• La rivoluzione palestinese del 7 ottobre

    «Mi diressi verso Suha che prese Hanin, dicendo: “Non stare via troppo a lungo”. L’abbracciai, insieme alla piccola: “Non ti preoccupare… come gli uomini della Comune, noi invadiamo il cielo!” (…) Avevamo superato lo scoglio dell’autocontrollo, non avevamo versato neppure una lacrima, nessuno di noi aveva pianto».

    (da “Non metterò il vostro cappello” di Ahmed Qatamesh)

    Quando non si ha più niente, si è pronti per condividere tutto.

    La rivoluzione per la liberazione della Palestina del 7 ottobre ha mostrato come esseri umani – espropriati da oltre 75 anni di ogni elemento essenziale all’esistenza – possano condividere l’impossibile, ovvero mettere in ginocchio una potenza nucleare, non solo militarmente ma anche mozzandone la fiducia nel teismo colonialista e razzista.

    La rivoluzione del 7 ottobre ha reinventato leggi fisiche. Ha insegnato che ci si può tirare fuori dalla fossa più profonda del pianeta – quella dove i palestinesi sono stati sepolti dai sionisti e dagli occidentali – senza alcun punto d’appoggio.

    Unico appiglio – interiore e politico, sarebbe meglio dire con Alì Shariati di «spiritualità politica» – è la coscienza assoluta che servare vitam per servire il colone, sopravvivere cioè sottovivere, è il più grande errore che il colonizzato possa compiere nei propri confronti e verso i figli che verranno.

    I nuovi venuti al mondo debbono temere più della morte la vita scuoiata, spogliata fino a tendini e nervi di ciò che umano. Vale in particolar modo per gli oppressi palestinesi, ma anche per i giovani sottomessi dal presente liberista in Occidente.

    L’esistenza schiacciata ritrova significato soltanto nel sollevarsi contro il carnefice. Alzandosi dalla polvere, sorvola muri di segregazione e valichi d’acciaio, abbraccia cieli proibiti, si congiunge carnalmente con le nuvole più morbide per fecondarle e donare inattese stirpi ribelli a ogni terra.

    I guerriglieri di Gaza sui deltaplani sono diventati folate di vento e grida che hanno sovvertito il tempo, hanno dipinto un’immagine di liberazione tra le più elevate della recente storia dell’umanità.

    Un quadro immortale di gioia che nessun palestinese, nessuna donna, nessun uomo schiavizzato dal totalitarismo liberale, si leverà mai dallo sguardo.

    Un’autentica preghiera visiva da recitare con gli occhi di fronte a ogni sopruso subito.

    L’atterraggio sul suolo violentato dai colonizzatori è una nascita per i combattenti. E non si viene alla luce senza coprirsi di sangue. Non ci si libera da un’eterna brutalità senza violenza. Lo sa chiunque conosca la storia dalla parte dei reclusi nell’inferno terreno. In un istante, qualsiasi legame con la vile morale liberale viene bruciato e gli ultimi in rivolta, come abili ramai, maneggiando quel fuoco possono forgiare una naturale e istintiva verità senza diseguaglianze.

    «Quest’uomo nuovo comincia la sua vita d’uomo dalla fine; si considera come un morto in potenza. Sarà ucciso: non è soltanto che ne accetta il rischio, è che ne ha la certezza; quel morto in potenza ha perso sua moglie, i suoi figli; ha visto tante agonie che vuol vincere piuttosto che sopravvivere» ha lasciato scritto incontestabilmente Frantz Fanon.

    Nella gioia nichilista e al contempo creatrice di un futuro imprevedibile senza catene né limiti, il luminoso incantevole sorriso dei rivoluzionari traspare dalla keffiyeh arrotolata sul viso, e invita alla danza sopra i carrarmati nemici. I mostri che travolgevano bambini e insorti, adesso sono schiacciati dai salti di un intero popolo sprigionato.

    E la rivoluzione palestinese prosegue, nonostante i bombardamenti e l’ennesima, incessante strage di gazawi, con la Knesset che trema per i razzi lanciati dalle macerie, con il segretario di stato americano e l’eletto primo boia tra i boia sionisti rinchiusi in un bunker.

    Avanza di giorno in giorno nelle piazze delle città arabe, del Sudamerica e degli stati che il dispotismo capitalista si ostina a denominare Europa. Unite da quella che una volta ho definito «lotta contro questa vita».

    Le parole d’ordine dei movimenti seguono lo straripare palestinese. Scuotono, irridono vie e strade dominate dal profitto di pochi prescelti. Non hanno alcun riflesso della falsa pacificazione imposta ovunque, uccidendo in nome della democrazia e dei valori superiori d’Occidente. Chiedono la liberazione totale della Palestina. Senza concessioni ai sionisti.

    Ne vale la pena rispetto al massacro che gli oppressori compiono a Gaza senza tregua?

    Ne vale la pena davanti al profilarsi deciso della quarta fase del processo secolare e mai finito della Nakba, per citare Joseph Massad, ovvero l’azione terminale che ha come obiettivo lo sterminio ultimo dei palestinesi?

    Sì, perché l’atto storico della Resistenza Palestinese ha una potenza offensiva culturale, oltre che militare, sinora mai vista. L’accelerazione improvvisa dello scontro è una concreta possibilità di salvezza, in confronto a una sentenza di morte di massa in quotidiana esecuzione da decenni. Per loro, e per noi che abitiamo altre sponde del mediterraneo.

    Una sovversione che va oltre la logica utilitarista e tatticista della guerra e non può essere volgarmente chiamata “guerra”.

    Come per i rari urti che fanno irrompere una nuova concezione dell’umano, va adoperata la parola “rivoluzione”.

    A ogni latitudine, questo moto spinge donne e uomini condannati per sempre all’infimo rango a ritrovare la lotta per «una vita profonda».

    Superando il concetto marxista di «arcano della produzione», colgono, svelano l’arcano della distruzione su cui si regge il liberismo. Impulsivamente, animati da una «luxuria mentis» temeraria, vogliono fermarlo.

    Come le migliori rivoluzioni, quella palestinese del 7 ottobre ha l’effetto di far cadere, una a una, le maschere dei nemici.

    A cominciare dal trucco pesante delle garanzie democratiche che si scioglie, scoprendo il volto autoritario e discriminatorio dell’Unione Europea.

    In tanti lo avevamo già scorto nella guerra contro i migranti e gli ultimi sui gradini della scala sociale.

    Ora, per chiunque, è difficile negare la mostruosità repressiva delle dodici stelle di Bruxelles e Strasburgo, sempre più simili a dodici stelle di David.

    *

    Quando non si è più niente, si perde tutto e non si persuade più nessuno.

    Israele e l’Occidente, con il minuscolo stato italiano, sono scossi da una paura incontrollabile. Neanche i detentori delle leve del potere provano a dare credibilità all’interminabile messinscena dell’invincibilità e della democrazia.

    Nello stato d’occupazione, i coloni con doppia nazionalità non sono rassicurati nemmeno dalla rappresaglia su Gaza con ospedali rasi al suolo, bombe a grappolo e fosforo bianco. Finalmente si mettono in fila negli aeroporti per abbandonare la terra che hanno usurpato.

    La république, dopo la lucente e giovanissima insurrezione dell’estate, ha il giusto sentore di poter essere la prossima a venire sommersa dall’onda della rivoluzione del 7 ottobre. Vieta le mobilitazioni in solidarietà con la Palestina e arresta ed espelle Mariam Abu Daqqa, voce nitida del Fronte Popolare. Ormai non si nasconde più: è basata sul suffragio dei mercati e sulla libertà, eguaglianza e fraternità tra banchieri, predatori e assassini in nome dell’extraprofitto.

    La Deutsche Republik militarizza le scuole, i quartieri popolati da immigrati, fa passare l’ultimo libro di Adania Shani dalla premiazione a Francoforte all’indice, proibisce di indossare la keffiyeh e sventolare la bandiera della Palestina. Dal 19 ottobre, a Berlino, manifestanti arabi e tedeschi hanno fatto intendere che non staranno a lungo immobili.

    La repubblica italiana intimidisce inutilmente gli studenti che sostengono la Resistenza Palestinese. Manganella chi contesta gli amici d’Israele a Livorno e Roma. Si prepara all’imminente stagione repressiva, dispensando allarmi bomba fasulli e chiudendo le frontiere laddove possibile. Atti utili a stabilire una condizione d’emergenza che renderà lecito punire il movimento che di minuto in minuto prende forma.

    Questa paura legalizzata di perdere tutto conduce i media dei regimi liberisti dell’Unione Europea a tentare di ridurre la rivoluzione palestinese del 7 ottobre a un’azione terroristico-religiosa, a tracciare parallelismi demenziali con l’11 settembre, il Bataclan, l’Isis e chi ha più benzina da versare sul falò psicotico dello scontro di civiltà, più ne butti.

    Peccato per loro che buona parte dei giovani abbia capito, in ogni angolo del pianeta, che c’è soltanto uno scontro di civiltà: quello tra dominanti e incatenati, tra sfruttatori e sfruttati.

    Una propaganda arabofoba, islamofoba, misoxena, pericolosa, da contrastare con intelligenza, ma assolutamente stantia e prevedibile.

    Se le parole del potere sono logore, in disfacimento, non sono da meno le frasi di tanti «professori di morale» che affermano di schierarsi con i palestinesi. Però dopo aver condannato «i nazisti» di Hamas equiparandoli ai «nazisti» di Tel Aviv, e aver classificato la rivoluzione del 7 ottobre come «un pogrom». Coloro che sono stati visionari interpreti del marxismo occidentale ricorrono dunque alla stessa espressione usata da Rishi Sunak, il primo ministro inglese, fautore della deportazione e dell’assassinio su vasta scala dei migranti che attraversano il canale della Manica.

    Davvero i «disorientatori» della sinistra pacificata non comprendono che nello stato d’insediamento coloniale israeliano non esistono “civili”?

    Davvero non sanno che coloni, armati fino ai denti, assaltano regolarmente le case dei palestinesi e li uccidono?

    Davvero non conoscono la storia fondamentale e preziosa di Hamas al punto di lasciarsi sgocciolare dalla bocca una simile infamia?

    Davvero non immaginano che la Resistenza Palestinese è unita dal 2021 nelle sue diverse componenti e che Hamas è la parte prevalente?

    Davvero non si rendono conto che la Palestina dell’ottobre 2023 rappresenta per le nuove generazioni ciò che il Vietnam (e i Vietcong avevano un’etica guerriera non meno intransigente rispetto a quella della Resistenza Palestinese) ha rappresentato nella loro epoca?

    Non sono ignoranti, se non nell’anima. Semplicemente gli piacciono i palestinesi – ritorniamo ancora a Fanon – quando sono «inferiorizzati», quando sono vittime da contare sul pallottoliere della morte. Perché i palestinesi devono restare, all’immancabile bagno di sangue quotidiano, un’occasione per sentirsi occidentali differenti e buoni.

    Hanno quindi terrore della rivoluzione del 7 ottobre che porta tanti tra i nostri figli a rifiutare e sputare sull’idea razzista, suprematista – da loro sempre magnificata – di fittizia identità europea. La vera progenitrice, persino più del nazionalismo genocida statunitense, del colonialismo israeliano.

    Hanno accettato di essere «uomini viventi miseramente», asserirebbe Pierre Clastres, e non riescono a nuotare in quest’alluvione sovversiva.

    Il loro linguaggio rifugge la logica disgiuntiva della realtà (o – o, o sto con una parte o sto con l’altra parte), reitera l’ipocrita e noto meccanismo del distanziarsi.

    «I professori di morale» oggi, dopo il 7 ottobre, non sono più niente.

    Lo dimostra l’abusato florilegio di congiunzioni negative. «Né con Hamas, né con Israele, né con chi uccide, ma con la Palestina», è l’insensata formula. Quasi che i militanti di Hamas provenissero da una galassia lontana e non godessero, come detto, dell’appoggio consistente del popolo palestinese.

    Lo imparino nella sinistra legalitaria: Allāhu akbar non è il grido di battaglia dei terroristi. È un richiamo consapevole all’inconsistenza del reale e delle nostre pietose ossessioni.

    La Rivoluzione Palestinese è solo iniziata il 7 ottobre.

    È una cesura col passato meravigliosamente e tragicamente irreversibile.

    Le donne e gli uomini della Comune invadono il cielo.

    https://www.osservatoriorepressione.info/la-rivoluzione-palestinese-del-7-ottobre
    #7_octobre_2023 #révolution_palestinienne #révolution #survivre #sousvivre #soumission #oppression #Gaza #totalitarisme_libéral #violence #brutalité #révolte #morale_libérale #subversion #France #Allemagne #Italie #peur #propagande

  • Cuisiner en canicule | funambul(in)e: Cuisiner en canicule
    https://funambuline.blogspot.com/2022/07/cuisiner-en-canicule.html

    Les canicules vont être de plus en plus longues et régulières, on le voit déjà depuis quelques années, en 2022 en Suisse, nous sommes à peine le 13 juillet et nous entamons déjà notre 2e période de canicule de qui va durer au moins une semaine. Par rapport au Sud de la France, où les températures peuvent monter au delà de 45 degrés, nous avons de la chance avec nos 30 à 35 degrés, mais ils suffisent déjà à couper toute envie de passer en cuisine avec des plaques et un four allumé.

