• Centri migranti Albania, sindacati della penitenziaria contro il governo : in Italia caos carceri ma si inviano agenti nei “campi di prigionia”

    I centri italiani per migranti costruiti in Albania e voluti dal governo di Giorgia Meloni continuano a far discutere. Nelle ultime ore, in particolare, a causa dell’uso di agenti italiani della penitenziaria pronti a essere dispiegati a vario titolo nelle strutture di Shengjin e Gjader. Alcuni sindacati hanno infatti protestato contro le scelte dell’esecutivo con un comunicato ufficiale, sottolineando come al momento, visto il caos totale all’interno delle carceri italiane, dovrebbe essere altre le priorità in merito all’utilizzo di risorse.
    Centri migranti Albania, sindacati della penitenziaria contro il governo

    A diffondere un comunicato sono stati la Federazione sindacale del Coordinamento sindacale penitenziario insieme alla Confederazione autonoma italiana polizia penitenziaria. Due sindacati che si dicono basiti “dalla notizia del provvedimento con cui l’Esecutivo avrebbe deciso l’invio in Albania, per un accordo internazionale tra i leader dei due Paesi di circa cinquanta unità del Corpo della polizia penitenziaria dei diversi ruoli e qualifiche con trattamento di missione Internazionale e con regole di ingaggio del tutto discutibili e non condivise con le organizzazioni sindacali”. Cinquanta agenti che quindi andranno a lavorare sull’altra sponda dell’Adriatico.

    Il problema, però, è che mentre il governo continua a porre attenzione e risorse sul piano Albania, la situazione nelle carceri italiane è sempre più emergenziale. Un aspetto rimarcato dai sindacati che criticano la missione “quando in Italia si registra una popolazione detenuta di oltre 62mila persone ristrette contro una capienza di 44mila posti letto e un organico di polizia al di sotto di 20mila unità, con 10.700 agenti feriti e diverse rivolte, tentativi di sommosse, autolesionismi a centinaia, suicidi 67 detenuti e 7 poliziotti“. La priorità per le organizzazioni di penitenziaria dovrebbe essere il quadro interno, non i centri in Albania in una “struttura che ricorda inquietantemente un campo di prigionia. E ora si parla addirittura di inviare i baschi verdi a presidiare questo complesso”.

    L’accordo Italia Albania sui centri per migranti

    I due centri sono stati previsti e costruiti dopo l’accordo tra il governo italiano di Meloni e quello albanese di Edi Rama firmato il 6 novembre del 2023. Le strutture sono gestite e controllate dall’Italia nel territorio albanese e serviranno – almeno sulla carta – per l’esame delle domande di asilo dei richiedenti asilo. I migranti che vi saranno trasferiti saranno quelli salvati in mare da navi miliari italiane. I due centri, quello nel porto di Shengjin e quello di Gjader, avranno in teoria due ruoli diversi: il primo dedicato alle procedure di sbarco e identificazione, mentre il secondo al trattamento delle domande e alla contemporanea accoglienza. Secondo quanto stabilito da Roma e Tirana, i migranti trasferiti in Albania potranno essere al massimo 3000 al mese, per un totale di 36mila all’anno. Il tutto per un costo enorme, potenzialmente pari a 635 milioni in cinque anni. Ad aggiungersi alla bilancia dei costi rispetto ai vantaggi, c’è anche il fatto che della cifra totale, come si vede in un rapporto di Openpolis, più di un terzo – cioè quasi 252 milioni – è prevista per le trasferte dei funzionari italiani. Una voce di spesa che sarebbe stata ben diversa in caso di costruzione dei centri in Italia.
    Molteni: protocollo con Albania utile e moderno, un modello per la gestione dei flussi

    Chi continua a lodare il piano Albania è Nicola Molteni. In un’intervista a La Stampa, il sottosegretario all’Interno della Lega ha parlato di quanto sia importante l’accordo con Tirana per Roma: “Credo che il protocollo con l’Albania sia utile, necessario e moderno. Un’iniziativa che sui territori extra Ue sarà il futuro. È un accordo di deterrenza per le partenze e di alleggerimento delle nostre strutture approvato da 15 Paesi europei. La struttura in Albania sarà il modello per la gestione dei flussi migratori”.

    https://www.ilriformista.it/centri-migranti-albania-sindacati-penitenziaria-contro-governo-italia-c
    #Albanie #Italie #externalisation #syndicats #migrations #réfugiés #asile #polizia_penitenziaria

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    ajouté à la métaliste sur l’#accord entre #Italie et #Albanie pour la construction de #centres d’accueil (sic) et identification des migrants/#réfugiés sur le territoire albanais...

    https://seenthis.net/messages/1043873

    • ’Migrant centers in Albania like prison camps’ say Italian unions

      Italian prison officers’ unions have protested the deployment of 50 correctional officers to Albania to guard new migrant holding facilities, stating that they are being “sent on a mission with rules that were not shared.”

      On August 31, two organizations representing Italy’s penitentiary police — the Italian Autonomous Confederation of Penitentiary Police and the Officers’ Union Coordination — released a statement expressing that their members were “stunned by the report of a measure” in which the government decided to send around 50 penitentiary police units of various roles and qualifications to Albania. This deployment is part of an international mission under an agreement between the leaders of Italy and Albania, involving controversial rules of engagement that have not been discussed with the unions.

      Italian Prime Minister Giorgia Meloni and her Albanian counterpart Edi Rama have signed an agreement to build two migrant hosting facilities in Albania for the detention of migrants who attempt to reach Italy by sea while their asylum claims are examined.

      The centers, which are slated to open this month, are to be paid for by the Italian cabinet.

      Difficulties experienced by penitentiary police in Italy

      The mission occurs “when Italy is registering a population of over 62,000 detainees against a capacity of 44,000 beds and a police corps lacking 20,000 officers, with 10,700 wounded officers and many riots, protest attempts, hundreds of episodes of self-harm and the suicides of 67 detainees and seven police officers,” the statement said.

      The two unions added that “what appears to be taking shape in Albania is a facility that disturbingly reminds us of prison camps.”

      “And now there is talk of sending the green berets”, members of an anti-terror finance police unit, “to patrol this complex,” they noted.

      The agreement between Italy and Albania

      The agreement between Rome and Tirana, signed on November 6 last year, is based on an old cooperation treaty between the two countries and provides for the construction of two repatriation centers for migrants — managed and controlled by Italy on Albanian territory — for the speedy process of asylum requests.

      Part of the migrants rescued at sea by Italian Navy vessels will be transferred to Albania, a non-EU country considered as safe by Italy.

      https://www.infomigrants.net/en/post/59571/migrant-centers-in-albania-like-prison-camps-say-italian-unions

  • Élections piétinées : que faire contre le cordon bourgeois ?
    https://www.frustrationmagazine.fr/cordon-bourgeois-elections

    En juin dernier, les Belges ont élu leurs députés. Dans un pays divisé entre flamands et wallons, une diversité de partis représentants à la fois des intérêts régionaux et des idéaux politiques sont présents au Parlement, de telle sorte que la composition d’une coalition gouvernementale peut prendre du temps. C’est pourquoi le roi désigne un formateur de gouvernement, généralement le leader du parti arrivé en tête (qui n’est jamais majoritaire vu le mode de scrutin proportionnel). Celui-ci doit tenter de former une coalition qui tienne la route et, s’il n’y parvient pas, il passe la main au suivant, le plus souvent la seconde force politique représentée, jusqu’à ce qu’un gouvernement soit formé.

    En Belgique comme partout en Europe, on désigne un formateur de gouvernement, généralement le leader du parti arrivé en tête (qui n’est jamais majoritaire vu le mode de scrutin proportionnel). Celui-ci doit tenter de former une coalition qui tienne la route et, s’il n’y parvient pas, il passe la main au suivant

    C’est ainsi que les choses se passent dans la plupart des pays d’Europe (Grèce, Allemagne, Espagne…). La vie politique belge a toutefois une originalité : un système de cordon sanitaire engage les partis à ne jamais composer de gouvernement avec l’extrême-droite. Montée au début des années 90, cette pratique repose sur un constat simple : les partis d’extrême-droite ont des idées communes avec l’envahisseur nazi, ce qui justifie leur mise au ban. Cette mise au ban se fait aussi sur le plan médiatique : on invite pas ou peu les politiciens d’extrême-droite et on les traite différemment. Par conséquent, l’extrême-droite progresse en Belgique mais plus lentement, en particulier en Wallonie, que dans le reste de l’Europe.

    3 arguments erronés pour justifier la mise à l’écart de Lucie Castets

    Revenons en France : le cordon sanitaire à l’extrême-droite n’existe pas, bien au contraire. Le président de la République a décidé la tenue d’élections législatives au moment où l’extrême-droite était au plus haut. La plupart des médias ont aussitôt décrit sa victoire comme inéluctable, à grand renfort de sondages qui se sont tous avérés complètement mensongers. Au terme d’une campagne électorale où a eu lieu une alliance inédite de la gauche d’une part et une mobilisation citoyenne d’une grande ampleur d’autre part, les élections ont placé l’Assemblée nationale dans une situation comparable à la plupart des parlements d’Europe : aucun groupe ou alliance n’a de majorité absolue mais un groupe est bel et bien en tête, le Nouveau Front Populaire donc. Tout le monde s’était trompé, à commencer par le Président qui voulait le RN au pouvoir mais également tous les instituts de sondages et tous les éditorialistes.

    La Constitution ne précise pas que le Président doit nommer un premier ministre issu du groupe arrivé en tête, il fait ce qu’il veut ”. Oui mais jusqu’à présent, c’est toujours ce qu’il s’est passé, c’est ce qu’il se passe dans tous les régimes dits démocratiques ailleurs dans le monde, et c’est la chose la plus légitime à faire d’un point de vue démocratique...

    #CordonBourgeois

    • “Pour Emmanuel Macron et les siens, il est simplement inenvisageable de nommer un gouvernement qui remettrait en cause la « mère des réformes », celle des retraites” nous dit Le Monde. Le vrai barrage est là :

      2/La situation est la suivante : le Président ne respecte pas les élections qu’il a lui-même déclenchées, car il espérait un résultat différent. La majeure partie des forces politiques et tous les grands médias couvrent cette manœuvre digne de Vladimir Poutine.

      3/Les choses sont désormais très claires : le système politique français et sa classe dominante ont conçu un système démocratique d’apparence où il est uniquement possible de choisir entre les options qui ont sa préférence.

