvés en mer, ni un « pays tiers sûr » pour les transferts de demandeurs d’asile.
      - La Tunisie devrait mener des réformes de façon à respecter les droits humains et mettre fin à la discrimination raciale. L’Union européenne devrait suspendre le financement des forces de sécurité destiné au contrôle des migrations, et fixer des critères de référence en matière de droits humains auxquels conditionner son soutien futur.

      La police, l’armée et la garde nationale tunisiennes, y compris les garde-côtes, ont commis de graves abus à l’encontre de migrants, de réfugiés et de demandeurs d’asile africains noirs, a déclaré Human Rights Watch aujourd’hui. Parmi les abus documentés figurent des passages à tabac, le recours à une force excessive, certains cas de torture, des arrestations et détentions arbitraires, des expulsions collectives, des actions dangereuses en mer, des évictions forcées, ainsi que des vols d’argent et d’effets personnels.

      Pourtant, le 16 juillet, l’Union européenne (UE) a annoncé la signature d’un protocole d’accord avec la Tunisie, portant sur un nouveau « partenariat stratégique » et un financement allant jusqu’à un milliard d’euros, dont 105 millions d’euros sont destinés à « la gestion des frontières, [...] des opérations de recherche et sauvetage, […] la lutte contre le trafic de migrants et [...] la politique de retour ». Le Premier ministre néerlandais Mark Rutte a souligné que le partenariat porterait notamment sur « le renforcement des efforts visant à mettre un terme à la migration clandestine ». Le protocole d’accord, qui doit être formellement approuvé par les États membres de l’UE, ne prévoit aucune garantie sérieuse que les autorités tunisiennes empêcheront les violations des droits des migrants et des demandeurs d’asile, et que le soutien financier ou matériel de l’UE ne parviendra pas à des entités responsables de violations des droits humains.

      « Les autorités tunisiennes ont maltraité des étrangers africains noirs, alimenté des attitudes racistes et xénophobes, et renvoyé de force des personnes fuyant par bateau qui risquent de subir de graves préjudices en Tunisie », a déclaré Lauren Seibert, chercheuse au sein de la division Droits des réfugiés et migrants de Human Rights Watch. « En finançant les forces de sécurité qui commettent des abus lors de contrôles migratoires, l’UE partage la responsabilité de la souffrance des migrants, des réfugiés et des demandeurs d’asile en Tunisie ».

      Au total, entre 2015 et 2022, l’UE a consacré à la Tunisie entre 93 et 178 millions d’euros pour des objectifs liés aux migrations, dont une partie a renforcé et équipé les forces de sécurité afin de prévenir les migrations irrégulières et d’arrêter les bateaux à destination de l’Europe. L’UE devrait suspendre le financement des forces de sécurité tunisiennes destiné au contrôle des migrations et soumettre tout nouveau soutien à des critères clairs en matière de droits humains, a déclaré Human Rights Watch. Les États membres de l’UE devraient suspendre leur soutien à la gestion des migrations et des frontières dans le cadre du protocole d’accord récemment signé avec la Tunisie, jusqu’à ce qu’une évaluation approfondie de son impact sur les droits humains soit réalisée.

      Outre les abus attestés des forces de sécurité, les autorités tunisiennes n’ont pas assuré de manière adéquate une protection, une justice ou un soutien aux nombreuses victimes d’évictions forcées et d’attaques racistes, et ont même parfois bloqué ces efforts. C’est pourquoi, pour les Africains noirs, la Tunisie n’est ni un lieu sûr pour le débarquement de ressortissants de pays tiers interceptées ou sauvées en mer, ni un « pays tiers sûr » pour les transferts de demandeurs d’asile.

      Depuis mars, Human Rights Watch a mené des entretiens téléphoniques et en personne avec 24 personnes — 22 hommes, ainsi qu’une femme et une fille — qui vivaient en Tunisie, dont 19 migrant·e·s, quatre demandeur·euse·s d’asile et un réfugié, originaires du Sénégal, du Mali, de la Côte d’Ivoire, de la Guinée, de la Sierra Leone, du Cameroun et du Soudan. Dix-neuf personnes étaient entrées en Tunisie entre 2017 et 2022 : douze de manière irrégulière et sept de manière régulière. Pour cinq personnes interrogées, la date et le mode d’entrée n’étaient pas connus. Certaines des personnes interrogées ne sont pas nommées pour des raisons de sécurité ou à leur demande.

      Human Rights Watch a également mené des entretiens avec quatre représentants de groupes de la société civile en Tunisie — le Forum tunisien pour les droits économiques et sociaux (FTDES), Avocats sans frontières (ASF), EuroMed Rights et Alarm Phone, un réseau de lignes téléphoniques d’urgence —, ainsi qu’un volontaire qui a aidé des réfugiés à Tunis ; Elizia Volkmann, journaliste basée à Tunis ; et Monica Marks, professeure d’université et spécialiste de la Tunisie. Tous les sept avaient interrogé ou aidé des dizaines de migrants, de demandeurs d’asile et de réfugiés en Tunisie, et étaient informés des cas d’abus commis par la police ou les garde-côtes ou les avaient documentés.

      Parmi les migrants, demandeurs d’asile et réfugiés interrogés, neuf étaient rentrés dans leur pays à bord de vols de rapatriement d’urgence en mars, tandis que huit étaient restés à Tunis, la capitale tunisienne, ou à Sfax, une ville portuaire située au sud-est de Tunis. Sept d’entre eux faisaient partie des quelque 1 200 Africains noirs expulsés ou transférés de force par les forces de sécurité tunisiennes aux frontières terrestres avec la Libye et l’Algérie au début du mois de juillet.

      Au total, 22 personnes interrogées ont été victimes de violations de leurs droits humains commises par les autorités tunisiennes.

      Bien que les violations documentées aient eu lieu entre 2019 et 2023, elles se sont majoritairement produites après que le président Kais Saied, en février 2023, a ordonné aux forces de sécurité de réprimer la migration irrégulière, associant les migrants africains sans papiers à la criminalité et à un « complot » visant à modifier la structure démographique de la Tunisie. Le discours du président, qualifié de raciste par les experts des Nations Unies, a été suivi d’un déferlement de discours de haine, de discrimination et d’agressions.

      Quinze personnes interrogées ont déclaré avoir subi des violences de la part de la police, de l’armée ou de la garde nationale y compris des garde-côtes. Parmi ces personnes figurent un réfugié et un demandeur d’asile qui ont été battus et ont reçu des décharges électriques lors de leur détention par la police à Tunis. Cinq personnes ont déclaré que les autorités avaient confisqué leur argent ou leurs effets personnels et ne les leur avaient jamais rendus.

      Les sept personnes interrogées expulsées vers les zones frontalières en juillet ont déclaré que l’armée et la garde nationale les avaient laissées dans le désert avec des quantités insuffisantes de nourriture et d’eau. Si certaines ont été réinstallées en Tunisie une semaine plus tard par les autorités tunisiennes, d’autres avaient encore besoin d’aide ou étaient portés disparus.

      Au moins neuf personnes interrogées ont été arrêtées et détenues arbitrairement par la police à Tunis, Ariana et Sfax, apparemment au faciès, en raison de leur couleur de peau. Ces personnes ont déclaré que les policiers n’avaient pas vérifié leurs papiers avant de les arrêter et que, dans la plupart des cas, ils n’avaient pas procédé à une évaluation individuelle de leur statut légal et ne leur avaient pas permis de contester leur arrestation.

      Un Malien de 31 ans interrogé avait une carte de séjour valide lorsque la police l’a arrêté arbitrairement à la mi-2022 à Ariana. « Ils ne m’ont pas demandé si j’avais des documents ou non », a-t-il déclaré. « Mon ami a été arrêté avec moi [...], [c’est] un militaire guinéen venu en Tunisie pour se faire soigner. Il avait un passeport avec un cachet d’entrée [valide] ».

      Cinq personnes ont décrit des abus commis pendant ou après des interceptions et des sauvetages en mer près de Sfax, apparemment par la garde nationale maritime, également appelée garde côtière. Il s’agit notamment de passages à tabac, de vols, de l’abandon d’un bateau à la dérive sans moteur, du renversement d’un bateau, d’insultes et de crachats à l’encontre des survivants.

      Trois représentants de groupes de la société civile interrogés ont également décrit les pratiques de plus en plus problématiques des garde-côtes depuis 2022, notamment des passages à tabac, l’utilisation dangereuse de gaz lacrymogènes, des tirs en l’air, le fait de prendre ou d’endommager les moteurs des bateaux et de laisser les gens bloqués en mer, la création de vagues qui font chavirer les bateaux, des retards dans les sauvetages, et des vols d’argent et de téléphones.

      Human Rights Watch a écrit aux ministères tunisiens des Affaires étrangères et de l’Intérieur le 28 juin pour leur faire part des résultats de ses recherches et leur poser des questions, mais n’a reçu aucune réponse.

      Outre les abus des forces de sécurité, au moins 12 hommes interrogés ont déclaré avoir été victimes d’abus de la part de civils tunisiens : parmi eux, dix ont été agressés ou victimes de vols, et cinq ont été victimes d’évictions forcées par des propriétaires civils. Hormis deux de ces incidents, tous se sont produits après le discours de février du président Saeid.

      Dans les mois qui ont suivi ce discours, et dans le contexte de la détérioration de la situation économique de la Tunisie, de l’aggravation de la répression et de la violence xénophobe, et de l’augmentation des départs de bateaux et des décès en mer, plus d’une dizaine de responsables européens se sont rendues en Tunisie pour discuter d’économie, de sécurité et de migration avec des responsables politiques tunisiens. Le ministre de l’Intérieur allemand a évoqué l’importance des « droits humains des réfugiés » et la « création de voies d’immigration légales », mais peu d’autres ont mentionné publiquement les préoccupations en matière de droits humains. Le ministre de l’Intérieur français a déclaré que la France offrirait à la Tunisie 25,8 millions d’euros pour l’aider à « contenir le flux irrégulier de migrants ».

      Des millions d’euros de financements de l’UE et de financements bilatéraux — notamment de la part de l’Italie — ont déjà permis de soutenir, d’équiper et de former les garde-côtes tunisiens, les « forces de sécurité intérieure » et les « institutions de gestion des frontières terrestres ».

      L’« externalisation » des frontières, qui consiste à empêcher les arrivées irrégulières en confiant les contrôles migratoires à des pays tiers, est devenue un élément central de la réponse de l’UE aux migrations mixtes et a donné lieu à des violations flagrantes des droits humains. De plus, le soutien aux forces de sécurité qui commettent des abus ne fait qu’exacerber les violations des droits humains qui sont à l’origine des migrations.

      « L’UE et le gouvernement tunisien devraient réorienter fondamentalement leur manière d’aborder les défis migratoires », a déclaré Lauren Seibert. « Le contrôle des frontières ne justifie aucunement que les droits soient bafoués et les responsabilités en matière de protection internationale ignorées ».

      Contexte des migrations et de la situation des réfugiés en Tunisie

      La Tunisie est un pays d’origine, de destination et de transit pour les migrants, les réfugiés et les demandeurs d’asile. Au premier semestre 2023, elle a dépassé la Libye comme point de départ des bateaux accostant en Italie. Selon l’Agence des Nations Unies pour les réfugiés (HCR), sur les 69 599 personnes arrivées en Italie entre le 1er janvier et le 9 juillet par la mer Méditerranée, 37 720 étaient parties de Tunisie, 28 558 de Libye, et les autres de Turquie et d’Algérie.

      Les pays d’origine les plus courants pour les personnes arrivant en Italie étaient, par ordre décroissant, la Côte d’Ivoire, l’Égypte, la Guinée, le Pakistan, le Bangladesh, la Tunisie, la Syrie, le Burkina Faso, le Cameroun et le Mali. Le Cameroun, le Burkina Faso, le Mali et la Guinée ont été confrontés ces dernières années à des violations généralisées des droits humains liées à des conflits, à des coups d’État ou à des mesures de répression gouvernementales.

      Selon une estimation officielle datant de 2021, 21 000 étrangers originaires de pays africains non maghrébins se trouvent en Tunisie, dont la population est de 12 millions d’habitants. Depuis janvier, le pays a accueilli 9 000 réfugiés et demandeurs d’asile enregistrés. La Tunisie est un État partie aux Conventions des Nations Unies et de l’Afrique relatives au statut des réfugiés, et sa Constitution prévoit le droit à l’asile politique. Cependant, elle ne dispose pas d’une loi ou d’un système national d’asile. C’est le HCR qui effectue l’enregistrement des réfugiés et détermine leur statut.

      Bien que les normes internationales en matière de droits humains découragent la criminalisation de la migration irrégulière, les lois tunisiennes datant de 1968 et de 2004 criminalisent l’entrée, le séjour et la sortie irréguliers d’étrangers, ainsi que l’organisation ou l’aide à l’entrée ou à la sortie irrégulières, sanctionnées par des peines d’emprisonnement et des amendes. La Tunisie n’a pas de base légale explicite pour la détention administrative des immigrants, mais de nombreuses organisations ont documenté des cas de détention arbitraire de migrants africains. Pour plusieurs nationalités africaines, la Tunisie autorise les séjours de 90 jours sans visa avec tampon d’entrée, mais l’obtention d’une carte de séjour peut se révéler difficile.

      Selon le FTDES (un forum non gouvernemental), entre janvier et mai 2023, les autorités tunisiennes ont arrêté plus de 3 500 migrants pour « séjour irrégulier » et intercepté plus de 23 000 personnes tentant de quitter la Tunisie de manière irrégulière. Romdhane Ben Amor, porte-parole du FTDES, a déclaré à Human Rights Watch que la plupart des arrestations de migrants enregistrées ont eu lieu aux abords de la frontière algérienne, mais qu’après le discours du président, des centaines d’entre elles ont également eu lieu à Tunis, à Sfax et dans d’autres villes.

      Expulsions collectives aux frontières avec la Libye et l’Algérie

      Entre le 2 et le 5 juillet 2023, la police, la garde nationale et l’armée tunisiennes ont mené des raids à Sfax et dans ses environs, arrêtant arbitrairement des centaines d’étrangers africains noirs de nombreuses nationalités, en situation régulière ou irrégulière. La garde nationale et l’armée ont expulsé ou transféré de force, sans aucun respect des procédures légales, jusqu’à 1 200 personnes, réparties en plusieurs groupes, vers les frontières libyenne et algérienne.

      Selon cinq personnes interrogées qui ont été expulsées, les autorités ont conduit environ 600 à 700 personnes vers le sud jusqu’à la frontière libyenne, non loin de la ville de Ben Guerdane. Elles en ont conduit des centaines d’autres vers l’ouest, à divers endroits le long de la frontière algérienne, dans les gouvernorats de Tozeur, Gafsa et Kasserine, selon deux personnes expulsées, des représentants des Nations Unies, le FTDES et le réseau Alarm Phone.

      Parmi les centaines de personnes expulsées vers une zone éloignée et militarisée située à la frontière entre la Tunisie et la Libye, se trouvaient au moins 29 enfants et trois femmes enceintes. Au moins six d’entre elles étaient des demandeurs d’asile enregistrés auprès du HCR. Les personnes interrogées ont déclaré avoir été battues et agressées par des membres de la garde nationale ou des militaires pendant leur expulsion ; une jeune fille de 16 ans, notamment, a affirmé avoir été agressée sexuellement. Ces personnes ont ajouté que les agents de sécurité avaient jeté leur nourriture, détruit leurs téléphones et les avaient laissées dans une zone d’où, repoussées par les forces de sécurité des deux pays, elles ne pouvaient ni entrer en Libye ni retourner en Tunisie. Elles ont fourni les positions GPS des endroits où elles se trouvaient du 2 au 4 juillet, ainsi que des vidéos et des photos des personnes expulsées, de leurs blessures, des téléphones brisés, des passeports, des cartes consulaires et des cartes de demandeur d’asile.

      Le 7 juillet, Human Rights Watch a interrogé deux personnes qui avaient été expulsées ou transférées de force vers ou près de la frontière algérienne les 4 et 5 juillet. Elles se trouvaient dans deux groupes différents totalisant 15 personnes dont sept femmes — y compris deux femmes enceintes — et un enfant. Selon leurs dires, elles ont été transportées depuis Sfax dans des bus, forcées de marcher dans le désert sans nourriture ni eau suffisantes, et repoussées par les forces de sécurité algériennes et tunisiennes. Une demandeuse d’asile guinéenne a communiqué la position GPS de son groupe, dans le gouvernorat de Gafsa, tandis qu’un Ivoirien a partagé la position du sien, dans le gouvernorat de Kasserine. Ils ont également fourni des vidéos de leurs groupes marchant dans le désert.

      Dans une déclaration du 8 juillet, le président Saied a qualifié les accusations d’abus commis par les forces de sécurité à l’encontre des migrants de « mensonges » et de « fausses informations ». Le week-end du 8 juillet, les équipes du Croissant-Rouge tunisien ont fourni de la nourriture, de l’eau et une aide médicale à quelques migrants qui se trouvaient aux frontières de l’Algérie et de la Libye, ou à proximité. Il s’agit du seul groupe d’aide humanitaire que les autorités tunisiennes ont autorisé à pénétrer dans la zone frontalière avec la Libye.