    C’est simple pensent certains : il suffit de se nourrir de fruits frais et de salades. Mais à moins d’être un·e crudivoriste acharné·e, au bout de 3 jours de ce régime, vous allez développer des maux de ventre et passer beaucoup de temps sur vos toilettes. Nos systèmes digestifs se sont adaptés à manger des aliments cuits, car les aliments crus demandent beaucoup d’énergie pour être digérés. Et toute cette énergie dépensée en digérant, et bien ça donne chaud. (Une des hypothèses de l’évolution humaine est d’ailleurs que cette énergie gagnée à ne pas devoir digérer du cru grâce à l’utilisation du feu nous a permis d’avoir enfin du temps pour inventer d’autres ressources de survie, comme la création d’outils plus sophistiqués... vive la cuisson !)

    Voici donc quelques conseils pratiques pour s’alimenter sans trop souffrir en cuisine en période de canicule, suivis de quelques idées de recettes.

  • D’une dissidence à l’autre. Lettre aux jeunes déserteurs et déserteuses, Jean-Paul Maldrieu Terrestres
    https://www.terrestres.org/2023/01/23/dune-dissidence-a-lautre-lettre-aux-jeunes-deserteurs-et-deserteuses

    Les appels à déserter la société dominante fleurissent un peu partout. Les diplômes d’ingénieur·es sont refusés, les fermes reprises, et les méga-bassines sabotées. Ces gestes prolongent la vague de subversion qui parcourut les sociétés avec Mai 68. Au-delà d’un simple écho, comment faire dialoguer ces deux moments séparés par un demi-siècle ? Voici un témoignage sur l’esprit de désertion, et ses limites, par un ancien membre du groupe Survivre et vivre.
    Jean-Paul Malrieu

    .... Le Politique, qui n’aura pas vu venir cette crise sans précédent, qui l’aura de fait organisée et pilotée, ne sera pas évacué pour autant, il ne cédera pas humblement la place à des formes décentes de sociétés autogérées et responsables, négociant pacifiquement leurs équilibres internes et leurs relations avec les groupes voisins, comme le suggère la très séduisante utopie « communaliste » à la Bookchin.

    .... Dans les actes de révolte et d’objection, comme dans les efforts pour construire des modes de vie alternatifs, nos minorités doivent se penser comme immergées dans un corps social à transformer.

    Enjeu majeur, moment historique décisif, comment faire émerger des formes d’existence collective durable et pacifique, plutôt qu’une régulation dictatoriale centralisée ou un effondrement convulsif ? Lorsque je réfléchissais, voici 50 ans, à une mutation qui ne prenne pas la forme conflictuelle de la Révolution, et par laquelle la dissidence finirait par devenir hégémonique (comme la bourgeoisie finit, voici plus de 2 siècles, par se débarrasser de la société féodale et de ses structures de rangs), je nous accordais du temps. Et voici que le temps nous est compté, ....

    #écologie #désertion

  • Alexandre Grothendieck & « Survivre et vivre » - Notre Bibliothèque Verte (n° 36)
    https://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?article1581

    Pierre Fournier, le fondateur de La Gueule Ouverte et Alexandre Grothendieck, celui de Survivre, restent, 50 ans après leur geste inaugural, des cadavres dans le placard des « écologistes ». Ils partagent une brève existence militante. Fournier publie ses premiers articles « écologistes » en 1967 dans Hara-Kiri, puis dans Charlie Hebdo entre 1970 et 1972, et meurt en février 1973, trois mois après le lancement de La Gueule Ouverte (voir ici). Alexandre Grothendieck, médaille Fields de mathématiques en 1966, fonde en juillet 1970, avec quelques universitaires réunis à Montréal, le « mouvement international pour la survie de l’espèce humaine », nommé Survivre. Le bulletin du mouvement paraît en août 1970. Dès la fin de l’année, Grothendieck découvre, enthousiaste, les chroniques de Pierre (...)

    https://archivesautonomies.org/spip.php?article2220
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1320
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1328
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1336
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1341
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1343
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1352
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1359
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1373
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1391
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1407
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1423
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1440
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1455
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1461
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1477
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1501 #Documents
    https://www.piecesetmaindoeuvre.com/IMG/pdf/grothendieck_survivre_-_notre_bibliothe_que_verte_no36.pdf

  • « Une soirée tout ce qu’il y a de plus chouette s’est transformée en tout ce qu’il y a de plus sordide » | Slate.fr
    http://www.slate.fr/story/186467/recit-temoignage-viol-sidney-justice-episode-1

    Je me suis fait violer. Il faut que je quitte cet appartement. Il faut que j’aille chez les flics. Les mots « viol » et « police » clignotaient dans ma tête en énorme. C’était très clair. J’avais lu trop d’articles qui expliquaient noir sur blanc la définition du viol. Une pénétration de quoi que ce soit, non consentie.

    J’avais lu trop de témoignages de nanas qui ne vont pas chez les flics dans la foulée, ou qui n’y vont pas tout court, et qui en chient ensuite (celles qui y vont en chient aussi, c’est pas un concours, mais à mon sens c’est quand même soulageant de balancer son histoire avant qu’elle pourrisse en toi). J’avais lu trop d’articles qui expliquaient comme c’est essentiel d’aller chez les flics, le plus vite possible. N’attendez pas, allez-y direct, ne vous douchez pas. Et donc je me suis laissée porter par ce que mon cerveau m’ordonnait de faire. Je suis allée chez les flics. Je leur ai tout raconté.

    Ça m’a fait du bien.

    Ça m’a fait du bien de vomir cette histoire, ça m’a fait du bien d’avoir des flics à l’écoute à 4 heures du matin, ça m’a fait du bien de me laisser porter du commissariat à l’hosto, ça m’a fait du bien de voir une médecin, ça m’a fait du bien d’être auscultée. Ça m’a fait du bien, grosso modo, de suivre un process et de me laisser guider, ça m’a fait du bien de recevoir un coup de fil le lendemain pour me prévenir que le mec avait été arrêté, ça m’a fait du bien de dire « oui, je porte plainte ».

    #justice #viol

  • #DJAO - After the Road

    A young refugee tries to live his life in France, fleeing the shadows of his past. Between the weight of his memories and the precarity of being undocumented, he has no other choice than moving forward.

    DJAO has been made to show the psychological marks that most migrants keep from their migration, and how they manage to carry them through their life.

    https://vimeo.com/413128181


    #passé #migrations #réfugiés #asile #film #court-métrage #film_documentaire #témoignage #France #fuite #dignité #survivre #choix #parcours_migratoire #naufrage #Méditerranée #danger #oubli #mémoire #celles_qui_restent #ceux_qui_restent #sans-papiers #peur #renvois #expulsions #danse #Côte_d'Ivoire #réfugiés_ivoiriens #débouté #celleux_qui_restent

    Cette personne, visiblement, est logée dans un #hôtel :

    ping @karine4 @isskein

  • #survivre

    Je suis cette petite voix qui te trotte dans la tête. Cette angoisse diffuse qui monte quand tu entends parler de réchauffement climatique, de terrorisme, et de crise économique. Je suis cette mauvaise conscience qui t’amène parfois à te demander : Et si notre société s’effondrait ? »

    En Occident, tout le monde peut aujourd’hui devenir survivaliste. Et pourtant, nous ne savons rien ou presque, sur eux. En France, ils seraient entre 100 000 et 150 000. On parle de 4 millions aux Etats-Unis. Ce qui est certain, c’est que leur nombre est en croissance exponentielle. En témoigne la tenue du premier « salon du survivalisme » à la Porte de la Villette en Mars 2018 qui a réuni des milliers de personnes et des dizaines de médias venus de toute l’Europe. Alexandre Pierrin est parti recueillir, partout en France, la parole de jardiniers, informaticiens ou artisans qui partagent tous la même certitude que quelque chose va se passer. Et qui s’y préparent...

    https://www.france.tv/slash/survivre
    #série #effondrement #survival #Base_autonomie_durable (#BAD) #survivaliste #survivalisme #permaculture #film #vidéo #sac_de_survie #aquaponie #auto-suffisance_alimentaire #prévoyance #sous-sol #bunker #bushcraft #alimentation #réserve_alimentaire #survie #anticipation #retour_à_la_terre #autonomie #business #armes #équipement #arts_martiaux #système_de_communication_parallèle #clans #résilience #France

  • ’Cyprus is saturated’ - burgeoning migrant crisis grips island

    Smugglers increasingly take advantage of island’s partition and proximity to Middle East.

    When Rubar and Bestoon Abass embarked on their journey to Europe they had no idea that Cyprus was the continent’s easternmost state. Like most Iraqi Kurds heading west, their destination was Germany, not an EU nation barely 100 miles from war-torn Syria.

    “I had never heard of Cyprus,” said Rubar, reaching for his pregnant wife’s hand as they sat gloomily in a migrant centre run by the Catholic charity Caritas in the heart of Nicosia. “The smugglers told us it was much cheaper to get to and was still in Europe. We paid $2,000 [£1,590] for the four of us to come.”

    Cyprus is in the midst of a burgeoning migrant crisis as smuggler networks take advantage of the Mediterranean island’s partition and proximity to the Middle East. As in Greece, when Europe’s refugee crisis erupted with Syria’s descent into civil war, support groups have rushed to deal with the social ailments that have arisen with the influx.

    “Cyprus is saturated,” its interior minister, Constantinos Petrides, said in an interview with the Guardian. “It’s no longer easy to absorb such flows, or handle the situation, no matter how much money we get.”

    The island has exceeded every other EU member state in asylum claims in 2018, recording the highest number per capita with almost 6,000 applications for a population of about 1 million.

    By August requests were 55% higher than for the same eight-month period in 2017, a figure itself 56% higher than that for 2016, according to the interior ministry. With the country’s asylum and reception systems vastly overstretched, alarmed officials have appealed to Brussels for help.

    “This is a European problem,” said Petrides, adding that closed borders elsewhere in the bloc were placing a disproportionate burden on small frontline states such as Cyprus. “It’s absolutely necessary to find a holistic solution … which means distributing asylum seekers through an automatic relocation mechanism to countries throughout the EU.”

    Rubar and Bestoon arrived with their two children in August. Like the ever-growing number of Syrians also heading here from overcrowded camps in Turkey and Lebanon, the couple landed in Northern Cyprus, the self-styled state acknowledged only by Ankara in the 44 years since Turkish troops invaded and seized over a third of the island’s territory.

    They then took the increasingly well-trodden route of sneaking across the dividing buffer zone into the internationally recognised Greek-controlled south. Stretching 112 miles across Cyprus, the UN-patrolled ceasefire line offers innumerable blind spots for those determined to evade detection.

    Geography’s stark reality hit, Rubar admits, when he was shown Cyprus on the world map adorning the migrant centre’s airy reception room. “If I had known I’d never have come,” said the farmer. “After all, being here we’re much nearer Baghdad than we are Berlin.”

    Elizabeth Kassinis, Caritas’ executive manager, said the Abbasses’ experience is not uncommon. “Many are surprised to find out where they actually are. When we tell them, they are shocked, stunned, completely speechless. Nearly all arrive expecting they’ll be within walking distance of a job in Germany.”

    Illicit crossings from the north have made Cyprus’ woes much worse. Reports have increased in recent months of irregular migrants flying into Ercan airport in the Turkish-controlled breakaway state.

    Hamstrung by politics, not least Turkey’s refusal to recognise the government in the southern part of Cyprus since its 1974 invasion of the island, authorities are unable to send them back.

    “Because of the illegal occupation in the north we’ve seen phenomena that wouldn’t happen in conditions of legality,” said Petrides. “It’s an open wound, not just for Cyprus but the entire EU.”

    With international agencies focusing almost entirely on sea arrivals, the real number of migrants on the island has been hugely underestimated, charities say. “We are a humanitarian organisation that addresses poverty, hunger and homelessness and we are seeing across-the-board increases in them all,” Kassinis said.

    A backlog of 8,000 asylum claims has amassed as authorities struggle to cope with the flows, according to the UN refugee agency, UNHCR. “We’re talking about a process that can take up to five years and an extremely high number of people waiting for final decisions to their claims,” said Katja Saha, the agency’s representative in Nicosia.

    “It’s highly likely that the vast majority are not refugees and should not be in the asylum processing system but, that said, the lack of infrastructure and social services makes it very difficult to identify those who are vulnerable, particularly victims of trafficking and torture.”

    As numbers grow, pressure on the island’s two state-run camps has become immense and asylum seekers are expected to find private accommodation after 72 hours. For most that is nearly impossible when rent allowances are little more than €100 (£90) per person a month and employment is limited to manual work such as car washing and farm labour, Saha said.

    In Nicosia, which houses one of the camps, asylum seekers have resorted to sleeping in parks and buses and the vestibules of buildings. “For the last month I’ve been in a tent in the park with my wife and four children,” said Basin Hussain, who also fled Iraq. “The first three days were spent in the reception centre but then we were told to leave.”

    There are fears the drama being played out in the eastern Mediterranean will get a lot worse if the situation in Syria deteriorates further and war extends to Idlib, the country’s last rebel stronghold. A Turkish-Russian ceasefire deal is currently sustaining a fragile peace in the province.

    Cyprus had been spared the refugee crisis until this year as most Europe-bound asylum seekers headed for Greece and Italy instead.