      4/Actuellement : la droite antisociale et colonialiste ou bien l’extrême-droite antisociale et raciste. Toute autre option qui remettrait en cause les conditions de la prospérité des possédants – régime fiscal préférentiel et détournement d’argent public – doit être rayée du menu.

      5/C’est le #cordon-bourgeois : un système politique et médiatique tacite, instinctivement partagé par les membres et sous-membres de la classe dominante, qui vise à empêcher l’accession au pouvoir de toute option contraire à leurs intérêts, même lorsque cette option est modérée.

      6/Face au cordon bourgeois, pas de victoire électorale possible. Le cordon bourgeois – qui est également construit au niveau des institutions européennes – a déjà agi contre nos votes en 2005 en contournant le "Non" français, hollandais et irlandais au TCE.

      7/Face au cordon bourgeois, il ne sert à rien d’être “crédible”, poli, lisse : Lucie Castets l’était et cela n’a tout de même pas fonctionné.
      Face au cordon bourgeois, il faut cesser d’être naïf et de croire qu’on vit dans un système démocratique.

      8/Le cordon bourgeois ne craint que la force qu’on lui opposera. Et, hélas, gagner une élection ne donne pas suffisamment de force, surtout quand celui qui est le “garant des institutions” est Macron et ceux qui commentent le jeu sont nos grands médias de milliardaires

      9/Où trouver la force à opposer au cordon bourgeois ? En consacrant toute leur énergie aux échéances électorales plutôt qu’à l’organisation concrète de la société (par des réseaux d’entraide, des loisirs, des mécanismes qui donnent de la force aux classes dominées).

      10/les partis de gauche sont dans l’impossibilité de lancement un mouvement social capable d’agir sur d’autres leviers – la production économique, les réseaux de transport etc. Dans le partage des tâches entre syndicats et partis de gauche, c’est aux premiers de faire ce travail.

      11/Malheureusement, le cordon bourgeois, en France, a aussi durablement neutralisé la puissance des syndicats. En amont, en criminalisant l’action syndicale et en rendant le syndicalisme épuisant et inoffensif dans les entreprises.

      12/En aval, en intégrant une partie des leaders syndicaux dans son univers (les dirigeants de la CFDT sont ainsi systématiquement récompensés par des postes dans la bonne société une fois leur mandat terminé tandis que Bernard Thibaut, ex-CGT, est venu blanchir les JO).

      13/Mieux vaut tard que jamais, Sophie Binet (CGT) a annoncé une mobilisation nationale pour septembre-octobre. C’est un début, des dates dans nos agendas, mais on sait que ça ne suffira pas.

      14/Alors que faire ? Pour exercer de la force, il faut, nous l’avons dit ici à de nombreuses reprises, constituer des structures qui peuvent, localement et nationalement, organiser la population pour arracher des victoires.

      15/Nous avons déjà évoqué des réseaux locaux de résistance à l’extrême-droite, très ouverts, très accessibles, très souples dans leur fonctionnement et qui ne s’interdisent aucun mode d’action (entraide, actions directes, discussions et actions sur le lieu de travail etc.).

      16/Si on ne peut plus compter sur les élections pour obtenir du changement, alors il va falloir changer de tactique si nous voulons un jour obtenir autre chose que du mépris, de la déception et de la violence sociale.

      https://threadreaderapp.com/thread/1828037858457772430.html

    • « Nous ne faisons pas de politique. » J’ai vraiment beaucoup de mal avec cette posture des syndicats en France dans la mesure où ils en font (s’occupent des questions sociales). Ils ne présentent juste pas de candidats aux élections non syndicales.


      #manifDu07/09 #PasDePolitique #syndicats #coupDeForce
      #FinDeLaDémocratie #Dictature #ExtrêmeDroite #BandeDeRigolos

    • « On ne comprend pas : l’abrogation de Parcoursup, mesure éducative phare du NFP, a été plébiscitée dans les urnes.

      Il ne faut pas demander son abrogation puisque les gens ont voté pour.

      Il faut réclamer Lucie Castets à Matignon pour appliquer la suppression de Parcoursup.

      Point ! »

      « Nous demandons l’abrogation de Parcoursup » Gwenaël Le Paih du Snes-Fsu Rennes #rentreescolaire

      Les électeurs de Gauche ne peuvent pas continuer à revendiquer ce qu’ils ont obtenu le 7 juillet par les urnes.
      Macron doit nommer Lucie Castets.
      Il n’y a pas d’alternative à la démocratie et l’expression du suffrage universel.
      Non au suffrage censitaire des macronistes.

      https://x.com/JFaerber/status/1829123760919650696

    • Y a quand même un truc qu’il ne faudrait pas oublier, c’est que le fascisme n’a jamais pris le pouvoir par effraction. Il a juste attendu que le concierge lui remette « gentiment » les clés.

      Revenons en France : le cordon sanitaire à l’extrême-droite n’existe pas, bien au contraire. Le président de la République a décidé la tenue d’élections législatives au moment où l’extrême-droite était au plus haut. La plupart des médias ont aussitôt décrit sa victoire comme inéluctable, à grand renfort de sondages qui se sont tous révélés complètement mensongers.

  • En #Finlande, un détricotage systématique des #droits_sociaux

    Facilitation des #licenciements, possibilité de faire grève restreinte, assurance #chômage moins accessible… La coalition en place, du centre à l’extrême droite, sape les droits des travailleurs.

    L’#extrême_droite s’est glissée au pouvoir en Finlande il y a un peu plus d’un an, et depuis, au sein de la coalition gouvernementale, elle grignote à marche forcée les #acquis_sociaux. Le 2 avril 2023, le Parti des Finlandais (extrême droite) gagne sept nouveaux sièges au Parlement et devient la deuxième force politique dans le pays. Il aura fallu deux mois d’âpres négociations pour que se forme une coalition des quatre partis, à savoir le Parti de la coalition nationale (conservateur, 20,8 %) du Premier ministre, le Parti des Finlandais (20 %), le Parti populaire suédois de Finlande (centre droit, 4,3 %) et les Chrétiens-démocrates (4,2 %).

    L’objectif du nouveau Premier ministre conservateur, Petteri Orpo, est de créer 100 000 emplois, de réduire la dette du pays et durcir la politique migratoire. Pour y parvenir, il prévoit de lourdes #réformes_sociales pour marquer un tournant de la rigueur dans ce pays de plus de 5,5 millions d’habitants.

    « On ferme les yeux sur le racisme, l’homophobie… »

    Pour donner le ton, la vice-Première ministre d’extrême droite et ministre des Finances, Riikka Purra, pose fièrement avec des ciseaux pour illustrer les mesures d’austérité du gouvernement. « Quand je vois cette image, cela me fait penser à une provocation à la façon de Javier Milei [le président argentin, ndlr] et sa tronçonneuse », s’agace Teivo Teivainen, professeur à l’université d’Helsinki. Restriction du #droit_de_grève, changement du système des accords collectifs, indemnité chômage, arrêt maladie, aide au logement… Le rouleau compresseur est lancé à toute vitesse. A tel point qu’en une année, la Confédération syndicale internationale a déclassé d’un rang la Finlande du peloton de tête des nations les plus respectueuses des #droits_des_travailleurs.

    Un an après les élections, il ne reste plus rien du discours social des « Vrais Finlandais » (ancien nom du parti) dont les revendications lors des campagnes législatives prônaient la protection des Finlandais de la classe moyenne et des travailleurs pauvres. « Le Parti des Finlandais a cette étiquette non officielle de parti des travailleurs non socialiste. Ils se sont très vite rangés derrière le programme économique de la droite des affaires », détaille Teivo Teivainen. Pour le spécialiste de la politique du pays, c’est un élément clé de l’acceptation du Parti des Finlandais comme un partenaire de coalition : « L’adoption d’une #politique_économique libérale leur a permis d’être acceptés parmi les partis de la droite traditionnelle. On ferme les yeux sur le #racisme, l’#homophobie… Au moins, ce sont des néolibéraux », résume-t-il.

    La liste des lois et réformes prévues est longue : introduction d’une journée de #carence pour les #arrêts_maladie, possibilité de #licenciement pour des « motifs pertinents », doublement de la durée d’emploi pour bénéficier de l’assurance chômage, changement des modalités des accords collectifs en entreprise. Elin Blomqvist-Valtonen, porte-parole du syndicat PAM, qui représente les employés de l’industrie du service, tire la sonnette d’alarme : « Les salariés que nous représentons sont particulièrement sensibles à ces réformes. Nos membres ne sont pas précaires par choix, mais parce qu’ils n’ont pas la possibilité de trouver un emploi stable. En réduisant leurs protections sociales, nous ne faisons que les mettre plus en danger. »

    Mobilisation sociale historique

    Pour s’y opposer, les organisations syndicales ont entrepris une #mobilisation_sociale historique à travers le pays. Le 1er février, au moins 300 000 salariés se sont mis en grève, soit un actif sur dix. Quatre mois plus tard, les députés du parlement finlandais ont voté un texte restreignant la durée du droit de grève politique à vingt-quatre heures. Celles initiées dans le cadre des négociations des accords collectifs sont passées à deux semaines. « Les grèves sont rares et ne sont utilisées qu’en dernier recours en Finlande. En limitant la durée des grèves politiques, le gouvernement vient confirmer une nouvelle fois son refus de dialoguer avec les #syndicats », déplore Pekka Ristelä, porte-parole de la centrale syndicale SAK.

    Le train de #réformes semble pourtant mal passer auprès des électeurs du parti d’extrême droite, qui a divisé par deux son score lors des dernières élections européennes par rapport à celles de 2019. Alors que l’alliance de gauche, qui était arrivée sixième en 2019, s’est hissée contre toute attente à la deuxième position lors du scrutin européen.

    https://www.liberation.fr/international/europe/en-finlande-un-detricotage-systematique-des-droits-sociaux-20240621_EH7Z7
    #travail #néolibéralisme

  • World of Warcraft developers form Blizzard’s largest and most inclusive union - The Verge
    https://www.theverge.com/2024/7/24/24205366/world-of-warcraft-developers-form-union-blizzard-entertainment

    More than 500 developers at Blizzard Entertainment who work on World of Warcraft have voted to form a union. The World of Warcraft GameMakers Guild, formed with the assistance of the Communication Workers of America (CWA), is composed of employees across every department, including designers, engineers, artists, producers, and more. Together, they have formed the largest wall-to-wall union — or a union inclusive of multiple departments and disciplines — at Microsoft.