      Le 10 juillet, les autorités tunisiennes ont finalement transféré plus de 600 personnes de la frontière libyenne vers des abris de l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) et d’autres installations à Ben Guerdane, Medenine et Tataouine, selon des représentants des Nations Unies et un Ivoirien qui se trouvait parmi les personnes emmenées à Medenine, qui a fourni sa localisation. Cependant, le 11 juillet, Human Rights Watch s’est entretenu avec deux migrants affirmant qu’ils faisaient partie d’un groupe de plus de cent personnes expulsées toujours bloquées à la frontière libyenne. Ils ont fourni des vidéos et leur localisation.
      Des migrant·e·s aux deux frontières ont déclaré à Human Rights Watch et à d’autres que plusieurs avaient péri ou avaient été tués à la suite d’une expulsion, bien que Human Rights Watch n’ait pas pu confirmer leurs récits de manière indépendante. Le 11 juillet, l’Agence France-Presse a indiqué que les corps de deux migrants avaient été retrouvés dans le désert près de la frontière entre la Tunisie et l’Algérie. Al Jazeera, qui s’est rendu à plusieurs reprises dans la zone frontalière entre la Tunisie et la Libye, a publié des images du 11 juillet montrant deux groupes de migrant·e·s africain·e·s toujours bloqué·e·s — plus de 150 personnes au total — et le corps d’un migrant décédé.

      La Tunisie est un État partie à la Convention internationale sur l’élimination de toutes les formes de discrimination raciale ; à la Charte africaine des droits de l’homme et des peuples, qui interdit les expulsions collectives ; ainsi qu’aux Conventions des Nations Unies et de l’Afrique relatives au statut des réfugiés, à la Convention contre la torture et au Pacte international relatif aux droits civils et politiques, qui interdisent les retours forcés ou les expulsions vers des pays où les personnes risquent d’être torturées, de voir leur vie ou leur liberté menacées, ou de subir d’autres préjudices graves.

      Abus commis par la police

      Outre les personnes expulsées, onze personnes interrogées ont été victimes d’abus de la part de la police à Tunis, à Sfax, à Ariana et dans une ville proche de la frontière algérienne ; parmi celles-ci, au moins huit ont subi des violences. Deux ont déclaré que la police les avait expulsées de force de leur logement. Sept ont fait état d’insultes racistes de la part de la police et l’une d’entre elles a été menacée de mort.

      Sidy Mbaye, un Sénégalais de 25 ans rapatrié en mars, était entré en Tunisie de manière irrégulière en 2021 et travaillait comme vendeur ambulant. Il a décrit les abus commis par la police à Tunis :

      [Le 25 février], je suis allé en ville pour vendre des téléphones, des T-shirts et des tissus au marché [...]. Trois policiers se sont approchés de moi et m’ont demandé ma nationalité. Ils ont dit : « Tu as entendu ce que le président a dit ? Tu dois partir [...] ». Ils ne m’ont demandé aucun document. Ils ont pris toute ma marchandise [...]. J’ai [résisté] [...] ils m’ont durement battu, me donnant des coups de poing et me frappant avec des matraques. Du sang coulait de mon nez [...].

      Ils m’ont emmené au poste de police, m’ont mis dans une cellule et ont continué à me frapper et à m’insulter [...]. Ils ont dit quelque chose sur le fait que j’étais noir [...]. Ils ne m’ont toujours pas demandé de documents. J’y ai passé une journée. Je refusais de partir parce que je voulais récupérer mes affaires, mais j’ai fini par partir. Ils m’ont menacé et m’ont dit : « Si tu reviens et que tu vends encore ces choses, on va te tuer. Quittez le pays immédiatement ». [...] Là où je vivais avec cinq autres Sénégalais, le propriétaire était un policier [...] En revenant, nous avons trouvé nos affaires dehors.

      Papi Sakho, un Sénégalais de 29 ans qui est venu à Tunis de manière irrégulière pour travailler, a été victime de violences et d’une éviction forcée par la police avant d’être rapatrié, en mars :

      Fin février [...], cinq officiers de police sont venus [...]. Nous étions quatre en train de travailler au garage-lavage, moi, deux Gambiens et un Ivoirien. [...] Ils ne nous ont pas demandé nos papiers [...]. Ils nous criaient dessus, nous insultaient [...] Ils m’ont battu durement avec des matraques [...]. L’Ivoirien était blessé et saignait [...] ils ont fermé notre garage [...]. Et c’est nous qui lavions habituellement leurs voitures de police !

      La police nous a alors conduits à notre logement et a averti le propriétaire que nous n’avions plus le droit d’y rester. [...]. Ils ont pris nos bagages et les ont mis dehors [...]. Mon passeport est resté à l’intérieur. La police a pris mes deux téléphones [...]. Les autres m’ont dit que la police avait pris une partie de leur argent.

      Moussa Baldé, mécanicien sénégalais de 30 ans, a déclaré être arrivé en Tunisie en 2021 avec un visa de travail. Il s’est rendu à Tunis en février 2023 pour acheter des pièces détachées. « Un policier a arrêté mon taxi, m’a fait descendre et m’a poussé. Il m’a dit : “Tu es noir, tu n’as pas le droit d’être ici [...]”. Il ne m’a pas demandé mes papiers, il m’a juste indexé à cause de la couleur de ma peau. [Au poste de police,] deux policiers m’ont donné des coups de poing et m’ont frappé. Ils ne m’ont donné à manger qu’une seule fois pendant les deux jours [de détention], et j’ai dormi par terre ». La police ne lui a posé aucune question sur son statut juridique. « Ils m’ont dit : “Nous allons te libérer, mais tu dois quitter le pays” ».

      Abdoulaye Ba, 27 ans, également originaire du Sénégal, vivait à Tunis depuis 2022. En février 2023, la police est venue sur le chantier où il travaillait et a arrêté au moins dix travailleurs, certains avec papiers et certains sans papiers, originaires d’Afrique de l’Ouest et d’Afrique centrale :

      Il y avait des Tunisiens et des Marocains, mais ils n’ont arrêté que des personnes à la peau noire. Ils nous ont demandé de quel pays nous venions mais n’ont pas demandé nos papiers [...]. Nous avons résisté à l’arrestation et une partie de la ville est sortie [...] et nous jetait des pierres [...]. La police nous a frappés avec des matraques [...] Ils nous ont emmenés dans un poste de police à Tunis et nous ont détenus pendant cinq heures, sans demander à voir nos papiers [...]. Ils nous ont ensuite relâchés et nous ont demandé de quitter la Tunisie. [...] La police a également volé mon iPhone 12, et d’autres ont dit que la police avait pris leur argent.

      Un Malien de 24 ans sans papiers a déclaré qu’avant son rapatriement en mars, il travaillait dans un restaurant à Tunis. En février, la police l’a arrêté alors qu’il rentrait du travail avec un autre Malien, mais n’a procédé à aucune vérification légale. Il a raconté :

      Ils ne m’ont pas demandé mes papiers [...]. S’ils voient un Noir, ils le prennent et l’emmènent dans leur voiture. Pendant l’arrestation, des Tunisiens regardaient et criaient : « Vous, les Noirs, vous devez partir… ». La police a pris l’argent [de mon ami] [...], environ 600 dinars [...]. Ils nous ont gardés pendant quatre jours [au poste de police]. [...] Nous dormions par terre [...]. Ils ne nous donnaient que du pain et de l’eau deux fois par jour. [...] [...] Nous avons trouvé une centaine d’Africains [détenus] là-bas [...]. Ils nous considéraient comme si nous n’étions pas des humains.

      Un Camerounais de 24 ans vivant à Sfax sans papiers a déclaré qu’à plusieurs reprises, début 2023, la police avait fait des descentes dans la maison qu’il partageait avec plusieurs migrants et avait pris leurs téléphones et leur argent.

      Les abus commis par la police ne datent pas seulement de 2023. Un Malien de 31 ans a déclaré qu’en décembre 2021, un groupe de 6 à 8 policiers l’avait trouvé endormi dans une gare et l’avait agressé avant de l’arrêter pour entrée irrégulière, dans une ville proche de la frontière algérienne : « Ils m’ont frappé à plusieurs reprises avec leurs matraques, jusqu’à ce que je tombe, puis ils m’ont donné des coups de pied ».

      Un Malien de 32 ans, rapatrié en mars, a déclaré que la police de Sfax lui avait pris deux de ses téléphones à la mi-2022, en plus de l’argent que transportait son ami. « Les policiers, s’ils voient une personne noire avec un petit sac, ils fouillent le sac. Lorsqu’ils trouvent de l’argent [ou des objets de valeur], ils le prennent », a-t-il témoigné.

      Répression policière contre des réfugiés participant à des manifestations

      Après le discours du président Saeid un grand nombre de réfugiés, de demandeurs d’asile et d’autres personnes devenues sans abri à la suite d’évictions ou craignant pour leur sécurité ont campé devant les bureaux du HCR et de l’OIM au Lac 1, à Tunis. Parmi les personnes qui se trouvaient devant le HCR, certaines ont barricadé la zone et ont commencé à protester. Le 11 avril, après l’entrée de force de plusieurs personnes dans une partie des locaux du HCR, la police est arrivée pour disperser le camp. La police a fait usage de gaz lacrymogènes et de la force, et certaines personnes ont jeté des pierres sur des voitures ou la police.

      « En réaction, la police a fait un usage disproportionné de la violence [...], en particulier compte tenu du fait que des personnes vulnérables se trouvaient là, ainsi que des familles et des jeunes enfants », a déclaré Elizia Volkmann, une journaliste qui s’est rendue sur les lieux plus tard dans la journée. Human Rights Watch a écouté un entretien enregistré par Elizia Volkmann le 11 avril avec un témoin des événements, qui a déclaré avoir vu la police gifler une Soudanaise avant que la situation ne dégénère, et que la police avait battu les gens avec des bâtons et tiré « de nombreux coups de gaz lacrymogène ».

      Un demandeur d’asile soudanais, qui campait devant le bureau du HCR depuis novembre 2022, a déclaré à Human Rights Watch que lui et d’autres avaient barricadé la zone pour se protéger, et que le 10 avril, ils étaient entrés dans les locaux du HCR « pour boire de l’eau et utiliser les toilettes ». Selon ses dires, le 11 avril, « C’est la police qui a commencé les violences. Ils [...] sont venus et ont tiré des gaz [lacrymogènes] sur nous. Et c’était la première fois que les policiers nous jetaient des pierres — j’ai vu deux d’entre eux le faire ». Il a raconté avoir ensuite vu des personnes jeter à leur tour des pierres sur la police. Il a précisé qu’après avoir fui la zone, lui et d’autres ont été battus et arrêtés dans la rue par la police.

      La police a d’abord placé 80 à 100 personnes — dont des femmes et des enfants — en garde à vue au poste de police de Lac 1 et détruit le camp. Plus tard dans la journée, ils ont libéré le demandeur d’asile soudanais, entre autres, mais selon un représentant d’Avocats sans frontières (ASF), ils ont transféré 31 hommes à la prison de Mornaguia au titre de divers chefs d’accusation, notamment pour désobéissance et agression. ASF a fourni une assistance juridique aux accusés, qui ont été libérés fin avril, les charges ayant été abandonnées pour la moitié du groupe et l’autre moitié étant en attente d’une audience en septembre, a déclaré le représentant d’ASF.

      Un demandeur d’asile sierra-léonais, qui campait devant l’OIM et le HCR depuis son expulsion de son appartement en février, figurait parmi les personnes arrêtées. Human Rights Watch a examiné un document officiel confirmant sa libération de la prison de Mornaguia fin avril. Lors de la répression du camp le 11 avril, il a déclaré avoir « vu un [demandeur d’asile] libérien se faire battre par la police [...] il y avait tellement de sang ». Il affirme ne pas avoir participé à des actes de violence, mais a enregistré des vidéos et passé des appels téléphoniques. Il a raconté que la police l’avait attrapé, arrêté et torturé en détention :

      Dans le véhicule de police, un [agent] a commencé à m’étrangler pour me forcer à ouvrir mon téléphone. [...] Ils m’ont emmené au poste de police de Lac 1. Ils ont séparé trois d’entre nous, moi, un [demandeur d’asile] sierra-léonais et le Libérien [blessé] [...].

      [Ils] nous ont placé dans une pièce non ouverte au public, où ils nous ont torturés. Deux [agents en uniforme] ont utilisé [...] un bâton en bois [...] pour nous frapper à la tête, aux chevilles, là où se trouvent les os [...]. Deux [autres agents en uniforme] nous ont transmis des chocs électriques avec des appareils comme des tasers [...]. Un [homme en civil] [...] m’a dit en anglais : « Vous [...]dites que la Tunisie n’est pas sûre [...]. Vous êtes des putains d’immigrés et de réfugiés, vous voulez gâcher notre image » [...] ». Les autres policiers nous ont insultés en arabe [...]. Ils nous ont torturés [...] pendant environ 45 minutes.

      Un réfugié soudanais a également déclaré à Human Rights Watch avoir été battu et avoir reçu des chocs électriques au poste de police de Lac 1, avant d’être transféré à la prison de Mornaguia.

      Un Tunisois qui a aidé plusieurs hommes à obtenir une aide médicale après leur libération de la prison de Mornaguia en mai, a déclaré que deux réfugiés, un Érythréen et un Centrafricain, avaient fait état de l’usage d’armes électriques, telles que des tasers, par la police à leur encontre lors de leur arrestation. Selon ses dires, deux réfugiés érythréens lui avaient également raconté qu’au poste de Lac 1, « la police les [avait] battus [...] hors du champ de la caméra ».

      Le demandeur d’asile soudanais qui a été détenu puis relâché le même jour a déclaré avoir vu plusieurs détenus africains emmenés dans une autre pièce du commissariat et les avoir entendus pleurer de douleur ; plus tard, certains lui ont dit que la police avait utilisé des appareils pour leur administrer des chocs électriques. Les violences policières l’ont convaincu de quitter la Tunisie : « Je demande à des personnes que je connais de m’aider à traverser la mer, à m’éloigner de ce pays ».

      Abus des garde-côtes et interceptions en mer

      Sur les six personnes interrogées par Human Rights Watch qui avaient tenté une ou plusieurs traversées en bateau vers l’Europe, cinq avaient subi des retours forcés de leurs bateaux. De telles mesures de rétention ou de retour forcé des personnes, appelées « pullbacks » en anglais – des actions des autorités visant à empêcher les gens de quitter un pays en dehors des points de passage officiels de la frontière, y compris les retours forcés de bateaux en partance – peuvent constituer une atteinte au droit des personnes à demander l’asile et à quitter tout pays, qu’il s’agisse du leur ou d’un autre, et les piéger dans des situations abusives.

      Cinq personnes interrogées ont également décrit des abus commis par les autorités tunisiennes près de Sfax entre 2019 et 2023, pendant ou après des interceptions en mer (quatre personnes) ou des sauvetages (une personne).

      Salif Keita, un Malien de 28 ans rapatrié en mars, a déclaré avoir tenté une traversée en bateau depuis Sfax en 2019. « Les garde-côtes nationaux ont pris notre moteur et nous ont laissés bloqués en mer », a-t-il relaté. « Nous avons dû casser des morceaux de bois du bateau [...] pour revenir en pagayant ».

      Un Ivoirien de Sfax a tenté un voyage en mer en janvier 2022. Il a déclaré que les garde-côtes avaient intercepté le bateau et avaient frappé les passagers à coups de bâton. Pendant qu’il était en mer, il a également vu un bateau de migrants, qui transportait également des enfants, renversé par des vagues que provoquait un bateau des garde-côtes.

      Un Malien de 32 ans avait également tenté un voyage en mer. Il était entré régulièrement en Tunisie, mais son tampon d’entrée avait expiré. Ne pouvant obtenir de carte de séjour, il a embarqué en décembre 2021 près de Sfax, sur un bateau qui transportait une cinquantaine d’Africains de l’Ouest et du Centre. Les autorités les ont interceptés dans les 15 minutes qui ont suivi leur départ. Il a raconté : « Ils ont pris l’argent ou les téléphones des gens [...]. Ceux qui n’avaient ni l’un ni l’autre, ils ont frappés et insultés. J’ai même vu un [agent] frapper une des femmes [...]. Ils ont pris mon téléphone ».

      Un Camerounais de 24 ans a déclaré qu’en avril 2023, après le retournement de leur bateau près de Sfax, lui et d’autres personnes avaient été secourus par des garde-côtes qui, une fois à terre, s’étaient mis à les insulter, à leur cracher de dessus et à les battre avant de les relâcher.

      Moussa Kamara, un Malien de 28 ans vivant à Sfax, était entré en Tunisie en mai 2022. En décembre 2022, il a embarqué près de Sfax avec environ 25 Africain·e·s de l’Ouest. « Au bout de 30 minutes à peine, les garde-côtes sont arrivés [en positionnant leur bateau à côté du nôtre] et ont dit “Stop !”. Nous ne nous sommes pas arrêtés, alors l’un des gardes a commencé à nous frapper avec un bâton [...]. Ils ont frappé trois hommes, dont moi… Un de mes amis a été blessé ». Les autorités les ont emmenés à Sfax puis les ont relâchés.

      Après cette expérience, Kamara est resté en Tunisie, mais le discours du président Saied et ses conséquences l’ont fait changer d’avis : « J’ai décidé d’essayer encore [un voyage en mer]. Le président nous a dit de quitter le pays. Si je ne pars pas, je ne trouverai pas une maison ou un travail ».

      « Le président a créé un climat d’horreur pour les migrants en Tunisie, si bien que beaucoup se précipitent pour partir », a expliqué Ben Amor, du Forum tunisien, FTDES. « Ces derniers mois, les garde-côtes ont commencé à utiliser des gaz lacrymogènes pour obliger [les bateaux] à s’arrêter [...]. Ils se sont visés sur les migrants qui essaient de les filmer [...] ; ils confisquent les téléphones après chaque opération ».