    “It’s surprising, given its geographic location, that Cyprus has not been more impacted by the seven-year conflict,” said Saha. “Since the spring we’ve seen this increase in Syrians because word has spread that Lebanon and Turkey, as first asylum countries, are saturated.”

    As elsewhere in Europe the island is not immune to hostility toward the new arrivals. Far-right groups coalescing around the ultranationalist ELAM party have gained increasing popularity as the issue provides fodder for their approval ratings ahead of European parliamentary elections next year.

    “What we don’t want to do is open more and more reception centres,” said Petrides, emphasising that solidarity was now needed on Europe’s eastern edge. “It’s not the solution, either for the country or asylum seekers.”


    https://www.theguardian.com/world/2018/dec/11/cyprus-the-new-entry-point-to-europe-for-refugees-and-migrants?CMP=shar
    #parcours_migratoires #routes_migratoires #Chypre #asile #migrations #réfugiés
    ping @isskein

  • Île Clipperton — Wikipédia
    https://fr.wikipedia.org/wiki/%C3%8Ele_Clipperton

    Les oubliés de Clipperton (1914-1917)En février 1914, un cyclone détruit les potagers de la petite garnison de 11 soldats installés sur place avec femmes et enfants depuis 1906. Le bateau de ravitaillement de mai n’arrive pas. À la fin du mois de juillet, l’USS Cleveland vient secourir l’île, mais le chef de la garnison refuse d’embarquer sur un navire ennemi9. La troupe est alors décimée par la famine et le scorbut. En mai 1915 ils ne sont plus que 3 hommes, 6 femmes et 8 enfants9. 2 des hommes meurent en tentant de rejoindre un navire passant au large9. Le dernier survivant, le gardien du phare fait vivre un calvaire aux autres et se comporte en dictateur. Il est assassiné à coups de marteau par les femmes survivantes le 17 juillet 1917. Le lendemain l’USS Yorktown les sauve ; il était venu vérifier qu’aucun navire allemand ne s’y cache. Certaines encyclopédies ont longtemps indiqué que l’île Clipperton avait une cinquantaine d’habitants, restant à ce chiffre de 1914.

    voir aussi http://clipperton.fr
    Tout ça parce qu’un plugin de SPIP (pays) a oublié d’inclure cette île :)

    #ile #tom #océan_pacifique

    L’histoire des survivantes https://infosmexique.wordpress.com/2009/07/23/lincroyable-histoire-des-naufrages-de-clipperton

    • Tiens, en parlant d’oubliés sur des îles, je découvre l’île de Tromelin et l’histoire relatée dans la BD « Les Esclaves oubliés de Tromelin » par Sylvain Savoia
      http://bdzoom.com/86707/interviews/%c2%ab-les-esclaves-oublies-de-tromelin-%c2%bb-par-sylvain-savoia

      Naufragés sur un îlot de l’océan Indien puis abandonnés par l’équipage d’un navire français, des esclaves malgaches ont survécu 15 ans seuls, sur ce tout petit territoire balayé par les vents.

      #bd

    • A Clipperton :

      En juin 1915, Alicia, Tirsa, Altagracia et Juana, se retrouvent abandonnées à leur sort, avec 6 enfants à leurs charges, et bientôt 8, car Alicia et Tirsa attendent toutes deux un bébé. Femmes et enfants survivent tant bien que mal de la pêche, des crabes et des œufs des oiseaux bobos qui peuplent l’île. Heureusement, l’eau douce ne manque pas, car il pleut fréquemment sur l’île, ce qui permet aux habitants d’assouvir leur soif. Mais un nouvel élément vient bientôt perturber la routine, pourtant déjà difficile des femmes : Victoriano Alvarez, un des soldats de la garnison que tout le monde pensait mort, a en fait survécu au scorbut. Celui-ci se rend compte qu’il est le seul mâle à être encore en vie sur l’île, et au lieu de venir en aide à ses compagnes d’infortune, il décide de mettre à profit la situation et de convertir les femmes en ses esclaves sexuelles. C’est d’abord le tour de Juana, qui meurt assassiné par Victoriano, puis le tour d’Altgracia. Au final, toutes subiront les sévices sexuels de celui qui s’est autoproclamé roi de Clipperton, y compris les enfants. Si l’on en croit le livre de María Teresa Arnaud de Guzmán, seule Alicia aurait échappé à Victoriano, car après 2 ans de sévices, en juillet 1917, Tirsa et Alicia décident dans un ultime accès de colère, d’en finir avec leur bourreau.

      Curieusement, ce même jour, le navire américain Yorktown pose l’ancre à proximité de l’île de Clipperton. Ce n’est pas un hasard. La Première Guerre Mondiale bat son plein, et le capitaine H. P. Perril qui commande le navire, a été chargé par ses supérieurs de réaliser une visite d’inspection à Clipperton, car des rumeurs courent que les Allemands ont installé des bases de sous-marins au large des côtes mexicaines. Quelle sera leur surprise en découvrant, en lieu et place des Allemands, 4 femmes et 8 enfants, vêtus de grossières toiles de navire !

      #sexisme #pédophilie #viols

    • A Tromelin :

      L’ordre règne : blancs et esclaves vivent dans des camps différents. Rapidement, le commandant fait construire une embarcation avec le bois arraché à l’épave. Une forge est même installée à terre. En deux mois, le bateau est achevé. La gazette poursuit ainsi son récit : « On se prépare donc au départ sans délai pendant la nuit du 26 au 27 septembre 1761. Tous les bras s’emploient avec le plus grand empressement... Enfin, on le lance à l’eau, en le retenant avec une ancre à jet qu’on avait retirée des débris. » Mais l’embarcation est trop petite pour que tout le monde y trouve place. « Les cent vingt-deux Français s’embarquent ainsi avec l’espérance, ils sont obligés de s’entrelacer les uns dans les autres, pour pouvoir y être tous contenus avec quelques vivres. Les Noirs, qu’on était forcé de laisser dans l’île, demeurèrent dans un silence accablant. »

      http://www.lepoint.fr/actualites-sciences-sante/2007-01-17/les-naufrages-de-tromelin/919/0/15068

      « Malgré le nombre d’esclaves morts pendant l’aventure, c’est une histoire plutôt positive, estime l’ancien militaire. Les rescapés se sont pris en main, ont recréé une petite société. » Les archéologues ont retrouvé la trace de douze maisons en pierre, un type de construction interdit à l’époque à Madagascar car réservé aux sépultures. Les survivants « sont allés contre leurs habitudes devant la nécessité de survivre », note Max Guérout. Les scientifiques ont aussi retrouvé des bijoux créés sur place, signe d’une « vie normale ». Pour le feu, des briquets et des silex ont été retrouvés. Les habitants utilisaient le bois de l’épave de L’Utile pour l’alimenter.

      https://www.francetvinfo.fr/decouverte/l-histoire-houleuse-de-l-ile-tromelin-perdue-au-milieu-de-l-ocean-indie

      Ce n’est que le 29 novembre 1776, quinze ans après le naufrage, que le chevalier de Tromelin, commandant la corvette La Dauphine, récupère les huit esclaves survivants : sept femmes et un enfant de huit mois.

      https://fr.wikipedia.org/wiki/%C3%8Ele_Tromelin#Naufrag%C3%A9s_de_Tromelin

      Dans les deux cas, il n’y a que des femmes et des enfants survivants !

      #île #île_déserte #bateau #naufrage #racisme

    • merci @sinehebdo ces deux histoires sont assez terrifiantes.
      https://www.tahiti-infos.com/Carnet-de-voyage-Victoriano-Alvarez-le-roi-violeur-de-Clipperton_a1473

      La tragédie de Clipperton a inspiré autant les historiens que les romanciers. Voici quelques livres (essais et romans) ayant pour objet le drame des oubliés de Clipperton.

      – Clipperton l’île tragique, André Rossfelder (Albin Michel)
      – Les Oubliés de Clipperton, Claude Labarraque Reyssac (ED. André Bonne)
      – L’homme de Clipperton, Gil Pastor (Luneau Ascot Editeurs (1987)
      – Le Roi de Clipperton, Jean-Hugues Lime (Le Cherche Midi)
      – Agua verde, Anne Vallaeys (Fayard)
      – L’île aux fous, Ana García Bergua (Mercure de France ; bibliothèque étrangère)

      #survivre #femmes

  • #Rebecca_Mott : Séquelles
    https://tradfem.wordpress.com/2017/06/05/sequelles

    Je vais essayer d’aborder mon traumatisme, de l’aborder de l’intérieur.

    J’ai envie de me cacher, je regrette de m’être fait du mal.

    Au cœur du traumatisme, le suicide semble un choix raisonnable.

    Mais ma volonté obstinée signifie que je continue à continuer – mais avec douleur, avec tristesse et avec une fureur.

    Je ne peux pas être complaisante au sein de cet enfer durable.

    Donc, je veux parler ici des nombreuses manières dont les femmes sorties de la prostitution sont maintenues dans une condition sous-humaine, ne sont jamais vraiment autorisées à retrouver une place dans la société.

    Je vais parler du sens de survivre à la traite domestique.

    Et je vais parler de l’importance d’établir des liens avec d’autres gens qui ont connu la torture ou cette condition sous-humaine, sans limiter ces liens à des opinions occidentales simplistes au sujet de la politique.

    Je dois dire que je vais écrire cela de l’intérieur de mon traumatisme ; il pourra donc m’arriver de perdre le fil ou même de perdre espoir dans ma façon de m’exprimer.

    Mais je veux parler à partir de l’intérieur du traumatisme ; c’est vous qui, en me lisant, devez progressivement apprendre la langue et les liens propres à l’âme prostituée.

    J’écris habituellement dans une langue adaptée à ce que je crois qu’on sait des personnes prostituées. J’en retranche le découragement, l’humour de potence et les mots qu’échangent en secret les femmes sorties de la prostitution.

    J’autocensure mon sentiment d’être abandonnée de toutes parts en tant que femme sortie du milieu, et je dis merci pour les miettes qu’on nous laisse.

    Mais pourquoi les femmes sorties du milieu devraient-elles toujours se montrer complaisantes, alors que nous voyons, entendons et savons qu’il se fait tellement peu pour affirmer que nous sommes pleinement humaines et méritons dignité et justice ?

    Je ne m’adresse pas ici au lobby du travail du sexe, mais à ceux et celles qui se sont définis comme des alliés.

    Je parle aux abolitionnistes qui nous voient comme des animaux de compagnie – appelées à performer nos « récits » de souffrance – mais qui coupent court si nous parlons de réclamer justice, si nous parlons de notre compréhension approfondie du pouvoir et de la violence des hommes, si nous parlons de nos vies en dehors de ce rôle d’être sorties du milieu.

    Traduction : #Tradfem
    Version originale : https://rebeccamott.net/2017/05/30/aftermath

    Veuillez contribuer par un don au travail de Rebecca Mott : https://www.paypal.com/cgi-bin/webscr?cmd=_s-xclick&hosted_button_id=7LKGJ4UZYEKK8d

    #prostitution #séquelles #abolitionnistes #victime #traumatisme #survivre

  • Une #poésie, reçue par un collègue et ami.
    A lire.

    Ma tête à la mer.

    J’ai quitté la poussière. Les montagnes. La ville. J’ai quitté.
    On dit ça au lycée. Quand l’heure d’apprendre est finie.
    J’ai tout su de mon pays. Les définitions aussi.
    De la souffrance. De la perte. De la haine. De la mort.
    J’ai fait mes colles dans la cave.
    J’ai passé mes épreuves sous les poings qui frappent.
    Je n’ai rien réussi.
    Seulement #survivre.

    Ma tête à l’envers.

    J’ai quitté. J’ai laissé. J’ai perdu.

    La maison de mes parents. La porte qui tremble sous les coups.
    Les rafales. Les grenades. Les bombes. Les gaz.
    Les mendiants qui mentent. Armés sous leurs loques. Ils pillent.
    Tuent l’innocence d’une vérité blottie dans un foyer.
    J’ai quitté la vie qu’on voulait me prendre.

    Ma tête au désert.

    J’ai traversé les #frontières. Couru l’#espoir. Goûté le #courage.
    Comme une poignée de sable sur les lèvres.

    Et l’#angoisse. La corde qu’on avale pendant qu’elle nous étrangle.

    Ma tête à l’air.

    Libre je ne sais rien. De ce qui m’attend et de ce qu’est le temps.
    La montre à mon poignet est un compte à rebours du vide.
    Je suis seul avec ce qui manque.
    Et seul avec ce que j’espère.
    J’ai dix-huit ans. Disent mes os.
    Et dehors. Dit le juge.
    J’ai dû dire au revoir plus vite qu’une porte claque.
    Libre je ne sais rien. Mais j’ai le numéro de ma soeur.
    En Angleterre. Et viens. Me dit-elle. Rejoins-moi.
    Elle a payé un passeur.
    Je ne sais pas où le rejoindre.
    Soudain une vie coûte le prix d’un passage.
    Je ne pense qu’à recharger mon téléphone.

    Ma tête à demain.