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #activision_blizzard #microsoft #syndicalisme #syndicat #cwa

  • « En se présentant comme le parti de ceux qui travaillent dur, le RN récupère ce vote de ressentiment »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/06/21/en-se-presentant-comme-le-parti-de-ceux-qui-travaillent-dur-le-rn-recupere-c
    par Bruno Palier

    L

    e politiste Bruno Palier souligne, dans une tribune au « Monde », le lien existant, partout en Europe, entre dégradation des conditions de travail et vote pour l’extrême droite.

    Les résultats obtenus lors des élections européennes par le Rassemblement national (RN) doivent en grande partie se comprendre comme une revanche contre la réforme des retraites et plus largement comme une demande de reconnaissance et d’amélioration des difficultés rencontrées au travail. Dans notre ouvrage collectif Que sait-on du travail ? (Presses de Sciences Po, 2023), nous avons pu documenter combien, pour une grande majorité de Français, les conditions de travail sont mauvaises, le travail s’est intensifié, les accidents de travail sont plus nombreux et les risques psychosociaux sont plus élevés qu’ailleurs. Ces difficultés ont été niées par le gouvernement lors de la réforme des retraites de 2023, mais aussi par les principaux représentants des employeurs lors des négociations qui ont échoué, début janvier, sur le pacte traitant de la qualité de vie au travail.

    Lire aussi | En direct, législatives 2024 : pour Sandrine Rousseau, il n’y a pas d’« antisémitisme idéologique » au sein du Nouveau Front populaire

    Dans une tribune publiée dans Le Monde en janvier 2023, nous annoncions que la réforme des retraites allait alimenter le vote RN. Plus généralement, c’est un vote d’opposition à ceux qui sont restés sourds aux problèmes économiques et sociaux manifestés par les Français. Un vote sanction des politiques aveugles aux réalités sociales, telles que la dépendance aux voitures et les budgets contraints des « gilets jaunes » analysés par Pierre Blavier dans son livre Gilets jaunes. La révolte des budgets contraints (PUF, 2021). C’est aussi une réaction à l’absence de revalorisation des professions « essentielles » après le Covid-19, professions pourtant mal loties, comme l’ont montré les travaux de la chercheuse Christine Erhel, une revanche contre l’imposition de la réforme des retraites bien que les Français s’y soient opposés faute de pouvoir tenir au travail plus longtemps.

    En se présentant comme le parti de ceux qui travaillent dur, en les opposant aux élites qui les négligent et les méprisent, le RN récupère ce vote de ressentiment. De plus en plus de travaux de sciences politiques soulignent le lien entre insatisfaction au travail, dégradation des conditions de travail, management vertical, perte de sens et vote pour les droites radicales extrêmes en Europe.

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    Faible capacité d’expression
    Ainsi, Luc Rouban, dans son ouvrage La Vraie Victoire du RN (Presses de Sciences Po, 2022), souligne le lien entre l’absence de reconnaissance professionnelle et le vote RN. Thomas Coutrot a récemment montré dans une étude (« le bras long du travail ») que les variables professionnelles les plus saillantes en lien avec le vote RN sont le statut d’ouvrier, la pénibilité physique et le fait de travailler habituellement de nuit ou tôt le matin.

    Le vote d’extrême droite est aussi associé à une faible capacité d’expression dans le travail. Des études internationales confirment ces liens. Ainsi, Lorenza Antonucci et ses collègues montrent que les difficultés au travail (précarité des contrats, manque d’autonomie dans les décisions professionnelles, absence de perspective d’avancement, équilibre entre vie professionnelle et vie privée insatisfaisant, salaire inadapté aux responsabilités) expliquent le vote pour les partis radicaux, en France comme aux Pays-Bas.

    Johannes Kiess et ses collègues montrent, quant à eux, avec des données d’Allemagne de l’Est, que l’absence de « pouvoir d’agir » au travail conduit à soutenir l’autoritarisme et la xénophobie, tandis que l’expérience de la participation aux décisions a l’effet inverse. Dans sa thèse, le docteur en sciences politiques Paulus Wagner expose les modèles d’organisation du travail en Allemagne et en Autriche. Les travailleurs au bas de la hiérarchie se sentent « traités comme un numéro plutôt que comme un être humain » par la direction de leur entreprise. Ils éprouvent alors de l’injustice et du ressentiment, lesquels débouchent sur un vote pour les partis de la droite radicale populiste.

    Les réalités du travail
    On pourrait se demander pourquoi la gauche ne semble pas avoir profité jusqu’à présent de ces problématiques du travail. Notons, tout d’abord, qu’en France, les syndicats ont profité de leur union contre la réforme des retraites, en organisant des mobilisations et en mettant des mots sur les réalités du travail (conditions dégradées, intensification, absence d’écoute et de reconnaissance) pour recruter des nouveaux adhérents et accroître leur légitimité.

    Le baromètre de la confiance du Cevipof montre qu’en janvier 40 % des Français interrogés font confiance aux syndicats, contre 27 % en 2020, les situant ainsi loin devant les partis politiques (20 % de confiance lors du rapport de janvier). Notons ensuite que les partis de gauche apparaissaient divisés après 2022 et ont été, à ce jour, très peu mobilisés sur les questions du travail, à l’exception de certains comme François Ruffin [député La France insoumise de la Somme].

    Lire aussi la tribune | Article réservé à nos abonnés Raphaël Glucksmann : « Seule la gauche peut être la digue dont la démocratie française a tant besoin »

    A l’heure où le RN annonce qu’il ne reviendra sans doute pas sur la réforme des retraites, il n’ose aborder directement les conditions de travail dégradées, le management vertical, les stratégies d’intensification du travail des entreprises et de leurs actionnaires pour ne pas heurter une partie de son électorat (les petits patrons, artisans et commerçants notamment). De son côté, une gauche unie qui saurait parler du travail pourrait attirer les suffrages des nombreux Français qui demandent que leurs difficultés au travail soient entendues, reconnues et améliorées.

    Il faudrait pour cela questionner les formes dominantes de management en France, promouvoir une participation plus grande des salariés aux décisions stratégiques et quotidiennes des entreprises, reconnaître leur travail et l’importance de leur contribution.

    Bruno Palier est politiste, chercheur à Sciences Po et coordinateur de l’ouvrage collectif « Que sait-on du travail ? » (Presses de Sciences Po, 2023).

    #travail #pénibilité #RN #retraites #syndicats

  • [Les Promesses de l’Aube] Faire mouvement(s) en économie sociale
    https://www.radiopanik.org/emissions/les-promesses-de-l-aube/faire-mouvements-en-economie-sociale

    Ce mercredi matin nous aurons le plaisir de recevoir François Welter (CARHOP) et Pierre Georis (ancien secrétaire général du #moc) pour nous parler l’histoire de l’économie sociale et du mouvement coopératif en Belgique, et en particulier, sa place au sein du #mouvement_ouvrier Chrétien. Il sera également question des convergences entre les différentes formes d’économie sociale et des différents obstacles rencontrés.

    #mémoire #syndicats #carhop #action_sociale #histoire_sociale #économie_soicale #mémoire,syndicats,carhop,moc,mouvement_ouvrier,action_sociale,histoire_sociale,économie_soicale
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/les-promesses-de-l-aube/faire-mouvements-en-economie-sociale_17375__1.mp3

  • J. Sapori : « La police nationale traverse une crise sans précédent sous la Cinquième République » - Actu-Juridique
    https://www.actu-juridique.fr/justice/j-sapori-la-police-nationale-traverse-une-crise-sans-precedent-sous-l

    En 2023, le nombre d’homicides a passé la barre symbolique du millier, en progression de 19% sur quatre ans !

    #homicides #brutalisation #police #cogestion #syndicats_policiers #maintien_de_l'ordre #police_judiciaire #atteintes_aux_personnes #grande_criminalité

    • La monsieur envisage les stratégies de réforme possibles : virer la police et tout miser sur la gendarmerie

      Entre continuer à ne rien faire et entamer un bras de fer périlleux avec les syndicats, il resterait, pour le ministère, la possibilité d’une stratégie médiane, écartant à la fois la stagnation mais, aussi l’hypothèse d’une réforme ambitieuse. Je m’explique. La Police Nationale et la Gendarmerie Nationale sont deux institutions conçues « en miroir », chacune disposant de services qui, dans une certaine mesure, doublent ceux de l’autre « maison ».

      Les Groupements Départementaux de la Gendarmerie sont des alter ego des Directions Départementales de la Police, la Gendarmerie Mobile l’est des CRS, tandis que les Sections de Recherche sont des duplicatas des services territoriaux de la Police Judiciaire. Il serait finalement assez aisé de renforcer les structures de la Gendarmerie au détriment de celles d’une Police Nationale considérée désormais comme ingouvernable. Je ne sais pas si cette stratégie sera mise en œuvre (elle risquerait de faire « tiquer » Bercy : un gendarme, ça coûte environ 25 % plus cher qu’un policier, puisqu’il est logé) mais de toute manière, même si c’était le cas, elle ne sera pas annoncée. Il existe quand même un voyant, qui permettra de constater que le processus est amorcé : l’évolution des effectifs des Sections de Recherche de la Gendarmerie, destinées peut-être, à terme, à remplacer l’antique Police Judiciaire dans la lutte contre la grande criminalité.

    • Ce commissaire divisionnaire retraité dit plutôt redouter que cela arrive (tout en espérant que cela coûte trop cher pour que ce soit fait) et qu’une police efficace nécessite un ministre qui ne soit pas un paltoquet de communicant mais un politique (Joxe pour modèle), l’instauration (ou réinstauration) de directions centrales de services et fonctions policières spécialisés, des formations elles-aussi adaptées à la spécificité des missions sans prétendre à une polyvalence aussi générale que vide de contenu, et prône la sempiternelle « simplification des procédures ».

  • A six mois des Jeux olympiques, Gérald Darmanin comble les syndicats de policiers
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/01/30/a-six-mois-des-jeux-olympiques-gerald-darmanin-comble-les-syndicats-de-polic


    Le secrétaire général d’Alliance, Fabien Vanhemelryck, et le ministre de l’intérieur Gérald Darmanin, le 30 janvier, à Paris, à l’occasion des vœux des syndicats de policiers. STEPHANE DE SAKUTIN / AFP

    Le ministre de l’intérieur a annoncé des mesures destinées à compenser l’engagement « exceptionnel » des forces de l’ordre au cours de l’année 2024.
    Par Antoine Albertini

    C’est ce qui s’appelle le sens du timing. Deux heures avant la cérémonie de présentation des vœux du « Bloc », l’union syndicale majoritaire menée par Alliance et rassemblant, outre l’Unsa-Police, des syndicats de commissaires et d’officiers, le ministère de l’intérieur rendait public un inventaire de mesures « exceptionnelles » destinées à compenser l’engagement des forces de l’ordre à l’occasion des Jeux olympiques et paralympiques (JOP), prévus du 26 juillet au 11 août. « Alors que votre mobilisation en 2024 sera d’une intensité exceptionnelle, je veux que votre investissement hors du commun soit justement reconnu », écrit le ministre dans une lettre, datée du mardi 30 janvier.

