• How Israel is sowing the seeds of war in South Sudan – Middle East Monitor
    https://www.middleeastmonitor.com/20190906-how-israel-is-sowing-the-seeds-of-war-in-south-sudan

    In 2015 – two years after a devastating civil war broke out in South Sudan that pushed millions to the brink of starvation – the South Sudan government launched a multi-million dollar agricultural project called Green Horizon. The aim of the project was to develop farms so that South Sudan could feed its people and produce surplus for export.

    The tender for the much-needed project was awarded to Israel Ziv, a former Israeli army operations director who touted Israeli experience in agricultural development. It was Ziv’s sole such venture anywhere in the world.

    Rather than fighting hunger, however, Green Horizon was instead used to fuel the deadly conflict between President Salva Kiir and his former deputy and fellow rebel leader, Riek Machar.

    In July, Juba-based investigative journalist, Sam Mednick, reporting for the Organised Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP), revealed how Ziv transferred at least $140 million to South Sudan’s central bank for the sale of Israeli weapons to the government. Ziv used his contacts within South Sudan’s Defence and Agricultural Ministries, the Israeli Ministry of Defence, and commodity trading firm, Trafigura. The weapons included rifles, grenade launchers and shoulder-fired rockets.

    #mort

  • Mafia nei mercati ortofrutticoli. Sud Pontino epicentro della filiera criminale

    Le mafie hanno da tempo deciso di insediarsi e condizionare non solo i processi produttivi agricoli del Paese ma anche quelli commerciali. Per questa ragione quando riescono a mettere le mani sui grandi mercati ortofrutticoli del Paese o sul sistema della logistica, finiscono col condizionare l’intera filiera agricola italiana e internazionale, trasformandola in un pericoloso collettore di interessi criminali.
    Si tratta di un avanzamento importante e pericoloso della strategia delle agromafie italiane che non deve essere sottovalutata e che è annualmente analizzato dal dossier Agromafie di Eurispes. Proprio nell’ultima edizione è presente un focus specifico sulle mafie dei mercati ortofrutticoli e della logistica che è, peraltro, in perfetta coerenza con quanto, ai primi di agosto, ha rilevato la Dia di Catania con riferimento alla consorteria criminale che ha legato insieme alcune delle famiglie mafiose e camorristiche più importanti e pericolose d’Italia.
    La Dia di Catania, infatti, ha ufficialmente confiscato 10 milioni di euro a #Vincenzo_Enrico_Auguro_Ercolano, figlio di #Giuseppe_Ercolano, considerato da molti il reggente di un sodalizio criminale assai pericoloso tra la mafia siciliana e la camorra. «Le indagini – dichiara la Dia – hanno riguardato i vertici dei clan camorristici dei #Casalesi e dei #Mallardo di Giuliano (Napoli), alleati con le famiglie siciliane dei #Santapaola ed #Ercolano, operanti del territorio catanese con diramazioni anche all’estero». Un network criminale che stritola e soffoca lo stato di diritto, la legalità, i diritti di milioni di persone e di aziende e che ogni consumatore paga ogni volta che si reca a fare la spesa. Secondo ancora la Dia, la società intestata a Vincenzo Ercolano, la #Geotrans, avrebbe gestito il trasporto dell’ortofrutta con modalità tipicamente mafiose.
    Questa confisca, dunque, contribuisce a disarticolare la logistica mafiosa che operava nel territorio nazionale e che schiacciava la libertà degli imprenditori onesti locali, di aziende agricole e dei lavoratori. L’operazione della Dia contrasta anche la costituzione di un nuovo sodalizio criminale che rischia di articolare e consolidare un’organizzazione mafiosa nuova, capace di intrecciare competenze e metodi di intervento originali, non più in competizione tra i vari clan ma in coordinamento tra di loro, sino a dare vita ad un direttorio in cui le diverse organizzazioni concordano strategie e obiettivi. Una sorta di “Quinta Mafia” che esprime la pervasività di questa organizzazione criminale nel sistema economico ed istituzionale, sino a diventare avanguardia di un modello mafioso avanzato.
    Si tratta di una riflessione che emerge anche da alcune importanti inchieste giudiziarie, a partire da quelle denominate “#Sud_Pontino” del 2006 e “#Caronte” del 2014. Ancora una volta, grazie alla Dia, epicentro di questa filiera criminale è risultato il #Mercato_Ortofrutticolo_di_Fondi (#MOF), nel Sud Pontino. Una realtà più volte indagata dalla Magistratura che spesso è riuscita a dimostrare l’influenza su di esso delle varie mafie. Si pensi all’inchiesta “#Bilico”, oppure “#La_Paganese” o “#Aleppo”. Tutte prove di una collusione pericolosa tra un sistema nevralgico per l’agricoltura nazionale, quale il Mercato di Fondi e le mafie.
    Un settore, dunque, quello della logistica e dei mercati ortofrutticoli, che la sociologa Fanizza ha recentemente analizzato in una pubblicazione d’inchiesta sociologica molto avanzata (Caporalato. An authentic Agromafia. Mimesys International, 2019) e che, secondo gli studi di Eurispes, è ormai arrivato a contare 24,5 miliardi di euro l’anno. Un business che deve essere aggredito con sempre maggiore efficienza affinché quelle risorse tornino ai loro legittimi proprietari ossia i cittadini italiani onesti.

    https://www.leurispes.it/mafia-nei-mercati-ortofrutticoli-sud-pontino-epicentro-della-filiera-crimi

    #mafia #agriculture #Italie #marchés #logistique #commerce #agro-mafia #agromafia #industrie_agro-alimentaire
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    • #Caporalato. An Authentic Agromafia

      The essay investigates the effects produced by criminal networks involved in the production and harvest of agricultural products. Focused on the analysis of caporalato, it explores the enslavement of immigrant agricultural labourers and territorial segregation practices. Moreover, it deals with the topic of the agromafias’ role and discusses matters related to the deregulation of the agricultural market, as well as the general crisis of the agroindustries.
      Because caporalato has become a methodological instrument in the framework known as globalization of the farmlands, this essay tries to evaluate the complex relationship between the agromafias’ power and the operational conditions of Italy’s local economies. The authors then explore elements of the extremely pervasive criminal network, that determines productive trends of entire agricultural departments, with the intention of denouncing the dangerous socio-cultural drift that mafia-like criminal organizations are creating in Europe.

      http://mimesisinternational.com/caporalato-an-authentic-agromafia
      #livre

  • #Piazza_della_Vittoria, Bolzano
    En me promenant à #Bolzano en mai 2019, voici ce que je vois :

    Piazza della vittoria, già Piazza della Pace
    (Place de la #victoire, déjà Place de la #paix)

    Je suis évidemment intriguée... pourquoi passer de la paix à la victoire ? Victoire de qui ? Paix pour qui ?

    Le #monument sur ladite place est aussi très imposant et impressionnant... et par son #architecture on comprend vite quand il a été érigé...

    Petit tour sur wikipedia, qui nous dit que le monument a été construit entre 1926 et 1928.
    #Monumento_alla_Vittoria :
    https://it.wikipedia.org/wiki/Monumento_alla_Vittoria_(Bolzano)
    #Siegesdenkmal

    Vous pouvez découvrir l’histoire du monument sur la page wikipedia.

    Je voulais aussi signaler un passage autour de ce monument dans le #livre de #Alessandro_Leogrande, « #La_frontiera » :