    Images mentales. Bancales.
    Je veux bien me noyer mais dans le flot d’une journée.
    En Angleterre. Avec ma soeur.
    Images mentales. Brutales.
    L’avenir tremble et vacille.
    Comme la mèche des vagues que rase le vent.
    L’avenir sera-t-il sur le rivage ?
    Je pars à la nage si le passeur ne m’appelle pas.
    Je ferai la planche jusqu’en Angleterre.
    Si la fatigue gèle mes bras, mes jambes.
    Je ferai la planche jusqu’au sourire de ma soeur sur la rive.
    Vais-je tenir ? Vais-je flotter si longtemps ?
    Qu’en disent mes os ?
    A votre avis, monsieur le juge ?

    En l’absence de réponse, j’attends encore.

    J’attends le passeur ou le jugement de l’eau.

    Nore Avril

    https://www.facebook.com/aldo.brina/posts/1393031040787504?notif_t=notify_me&notif_id=1494484241405264
    #migrations #âge #âge_osseux #poésie #attente #quitter #asile #réfugiés #liberté #solitude

  • La faim du #travail #DATAGUEULE 62 - YouTube
    https://www.youtube.com/watch?v=4n2tWyIuA8g


    Le problème n’est pas le #chômage, mais l’#organisation de la #répartition de la valeur !

    Le chômage va être l’un des thèmes de la campagne présidentielle à venir. Comme il l’était lors de la campagne précédente. Et pour celle d’avant. En fait, cela fait des décennies que le chômage augmente sans que rien ni personne ne parvienne à l’enrayer
    sur le long terme. Et si l’on sortait la tête du guidon pour chercher un peu de recul ? Cette augmentation progressive du chômage raconte surtout une modification en profondeur du marché de l’emploi qui a commencé il y a plus d’un siècle avec le Taylorisme, notamment. Nous approchons sans doute d’un point de bascule : celui où les employé/es ne seront plus nécessaires car les robots et l’intelligence artificielle seront devenus plus efficaces.
    Quel nouveaux mécanismes imaginer alors pour redistribuer les richesses et inventer un nouveau contrat social ?

    • @petit_ecran_de_fumee : sois rassuré : cela fait quelques années que je m’intéresse à cette thématique (enfin, sans trop me forcer non plus) et ce n’est toujours pas très clair dans ma tête. J’ai tenté de relire (sérieusement cette fois) le Capital mais j’ai pas mal butté sur des notions comme celle de la valeur d’échange par rapport à la valeur d’usage.
      Donc, comme ici, on va s’entre-aider en nous fournissant des liens vers des articles qu’on a du mal à lire soi-même (avec une bonne « intelligence » du contenu, j’entends), voici (peut-être) quelques textes fondateurs sur le site « palim-psao » site qui fait autorité en la matière.

      http://www.palim-psao.fr/tag/presentation%20de%20la%20critique%20de%20la%20valeur

      Anselm Jappe est assez abordable également. J’avais lu « Crédit à mort » et, en parcourant le Net, je viens de trouver une sorte d’exégèse de l’opus de Jappe par un certain Clément Homs auteur dans la revue « Variations »
      https://variations.revues.org/107
      où voici ce qu’il écrit :

      Le livre étant sous-titré « la décomposition du capitalisme et ses critiques », ces dernières sont vivement prises à parti dans les divers articles afin de dégager ce qui paraît valable chez elles et ce qui leur échappe pour saisir la réalité de la crise contemporaine du capitalisme. Car pour l’auteur, plusieurs de ces critiques ont trop longtemps pensé que le caractère capitaliste de la production apparaissait extérieurement au procès de travail, travail qui en lui-même d’après ces théorisations devait être complètement naturalisé en tant que créateur « en soi » de toute richesse et comme simple activité instrumentale, comme si le travail était en quelque sorte l’essence générique de l’homme captée extérieurement par le capital. Comme l’a montré Postone, le capitalisme est ainsi défini par le « marxisme ricardien » (selon l’expression de Hans-Georg Backhaus2) comme un mode de distribution critiqué « du point de vue du travail ». Autrement dit, le marxisme traditionnel a considéré la notion de travail mobilisée par Marx comme la forme transhistorique du métabolisme avec la nature alors que l’analyse que le Marx de la maturité fait du travail concerne le travail sous le capitalisme. Ces visions du « marxisme traditionnel » ont alors mis seulement au centre de leur réflexion la théorie de l’exploitation du surtravail et celle de l’appropriation privée du surproduit social par la classe capitaliste, proposant pour seule critique du capitalisme, un changement du mode de distribution de la valeur qui se voit de par la naturalisation de son contenu – le travail – complètement acceptée3. À propos des luttes contre les licenciements (comme pour les « récupérations » d’usine) ou des gens inquiets de perdre leur travail, Jappe estime ainsi, à rebours de la gauche, que leur colère « n’a rien d’émancipateur en tant que tel ». C’est que pour les thuriféraires du capitalisme comme pour sa critique marxiste (critique qui est restée immanente aux formes sociales capitalistes),

      4 Anselm Jappe, Les Aventures de la marchandise. Pour une nouvelle critique de la valeur, Denoël, 200 (...)

      « la marchandise, l’argent, et la valeur sont des choses qui ‘‘ vont de soi ’’ et qu’on trouve dans presque toutes les formes connues de vie sociale à partir de la Préhistoire. Les mettre en discussion semble aussi peu sensé que contester la force de gravitation. Une discussion n’est plus possible que pour ce qui regarde le capital et la plus-value, les investissements et les salaires, les prix et les classes, donc lorsqu’il s’agit de déterminer la distribution de ces catégories universelles qui règlent les échanges entre les hommes. C’est là le terrain où peuvent se manifester les différentes conceptions théoriques et sociales4 ».

      5 Groupe Krisis, Manifeste contre le travail, UGE, 10/18, 2001 (1999).

      3À l’inverse de ces visions, la critique de la valeur et du fétichisme de la marchandise soutient que le capitalisme doit être saisi par une analyse plus profonde, en tant que forme particulière et inédite de vie et de socialisation, comme forme radicalement différente de médiation sociale constituée par le travail sous le capitalisme, un travail qui n’a rien d’une essence sociale transhistorique (d’où le Manifeste contre le travail du groupe Krisis auquel Jappe a appartenu5). L’auteur égratigne ainsi à plusieurs reprises les théoriciens les plus connus de cette gauche radicale, altermondialiste ou marxiste. Negri, Badiou, Zizek ou l’Insurrection qui vient en prennent chacun à leur tour pour leur grade et le chapitre consacré à la violence politique est une mise en garde sans détour à Julien Coupat et ses amis :

      « si la guerre civile – la vraie – éclatait, il ne serait pas difficile d’imaginer qui seraient les premiers à se trouver réveillés en pleine nuit et collés au mur sans façon, tandis qu’on viole les femmes et qu’on tire sur les enfants… » (p. 90).

      6 « D’un côté note Postone, c’est un type de travail spécifique qui produit des biens particuliers po (...)
      7 Voir la critique que fait A. Jappe à A. Sohn-Rethel, dans sa préface au recueil d’articles de ce de (...)

      4Quelle est alors la spécificité de cette saisie des bases sociales de la production capitaliste dont Anselm Jappe se réclame ? Prenons seulement un angle précis. Dans la société déterminée par la marchandise, c’est-à-dire sous le capitalisme, le travail quel qu’il soit, a toujours une double face avait-il montré dans son livre précédent. À première vue, le travail semble être seulement concret, et détermine la face d’usage d’une marchandise. Mais il possède aussi une autre face de par sa situation, une face abstraite, qui dérive de la fonction socialement médiatisante que possède le travail6. C’est là un caractère social historiquement spécifique du travail sous le capitalisme. Cette face abstraite de tout travail (qui est appelée le « travail abstrait ») est comme un « objet fantomatique » (R. Kurz), c’est-à-dire invisible, mais constitue pour autant l’essence sociale de la société capitaliste-marchande car il y opère sa « synthèse sociale ». C’est cette face abstraite – socialement médiatisante – du travail qui va être le contenu de la valeur et donc du capital (de la valeur qui se valorise au travers d’un processus social de dépense tautologique du travail). Ce n’est pas l’objectivation de la dépense de travail en soi qui constitue la valeur. La valeur est plutôt l’objectivation de cette fonction sociale particulière du travail sous le capitalisme. La substance sociale de la valeur, qui est donc aussi l’essence déterminante de la société capitaliste, est donc le travail dans sa fonction historiquement déterminée d’activité socialement médiatisante. La valeur est alors forme temporellement déterminée de richesse sociale et de médiation sociale objectivée, propre à la seule formation sociale capitaliste où les rapports sociaux sont constitués pour la première fois par le travail. C’est alors le travail – et non pas la séparation entre l’acte d’usage et l’acte d’échange comme le pensait encore Alfred Sohn-Rethel7 – qui rend possible qu’une abstraction réelle conduise la société. Ici la valeur n’est plus une catégorie transhistorique comme dans sa compréhension par le « marxisme ricardien ». Avant même de critiquer la distribution de la valeur et la formation de la survaleur, une critique anticapitaliste doit saisir selon lui que derrière la valeur se cache déjà un rapport social de production particulier, que l’on doit comprendre comme un lien social objectivé, une forme de vie sociale historiquement inédite car propre à l’interdépendance sociale sous le capitalisme constituée par le travail. Critiquer ainsi le capitalisme au niveau de ses structures profondes, c’est donc d’abord critiquer cette forme sociale, la valeur.

      on pourra aussi télécharger le PDF pour lire tout ça peinard ...

      Lien vers « Crédit à mort »
      https://dl.dropboxusercontent.com/u/30351232/Anselm_Jappe_-_Cr-dit_-_mort.pdf

      Excuse-moi d’avoir été long (et peut-être ennuyeux) mais ce n’est pas un sujet facile à digérer ... :)

    • Après, on peut se branler la nouille avec le concept de valeur, peut être que c’est passionnant mais si ça ne permet plus de constater cette accumulation de pognon, je ne vois pas l’intérêt.

      Non seulement ça permet de constater une immense accumulation de richesses par une minorité de privilégiés mais aussi de dénoncer le fétichisme de la marchandise et, partant, le fétichisme du « travail » humain, lequel va intrinsèquement produire une plus-value socialement admise pour cette même marchandise (au sens large du terme, que ce soit un objet, un service, etc ...). Le « fétiche » dans notre cas est une valeur morale communément admise, une sorte de dogme religieux qu’on ne saurait remettre en cause. Pas de « marchandise » sans « travail » et inversement pas de" travail" sans « marchandise ». Il n’y a là aucune relation de cause à effet et c’est bien contre cette « pensée magique » que la « critique de la valeur » (#Wertkritik) s’est élevée. Si on brise ces deux idoles, on voit que le chômage fait aussi partie des fétiches de nos sociétés capitalistes.
      Dans d’autres communautés humaines, les produits de la chasse, de la pêche, de la cueillette ou de la récolte sont partagés entre tous leurs membres. Lorsqu’il y a abondance en un moment donné, on fait un un festin.
      D’autre part, pour rebondir sur cette idée de la robotisation ou mécanisation, même les plus perfectionnés des robots (ceux qui s’auto-réparent) ont besoin de matériaux issus de minerais qu’il faut aller extraire dans les profondeurs des mines et ensuite qu’il faut transformer. Le recyclage de l’existant pose trop de problèmes techniques pour pouvoir se substituer à l’extraction. Se posera fatalement tôt ou tard la question de l’épuisement des ressources. Sans compter celui de l’atteinte à l’environnement causé par l’exploitation minière, le transport du minerai et la transformation de celui-ci.
      #Se_branler_la_nouille, je serais plutôt pour si cela permet de mettre en commun nos « intelligences » (capacités à comprendre le monde, la société, l’environnement) pour #se_sortir_les_doigts_du_cul.
      Et non, je ne pense pas que mon intervention ni celle de @rastapopoulos étaient à charge contre @monolecte.

    • Le « fétiche » dans notre cas est une valeur morale communément admise, une sorte de dogme religieux qu’on ne saurait remettre en cause.

      J’ai oublié d’ajouter : « et où se jouent des rapports de dominations entre classes » ... And that’s a fuckin’ tangible problem
      Désolé si je m’absente du débat pour le week-end mais j’ai un autre problème concret à résoudre : empiler quelques stères de bois dans ma grange pour l’hiver. Mis à part un peu de transpiration, je ne vois pas ce que je pourrais lâcher d’autre.
      See you soon, seenthis people ...

    • Je ne vois pas la différence entre des richesses créées par le travail et celles créées par la mécanisation.

      Parce qu’il y a richesses et richesses. Deux siècles de socialisation dans le capitalisme (et certainement juste quelques décennies pour une portion non négligeable de l’humanité) nous ont bien appris à ne pas voir la différence, ou tout du moins à ne pas envisager que leur nécessaire distinction soit bien plus qu’un « branlage de nouille »

      Richesses peut désigner (et cela semble être le cas spontanément dans cette citation) des « biens », qu’ils soient matériels ou immatériels. Ils représentent une forme d’utilité pour ceux qui sont amener à les consommer. C’est la part « concrète » de ces richesses. Et dans ce cas, effectivement, que le « travail » nécessaire soit accompli par un travailleur ou une machine ne présente pas d’autres différences que le niveau de productivité concrète qui peut être atteint.