    Contre un « engagement à 100 % » tout au long des Jeux olympiques, les membres des forces de l’ordre bénéficieront donc de primes allant de 1 000 euros à 1 900 euros dans le cas des personnels affectés à Paris et en Île-de-France, où se dérouleront la cérémonie d’ouverture et la plupart des épreuves sportives – un montant bien supérieur à la fourchette initialement prévue de 500 à 1 500 euros. Le compte épargne-temps, lui, sera « déplafonné à hauteur de dix jours supplémentaires » et le ministre a assuré mettre tout en œuvre pour que les heures supplémentaires soient défiscalisées – une autre revendication emblématique des organisations professionnelles. D’autres mesures sociales accompagneront l’organisation sécuritaire des #JO, comme des aides spécifiques en matière de gardes d’enfant ou le doublement du chèque emploi-service universel sans condition de ressources.
    Dans le décor baroque du musée des Arts forains, dans le 13e arrondissement de Paris, où des centaines d’adhérents du « Bloc » se pressaient pour assister à la présentation des vœux de leurs secrétaires généraux Fabien Vanhemelryck (Alliance) et Olivier Varlet (Unsa-Police), ces annonces n’ont pas suffi pour autant à tarir les revendications des organisations professionnelles. Il est « inadmissible qu’à six mois de cet évènement majeur, autant de questions restent sans réponses », a ainsi estimé M. Varlet, de l’Unsa-Police, installé au pupitre dressé sur une estrade, face aux délégués des organisations syndicales.

    Piques contre le chef de l’Etat

    Mais la charge la plus virulente est sans doute venue du patron du syndicat Alliance, Fabien Vanhemelryck, s’écartant du seul registre revendicatif pour dépeindre un « Etat dans l’incapacité croissante de répondre à la délinquance » et un « climat insurrectionnel malheureusement permanent ». Le leader syndical a réservé ses piques les plus vives au président de la République, dont les déclarations sur l’existence de contrôles au faciès et l’utilisation du terme « violences policières » lors d’une interview au média en ligne Brut, en décembre 2020, ont durablement entamé la cote auprès de la profession.

    M. Vanehmerlyck a assumé « dire tout haut ce que l’ensemble des collègues pense tout bas » en fustigeant les propos tenus par Emmanuel Macron au lendemain de la mort du jeune Nahel, abattu par le tir d’un policier à Nanterre (Hauts-de-Seine) le 27 juin 2023 – « un acte inexplicable et inexcusable », avait alors estimé Emmanuel Macron. « Gérard Depardieu lui-même n’a pas eu l’honneur de voir sa présomption d’innocence bafouée », a-t-il ajouté en référence aux déclarations du président de la République le 20 décembre au cours de l’émission « C à vous » sur France 5. A cette occasion, Emmanuel Macron avait pris la défense du comédien, mis en examen pour viols et agressions sexuelles, évoquant notamment le respect de la présomption d’innocence.

    « Personne ne peut se satisfaire d’un discours sur l’impuissance de l’État de droit », a encore insisté le leader syndical, en évoquant l’allocution télévisée du président de la République le 16 janvier, au cours de laquelle le chef de l’État avait pointé l’« oisiveté  et « l’ennui » des émeutiers de l’été 2023. Sur l’estradese tenaient également le directeur général de la police nationale Frédéric Veaux, le préfet de police Laurent Nunez, la directrice générale de la sécurité intérieure Céline Berthon, le ministre de l’intérieur n’a pas réagi à ces propos.
    Contraint par la nécessité de mener à bien la mission prioritaire de sécurisation des Jeux olympiques que lui a confiée Emmanuel Macron, Gérald Darmanin sait qu’il ne peut se risquer à prendre de front des syndicats dont l’influence est telle au sein de la #police qu’elle a suffi à les transformer en véritables maîtres des horloges de l’évènement.

    #syndicats_policiers

  • Votre vieux monde ? Dans nos syndicats, on n’en veut pas non plus !

    Resyfem salue la décision du 18 décembre 2023 rendue par le Tribunal correctionnel de Brest condamnant Marc Hébert pour harcèlement sexuel aggravé, par personne abusant de l’autorité que lui confère ses fonctions : c’est une victoire pour les victimes qui ont dû se battre seules face à une procédure très dure pendant 3 ans, sans soutien de leur syndicat.

    Resyfem salue la décision du 18 décembre 2023 rendue par le Tribunal correctionnel de Brest condamnant Marc Hébert pour harcèlement sexuel aggravé, par personne abusant de l’autorité que lui confère ses fonctions

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2024/01/22/votre-vieux-monde-dans-nos-syndicats-on-nen-ve

    #féminisme #violence #syndicat

    • Elles ont également dû faire face [au sein de FO] à une défense caractéristique des agresseurs sexuels dans un cadre militant ou politique : elles ont été taxées de menteuses, à la tête d’une « cabale syndicale » (la théorie du complot est quasiment une constante quand les victimes sont plusieurs) ; une d’entre elles a même été qualifiée de « lesbienne militante partisane de l’émasculation des mâles » ! [source : Résyfem – Réseau de Syndicalistes Féministes]

      #VSS #syndicalisme

  • Loi Darmanin : le 25 janvier, bloquons le pays ! | Marche des Solidarités
    https://blogs.mediapart.fr/marche-des-solidarites/blog/180124/loi-darmanin-le-25-janvier-bloquons-le-pays

    Les seuls vainqueurs de sa promulgation seront les racistes et les fascistes. Les racistes parce que la loi les conforte. Les fascistes, Marine Le Pen en tête, parce qu’elle dira que le pouvoir est inconséquent et ne va pas jusqu’au bout.
    Les manifestations du 14 janvier ont montré qu’il existait les germes d’une riposte profonde et combative unifiant les Sans-papiers et celles et ceux qui ont des papiers, les Français·e·s et les immigré·e·s. Partout, à l’initiative des Collectifs de Sans-papiers, rejoints par plus de 500 organisations dont beaucoup de structures locales, les manifestations ont montré par leur nombre et la nature de la mobilisation que quelque chose se passait.

    La manifestation parisienne a été emblématique dirigée et animée par les #collectifs de #Sans-papiers avec des cortèges de quartier, des cortèges d’école en lutte contre la loi, des féministes, des cortèges LGBTQI, des activistes du Soulèvement de la terre, d’Extinction rébellion, des clubs de foot et la FSGT (fédération sportive).
    Des lycéens et lycéennes s’organisent, les blocages de lycées reprennent à Paris, Rennes ou Nantes. Les assemblées étudiantes se multiplient dans plusieurs villes. Des Assistantes d’éducation se sont mis en grève à Charenton. Les banderoles contre la loi fleurissent devant des écoles. Des professionnels de la santé commencent à se coordonner.
    Il faut le dire car cela a une importance pour la suite. Les manifestations du 21 janvier ont été organisées sur le dos des collectifs de Sans-Papiers et en concurrence avec les manifestations du 14 janvier. Heureusement ce n’est pas la logique qui domine dans de nombreux endroits. Mais là où il faut construire une unité de lutte, les principales organisations syndicales ont semé les graines de la division avec celles et ceux qui se battent depuis des mois contre cette loi abjecte.
    A Paris, les Collectifs de Sans-papiers se sont sentis humiliés par ce mépris. C’est pourquoi ils ont décidé de ne pas participer à la manifestation parisienne, par dignité et pour dire que la lutte ne peut gagner sans les premiers et premières concerné·e·s.

    #Loi_immigration #syndicats #artistes

  • Loi « immigration » : les associations déterminées avant l’examen devant le Conseil constitutionnel
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/01/05/loi-immigration-les-associations-determinees-avant-l-examen-devant-le-consei