    «A Bolzano li chiamano ancora ’relitti fascisti’. Sono tutti quei musolei, palazzi, cimeli che ricordano il ventennio mussoliniano. Il relitto fascista per eccellenza è il monumento realizzato da #Marcello_Piacentini nel 1928 per celebrare la vittoria italiana nella Grande guerra e per rimarcare, com’è scritto in latino a caratteri cubitali sulla facciata, che ’hic patriae fines siste signa, hinc ceteros excluimus lingua legibus artibus’. E, cioè, che non solo qui sono fissati i confini della patria, ma che proprio ’da qui’ educammo ’gli altri’ con la lingua, le leggi, le arti.
    Per decenni ’gli altri’, cioè la comunità germanofona cui il fascismo aveva impedito di usare la propria lingua, hanno visto nel monumento il simbolo più eclatante dell’usurpazione e dell’occupazione. Ed eclatante il monumento di Piacentini lo è davvero. Non solo perché, con grande dispendio di marmo bianco, s’alza in stile littorio fino a dominare un’ampia porzione d’abitato, proprio nel punto in cui era stata avviata la costruzione di un altro monumento, prontamente demolito, in memoria dei caduti del reggimento austriaco #Kaiserjäger. Non so perché appare del tutto fuori luogo rispetto al territorio circostante, al paesaggio, all’architettura tradizionale, con lse sue quattordici colonne a forma di fascio che reggono un’imponente architrave. Ma anche perché è stato il cardine della mutazione urbanistica della città. Una mutazione imposta dal fascismo, che culmina, al termine di una serie di strade che ricordano i ’trionfi’ nazionali, nella piazza del Tribunale.
    Il Monumento è stato sempre percepito come la punta dell’iceberg di una frattura più ampia. D’altro canto, la destra italiana l’ha sempre difeso come un ’proprio’ simbolo, anche in età repubblicana. Così, benché a un certo punto la Südtiroler Volkspartei, il partito che rappresenta le minoranze tedesche e ladina e ha governato il processo di crescente autonomia della provincia, lo volesse buttare giù, è rimasto al suo posto. Ogni volta che gli attriti sono riemersi, ogni volta che il cammino verso l’autodeterminazione della provincia speciale è parso arrestarsi, ogni volta che le bombe hanno ripreso a esplodere, e sono state molte le bombe a esplodere in queste vallate tra gli anni sessanta e ottanta del Novecento, quelle funebri colonne littorie sono tornate al centro del buco nero delle reciproche incomprensioni.
    Nel 1979 fu #Alexander_Langer, leader della nuova sinistra, da sempre sostenitore della necessità di creare gruppi interetnici, tanto da aver fondato dieci anni prima una rivista che si chiamava ’#Die_Brücke', ciò ’Il ponte’, a presentare in Consiglio provinciale una mozione in cui si chiedeva che il monumento diventasse un luogo di ’memoria autocritica’. Ma la mozione non passò, perché gli opposti nazionalismi vedevano entrambi come fumo negli occhi la possibilità di trasformare quelle colonne in un monito permanente. Per gli uni andavano soltanto abbattute, per gli altri dovevano rimanere tali e quali al loro posto. Dopo una serie di attentati, il Monumento venne addirittura recintato, tanto da accrescere il senso di separazione.
    La trasformazione auspicata da Langer si è realizzata solo ora con la creazione di un percorso espositivo permanente intitolato BZ ’18-’45. Un monumento, una città, due dittature , che si snoda nei locali sottostanti l’opera di Piacentini. (...)
    L’esposizione allestita nall cripta e nei corridoi sotterranei mi ha sorpreso. Pannello dopo pannello, video dopo video, sono ripercorsi i momenti della sua costruzione e la storia della città tra le due guerre mondiali, quando fu pesantemente condizionata dai due totalitarismi, quello fascista e quello nazista. Tuttavia il maggior intervento sul monumento non è tanto costituito dal percorso espositivo, quanto da un anello a led che cinge una delle colonne centrali. Sullo schermo nero circolare, spesso almeno mezzo metro, scorre rosso il titolo della mostra (BZ ’18-’45...), tradotto in tre lingue: italiano, tedesco e inglese.
    L’opera di Piacentini non è stata rimossa, ma questa sorta di vistoso ’anello al naso’ ha il potere di desacralizzarla, trasformandola in altro da sé. Tra la retorica del Monumento e gli occhi di chi lo guarda si insinua subito un terzo elemento che ne ribalta il senso profondo».

    (pp.218-220)

    #fascisme #WWI #première_guerre_mondiale #toponymie #Italie #langue #alterité #patriotisme #architecture_fasciste #urbanisme_fasciste #géographie_urbaine #Südtirol #Province_autonome_de_Bolzano #nationalisme #exposition

    ping @simplicissimus @reka

    • «A Bolzano li chiamano ancora ’relitti fascisti’. Sono tutti quei mausolei, palazzi, cimeli che ricordano il ventennio mussoliniano. Il relitto fascita per eccellenza è il monumento realizzato da #Marcello_Piacentini nel 1928 per celebrare la vittoria italiana nella Grande guerra e per rimarcare, com’è scritto in latino a caratteri cubitali sulla facciata, che ’hic patriae fines siste signa, hinc ceteros excoluimus lingua legibus artibus’. E, cioè, che non solo qui sono fissati i confini della patria, ma che proprio ’da qui’ educammo ’gli altri’ con la lingua, le leggi, le arti.
      Per decenni ’gli altri’, cioè la comunità germanofona cui il fascismo aveva impedito di usare la propria lingua, hanno visto nel monumento il simbolo più eclatante dell’usurpazione e dell’occupazione. Ed eclatante il monumento di Piacentino lo è davvero. Non solo perché, con grande dispendio di marmo bianco, s’alza in stile littorio fino a dominare un’ampia porzione dell’abitato, prioprio nel punto in cui era stata avviata la costruzione di un altro monumento, prontamente demolito, in memoria dei caduti del reggimento austriaco Kaiserjäger. Non solo perché appare del tutto fuori luogo rispetto al territorio circostante, al paesaggio, all’architettura tradizionale, con le sue quattordici colonne a forma di fascio che reggono un’imponente architrave. Ma anche perché è stato il cardine della mutazione urbainstica della città. Una mutazione imposta dal fascismo, che culmina, al termine di una serie di strade che ricordano i ’trionfi’ nazionali, nella piazza del Tribunale.
      Il Monumento è stato sempre percepito come la punta dell’iceberg di una frattura più ampia. D’altro canto, la destra italiana l’ha sempre difeso come un ’proprio’ simbolo, anche in età repubblicana. Così, benché a un certo punto la Südtiroler Volkspartei, il partito che rappresenta la minoranza tedesca e ladina e ha governato il processo di crescente autonomia della provincia, lo volesse buttare giù, è rimasto al suo posto. Ogni volta che gli attriti sono riemersi, ogni volta che il cammino verso l’autodeterminazione della provincia speciale è parso arrestarsi, ogni volta che le bombe hanno ripreso a esplodere, e sono state molte le bombe a esplodere in queste vallate tra gli anni sessanta e ottanta del Novecento, quelle funebri colonne littorie sono tornate al centro del buco nero delle reciproche incomprensioni.
      Nel 1979 fu #Alexander_Langer, leader della nuova sinistra, da sempre sostenitore della necessità di creare gruppi interetnici, tanto da aver fondato dieci anni prima una rivista che si chiamava ’Die Brücke’, cioè ’Il ponte’, a presentare in Consiglio provinciale una mozione in cui si chiedeva che il monumento diventasse un luogo di ’memoria autocritica’. Ma la mozione non passò, perché gli opposti nazionalismi vedevano entrambi come fumo negli occhi la possibilità di trasformare quelle colonne in un monito permanente. Per gli uni andavano soltanto abbattute, per gli altri dovevano rimanere tali e quali al loro posto. Dopo una serie di attenati, il Monumento venne addiritutra recintato, tanto da accrescere il senso di separazione.
      La trasformazione auspicata da Langer si è realizzata solo ora con la creazione di un percorso espositivo permanente BZ ’18-’45. Un monumento, una città, due dittature , che si snoda nei locali sottostanti l’opera di Piacentini. (...)

      L’esposizione allestita nella cripta e nei corridoi sotterranei mi ha sorpreso. Pannello dopo pannello, video dopo video, sono ripercorsi i momenti della sua costruzione e la storia della città tra le due guerre mondiali, quando fu pesantemente condizionata dai due totalitarismi, quello fascista e quello nazista. Tuttavia il maggior intervento sul monumento non è tatno costituito dal percorso espositivo, quanto da un anello a led che cinge una delle colonne centrali. Sullo schermo nero circolare, spesso almeno mezzo metro, scorre in rosso il titolo della mostra (BZ ’18-’45...), tradotto in tre lingue: italiano, tedesco e inglese.
      L’opera di Piacentini non è stata rimossa, ma questa sorta di vistoso ’anello al naso’ ha il potere di desacralizzarla, trasformandola in altro da sé. Tra la retorica del Monumento e gli occhi di chi lo guarda si insinua subito un terzo elemento che ne ribalta il senso più profondo»

      in: Alessandro Leogrande, La frontiera , 2017, pp. 218-220.

    • #Mussolini bas relief

      “The Mussolini Bas relief” in travertine marble is 36 m long, 5,5 m high and 50 cm deep. With these dimensions it is surely the biggest bas relief in Europe. It has been sculpted on 57 plates of marble of various dimensions and disposed on two rows on the pediment of the “Casa Littoria” (house of the lictor) that was the headquarters of the fascist party. The numerous figures and details on the bas relief represent and glorify various establishments in different stages of fascism, from the victory of the first world war to the march on Rome. At the centre the dictator, Benito Mussolini, is represented like a Roman emperor on a horse with his arm out in a Roman salute. Between the horses’ legs the words “Believe, Obey, Fight” are sculpted in large letters.
      The bas relief was finished, but never fully assembled, during the fascist regime. Some of the central plates, post-war, were held in a safety-deposit. During the following years after the end of the war the monuments that glorified fascism were destroyed and only in 1957 during a visit from the President of the Republic the Mussolini bas relief was completed.
      To date, all the attempts to destroy the Mussolini bas relief or safeguard it in a museum have failed for reasons linked to its political exploitation from the various parties and groups. A contest accepted by the South-Tyrolean government in 2011 has still not produced any results.

      https://www.sentres.com/en/mussolini-bas-relief
      #Hans_Piffrader

  • Au Cameroun, Greenpeace Africa plaide pour la sécurisation des terres des peuples autochtones
    http://www.lescoopsdafrique.com/2019/08/09/au-cameroungreenpeace-africa-plaide-pour-la-securisation-des-terre

    Les 8 et 9 août à l’esplanade du stade omnisport de #Yaoundé, les #peuples_autochtones attirent une fois de plus l’attention du gouvernement camerounais vis-à-vis de l’impact négatif de l’acquisition des #terres à grande échelle pour l’#agriculture_industrielle sur leur vie, et en même temps, sensibilisent l’opinion tant national qu’internationale sur la nécessité de pérennisation de leur patrimoine culturel.

    “ Nous avons été déplacés de la #forêt sans plan de relocalisation et au profit de la #plantation industrielle de la compagnie #SudCam. Il est essentiel que, pour un projet de grande envergure comme celui de SudCam, nous, les #Baka soyons consultés au préalable, car nous sommes les premiers gardiens de la forêt et devrions en être les premiers bénéficiaires. Le gouvernement doit nous impliquer dans le processus d’acquisition des terres car cela a un impact sur notre vie”, a déclaré Yemelle Parfait, un leader Baka du village d’#Edjom dans le Sud #Cameroon.