      Mais ceux qui produisent ces richesses n’ont que faire que la part concrète, à part le fait qu’ils doivent la présupposer. Son contenu n’est pas déterminant pour qu’un producteur décide d’engager sa production. Ce que le producteur vise, c’est l’autre face de la richesse, sa part abstraite, celle qui se traduit en quantité monétaire et qui définit leur rentabilité, seul critère décisif en dernier ressort. Et cette part abstraite, qui unifie toutes les richesses produites dans le capitalisme, c’est leur valeur : la valeur des marchandises comme dimension commune universelle. Et la valeur n’a pas d’autre contenu qu’un aspect bien particulier du travail sous le capitalisme, c’est-à-dire le fait que l’on unifie les activités productrices sous l’angle du temps que des êtres humains doivent y consacrer. Pourquoi alors seulement le temps de travail humain ? Parce que c’est par la répartition de ce temps que s’organise le lien social entre les travailleurs dans le capitalisme, de façon inconsciente et à la manière d’un automate alors même qu’ils en sont la source : il s’agit bien là des propriétés d’un fétiche.

      Ainsi, les richesses créées en régime capitalisme ne sont pas n’importe quelles richesses : il s’agit d’une « immense accumulation de marchandises » comme le constate empiriquement Marx dès les premières lignes du Capital, constat à partir duquel il va tirer toute sa réflexion sur la distinction bien comprise entre part concrète et part abstraite de ces marchandises et du travail qui les produit. L’interaction entre ces deux faces induit par ailleurs tout un tas de phénomènes, comme des nuisances que l’on dénonce, mais aussi des (fausses) évidences que nous prenons pour une réalité première et intangible (à commencer par le travail)

      Une dernière remarque : la distinction entre face concrète et face abstraite dans la marchandise et le travail qui la produit ne doit pas amener à faire la promotion d’un pôle qui serait émancipateur (le concret) contre l’autre qui serait aliénant (l’abstrait). Car le problème du capitalisme, c’est bien d’ériger ces deux pôles à la fois distincts mais indissociables dans tout ce que nous produisons et sur quoi nous appuyons la reproduction de la société capitaliste toute entière. Défendre le concret contre l’abstrait est une posture totalement intégrée au mode de production capitaliste et qui ne vise donc pas un au-delà de ce mode de synthèse sociale qui serait la dissolution de ce caractère bifide. Pire même, il peut parfois être la base d’une dichotomie opérée entre ceux qui seraient les représentants du concret (les « honnêtes travailleurs ») et les représentants de l’abstrait (les vampires inféodés à l’argent) dont l’Histoire montre bien le potentiel de barbarie.

    • Oui voilà, les richesses au sens matériel, les objets produits etc, cela ne correspond pas (dans le vocabulaire de Marx, des marxiens, etc), à la « valeur ». Pour très très résumer, la valeur est donnée par la quantité de travail humain incorporée à la marchandise. C’est cette valeur qui permet de tout comparer sur un pied d’égalité (pour le mode de pensée capitaliste) pour échanger et donc aboutir au mode de vie que l’on a actuellement.

      Les robots, l’informatique, etc, génèrent des objets ou des services, mais ne génèrent pas de nouvelle valeur mise en circulation dans la société ensuite.

      Et du coup pour la partie « concret » de ce branlage de mouche, c’est cela qui fait que la dette augmente indéfiniment (cf « La grande dévalorisation » de Lohoff/Trenkle [1]), et c’est cela qui fait que le capitalisme à tous les étages (et pas seulement tel ou tel « grand méchant » !) a un besoin permanent de trouver de nouveaux marchés, avec les conséquences que l’on connait…
      (C’est pas trop à la masse @ktche ? Tu peux compléter avec d’autres conséquences concrètes si tu veux… pour comprendre en quoi cela peut être utile de s’intéresser à la critique de la valeur.)

      La critique de la valeur est donc un « aiguillage » qui permet de ne pas se diriger vers de mauvaises critiques du capitalisme, et donc des mauvaises solutions. Ça ne donne pas LA solution, mais cela permet de faire le tri, un peu comme le dernier numéro de l’An 02 critiquait (pas forcément pour les mêmes raisons) une série d’alternatives qui restaient dans le cadre capitaliste/industriel et qui continuaient donc de poser plein de problèmes.

      En tout cas c’est comme cela que je le vois.

      [1] http://www.post-editions.fr/LA-GRANDE-DEVALORISATION.html

    • Par ailleurs pour reprendre l’interrogation du début, il y a sur PalimPsao quelques articles beaucoup plus simples à lire que celui cité plus haut. :)

      Par exemple celui là je le trouve plutôt bien fait :
      Qu’est-ce que la valeur ? Une introduction
      http://www.palim-psao.fr/article-35929096.html

      Marx a explicitement distingué valeur et richesse matérielle, et il a lié ces deux formes distinctes de richesse à la dualité du travail sous le capitalisme. La richesse matérielle est déterminée par la quantité de biens produite et elle dépend de nombreux facteurs, tels que le savoir, l’organisation sociale et les conditions naturelles, en plus du travail. La valeur, selon Marx, n’est constituée que par la dépense de temps de travail humain et elle est la forme dominante de richesse sous le capitalisme.

      Et du coup il y a bien une spécificité capitaliste, par rapport aux autres modes de vie (passés et quelques uns encore présents) :

      Même si la majorité des sociologues et des historiens bourgeois partent du point de vue qu’échanger fait partie de la nature humaine, l’échange de marchandises dans les sociétés prémodernes n’était pas le principe de socialisation. Là où il y avait de l’échange, il s’agissait d’un phénomène marginal. Les sociétés prémodernes étaient des sociétés basées sur l’économie de subsistance et disposaient de différentes formes de distribution des produits, comme par exemple des liens de dépendance, de pouvoir ou personnels. C’est une caractéristique des sociétés capitalistes que l’échange soit devenu le seul principe du « métabolisme de l’homme avec la nature ». Historiquement, l’échange est resté un phénomène marginal aussi longtemps que les gens disposaient de moyens propres, ou en commun, pour parvenir à la satisfaction de leurs besoins. C’est seulement la séparation violente entre l’homme et ses moyens de subsistance qui rendit possible le capitalisme et généralisa le principe de l’échange. C’est seulement dans le capital que s’accomplit la logique de l’échange.

    • Je ne vois pas la différence entre des richesses créées par le travail et celles créées par la mécanisation.

      dis-tu @aude_v

      il y en a une et majeur à mon sens, c’est que les machines ne sont plus au service des travailleurs.ses mais que ceux.lles-ci sont asservies à ces machines, à leur service 24/24.
      le blog http://www.palim-psao.fr est une référence incontournable pour comprendre ou du moins essayer de comprendre (selon ses moyens) ces problèmes.
      Un autre site s’y emploie (pas moins complexe) http://vosstanie.blogspot.fr/2016/10/division-du-travail-et-conscience-de.html

      Travail productif et travail improductif

      Ces derniers temps, la question de la conscience de classe a été posée de façon nouvelle, en connexion avec les concepts marxiens de travail productif et de travail improductif, et soumise ainsi à la discussion (1). Bien que Marx se soit longuement exprime au sujet de ce problème (2), soulevé par les physiocrates et les économistes classiques, il est aisé de résumer ce qu’il en pensait.
      Pour savoir ce qui distingue le premier du second, Marx interroge uniquement le mode de #production_capitaliste. « Dans son esprit borné, dit-il, le bourgeois confère un caractère absolu à la forme capitaliste de la production, la considérant donc comme la forme éternelle de la production. Il confond la question du travail productif, telle qu’elle se pose du point de vue du capital, avec la question de savoir quel travail est productif en général ou ce qu’est le travail productif en général. Et de jouer à ce propos les esprits forts en répondant que tout travail qui produit quelque chose, aboutit à un résultat quelconque, est eo ipso un travail productif »

      #paul_mattick #division_du_travail #conscience_de_classe

      Œuvre posthume de Paul Mattick (1904-1981), Marxisme, dernier refuge de la bourgeoisie ? fut la dernière expression de toute une vie de réflexion sur la #société_capitaliste et l’opposition révolutionnaire.
      Connu surtout comme théoricien des crises économiques et partisan des #conseils_ouvriers, Paul Mattickfut aussi un acteur engagé dans les événements révolutionnaires qui secouèrent l’Europe et les organisations du mouvement ouvrier au cours de la première moitié du XXe siècle. A l’âge de 14 ans, il adhéra à l’organisation de jeunesse du mouvement spartakiste. Elu au conseil ouvrier des apprentis chez Siemens, Paul Mattick participa à la Révolution allemande.
      Arrêté à plusieurs reprises, il manque d’être exécuté deux fois. Installé à Cologne à partir de 1923, il se lie avec les dadaïstes. En 1926 il décide d’émigrer aux Etats-Unis. L’ouvrage présent est organisé autour de deux grands thèmes. Poursuivant son travail de critique de l’économie capitaliste contemporaine (Marx et Keynes, les limites de l’économie mixte, Gallimard, rééd. 2011), Paul Mattick revient sur les contradictions inhérentes au mode de production capitaliste.
      S’ensuit un réquisitoire contre l’intégration du mouvement ouvrier qui, en adoptant les principes de la politique bourgeoise, a abandonné définitivement toute possibilité de dépassement du capitalisme. Un texte éclairant pour une période où la crise dévoile la nature instable et socialement dangereuse du capitalisme.

    • Quant à cet emballement, qu’il soit dû à un afflux de métaux précieux (qui sont les fétiches les plus évidents) ou à la colonisation ou à la mécanisation... c’est un emballement dont je ne vois pas trop la spécificité.

      Et pourtant, c’est bien à la spécificité de l’emballement en régime capitaliste qu’il faut s’intéresser, parce qu’il explique entre autres des phénomènes induits comme la colonisation ou la mécanisation telles que nous la connaissons depuis environ deux siècles.

      Cette spécificité, c’est justement l’interaction entre la face concrète et la face abstraite des produits et des activités réalisés dans un monde où la marchandise et le travail se sont généralisés. Cela n’induit pas seulement des effets dans la sphère « économique », mais aussi dans les modes de pensée qui s’appuient sur des catégories « naturalisées » alors même qu’elles sont le produit spécifique de l’histoire du capitalisme et de lui seul.

    • Euh et à part dire que tu ne comprends pas, est-ce qu’il y a un truc spécifique que tu n’as pas compris, par exemple dans mon commentaire ?
      https://seenthis.net/messages/530334#message533482

      Personnellement je n’y comprens pas grand chose en économie ou en philosophie donc c’est assez laborieux pour moi aussi, ça me demande pas mal de temps. Mais par exemple le seul lien que j’ai mis dans ce fil, l’as-tu lu ? Il n’est pas très long (si tu trouves 15-20min à un moment) et il me parait plutôt très clair dès le départ, avec la bière et le marteau :
      http://www.palim-psao.fr/article-35929096.html

      Pour garder cet exemple, comment échanger un marteau contre une bouteille de bière ? Bière et marteau sont deux objets totalement différents qui ne servent pas à satisfaire le même besoin. Leur différence peut être d’importance pour celui qui veut boire une bière ou celui qui veut planter un clou dans un mur. Mais pour l’échange, en tant qu’opération logique, leur utilité concrète n’est pas pertinente. Dans l’acte d’échange, il s’agit d’échanger des choses égales ou des équivalents. Si ce n’était pas le cas, on échangerait sans hésiter un morceau de beurre contre une voiture. Mais tout enfant sait qu’une voiture a plus de valeur. Manifestement ce n’est donc pas l’attribut qualitatif d’une marchandise (sa nature concrète ou sensible) qui rend l’échange possible. Bière, marteau et voiture doivent donc posséder quelque chose qui les rend semblables et ainsi comparables.

      => C’est la valeur. Et celle-ci n’a rien à voir avec la matérialité des biens produits, mais avec le temps humain passé à les produire.

      => Plus il y a de robots, d’informatique, moins il y a de nouvelle valeur créé et mise en circulation dans le monde. Et donc plus il y a de problèmes (puisque les capitalistes veulent toujours plus de valeurs, sauf qu’il n’y en a pas plus, et donc soit création de nouveaux marchés qui pètent la société et la planète, soit endettement massif, soit création financière purement fictive, et plein d’autres problèmes dont la toute première base est le problème de la valeur).

    • Euh non mais mon « lis ça » il fait vraiment juste 2000 mots, 15min maxi à lire hein. Ça ne me parait pas du tout du même ressort que de dire « va lire ce livre de 400 pages et on en reparle », quand même… :(

      Pourquoi le temps humain passé à les produire ? Pourquoi pas les ressources naturelles utilisées pour les produire ?

      Les ressources naturelles sont des marchandises comme les autres et ont une valeur qui est… le temps humain pour les produire. Et ainsi de suite…

      Le temps varie mais c’est une moyenne. Un peu plus détaillé : il s’agit du temps humain passé pour produire les marchandises modulo l’état des lieux (aujourd’hui mondial) de la concurrence, le temps moyen de production de la même chose.

      Il paraît clair que le temps, dépensé en énergie humaine, nécessaire pour la fabrication d’une marchandise, joue un rôle. Mais là, il y a un problème : il ne viendrait pas à l’idée d’un fabricant d’automobile, par exemple, de travailler moins vite pour augmenter la valeur de son véhicule ; ce qui d’ailleurs ne marcherait pas. Il doit se confronter à la concurrence et au niveau technique et scientifique de production d’automobiles. On peut donc dire que la grandeur de la valeur est donnée par la quantité de travail abstrait, dépendant de la moyenne du niveau de productivité sociale.