    Loi « immigration » : les associations déterminées avant l’examen devant le Conseil constitutionnel
    Par Abel Mestre
    Maintenir coûte que coûte la pression, c’est l’état d’esprit des opposants à la loi « immigration ». Voté le 19 décembre 2023, le texte comporte, selon l’exécutif lui-même, plusieurs mesures susceptibles d’être censurées par le Conseil constitutionnel. Saisis par le président de la République, Emmanuel Macron, mais aussi par l’opposition de gauche, les neuf juges constitutionnels doivent se prononcer d’ici à la fin du mois de janvier sur la conformité du texte. D’ici là, les partis de gauche, les associations, les syndicats et de nombreux juristes essaient d’organiser la riposte.
    Cette dernière se mène sur plusieurs fronts. Juridique, d’abord. Plusieurs « contributions extérieures » (également appelées « portes étroites ») seront adressées au Conseil par des personnes physiques ou morales concernées par la loi « immigration ». Serge Slama, professeur de droit public à l’université Grenoble-Alpes et spécialiste du droit des étrangers, a été la cheville ouvrière de cette initiative. L’universitaire a été marqué par le nombre de ses collègues qui ont participé à ce travail, beaucoup plus nombreux qu’à l’ordinaire. « Cela dépasse le noyau dur habituel », estime-t-il. Selon lui, la loi « immigration » « est très mal rédigée, très mal ficelée et va être un nid à contentieux et poser beaucoup de problèmes d’interprétation ».
    Ces contributions extérieures sont organisées par thèmes (nationalité, étudiants internationaux, protection sociale et hébergement d’urgence, étrangers gravement malades, asile, mineurs non accompagnés, contentieux judiciaire et rétention…) et ont été élaborées par des universitaires et des responsables associatifs. Elles donnent donc tous les arguments juridiques pour appuyer une censure des dispositions visées, voire une censure globale du texte.
    Autre secteur qui se mobilise : celui des associations et des syndicats. Quarante-cinq organisations parmi les plus importantes – entre autres : Attac, la Fondation Abbé Pierre, Emmaüs, la Ligue des droits de l’homme, France Terre d’asile, la Cimade, Oxfam, la CFDT, la CGT – dénoncent « un point de bascule pour [les] principes républicains ». Les signataires donnent rendez-vous avant fin janvier « pour poursuivre cette dynamique de rassemblement, demander au président de la République de surseoir à la promulgation de la loi, intensifier et élargir la mobilisation contre ce texte et son idéologie ». Problème : on ne sait pas quelle forme prendra cette mobilisation. « La loi fait l’unanimité contre elle, d’où le nombre de signataires. Mais sur les modes d’action, on est un peu dans l’expectative, confesse Manuel Domergue, de la Fondation Abbé Pierre. Les cultures sont différentes et nous sommes dans l’attente de la décision du Conseil constitutionnel. »
    D’autres ne sont pas aussi patients : plusieurs organisations, parmi lesquelles le Groupe d’information et de soutien des immigrés, La France insoumise (LFI) ou Europe Ecologie-Les Verts, ainsi que plusieurs collectifs de sans-papiers, ont d’ores et déjà appelé à « manifester massivement sur tout le territoire le dimanche 14 janvier pour empêcher que cette loi soit promulguée ». Car c’est là tout le paradoxe des larges fronts d’opposition : il est parfois difficile de mettre tout le monde d’accord sur la marche à suivre. Ainsi, certains poussent pour organiser un grand meeting unitaire où chacun pourrait s’exprimer. L’avantage de cette solution est que le risque est minimal : il suffit de réserver une salle un peu petite pour donner l’illusion du nombre. En revanche, rien de pire qu’une manifestation qui ne fait pas le plein pour casser un mouvement naissant… Les partisans des manifs, eux, rappellent qu’en 1997 les cortèges contre les lois Debré sur l’immigration avaient fait le plein (jusqu’à 100 000 personnes à Paris)…
    Ce dilemme, les partis politiques en ont conscience. La France insoumise pousse pour que la démarche soit unitaire. « Il y a plusieurs cadres de discussion. On souhaite qu’il y ait tout le monde la même date, notamment les premiers concernés, comme la Marche des solidarités et les collectifs de sans-papiers, de même que les syndicats, associations, forces politiques opposés a la loi Darmanin », note Aurélie Trouvé, députée LFI de Seine-Saint-Denis. Surtout, une difficulté majeure s’ajoute : l’articulation avec les mobilisations pour la Palestine. Il est vrai que ces rassemblements concernent, en très grande partie, les mêmes organisations, le même milieu militant. Comment faire pour ne pas se marcher sur les pieds et ne pas abandonner un combat au profit de l’autre ? Une solution pourrait être une grande mobilisation mêlant les deux questions, sur le mode de la « convergence des luttes », mais le risque est de brouiller les messages. Une chose est sûre : la décision du Conseil constitutionnel ne réglera pas tout. Le scénario le plus probable est la censure (sur le fond ou comme « cavaliers législatifs », c’est-à-dire sans lien avec la loi) des dispositions les plus « aberrantes », selon l’expression de Serge Slama. Pourraient ainsi être concernées plusieurs mesures issues des amendements présentés par la droite, comme, par exemple, les mesures touchant aux prestations sociales ou celles sur le regroupement familial. Ces censures seraient une sorte de victoire à la Pyrrhus pour les opposants. En effet, le cœur du texte du gouvernement serait validé. Et il serait encore plus difficile de mobiliser contre une loi qui aura perdu ses aspects les plus clivants.

    #Covid-19#migration#migrant#france#loiimmigration#droit#conseilconstitutionnel#syndicat#association#securitesociale#regroupementfamilial

  • #Inde : dans les champs du #Pendjab, la colère s’enracine

    Depuis leur soulèvement en 2021, les paysans du sous-continent sont revenus aux champs. Mais dans le grenier à #blé du pays, la révolte gronde toujours et la sortie de la #monoculture_intensive est devenue une priorité des #syndicats_agricoles.

    « Nous sommes rassemblés parce que la situation des agriculteurs est dans l’impasse. Dans le Pendjab, les paysans sont prisonniers de la monoculture du blé et du #riz, qui épuise les #nappes_phréatiques », explique Kanwar Daleep, président du grand syndicat agricole #Kisan_Marzoor. À ses côtés, ils sont une centaine à bloquer la ligne de train qui relie la grande ville d’Amritsar, dans le Pendjab, à New Delhi, la capitale du pays. Au milieu d’immenses champs de blé, beaucoup sont des paysans sikhs, reconnaissables à leur barbe et à leur turban.

    C’est d’ici qu’est parti le plus grand mouvement de contestation de l’Inde contemporaine. Pour s’opposer à la #libéralisation du secteur agricole, des paysans du Pendjab en colère puis des fermiers de toute l’Inde ont encerclé New Delhi pacifiquement mais implacablement en décembre 2020 et en 2021, bravant froids hivernaux, coronavirus et police. En novembre 2021, le premier ministre Narendra Modi a finalement suspendu sa #réforme, dont une des conséquences redoutées aurait été la liquidation des tarifs minimums d’achat garantis par l’État sur certaines récoltes.

    « Depuis cette #révolte historique, les agriculteurs ont compris que le peuple avait le pouvoir, juge #Sangeet_Toor, écrivaine et militante de la condition paysanne, basée à Chandigarh, la capitale du Pendjab. L’occupation est finie, mais les syndicats réclament un nouveau #modèle_agricole. Ils se sont emparés de sujets tels que la #liberté_d’expression et la #démocratie. »

    Pour Kanwar Daleep, le combat entamé en 2020 n’est pas terminé. « Nos demandes n’ont pas été satisfaites. Nous demandons à ce que les #prix_minimums soient pérennisés mais aussi étendus à d’autres cultures que le blé et le riz, pour nous aider à régénérer les sols. »

    C’est sur les terres du Pendjab, très plates et fertiles, arrosées par deux fleuves, que le gouvernement a lancé dans les années 1960 un vaste programme de #plantation de semences modifiées à grand renfort de #fertilisants et de #pesticides. Grâce à cette « #révolution_verte », la production de #céréales a rapidement explosé – l’Inde est aujourd’hui un pays exportateur. Mais ce modèle est à bout de souffle. Le père de la révolution verte en Inde, #Monkombu_Sambasivan_Swaminathan, mort en septembre, alertait lui-même sur les dérives de ce #productivisme_agricole forcené.

    « La saison du blé se finit, je vais planter du riz », raconte Purun Singh, qui cultive 15 hectares près de la frontière du Pakistan. « Pour chaque hectare, il me faut acheter 420 euros de fertilisants et pesticides. J’obtiens 3 000 kilos dont je tire environ 750 euros. Mais il y a beaucoup d’autres dépenses : l’entretien des machines, la location des terrains, l’école pour les enfants… On arrive à se nourrir mais notre compte est vide. » Des récoltes aléatoires vendues à des prix qui stagnent… face à un coût de la vie et des intrants de plus en plus élevé et à un climat imprévisible. Voilà l’équation dont beaucoup de paysans du Pendjab sont prisonniers.

    Cet équilibre financier précaire est rompu au moindre aléa, comme les terribles inondations dues au dérèglement des moussons cet été dans le sud du Pendjab. Pour financer les #graines hybrides et les #produits_chimiques de la saison suivante, les plus petits fermiers en viennent à emprunter, ce qui peut conduire au pire. « Il y a cinq ans, j’ai dû vendre un hectare pour rembourser mon prêt, raconte l’agriculteur Balour Singh. La situation et les récoltes ne se sont pas améliorées. On a dû hypothéquer nos terrains et je crains qu’ils ne soient bientôt saisis. Beaucoup de fermiers sont surendettés comme moi. » Conséquence avérée, le Pendjab détient aujourd’hui le record de #suicides de paysans du pays.

    Champs toxiques

    En roulant à travers les étendues vertes du grenier de l’Inde, on voit parfois d’épaisses fumées s’élever dans les airs. C’est le #brûlage_des_chaumes, pratiqué par les paysans lorsqu’ils passent de la culture du blé à celle du riz, comme en ce mois d’octobre. Cette technique, étroitement associée à la monoculture, est responsable d’une très importante #pollution_de_l’air, qui contamine jusqu’à la capitale, New Delhi. Depuis la route, on aperçoit aussi des fermiers arroser leurs champs de pesticides toxiques sans aucune protection. Là encore, une des conséquences de la révolution verte, qui place le Pendjab en tête des États indiens en nombre de #cancers.

    « Le paradigme que nous suivons depuis les années 1960 est placé sous le signe de la #sécurité_alimentaire de l’Inde. Où faire pousser ? Que faire pousser ? Quelles graines acheter ? Avec quels intrants les arroser ? Tout cela est décidé par le marché, qui en tire les bénéfices », juge Umendra Dutt. Depuis le village de Jaito, cet ancien journaliste a lancé en 2005 la #Kheti_Virasat_Mission, une des plus grandes ONG du Pendjab, qui a aujourd’hui formé des milliers de paysans à l’#agriculture_biologique. « Tout miser sur le blé a été une tragédie, poursuit-il. D’une agriculture centrée sur les semences, il faut passer à une agriculture centrée sur les sols et introduire de nouvelles espèces, comme le #millet. »

    « J’ai décidé de passer à l’agriculture biologique en 2015, parce qu’autour de moi de nombreux fermiers ont développé des maladies, notamment le cancer, à force de baigner dans les produits chimiques », témoigne Amar Singh, formé par la Kheti Virasat Mission. J’ai converti deux des quatre hectares de mon exploitation. Ici, auparavant, c’était du blé. Aujourd’hui j’y plante du curcuma, du sésame, du millet, de la canne à sucre, sans pesticides et avec beaucoup moins d’eau. Cela demande plus de travail car on ne peut pas utiliser les grosses machines. Je gagne un peu en vendant à des particuliers. Mais la #transition serait plus rapide avec l’aide du gouvernement. »

    La petite parcelle bio d’Amar Singh est installée au milieu d’hectares de blé nourris aux produits chimiques. On se demande si sa production sera vraiment « sans pesticides ». Si de plus en plus de paysans sont conscients de la nécessité de cultiver différemment, la plupart peinent à le faire. « On ne peut pas parler d’une tendance de fond, confirme Rajinder Singh, porte-parole du syndicat #Kirti_Kazan_Union, qui veut porter le combat sur le plan politique. Lorsqu’un agriculteur passe au bio, sa production baisse pour quelques années. Or ils sont déjà très endettés… Pour changer de modèle, il faut donc subventionner cette transition. »

    Kanwar Daleep, du Kisan Marzoor, l’affirme : les blocages continueront, jusqu’à obtenir des garanties pour l’avenir des fermiers. Selon lui, son syndicat discute activement avec ceux de l’État voisin du Haryana pour faire front commun dans la lutte. Mais à l’approche des élections générales en Inde en mai 2024, la reprise d’un mouvement de masse est plus une menace brandie qu’une réalité. Faute de vision des pouvoirs publics, les paysans du Pendjab choisissent pour l’instant l’expectative. « Les manifestations peuvent exploser à nouveau, si le gouvernement tente à nouveau d’imposer des réformes néfastes au monde paysan », juge Sangeet Toor.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/281223/inde-dans-les-champs-du-pendjab-la-colere-s-enracine
    #agriculture #monoculture #résistance

  • En marche vers le travail forcé - Le Numéro Zéro
    https://lenumerozero.info/En-marche-vers-le-travail-force-6542

    FRANCE
    Publié le 25 novembre 2023
    En marche vers le travail forcé

    Le projet de loi Plein Emploi, lequel au moment où on écrit n’a plus devant lui que l’obstacle éventuel d’une censure partielle par le Conseil Constitutionnel avant de pouvoir s’appliquer légalement, ne semble pas susciter de réaction à la hauteur de l’attaque inédite qu’il constitue pour le monde du travail et l’avenir du salariat en France.