  • « La tête haute » : Postiers grévistes des Hauts-de-Seine, le récit d’une lutte victorieuse
    https://lemediapresse.fr/social/la-tete-haute-postiers-grevistes-des-hauts-de-seine-le-recit-dune-lutt

    Entre actions coup de poing, occupations et assemblées générales, les postiers grévistes des Hauts-de-Seine ont conclu, après quinze mois de #Grève, un protocole de fin de conflit avec la direction de La #Poste. Retour sur une #Mobilisation historique.

    #Social #emploi #Quirante #SUD #Sud_Poste #syndicalisme #Syndicat #Syndicats #Travail

  • Un syndicalisme debout | Iffik Le Guen
    http://cqfd-journal.org/Un-syndicalisme-debout

    Apparue dans le paysage syndical français à la fin des années 1990, l’Union syndicale Solidaires a cherché à rompre avec les pratiques les plus détestables en vigueur dans les grandes confédérations. Intérêt plus pratico-pratique pour expliquer cet article, leur local marseillais est situé à deux pas de celui de CQFD. Témoignages croisés. Source : CQFD

  • Quando tornai al mio paese del Sud

    Quando tornai al mio paese nel Sud,
    dove ogni cosa, ogni attimo del passato
    somiglia a quei terribili polsi di morti
    che ogni volta rispuntano dalle zolle
    e stancano le pale eternamente implacati,
    compresi allora perché ti dovevo perdere:
    qui s’era fatto il mio volto, lontano da te,
    e il tuo, in altri paesi a cui non posso pensare.

    Quando tornai al mio paese del Sud,
    io mi sentivo morire.

    In: Tutte le poesie (Controluce, 2015)

    https://internopoesia.com/tag/quando-tornai-al-mio-paese-del-sud

    #retour #poésie #migrations #Italie #Italie_du_Sud #Sud #retour_au_pays

    ping @wizo @albertocampiphoto

  • Des armes israéliennes se cachent-elles derrière « l’agriculture » au Sud Soudan ?
    Ali Abunimah, The Electronic Intifada, le 25 juillet 2019
    https://www.agencemediapalestine.fr/blog/2019/07/26/des-armes-israeliennes-se-cachent-elles-derriere-lagriculture-a

    De nouvelles révélations sur un général israélien accusé de trafic d’armes jettent un doute supplémentaire sur ses déclarations comme quoi il ne ferait qu’aider les Africains dans des projets agricoles.

    En décembre dernier, le gouvernement américain a prononcé des sanctions contre Israel Ziv, général israélien à la retraite qu’il accuse de fournir des armes pour alimenter la guerre civile du Sud Soudan.

    D’après le Département du Trésor américain, Ziv s’est servi d’une société agricole « comme couverture pour vendre à peu près pour 150 millions $ d’armes au gouvernement, dont des fusils, des lance-grenades et des lance-roquettes portables ».

    On dit aussi qu’il « a planifié l’organisation d’attaques par des mercenaires sur les champs pétroliers sud-soudanais et leurs infrastructures, pour essayer de créer un problème que seules sa société et ses filiales pourraient régler ».

    Des télégrammes diplomatiques ont par ailleurs révélé que les fonctionnaires américains étaient déjà préoccupés par les activités de Ziv en Amérique Latine depuis 2006. On dit qu’il a fourni des conseils militaires à la Colombie et au Pérou sur la façon d’écraser les soulèvements.

    Mais quelle pourriture humaine ?!

    #Sud-Soudan #Trafic_d'armes #mercenaires

    A rajouter à la compile #Israfrique :
    https://seenthis.net/messages/685758

  • Israel’s scramble for Africa: Selling water, weapons and lies
    Ramzy Baroud, Al Jazeera, le 23 juillet 2019
    https://www.aljazeera.com/indepth/opinion/israel-scramble-africa-selling-water-weapons-lies-190722184120192.html

    For years, Kenya has served as Israel’s gateway to Africa

    The Palestinian leadership has itself shifted its political focus away from the global south, especially since the signing of the Oslo Accords. For decades, Africa mattered little in the limited and self-serving calculations of the Palestinian Authority. For the PA, only Washington, London, Madrid, Oslo and Paris carried any geopolitical importance - a deplorable political blunder on all accounts.

    Yet, despite its many successes in luring African governments to its web of allies, Israel has failed to tap into the hearts of ordinary Africans who still view the Palestinian fight for justice and freedom as an extension of their own struggle for democracy, equality and human rights.

    #Kenya #histoire
    #Ouganda #Sud-Soudan #Rwanda #Ethiopie #Tanzanie #Guinée #Liberia #Tchad #Niger #Mali #Nigeria #Cameroun

    A rajouter à la compile #Israfrique :
    https://seenthis.net/messages/685758

  • En #Belgique aussi, des #Médias sous influence
    https://lemediapresse.fr/international/en-belgique-aussi-des-medias-sous-influence

    En Belgique, aucun milliardaire n’est à la tête des principaux journaux francophones du pays. Pourtant, la majorité des titres de #Presse a tout autant tendance à se ranger du côté de l’ordre établi. Entre emprise de la publicité, précarisation de la profession de journaliste et logiques gestionnaires, tour d’horizon d’un secteur sous influence.

    #International #Arnault #Bolloré #Critique_des_médias #DH #droit_du_travail #oligarques #précarité #salariat #SudPresse #Wallonie

  • La #Poste au tribunal : un procès inédit contre la #sous-traitance abusive
    https://lemediapresse.fr/social/la-poste-au-tribunal-un-proces-inedit-contre-la-sous-traitance-abusive

    Dans les murs du Tribunal de Grande Instance de Nanterre, l’entreprise publique était jugée hier suite au décès, il y a six ans, d’un jeune livreur employé par l’un de ses sous-traitants. Une procédure dans laquelle la Poste est accusée de « prêt illicite de main d’œuvre et de marchandage » : trois #Syndicats se sont portés partie civile pour protester contre ce qu’ils qualifient de « sous-traitance abusive ». 

    #Social #Bagaga #CGT #emploi #libéralisation #SUD #syndicalisme #Syndicat #Travail #UNSA

  • An open letter to Extinction Rebellion | Red Pepper
    https://www.redpepper.org.uk/an-open-letter-to-extinction-rebellion

    This letter was collaboratively written with dozens of aligned groups. As the weeks of action called by Extinction Rebellion were coming to an end, our groups came together to reflect on the narrative, strategies, tactics and demands of a reinvigorated climate movement in the UK. In this letter we articulate a foundational set of principles and demands that are rooted in justice and which we feel are crucial for the whole movement to consider as we continue constructing a response to the ‘climate emergency’.

    At the same time, in order to construct a different future, or even to imagine it, we have to understand what this “path” is, and how we arrived at the world as we know it now. “The Truth” of the ecological crisis is that we did not get here by a sequence of small missteps, but were thrust here by powerful forces that drove the distribution of resources of the entire planet and the structure of our societies. The economic structures that dominate us were brought about by colonial projects whose sole purpose is the pursuit of domination and profit. For centuries, racism, sexism and classism have been necessary for this system to be upheld, and have shaped the conditions we find ourselves in.

    Another truth is that for many, the bleakness is not something of “the future”. For those of us who are indigenous, working class, black, brown, queer, trans or disabled, the experience of structural violence became part of our birthright. Greta Thunberg calls world leaders to act by reminding them that “Our house is on fire”. For many of us, the house has been on fire for a long time: whenever the tide of ecological violence rises, our communities, especially in the Global South are always first hit. We are the first to face poor air quality, hunger, public health crises, drought, floods and displacement.

    #extinction_rebellion #écologie #stratégie #green_new_deal #programme #transition

    • You may not realize that when you focus on the science you often look past the fire and us – you look past our histories of struggle, dignity, victory and resilience. And you look past the vast intergenerational knowledge of unity with nature that our peoples have. Indigenous communities remind us that we are not separate from nature, and that protecting the environment is also protecting ourselves. In order to survive, communities in the Global South continue to lead the visioning and building of new worlds free of the violence of capitalism. We must both centre those experiences and recognise those knowledges here.

      #sud_global #justice #politique

  • Improvised Lives: Rhythms of Endurance in an Urban South

    The poor and working people in cities of the South find themselves in urban spaces that are conventionally construed as places to reside or inhabit. But what if we thought of popular districts in more expansive ways that capture what really goes on within them? In such cities, popular districts are the settings of more uncertain operations that take place under the cover of darkness, generating uncanny alliances among disparate bodies, materials and things and expanding the urban sensorium and its capacities for liveliness.