    • @aude_v je ne sais pas si c’est génial d’être moi mais ce dont je suis sûr c’est que ça me ferais chier d’être quelqu’un d’autre.
      Je n’explique rien et ne pensais pas t’enluminer. Tout comme @rastapopoulos je ne comprends pas grand chose à l’économie et j’ai besoin de « béquilles » quand c’est trop ardu.
      Malgré ça, bien souvent, j’abandonne et retourne me branler la nouille comme tu dis. J’ai essayé de lire le livre I du Capital, l’analyse faite par Karl Marx du régime capitaliste - « ou ce ne sont pas les moyens de production qui sont au service du travailleur, mais bien le travailleur qui se trouve au service des moyens de production ».
      Je ne suis pas sûr d’avoir compris le peu que j’en ai lu. Par contre de la classe à laquelle j’appartiens, ça je l’ai bien compris et c’est même pour ça que je suis syndiqué. Et tant pis (ou tant mieux) si ce syndicat est minoritaire, c’est mieux que d’être tout seul.

      La plupart des braves gens, le populo ne comprends rien aux lois économiques, à la bourse... et heureusement car sinon ils se révolteraient.

      Je ne sais plus qui a dit ça ! Winston Churchill peut-être ?
      Un dernier lien à 7€ ( le prix d’un paquet de clopes ), vraiment pas cher comme enluminure, chez un éditeur que j’affectionne tout particulièrement http://www.insomniaqueediteur.org/publications/le-jour-de-laddition

      Tandis que les #circuits_financiers implosent, gestionnaires et gouvernants comptent bien faire payer l’addition aux pauvres. À contre-courant du discours économique ambiant, Paul Mattick souligne, dans ce bref rappel aux réalités, qu’une politique interventionniste ne suffira pas à résoudre les épineuses contradictions que la #panique_financière a révélées à tous. Car c’est la logique même de la quête du profit qui, de fuite en avant en fuite en avant, est arrivée à son point d’explosion. Tant que les êtres humains ne sauront pas la dépasser en actes, les aberrations du système s’aggraveront, ainsi que les calamités sociales, culturelles et environnementales.

      Celui ci écrit par Paul Mattick Jr (le fils de l’autre) en 2009.

      La ressource humaine ou le temps humain pour les capitalistes est aussi une ressource naturelle.
      Une autre citation, de Joseph Staline celle là :

      l’homme, ce capital le plus précieux

      à propos de la crise de 2008

      Ils ont rédigé le plus gros chèque en bois de l’histoire et se le sont encaissé eux-mêmes.

      #Norman_Spinrad

    • Les robots, l’informatique, etc, génèrent des objets ou des services, mais ne génèrent pas de nouvelle valeur mise en circulation dans la société ensuite.

      La valeur créée peut aussi apparaître dans la rémunération des salarié-e-s qui, en disposant d’argent, vont pouvoir acheter/consommer toutes les marchandises accumulées. Peut-on, sans trop se planter, dire que la rémunération du travail sous forme d’argent participe elle aussi à la création de valeur ? Et comme certaines marchandises sont trop chères pour être payées cash, le fait que les salarié-e-s vont devoir s’endetter en empruntant aux banques ne participerait-il pas également à la création de valeur dans le sens « capitalistique » du terme ?

    • Le salaire est payé en échange d’une portion de la valeur créée. Cette dernière prend aussi la forme de la part payée aux détenteurs du capital et de celle réinvestie comme capital supplémentaire. La logique du capital (qui cherche à maximiser sa rentabilité) est de diminuer la première et de privilégier la troisième (d’où le déferlement des techniques et de la machinerie). Mais effectivement, cette logique portée par chaque capital individuel sous l’effet de la concurrence a pour effet au niveau du capital global de diminuer la solvabilité de ceux qui achètent les marchandises et assurent le bouclage d’une création de valeur « réussie »

      Pendant longtemps, des tendances compensatrices permettaient de masquer cette logique (extension des marchés par la globalisation et la marchandisation), mais depuis que la productivité (notamment grâce à l’informatisation) a atteint un niveau tel que chaque nouveau marché ne représente que peu de travail producteur, alors la création de valeur auto-entretenue n’est plus possible.

      Pour payer les marchandises, il faut effectivement en passer de plus en plus par le crédit, c’est-à-dire non pas la dépense d’une valeur précédemment créée par un travail productif, mais un pari sur le futur selon lequel la valeur sera créée et permettra de rembourser. Cela vaut pour la consommation des foyers, mais aussi pour la rémunération et l’expansion du capital. Là aussi, le cycle ne tourne plus sur son propre élan mais nécessite une « simulation » d’augmentation de la valeur par l’intermédiaire des produits financiers. Il y a bien augmentation (simulée) de la valeur mais pas de création en tant que telle par une dépense préalable de temps de travail humain productif.

      Cette simulation est fondée sur des échéances dans le futur qu’il faut bien à un moment satisfaire. Comme cela n’est plus possible (la création de valeur ne s’est pas magiquement réamorcée entretemps) on accumule alors de nouveau des crédits et des produits financiers pour compenser. La montagne s’accroit, mais sa base se rétrécit. Jusque là, la finance a sauvé le capital (et donc le travail) en repoussant le moment où sa mort sera manifeste. Mais elle le fait en accumulant un poids de plus en plus lourd à tirer pour le zombie.

    • bête comme chou @phalene tes explications sont claires, dépouillées sans besoin de couper les cheveux en quatre.
      Attaquer le système, certes ; certains.es s’y appliquent sans jamais renoncer et avec une imagination débordante et contagieuse. Delà à le renverser, c’est une autre paire de manches. Dans l’absolu ce système est voué à disparaître, le hic c’est qu’il peut entraîner tout le monde et ne rien laisser derrière lui. Sur une terre brûlée, après lui...des luges !

    • Merci à tous j’y vois plus clair.

      Si nous ne sortons pas des rapports sociaux et environnementaux induits par la valeur

      @phalene est-il possible de réussir à reformuler différemment cette phrase pour qu’on puisse justement réussir à mieux se faire entendre et avoir une chance de passer à l’acte ?

      Pour moi, ce n’est pas un problème de mécanique économique, il s’agit juste d’un problème moral.
      Il faudrait qu’on fasse accepter l’idée que jouer sur le savoir des uns et l’ignorance des autres, les compétences des uns et l’incompétence des autres, pour accumuler de la valeur et donc se constituer des privilèges au dépens des autres, tout cela devrait être considéré comme socialement honteux, et répréhensible, comme le fait de voler ou frauder. Et non être glorifié comme ça l’est aujourd’hui (un spéculateur qui a gagné ? on l’applaudit, c’est un VISIONNAIRE..)
      Au risque de vous choquer, le capitalisme je m’en fous un peu, c’est une mécanique "naturelle"d’anticipation économique, vieille comme l’apparition des formes d’intelligence, qui n’est pas intrinsèquement liée à une pulsion prédatrice.
      Le diable pour moi c’est la « spéculation », c’est cette stratégie qu’on déploie pour aller exploiter/parasiter/consommer tôt ou tard ses congénères. Pulsion prédatrice qui n’a pas besoin du capitalisme pour se concrétiser (cf les autres formes de dominations intra-humaines), et qui à mon avis survivra au capitalisme si on parvient à s’en débarrasser sur le plan technique, sans avoir réussi à faire évoluer notre culture sur le plan moral..

    • Sinon, pour en revenir à la base du débat

      Le problème n’est pas le #chômage, mais l’#organisation de la #répartition de la valeur !

      Ce que j’en retiens, amis de la critique de la valeur, c’est que si on entend plutôt dans cette phrase « organisation de la répartition des richesses produites », vous nous dites qu’à partir du moment où elles seront équitablement réparties et ne pourront plus être une source de profit pour les capitalistes, ces « richesses » ne seront plus des « richesses », et du coup les inégalités se déplaceront ailleurs, c’est cela ?

    • Merci à tous j’y vois plus clair.

      […]

      Au risque de vous choquer, le capitalisme je m’en fous un peu, c’est une mécanique "naturelle"d’anticipation économique, vieille comme l’apparition des formes d’intelligence, qui n’est pas intrinsèquement liée à une pulsion prédatrice.

      Bon, bah non, t’y vois pas plus clair :D
      C’est exactement l’inverse des explications de la critique de la valeur (et en fait avant ça, de Marx lui-même au passage hein) : le capitalisme est historique et non pas an-historique, ce n’est pas du tout un mode de fonctionnement ou de pensée « ayant toujours existé », etc. C’est une organisation sociale déjà… et c’est daté, avec un début de quelques centaines d’années à peine. Donc plus ou moins récent, tout de même. Ça c’est la base de la base du travail anthropo-économique de Marx : replacer le capitalisme dans une historicisation, pour en finir avec les « de tous temps… ».

    • Je ne sais pas ce que tu vois @petit_ecran_de_fumee . Je prends tes questions comme un petit brin de soleil et j’aime beaucoup la comparaison de @phalene du système_économique avec une partie de flipper. (Soit dit en passant, de plus en plus rare dans les bistrots. ) Si le flipper #tilt fréquemment et de façon compulsive, il donne aussi des parties gratuites, des extra-balles, multi-balles, #bonus... Pour arrêter tout ce #bling_bling ; suffit de débrancher la bécane. Mais le #système_économique n’est pas branché sur secteur (encore qu’en neutralisant la production d’énergie du système économique des sociétés capitalistes ; sans siffler la #fin_de_la_partie, cela le mettrait sérieusement à l’arrêt). A l’heure actuelle, ça reste utopique ou du #sabotage. Avec la #crise_écologique, ces producteurs d’énergie veillent sur leur turbines et autre raffineries comme le lait sur le feu. Tout en gérant et provoquant des #catastrophes_à_répétition, en somme une gestion « raisonnée » du désastre, désormais officiel, de la société industrielle intimement liée avec la société capitaliste.
      Pour rebondir avec la conclusion de @phalene et sa citation de #Bakounine, voici un court texte de ce révolutionnaire ( PDF de 4 pages ). http://science-societe.fr/bakounine/#identifier_1_1769

      Non, le dix-neuvième siècle n’a pas été que scientiste, et ses penseurs révolutionnaires n’ont pas tous été fascinés par le modèle scientifique. On comprendra en lisant les lignes suivantes de Michel Bakounine (Priamoukhino, 1814 – Berne 1876), pourquoi Marx l’a fait exclure en 1872 de la Première Internationale, et pourquoi sa pensée est si longtemps restée occultée. Comme l’écrit Michel Gayraud dans sa postface à une récente réédition des écrits de Bakounine (Dieu et l’État, Mille et une nuits, 1996) : « Si, comme les philosophes des Lumières, Bakounine voit dans la science une arme propre à dissiper les ténèbres de l’obscurantisme et du fanatisme, il se refuse à la sacraliser et nous met en garde contre la tentation positiviste d’un gouvernement de savants qui exerceraient une monstrueuse dictature sur la vie elle-même. Aujourd’hui où les délires d’une caste technocratique soutenue par des scientifiques sacrifiant à la religion de l’économie produisent de nouvelles maladies et font courir des risques mortels à l’écosystème planétaire, on ne peut qu’être frappé encore une fois de la puissance anticipatrice du révolutionnaire russe. »

      *Notons que l’intérêt de Bakounine pour la science n’a sans doute pas été sans effets sur sa descendance : de ses deux filles, qui naquirent et vécurent à Naples, l’une devint la première femme professeur de chimie à l’université et l’autre, mariée à un grand médecin, eut pour fils le remarquable mathématicien Renato Cacciopoli

      J’ai découvert le site http://science-societe.fr/complements-et-amelioration-de-la-collection-survivre-et-vivre à propos de Alexander Grothendieck et de #Survivre&vivre dans un précédent post référencé par @monolecte Plusieurs numéros de Survivre et vivre (en versions numérisés) sont disponibles sur ce site.

    • Festival « Novembre libertaire » Débat autour de la critique de la valeur 15 novembre, 19 h #LYON

      Présentation et discussion sur la critique de la valeur. La théorie appelée #critique_de_la_valeur (Wertkritik en allemand) est une analyse radicale du capitalisme. Radicale parce qu’elle s’attaque aux catégories fondamentales du capitalisme : l’argent, la marchandise, l’État et le travail. Sans portée programmatique, elle peut néanmoins avoir l’intérêt de faire percevoir plus directement le monde qui nous entoure et nous construit malgré nous. Au moment où la contestation de la « Loi travail » reprend, la réponse que nous propose cette #théorie est peut-être : #pas_de_loi_ni_de_travail. Il ne semble pas non plus que l’économie, qu’elle se présente comme « circulaire », relocalisée, socialisée ou autogérée, ne puisse être autre chose qu’un redéploiement sans fin de ces mêmes catégories et de leurs contradictions mortifères.
      La lecture de quelques passages éclairant les points essentiels de la critique de la valeur nous servira de base à une discussion collective.