    Concrètement, ce projet de loi va ouvrir la possibilité légale pour l’État de forcer des millions de personnes (pas seulement les allocataires du RSA, mais bien l’ensemble des chômeurs, précaires et bénéficiaires des minimas sociaux qui auront progressivement tous obligation de s’inscrire à la nouvelle entité France Travail sous peine de voir leurs allocations suspendues) à travailler en dehors du cadre légal du salariat tel que défini par le Code du travail.

    C’est donc d’abord un projet de guerre aux pauvres, destiné à les rendre encore plus pauvres.
    Travailler plus pour gagner moins, en quelque sorte.

    Rien que cela devrait suffire à ce que nous soyons des millions dans la rue, ou en grève reconductible, ou ….? Enfin, quelque chose, une réaction collective.
    Pour ceux qui croient encore dans le camp du salariat à l’existence d’un intérêt général, collectif, défendre d’abord et en priorité les droits des plus précaires devrait être comme un réflexe, une routine, une pratique non négociable quelles que soient les difficultés conjoncturelles ; une solidarité de bon sens, une des seules armes efficaces contre la logique de concurrence entre tous qu’on nous impose. L’histoire sociale des quarante dernières années en France et la dégradation continue des droits et conditions d’existence des chômeurs et précaires dans une relative indifférence montrent que malheureusement ce n’est plus une conviction largement partagée. Se montre donc aussi en creux, par son absence même, ce qu’il conviendrait de défendre en priorité pour se donner quelque chance d’inverser ce cours néfaste.

    Mais ce projet de loi est en même temps un projet de guerre au salariat.

    Comment appeler autrement ce qui permettra de faire travailler légalement des millions de gens en dehors de son cadre légal ? Ce qui ouvrira un formidable appel d’air pour pousser encore plus fort à sa dégradation (salaires, temps de travail, conditions de travail) ?

    Cela aussi devrait suffire pour que nous soyons des millions etc.

    Bon, être des millions ne suffit pas toujours, en tout cas être des millions dans la rue n’a pas suffi en 2023. Mais on n’a pas essayé depuis longtemps d’être des millions en grève reconductible en même temps pendant une durée indéfinie. On finit même par oublier que cela pourrait être possible. Pourtant la grève générale de Mai 68 n’a duré qu’environ 3 semaines, pendant que le mouvement sur les retraites de 2023 a duré six mois (pour une quinzaine de journées d’action officielles).

    Entre les deux on préférera toujours la version courte et rigolote : tant qu’à se faire bananer à la sortie, autant faire le truc pour de vrai en 2 ou 3 semaines et passer à autre chose après ; financièrement c’est à peu près kif kif, et surtout il en reste bien plus de belles choses à la sortie, des choses qui resserviront les fois d’après.
    Et au fond, quand on est las de l’activisme spectaculaire et stérile, qu’il soit syndical ou émeutier, c’est la seule perspective sérieuse de foutre en l’air le programme néolibéral, sa technologie avilissante, ses ritournelles de l’urgence et de la mobilisation permanentes qui contaminent jusqu’au camp de l’émancipation.

    Camarades salariés plus ou moins encore garantis, camarades syndicalistes, vous comptez vraiment attendre l’inauguration officielle du premier néo-camp de travail en France dans 10, 20 ou 50 ans (peu importe le moment précis, cela finira par arriver) par le Rassemblement National Écologique En Marche Pour Sauver La République Par Le Plein Emploi pour réellement commencer à vous inquiéter d’une disparition du salariat au profit d’une forme ou d’une autre de néo-servage ? L’abolition du salariat, la réalisation si longtemps attendue de la grande prophétie marxiste, la voilà qui se dessine enfin, dans le cadre du programme néolibéral : une sortie par le bas, aux conditions de l’adversaire. Au bout de tant de décennies d’échecs et de reculs, serait-ce trop demander qu’un syndicalisme un peu lucide et conséquent reconnaisse cet échec stratégique majeur, regarde en face son impuissance et en tire des leçons ?

    novembre 2023,
    Un idiot des confins.

  • Los estibadores de Barcelona deciden “no permitir la actividad” de barcos que envíen armas a Palestina e Israel

    Los estibadores del puerto de Barcelona han decidido “no permitir la actividad de barcos que contengan material bélico”. Así lo han explicado en un comunicado que se ha hecho público tras una asamblea del comité de empresa.

    La Organización de #Estibadores_Portuarios_de_Barcelona (#OEPB), el sindicato mayoritario entre los 1.200 estibadores barceloneses, apunta que han tomado esta decisión para “proteger a la población civil, sea del territorio que sea”.

    Con todo, los trabajadores aseguran un “rechazo absoluto a cualquier forma de violencia” y ven como una “obligación y un compromiso” defender “con vehemencia” la Declaración Universal de los Derechos Humanos. Unos derechos, dicen, que están siendo “violados” en Ucrania, Israel o en el territorio palestino.

    De esta manera, los trabajadores se comprometen a no cargar, descargar ni facilitar las tareas de cualquier buque que contenga armas. Ahora bien, los estibadores no tienen “capacidad para saber de facto que hay en los contenedores”, han afirmado a este diario.

    Los trabajadores se ponen en manos de ONG y entidades de ayuda humanitaria que sí puedan tener conocimiento sobre envíos de armas desde el puerto barcelonés. En esta línea, recuerdan el boicot que ya llevaron a cabo en 2011 en el marco de la guerra de Libia, durante la cual colaboraron con diversas entidades para entorpecer el envío de material bélico y, a su vez, se facilitó el envió de agua y alimentos.

    A pesar de que el Gobierno ha asegurado que no prevé exportar a Israel armas letales que se puedan usar en Gaza, los estibadores son conscientes de que, sólo en 2023, España ha comprado material militar a Israel por valor de 300 millones de euros, unido a otros 700 millones comprometidos en adquisición de armamento para los próximos años.

    Los trabajadores insisten en que con este comunicado no se están posicionado políticamente en el conflicto, simplemente abogan por el alto al fuego y la distribución de ayuda humanitaria. “No es un comunicado político, sólo queremos que se agoten todas las vías de diálogo antes de usar la violencia”.

    Este argumento fue el mismo que estos trabajadores portuarios usaron para negarse a dar servicio a los cruceros en los que la Policía Nacional se alojó durante los días previos al 1 de Octubre. En aquella ocasión también aseguraron que tomaban la decisión “en defensa de los derechos civiles”.

    Con este gesto, los estibadores se suman a otros colectivos de trabajadores portuarios, como los belgas, que también han anunciado que no permitirán el envío de material militar a Israel o Palestina. La del boicot es una estrategia que no es nueva: estibadores de diversos lugares del mundo ya la han llevado a cabo en momentos crudos del conflicto durante los últimos años. Por ejemplo durante el conflicto en la Franja de Gaza de 2008 y 2009, estibadores de Italia, Sudáfrica y Estados Unidos ya se negaron a a manipular cargamentos provenientes de Israel.

    https://www.eldiario.es/catalunya/estibadores-barcelona-deciden-no-permitir-actividad-barcos-envien-armas-pal
    #Barcelone #résistance #armes #armement #Israël #Palestine

    • Espagne : les #dockers du #port de Barcelone refusent de charger les #navires transportant des armes à destination d’Israël

      - « Aucune cause ne justifie la mort de civils », déclare le syndicat des dockers OEPB dans un #communiqué

      Les dockers du port espagnol de Barcelone ont annoncé qu’ils refuseraient de charger ou de décharger des navires transportant des armes à destination d’Israël, à la lumière des attaques de ce pays contre Gaza.

      « En tant que collectif de travailleurs, nous avons l’obligation et l’engagement de respecter et de défendre avec véhémence la Déclaration universelle des droits de l’homme », a déclaré l’OEPB, le seul syndicat représentant quelque 1 200 dockers du port, dans un communiqué.

      « C’est pourquoi nous avons décidé en assemblée de ne pas autoriser les navires contenant du matériel de guerre à opérer dans notre port, dans le seul but de protéger toute population civile », a ajouté le communiqué, notant qu’"aucune cause ne justifie la mort de civils".

      L’OEPB appelle à un cessez-le-feu immédiat et à un règlement pacifique des conflits en cours dans le monde, et notamment du conflit israélo-palestinien.

      Les Nations unies devraient abandonner leur position de complicité, due à l’inaction ou à leur renoncement dans l’exercice de leurs fonctions, a ajouté le communiqué.

      Israël mène, depuis un mois, une offensive aérienne et terrestre contre la Bande de Gaza, à la suite de l’attaque transfrontalière menée par le mouvement de résistance palestinien Hamas le 7 octobre dernier.

      Le ministère palestinien de la Santé a déclaré, mardi, que le bilan des victimes de l’intensification des attaques israéliennes sur la Bande de Gaza depuis le 7 octobre s’élevait à 10 328 morts.

      Quelque 4 237 enfants et 2 719 femmes figurent parmi les victimes de l’agression israélienne, a précisé le porte-parole du ministère, Ashraf al-Qudra, lors d’une conférence de presse.

      Plus de 25 956 autres personnes ont été blessées à la suite des attaques des forces israéliennes sur Gaza, a-t-il ajouté.

      Le nombre de morts israéliens s’élève quant à lui à près de 1 600, selon les chiffres officiels.