    In this important new book #AbdouMaliq_Simone explores the nature of these alliances, portraying urban districts as sites of enduring #transformations through rhythms that mediate between the needs of residents not to draw too much attention to themselves and their aspirations to become a small niche of exception. Here we discover an urban South that exists as dense rhythms of endurance that turn out to be vital for survival, connectivity, and becoming.

    https://www.barnesandnoble.com/w/improvised-lives-abdoumaliq-simone/1128653560
    #urbanisme #urban_matter #livre #Sud_global #rythme #géographie_urbaine #quartiers_populaires
    ping @reka

  • BALLAST | Françoise Vergès : « La lutte décoloniale élargit les analyses » (1/2)
    https://www.revue-ballast.fr/francoise-verges-la-lutte-decoloniale

    C’est une bonne image ! Le Sud, ce n’est pas un espace purement géographique, mais politique. C’est le produit d’une longue fabrication par le Nord et par le système capitaliste, qui en a fait un espace de vulnérabilité, à piller et à exploiter. Ce qu’on a appelé le « #Tiers_monde » et qu’on appelle maintenant le « Sud global », c’est cette constante division de l’humanité et de la planète en deux espaces, avec des frontières mouvantes qui distinguent d’un côté les gens qui ont droit à une vie décente, qui ont accès à de l’eau ou de l’air propre, et de l’autre ceux qui n’y ont pas droit. Dans le même temps, on trouve dans ce qu’on appelle le « Nord » (y compris en Europe) des espaces construits comme des Suds. Une géographie urbaine en enclaves se développe, et partout les classes moyennes et riches se protègent en construisant des « gated communities ». Leurs membres passent d’une enclave à l’autre, de leur maison climatisée au centre commercial climatisé — autant d’espaces entretenus par des femmes et des hommes racisés (mais surtout des #femmes), surexploités puis rejetés dans des quartiers excentrés où l’eau et l’air sont pollués. Le confort de quelques-uns est construit sur l’#invisibilisation et l’#exploitation de plusieurs. Et cette construction en enclaves sécurisées, surveillées, interdites aux pauvres, est visible y compris dans les villes du Sud. Il faut constamment affiner les cartographies que construisent des États autoritaires, le #néolibéralisme et l’#impérialisme, mais aussi intégrer le fait d’un monde multipolaire.

    #colonialisme #racisme #esclavage #capitalisme #consommation

  • A #Montpellier, le pétrin entre en gare
    https://www.liberation.fr/france/2019/03/27/a-montpellier-le-petrin-entre-en-gare_1717827

    Elle a coûté 142 millions d’euros, mais c’est une station fantôme. La nouvelle #gare « #Sud_de_France » est bâtie au milieu de nulle part, sans même un guichet, et accueille à peine huit trains par jour. Malgré les mises en garde d’écologistes et d’élus qui demandent son retrait, une deuxième de ce genre devrait bientôt voir le jour près de Nîmes.

    #gpii #sncf

    • Le passage de la vidéo pertinent commence en 26:18, et l’opinion de Bégaudeau sur Chouard ainsi que sur cette « connotation » en 27:57. Pour ce que j’en saisis Bégaudeau apprécie la pensée de Chouard et juge « bête » de ne pas s’y intéresser parce que ce dernier a (ou aurait, peu lui importe) fréquenté/apprécié/parlé de/whatever Soral. À mon sens Bégaudeau n’apprécie pas l’ad hominem et, pour illustrer, évoque un juge d’instruction (lequel se soucie surtout de faire condamner plutôt que de comprendre), et je lui donne raison. Dans cette veine on peut refuser de lire Céline parce qu’il professait des idées abjectes.

    • F. Boulo (gilet jaune), interviewé par Thinkerview, aborde (en 01:06:40) un effet similaire : « je ne veux pas dire ce que j’ai voté ((...)) je n’ai pas étiquette, ça (me) permet justement que le discours passe sans filtre et que les gens écoutent les arguments, ce qui est le coeur de la politique, les idées, et donc après ils sont d’accord ou pas d’accord, mais au moins ils écoutent. Parce dès lors qu’on vous classe dans une case politique, ça y est vous êtes filtré, et donc si quelqu’un qui n’est pas de ce bord politique là écoute, eh bien en fait il n’écoutera pas, ne réfléchira même pas aux idées ».

      https://www.youtube.com/watch?v=tRl9_q2ytI8

  • #Migration Myths and the Global South – The Cairo Review of Global Affairs

    https://www.thecairoreview.com/essays/migration-myths-and-the-global-south

    Far from seeing human movement as natural and essential, we live in a world of obsessive border policing: walls and fortresses; gated compounds and ghettos; camps and detention centers; and proliferating zones of elite luxury alongside shrinking public spaces. Whether through calculated legal processes or gradual gentrification and de facto apartheid, we maintain ever-stricter distinctions between migrants and refugees, citizens and non-citizens, insiders and outsiders, haves and have-nots. The dominant discourse on migration helps create and perpetuate such a world by privileging certain types of individual suffering—discrimination, persecution, torture—as worthy of international notice and protection, while normalizing the more widespread and systemic suffering caused by poverty, inequality, disease, famine, drought, climate change, and environmental degradation, from which one is neither expected nor permitted to flee across borders.

    #global_south #sud #développemnt #pays_en_voie_de_développment

  • Sudokus and Schedules
    https://hackernoon.com/sudokus-and-schedules-4b4693b07c2b?source=rss----3a8144eabfe3---4

    Solving Scheduling Problems with Tree SearchPan Am’s Reservation Center in the 1950’sMachine learning is quite the rage these days, so much it is easy to lose sight of the fact there are other #algorithms in the “AI” space. As a matter of fact, these algorithms can be so crucial that it can be neglectful to overlook them.https://medium.com/media/5cdb4af8e1b955a096783fc3814f3114/hrefImagine you needed to schedule classes and classrooms. There are 36 periods, 36 rooms, and 800 lectures as your dimensions to schedule against. Want to take a guess how many possible configurations there are? Here is the answer: 1⁰²⁴⁹⁰ possible configurations. To put it in perspective, there are 1⁰⁸⁰ observable atoms in the universe. Even a task as mundane as classroom scheduling deals with astronomical numbers and (...)

    #sudokus-and-schedules #machine-learning #artificial-intelligence #kotlin

  • Wie Groß-Berlin entstand: Berlins vergessener Vater - Berlin - Tagesspiegel
    https://www.tagesspiegel.de/berlin/wie-gross-berlin-entstand-berlins-vergessener-vater/23852546.html


    Vollblutbeamter. Adolf Wermuth war nie Mitglied in einer Partei.FOTO: AKG-IMAGES

    13.01.2019 - Ohne ihn wäre die Stadt keine Metropole. Doch kaum jemand kennt seinen Namen: Vor 100 Jahren formte Adolf Wermuth das heutige Berlin.
    Von CHRISTIAN HÖNICKE und LARS SPANNAGEL

    Es war der 1. Oktober 1920, als Berlin über Nacht zur drittgrößten Stadt der Erde wurde. Damals verschmolz Berlin mit umliegenden Gemeinden und Städten, formte sich die Metropole, wie wir sie heute kennen. „Das prägt noch heute entscheidend unsere Stadt“, heißt es in der Koalitionsvereinbarung der rot-rot-grünen Regierung. Den hundertsten Geburtstag will sie deshalb groß feiern. Ausstellungen sind geplant und Sonderbriefmarken, es wird Festakte geben, Reden, Ehrungen.

    Einer wird nicht geehrt. Er liegt vergessen auf einem Friedhof in Buch, ganz im nördlichsten Zipfel der Stadt: der Vater von Groß-Berlin.

    Versteckt hinter der Schlosskirche steht dort ein schlichter schwarzer Grabstein mit Kreuz. „Seid fröhlich in Hoffnung!“, steht darauf. Hier liegen keine Blumen, keine Kränze, nur ein toter Vogel auf ungepflegtem Gras. Darunter ist Adolf Wermuth begraben.

    Eine neue Megametropole

    Er führte Berlin als Oberbürgermeister durch eine der schwierigsten Phasen seiner Geschichte, durch einen Weltkrieg und eine Hungersnot. Am Ende seiner Amtszeit gelang ihm das, woran alle seine Vorgänger gescheitert waren: Er vereinigte das alte Berlin mit dem Umland, mit Charlottenburg, Spandau, Köpenick, Reinickendorf und Pankow. Und erschuf so eine neue Megametropole mit fast vier Millionen Einwohnern.

    Trotzdem kennt kaum ein Mensch noch seinen Namen. Wermuth war kein schillernder Star. Er war ein unprätentiöser Pragmatiker, der ein Projekt umgesetzt hat, das bis heute umstritten ist. Es gibt nur wenige Bilder von ihm, kaum Schriftstücke über ihn, das wichtigste hat er selbst geschrieben, im Jahre 1922: seine Autobiografie „Ein Beamtenleben“. Weil er parteilos war, hatte er nie eine Lobby, die für eine Würdigung seiner Leistung eintrat. Nur in Buch glauben ein paar Menschen zu wissen, wie wichtig dieser mysteriöse Mann mit dem markanten Schnauzbart für die Entstehung des modernen Berlins war.

    Per Gesetz vergrößerte sich die Stadt damals um das 13fache, von der Fläche her war auf der Welt nur noch Los Angeles größer. Nach London und New York wurde Berlin zur drittbevölkerungsreichsten Stadt der Erde.

    Die Industrialisierung hatte die Stadt in den Jahrzehnten zuvor unkontrolliert wachsen lassen. Um 1800 hatte Berlin rund 200.000 Einwohner, 1910 schon knapp zwei Millionen – bei nahezu unverändertem Stadtgebiet, das die heutigen Stadtteile Mitte, Tiergarten, Wedding, Friedrichshain, Kreuzberg und Prenzlauer Berg umfasste. Auch die umliegenden Städte und Gemeinden erlebten einen rasanten Zuzug: Aus 2367 Wilmersdorfern im Jahre 1875 wurden 109.716 im Jahre 1910.

    Wer es sich leisten konnte, zog in den Südwesten

    Die Neuankömmlinge verdingten sich meist als Fabrikarbeiter, Tagelöhner, Dienstbotinnen. Die kommunale Verwaltung, der Ausbau der Infrastruktur und der Wohnungsbau konnten nicht mithalten. Die Folge war großes Elend. Mehr als 600.000 Berliner lebten in Wohnungen, in denen jedes Zimmer mit fünf oder mehr Personen belegt war. Wer es sich leisten konnte, zog in eine der Nachbargemeinden, vorzugsweise in eines der vornehmen Villenviertel im Südwesten.