      Groupe Critique de la valeur/Lyon
      LIEU : CEDRATS, 27 montée Saint-Sébastien 69001, Lyon 1er Horaire : 19h.
      http://www.palim-psao.fr/2016/11/debat-autour-de-la-critique-de-la-valeur-15-novembre-lyon-festival-novemb

    • @rastapopoulos :

      Bon, bah non, t’y vois pas plus clair :D

      effectivement j’ai été approximatif dans mes propos. Cela ne signifie qu’on sera complètement d’accord à la fin, mais plus précisément les termes étaient mal choisis et je voulais plutôt exprimer ça
      "c’est une mécanique "intuitive"d’anticipation économique, vieille comme l’apparition des formes d’intelligence et d’organisation sociale"

      Dans « capitalisme » j’entends littéralement protocole social de capitalisation économique permettant d’investir, consolider, accumuler de l’expérience, savoir-faire et outils, de façon à se faciliter la vie et éventuellement celle des autres.
      La version plus récente du capitalisme effectivement serait « système dont la finalité consiste à s’octroyer des privilèges de rentes et des manoeuvres de plus values aux dépens de ses pairs », et là je suis d’accord y a rien à en tirer.

    • Merci @phalene et @vanderling pour vos réponses.
      @phalene, pour préciser mon propos je vais m’appuyer sur l’autre excellent texte que tu as posté ici
      https://seenthis.net/messages/539721
      J’adhère quasiment exhaustivement à l’analyse d’Anselm Jappe.
      La seule nuance que j’apporterai se situe dans la conclusion

      Mais depuis un siècle et demi, maintes propositions « concrètes » et tentatives « pratiques » ont abouti à des conséquences opposées aux intentions originales. Mieux vaut alors, peut-être, un simple progrès théorique, une simple prise de conscience qui va dans la bonne direction : la seule chance est celle de sortir du capitalisme industriel et de ses fondements, c’est-à-dire de la marchandise et de son fétichisme, de la valeur, de l’argent, du marché, de l’État, de la concurrence, de la Nation, du patriarcat, du travail et du narcissisme, au lieu de les aménager, de s’en emparer, de les améliorer ou de s’en servir.

      Ce que lui appelle

      un simple progrès théorique, une simple prise de conscience

      , moi j’appelle ça une révolution culturelle à engager sur le plan moral.
      « Une simple prise de conscience », je ne vois pas sur quoi ça peut déboucher.
      La simple prise de conscience du fait que « fumer, c’est mal » ne suffit pas à nous faire arrêter de fumer. Il faut infléchir les comportements. L’être humain n’est pas cablé pour suivre des conseils et encore moins des injonctions, mais pour suivre des exemples, atteindre des ambitions. Il ne change pas, il s’adapte à son environnement, il se « reprogramme » en fonction de ses influences sociales.
      Pour nous émanciper de nos dépendances matérielles, de nos addictions consuméristes, du fétichisme de la valeur et de la propriété privée, je mise sur la stimulation de cette part de « bon-sens » qu’on n’a pas su défendre dans le monde actuel et qui sommeille au fond de nous. Je cherche donc à faire réapparaitre la fonction sociale et sociétale des échanges économiques, qui pouvait prédominer avant que l’inversion capitaliste nous fasse plus voir qu’une fonction économique dans nos échanges sociaux.
      Et oui cela repasse à mes yeux par de nouvelles représentations morales. Pas pour culpabiliser les mauvais, mais pour redéfinir les normes comportementales socialement acceptables, viables, durables.
      Qui excluraient l’idée même de privilège de rente consubstantielle au capitalisme.

      Cette réhabilitation s’appelle à mes yeux RSE, responsabilité sociétale des entreprises, et si bcp voient là dedans juste un petit aménagement, un rafistolage trompeur, un vernis aménageur ou un saupoudrage compensatoire, pour ma part j’y vois la possibilité de tout remettre à l’endroit, en tous cas une opportunité précieuse d’amorcer ce mouvement de reconstruction dans le concret.
      Vouloir précipiter la destruction du capitalisme sans être dans la (re)construction, non pas de l’après, mais de ce que le capitalisme n’aurait jamais dû détruire, risque de mener à ce que décrit parfaitement Jappe (et que les US nous dessinent plus encore depuis hier) :

      Ensuite, parce que le capitalisme a eu assez de temps pour écraser les autres formes de vie sociale, de production et de reproduction qui auraient pu constituer un point de départ pour la construction d’une société post-capitaliste. Après sa fin, il ne reste qu’une terre brûlée où les survivants se disputent les débris de la « civilisation » capitaliste.

    • @petit_ecran_de_fumee
      Voici un lien qui peut répondre à certaines de tes questions, j’avais classé ce site dans mes favoris et je n’avais pas mis le doigt dessus depuis un moment.

      La loi du fric, c’est la seule que connaisse le capitalisme, tout le monde en conviendra. Mais comment les capitalistes font pour en gagner ? Comment fonctionne l’exploitation capitaliste ?
      Comme expliqué dans la notion salaire, les capitalistes n’achètent pas notre travail, mais notre force de travail : ils la louent, pour une durée déterminée. Durant cette période, on bosse pour le patron, les patrons, les actionnaires, voire l’entreprise collective, la coopérative, etc. Le capitalisme peut prendre un bon paquet de forme… Mais certaines choses ne changent pas : pour se reproduire, il doit extraire de la plus-value, et toujours plus, qui plus est… Mais c’est une autre histoire.
      Mais alors, la plus-value, c’est quoi ? Et surtout, qu’appelle ton extraire de la plus value ?
      Il s’agit de la part de la valeur crée par les prolos grâce à leur travail, qui ne leur revient pas en salaire, mais va au Capital.
      Prenons l’exemple de Dominique :
      Dominique travaille dans une usine. Avec ses camarades, ils produisent des montres de luxe.gaston-cadences
      Pour simplifier, on va considérer qu’il s’agit d’une usine a l’ancienne, c’est à dire dans laquelle le processus de production est effectué dans son ensemble. (C’est d’ailleurs souvent le cas dans l’industrie du luxe.)
      Le matin, lorsque Dominique se pointe au boulot, avec ses camarades ils ont devant eux un tas de matières, non encore transformés. Il y en a pour 1000 euros de ferraille et autres.
      Bim bam boum au bout du compte, a la fin de la journée de travail, ce tas de matières premières s’est transformés en 10 jolies pt’ites montres de luxes. Prêtes a briller de mille feux au poignets de tout ces types qui ont réussis leurs vies…
      Ces belles petites montres, le patron qu’on appellera Richard, va les vendre a un détaillant, pour 1100 euros pièces.
      Bref, pour 10 montres, Richard reçoit 11000 euros.
      Là dessus :
      1000 euros servent a payer les matières premières
      1500 euros serviront a payer les salaires des prolos,
      6000 euros serviront a rembourser la banque qui lui a prêté des thunes pour acheter des machines.
      Total : 7500 euros en tout. Il en reste 3500.
      Ils sont a partager entre Richard, et le proprio du terrain de l’usine ( a qui Richard paie un loyer). De quel droit ? Celui de la propriété privée, bein tient !
      Pourtant, ces 3500 euros, sont issus du travail des prolos, de Dominique et ses camarades : c’est eux qui l’ont produite, en transformant les matières premières en marchandises. Ils ont travaillé, mis en action les machines, etc. Mais au bout du compte, le fruit de leur travail est accaparé par Richard et le proprio du terrain : ceux ci ont extrait la plus value du travail des prolos.
      On dit alors que la partie du travail non payé qui donne la plus-value est du « surtravail », c’est à dire ce que le prolétaire fait en plus de ce qui permet de payer son salaire. C’est en ce sens que nous sommes exploités. D’ailleurs, le pourcentage de surtravail par rapport au travail total est appelé « taux d’exploitation »…
      Il y a deux différents types de plus-value : la plus-value absolue et la plus-value relative.

      http://www.tantquil.net/2011/12/19/quest-ce-que-cest-la-plus-value
      La page d’accueil de Tant qu’il y aura de l’argent ...


      http://www.tantquil.net
      ...y’en aura pas pour tout le monde.

    • Sur la question du travail, ce matin il y avait un témoignage radiophonique d’une politicienne restituant une discussion récente avec un jeune immigré irakien habitant la banlieu parisienne. Il lui racontait se sentir sans présent après que sa ville natale aie été détruite par la guerre, et particulièrement qu’il se sentait discriminé socialement (#mort_sociale ?) ne trouvant pas de travail dans son pays d’accueil.

      La politicienne termine la restitution de cette échange en disant : « et il m’a dit une chose qui m’a fait froid dans le dos, il m’a dit que #Daech recrute plus que les entreprises françaises ».

      Si la mort sociale existe vraiment, alors que penser de ce témoignage ?

      Et cette vidéo aussi est pas mal :)

      Jiddu Krishnamurti - Most people are occupied with jobs
      https://www.youtube.com/watch?v=4FHU_friuis

      Après je conseille vraiment que vous regardiez le film « Schooling the world » qu’on peut trouver sur le site de @filmsforaction (http://www.filmsforaction.org) : très éclairant (sur la question du travail justement). Le film contient les soutitres pour une dizaine de langues, dont le français et l’arabe...

    • De : Collectif Stop TAFTA - Non au Grand Marché Transatlantique <
      contact@collectifstoptafta.org>
      Date : 14 novembre 2016 à 12:56
      Objet : CETA/TAFTA : Plus que jamais, la mobilisation doit s’amplifier !

      Chèr⋅e⋅s ami⋅e⋅s,

      Le dimanche 30 octobre, au mépris des principes élémentaires de la
      démocratie, les dirigeants de l’UE et du Canada ont signé en catastrophe le
      CETA. Désormais la bataille se poursuit donc au Parlement européen.

      Pour les inciter à rejeter le CETA, interpellez les euro-députés français(..)

      Après avoir reporté une première fois le sommet UE - Canada, le Conseil et
      la Commission de l’UE ont redoublé de pressions et de manœuvres pour
      parvenir à une signature au plus vite. Ils ne s’attendaient pas à avoir une
      opposition si importante : les trois parlements belges qui ont bloqué le
      processus pendant quelques jours reprenaient pourtant à leur compte les
      inquiétudes exprimées par des centaines de milliers de citoyens qui avaient
      défilé contre le TAFTA et le CETA les semaines précédentes en Belgique, en
      Allemagne, en France, en Espagne, en Pologne, etc.

      En France, 45 rassemblements ou manifestations ont eu lieu le samedi
      15 octobre. À Paris, cette journée s’est close à 20 h à la suite d’une
      grande Assemblée citoyenne sur la place de la République où nous avons
      réaffirmé notre détermination à lutter contre ces accords de libre-échange
      destructeurs d’emplois
      , et nocifs pour l’agriculture, l’environnement, le
      climat, la démocratie et les services publics.

      La motivation première avancée de mobilisation contre ce traité est donc la sauvegarde de l’emploi... Surprenant !

      D’un autre côté c’est surprenant de voir que la réflexion sur le travail se partage sur les réseaux sociaux, comme cet autre discours par ex, tout aussi limpide et qui fait même le lien entre travail et démocratie :

      https://www.youtube.com/watch?v=7eVfDa02nSY

      #LBD #Le_Stagirite #Elephant_dans_le_salon

    • @phalene merci pour ton retour sur Schooling the world et la référence à Ivan Illich. Je crois que le terme anglais plus couramment utilisé pour dire déscolariser est « unschooling ».

      Ca m’intéresse de savoir ce que sous-tend ta remarque « Je pense d’ailleurs que la présence de Franck Lepage, soutien de Bernard Friot, n’est pas anodine », car je ne connais pas très bien le contexte.

      Stagirite c’est assez gentille ; c’était pour montrer le décalage étonnamment persistant entre d’une part les contre-discours au sujet de l’ emploi (boulots de merdes, ou boulots contraints) et d’autre part les appels récurrents à se mobiliser pour la sauvegarde de l’emploi, comme on peut lire dans l’appel à mobilisation contre le #CETA.

      Sinon la vidéo de Jiddu Krishnamurti - Most people are occupied with jobs est autrement plus radicale.

    • Si tu le dis @phalene c’est fort possible que ce fond d’image provient du film de Debord. Comme tu le sais palim-psao est plus proche des situs que de marx, en particulier Anselm Jappe. Je n’ai pas encore visionné la vidéo de F.Lepage (j’suis à la bourre) .
      un p’tit dialogue absurde et hilarant :
      – « j’ai voulu m’inscrire au chômage ! »
      – « Et alors ? »
      – « On m’a demandé quels diplômes j’avais ! »

    • Merci @phalene pour ton explication sur Friot et son aménagement du capitalisme, c’est super clair.

      On reste à faire x+n euros avec x euros mais avec une autre répartition. La survaleur va dans une caisse commune et les salaires sont répartis en proportion de la compétence de chacun (en définitive le diplôme), touché qu’il ait ou non travaillé et quelque soit la contribution de son secteur à la production de survaleur

      Sinon, je trouve que les « situs » ont vraiment toute leur place dans ce billet, merci de les avoir pointés. Ils ont tout à fait raison d’insister sur l’idée que le peuple assujéti aurait tout à gagner à comprendre le spectacle léthargique dans lequel il est plongé et qui entretient la séparation entre langage (ce qu’il permet d’exprimer et de penser) et réalité (le concrétisable ; ce que le langage permettrait d’atteindre).