      Outre le grand nombre de victimes et les déplacements massifs, les approvisionnements en produits essentiels viennent à manquer pour les 2,3 millions d’habitants de la Bande de Gaza, en raison du siège israélien, qui s’ajoute au blocus imposé par Israël à l’enclave côtière palestinienne.

      https://www.aa.com.tr/fr/monde/espagne-les-dockers-du-port-de-barcelone-refusent-de-charger-les-navires-transportant-des-armes-%C3%A0-destination-disra%C3%ABl/3046909

    • #Genova, Barcellona, #Sidney. I lavoratori portuali si rifiutano di caricare le navi con le armi per Israele

      Diverse organizzazioni di lavoratori portuali hanno indetto mobilitazioni e iniziative per protestare contro i bombardamenti della striscia di #Gaza. Venerdì prossimo a Genova si svolgerà il presidio indetto dai portuali del capoluogo ligure. La mobilitazione raccoglie l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. I lavoratori dello scalo genovese si rifiutano di gestire l’imbarco di carichi di armi diretti in Israele (e non solo). Un’iniziativa simile è in atto nel porto di Sidney, in Australia, dove si protesta contro l’attracco di una nave della compagnia israeliana #Zim. All’appello dei colleghi palestinesi hanno aderito ieri anche i lavoratori dello scalo di Barcellona, annunciando che impediranno “le attività delle navi che portano materiale bellico”. Come lavoratori, si legge nel comunicato degli spagnoli, “difendiamo con veemenza la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo“, aggiungendo che “nessuna causa giustifica il sacrificio dei civili”. In Belgio a rifiutarsi di caricare armi sono da alcune settimane gli addetti aeroportuali che nel comunicato spiegano “caricare e scaricare ordigni bellici contribuisce all’uccisione di innocenti“. Solidarietà con i lavoratori palestinesi è arrivata inoltre dal sindacato francese Cgt, così come è molto attivo il coordinamento dei sindacati greci #Pame.

      Negli Stati Uniti, nei pressi di Seattle, sono invece stati un centinaio di attivisti a bloccare il porto di #Tacoma, mossi dal sospetto che la #Cape_Orlando, nave statunitense alla fonda, trasportasse munizioni ed armamenti per Israele. La nave era già stata fermata alcuni giorni prima nello scalo di #Oakland, nella baia di San Francisco. Iniziative di questo genere si stanno moltiplicando. Nei giorni scorsi gli attivisti avevano bloccato tutte le entrate di un impianto della statunitense #Boeing destinato alla fabbricazione di armamenti nei pressi di St Louis. Manifestazioni si sono svolte alla sede londinese di #Leonardo, gruppo italiano che ad Israele fornisce gli elicotteri Apache. Il 26 ottobre scorso un centinaio di persone avevano invece bloccato l’accesso alla filiale britannica dell’azienda di armi israeliana #Elbit_Systems.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/11/07/genova-barcellona-sidney-i-lavoratori-portuali-si-rifiutano-di-caricare-le-navi-con-le-armi-per-israele/7345757
      #Gênes

    • La logistica di guerra

      Venerdì 10 novembre i lavoratori del porto di Genova hanno lanciato un blocco della logistica di guerra. I porti sono uno snodo fondamentale della circolazione delle armi impiegate in ogni dove.
      A Genova è stato osservato un carico di pannelli per pagode militari che verrà destinato ad una delle navi della compagnia saudita Bahri.
      Dal terminal dei traghetti nelle scorse settimane sono stati caricati camion militari dell’Iveco destinati alla Tunisia, con ogni probabilità destinati alla repressione dei migranti.
      Le organizzazioni operaie palestinesi hanno fatto appello alla solidarietà internazionalista, alla lotta degli sfruttati contro tutti i padroni a partire da quelli direttamente coinvolti nel conflitto.
      Nel porto di Genova opera una compagnia merci, l’israeliana ZIM, che il 10 novembre gli antimilitaristi puntano a bloccare.
      Inceppare il meccanismo è un obiettivo concreto che salda l’opposizione alla guerra con la lotta alla produzione e circolazione delle armi.
      L’appuntamento per il presidio/picchetto è alle 6 del mattino al varco San Benigno.
      Ne abbiamo parlato con Christian, un lavoratore del porto dell’assemblea contro la guerra e la repressione.

      https://www.rivoluzioneanarchica.it/genova-fermare-la-logistica-di-guerra
      #logistique

    • Porti bloccati contro l’invio di armi a Israele

      Genova, Barcellona, #Oackland, #Tacoma, Sidney. I lavoratori portuali si rifiutano di caricare le navi con le armi per Israele

      L’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele” è stato raccolto dai sindacati in diversi paesi.

      Diverse organizzazioni di lavoratori portuali hanno indetto mobilitazioni e iniziative per protestare contro i bombardamenti della striscia di Gaza. Venerdì prossimo a Genova si svolgerà il presidio indetto dai portuali del capoluogo ligure. La mobilitazione raccoglie l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. I lavoratori dello scalo genovese si rifiutano di gestire l’imbarco di carichi di armi diretti in Israele (e non solo).

      “Mentre da quasi due anni in Ucraina si combatte una guerra fra blocchi di paesi capitalisti, mentre lo stato d’Israele massacra i palestinesi, mentre la guerra nucleare è dietro l’angolo, il Porto di Genova continua a caratterizzarsi come snodo della logistica di guerra: imbarchi di camion militari diretti alla Tunisia per il contrasto dei flussi migratori, passaggio di navi della ZIM, principale compagnia navale israeliana, nuovi materiali militari per l’aeronautica Saudita pronti per la prossima Bahri. Questo è quello che sta dietro ai varchi del porto di Genova. Basta traffici di armi in porto. Solidarietà internazionalista agli oppressi/e palestinesi. Il nemico è in casa nostra. Guerra alla Guerra” si legge nel comunicato che invita alla partecipazione.

      Anche i lavoratori del porto australiano di Sidney, stanno protestando contro l’attracco di una nave della compagnia israeliana Zim. All’appello dei sindacati palestinesi. E’ di ieri la dichiarazione della Organización de Estibadores Portuarios di Barcellona (OEPB) i cui aderenti si rifiuteranno di caricare armi destinate al conflitto israelo-palestinese dal porto catalano. E’ la risposta all’appello lanciato dai sindacati palestinesi per fermare «i crimini di guerra di Israele» sin dall’inizio dell’invasione di Gaza

      In Belgio già da alcune settimane a rifiutarsi di caricare armi sono i lavoratori aeroportuali che nel comunicato spiegano “caricare e scaricare ordigni bellici contribuisce all’uccisione di innocenti“. Solidarietà con i lavoratori palestinesi è arrivata inoltre dal sindacato francese Cgt, così dal sindacato greco Pame che il 2 novembre ha bloccato l’aeroporto di Atene per protesta contro i bombardamenti israeliani.

      Negli Stati Uniti, nei pressi di Seattle, sono invece stati un centinaio di attivisti a bloccare il porto di Tacoma, mossi dal sospetto che la Cape Orlando, nave statunitense alla fonda, trasportasse munizioni ed armamenti per Israele. La nave era già stata fermata alcuni giorni prima nello scalo di Oakland, nella baia di San Francisco. Iniziative di questo genere si stanno moltiplicando. Nei giorni scorsi gli attivisti avevano bloccato tutte le entrate di un impianto della statunitense Boeing destinato alla fabbricazione di armamenti nei pressi di St Louis.

      Manifestazioni si sono svolte alla sede londinese di Leonardo, gruppo italiano che ad Israele fornisce gli elicotteri Apache. Il 26 ottobre scorso un centinaio di persone avevano invece bloccato l’accesso alla filiale britannica dell’azienda di armi israeliana Elbit Systems.

      Di fronte al genocidio dei palestinesi in corso a Gaza, in tutto il mondo sta montando un’ondata di indignazione che chiede il boicottaggio degli apparati militari ed economici di Israele, con un movimento che somiglia molto a quello che portò alla fine del regime di apartheid in Sudafrica.

      A livello internazionale da anni è attiva in tal senso la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) verso Israele che le autorità di Tel Aviv temono moltissimo e contro cui hanno creato un apposito dipartimento, lanciando una contro campagna di criminalizzazione del Bds in vari paesi europei e negli USA. Un tentativo evidentemente destinato a fallire.

      https://www.osservatoriorepressione.info/porti-bloccati-linvio-armi-israele

    • Genova: In centinaia bloccano il porto contro l’invio di armi a Israele

      E’ iniziato all’alba, presso il porto di Genova, il presidio per impedire il passaggio della nave della #ZIM, carica di armamenti e diretta a Israele.

      Dal varco San Benigno già centinaia le persone solidali con il popolo palestinese, tra lavoratori del porto, studenti, cittadini e realtà che vanno dal sindacalismo di base alle associazioni pacifiste e che si sono ritrovati questa mattina uniti sotto gli slogan “la guerra comincia da qui” “fermiamo le navi della morte”. Oltre al varco della ZIM bloccato anche il varco dei traghetti.

      Oltre al varco della ZIM, la principale compagnia logistica di Israele, è stato bloccato anche il varco dei traghetti.

      Il cielo di Genova si è anche illuminato di rosso (clicca qui per il video: https://www.facebook.com/watch/?v=348645561154990) con una serie di torce, a simulare quello che, tutti i giorni, accade a Gaza con l’occupazione militare israeliana: “i popoli in rivolta – dicono camalli e solidali – scrivono la storia”.

      «Sono cinque anni che facciano una serie di blocchi, scioperi, presidi, azioni anche con la comunità europea per contrastare i traffici. Principalmente contro la compagnia Bahri. Nel 2019 siamo riusciti a evitare che una nave dell’azienda saudita caricasse dal porto di Genova armi che sarebbero state utilizzate in Yemen», spiega Josè Nivoi, sindacalista dell’Usb dopo essere stato per 16 anni un lavoratore del porto: «Nella nostra chat abbiamo condiviso anche un piccolo manuale, scritto insieme all’osservatorio Weapon Watch, su come identificare i container che contengono armi. Perché ci sono degli obblighi internazionali, ad esempio, che costringono le compagnie ad applicare una serie di adesivi utili per quando i vigili del fuoco devono intervenire in caso di incendio. Che rendono riconoscibili i carichi. Mentre in altre navi le armi sono facilmente individuabili, visibili ad occhio nudo».