    Doch auch dort gab es Probleme. Die Umlandgemeinden kooperierten nicht, sie konkurrierten. Es gab allein 17 Wasser-, 40 Gas- und 60 Kanalisationsbetriebe im Großraum, dazu 15 Elektrizitätsversorger, weil nahezu jede Gemeinde ihr eigenes System angelegt hatte. „Kommunale Anarchie“ nannte das ein Berliner Lokalpolitiker. Und der Zweite Bürgermeister, Georg Reicke, veranschaulichte sie so: „Wer es erfahren hat, welche Unsummen von Verhandlungen, von Schreibereien, von Konzessionen (...) dazu erforderlich sind, damit eine einzige Gemeinde ein Rohr durch das Gebiet einer anderen leitet, (...) ein neues Verkehrsmittel einführt, das allen zu dienen bestimmt ist, der muß die Unnatur, die Widersinnigkeit des jetzigen Zustandes empfinden.“

    Diese Anarchie zu beenden, war Wermuths selbst gewählte Mission. Er war es gewohnt, Dinge ohne Rücksicht auf Befindlichkeiten neu zu ordnen. Der studierte Jurist hatte zuvor fast drei Jahrzehnte lang im Reichsamt des Inneren in Berlin gearbeitet, dem Innenministerium des Kaiserreichs. Dort war er am Aufbau des Deutschen Wetterdienstes beteiligt, eine seiner ersten Aufgaben in eigener Verantwortung war es, per Gesetz eine neue Maß- und Gewichtsordnung durchzusetzen. Lieb gewonnene Bezeichnungen wie Pfund, Zentner und Lot schaffte er zugunsten von Gramm und Kilogramm ab, „erbarmungslos“, wie er selbst befand.

    Nun war Berlin dran.

    Ebenso erbarmungslos wollte er den Zusammenschluss mit den umliegenden Gemeinden gegen alle Widerstände erreichen. 1912 trat er sein Amt als Oberbürgermeister an. „Die Tat drängte sich am ersten Tag unwiderstehlich auf“, notierte er später. „Groß-Berlin fackelte nicht.“

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    Die Stadtgrenzen von 1920 sind nahezu identisch mit den heutigen.GRAFIK: FABIAN BARTEL

    Sicher, die Idee Groß-Berlin hatte viele Väter und Mütter. Schon Mitte des 19. Jahrhunderts wurden teils gegen ihren Willen Moabit, Wedding, Tempelhof und Teile von Schöneberg eingemeindet. Später folgten der Tiergarten, der Zoo und der Schlossbezirk Bellevue. In den 1870er Jahren wollte Oberbürgermeister Arthur Hobrecht (der Bruder des berühmten Stadtbaurats James) Berlin mit Charlottenburg, Köpenick und den Landkreisen Teltow im Süden und Niederbarnim im Norden vereinigen. Doch zwei Anläufe im Preußischen Abgeordnetenhaus scheiterten.

    Der letzte Versuch misslang 1896. Der Berliner Magistrat unter Bürgermeister Robert Zelle und die Stadtverordneten konnten sich nach fünf Jahren Verhandlung nicht einigen. Die Verordneten wollten gern die florierenden Städte des Kreises Teltow nach Berlin holen. Zu ihm gehörten alle Gemeinden südlich der Spree zwischen Potsdam und Köpenick, darunter Charlottenburg, Wilmersdorf und Schöneberg. Die aber wollten sich ihren Wohlstand nicht von Berlins „rotem Magistrat“ streitig machen lassen.

    An den Gebieten im Norden und Osten wiederum hatten die Berliner Verordneten kein Interesse. Zwar war die Gegend mit ihren vielen Äckern die Kornkammer Berlins. Doch außer ein paar Großbauern dominierte die Armut. Direkt hinter dem Mietskasernenring schwappte das proletarische Berlin in Arbeitervororte über, die sich vom Zusammenschluss eine Verbesserung erhofften. Dort, wo der Rauch der Industrieschlote hinwehte, gab es wenig Steuern zu holen, dafür umso mehr auszugeben.

    20 Bezirke, die Grundlage der heutigen Verwaltung
    Erst zwei Jahrzehnte später gelang es, Groß-Berlin zu formen. 94 Gemeinden schlossen sich zu einer zusammen. Zu den acht Städten Berlin, Charlottenburg, Köpenick, Lichtenberg, Neukölln, Schöneberg, Spandau und Wilmersdorf kamen 59 Landgemeinden und 27 Gutsbezirke. Groß-Berlin wurde in 20 Verwaltungsbezirke eingeteilt, die nach einigen Grenzkorrekturen im Prinzip noch heute bestehen.

    Die treibende Kraft dieser Mega-Fusion war Adolf Wermuth. Ohne ihn wäre Groß-Berlin vermutlich nur ein Traum geblieben – wie jener von „Grand Paris“, der trotz vieler Anläufe nie Wirklichkeit wurde. Wermuth war der richtige Mann zur richtigen Zeit – am richtigen Ort.

    Wermuth war gerade 57 Jahre alt und stand vor einem Neuanfang. Er, der 1855 in Hannover geboren worden war, hatte sich bis weit nach oben gearbeitet. Schon sein Vater war Regierungspräsident, die Königsfamilie von Hannover regelmäßig Gast im Haus. Wermuth studierte in Göttingen und wurde 1882 ins Reichsamt nach Berlin berufen. Er verantwortete die Repräsentanz des Deutschen Reiches bei den Weltausstellungen in Melbourne und Chicago. Aus Melbourne kehrte er blass, mager und von Malaria gezeichnet zurück, für den Rest seines Lebens litt er unter Schwindelanfällen und stieg doch später im Reichsschatzamt zu einem der wichtigsten Staatssekretäre Preußens auf. Allerdings trat er schon damals kompromisslos auf. Auch gegenüber Autoritäten. Im Streit um eine Erhöhung der Erbschaftssteuer warf er 1912 sein Amt hin – und machte erst einmal eine Wanderung durch den Harz.

    Viele Berliner wohnten feucht, dunkel, kalt, schmutzig
    Unterwegs erreichte ihn ein Brief. Ein Berliner Stadtverordneter fragte an, ob Wermuth Nachfolger des amtsmüden Oberbürgermeisters Martin Kirschner werden wolle. Wermuth willigte ein. Am 12. Mai 1912 wurde der parteilose Beamte von der Stadtverordnetenversammlung mit sozialdemokratischer Mehrheit zum neuen Oberbürgermeister gewählt. In den zwei Wochen, bevor er im September sein Amt antrat, machte Wermuth sich ein Bild von der Stadt, die er regieren sollte.

    Was er sah, war eine Metropole unter enormen sozialen Druck. Er besichtigte das Virchow-Krankenhaus, Volksschulen und Lyzeen, Markthallen und Viehhöfe, sah „bis in die Nacht hinein Tausende in das Städtische Obdach strömen“. Ein großer Teil der Bevölkerung wohnte feucht, dunkel, kalt, schmutzig, fensterlos, von Ungeziefer geplagt. Eine Toilette teilten sich manchmal bis zu 20 Haushalte, Krankheiten wie Cholera, Typhus, Tuberkulose waren Alltag.

    Um die Not ein wenig zu lindern, verließ Wermuth seine Wohnung in der Klosterstraße. Er zog dauerhaft ins Schloss des Berliner Stadtguts Buch, den Sommersitz der Oberbürgermeister. „Hier haben meine Frau und ich, auch mit den ein- und ausfliegenden Kindern, neun Sommer von April oder Mai bis Ende Oktober gehaust. Und seit die Wohnungsnot mir vorschrieb, meine zweite Wohnung im Stadtinnern aufzugeben, froren wir auch mehrere Winter weidlich in dem alten, weiträumigen, kalten Gutshaus.“

    „Obwohl er für Berlin so wichtig war, ist er untergegangen“
    Rainer Schütte kennt diese Zeilen auswendig. Er arbeitet beim Projekt „Stolpersteine“, nach der Wende war er 20 Jahre lang Werkstattleiter des „Künstlerhofs Buch“. Unter dem Namen betrieb die „Akademie der Künste“ eigene Werkstätten auf dem ehemaligen Gutshof. In Buch hörte Schütte von Wermuth und begann sich für ihn zu interessieren. Er stöberte auf, was über ihn zu finden war, ein paar alte Artikel und Fotos, Kapitel in historischen Büchern. „Wermuth wurde zu Unrecht vergessen“, sagt Schütte. „Obwohl er für Berlin so wichtig war, ist er einfach untergegangen.“

    Bei seiner Recherche kam Schütte auch mit der Urenkelin eines einstigen Schlossnachbarn von Wermuth ins Gespräch. „Sie hat mir ein paar Anekdoten erzählt.“ Zum Beispiel die, dass Wermuth sehr gesellig und ein gern gesehener Gast im „Schlosskrug“ gewesen sei. Dort habe er hin und wieder mit Anwohnern ein Bier getrunken.

    Und wenn er wichtige Reden einstudierte, soll er manchmal in den Stall des Gutshofs gegangenen sein. Dann brüllte er der Legende nach gegen die Kühe an, um seine Stimme zu trainieren.