      Une bénévole d’Alarm Phone à Tunis a déclaré que son équipe avait recueilli des témoignages similaires : « Depuis 2022, il y a des comportements récurrents des garde-côtes tunisiens en attaquant des bateaux[...] ; ils utilisent des bâtons pour frapper les gens, dans certains cas, des gaz lacrymogènes, [...] ils tirent en l’air ou en direction du moteur [...] et parfois [...] ils laissent les gens bloqués [en mer dans des bateaux hors d’usage] ». De nombreuses pratiques de ce type ont été citées dans une déclaration de décembre de plus de 50 groupes en Tunisie, et à nouveau en avril.

      Soutien au contrôle des migrations de l’Union européenne

      Entre 2015 et 2021, l’Union européenne a alloué 93,5 millions d’euros à la Tunisie sur son « Fonds d’affectation spéciale d’urgence pour l’Afrique » (EUTF), qui vise à lutter contre la migration irrégulière, les déplacements et l’instabilité. Ce montant comprend 37,6 millions d’euros destinés à la « gestion des frontières » et à la lutte contre le « trafic de migrants et la traite des êtres humains ». Un document de l’UE de février 2022 indiquait que le financement de la lutte contre le trafic et la traite de migrants « [prévoyait] l’équipement et la formation des agents des forces de sécurité intérieure, ainsi que de la douane tunisienne ».

      Ce document indiquait également que l’UE « désignerait » jusqu’à 85 millions d’euros en tant que somme à allouer à des projets liés à la migration en Tunisie en 2021 et 2022. Il ne précisait pas ce qui avait déjà été dépensé ; cependant, selon un document de l’UE de février 2021, « un programme de soutien très important, financé par l’UE et bénéficiant aux garde-côtes tunisiens, [était] en cours de mise en œuvre ». Sur les 85 millions d’euros, 55 millions auraient pu être alloués au soutien du contrôle des migrations en Tunisie, selon la répartition fournie dans le document de 2022, à savoir : 25 millions d’euros pour la gestion des frontières, y compris le soutien aux garde-côtes ; 6-10 millions d’euros pour le « gouvernance » des migrations et la protection ; 20-25 millions d’euros pour la migration légale et la mobilité du travail ; 12-20 millions d’euro pour la lutte contre le trafic et la traite de migrants ; et 5 millions d’euros pour des retours.

      Le document de 2022 détaille également le soutien bilatéral important apporté à la Tunisie par l’Italie, l’Espagne, la France, l’Allemagne et d’autres États membres de l’UE. En plus de son « fonds pour la coopération migratoire (environ 10 millions d’euros) », l’Italie a fourni des équipements (véhicules, bateaux, etc.) « pour une valeur totale de 138 millions d’euros depuis 2011 », ainsi qu’une « assistance technique liée au contrôle des frontières (2017-2018) [...] pour un total de 12 millions d’euros », qui comprenait un soutien à la police et à la garde nationale tunisiennes. L’Allemagne a également fourni des bateaux et des véhicules, et l’Espagne du matériel informatique.

      Le Programme plurinational 2021 - 2027 sur les migrations pour le voisinage méridional de l’UE, qui englobe la Tunisie, comporte des éléments positifs tels que le soutien à l’élaboration de politiques d’asile, des voies légales de migration et le dialogue avec la société civile, mais il met toujours l’accent sur le soutien aux « mesures répressives » et aux « autorités frontalières et garde-côtes » pour le contrôle des frontières. De plus, les indicateurs de projet sont problématiques, puisqu’ils confondent interceptions et sauvetages en mer (« nombre de migrants interceptés/secourus grâce à des opérations de recherche et de sauvetage en mer » et « sur terre »).

      Les responsables politiques européens ont proposé à plusieurs reprises divers partenariats migratoires à la Tunisie visant notamment à mettre en place des centres de traitement délocalisés et à conclure des accords avec des « pays tiers sûrs », ainsi que des accords susceptibles de permettre le retour des ressortissants de pays tiers ayant transité par la Tunisie.

      Le droit international reconnaît la possibilité de désigner un pays tiers sûr, ce qui permet aux pays d’accueil de transférer des demandeurs d’asile vers un pays de transit ou vers un autre pays qui est en mesure d’examiner équitablement leurs demandes de statut de réfugié et de les protéger de façon adéquate. Les lignes directrices du HCR énumèrent les conditions de ces transferts, y compris le respect des normes du droit des réfugiés et des droits humains et « la protection contre les menaces à leur sécurité physique ou à leur liberté ». La directive sur les procédures d’asile de l’UE exige que les États non-membres de l’UE remplissent des critères spécifiques pour être désignés comme « sûrs », notamment « l’absence de risque de préjudice grave ».

      Compte tenu des abus documentés commis par les forces de sécurité et des attaques xénophobes contre les migrants, les demandeurs d’asile et les réfugiés en Tunisie, ainsi que de l’absence d’une loi nationale sur l’asile, il semble que la Tunisie ne réponde pas aux critères de l’UE définissant un pays tiers sûr. Les Africains noirs, en particulier, ne devraient pas être renvoyés ou transférés de force en Tunisie.

      Recommandations

      - Le Parlement européen, dans ses négociations avec le Conseil de l’UE sur le Pacte européen sur la migration et l’asile, devrait chercher à limiter l’utilisation discrétionnaire du concept de « pays tiers sûr » par les différents États membres de l’UE. Les institutions européennes et les États membres devraient convenir de critères clairs pour désigner un pays comme « pays tiers sûr » aux fins du retour ou du transfert de ressortissants de pays tiers, afin de garantir que les États membres de l’UE n’érodent pas les critères de protection dans leur application du concept, et déterminer publiquement si la Tunisie répond à ces critères, en tenant compte des agressions et des abus dont les Africains noirs sont continuellement la cible dans ce pays.
      - L’UE et les États membres concernés devraient suspendre le financement et les autres formes de soutien aux forces de sécurité tunisiennes destinées au contrôle des frontières et de l’immigration, et conditionner toute aide future à des critères vérifiables en matière de droits humains.
      – Le gouvernement tunisien devrait enquêter sur tous les abus signalés à l’encontre des migrants, des demandeurs d’asile et des réfugiés commis par les autorités ou les civils ; veiller à ce que les responsables rendent des comptes, notamment par le biais d’actions en justice appropriées ; et mettre en œuvre des réformes et des systèmes de surveillance au sein de la police, de la garde nationale (y compris les garde-côtes) et de l’armée afin de garantir le respect des droits humains, de mettre fin à la discrimination raciale ou à la violence, et de s’abstenir d’attiser la haine raciale ou la discrimination à l’encontre des Africains noirs.

      https://www.hrw.org/fr/news/2023/07/19/tunisie-pas-un-lieu-sur-pour-les-migrants-et-refugies-africains-noirs

      #rapport #HRW #human_rights_watch

    • Von Angst getrieben

      Rassistische Ausschreitungen gegen Schwarze Menschen zwingen immer mehr auf die lebensgefährliche Reise über das Mittelmeer.

      Die Bedingungen, unter denen Schwarze Menschen in Tunesien leben, sind prekär. Insbesondere wenn sie in das Land migriert sind und dort illegalisiert leben, also ohne offiziellen Aufenthaltsstatus und damit meist ohne Zugang zu sozialen Dienstleistungen. Der zunehmend rassistische Diskurs im Land, lässt ihre Situation noch unsicherer werden. Im Herbst 2022 hatte die Nationalistische Partei Tunesiens ihre rassistischen Äußerungen in sozialen Medien massiv verstärkt. Auf ihrer Website spricht sie von „einer Millionen Migranten“ die sich im Land befänden und auf europäisches Geheiß hin vorhätten, das Land zu übernehmen. Die Partei und ihre Hetze spielten bis kürzlich in der politischen Landschaft Tunesiens keine große Rolle. Laut Angaben ihres Vorsitzenden Sofien Ben Sghaïer hat die 2018 gegründete Partei derzeit nur drei Mitglieder. Relevant wurde ihr politisches Denken erst, als es vom tunesischen Präsidenten Kaïs Saïed aufgegriffen und zur Regierungslinie erklärt wurde.

      Ein Verständnis dafür, wie dies geschehen konnte, ist möglich, wenn man die politisch-ökonomische Lage betrachtet, die sich seit Juli 2021 stark verändert hatte: Präsident Kaïs Saïed löste damals die Regierung und die Versammlung der Volksvertreter*innen per Staatsstreich auf. Die sozioökonomische Lage ist in Tunesien extrem angespannt. Der Staat steht angesichts gescheiterter Verhandlungen mit dem IWF vor dem Bankrott, die Inflation liegt bei 10 Prozent, die Arbeitslosigkeit bei 15 Prozent und die Jugendarbeitslosigkeit noch weit höher. In diesem Klima finden rassistische Thesen wie die der Nationalistischen Partei Tunesiens Anklang.

      Als der Anti-Schwarze Rassismus in Tunesien dann in Form einer Pressemitteilung von Präsident Saïed am 21. Februar 2023 aufgegriffen wurde – so sprach er von einem „Plan“, der aufgesetzt worden sei, um die „demographische Zusammensetzung Tunesiens zu verändern“ und rief zu „dringenden Maßnahmen“ auf, „um dieses Phänomen zu stoppen“ – eskalierte die Situation. In den Tagen nach der Erklärung griffen vor allem Gruppen marginalisierter junger Männer in verschiedenen Städten gezielt Schwarze Menschen an. Einige wurden schwer verletzt, als ihre Wohnungen oder Häuser angezündet wurden. Eine bis heute unbekannte Zahl von Menschen ist in diesen Tagen verschwunden. Schwarze Menschen verloren von heute auf morgen ihre Arbeit und wurden von ihren Vermieter*innen vor die Tür gesetzt. Viele verließen ihre Wohnungen über Tage nicht mehr, aus Angst, ebenfalls Opfer der Angriffe zu werden. Auch gültige Aufenthaltspapiere schützten Schwarze Menschen nicht vor der Gewalt, zahlreiche Menschen wurden unabhängig von ihrem Aufenthaltsstatus verhaftet, die Angst vor Polizeikontrollen und willkürlichen Festnahmen besteht bis heute.

      Aya Koffi* aus Côte d’Ivoire („Elfenbeinküste“), die seit mehreren Jahren in Tunesien lebt, hat die Angriffe in der Hauptstadt Tunis miterlebt: „Sie griffen die Häuser an, sie griffen die Familien an, sie griffen die Kindertagesstätten an, dort wo die Kinder der Schwarzen waren. Es gab Leute, die mit Babys im Gefängnis landeten, Kinder, die im Gefängnis landeten. Es gab Frauen, die vergewaltigt wurden. Die Tunesier haben die Häuser und Wohnungen der Schwarzen in Brand gesetzt. Jeder versteckte sich. Ich habe mich zwei Wochen lang zu Hause eingesperrt und keinen Fuß vor die Tür gesetzt, weil ich so viel Angst hatte.“
      Schiffsunglücke, Leichen am Strand und anonyme Grabsteine

      Aus Angst um ihr Leben und weil ihnen infolge der rassistischen Übergriffe jede Lebensgrundlage entzogen wurde, haben sich seit Februar 2023 viele illegalisierte und nach Tunesien migrierte Personen aus subsaharischen Ländern für eine Überquerung des Mittelmeers entschieden. Die italienische Insel Lampedusa ist von Teilen der tunesischen Küste nur 150 Kilometer entfernt. Vor allem aus der Hafenstadt Sfax haben die Abfahrten stark zugenommen – und mit ihnen die Todeszahlen. Seit Kaïs Saïed Erklärung sind mehrere Hundert Menschen nach einer Abfahrt von Tunesien im Mittelmeer ertrunken, viele weitere werden vermisst. Immer wieder werden Leichen aus dem Wasser geborgen oder an den Stränden angespült.

      Laut Faouzi Masmoudi, Sprecher des Gerichts in Sfax, hat das Universitätskrankenhaus der Stadt keine Kapazitäten mehr: Allein am 25 April wurden fast 200 Leichen in das Krankenhaus gebracht. Nur wenige Tote können identifiziert werden. Einige von ihnen sind auf dem christlichen Friedhof in Sfax begraben. Die meisten jedoch bleiben anonym: manche bekommen einen Grabstein, auf dem nur das Datum des Leichenfundes steht.

      Aya hat ein solches Schiffsunglück überlebt, ihr Mann kam dabei ums Leben. Eine Mitarbeiterin der Internationalen Organisation für Migration (IOM) bestätigte, dass der Körper ihres Mannes geborgen wurde. Doch trotz Nachfragen bei der IOM und der Botschaft der Côte d’Ivoire und trotz Protesten vor der Leichenhalle konnte Aya den Körper ihres Mannes nicht mehr sehen. Bis heute ist nicht klar, was mit ihm passiert ist. Kein Einzelfall. Aya erzählt von ihrer Nachbarsfamilie in Tunis: „Viele sind aus Angst, nicht mehr in Tunesien bleiben zu können, auf das Meer hinausgefahren. Ganze Familien sind bei Schiffbrüchen ums Leben gekommen. Die Tür meiner Nachbarin, mit der ich alle Freuden geteilt, mit der ich zusammen gegessen habe, bleibt verschlossen. Sie, ihr Mann und ihr Baby werden vermisst. Wir wissen, dass sie mit dem Boot aufgebrochen sind.“

      Infolge der rassistischen Ausschreitungen haben viele Menschen Wohnung und Einkommen verloren. Rund 250 Menschen, hauptsächlich aus subsaharischen Herkunftsländern, hatten deshalb ein Lager vor dem Gebäude des UN-Flüchtlingskommissariats UNHCR in der Hauptstadt Tunis aufgeschlagen. Sie nennen sich „Refugees in Tunisia“ und fordern bis heute ihre Evakuierung in ein sicheres Land. Am 11. April wurde das Protestcamp vor dem UNHCR-Gebäude gewaltvoll durch die tunesische Polizei geräumt und bis zu 150 Menschen festgenommen. Die Räumung wurde nach Angaben des tunesischen Innenministeriums durch das UNHCR-Büro selbst veranlasst. Dabei wurden mehrere Menschen, darunter auch Kinder, durch den Einsatz von Tränengas verletzt. 30 Personen wurden der „öffentlichen Unruhe“ beschuldigt und für mehrere Wochen inhaftiert. Die Festgenommenen berichteten von Schlägen und Folter mit Elektroschocks. Die meisten der Protestierenden harren seit der Räumung des UNHCR-Camps nun vor dem Gebäude der IOM aus, wo sie ohne Zugang zu Wasser und Sanitäranlagen weiterhin für ihre Evakuierung kämpfen.
      Europas Verantwortung

      Am 25. Juli 2022, ein Jahr nach dem Staatsstreich Präsident Kaïs Saïeds, wurde zwar eine neue Verfassung per Referendum bestätigt. Laut Expertise eines tunesischen Juristen mit Spezialisierung auf Menschenrechte, der aus Sicherheitsgründen anonym bleiben will, ähnelt die neue Konstitution im Bereich der kollektiven und individuellen Freiheiten formell der vorherigen, doch in der Praxis werden diese Rechte aktuell stark eingeschränkt: „Der Beweis dafür sind Oppositionelle und Journalist*innen, die derzeit im Gefängnis sitzen, und Menschenrechtsverletzungen im Zusammenhang mit sehr vulnerablen Personen, insbesondere Menschen die nach Tunesien migriert sind. Zusammenfassend kann man also sagen, dass es eine Beschränkung der Menschenrechte gibt.“

      Eine zentrale Rolle für die rassistische Eskalation spielen aber auch die EU und ihre Mitgliedstaaten. Als wichtigste Handelspartnerin beeinflusst die EU die Regierungen der Maghreb-Länder erheblich und nimmt besonders Einfluss auf die Gestaltung ihrer Migrationspolitiken. Bereits seit den 1990er Jahren liegt der Fokus auf Tunesien und seit 2011 übt die EU zunehmend Druck aus, um das Land noch stärker in das EU-Grenzregime zu integrieren und Migrationsbewegungen durch und aus Tunesien langfristig zu beenden. Im Rahmen immer wieder neu aufgelegter Programme wurden seitdem 3 Milliarden Euro gezahlt. Schwerpunkte sind unter anderem der Aufbau „engerer Beziehungen zwischen den beiden Ufern des Mittelmeers und die Steuerung von Migration und Mobilität“. Von 2014 bis 2020 wurden zum Beispiel 94 Millionen ausschließlich für migrationsbezogene Aktivitäten gezahlt, unter anderem für Tunesiens Grenzschutzsystem. Der aktuelle „EU Action Plan“ für das zentrale Mittelmeer aus dem Jahr 2022 nennt als drittes Ziel die „Stärkung der Kapazitäten Tunesiens, Ägyptens und Libyens insbesondere zur Entwicklung gemeinsamer gezielter Maßnahmen zur Verhinderung der irregulären Ausreise, zur Unterstützung eines wirksameren Grenz- und Migrationsmanagements und zur Stärkung der Such- und Rettungskapazitäten unter uneingeschränkter Achtung der Grundrechte und internationalen Verpflichtungen“.