      Cf. Critique de la séparation :

      http://www.ubu.com/film/debord_critique.html

  • Survivre (1970 – 1975) | #Science et #Société
    http://science-societe.fr/survivre

    Au sein du courant de critique des sciences du début des années 1970, la #revue Survivre, et le groupe du même nom, occupent une place singulière. Initiatrice de nombreux thèmes de l’#écologie militante en France, source d’inspiration pour des pionniers de l’écologie #politique comme Pierre Fournier (lui-même fondateur de La Gueule Ouverte), et ayant bénéficié d’une diffusion plus large que Labo Contestation ou Impascience, la revue est aussi remarquable par le cheminement qu’elle a suivi entre 1970 et 1975. Après des débuts marqués par une réflexion sur la responsabilité des savants face aux dangers de l’industrialisation et aux menaces militaires, le groupe évolue peu à peu et se radicalise, jusqu’à l’arrêt de la parution de la revue en 1975. Au cours de ces quelques années, Survivre formule une critique externe des sciences, moins tournée vers la vie de laboratoire (contrairement à Labo Contestation et Impascience) et plus attentive aux conséquences sociales de ces pratiques. Mais de toute évidence, Survivre n’a eu de cesse de remettre en question les fondements de la pratique scientifique, et d’essayer d’imaginer des alternatives au développement technoscientifique contemporain.

    #archives

  • Le #siège

    « On pensait que ça n’arriverait jamais à #Sarajevo. » La guerre les a surpris par une journée ensoleillée et ne leur a laissé aucun répit pendant quatre années : d’avril 1992 à février 1996, la capitale de la Bosnie-Herzégovine, carrefour entre l’Orient et l’Occident, a connu le plus long siège de l’histoire moderne. Encerclés par les troupes serbes du général Mladic, postées sur les hauteurs de la ville, 350 000 Sarajéviens ont vécu sous le feu quotidien des bombes et des tirs de snipers. Pourtant, contre toute attente, la ville a résisté et survécu, défendant corps et âme une idée du vivre ensemble.

    Le siège de l’intérieur

    Aux images de corps déchiquetés, de blessés rampant dans les rues, de larmes, de sang et d’immeubles éventrés et encore fumants répondent celles des gestes quotidiens et celles, plus émouvantes encore, d’une vie placée sous le signe de l’urgence de s’aimer et de créer - des soirées enfiévrées de la jeunesse aux mariages à la bougie en passant par les concerts surgis des champs de ruines... Bâti uniquement sur des archives de l’intérieur de la ville, ce documentaire à huis clos, coréalisé par les reporters de guerre Patrick Chauvel et Rémy Ourdan (dont on entend résonner la voix de jeune chroniqueur radio d’alors) donne la parole à de nombreux Sarajéviens, combattants, artistes ou simples citoyens, pour retracer l’aventure humaine du siège. À travers cette mosaïque de visages et de souvenirs se dessine le portrait d’une ville dressée contre la #barbarie. Une ode terrible et magnifique à la #résistance militaire, intellectuelle et artistique de ses habitants.

    http://www.arte.tv/guide/fr/049447-000-A/le-siege
    #guerre #conflit #vivre #survivre #fête #musique #art

    • Sarajevo : « Le siège » vécu de l’intérieur"

      Que reste-t-il de Sarajevo ? Le souvenir d’un siège, d’une ville en proie aux flammes et aux bombardements, trois cent cinquante mille habitants pris au piège quatre années durant. Avec la volonté de détruire une communauté pluriethnique et multiculturelle. Onze mille personnes y ont trouvé la mort, le vivre-ensemble a survécu. Le froid, la faim, la peur devait pourtant inoculer le poison de la haine à tout un chacun. Mais qui sont les Sarajeviens ?

      http://www.franceinter.fr/emission-l-instant-m-sarajevo-le-siege-vecu-de-linterieur
      signalé par @ville_en

  • Vers un bouleversement de notre modèle alimentaire, par Claude Aubert (Le Monde diplomatique, 2007... mais toujours d’actulité)
    http://www.monde-diplomatique.fr/atlas/environnement/a53636

    Quel doit donc être le modèle alimentaire de demain ? On peut appliquer à sa recherche trois critères principaux : écologique, en tenant compte des problèmes de pollution et de la limitation des ressources ; sanitaire, en essayant de définir le modèle le plus apte à nous maintenir en bonne santé ; historique et ethnologique, en regardant l’impact du mode d’alimentation d’un certain nombre de peuples sur leur état de santé. Quel que soit le critère choisi, les modes d’alimentation qui s’imposent sont sensiblement les mêmes, et à l’exact opposé de ceux qui se sont généralisés dans les pays riches.

    #alimentation #survivre_ensemble

  • Un nouveau témoignage sur Grothendieck par Thierry Sallantin qui lui aussi l’a connu à Survivre et Vivre. Bon c’était il y a un mois, je l’avais raté mais je le découvre en cherchant les dernières traces de Sallantin.

    Alexandre Grothendieck, mort d’un de nos pères
    http://fabrice-nicolino.com/index.php/?p=1828

    J’ai été un des derniers à être reçu de façon amicale par lui, dans sa cachette à Lasserre, car il m’a de suite reconnu, (je militais à “Survire et Vivre” en 1972-1975) et nous avions comme ami commun Robert Jaulin. L’été 1974, avec le sociologue Serge Moscovici et le documentariste Yves Billon, Grothendieck et Jaulin feront un tour militant avec une exposition de photos dans plein de villages du sud de la France sur le thème : “Occitanie, Amazonie, même combat” = pour dénoncer l’ethnocide et l’écocide ici et là-bas : la destruction des communautés paysannes traditionnelles au nom de “progrès”, pour les mêmes raisons qui poussent à la destruction des peuples amérindiens en Amazonie. On réécoutera à ce sujet l’émission de France-Culture de (?) 1974 = débat entre Robert Jaulin et Pierre Samuel = “Ethnocide et écocide” émission “Les Mardis de France-Culture”…

    C’est lui qui avait lancé en France la subversion écologique, donc l’écologie au sens révolutionnaire du terme, dans la suite logique des remises en causes profondes de la société industrielle provoquées par “Mai 68″. Aux Etats-Unis où Alexandre Grothendieck avait été invité suite à son prix international : la Médaille Fields en 1966, il découvrira le mouvement écolo, bien connu depuis l’article fondateur du biologiste Paul Sears : Ecology, a Subversive Subject (revue BioSciences, 1965), et c’est alors qu’il ramènera cette subversion en France, en créant avec deux autres mathématiciens : Pierre Samuel (futur cofondateur de la branche française des Amis de la Terre) et Claude Chevalley (qui fut à Bordeaux proche d’Ellul et Charbonneau) la revue et le mouvement “Survivre et Vivre”.

    #Thierry_Sallantin #Grothendieck #Survivre_et_vivre #écologie #témoignage

    cc @intempestive, si t’arrives à retrouver l’émission dont il parle… :D

  • Rwanda, la vie après - Paroles de mères on Vimeo, des témoignages forts et dignes qui nous laissent sans voix.

    http://vimeo.com/98410642

    J’ai été violée par plus de trois hommes, de ce viol est né une fille... Elle est grande maintenant, c’est une adolescente, elle a 18 ans. je n’ai jamais rejeté ma fille. Je l’ai aimée dès le début, même quand elle était bébé.

    Car si je l’avais détestée, j’aurai alors donné raison à ceux qui m’ont violée.

    Bien sur je ne l’ai pas conçue comme je l’aurai souhaité, mais j’ai survécu à cette grossesse pour aimer l’enfant qui en est venu.

    Un film de Benoit Dervaux et André Versaille

    Ce film est constitué des témoignages de six femmes tutsies provenant du Rwanda profond. Elles racontent leur parcours, de la fin du génocide à aujourd’hui : les viols multiples ; le sida ; l’accouchement d’un enfant de génocidaire ; le rejet par ce qui leur restait de famille pour qui il était inconcevable d’accueillir le fils ou la fille d’un tueur ; leur solitude ; la difficulté pendant des années d’assumer cet « enfant de la haine », avant d’apprendre à l’aimer…
    En contrepoint, une fille et un garçon issus des viols de ces femmes, racontent à leur tour ce que fut leur enfance.

    Coproduction Dérives – Carpe Diem Icare

    #rwanda

  • CIP-IDF > Strass, Paillettes et #Précarité - A l’occasion de récentes déclarations de la ministre de la culture et du lancement du festival de Cannes
    http://www.cip-idf.org/article.php3?id_article=6971

    Certains sont sous les feux des projecteurs, pendant que d’autres ont le feu au cul.

    Le franc-parler de la rue, au cinéma, ça vous fait rire, mais dans la vie ?

    Perdre son emploi et #lutter pour #survivre, au cinéma, ça vous fait pleurer, mais dans la vie ?

    Se révolter contre l’injuste, au cinéma, ça vous donne le frisson, mais dans la vie ?

    Dénoncer le cynisme des personnes qui gouvernent nos pays, au cinéma, vous applaudissez, mais dans la vie ?

    La violence de l’intolérance, au cinéma, ça vous révolte, mais dans la vie ?

    La force d’un #mouvement #solidaire, au cinéma, ça vous bouleverse, mais dans la vie ?

  • #Docu-BD 450 #Afghans / 11 Rue de La Poste

    Anaële (textes) & Delphine (dessins) Hermans sont allées à la rencontre des Afghans, dans leur refuge rue de la #Poste à #Bruxelles. Dans cette #BD, elles y décrivent les conditions bouleversantes dans lesquelles ceux-ci sont contraints de #survivre, mais aussi leurs rencontres avec des personnes, leurs échanges d’idées et d’émotions et toutes ces choses dont les #médias ne font pas forcément étalage…

    http://www.quinoa.be/docubd-450-afghans-11-rue-de-la-poste

    #bande_dessinée #réfugiés #asile #migration #Belgique #témoignages

    La BD peut être téléchargée ici :
    http://www.quinoa.be/wp-content/uploads/2013/11/BD%20AFGHANS.pdf

  • #Allemagne : papi et mamie bossent dur
    http://fr.myeurop.info/2013/06/11/allemagne-papi-et-mamie-bossent-dur-9958

    Quentin Bisson

    Chiffre du jour : 36,4% c’est le pourcentage de l’augmentation des seniors allemands exerçant un #mini-job entre 2003 et 2012, selon l’agence fédérale du travail. Un moyen de faire face à la précarité.

    Selon l’étude datant d’octobre dernier, le nombre de seniors de plus de 65 ans (...)

    #Société #Social #précarité #Réforme_des_retraites #retraites

  • Une description de l’état désastreux de la prison des Baumettes par le contrôleur général

    Il est très utile, de temps à autre, de lire le journal officiel...

    Recommandations du Contrôleur général des lieux de privation de liberté du 12 novembre 2012 prises en application de la procédure d’urgence et relatives au centre pénitentiaire des Baumettes, à Marseille, et réponse de la garde des sceaux, ministre de la justice, du 4 décembre 2012

    Journal officiel (JORF) n°0284 du 6 décembre 2012
    texte n° 123

    http://www.legifrance.gouv.fr/affichTexte.do;jsessionid=?cidTexte=JORFTEXT000026729330&dateTexte=&

    Le constat dressé par la vingtaine de contrôleurs qui ont visité, du 8 au 19 octobre, le centre pénitentiaire des Baumettes, à Marseille, fait apparaître, sans aucun doute, une violation grave des droits fondamentaux, notamment au regard de l’obligation, incombant aux autorités publiques, de préserver les personnes détenues, en application des règles de droit applicables, de tout traitement inhumain et dégradant.

    • On en parlait ce matin sur France info

      Pas de lumière, pas de chasse d’eau, pas de cloison d’intimité, réfrigérateur infesté de cafards, des cloportes, pas d’eau chaude, pas de placard, pas de quoi s’asseoir, pas de table... C’est ainsi que deux détenus décrivent leur cellule dans ce rapport, une description « dont la véracité a été vérifiée par le contrôle général. »

      Au total, sur 98 cellules visitées, seules neuf n’ont pas fait l’objet d’observation. Ajoutons pour complèter ce tableau que 3 à 5 douches seulement sur 10 fonctionnent.

      Mais cette dénonciation de l’insalubrité et de la vétusté n’est qu’une partie de ce rapport qui critique également la surpopulation - pour 1190 places, 1769 personnes présentes au 1er ctobre 2012 soit un taux d’occupation de 145% - et la violence, « reflet de la vie marseillaise et de ses quartiers nord. »

      http://www.franceinfo.fr/justice/rapport-sur-la-prison-des-baumettes-infection-de-cafards-surpopulation-et

    • @klaus, voila, les vendeurs de meubles sont en toile de fond, et le sujet des conditions de vie en prison est là.
      J’étais naïvement persuadée que cette problématique était partagée par tout être digne d’humanité, qu’il soit de droite ou de gauche, cela dépassait forcément ces clivages. Les conditions de vie et de privations en prison, n’est-ce pas très révélateur de la société que nous crééons ? N’est-ce pas justement là le noyau sur lequel il faudrait repenser notre vivre ensemble ? Mais non, lorsque j’aborde le sujet on me rétorque souvent que je n’ai pas à me préoccuper du confort de ceux qui sont punis. On en revient donc toujours à cela, le surveiller et punir. Pourtant imposer la souffrance à un autre être humain sans s’y opposer fait de nous des monstres. Dans ce cas, la barbarie du reste de la société est évidente et coule de cette source du non-dit.

      Alors ce n’est pas possible de considérer que nous vivons dans une société évoluée dont nous voudrions faire perdurer le modèle.

      #prison #baumettes #survivre