    Ein lautes Organ brauchte Wermuth auch für die hitzigen Debatten, die um seinen Traum von Groß-Berlin tobten. Neben den bürgerlichen Vororten wehrte sich vor allem das Königreich Preußen gegen eine Expansion seiner Hauptstadt. Es fürchtete einen „Staat im Staate“ und erlaubte nur den losen „Zweckverband Groß-Berlin“, der kurz vor Wermuths Amtsantritt gebildet worden war. Der sprach sich bei Verkehr, Bebauungsplanung und Freiflächen ab – mehr war nicht erwünscht.

    Wermuth aber war entschlossen, aus dem Zweckverband eine Stadt zu schaffen. Sein erster Versuch begann 1912 damit, Treptow an Berlin zu binden. Preußen grätschte dazwischen und teilte ihm mit, „Berlin müsse sich fügen“. Doch Wermuth fügte sich nicht. Er glaubte weiter an die Notwendigkeit für Groß-Berlin – erst recht nach dem Ausbruch des Ersten Weltkriegs 1914.


    Schon 1912 gab es eine Kampagne für Groß-Berlin, Käthe Kollwitz gestaltete diesen Aufruf.

    Die Menschen hungerten, weil die Versorgung im Ballungsgebiet stockte, soziale Unruhe drohte. „Nirgends hat die Zerstückelung Berlins sich hemmender erwiesen als in der Kriegswirtschaft“, schrieb Wermuth später. „Unter der Arbeiterschaft gab es in einer Sonnabendsitzung nach der anderen Sturm, wenn wieder einmal festgestellt wurde, dass Tegel sein Fleisch anders und lässiger verteilte als die übrigen Gemeinden, oder dass in Zeiten der Not Neuköllns Bewohner nur drei Pfund Kartoffeln erhielten, die von Schöneberg aber fünf.“

    Wermuth machte die Versorgung der Bevölkerung zu seiner Hauptaufgabe. Und fand darin einen ersten Hebel, Berlin trotz Preußens Veto zu einen – zunächst ökonomisch. In der Not versammelte er die widerstrebenden Gemeinden hinter einer Idee: der Einführung von Lebensmittelmarken, die im gesamten Großraum gültig waren. „Jetzt, wenn je, musste die innere Zusammengehörigkeit Groß-Berlins zur Geltung kommen“, befand er. „Das sahen die Vororte sämtlich und ohne Besinnen ein.“

    Die Brotkarte als entscheidender Hebel

    Wermuth lud Vertreter von etwa 50 Gemeinden und Gutsbezirken in das Rathaus. Der Krisenstab bestand nicht nur aus Politikern, die halbe Stadtgesellschaft saß darin. „Einer von ihnen gab der Versammlung den verheißungsvollen Namen ,Erste Sitzung des Groß-Berliner Magistrats‘. Ihr Beschluss lautete, alle Teile Groß-Berlins zu einer Brotkartengemeinschaft zu vereinigen.“ Die Brotkarte für „Groß-Berlin“ wurde 1915 eingeführt, sie rationierte das Brot und verteilte es an die Bevölkerung. Es folgten Karten für Fleisch, Eier, Gemüse und weitere Lebensmittel, dazu Seife und Kohle.

    Wermuths Maßnahmen verhinderten nicht nur eine Hungersnot. Sie leiteten die angestrebte Fusion ein. „Ich hatte schon vor dem Kriege die Meinung vertreten und öffentlich zu begründen versucht, dass der Zusammenhalt von innen kommen müsse“, schrieb Wermuth. Die Not schweißte Berlin mit dem Umland zu einer Art Schicksalsgemeinschaft zusammen. „Nun lag der Weg frei. Nun wollten die Groß-Berliner auch ferner einig handeln.“

    Um die Welten beiderseits der Spree zu einer zu verbinden, wollte Wermuth sie auch verkehrstechnisch vernetzen. Stadt- und U-Bahn fuhren damals nur von Ost nach West. Werner von Siemens hatte schon 1892 eine Nord-Süd-S-Bahn unter der Innenstadt angeregt, nach dem Krieg nahm Wermuth die Idee auf und trieb die Planungen voran. So sollten die Vororte im Süden mit denen im Norden verbunden werden: Steglitz mit Frohnau, Lichterfelde mit Buch. Die erste Fahrt 1936 reklamierten die Nazis dennoch allein für sich.

    Der Ende Krieg endet: die große Chance!

    Einen seiner aktivsten Mitstreiter fand Wermuth in Alexander Dominicus. Der Schöneberger Bürgermeister, wie Wermuth ein Zugezogener, erkannte, dass rund um Berlin „eine Gemeinde der anderen das Wasser abgräbt“. Die beiden ergänzten sich gut: Wermuth zog im Hintergrund die Fäden, Dominicus warb öffentlich für das Projekt. Er gründete 1917 den „Bürgerausschuss Groß-Berlin“, um „eine ständige Tribüne“ zu schaffen „für den Ruf nach großberlinischem Gemeinschaftsgeist“. Der Bürgerausschuss wollte eine „Gesamtgemeinde“ in einem 20-Kilometer-Radius um Berlin.

    Nach dem Ende des Kriegs sah Wermuth die große Chance dafür gekommen. Preußen existierte nach der Novemberrevolution nur noch auf dem Papier, die einstige Monarchie wurde von der neuen sozialistischen Regierung in die Weimarer Republik überführt. Wermuth wollte schnell Fakten schaffen und noch am 28. November 1918 Groß-Berlin durch die Zwangseingemeindung des Umlands beschließen – per Notverordnung.

    Vermutlich sähe Berlin heute vollkommen anders aus, wenn er damit Erfolg gehabt hätte. Doch die neue Staatsregierung pfiff ihn zurück, man wollte die Metropole nicht „auf diktatorischem Wege“ bilden. Die grundsätzliche Notwendigkeit des Zusammenschlusses aber hatte man auch dort nach den Erfahrungen des Kriegs erkannt.

    Nur durch eine Großgemeinde würde man „die wirtschaftlichen Nöte der östlichen und nördlichen Gemeinden beseitigen und gleichzeitig für die Zukunft die Ungleichheiten aus der Welt schaffen“. Für eine ordentliche Lösung gab man grünes Licht. Und Wermuth legte los.

    „Ein Jahr später wäre es nicht mehr möglich gewesen“
    Ab März 1919 beriet er in kleiner Runde mit anderen Kommunalpolitikern und dem preußischen Innenminister in seinem Amtszimmer im Roten Rathaus über die genaue Form der neuen Riesenstadt. Gerungen wurde vor allem um die Außengrenzen. Wermuth wollte einen 15-Kilometer-Radius um Berlin, ohne Köpenick und das besonders heftig rebellierende Spandau. Schließlich wurden die Grenzen weiter draußen gezogen, dort, „wo in absehbarer Zeit der Entwicklung an ein Entstehen städtischer Lebensverhältnisse (…) nicht mehr gedacht werden kann“. Darin sollten 20 neue Bezirke erschaffen werden.

    1920 sollte das Groß-Berlin-Gesetz beschlossen werden. Die Voraussetzungen waren günstig. Der Fokus der Öffentlichkeit lag nicht auf Stadtentwicklung – Kapp-Putsch, Spanische Grippe und Versailler Vertrag bestimmten die Schlagzeilen. Der berlinhistorisch versierte Stadtplaner Harald Bodenschatz sagt: „Ein Jahr später wäre es nicht mehr möglich gewesen.“ Schließlich habe Berlin die anderen nicht einfach geschluckt. „Es war eine Vereinigung, das ging nur über zähe Verhandlungen.“ Doch nicht einmal Bodenschatz weiß, dass es vor allem der Berliner Oberbürgermeister selbst war, der in diesen zähen Verhandlungen den Widerstand der Nachbarstädte überwand.

    In einigen Stadtparlamenten gab es der Groß-Berlin-Frage wegen Tumulte und Prügeleien. Vor allem Charlottenburg, die reichste Stadt des alten Preußens, kämpfte erbittert. Noch heute steht das prunkvolle Charlottenburger Tor als Abgrenzung zum einstigen Nachbarn Berlin.

    Die Blaupause einer Stadt mit vielen Zentren

    Um die Widerspenstigen zu zähmen, wollten die preußische Regierung und auch Dominicus Übergangs- und Sonderregelungen für einzelne Gemeinden schaffen. Wermuth lehnte das ab. Er wollte die Opposition gegen Groß-Berlin ein für alle Mal brechen. Seine Zugeständnisse knüpfte er an das unumstößliche Bekenntnis zur neuen Metropole.

    Dafür nutzte er seinen Kontakt zum preußischen Staatssekretär Friedrich Freund, der das Groß-Berlin-Gesetz konzipierte. Er schrieb ihm persönliche Briefe und beeinflusste so den finalen Gesetzentwurf unter Umgehung des offiziellen Wegs entscheidend.

    Wermuth erkannte zum Beispiel, dass den bürgerlichen Gemeinden eine vom Berliner Magistrat geführte zentralistische Struktur, wie sie die Sozialdemokraten wollten, nicht zu vermitteln war. Daher wollte er den Stadtteilen in spe eine weitgehend unabhängige Verwaltung zubilligen, mit eigenem Parlament und Regierung. Dafür schlug er selbst die Bezeichnungen „Bezirksversammlung“ und „Bezirksamt“ vor. Der Magistrat sollte nur die Finanz- und Steuerverwaltung zentral leiten. Es war die Blaupause für die polyzentrische Stadt, die wir heute kennen. Die größeren Städte umschmeichelte Wermuth, indem er die neuen Bezirke nach ihnen taufen lassen wollte.