      Von einer „Achtung der Grundrechte“ ist in der Realität wenig zu sehen. Stattdessen unterstützt die EU ein immer autoritäreres Regime, für das die Leben von Menschen, die über das Meer wollen, nichts zählen. Immer wieder sterben Menschen infolge sogenannter „Rettungsaktionen“. Bei diesen fährt die tunesische Küstenwache aus, um Boote zu „retten“, rammt diese jedoch oft, wodurch Menschen ins Meer fallen und ertrinken. Zudem gibt es vermehrt Berichte, denen zufolge Motoren von der Küstenwache konfisziert werden, die Boote mit den Menschen aber weitere Tage auf dem Wasser treiben gelassen werden, wodurch die Todeszahlen steigen. Zugleich sind rassistische Diskurse in Tunesien immer auch von Europa beeinflusst. Es wird wahrgenommen, wie Salvini, Meloni, Le Pen und auch Zemmour sprechen. „It was not Saïed who introduced anti-Black racism to Tunisia“, schreibt Haythem Guesmi, ein tunesischer Wissenschaftler und Schriftsteller in einem Artikel für Al Jazeera. Nicht nur das europäische Grenzregime wird externalisiert, sondern auch der rassistische Diskurs.

      https://www.medico.de/blog/von-angst-getrieben-19095

      #peur

  • Le travail n’est pas la santé pour les employés des TPE, Anne Bory
    https://www.lemonde.fr/sciences/article/2023/02/21/le-travail-n-est-pas-la-sante-pour-les-employes-des-tpe_6162698_1650684.html

    A un auditeur de France Inter témoignant qu’à 62 ans il ne se voyait pas « aller plus loin » tant son corps était « fatigué », le ministre du travail, Olivier Dussopt, a répondu que « l’un des aspects les plus forts, (…) c’est la capacité que nous avons les uns les autres à trouver du sens et du plaisir dans le travail qu’on occupe ». Si la réponse semble un peu décalée, il y a pourtant bien un lien entre santé, d’un côté, et sens dans le travail, de l’autre. Une recherche récente, financée par la direction de l’animation de la recherche, des études et des statistiques (Dares) du ministère du travail, montre en effet que quand le sens du travail prend une place centrale, la santé est reléguée au second plan, au point qu’elle se détériore.

    Cette recherche part d’un paradoxe : selon plusieurs enquêtes de la statistique publique portant sur la santé et les conditions de #travail, la #santé des salariés des très petites entreprises (TPE) est meilleure que dans des entreprises plus grandes, alors même que les risques professionnels y sont plus présents et que la prévention y est très faible. En 2018, les TPE représentaient 19 % des salariés en France.
    Dans Santé et travail dans les TPE. S’arranger avec la santé, bricoler avec les risques (Erès, 160 pages, 20 euros), les sociologues Fanny Darbus et Emilie Legrand expliquent d’abord que la mesure de la santé au travail par la statistique publique s’appuie sur les déclarations des salariés et sur le nombre d’arrêts maladie et d’accidents du travail et maladies professionnelles déclarés à l’administration. Passent donc sous les radars les troubles de santé qui ne donnent pas lieu à l’établissement d’un arrêt ou à la reconnaissance d’un accident du travail ou d’une maladie professionnelle, ou que les salariés taisent. Pourtant, lors d’entretiens menés face à face dans trente TPE des secteurs de la coiffure, de la restauration et du BTP, ces troubles sont « omniprésents mais comme relégués au second plan ».

    Endurance à la douleur

    C’est la « culture somatique » de ces salariés qui constitue la principale explication du fait que les TPE abritent de nombreux troubles de santé statistiquement silencieux. Cette culture est l’ensemble des normes qui conditionnent la façon dont les individus appréhendent leur corps et ce qui lui arrive, et s’y adaptent. Elle est étroitement liée et ajustée aux conditions de travail et à la position des individus sur le marché de l’emploi [ah quand même...] . Dans les TPE, cette culture somatique pousse à minimiser et supporter les douleurs sans arrêter de travailler.

    Elle trouve sa source dans l’éducation « dure au mal » reçue par la plupart des salariés rencontrés, issus de milieux populaires au sein desquels « on ne s’écoute pas ». Cette endurance à la douleur est ensuite confortée en #apprentissage puis au sein des TPE : manquer à une organisation du travail reposant sur très peu de gens apparaît comme une défaillance , susceptible de menacer une santé économique perçue comme structurellement précaire. Dans beaucoup de TPE, dirigeants et salariés travaillent ensemble. Au sein d’ambiances souvent décrites comme familiales, un #arrêt_de_travail est vite vécu comme une trahison personnelle.

    Les jeunes les plus dotés scolairement manifestent une endurance « temporaire », supportée car associée à un emploi qu’on n’occupera pas « toute sa vie ». La perspective d’un avenir meilleur dans un autre secteur, ou bien comme patron, est une évidence. En revanche, cette endurance est « contrainte » pour des salariés plus vulnérables car plus âgés, moins diplômés ou à la santé plus fragile, qui ont une conscience aiguë de leur faible employabilité . L’enjeu est alors de « tenir », jusqu’à une retraite encore lointaine. Ainsi, pour défendre sa réputation professionnelle et ne pas trahir ses collègues, tout est fait pour éviter l’arrêt maladie – y compris en mobilisant plutôt des jours de congé. Le sens dans le travail est donc loin d’empêcher l’usure des corps : il fait plutôt passer la santé après l’emploi.

    c’est un comme la vie quoi, les apories statistiques en disent souvent plus que les statistiques elles-mêmes

    #statistiques #corps #retraites #accidents_du_travail #maladies_professionnelles

  • Non si fermano le riammissioni al confine tra Italia e Austria

    Scarsa informativa legale, assenza di mediatori, mancanza di provvedimenti scritti: al Brennero l’attività delle polizie dei due Paesi nega i diritti alle persone in transito. Le Ong denunciano le violazioni e chiedono la fine dei controlli

    Brennero, primi giorni dell’anno 2023. Un operatore del servizio Assistenza umanitaria al Brennero -gestito dal Gruppo Volontarius in collaborazione con la Caritas di Bolzano-Bressanone- attende l’arrivo del treno regionale da Innsbruck al binario tronco Nord. Di solito, quando incontra un migrante in transito gli si avvicina per un primo orientamento legale sulle normative riguardo l’iter di protezione internazionale e la regolare permanenza sul territorio. Ma in presenza delle forze dell’ordine la sua possibilità di intervento è più limitata. “In quel caso è molto difficile avvicinarsi attivamente alle persone per dare informazioni. La possibilità di presentare richiesta d’asilo non viene menzionata dalle forze dell’ordine, che si limitano a far salire le persone intercettate sul primo treno regionale diretto in Austria, se la persona proviene da lì, o in Italia se sta tentando il percorso inverso”, spiega l’operatore.

    È quello che accade dopo la perquisizione dell’Eurocity 81 delle dieci, proveniente da Monaco di Baviera e diretto a Bologna. All’arrivo del treno le forze dell’ordine italiane operano secondo una prassi ben consolidata, con l’impiego di sette agenti di polizia e tre militari. In otto salgono a bordo del treno e procedono con il controllo delle carrozze, mentre due militari restano sul binario seguendo il percorso dei loro colleghi all’interno. L’operazione dura meno di dieci minuti. Due cittadini pakistani vengono fatti scendere. Senza un servizio di mediazione che permetta loro di comprendere quanto stia accadendo, né la consegna di alcun provvedimento, i due vengono scortati al binario tronco Nord. Qui sono sorvegliati a vista da due agenti di polizia e due militari. All’arrivo del regionale proveniente da Innsbruck vengono caricati sul convoglio che dopo cinque minuti riparte in direzione Nord.

    Ogni giorno al Brennero circolano dieci Eurocity della compagnia austriaca ÖBB: cinque percorrono la tratta Bologna-Monaco, gli altri viaggiano in direzione opposta. Al Brennero rimangono fermi quindici minuti. In questo lasso di tempo le forze dell’ordine italiane entrano in azione. Sui treni Eurocity diretti a Monaco, inoltre, tre agenti della polizia austriaca salgono sul convoglio già al Brennero. Si posizionano in coda e procedono con i controlli appena varcato il confine. Le persone sprovviste di un regolare titolo di soggiorno sul territorio austriaco vengono fatte scendere alla prima stazione, Gries am Brenner, e lì, dopo una rapida perquisizione -e in alcuni casi una multa da cento a mille euro che si traduce nel sequestro di soldi e spesso del telefono cellulare, una pratica consentita dalla normativa sull’immigrazione austriaca (articolo 120, par. 1 e 1a del Fremdenpolizeigesetz)- vengono caricate sui furgoni della gendarmeria e riportati subito in Italia.

    Le modalità di controllo sistematiche mostrano che le polizie italiana e austriaca sono particolarmente attente nel colpire i movimenti secondari dei migranti su questa striscia di confine. “Nei mesi invernali le persone soggette a riammissione dall’Italia verso l’Austria e nella direzione opposta sono in media dieci al giorno”, spiega Manocher Moqimi, referente del servizio Assistenza umanitaria al Brennero. Mentre il “Consuntivo della Polizia ferroviaria 2022” rivela che lo scorso anno “le attività svolte in forma congiunta con le polizie austriaca e tedesca lungo le fasce confinarie di Brennero e Tarvisio, hanno permesso di controllare 4.474 stranieri, di cui 949 rintracciati in posizione irregolare”.

    Le riammissioni lungo il confine del Brennero avvengono sulla base dell’accordo bilaterale sottoscritto da Italia e Austria il 7 novembre 1997. Matteo Astuti, operatore legale dell’Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione (Asgi), spiega che “le riammissioni dovrebbero essere effettuate secondo le procedure previste dall’accordo tra i due Paesi, che comprendono sempre la notifica di un provvedimento scritto alle persone soggette a riammissione, il diritto all’informazione e a poter manifestare la volontà di richiedere protezione internazionale”. Quando questi diritti non vengono rispettati la procedura di riammissione si configura come illegittima. Come sottolineato dal report “Lungo la rotta del Brennero”, pubblicato da Antenne migranti, Fondazione Langer e Asgi già nel 2017, le riammissioni informali al Brennero avvengono in contrasto con l’articolo 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, perché attuate “sulla base di decisioni delle autorità di frontiera non scritte, in nessun modo formalmente notificate […] e in alcun modo contestabili e impugnabili di fronte alle autorità giurisdizionali astrattamente competenti”.

    Particolarmente problematico poi è il tema dei controlli effettuati dalle forze di polizia. Italia e Austria hanno ripristinato formalmente quelli sulle rispettive frontiere solo nel periodo tra novembre 2015 e maggio 2016, e pertanto “la presenza di controlli sistematici alle frontiere interne viola l’articolo 22 del Codice Schengen che non prevede ‘verifiche’ per chi attraversa la frontiera qualunque sia la sua nazionalità”, chiarisce Astuti. Al Brennero, inoltre, il diritto all’informazione viene costantemente leso. Il servizio di mediazione, che dovrebbe essere garantito dagli accordi tra il governo italiano l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) è assente. A volte gli operatori di Assistenza umanitaria al Brennero sono chiamati dalle forze di polizia a svolgere la mediazione, visto che alcuni collaboratori del servizio conoscono lingue quali l’arabo e il farsi. Limitandosi a raccogliere informazioni da tradurre, però, gli enti di tutela corrono il rischio di essere strumentalizzati dalla pubblica autorità per giustificare una pratica eseguita in maniera illegittima.

    Per ovviare a situazioni come queste Asgi ha iniziato un ciclo di formazioni per gli operatori del servizio del Brennero. “In questo modo possono disporre di più strumenti per comprendere quando la polizia di frontiera agisce in maniera illegittima”, spiega l’operatore legale che auspica anche il ripristino di un’attività di monitoraggio indipendente, nel solco delle precedenti esperienze “Brenner/o border monitoring” e “Antenne migranti” -operative rispettivamente dal 2014 al 2016 e dal 2016 al 2020- per testimoniare quanto accade su questa frontiera e denunciare le violazioni dei diritti delle persone migranti. “Le persone cercheranno sempre di passare: chi non ce la fa la prima volta spesso ci riprova ancora e ancora -afferma l’operatore del Gruppo Volontarius-. Forse all’ennesimo tentativo riuscirà a varcare la frontiera. Ma in che modo e a quale prezzo?”.

    https://altreconomia.it/non-si-fermano-le-riammissioni-al-confine-tra-italia-e-austria

    #frontière_sud-alpine #Brenner #Italie #Autriche #réadmission #push-backs #refoulements #Alpes #migrations #asile #réfugiés

  • Un jeune sur quatre vit sous le seuil de pauvreté | Mediapart | 10.02.23

    https://www.mediapart.fr/journal/france/100223/un-jeune-sur-quatre-vit-sous-le-seuil-de-pauvrete

    Une étude de la Dress publiée ce vendredi [revisite des données de 2014 et] indique que 26 % des jeunes de 18-24 ans vivent sous le seuil de pauvreté. En mobilisant plusieurs outils de mesure, l’organisme démontre que le taux de pauvreté monétaire grimpe à 40 % pour ceux qui sont étudiants et habitent seuls. Un phénomène jugé « très largement structurel ».

    Dress = Direction de la recherche, des études, de l’évaluation et des statistiques

    https://drees.solidarites-sante.gouv.fr/publications-communique-de-presse/les-dossiers-de-la-drees/mesurer-le-niveau-de-vie-et-la-pauvrete

    Calculer la précarité des jeunes reste un défi, indique la Drees qui a voulu produire une radiographie, plus fine et plus sensible. Pour ce faire, elle a compilé et interprété les données issues de l’« enquête nationale sur les ressources des jeunes » (ENRJ) réalisée en 2014.

    Si les chiffres sont anciens, la Drees propose une nouvelle mesure du niveau de pauvreté des jeunes adultes en embrassant trois dimensions : monétaire, en conditions de vie et subjective. Cela permet de ne pas sous-estimer le nombre de jeunes adultes pauvres et de prendre en compte « l’hétérogénéité » de leurs ressources.
    [...]
    L’autre enseignement intéressant de cette étude concerne la dimension genrée de la pauvreté. Être une femme, pour les jeunes de 18 à 24 ans, n’entraîne pas de risques supérieurs d’être sous le seuil de pauvreté que les hommes du même âge. « L’entrée dans la vie adulte constitue une période d’instabilité économique qui touche les femmes comme les hommes : les écarts de niveau de vie selon le sexe sont encore faibles, une fois contrôlées les trajectoires éducatives, les situations professionnelle et résidentielle. »

  • Scarsa programmazione, posti vuoti e persone al freddo: così ai migranti è negata l’accoglienza

    I Centri di accoglienza straordinaria non garantiscono abbastanza posti, nel frattempo il Sistema di accoglienza e integrazione di secondo livello ha oltre 1.600 “letti” disponibili e finanziati ma non utilizzati. Mentre il ministero dell’Interno ammette l’assenza di programmazione, centinaia di persone dormono ancora all’addiaccio.

    Posti vuoti, scarsa programmazione, incapacità di intervenire a fronte dell’emergenza. Mentre diversi tribunali cominciano a richiamare all’ordine prefetture e questure per le procedure illegittime nel fornire un “tetto” e i documenti ai richiedenti asilo, dati aggiornati raccolti da Altreconomia fotografano le inefficienze del sistema di accoglienza italiano per richiedenti asilo e rifugiati.

    Da un lato, da luglio a novembre 2022 si registra nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) un’improvvisa diminuzione dei posti a disposizione senza alcun intervento da parte dell’amministrazione per aumentare la capienza; dall’altro, centinaia di posti “vuoti” nel Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), pensato come “secondo livello” di intervento e trampolino per l’autonomia delle persone. A prescindere da quale sia il sistema, dai dati emerge chiaramente la scarsa programmazione da parte del ministero dell’Interno. “È come se in una scuola non si sapesse dove sono le aule, quanti banchi vuoti ci sono, quante sedie mancano. E magari, di fronte al bisogno, si scopre che un’intera aula era libera ma chiusa nell’attesa che, senza un motivo razionale, arrivasse qualcuno ad aprirla. La politica, sul tema dell’accoglienza, sceglie volontariamente di non intervenire”, spiega Michele Rossi, direttore generale del Centro immigrazione asilo e cooperazione onlus (Ciac) di Parma.

    Andiamo con ordine. Tra i posti finanziati e quelli effettivamente attivati nel sistema Sai c’è una differenza molto ampia: all’ottobre 2022 a fronte di 44.591 posti finanziati erano 35.291 quelli attivi. Questa forbice deriva dal fatto che non sempre i Comuni riescono ad attivare tutti i posti per cui avevano fatto domanda e ottenuto il finanziamento, soprattutto per la difficoltà a reperire gli alloggi (qui i dati integrali). Oltre a questa differenza si aggiunge il fatto che anche i posti disponibili non sono tutti riempiti. I “vuoti”, quello stesso mese di ottobre 2022 in cui gli effettivamente disponibili risultavano essere oltre 35mila, erano oltre 1.600 di ottobre (in lieve calo rispetto agli oltre 2.300 del gennaio di un anno fa). Quello di 1.600 posti vuoti nel Sai è un dato rilevante, trattandosi di un sistema che a regime dovrebbe risultare sempre saturo. Come è rilevante il fatto che i posti vuoti, oltre che nel Sai ordinario, sono presenti anche nei progetti dedicati al “disagio mentale e all’assistenza sanitaria specialistica e prolungata” (Dm-Ds), cioè quelli messi a disposizione dei più vulnerabili. Su un totale di 751 posti attivi, sempre a ottobre 2022, solo 598 erano occupati con una disponibilità di oltre 140 posti.

    Mancano le richieste? Tutt’altro, diversi operatori dell’accoglienza sentiti da Altreconomia raccontano altro rispetto all’inserimento nel sistema Sai. Ma il dato delle richieste effettuate e rimaste inevase dagli operatori non è purtroppo quantificabile. Il Servizio centrale, che gestisce il Sai in seno al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno, ci ha risposto infatti che il numero di richieste di inserimento non è nella disponibilità degli uffici. “Un paradosso. Con quale criterio le persone vengono inserite? -si chiede Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) di Trieste e membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione-. Mancano procedure standard e criteri di accesso al sistema che permettano di definire un procedimento che abbia le remote sembianze di quello amministrativo. Il minimo sarebbe la registrazione della richiesta e una risposta, positiva o negativa che sia. Se non è possibile avere il numero delle segnalazioni, invece, il tutto sembra lasciato al caso. Assomigliando di più a una sorta di sistema privato, non tenuto necessariamente a rispondere a logiche di equità, alimentato però da risorse pubbliche”. Anche la “popolazione” di coloro che a oggi occupano il sistema Sai è un dato rilevante.

    Nel 2022 il 24% di chi è stato accolto è richiedente asilo, il 25% titolare di status di rifugiato, il 18% un minore non accompagnato, il 4% è titolare di un documento per “casi speciali”, il 4% per motivi familiari e così via. “Un grosso contenitore che ci racconta di come i servizi sociali territoriali ‘usino’ il Sai per collocare persone di cui non vogliono occuparsi”, sottolinea ancora Schiavone. Il numero di cittadini ucraini presenti nel sistema è relativamente basso: a novembre 2022 circa 3.100, il 14% del totale.

    La disponibilità di posti nel Sai aggiunge un tassello in più rispetto a quanto ricostruito nell’inchiesta pubblicata nel dicembre 2022 su Altreconomia. Concentrandoci sul sistema dei Cas abbiamo raccontato come, nel periodo tra gennaio e giugno dello scorso anno, ai richiedenti asilo che provenivano dalla rotta balcanica venisse negato l’inserimento nei centri nonostante la disponibilità di posti su tutto il territorio nazionale (stimati in circa 9mila). Centinaia di persone dormivano in strada. La “scusa” da parte delle prefetture, allora, era l’assenza di posti, ufficialmente, e “ufficiosamente” una quota di “riserva” da tenere per chi proveniva dagli sbarchi. Abbiamo così chiesto i dati aggiornati al ministero dell’Interno (qui i dati integrali) anche in relazione alla comunicazione del 5 dicembre 2022 con cui, sempre il Dipartimento per le libertà civili, dichiarava di sospendere i trasferimenti per il regolamento di Dublino a causa della “mancanza di posti in accoglienza”.

    I dati aggiornati ottenuti dimostrano che ancora a luglio 2022, nonostante in diversi territori si lamentasse una mancanza di posti, le disponibilità c’erano: quasi 4mila se si considerano i “posti disponibili”, più di 7.600 se si prende in considerazione la differenza tra i “posti in convenzione”, sempre forniti dal ministero, e le presenze. Diversi operatori che operano all’interno dei Centri non hanno saputo fornire una spiegazione di questa differenza così ampia. A prescindere da quale dato si prenda in considerazione, la forbice diminuisce fino ad arrivare, a novembre 2022, rispettivamente a 1.311 disponibilità e 2mila in convenzione. “La diminuzione dei posti è solo in parte spiegabile attraverso l’aumento delle presenze che passano da circa 59.500 a 67.500 in sei mesi -osserva Rossi-. C’è infatti un’incongruenza nei dati forniti da Roma perché non ‘tornano’ rispetto a quanto si osserva sui territori”. Il direttore del Ciac prende come esempio quanto si verifica in Toscana: si passa da circa 2.800 nel primo semestre 2022 a 5.400 presenze nel secondo, stando ai dati forniti dal ministero ma a livello locale questo aumento si ferma a 3.500. Lo stesso succede in Emilia-Romagna: da 2.200 (gennaio-giugno) a 7mila (luglio-novembre), un dato che da indagini sul territorio si ferma a 4.800. “Questo potrebbe significare due cose: i dati erano ‘mal censiti’ prima di luglio, oppure non c’è uniformità nel contare le presenze e i posti disponibili. E quindi i dati raccolti dalle singole prefetture sono difformi rispetto a quelli inviati dal Servizio centrale”.

    A prescindere dalla incongruità dei dati, secondo Schiavone la “mancanza di programmazione è lampante ed evidente”. “Nell’estate il governo pur sapendo che il sistema si stava saturando non ha fatto nulla. Così dal 20% dei posti vuoti tenuti come ‘riserva’ si passa allo ‘zero’”. Uno zero che significa persone per molti giorni abbandonate per strada: da Torino a Trieste passando per Ancona, Parma e Milano. Una “scusa” -l’assenza di posti- non prevista a livello normativo, dato che la legge costringe le istituzioni ad attivare soluzioni d’emergenza per collocare immediatamente le persone in accoglienza. Infatti le pronunce dei giudici chiamati ad esprimersi sul tema -numerose nelle ultime settimane- specificano l’obbligo delle amministrazioni di fornire accoglienza ai richiedenti asilo che formalizzano la propria richiesta in questura. Non a caso il Tribunale di Bologna, a metà gennaio 2023, ha dato torto alla questura e alla prefettura di Parma imponendogli di garantire l’accesso alla richiesta d’asilo e ai centri di accoglienza.

    Un altro tassello fondamentale continua a essere la mancanza di trasferimenti sul territorio nazionale. A Trieste, sul confine orientale, per esempio, l’alto numero di persone presenti in città nasce anche dall’assenza di ricollocamenti dei richiedenti asilo in altre città. Ritorna quanto detto precedentemente: durante la prima fase della nostra inchiesta abbiamo raccontato come gli uffici territoriali del governo più volte rispondevano informalmente a chi chiedeva l’inserimento nei Cas di “tenere liberi” i posti per chi arrivava via mare (o via terra, da altre città). La prefettura di Bolzano ha citato sotto questo aspetto il “Piano nazionale di accoglienza” elaborato dal ministero dell’Interno come “documento” che chiariva quante persone sarebbero state trasferite nei centri di sua competenza. Questo piano è previsto dalla normativa (il decreto legislativo 142 del 2015 che regola la materia), di cui abbiamo chiesto conto al dipartimento competente. Ci è stato risposto che “le quote vengono di volta in volta ripartite tra le diverse prefetture anche in base ai posti disponibili”. Altro che programmazione: il Piano formalmente non esiste. “O il ministero non programma affatto, oppure non vuole dire pubblicamente quali criteri segue. In entrambi i casi è molto grave: non c’è una politica di redistribuzione o un sistema di progressivo riempimento. Il sistema tiene posti liberi per mesi e poi si satura in breve tempo. Significa, tra l’altro, non ottimizzare neanche le risorse disponibili”, sottolinea Schiavone.

    Sia sul sistema dei Cas sia sul Sai si registrano quindi scarsa trasparenza e una gestione carente a livello centrale. “Non avere una mappatura, un controllo di gestione è ben più grave che non riuscire a mettere in convenzione nuovi posti con le prefetture. I dati non sono stabili, difficilmente leggibili e ci raccontano dell’immobilità politica sul tema. Nessuno vuole portare a regime alcun sistema di accoglienza”. Intanto, le persone, aspettano al freddo. E il governo può ripetere il ritornello della saturazione e dell’invasione.

    https://altreconomia.it/scarsa-programmazione-posti-vuoti-e-persone-al-freddo-cosi-ai-migranti-
    #accueil #hébergement #Italie #asile #migrations #réfugiés #SDF #sans_solution #Centri_d'accoglienza_straordinaria (#CAS) #statistiques #chiffres #2022 #sistema_di_accoglienza_e_integrazione (#SAI) #plein #vide #places_vides #places_vacantes

  • #États-Unis : tueries de masse par jour et par État et nombre de morts — une infographie plutôt impressionnante dans Libé ce matin.

    Le nombre de décès par armes à feu aux Etats-Unis bat lui aussi des records : 48 830 en 2021, en hausse de 8 % par rapport à 2020, une année jugée « historique » par les autorités sanitaires. Environ 54 % de ces décès sont des suicides.

    Les tueries de masse, elles aussi, font de plus en plus de victimes - près de 700 morts et 1 300 blessés l’an passé, contre 275 et 433 en 2014. Et inexorablement, leur fréquence s’accélère. Sur les 25 #massacres les plus meurtriers perpétrés aux Etats-Unis, et dont les noms restent gravés dans la mémoire collective (Parkland, Orlando, Sandy Hook, El Paso, Virginia Tech, Uvalde, Buffalo…), vingt ont été perpétrées depuis l’an 2000 et douze au cours des cinq dernières années.

    #fusillade #armes #meurtre #fussillade_de_masse #violence_armée #turie_de_masse #fusillades

  • La criminalizzazione dei presunti “scafisti”, capro espiatorio dei flussi “irregolari”

    Secondo quanto ricostruito da Arci Porco Rosso e Borderline Europe sono almeno 264 i “capitani” delle navi arrestati nel 2022. Persone che spesso hanno poco a che fare con le organizzazioni violente che i migranti si trovano ad affrontare durante il viaggio: le Ong denunciano processi sommari che non rispettano i diritti degli imputati.

    Nel 2022 sono state arrestate almeno 264 persone in seguito agli sbarchi sulle coste italiane con l’accusa di essere scafisti. Ma secondo Arci Porco Rosso e Borderline Europe, due Ong attive nella tutela delle persone migranti, queste persone “hanno poco o nulla a che fare con organizzazioni e gruppi violenti che le persone migranti si trovano ad affrontare durante il viaggio”. A inizio gennaio 2023 le organizzazioni hanno pubblicato dati aggiornati come prosieguo della ricerca “Dal mare al carcere” che nell’ottobre 2021 aveva “svelato” il ruolo spesso marginale di coloro che si ritrovano a guidare la barca diretta verso le coste europee, senza un ruolo attivo nell’organizzazione del viaggio. “Si sente forte la volontà politica di continuare a criminalizzare i cosiddetti scafisti come capro espiatorio dell’immigrazione irregolare -spiega Maria Giulia Fava, operatrice legale di Arci Porco Rosso-. Vengono confusi con le organizzazioni criminali quando, nella realtà, sono semplicemente migranti che si mettono al timone delle navi sotto minaccia o per non pagare il viaggio. Altri, invece, ricevono anche delle somme di denaro: al di là delle modalità, il punto è che per loro guidare quella barca è l’unico modo per raggiungere l’Europa”.

    Il dato sui 264 arresti è probabilmente una stima al ribasso perché si basa su quanto riportato da articoli della stampa locale. Nel 2021 le due organizzazioni spiegano che avevano ricostruito 171 fermi a fronte dei 225 poi rivendicati dalla Polizia di Stato nel report annuale. Seguendo questa proporzione si arriverebbe a circa 350 persone coinvolte nel 2022. Un dato che trova conferma anche rispetto alla “proporzione” con le circa 105mila persone sbarcate lo scorso anno: un fermo ogni 300, simile al dato del 2021 e a quello relativo al periodo 2014-2017. Molto diverse invece rispetto a quel periodo le nazionalità delle persone arrestate. Negli anni successivi all’apertura della rotta libica circa un quarto dei fermi proveniva dall’Africa occidentale, nel 2022 meno di dieci. Aumentano invece i “capitani” arrestati originari del Nord-Africa (118 fermi nel 2022 a fronte di 61 nel 2021) soprattutto dell’Egitto. Questo è dovuto anche all’aumento degli arrivi da parte di cittadini egiziani (18.285 contro gli 8.576 dell’anno precedente). Calano invece i fermi per i cittadini ucraini: nel 2022 solamente 9 a fronte dei 32 dell’anno precedente. Gli skipper ucraini storicamente “sono stati fondamentali per l’arrivo delle persone che partono dalla Turchia, in quanto marinai esperti che sanno condurre una barca a vela durante la settimana di viaggio che occorre per attraversare il mar Egeo e giungere fino alle coste italiane”. “Probabilmente lo scoppio del conflitto e l’obbligo per gli uomini di rimanere nel Paese ha causato la diminuzione della loro presenza sulle navi”, osserva Fava. Ma l’importanza della rotta orientale, confermata anche dati sugli sbarchi, si è comunque intensificata. Sono raddoppiati così gli arresti di cittadini turchi (52 contro 24 nel 2021) e russi (sette nel 2021, 14 nel 2022) ma anche di persone provenienti dal continente asiatico: bangladesi, siriani ma anche cittadini del Kazakistan o del Tagikistan.

    Arci Porco Rosso nel 2022 è entrata in contatto con 84 persone, di cui 54 sono in carcere. Quasi la metà di persone originarie da Algeria, Egitto, Libia, Marocco e Tunisia. Tra le persone seguite ci sono anche due donne detenute, una proveniente dalla Russia e l’altra dall’Ucraina. “Seguiamo sia chi è già uscito dal carcere e incontra grossi ostacoli nella regolarizzazione della sua posizione: le condanne per favoreggiamento dell’immigrazione ‘clandestina’ sono ostative per il rilascio del permesso di soggiorno”, spiega Fava. L’Ong segue poi anche coloro che sono ancora sotto processo garantendo un supporto sia nei rapporti con gli avvocati difensori, sia per cercare di far comprendere al meglio cosa sta succedendo e chi invece sta scontando la pena nelle strutture detentive. “Diventiamo un orecchio per i loro pensieri e una voce per le loro richieste, mano a mano che si avvicina il fine pena cerchiamo di capire come evitare che vengano poi tradotti direttamente nei Centri permanenti per il rimpatrio (Cpr) una volta usciti dal carcere”. Proprio con riferimento ai Cpr, nell’aggiornamento pubblicato a metà gennaio si racconta il caso di un “capitano” del Biafra, richiedente asilo, rimpatriato in Nigeria prima di poter essere ascoltato dal giudice. “Abbiamo notizia di molti capitani tunisini a cui è toccata la stessa sorte -si legge nel documento-. Purtroppo a volte neanche una sentenza di assoluzione evita il Cpr: è quello che è successo ad un cittadino libico, scagionato da ogni accusa, che dopo anni di integrazione in Italia si è visto arbitrariamente trattenuto perché ritenuto socialmente pericoloso per lo stesso reato per cui era stato assolto. Uno stigma che si traduce in una vera e propria persecuzione”.

    Una persecuzione che “nasce” da procedimenti penali in cui secondo Fava “non vengono applicate le tutele processuali previste dalla normativa”. Diverse sentenze hanno riconosciuto il cosiddetto “stato di necessità” ad alcuni imputati che erano stati accusati di aver guidato l’imbarcazione dalla Libia verso l’Italia: da un lato perché è noto il modus operandi delle organizzazioni libiche, dall’altro perché veniva dimostrato che la persona era stata costretta a prendere in mano il timone. “Il problema però sta proprio nel provare questo elemento -spiega l’operatrice legale-. Spesso i giudici si accontentano di dichiarazioni assunte in modo approssimativo dalla polizia a seguito dello sbarco. Vengono sentite 2/3 persone con domande che non approfondiscono il contesto e non così specifiche. Poi questi testimoni diventano irreperibili, non vengono chiamati a processo e l’unico modo per la difesa per dimostrare l’innocenza dell’imputato è rintracciare gli altri passeggeri presenti sull’imbarcazione. Non è facile”. Succede poi che molti difensori d’ufficio accedono ai riti abbreviati, per avere uno sconto sulla pena. Ma questo comporta il non poter arrivare a un’assoluzione portata dal chiarire quello che è successo.

    Le condanne agli “scafisti” sono però importanti a livello politico. Come raccontato nel nostro libro “Respinti“, la lotta ai trafficanti non è nient’altro che la “foglia di fico” dietro cui nascondere politiche che hanno come unico obiettivo bloccare le persone in movimento. Giulia Serio, analista presso l’Ufficio delle Nazioni Unite sulla droga e il crimine (Unodc), con specifico riferimento ai “capitani” delle navi accusati di favoreggiamento dell’immigrazione “clandestina” ha spiegato su Altreconomia come “sempre più studiosi sottolineano l’abuso della posizione di una vulnerabilità in cui la persona si è trovata nel momento in cui ha compiuto questo ‘reato’: salvare la sua vita, oltre che quella degli altri. E questa la rende potenzialmente una vittima di tratta ai fini dello sfruttamento in attività criminale”. Una via che i legali di Arci Porco Rosso stanno seguendo su un caso di 14 persone arrestate e poi assolte proprio per “stato di necessità”. “Vogliamo fare richiesta di protezione internazionale per loro e chiedere che vengano riconosciute proprio come vittime di tratta in quanto persone obbligate a compiere un’azione illecita”, conclude Fava.

    La presidente del Consiglio Giorgia Meloni a metà novembre 2022, riferendosi all’atteggiamento dell’Unione europea sul tema della “gestione” dei confini, è stata chiara: “Potrebbe scegliere di isolare l’Italia, io penso che sarebbe meglio isolare gli scafisti”. “Affermazioni odiose che alimentano la demonizzazione di chi non fa altro che condurre oltre la frontiera imbarcazioni di persone in fuga -sottolineano i curatori del report– cercando di imporre nuovamente la figura dello scafista al centro della conversazione, come capro espiatorio universale a cui si possa addossare la responsabilità della morte e della violenza che avviene alla frontiera marittima italiana”.

    https://altreconomia.it/la-criminalizzazione-dei-presunti-scafisti-capro-espiatorio-dei-flussi-

    #Italie #scafisti #criminalisation #asile #migrations #réfugiés #frontières #Méditerranée #Mer_Méditerranée #criminalisation_de_la_migration #statistiques #chiffres #2022

  • Qu’est-ce qu’on a fait pour avoir autant de poncifs sur l’immigration ?

    Depuis le début du XXIème siècle, les flux migratoires s’intensifient et ce au niveau mondial. Mais, en Europe, la France est loin d’accueillir le nombre de migrants que sa taille lui permet. Alors, pourquoi cette #exagération permanente ? Où est le #fantasme dans le débat migratoire ?

    Avec François Héran Sociologue et professeur au collège de France

    Les années passent et se ressemblent terriblement. En tout cas sur certains sujets… comme, par exemple, au hasard : l’#immigration ! Des lois à tire-larigot, des débats à tout bout de champ, des récits à qui mieux mieux.
    Ce n’est pas l’immigration que augmente, ce sont nos fantasmes qui prolifèrent. Pourquoi l’immigration suscite-t-elle autant de poncifs, de peurs et de #déni ? Et pourquoi, malgré les chiffres et les circulaires, on s’éloigne pourtant toujours de la réalité des mouvements migratoires ?
    Quelles vagues migratoires en France ?