    Dennoch scheiterten zwei Abstimmungen über das Gesetz in der Preußischen Landesversammlung. Das Zeitfenster schloss sich. Wenn auch die dritte Abstimmung negativ ausgefallen wäre, wäre Groß-Berlin vermutlich gestorben.

    Wermuth griff zu einem letzten taktischen Kniff. Er ließ das „Groß“ aus dem Namen streichen, um den Skeptikern die Angst vor einem übermächtigen Berlin zu nehmen. Wermuth wollte statt des „künstlichen und etwas überheblichen Namens Groß-Berlin“ lieber die schlichte Bezeichnung „Berlin“ verwenden. Mit nur 16 Stimmen Mehrheit wurde das Gesetz tatsächlich beschlossen, am 1. Oktober 1920 trat es in Kraft. Das alte Berlin war tot, die „Neue Stadtgemeinde Berlin“ geboren.

    Der Zusammenschluss löste keineswegs alle Probleme. „Mit der Schaffung von Groß-Berlin begann eigentlich erst die Frage, wie das mit Leben gefüllt werden soll“, sagt Bodenschatz. Wegen der dezentralen Verwaltung durch die Bezirke war man zum Beispiel nicht in der Lage, genügend Wohnraum zu schaffen – ein vertraut klingendes Problem. „Die Zugeständnisse belasten uns bis heute, sie haben die Kompetenzen verunklart“, sagt Bodenschatz. „Schon damals war den Juristen klar, dass das nachgebessert werden muss – das ist aber bis heute nicht passiert.“ Eine weitere Analogie zur Neuzeit: Berlin beschwerte sich darüber, zu wenig Geld vom Staat zu bekommen, obwohl man durch die Hauptstadtfunktion besonders belastet wurde.

    Der Querkopf muss gehen

    In folgenden Jahren wurden dennoch prägende Großprojekte realisiert. Gemeinsame Strom-, Bewässerungs- und Nahverkehrsnetze entstanden, eine Bauordnung mit einheitlichen Vorschriften wurde verfasst, die Avus, das Messegelände, der Flughafen Tempelhof und jede Menge Sportanlagen wurden gebaut.

    Wermuth wurde 1920 zwar noch einmal als Oberbürgermeister wiedergewählt, doch die Ausgestaltung des modernen Berlin übernahm sein Nachfolger Gustav Böß. In seiner Biografie versicherte Wermuth, sich stets „von jeder Parteipolitik ferngehalten zu haben“, die „Gedankengänge und das Schema einer Partei sind mir am Ende ebenso ferngeblieben wie vorher“. Am Ende fiel der Querkopf deswegen zwischen alle Stühle. Die bürgerlichen Parteien nutzten einen Streik der Berliner Elektrizitätsarbeiter, um ihn anzugreifen, auch Teile der Sozialdemokraten ließen ihn fallen, im November 1920 trat er schließlich zurück.

    Wermuth zog aus seiner Dienstwohnung im Schloss Buch aus, gen Süden nach Lichterfelde. Seine Frau Marie starb 1923. Wermuth begann unter „Zwangsvorstellungen“ zu leiden, hieß es in einem Artikel von 1927 über „den alten Herrn mit dem langen eisgrauen Schnurrbart“. „Dabei handelte es sich anscheinend um Nachwirkungen seiner leitenden Tätigkeit auf dem Gebiete der Lebensmittelbewirtschaftung.“ Nachbarn trafen ihn demnach ständig beim Lebensmitteleinkauf: „Er fürchtete zu verhungern.“

    „Rücksichtslos ist er Hindernissen entgegengetreten“

    Wermuth starb 1927 im Alter von 72 Jahren. Zur Trauerfeier in der Kirche der ehemaligen Hauptkadettenanstalt Lichterfelde schrieb das „Berliner Tageblatt“: „Im Auftrage der Reichsregierung sprach Finanzminister Köhler von der hohen, weittragenden Bedeutung, die Adolf Wermuths Arbeit während seines unermüdlichen und selbstlosen Schaffens im Dienste des Staates gefunden hat. Die Ausgestaltung und die Zusammenfassung Groß-Berlins waren Wermuth nach rastlosen Mühen gelungen.“ Der neue Oberbürgermeister Böß pflichtete dem anerkennend bei: „Rücksichtslos ist er Hindernissen entgegengetreten, die sich ihm hemmend in den Weg stellten.“ Wermuths Leichnam wurde nach Buch überführt, „wo im engsten Familien- und Freundeskreise die Beisetzung an der Seite der vor Jahren verstorbenen Gattin“ erfolgte.

    Seither ist das Grab mehrfach beschädigt worden, zwischendurch ist das Grabkreuz abgebrochen. Zu DDR-Zeiten und zuletzt 2004 haben sich Jugendliche daran abgearbeitet. Sie werden kaum gewusst haben, wessen Grab sie demolierten. Es gehört zu den Absonderlichkeiten dieser sonderbaren Stadt, dass Wermuths Ruhestätte bis heute nicht auf der Liste der Ehrengräber steht.

    Selbst in Wermuths früherem Wohnort sind fast alle Spuren verwischt. In den Kuhstall auf dem Gutshof ist ein Fairtrade-Start-up eingezogen, das sich mehr um die Zukunft als um die Vergangenheit sorgt. Das Schloss Buch wurde im Zweiten Weltkrieg zerbombt, Walter Ulbricht ließ den Rest 1964 sprengen. An die Stelle des Schlosses ist eine Blumenrabatte aus Beton gerückt, nur das Treppengeländer wurde gerettet. Es befindet sich heute im Operncafé Unter den Linden.

    Die Schlosskirche ist noch da, vereinfacht wiederaufgebaut. Die Pfarrerin Cornelia Reuter sagt, auch ein Sohn Wermuths, der im Krieg fiel, sei auf dem Friedhof begraben worden, doch niemand wisse mehr, wo genau. Immerhin weiß Reuter um Wermuths Verdienste, anders als der Berliner Senat: „Ich glaube, man hat dort nicht wirklich eine Ahnung, wie wichtig er für diese Stadt war.“

    Zwei Anträge für ein Ehrengrab wurden abgelehnt

    Die Feierlichkeiten für das 100-Jahr-Jubiläum werden in der Senatskanzlei des Regierenden Bürgermeisters geplant. Dort werden auch Anträge für Ehrengräber bearbeitet. Schon zwei für Wermuth hat die Evangelische Kirchengemeinde Buch gestellt. Beide wurden abgelehnt, zuletzt 2009. „Hin und wieder legt ein Regierender mal einen Kranz hier ab“, sagt Wermuth-Fan Rainer Schütte. „Aber für die Pflege des Grabs will die Stadt nicht aufkommen.“

    Angeführt wurden dafür formale Gründe. Unabdingbares Kriterium für ein Ehrengrab sei „das fortlebende Andenken an die um Berlin hervorragend verdiente Persönlichkeit in der allgemeinen, breiteren Öffentlichkeit“. Im Falle Wermuth sei das „nicht eindeutig feststellbar“, teilte die Senatskanzlei mit. Weil Wermuth der breiten Öffentlichkeit kaum bekannt ist, möchte ihn die Stadt, die er selbst mit erschuf, auch nicht öffentlich würdigen.

    Dabei „musste Wermuths Tätigkeit notwendigerweise im Hintergrund bleiben, denn sie spielte sich in der Beeinflussung des Magistrats und in zweiseitigen Gesprächen mit den Vertretern des preußischen Innenministeriums ab“, schrieb die Geschichts- und Politikwissenschaftlerin Frauke Bey-Heard schon 1969 in ihrer preisgekrönten Schrift „Hauptstadt und Staatsumwälzung Berlin 1919“. Die Vorstöße des Schönebergers Dominicus seien öffentlichkeitswirksamer gewesen, doch laut Bey-Heard „hatte der Oberbürgermeister einen viel größeren Anteil an der Gestaltung von Groß-Berlin, als ihm bisher zugestanden wurde“. In Berlin ist diese Erkenntnis bis heute nicht angekommen.

    Nur ein kurzer Weg trägt seinen Namen
    Die 100-Jahr-Feier wäre doch ein guter Anlass, das zu ändern, findet die Bucher Pfarrerin Reuter. Sie hat soeben einen neuen Antrag auf ein Ehrengrab eingereicht. Die Kirchengemeinde möchte bis 2020 auch eine Informationsstele aufstellen, die auf Wermuth und andere Prominente hinweist, die in Buch begraben sind. „Vielleicht beteiligt sich der Berliner Senat ja wenigstens daran“, sagt Reuter.

    Wermuths Nachfolger Böß wurde geehrt, indem die Straße am Roten Rathaus nach ihm benannt wurde. Andere prominente Plätze und Straßen Berlins tragen die Namen ehemaliger Bürgermeister wie Ernst Reuter, Otto Suhr, Walther Schreiber oder Franz Christian Naunyn. Selbst Alexander Dominicus hat eine große Straße bekommen. Nach Adolf Wermuth ist nur der Wermuthweg benannt, eine knapp 500 Meter lange Betonschleife im Rücken der Hochhäuser der Gropiusstadt.

    Der vergessene Stadtvater zeugt auch davon, dass Groß-Berlin bis heute noch nicht richtig zusammengewachsen ist. Wie auch? Nur 13 Jahre hatte die neue Stadt Zeit, zu sich zu finden, bevor die Nazis sich ihrer bemächtigten und sie zu Germania umbauen wollten. Die Teilung nach dem Zweiten Weltkrieg verlief schicksalhafterweise großteils genau entlang der alten Vorbehaltsgrenze, der wohlhabende Westen wurde eine Stadt, der proletarische Osten eine andere. Nach der Wiedervereinigung 1990 wurde schnell klar: Die Gräben, die Wermuth einst zuschütten wollte, waren immer noch da.