    “Dans les années d’après-guerre, il y a énormément de reconstruction à réaliser. On a donc recours à de la main-d’œuvre étrangère à partir des années 1950. Le pourcentage d’immigrés, c’est-à-dire de personnes étrangères ou ayant acquis la nationalité française, stagne autour de 7% à partir des années 1970, les vagues migratoires ayant été limitées du fait du ralentissement économique lié aux chocs pétroliers. Depuis 2000, les mouvements migratoires augmentent d’environ 35% ou 40% en France, et de 60% au niveau mondial. Le flux s’étant le plus intensifié au XXIème siècle est celui des migrations d’étudiants internationaux.” François Héran

    Un bilan comptable de l’immigration ?

    “La #résistance à l’immigration vient notamment du sentiment de peur de manquer de ressources, d’abord d’emplois, maintenant de prestations sociales ou d’argent public. Présent depuis quelques années, le Front National a largement contribué à populariser l’idée que nous devons choisir entre le plein-emploi et la protection sociale, et l’accueil des immigrés. Mais cette idée n’est pas vraie. D’après l’OCDE, les immigrés sont surreprésentés dans les catégories actives et de par la consommation, leur travail et leurs cotisations nous coûtent moins qu’ils ne nous rapportent. Malheureusement, ce discours est inaudible.” François Héran

    Comment nommer les populations issues de l’immigration ?

    “Dans les années 1960-1970, on parlait de travailleurs immigrés car on nourrissait l’idée que ces migrations étaient temporaires et non pas celle que les familles allaient rejoindre les travailleurs en France. Lorsque les effectifs d’étudiants, de familles se sont multipliés, on a changé de termes pour parler d’immigrés. Dans le #vocabulaire courant, le mot ’immigré’ a pris une connotation extrêmement négative. Donc dans les enquêtes qu’on réalise auprès de populations issues de l’immigration, on ne peut utiliser les termes d’’immigration’ ou même d’’intégration’, puisque dans l’immense majorité du débat public les termes sont utilisés de façon discriminante.” François Héran

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/sans-oser-le-demander/qu-est-ce-qu-on-a-fait-pour-avoir-autant-de-poncifs-sur-l-immigration-71

    #migrations #peur #François_Héran #asile #réfugiés #mots #histoire #histoire_migratoire #statistiques #gâteau #gâteau_à_part_fixes #coût #économie #idées_reçues #Etat_social #ressources_pédagogiques #regroupement_familial #immigration_de_travail #immigration_familiale #immigration_choisie #immigration_subie

    via @karine4

  • Rololo, le fiasco.

    La compensation carbone des entreprises ne serait d’aucune utilité

    https://www.futura-sciences.com/planete/actualites/changement-climatique-compensation-carbone-entreprises-ne-serait-au

    Plus de 90 % des projets de compensations carbone en faveur des forêts tropicales seraient complètement inutiles, et certaines actions seraient même carrément néfastes.

    J’avoue, on s’en doutait un peu, mais ca y est, les chiffres sortent enfin.

  • Fake streams : plusieurs milliards de fausses écoutes enregistrées par les plateformes en France en 2021 Par Julien Baldacchino

    Le Centre national de la musique publie ce lundi un rapport sur les fraudes constatées sur les plateformes de streaming. France Inter a pu se le procurer en avant-première : d’une plateforme à l’autre, les chiffres varient, mais entre 1% et 3% des streams sont concernés.

    Depuis plusieurs semaines, les enquêtes se sont multipliées sur les « fake streams », ces achats d’écoutes sur les plateformes de streaming musical qui permettent de gonfler les statistiques de tel ou tel artiste, de tel ou tel titre. Ce lundi, le Centre national de la musique révèle à son tour ses chiffres sur cette question : l’organisme a été saisi dès l’été 2021 par Roselyne Bachelot, alors ministre de la Culture, pour travailler sur les manipulations d’écoutes sur les services de musique en ligne.


    Les résultats de cette enquête sont publiés ce lundi, dans un document que France Inter a pu se procurer. Le CNM a travaillé avec plusieurs acteurs du milieu, dont les plateformes de streaming, pour établir le premier rapport sur le sujet. Des maisons de disques, des artistes, des distributeurs et des organisations professionnelles ont aussi participé à l’élaboration du rapport, qui fait un état des lieux et plusieurs recommandations.

    Entre 1% et 3% des écoutes sont des faux streams
    Trois plateformes ont fourni des chiffres particulièrement détaillés : Spotify, Qobuz et Deezer. Chacune a mis en place ses propres outils pour détecter les « faux streams », en se basant par exemple sur les comportements inhabituels d’écoute (de très longues durées d’écoute ou des morceaux passés à très grande vitesse, par exemple). Les résultats ne peuvent donc pas être agrégés d’une plateforme à l’autre et il y a une marge d’erreur, mais pour l’année 2021, il ressort qu’entre 1 et 3 milliards de streams ont été considérés comme frauduleux. Cela représente entre 1% et 3% du marché.

    La plateforme qui a détecté le plus de faux streams est Deezer, dont 2,6% des écoutes seraient issues de streams achetés. Vient ensuite Qobuz (1,6%) et Spotify (1,1%). Il est intéressant de constater que chez Spotify et Deezer, ce sont surtout des titres peu écoutés qui bénéficient de ces faux streams – chez Deezer par exemple, seuls 18,1% des streams frauduleux concernent des titres faisant partie du top 10 000 des chansons les plus écoutées. Chez Qobuz cette proportion est bien différente : 43,5% des faux streams concernent le top 10 000. Et ainsi, sur le top 10 des titres les plus écoutés sur cette plateforme, plus d’une écoute sur dix (13,3%) est détectée comme fausse.

    La suite : https://www.radiofrance.fr/franceinter/fake-streams-plusieurs-milliards-de-fausses-ecoutes-enregistrees-par-les

    #web #streaming #spotify #deezer #qobuz #statistiques #fraude #plateformes #manipulations #musique

  • 1.173 minori stranieri non accompagnati scomparsi in 4 mesi

    In Italia ogni giorno spariscono quasi dieci MSNA: è un’emergenza non più trascurabile

    I grandi business illegali sono maniacalmente attenti ai minorenni, specialmente quelli non accompagnati e stranieri. Costano poco, fruttano molto.

    Le mafie internazionali costruiscono un reticolato che parte dalle frontiere africane per arrivare a quelle europee, una piovra che tenta con tentacoli illusori i ragazzini, pigiando i tasti dei soldi facili per far leva sugli allontanamenti.

    I minori stranieri non accompagnati (msna) che arrivano in Italia si possono sommariamente dividere in tre gruppi.

    Il primo è quello che mantiene contatti con la famiglia rimasta in Patria. Quest’ultima attua una pressione costante per le rimesse per fare campare nuclei numerosi e con carenze alimentari. E questo porta il minore a cercare “guadagno” facile e spesso illegale.

    Del secondo fanno parte coloro che sono totalmente soli e senza alcun riferimento parentale, con una psiche a brandelli dopo un viaggio estenuante. Rischiano di farsi irretire da sistemi economici illegali che illusoriamente garantiscono tutele: quindi spaccio di stupefacenti e sfruttamento sessuale.

    Il terzo è inserito all’interno del circuito di accoglienza e integrazione statale, quindi in teoria in un ambiente protettivo e volto all’inserimento socio – economico. Un sistema che ad oggi risulta presente in Italia ma non in modo sufficiente, come dimostrano i drammatici ed inquietanti dati degli allontanamenti dei msna.

    A questo si affianca la possibilità del ricongiungimento familiare, iter che risulta burocraticamente lungo e che, in numerose occasioni, proprio per la sua lentezza, porta il minore a rivolgersi ad altre “opzioni” sfruttate dalla criminalità organizzata. Sono molteplici, infatti, i casi di minori stranieri non accompagnati che come pedaggio per raggiungere rapidamente, e quindi illegalmente, un proprio parente entrano nel business del traffico di organi: un rene per raggiungere uno zio in Inghilterra.

    Un’emergenza trascurata

    Gli allontanamenti dei minori stranieri non accompagnati in Italia stanno raggiungendo stime drammatiche e seriamente preoccupanti: nell’anno 2022 (da gennaio ad aprile) sono spariti 1.173 minorenni. Questo significa che spariscono quasi 10 minori stranieri non accompagnati al giorno (9,775). Sono numeri spaventosamente alti e in netto aumento rispetto all’anno precedente (nel 2020, ad esempio, gli allontanamenti erano stati 308): praticamente ogni 2 ore e 45 minuti nel nostro Paese un ragazzino straniero non accompagnato sparisce nel nulla, senza lasciare tracce.

    E’ evidente che sparisce nel nulla per entrare nello scacchiere dell’economia sommersa: il primo mercato che mette le mani sui ragazzini soli è il business del traffico degli organi. Il traffico internazionale di organi è remunerativo almeno al pari di quello della droga: secondo i dati del think tank Global Financial Integrity, che si occupa di flussi finanziari illeciti, corruzione, commercio illecito e riciclaggio di denaro, frutta da 840 milioni a 1,7 miliardi di dollari all’anno e consiste in più di 12.000 trapianti illegali all’anno. Si arrivano a pagare 15.000 dollari per un rene, molti di più per un polmone, per il cuore, per il fegato, per il pancreas.

    Il traffico investe anche l’Africa, soprattutto la rotta migratoria orientale ovest: i minori che contraggono il debito per il viaggio, nel caso non riescano a completare il pagamento, danno un organo come pedaggio. Oppure vengono ammazzati dai trafficanti, che espiantano gli organi per portarli al confine egiziano in borse termiche: qui i “medici del Sahara”, di nazionalità egiziana, attuano le operazioni in ospedali da campo tirati su alla meno peggio e lontano dai centri abitativi: inchieste della BBC hanno accertato come l’Egitto sia diventato il supermercato del traffico di organi.

    Questi ospedali secondo il reportage di Panorama sono totalmente illegali e tra i soldi utilizzati per la loro costruzione ci sarebbero anche quei milioni che giungono dai partner europei per l’esternalizzazione delle frontiere. In Egitto un migrante irregolare, anche minorenne, rischia seriamente il carcere duro o di essere sottoposto a lavori forzati, oppure di finire assassinato per il macabro business della vendita degli organi. Purtroppo sono sempre più frequenti i ritrovamenti di carcasse di corpi senza organi lungo le spiagge delle coste africane dei Paesi settentrionali, e purtroppo spesso appartengono a persone che non raggiungono i diciotto anni.

    Il secondo business è quello dello spaccio degli stupefacenti: la mafia presta particolare attenzione ai msna, manodopera addirittura ad ancora più basso costo rispetto a quella italiana. Questo è testimoniato dai reati dei minorenni in carico ai Servizi Sociali (range 01.01.21 – 15.12.21): rapina (229), furto (169), estorsione (33), ricettazione (18) e stupefacenti (42) sono evidentemente reati non spuri, bensì riconducibili ad un sistema più articolato e più complesso, di criminalità organizzata ben radicata in Italia. Numeri più bassi rispetto agli italiani ma in proporzione più alti: questo significa che il minorenne straniero finisce più facilmente nel reticolo della organizzazioni criminali.

    Il terzo, lo sfruttamento lavorativo e quello sessuale: il minorenne abbandona il percorso scolastico. Il livello di dispersione scolastica nei giovani stranieri raggiunge picchi altissimi, basti pensare alla dispersione nella scuola secondaria di primo grado che vede Costa d’Avorio 8,9%, Bosnia 7,2% ed Egitto 7,1%1.

    Il ragazzino diserta la scuola per andare a lavorare in settori dove sono presenti fenomeni di iper-sfruttamento: aziende edili e ristoranti, gestiti da connazionali, soprattutto nel nord-Italia; raccolta di arance, mandarini, frutta e verdura al sud: dodici ore per due spicci, tendinite dopo due mesi ed enormi carichi di fatica.
    Intervenire subito

    Il 2022 si preannuncia un anno che mette con le spalle al muro il “non vedo, non sento e non parlo”: gli allontanamenti sono lievitati e sono destinati ad aumentare ancora di più poiché tanti minori stranieri non accompagnati stanno giungendo in Italia attraverso le diverse frontiere, sia terrestre o marittima. In quattro mesi (dal 1 gennaio 2022 al 30 aprile 2022) sono arrivati 5.239 msna: le istituzioni non possono non accorgersi di quanto accade sotto i loro occhi.

    Ad aggravare un contesto già drammatico, c’è poi l’emergenza Ucraina, di cui si parla molto in termini geopolitici e militari ma poco in relazione alla situazione dei minori: il 27,9% di minori stranieri non accompagnati presenti in Italia, esattamente 3.906, è di nazionalità ucraina. Stanno arrivando moltissimi bambini soli, senza nessuno, che facilmente possono diventare prede delle criminalità e dello sfruttamento e vittime un’altra volta.

    Ripetiamo, c’è un’emergenza evidente: le istituzioni non possono non accorgersi di quanto accade sotto i loro occhi.

    https://www.meltingpot.org/2022/05/1-173-minori-stranieri-non-accompagnati-scomparsi-in-4-mesi

    #Italie #réfugiés #asile #mineurs #mineurs_non_accompagnés #disparitions #enfants #enfance #migrations #chiffres #statistiques

    –-

    A mettre en lien avec les statistiques et chiffres des « enfants réfugiés disparus en Europe » —> l’exemple d’Ancona montre les raisons des départs de #MNA des centres d’accueil en Italie :
    https://seenthis.net/messages/714320

  • La #France assume de délivrer des #OQTF à des personnes non expulsables

    L’attaque qui a fait six blessés, dont un grièvement, mercredi 11 janvier, à la gare du Nord à Paris, aurait été perpétrée par une personne étrangère en situation irrégulière, qui pourrait être de nationalité libyenne ou algérienne, selon les derniers éléments communiqués par le parquet de Paris. Des sources policières n’ont pas tardé à préciser que l’auteur des faits faisait l’objet d’une obligation de quitter le territoire français (OQTF), signée l’été dernier par une préfecture en vue d’un renvoi vers la Libye, comme le confirme le ministère de l’intérieur auprès de Mediapart.

    L’affaire vient une nouvelle fois démontrer les obsessions du ministère de l’intérieur en matière de chiffres concernant les expulsions. Si l’on ignore encore le profil et les motivations de l’individu interpellé – deux proches de son entourage ont été entendus jeudi –, il s’avère que l’OQTF dont il faisait l’objet n’avait pas été exécutée, puisque l’instabilité que connaît la Libye et le manque de relations diplomatiques avec ce pays ne permettent pas de renvoyer qui que ce soit là-bas.

    Sans surprise, l’extrême droite n’a pas tardé à s’exprimer : « Le nombre de clandestins sous le coup d’une OQTF impliqués dans des actes criminels se multiplie. La future loi sur l’immigration devra apporter une réponse ferme et déterminée à cette menace exponentielle. Nous y veillerons », a tweeté Marine Le Pen en réaction à un article de BFMTV, indiquant que l’individu était connu des services de police pour des faits de droit commun, « principalement des atteintes aux biens ».

    « L’assaillant de la gare du Nord qui a blessé six personnes faisait l’objet d’une OQTF et aurait crié “Allah Akbar” au moment des faits. Quand ces OQTF seront-elles enfin exécutées ? », a réagi de son côté Éric Ciotti, sans prendre la moindre précaution quant aux propos prononcés, qui pour l’heure ne sont pas avérés.

    Le parquet de Paris, qui a ouvert une enquête pour « tentative d’assassinat » et confié les investigations à la police judiciaire, confirme ses antécédents mais se montre prudent. « L’identification précise du mis en cause est en cours, ce dernier étant enregistré sous plusieurs identités dans le fichier automatisé des empreintes digitales alimenté par ses déclarations au cours de précédentes procédures dont il a fait l’objet », indique un communiqué de la procureure de Paris. « Il pourrait s’agir d’un homme né en Libye ou en Algérie et d’une vingtaine d’années, dont l’âge exact n’est pas confirmé. »

    Un profil ni régularisable ni expulsable.

    Le ministère de l’intérieur

    Une question subsiste : pourquoi délivrer une OQTF à un ressortissant supposé être libyen, lorsque l’on sait qu’on ne peut expulser vers la Libye ?

    Interrogé à ce sujet, le ministère de l’intérieur s’explique, tout en soulignant que l’enquête est toujours en cours : « L’individu est a priori libyen. La Libye étant un pays instable et en guerre, il n’y a pas d’éloignement vers ce pays. L’OQTF est la conséquence d’une situation administrative irrégulière. En l’absence de droit au séjour, elle est appliquée par les services. En l’espèce, il s’agit d’un profil ni régularisable ni expulsable. »

    L’objectif est de prendre une OQTF malgré tout, poursuit le ministère, afin que l’individu « puisse être expulsé dès que la Libye sera stabilisée ».

    Depuis plusieurs années, outre la Libye, la France n’expulse plus vers un certain nombre de pays comme la Syrie, l’Afghanistan ou plus récemment l’Iran, considérant que la situation de ces pays, ravagés par les guerres, les conflits, l’instabilité ou la répression, ne permettent pas de garantir la sécurité des personnes éloignées. Parce qu’il est trop compliqué, aussi, d’obtenir les laissez-passer consulaires nécessaires au renvoi d’un ressortissant de ces pays lorsque les relations diplomatiques sont rompues.

    Il n’existerait pas de liste « officielle » des pays vers lesquels on ne renvoie pas, bien que des associations d’aide aux étrangers plaident pour que ce soit le cas et pour qu’une position claire soit adoptée par les autorités. « On ne peut pas prononcer des OQTF à des ressortissants tout en sachant qu’on ne peut pas les expulser, en arguant qu’on ne peut pas négocier avec les talibans ou Bachar al-Assad, c’est absurde », commente un représentant associatif.

    Selon des sources associatives, au moins 44 personnes se déclarant de nationalité libyenne ont ainsi été enfermées en rétention en 2022, contre 119 en 2021 et 110 en 2020. Aucun ressortissant libyen n’a été expulsé vers la Libye au cours des dernières années, assure le ministère de l’intérieur.

    De plus en plus d’Afghans font aussi l’objet d’une OQTF et sont placés en centre de rétention administrative (CRA), ces lieux de privation de liberté où sont enfermés les sans-papiers en attente de leur éloignement (90 jours au maximum avant d’être libérés). Début 2022, l’association La Cimade craignait des expulsions « par ricochet » (voir ici ou là), c’est-à-dire des renvois de ressortissants afghans vers des pays n’ayant pas suspendu les expulsions vers l’Afghanistan (c’était le cas, par exemple, de la Bulgarie).

    Des ressortissants syriens, comme a pu le documenter Mediapart, se voient eux aussi délivrer des OQTF et sont placés en CRA pendant des jours alors même qu’ils ne sont pas expulsables. Marlène Schiappa le réaffirmait d’ailleurs sur France Inter fin novembre dernier : la France « ne renvoie pas quelqu’un vers la Syrie ».

    Cela n’a pas empêché non plus la préfecture de l’Aude de prononcer une OQTF contre une ressortissante iranienne, qui avait pourtant fui la répression qui sévit dans son pays face au mouvement de révolte des femmes, lui enjoignant de quitter le territoire français et de « rejoindre le pays dont elle possède la nationalité ».
    Une stratégie contradictoire avec les objectifs du gouvernement

    Ces OQTF précarisent les étrangers et étrangères qu’elles visent, les contraignant à vivre dans l’ombre et dans la crainte du moindre contrôle, y compris lorsqu’ils et elles se rendent sur leur lieu de travail.

    Ces personnes sont aussi conscientes que l’OQTF est bien souvent associée à la notion de délinquance, alors même que beaucoup n’ont rien à se reprocher. Un système « contre-productif » aux yeux de l’avocat Stéphane Maugendre, spécialiste en droit des étrangers et en droit pénal, qui « surprécarise les personnes parfaitement insérées en France », mises en difficulté dans chaque petit acte du quotidien et aujourd’hui stigmatisées par les discours répétés de Gérald Darmanin visant à faire un trait d’union entre OQTF et délinquants dits étrangers.

    En guise d’exemple, l’avocat cite le cas récent de deux de ses clients, victimes du caractère aujourd’hui systématique de la délivrance des OQTF : l’un était déjà en cours de recours au tribunal administratif, l’autre avait déposé une demande d’admission exceptionnelle au séjour en préfecture et travaille dans un métier en tension – il pourrait donc être concerné par la future mesure voulue par Gérald Darmanin dans le projet de loi immigration à venir, censé permettre de régulariser plusieurs milliers de sans-papiers qui répondent à certains critères (lire notre analyse).

    Dans une course aux chiffres, les autorités continuent de délivrer toujours plus d’OQTF, et tant pis si, dans le lot, un certain nombre de personnes ne peuvent être éloignées du territoire. Une stratégie contradictoire avec les objectifs que se sont fixés le chef de l’État et son gouvernement concernant le taux d’exécution de ces OQTF, qu’ils aimeraient voir augmenter. En 2019, Emmanuel Macron promettait même, dans une interview à Valeurs actuelles, d’exécuter 100 % des OQTF – un objectif intenable.

    Plus récemment, son ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin, donnait aux préfets pour instruction de « prendre des OQTF à l’égard de tout étranger en situation irrégulière, à l’issue d’une interpellation ou d’un refus de titre de séjour », et se réjouissait « d’améliorer le résultat » concernant le nombre d’OQTF exécutées en 2022, en hausse de 22 % à la date de novembre dernier.

    « En 2021, la France est le pays d’Europe qui a le plus expulsé », s’est aussi vantée, sur France Inter, l’ex-secrétaire d’État chargée de la citoyenneté, Marlène Schiappa. Mais cette surenchère sur la délivrance d’OQTF pourrait avoir enfermé le gouvernement dans une spirale infernale. Soumises à des injonctions contradictoires, les préfectures sont poussées à délivrer des obligations de quitter le territoire sans même étudier les cas particuliers – ces mêmes cas qui ne peuvent, de fait, pas contribuer à améliorer le taux d’exécution des OQTF puisqu’il s’agit de personnes non expulsables.

    Pour Me Stéphane Maugendre, le ministère de l’intérieur et les préfectures sont « tombés dans une sorte de piège » : « Ils ont multiplié les OQTF, de manière systématique, pour pouvoir dire que des mesures d’éloignement sont prises. Sauf que plus il y a d’OQTF délivrées, moins leur taux d’exécution a de chance d’augmenter, parce que derrière, il y a des contingences matérielles et il faut des moyens colossaux pour y arriver. »

    Une analyse qui se retrouve dans les chiffres, notamment entre 2016 et 2019, période durant laquelle le nombre d’OQTF prononcées bondit de 50,4 % pour atteindre 122 839 OQTF par an, tandis que leur taux d’exécution chute de près de 10 points, passant de 14,3 % à 4,8 %. Si les chiffres enregistrent une forte baisse en 2020 et en 2021, c’est lié à la crise sanitaire du Covid-19, qui n’a pas permis d’éloigner les personnes en situation irrégulière.

    Certains États, notamment du Maghreb, rechignent aussi à délivrer les laissez-passer consulaires nécessaires, entraînant alors un véritable bras de fer entre les autorités de ces pays et Paris. La France a choisi d’instaurer un « chantage » aux visas pour les obtenir, et, un an plus tard, la stratégie semble avoir payé pour l’Algérie, qui reprend plus facilement ses ressortissants aujourd’hui – la sœur de la meurtrière présumée de la petite Lola a d’ailleurs été expulsée vers l’Algérie mi-décembre, a-t-on appris via l’AFP. Le 19 décembre, un retour à la normale a depuis été annoncé par Gerald Darmanin pour l’octroi des visas aux Algérien·nes.

    Également président honoraire du Groupe d’information et de soutien aux immigré·s (Gisti), Stéphane Maugendre estime que les OQTF sont devenues la « nouvelle tendance », notamment depuis le meurtre de Lola, dont la meurtrière présumée était une ressortissante algérienne sous OQTF. « On qualifie désormais les personnes au regard de leur situation administrative, on parle automatiquement de l’OQTF dont ils font l’objet, qui, faut-il le rappeler, n’est pas une mesure d’expulsion mais une décision prise par la préfecture demandant à la personne de quitter le territoire français. »

    Une politique qui ne fait qu’alimenter le discours de l’extrême droite, qui scrute désormais les moindres faits divers impliquant une personne étrangère sous OQTF et en fait la recension sur les réseaux sociaux, surtout pour réclamer l’arrêt pur et simple de l’immigration en France. « Derrière la politique du gouvernement, l’extrême droite, dont le Rassemblement national, vient dire que le taux d’exécution des OQTF est trop bas, complète Me Maugendre. Gérald Darmanin est obligé de surenchérir et d’annoncer une loi qui permettra de réduire les délais et le nombre de recours. L’État crée une crise de toutes pièces et justifie ensuite sa loi pour la résoudre. »

    https://www.mediapart.fr/journal/france/130123/la-france-assume-de-delivrer-des-oqtf-des-personnes-non-expulsables

    #politique_du_chiffre #expulsions #asile #migrations #réfugiés #sans-papiers #obsession #profil_ni_régularisable_ni_expulsable #réfugiés_libyens #réfugiés_afghans #détention_administrative #rétention #chiffres #statistiques #réfugiés_syriens #expulsabilité #précarisation #criminalité #régularisation #exécution #laissez-passer_consulaires #taux_d'exécution #chantage #visas #extrême_droite

    ping @karine4

  • Pesticide use around world almost doubles since 1990, report finds
    https://www.theguardian.com/environment/2022/oct/18/pesticide-use-around-world-almost-doubles-since-1990-report-finds

    Global #pesticide use has soared by 80% since 1990, with the world market set to hit $130bn next year, according to a new Pesticide Atlas.

    But pesticides are also responsible for an estimated 11,000 human fatalities and the poisoning of 385 million people every year, the report finds.

    [...] A quarter of all pesticides are sold in the #EU, which is also the world’s top exporter of crop protection products. However, EU laws currently allow the export of toxic weedkillers banned on the continent to developing countries with weaker regulations.

    [...] Of the 385m pesticide poisoning cases logged in the atlas, 255m were in Asia and more than 100m in Africa, but just 1.6m were in Europe.

    https://www.pan-europe.info/EU-Pesticide-Atlas-2022

  • En #Italie, le gouvernement de Giorgia #Meloni s’en prend aux ONG qui sauvent les migrants en mer

    Un nouveau « #code_de_conduite » pour les #navires_humanitaires est entré en vigueur, mardi. Des #amendes allant de 10 000 à 50 000 euros sont notamment prévues à l’encontre du commandant de bord si les règles ne sont pas appliquées.

    –--------------------
    Durant la campagne électorale à la fin de l’été, Giorgia Meloni, la dirigeante du parti d’extrême droite italien Fratelli d’Italia avait relancé l’idée d’un #blocus_naval pour arrêter les bateaux intervenant en mer pour sauver les migrants. Une solution inapplicable dans les faits, mais payante en termes de communication politique. Désormais installé à la tête du pays, le gouvernement de Mme Meloni a néanmoins mis à exécution sa promesse de réguler les flux migratoires avec une mesure qui ressemble à une déclaration de guerre aux ONG engagées dans le sauvetage des migrants. Le 3 janvier, un nouveau « code de conduite » pour les navires humanitaires est entré en vigueur sous forme de #décret.

    Parmi les nouveautés de ce texte figure notamment la fin des #opérations_de_secours « simultanées ». Dès lors qu’un port de débarquement a été attribué par les autorités italiennes à un navire, il doit être atteint sans délai pour que puisse s’achever l’opération de sauvetage. Plus question désormais, sauf demande spéciale des autorités italiennes, qu’un bateau qui vient de recueillir des réfugiés détourne sa route vers une autre embarcation en perdition tant qu’elle n’a pas touché terre. En somme, la nouvelle réglementation du ministère de l’intérieur entérine un glissement qui constitue une menace claire sur le #droit_de_la_mer et les conventions internationales dont l’Italie est signataire.

    Ce tour de vis sécuritaire a provoqué indignation et inquiétude chez les ONG « Plutôt que de nous assigner un rôle clair de sauver des vies en mer, ce décret tente de limiter notre champ d’action sans proposer aucune solution alternative », se désole Juan Matias Gil, chef des opérations de secours en mer de Médecins sans frontières (MSF). « Il faut s’attendre à une baisse dans nos capacités d’opération de sauvetage, et plus de morts à venir. »

    Les ONG dérangent

    Autre nouveauté, le gouvernement impose désormais aux ONG de recueillir les demandes d’asile à bord des navires de sauvetage, de sorte que la procédure administrative soit prise en charge par le pays dont les navires battent pavillon. Une procédure qui promet de nombreux casse-tête juridiques. Si l’on suit les nouvelles normes, qui empêchera des migrants somaliens de demander l’asile à Rome, s’ils sont recueillis par un navire marchand italien au large de Mogadiscio ?

    La crainte de « l’#appel_d'air », rhétorique habituelle des membres de l’exécutif et de la majorité pour justifier les restrictions, a de nouveau été mise en avant par les responsables politiques convaincus que les navires humanitaires sont des « #taxis_de_la_mer ». Les #statistiques démontrent pourtant le contraire : sur près de 100 000 migrants qui ont débarqué en 2022 sur les côtes italiennes, à peine plus de 10 % ont été recueillis par des ONG.

    Installé en Sicile où il suit les questions migratoires pour Radio Radicale, le journaliste Sergio Scandura effectue une veille permanente des embarcations de migrants en approche des côtes italiennes. « Ce décret est inédit, estime-t-il, personne jusqu’ici n’avait jamais adopté un texte qui va à l’encontre des lois internationales mais aussi des lois européennes. » « La réalité est que les ONG dérangent parce que l’on ne doit pas voir ce qu’il se passe au large de la Libye », dénonce le journaliste.

    « Menace de #sanctions_financières »

    L’Eglise catholique italienne a elle aussi vivement réagi. « Ce décret n’est basé sur rien, il est construit sur un faux sentiment d’insécurité », a tonné Mgr Gian Carlo Perego, président de la commission pour les migrations au sein de la conférence épiscopale italienne. Pour l’archevêque de Ferrare-Comacchio (Nord), « la première considération serait de savoir si ce sont les ONG qui posent un problème de sécurité à l’Italie ou bien si ce sont précisément elles dont les bateaux sauvent des vies ».

    Outre les nouvelles normes, le gouvernement italien a également prévu tout un arsenal de #sanctions en cas de non-respect de la part des navires humanitaires. Des amendes allant de 10 000 à 50 000 euros sont prévues à l’encontre du commandant de bord si les nouvelles règles ne sont pas appliquées. En cas de récidive, les autorités s’arrogent le droit de séquestrer les navires. Un recours est possible mais, autre nouveauté, celui-ci devra être déposé devant le préfet dont les pouvoirs sont élargis. « Il est clair que la menace de sanctions financières est préoccupante », souligne Marco Pisoni, porte-parole de SOS Méditerranée, qui affrète le navire Ocean-Viking. « Les opérations de secours demandent des moyens, et ces amendes pourraient nous mettre en difficulté avec nos donateurs, en Italie mais également dans toute l’Europe. »

    Pour les ONG, le message du gouvernement est clair : non seulement entraver les opérations de secours, mais les éloigner de la Méditerranée centrale, là où les besoins sont les plus forts. Le 31 décembre, avant la parution du décret au journal officiel, l’Ocean-Viking a pu faire débarquer 113 personnes dans le port de Ravenne… à 900 milles nautiques du lieu de sauvetage. Pour Maco Pisoni, la nouvelle politique du gouvernement italien signe « la disparition programmée de la présence des navires dans les zones #SAR [régies par la convention internationale sur la recherche et le sauvetage maritimes] internationales et nationales ».

    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/01/05/en-italie-le-gouvernement-de-giorgia-meloni-s-en-prend-aux-ong-qui-sauvent-l
    #Giorgia_Meloni #sauvetage #Méditerranée #asile #migrations #réfugiés #mer_Méditerranée

    • Italy’s Anti-Rescue Decree Risks Increasing Deaths at Sea

      New Policy Obstructs Lifesaving Work of Rescue NGOs, Violates International Law
      The latest migration decree by Italy’s government represents a new low in its strategy of smearing and criminalizing nongovernmental organizations saving lives at sea. The government’s goal is to further obstruct the life-saving work of humanitarian groups, meaning that as few people as possible will be rescued in the central Mediterranean.

      The decree prohibits vessels of search and rescue organizations from carrying out multiple rescues on the same voyage, ordering that after one rescue their ships immediately go to the port allocated by Italy and reach it “without delay,” effectively requiring them to ignore any other distress cases at sea.

      The rule, which does not apply to other kinds of vessels, breaches the duty on all captains to give immediate assistance to people in distress under multiple international law provisions, including the UN Convention on the Law of the Sea, the International Convention for the Safety of Life at Sea, the Palermo Protocol against the Smuggling of Migrants, and EU law.

      The negative impact of the new rule is compounded by the government’s recent practice of assigning rescue boats very distant ports of disembarkation in northern and central Italy, requiring up to four days of navigation, in breach of the obligation to make available the nearest port of safety. Ordering rescue ships to sail to distant ports prevents them from saving lives in the central Mediterranean for longer periods of time, forces them to incur significant additional costs in fuel, food, and other expenses, and can increase the suffering of survivors on board.

      The decree also imposes on nongovernmental rescue ships the duty to collect data from survivors onboard, including their intent to claim asylum, and share that information with authorities, in breach of EU laws, including the asylum procedures directive .

      As 20 search and rescue organizations pointed out in a joint statement on January 5, the decree risks adding to the numbers of people already dying in the Mediterranean Sea or returned to horrific abuse in Libya.

      The European Commission should call for the immediate withdrawal of this decree and an end to Italy’s practice of allocating distant ports and take legal enforcement action against rules that blatantly disregard EU legal obligations towards migrants and asylum seekers. Above all, it’s time for a state-led European search and rescue mission to prevent further avoidable deaths at sea.

      https://www.hrw.org/news/2023/01/09/italys-anti-rescue-decree-risks-increasing-deaths-sea

    • Migrants : en Italie, la « guerre » du gouvernement contre les ONG

      Les nouvelles règles font exploser les coûts des sauvetages en mer. Reportage à Ancône, où le « Geo-Barents », le bateau de secours en mer de Médecins sans frontières (MSF), a été aiguillé.

      L’homme est masqué, coiffé d’un gros bonnet gris et enveloppé d’une épaisse couverture rouge qui masque sa silhouette. Il vient de sortir du ventre du Geo-Barents, le bateau de secours en mer de Médecins sans frontières (MSF). Descendu de la passerelle, il pose un pied mal assuré sur le quai 22 du port de commerce d’Ancône. Quatre autres hommes le suivent. Masqués aussi, coiffés de gros bonnets gris, enveloppés d’épaisses couvertures rouges ou blanches. Boitant presque sur la terre ferme après des jours de mauvaise mer, les corps aux visages invisibles, affaiblis, de ces rescapés anonymes attirent tous les regards, dans le matin mouillé de ce jeudi 12 janvier.