    Ein Archipel von Städten und Gemeinden

    Im Grunde begann die Entstehung von Groß-Berlin mit dem Mauerabriss noch einmal von vorn. Wie zu Wermuths Zeiten ringen die Ortsteile um Einfluss und Vorteilsnahme. Zwischen Spandau und Buch fühlen sich die wenigsten als Groß-Berliner, die Fliehkräfte sind immens, kein Gründungsmythos hält sie zusammen. „Das ist keine richtige Stadt, sondern ein Archipel von Städten und Gemeinden“, sagt Harald Bodenschatz. „Groß-Berlin ist bis heute ein unvollendetes Projekt.“

    Wird es je vollendet werden? Der Zusammenhalt muss von innen kommen, befand Adolf Wermuth schon vor einem Jahrhundert. Vielleicht würde dieses seltsame Gebilde von einer Stadt ein bisschen enger zusammenwachsen, wenn es sich wenigstens des Mannes erinnerte, der es einst erschaffen hat.

    QUELLEN
    Frauke Bey-Heard: „Hauptstadt und Staatsumwälzung Berlin 1919“
    Wolfgang Ribbe (Hrsg.): „Stadtoberhäupter. Biograhien Berliner Bürgermeister“
    Rainer Schütte: „Buch im Ersten Weltkrieg“
    Andreas Splanemann: „Wie vor 70 Jahren Groß-Berlin entstand“
    Herbert Schwenk: „Es hing am seidenen Faden. Berlin wird Groß-Berlin“
    Kurt Pompluhn: „50 Jahre ‚Groß-Berlin‘“
    Adolf Wermuth: "Ein Beamtenleben“
    „Frankfurter Zeitung“ vom 13.10.1922
    „Berliner Tageblatt“ vom 17.10.1927

    #Berlin #Geschichte #Stadtentwicklung #Südekumzeile #Wermuthweg #Dominikusstraße #Lichterfelde #Buch

  • Lietzenburger, Pariser und Kudamm - das Revier von Hanussen
    http://blog.klausenerplatz-kiez.de/archive/2016/03/05/strassen_und_platze_bleibtreus

    Der Kiezer Weblog vom Klausenerplatz - Wir bloggen den Kiez
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    Bis in die ersten Monate des Jahres 1933 hinein konnten zwei Mädchen aus ihrem Kinderzimmer am Südende der Straße direkt gegenüber ins Wohnzimmer des Hellsehers Erik Jan Hanussen schauen, der sich in dem Eckhaus Lietzenburger Straße 16 (jetzt: 100) und Bleibtreustraße 28 einen „Palast des Okkultismus“ eingerichtet hatte. Dann wurde er Ende März von der SA verschleppt und ermordet. „Offenbar wusste der Hellseher zu viel über die Vorgänge hinter den Kulissen der SA, hatte sich zudem ausgerechnet als Jude bei Hitlers Schergen einzuschmeicheln versucht. Dass man zugleich einen Gläubiger los wurde, kam den Mördern sicher gelegen.“
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    Am anderen Ende der Straße, auf Nr. 2, gleich neben der Jazzkneipe A-Trane, liegt das einzige unbebaute Grundstück der Straße. Dort befand sich ein Wohnhaus, in dessen Keller 1926/27 ein jüdisches Tauchbad zur rituellen Reinigung eingerichtet worden war. Ab 1939 wurde das Gebäude als „Judenhaus” genutzt, um dort Menschen zwangsweise einzuquartieren, bevor sie im Konzentrationslager landeten und ermordet wurden. Heutzutage ist dort ein Spielplatz. Die umfangreichen Informationstafeln an der linken Wand wurden Ende 2015 entfernt, nachdem sie wiederholt beschädigt worden waren.
    MichaelR

    Es ist nicht immer leicht, historische Orte ausfindig zu machen in Berlin. Zu viele Dinge sind zerstört worden durch Krieg und Frenesie von „Wiederaufbau“ und „Wiedervereinigung“. Die geänderte Hausnummer von Hanussens Zaubertheater ist ein typisches Problem. Das kam so:

    Openstreetmap - Eckhaus Lietzenburger Straße 100 (früher 16)
    https://www.openstreetmap.org/node/1258307639

    Die Änderung der Numerierung der Lietzenburger Straße vom preußischen Hufeisen zur moderneren Vergabe von aufeinander folgenden grade-ungrade Paarungen an sich gegenüber liegende Grundstücke wurde nach dem Krieg 1963 erforderlich, weil die Lietzenburger Straße in die Trümmerlandschaft hinein bis zu #Kleiststraße und #Martin-Luther-Straße verlängert und zusammen mit der Straße #An_der_Urania zur #Südtangente wurde.

    Der Kaupert berichtet dazu:

    Lietzenburger Straße 1-108 in Berlin - KAUPERTS
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Lietzenburger-Strasse-10707-10719-10789-Berlin

    Vorher Straße der Abt. V/1 des Bebauungsplanes. In einem Stadtplan Berlins, der vor 1885 entstand, war die Straße als Weg gekennzeichnet, aber ohne Namen. Auf der Karte von 1890 war die Straße bereits namentlich von der Kostnitzer Straße in Wilmersdorfer bis zur Rankestraße eingezeichnet. Am 1.9.1963 wurde die Achenbachstraße in Wilmersdorf in die Lietzenburger Straße einbezogen. Der Abschnitt der Lietzenburger Straße zwischen Wieland- und Schlüterstraße (Wilmersdorf/Charlottenburg) kam am selben Tag zum #Olivaer_Platz. Der in Verlängerung der #Achenbachstraße bis zur Kleiststraße führende neu angelegte, auch als Südtangente bezeichnete Straßenzug (Wilmersdorf/Schöneberg) erhielt an diesem Tag ebenfalls den Namen Lietzenburger Straße. Für Schöneberg gilt damit der Name erst seit dem 1.9.1963. Die Lietzenburger Straße ist ein Teil der ehemaligen Bezirksgrenze zwischen Wilmersdorf und Charlottenburg.

    Bis dahin befand sich die Adresse Lietzenburger Straße 1 auf der Nordseite der Straße an der Konstanzer Straße und Olivaer Platz. Die höchste Hausnummer der Lietze lag gegenüber auf der Südseite. Am anderen Ende, am Rankeplatz Ecke Bundes- oder Kaiserallee lagen die „mittigen“ Hausnummern, was ein Beibehalten ihrer Numerierung bei Verlängerung über ihr altes „mittiges Ende“ hinaus unmöglich machte. Eine Verlängerung am anderen Ende wäre eine Verlängerung ohne Abschaffung des Hufeisens ebenfalls unmöglich gewesen, es sei denn, man hätte Hausnummern kleiner als Null vergeben.

    Dieser Kartenausschnitt zeigt, wie sich die grade/ungrade blau numerierte Lietzenburger Straße parallel zu Kudamm und #Pariser_Straße in das alte rot numerierte Hufeisenviertel schiebt, und sie am Olivaer Platz trifft.
    https://hausnummern.tagesspiegel.de/#3ur2h4g

    Früher begann die Lietzenburger Straße an der Kostnitzer Straße? Nie gehört, da wollte noch nie ein Fahrgast hin. Der Grund :

    Konstanzer Straße 1-65 in Berlin - KAUPERTS
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Konstanzer-Strasse-10707-10709-Berlin

    Alte Namen: Kostnitzer Straße (1895-1908), Priester Weg (um 1850-um 1885)
    Name seit 9.5.1908
    Konstanz, Kreisstadt des gleichnamigen Landkreises, Bundesland Baden-Württemberg.
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    Die Umbenennung erfolgte, weil die vermeintliche Bezeichnung Kostnitz für Konstanz völlig veraltet war .

    #Berlin #Charlotttenburg #Bliebtreustraße #Lietzenburger_Straße #Hausnummern

  • With Nearly 400,000 Dead in South Sudan, Will the U.S. Change Policy? - FPIF
    https://fpif.org/with-nearly-400000-dead-in-south-sudan-will-the-u-s-change-policy

    The United States has also taken sides in the war. The Obama administration supported President Kiir, helping him acquire arms from Uganda, a close U.S. ally in the region. “Uganda got a wink from us,” a former senior official has acknowledged.

    To keep the weapons flowing, the Obama administration spent years blocking calls for an arms embargo.

    [...]

    Jon Temin, who worked for the State Department’s Policy Planning Staff during the final years of the Obama administration, has been highly critical of the Obama administration’s choices. In a recent report published by the U.S. Holocaust Memorial Museum, Temin argued that some of the worst violence could have been avoided if the Obama administration had implemented an arms embargo early in the conflict and refrained from siding so consistently with President Kiir.

    “The United States, at multiple stages, failed to step back and broadly reassess policy,” Temin reported.

    [...]

    More recently, the Trump administration has started paying some attention. The White House has posted statements to its website criticizing South Sudanese leaders and threatening to withhold assistance. Administration officials coordinated a recent vote at the United Nations Security Council to finally impose an arms embargo on the country.

    In other ways, however, the Trump administration has continued many of the policies of the Obama administration. It has not called much attention to the crisis. With the exception of the arms embargo, which could always be evaded with more winks to Uganda, it has done very little to step back, reassess policy, and change course.

    The United States could “lose leverage” in South Sudan “if it becomes antagonistic toward the government,” U.S. diplomat Gordon Buay warned earlier this year.

    #etats-unis #sud-Soudan