      Au bout du quai, on les attend. Le préfet de la province et le chef de la police ont fait le déplacement. Ces jours-ci, la frontière de l’Italie, qui est aussi celle de l’Europe, passe aux yeux de tous par leur ville. Les agents de la police aux frontières sont là, comme les hommes de la Guardia di Finanza, les pompiers, les fonctionnaires de la police scientifique et des membres du groupe cynophile des chasseurs alpins. Sur le quai 22 du port de commerce d’Ancône, il y a l’Etat, donc. Mais pas seulement. Des volontaires de la Croix-Rouge et de Caritas, sous-traitants des services publics italiens, sont déployés près d’une tente blanche. Et enfin, tenus à une distance de quelques dizaines de mètres, des journalistes sont parqués dans un enclos formé par des barrières. Une dizaine d’équipes de télévision filment la scène en direct.

      Le navire est arrivé à quai vers 7 h 30, quand, de l’autre côté du port, la sirène des chantiers navals appelait à leurs postes de travail les centaines d’ouvriers immigrés employés par des sous-traitants de la Fincantieri, qui y construisent deux paquebots de croisière de haut luxe dont les masses blanches et brillantes dominent la baie. Près de deux heures plus tard, les cinq anonymes descendus du bateau ont disparu vers le barnum blanc des autorités. A bord du navire, soixante-huit autres attendent de les rejoindre, majoritairement originaires du Soudan et du Nigeria.

      En touchant terre, ce petit groupe d’hommes, bien inférieur en nombre aux effectifs déployés, sur le quai 22 du port de commerce d’Ancône, est en train de traverser une ligne de front invisible. Car ils sont les derniers en date à faire les frais de la guerre judiciaire et politique que l’Etat italien mène depuis 2016 aux ONG de sauvetage opérant en Méditerranée centrale et portant secours aux migrants qui s’élancent des côtes libyennes en direction de l’Europe à bord d’embarcations de fortune. Et s’ils attirent malgré eux tant d’attention, cinq jours après avoir été secourus au large de Tripoli, c’est que, sous l’impulsion du gouvernement dominé par l’extrême droite de Giorgia Meloni, cette vieille histoire vient d’entrer dans une phase nouvelle.

      Une cible claire et identifiée

      Le voyage de 1 200 kilomètres effectué par le Geo-Barents de MSF, depuis le point perdu dans les flots où les migrants en détresse sont montés à bord, et les quatre journées de navigation supplémentaire qu’il a dû affronter, est en effet le résultat d’une politique. Parallèlement à un nouveau décret limitant l’action des ONG, sous peine de sanctions, à des sauvetages uniques, le gouvernement italien assigne désormais aux navires opérant dans la zone des destinations situées loin au nord des ports méridionaux où ils accostent habituellement. Livourne et Ravenne ont organisé des débarquements en décembre 2022, avant qu’Ancône accueille mardi l’ Ocean-Viking de l’ONG SOS Méditerranée avec trente-sept naufragés à son bord, puis le Geo-Barents.

      L’objectif est de répartir l’effort sur tout le territoire, selon le ministre de l’intérieur Matteo Piantedosi, affilié à la Ligue (extrême droite) et proche du vice-président du conseil Matteo Salvini, qui s’était illustré lorsqu’il occupait le même poste entre 2018 et 2019 par la fermeture des ports italiens aux ONG. « Le gouvernement ne veut pas laisser s’installer des mécanismes de routine dans les trajets de migration » , avait précisé pour sa part, à Ancône, la veille de l’arrivée de l’ Ocean-Viking, le président de l’autorité portuaire, Vincenzo Garofalo. Selon les ONG, cependant, l’objectif réel du gouvernement est autre. En complétant les dispositions du décret par ces éloignements vers le nord des côtes italiennes, il entend rogner leur présence en Méditerranée centrale et, surtout, peser sur leurs finances.

      « Nous avons estimé grossièrement que la volonté du gouvernement de nous faire venir jusqu’à Ancône avait provoqué une augmentation de 100 % de nos dépenses en carburant » , indique ainsi Juan Matias Gil, chef des opérations de secours en mer de MSF, présent sur le port d’Ancône au moment de l’arrivée de l’ Ocean-Viking. Pour l’ONG internationale, une marge d’adaptation existe, et de tels coûts peuvent être absorbés. Ce n’est pas le cas pour des organisations comme SOS Méditerranée, consacrée uniquement au sauvetage en mer. « La guerre que nous mène le gouvernement italien entre dans un tout nouveau chapitre dont il espère que le dénouement passera par notre disparition de la Méditerranée centrale » , indique M. Giltandis que les naufragés sortent du bateau par groupes de cinq avant de disparaître sous la tente médicale.

      « On s’attaque à nous, les ONG, car nous sommes la pointe visible d’un phénomène face auquel le gouvernement ne peut en réalité pas faire grand-chose » , ajoute M. Gil. Comme si la présence des ONG offrait aux pouvoirs publics une cible claire et bien identifiée sur la question migratoire et que la contrainte de ces débarquements dans des ports éloignés de la zone de secours devait fournir l’image d’un flux contrôlé. Certes, l’immigration n’est pas la préoccupation première d’une opinion italienne plus inquiète de l’inflation et des conséquences économiques de la guerre contre l’Ukraine. Elle reste un sujet sur lequel un Etat européen peut mettre en scène son action, même si c’est pour quelques heures, au bout du quai d’un port de commerce mineur.

      Galaxie d’associations

      Après avoir débarqué et traversé les premières formalités administratives de leur parcours en Italie, les 73 naufragés descendus du Geo-Barents, escortés par des policiers, sont montés dans des bus de la marine militaire italienne pour être emmenés plus tard quelque part en Lombardie. Ceux qui étaient arrivés trente-six heures plus tôt à bord de l’ Ocean-Viking ont été orientés vers divers centres d’accueil de la région des Marches, gérés par une galaxie de coopératives issues du monde catholique ou de la gauche associative.

      Les rescapés arrivés sur les deux navires des ONG à Ancône entre mardi et jeudi sont au nombre de 110. Selon le ministère de l’intérieur, le nombre total de migrants arrivés par la mer en Italie, incluant les débarquements autonomes et ceux qui ont été organisés par les gardes-côtes italiens dans les eaux territoriales depuis le début de l’année, s’élevait à 3 819 au 13 janvier. D’eux, pourtant, on ne verra pas même les silhouettes, au loin sur une passerelle.

      https://www.lemonde.fr/international/article/2023/01/15/migrants-en-italie-la-guerre-du-gouvernement-contre-les-ong_6157915_3210.htm

  • Les vaccinés sont bien moins nombreux ! Une fake-news de plus ! Décoder l’éco
    https://www.youtube.com/watch?v=iWVKueq5XMU

    La stratégie mise en place par le gouvernement depuis 2 ans n’a jamais eu pour but de prendre soin des Français, mais de les pousser à la vaccination. Pour arriver à cette fin, des mesures coercitives lourdes ont été mises en place, et l’arsenal statistique a été déployé. Sa plus grande force a été d’invisibiliser les non vaccinés, les faisant passer pour des fous marginaux et insignifiants. Le nouveau rapport des statisticiens du ministère de la Santé https://drees.solidarites-sante.gouv.fr/sites/default/files/2022-10/DM5.pdf lève le voile sur ce mensonge, un des plus insidieux depuis le début de la crise, et qui a servi de socle à l’attirail statistique permettant de surestimer l’efficacité vaccinale.

    Toutes les sources sont dans l’article écrit : https://www.agoravox.fr/actualites/sante/article/bien-plus-de-non-vaccines-en-245217

    La stratégie de l’isolement
    Chacun a pu constater au cours des deux années écoulées tous les efforts du gouvernement français (en utilisant nos impôts) pour pousser les citoyens à se faire inoculer les fameux vaccins anti covid-19. Le Conseil d’Orientation de la Stratégie Vaccinale est clair sur la « pression politique, sociale et médiatique » https://solidarites-sante.gouv.fr/IMG/pdf/note_du_cosv_-_28_septembre_-_communication_primo-vaccination mise sur les non-vaccinés pour les faire céder. Toute l’énergie et tous les moyens financiers ont été mis dans des mesures coercitives comme le passe sanitaire, puis vaccinal, ainsi que dans les campagnes de communication, sans dépenser le moindre centime pour renforcer les effectifs de soignants, augmenter les places disponibles dans les établissements de soin, ou financer des études de chercheurs indépendants permettant, par exemple, de suivre des cohortes de vaccinés et de non-vaccinés, afin d’apporter de vraies preuves des gains promis par les fabricants de vaccins.

    Le but des campagnes de publicité et du pass vaccinal n’était pas seulement de forcer les non-vaccinés à céder, mais également de les rendre invisibles. En les interdisant de tous les lieux de sociabilisation, ils ont été cachés de la vue de tous. Être invisible pour les autres est un bannissement. Cela peut être bien plus difficile à supporter que les seules incitations publicitaires. Mais, en plus, cela permet de faire oublier aux vaccinés l’existence des très nombreux non-vaccinés, désormais bannis. Un petit nombre de vaccinés se sont levés contre les interdictions, mais ils furent très peu nombreux. La majorité n’a pas eu à faire d’effort pour éviter de s’indigner. Cependant, pour que cette stratégie fonctionne, il est nécessaire que les vaccinés soient persuadés que les non-vaccinés ne représentent qu’une toute petite fraction de la population. Il faut également que les non-vaccinés se croient trop peu nombreux pour pouvoir organiser une résistance. Cela a été permis, une fois de plus, grâce au ministère de la Santé et à des statistiques bien choisies https://solidarites-sante.gouv.fr/grands-dossiers/vaccin-covid-19/article/le-tableau-de-bord-de-la-vaccination . C’est également comme cela qu’il a été possible d’interdire de travailler et de laisser sans aucun revenu, tous les personnels des services de santé non-vaccinés. Cela, sans que les syndicats de travailleurs ne lèvent un sourcil, alors qu’il s’agit d’une attaque sans précédent contre le droit de travailler et la liberté de disposer de son corps.

    Un nouveau rapport https://drees.solidarites-sante.gouv.fr/sites/default/files/2022-10/DM5.pdf de la DREES nous montre que, comme pour tout le reste, le gouvernement s’est moqué de nous depuis le début. Même les taux de personnes vaccinées sont faux et calculés uniquement dans le but de servir les desseins du gouvernement : piquer un maximum de Français, à leurs frais.

    Couvrez ce non-vacciné que je ne saurais voir, par de pareils objets les âmes sont blessées.
    Le problème est posé dès le début du rapport :
    « Il existe aujourd’hui quatre sources de données publiées en open data par trois institutions différentes sur la couverture vaccinale contre le Covid-19 en France : en rapportant la population vaccinée aux estimations de population de l’Institut national de la statistique et des études économiques (Insee), la part de personnes non-vaccinées au 14 août 2022 serait de 6,5 % chez les 18 ans ou plus selon les chiffres de Santé publique France et 6,6 % selon la Caisse nationale de l’Assurance maladie (CNAM) ; 7,0 % des 20 ans ou plus seraient non vaccinés selon la Direction de la recherche, des études, de l’évaluation et des statistiques (DREES) ; enfin, la CNAM estime que 13,9 % de la population des 20 ans ou plus ayant consommé des soins remboursés en France en 2021 serait non vaccinée à la même date. Les trois premières sources donnent ainsi des estimations nationales convergentes au global, même si on constate des écarts plus importants par groupes d’âges. Les profils par âge de la part de personnes non-vaccinées sont par ailleurs très différents entre les trois premières sources et la quatrième. »

    L’estimation de la part de non-vaccinés dans la population des plus de 20 ans varie donc de 6,5 % à 13,9 % selon les sources. Du simple au double finalement. Constater des différences aussi énormes d’une source à l’autre pose, a minima, de sérieuses questions sur la robustesse des chiffres annoncés avec aplomb depuis le début. Dans un cas, les non-vaccinés sont, en effet, marginaux, dans l’autre ils sont aussi nombreux que les votants des principaux partis politiques aux élections présidentielles.

    On ne peut pas directement calculer un taux de non-vaccinés. Aucun système ne recense (heureusement pour le moment) les personnes non-vaccinées. La seule manière est donc d’estimer le taux de personnes vaccinées. Ce qui reste est le taux de non-vaccinés. 

    Il faut donc calculer un taux de personnes vaccinées dans la population. Cela suppose de connaître le nombre de personnes vaccinées et la taille de la population. Ce n’est en fait pas si simple et comporte de nombreux biais.

    Toutes les sources utilisent la base VAC-SI pour connaître le nombre de personnes vaccinées. Les vaccinateurs ont enregistré dans la base VAC-SI toutes leurs vaccinations de façon à se faire payer. La base VAC-SI est également alimentée par l’Assurance Maladie pour relier la vaccination au dossier patient du vacciné.

    . . . . . . .


    Il est extrêmement bizarre de prendre deux sources différentes au numérateur et au dénominateur, surtout lorsqu’elles ne sont pas du tout homogènes entre elles. 
    . . . . . . .
    La suite : https://www.agoravox.fr/actualites/sante/article/bien-plus-de-non-vaccines-en-245217

    #Mathématiques #Statistiques #Insee #Assurance_Maladie #pfizer #pharma #big_pharma #covid-19 #coronavirus #santé #pandémie #confinement #sante #covid #en_vedette #sars-cov-2 #vaccination #L'argent , le #fric #l'artiche , le #flouz le #jonc #la #fraiche

  • C’est prouvé, mais...
    https://laviedesidees.fr/Draelants-Revaz-L-evidence-des-faits.html

    À propos de : Hugues Draelants & Sonia Revaz, L’évidence des faits. La politique des preuves en #éducation, Puf. L’évaluation scientifique des pratiques éducatives suffit-elle pour les améliorer ? Cette politique des preuves apparaît aux enseignants comme un obstacle à leurs pratiques quand elle s’appuie sur des généralisations #statistiques sans prendre en compte leurs intuitions professionnelles.

    #Société #science #sciences
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20221215_preuves.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20221215_preuves.pdf

    • Le cas de l’éducation sert ici de fil directeur à une réflexion plus générale concernant les limites de l’instrumentalisation politique de la science. Il ne s’agit cependant pas de considérer qu’il faudrait abandonner le projet d’utiliser la science pour améliorer les pratiques professionnelles ou pour élaborer des réformes publiques. Il s’agit plutôt de montrer que le type de preuve que l’on apporte aux professionnels ne s’appuie souvent pas sur le type de connaissances dont ils ont besoin.

      [...] Dans le livre, les auteurs rendent compte de trois formes d’ignorances volontaires [des scientifiques] que nous nous contentons ici d’évoquer très brièvement : (1) L’ignorance de l’intuition, qui désigne la façon dont la politique des preuves tend à s’imposer d’autorité aux acteurs au nom de la rigueur de leurs justifications (« C’est prouvé ! ») et à traiter les intuitions professionnelles des acteurs comme des croyances infondées. (2) L’ignorance des causes, qui désigne la façon dont, dans les études statistiques, la prévision prime sur la compréhension, la notion de « facteur de risque » se substituant à celle de « cause ». Si cette perspective suscite des résistances sur le terrain, c’est parce que les acteurs ont des réticences à agir sans savoir pourquoi ils doivent agir comme cela. (3) L’ignorance des singularités, enfin, qui concerne le décalage que peuvent ressentir les acteurs entre ce que les experts disent de la réalité et l’expérience qu’ils en ont et qui est notamment lié aux fait qu’ils ne partagent pas les mêmes critères d’évaluation

  • 25,000 violent pushbacks at EU borders documented in the ‘Black Book’

    The Left in the European Parliament today launches the second edition of the “#Black_Book_of_Pushbacks”: over 3,000 pages mapping the systematic violence unfolding at Europe’s borders. The four volumes of the Black Book are a collection of more than one thousand testimonies of people on the move compiled by independent experts from the #Border_Violence_Monitoring_Network (#BVMN). It documents how almost 25,000 thousand people were beaten, kicked, humiliated and arbitrarily detained before being illegally pushed back, both at the EU’s external borders and from deep within the territory of its member states.

    Key data:

    - 1,635 testimonies impacting 24,990 persons
    - 4 volumes, consisting of more than 3,000 pages
    - 15 countries covered: Austria, Italy, Greece, Slovenia, Croatia, Poland, Hungary, Romania, Serbia, Bosnia and Herzegovina, Montenegro, Kosovo, Bulgaria, North Macedonia, Albania 

    https://left.eu/25000-violent-pushbacks-at-eu-borders-documented-in-the-black-book

    #Black_Book #refoulements #push-backs #frontières #migrations #réfugiés #asile #violence #frontières_extérieures #frontières_intérieures #rapport #statistiques #chiffres #Autriche #Italie #Slovénie #Grèce #Croatie #Pologne #Hongrie #Roumanie #Serbie #Bosnie-Herzégovine #Bosnie #Monténégro #Kosovo #Bulgarie #Macédoine_du_Nord #Albanie #frontière_sud-alpine #Balkans #route_des_Balkans

    –—

    voir aussi ce fil de discussion :
    https://seenthis.net/messages/892443

    • - 15 countries covered: Austria, Italy, Greece, Slovenia, Croatia, Poland, Hungary, Romania, Serbia, Bosnia and Herzegovina, Montenegro, Kosovo, Bulgaria, North Macedonia, Albania

      ce qui veut dire que si on inclut la France et ses 10aines de pushback à la frontière avec l’Italie (Montgenèvre en particulier) par semaine (jours !) on doit arriver à des chiffres nettement supérieurs...

      #Frontex