      Nel 2021 il Collettivo autonomo dei lavoratori portuali di Genova, insieme quelli di Napoli e Livorno ha anche cercato di bloccare una nave israeliana che stava trasportando missili italiani a Tel Aviv: «Non siamo riusciti a fermarla perché abbiamo saputo troppo tardi, dalle carte d’imbarco, che cosa trasportava. Ma da quel momento sono iniziate le nostre operazioni in solidarietà con il popolo palestinese. E abbiamo deciso di accogliere l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. Rifiutando di gestire l’imbarco di carichi di armi. Non vogliamo essere complici della guerra».
      A convocare l’iniziativa l’Assemblea contro la guerra e la repressione. “Mentre da quasi due anni in Ucraina si combatte una guerra fra blocchi di paesi capitalisti, mentre lo stato d’Israele massacra i palestinesi, mentre la guerra nucleare è dietro l’angolo, il Porto di Genova continua a caratterizzarsi come snodo della logistica di guerra: imbarchi di camion militari diretti alla Tunisia per il contrasto dei flussi migratori, passaggio di navi della ZIM, principale compagnia navale israeliana, nuovi materiali militari per l’aeronautica Saudita pronti per la prossima Bahri. Questo è quello che sta dietro ai varchi del porto di Genova. Basta traffici di armi in porto. Solidarietà internazionalista agli oppressi/e palestinesi. Il nemico è in casa nostra. Guerra alla Guerra” si legge nel comunicato che invitava alla partecipazione.
      L’iniziativa di oggi raccoglie l’invito dei sindacati palestinesi, che nei giorni scorsi avevano diffuso un appello nel quale chiedono ai lavoratori delle industrie coinvolte di rifiutarsi di costruire armi destinate ad Israele, di rifiutarsi di trasportare armi ad Israele, di passare mozioni e risoluzioni al proprio interno volte a questi obiettivi, di agire contro le aziende complicitamente coinvolte nell’implementare il brutale ed illegale assedio messo in atto da Israele, in particolare se hanno contratti con la vostra istituzione, di mettere pressione sui governi per fermare tutti i commerci militari ed in armi con Israele, e nel caso degli Stati Uniti, per interrompere il proprio sostegno economico diretto.a lottare e a opporci con tutta la nostra forza a questa guerra, boicottandola praticamente con i mezzi che abbiamo a disposizione e quindi chiediamo a tutte e tutti di partecipare al presidio.

      Il collegamento dal porto di Genova con Rosangela della redazione di Radio Onda d’Urto e le interviste ai manifestanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Rosangela-da-Genova.mp3

      Le interviste ai partecipanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/interviste-Rosangela-due.mp3



      Il blocco del molo è poi diventato corteo fino alla sede della compagnia israeliana ZIM dove si è verificato un fitto lancio di uova piene di vernice rossa. La cronaca di Rosangela della Redazione di Radio Onda d’Urto: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Rosi-da-sede-Zim-Genova.mp3

      Ancora interviste ai partecipanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/interviste-Rosangela-tre.mp3

      Corrispondenza conclusiva con un bilancio dell’iniziativa di Riccardo del Collettivo autonomo lavoratori portuali: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Corrispondenza-conclusiva-di-Riccardo-Calp-Genova.mp3

      https://www.osservatoriorepressione.info/genova-centinaia-bloccano-porto-linvio-armi-israele
      #camalli

    • Shutting Down the Port of Tacoma

      Since October 7, the Israeli military has killed over 10,000 people in Palestine, almost half of whom were children. In response, people around the world have mobilized in solidarity. Many are seeking ways to proceed from demanding a ceasefire to using direct action to hinder the United States government from channeling arms to Israel. Despite the cold weather on Monday, November 6, several hundred people showed up at the Port of Tacoma in Washington State to block access to a shipping vessel that was scheduled to deliver equipment to the Israeli military.

      In the following text, participants review the history of port blockades in the Puget Sound, share their experience at the protest, and seek to offer inspiration for continued transoceanic solidarity.
      Escalating Resistance

      On Thursday, November 2, demonstrators protesting the bombing and invasion of Gaza blocked a freeway in Durham, North Carolina and shut down 30th Street Station in Philadelphia. Early on Friday, November 3, at the Port of Oakland in California, demonstrators managed to board the United States Ready Reserve Fleet’s MV Cape Orlando, which was scheduled to depart for Tacoma to pick up military equipment bound for Israel. The Cape Orlando is owned by the Department of Transportation, directed by the Department of Defense, and managed and crewed by commercial mariners. After an hours-long standoff, the Coast Guard finally managed to get the protesters off the boat.

      Afterwards, word spread that there would be another protest when the boat arrived in Tacoma. The event was announced by a coalition of national organizations and their local chapters: Falastiniyat (a Palestinian diaspora feminist collective), Samidoun (a national Palestinian prisoner support network), and the Arab Resource & Organizing Center, which had also participated in organizing the protest in Oakland.

      The mobilization in Tacoma was originally scheduled for 2:30 pm on Sunday, November 5, but the organizers changed the time due to updated information about the ship’s arrival, calling for people to show up at 5 am on Monday. Despite fears that the last-minute change would undercut momentum, several hundred demonstrators turned out that morning. The blockade itself consisted of a continual picket at multiple points, bolstered by quite a few drivers who were willing to risk the authorities impounding their cars.

      All of the workers that the ILWU deployed for the day shift were blocked from loading the ship. Stopping the port workers from loading it was widely understood as the goal of the blockade; unfortunately, however, this did not prevent the military cargo from reaching the ship. Acting as scabs, the United States military stepped in to load it, apparently having been snuck into the port on Coast Guard vessels.

      Now that the fog of war is lifting, we can review the events of the day in detail.

      Drawing on Decades of Port Blockades

      The Pacific Northwest has a long history of port shutdowns.

      In 1984, port workers in the International Longshore and Warehouse Union (ILWU) coordinated with anti-Apartheid activists and refused to unload cargo ships from South Africa. Between 2006 and 2009, the Port Militarization Resistance movement repeatedly blockaded the ports of Olympia and Tacoma to protest against the occupation of Iraq and Afghanistan. In 2011 and 2012, participants in Occupy/Decolonize Seattle organized in solidarity with port workers in the ILWU in Longview and shut down the Port of Seattle, among other ports.

      In 2014, demonstrators blockaded the Port of Tacoma using the slogan Block the Boat, singing “Our ports will be blocked to Israel’s ships until Gaza’s ports are free.” One of the participants was the mother of Rachel Corrie, a student who was murdered in Gaza by the Israeli military in 2002 while attempting to prevent them from demolishing the homes of Palestinian families. In 2015, an activist chained herself to a support ship for Royal Dutch Shell’s exploratory oil drilling plans, using the slogan Shell No. In 2021, Block the Boat protesters delayed the unloading of the Israeli-operated ZIM San Diego ship for weeks. The Arab Resource & Organizing Center played a part in organizing the Block the Boat protests.

      Today, the Port of Tacoma appears to be the preferred loading point for military equipment in the region—perhaps because the Port Militarization Resistance successfully shut down logistics at the Port of Olympia, while Tacoma police were able to use enough violent force to keep the Port of Tacoma open for military shipments to Iraq and Afghanistan. The various port blockades fostered years of organizing between ILWU workers, marginalized migrant truck workers, environmentalists, and anti-war activists. New tactics of kayaktivism emerged out of anti-extractivism struggles in Seattle, where seafaring affinity groups were able to outmaneuver both the Coast Guard and the environmental nonprofit organizations that wanted to keep things symbolic. On one occasion, a kayaking group managed to run a Shell vessel aground without being apprehended. Some participants brought reinforced banners to the demonstration on Monday, November 6, 2023, because they remembered how police used force to clear away less-equipped demonstrators during the “Block the Boat” picket at the Port of Seattle in 2021.

      Over the years, these port blockades have inspired other innovations in the genre. In November 2017, demonstrators blockaded the railroad tracks that pass through Olympia.1 At a time when Indigenous water protector and land defense struggles were escalating and locals wanted to act in solidarity, blockading the port seemed prohibitively challenging, so they chose a section of railroad tracks via which fracking proppants were sent to the port. This occupation was arguably more defensible and effective than a port blockade would have been, lasting well over a week. It may indicate a future field for experimentation.
      Gathering at the Port

      The Port of Tacoma and the nearby ICE detention center are located in an industrial area that also houses a police academy. They are only accessible through narrow choke points; in the past, police have taken advantage of these to target and harass protesters. The preceding action at the Port of Oakland took place in a more urban terrain; as protesters prepared for the ship to dock in Tacoma, concerns grew about the various possibilities for repression. Veterans of the Port Militarization Resistance and other logistically-minded individuals compiled lists of considerations to take into account when carrying out an action at this particular port.

      On Monday morning, people showed up with positive energy and reinforced banners. Hundreds of people coordinated to bring in supplies and additional waves of picketers. The plan was to establish a picket line at every of the three entrances into Pier 7. As it turned out, the police preemptively blocked the entrances, sitting in their vehicles behind the Port fence. Demonstrators marched in circles, chanting, while others gathered material with which to create impromptu barricades.

      Other anarchists remained at a distance, standing by to do jail support and advising the participants on security precautions. Others set up at the nearby casino, investigating and squashing rumors in the growing signal groups and helping to link people to the information or communication loops they needed. Whether autonomously or in conversation with the organizers, all of them did their best to contribute to the unfolding action.

      The demonstration successfully accomplished what some had thought might be impossible, preventing the ILWU workers from loading the military shipment. Unexpectedly, this was not enough. Even seasoned longshoremen were surprised that the military could be brought in to act as scabs by loading the ship.

      Could we have focused instead on blocking the equipment from reaching the port in the first place? According to publicly available shift screens, the cargo that was eventually loaded onto the ship had already arrived at the port before the action’s originally planned 2:30 pm start time on November 5. Considering that Sunday afternoon was arguably the earliest that anyone could mobilize a mass action on such short notice, it is not surprising that the idea of blocking the cargo was abandoned in favor of blocking the ILWU workers. Of course, if the information that military supplies were entering the port had circulated earlier, something else might have been possible.

      The organizers chose the approach of blocking the workers in spite of the tension it was bound to cause with the ILWU Local 23. Our contacts in the ILWU describe the Local 23 president as a Zionist; most workers in Local 23 were supposedly against the action, despite respecting the picket.2 The president allegedly went so far as to suggest bringing in ILWU workers on boats, a plan that the military apparently rejected.

      There were rumors that a flotilla of kayaks was organizing to impede the Orlando’s departure the following morning. In the end, a canoe piloted by members of the Puyallup, Nisqually, and other Coast Salish peoples and accompanied by a few kayakers blocked the ship’s path for a short time on November 6, but nothing materialized for November 7.

      This intervention is an important reminder of the ethical and strategic necessity of working with Indigenous groups who know the land and water and preserve a living memory of struggle against colonial violence that includes repeatedly outmaneuvering the United States military.

      The ship departed, but one Stryker Armored Personnel Carrier that was scheduled for work according the ILWU shift screens was not loaded, presumably due to the picket. Given the military work-crew’s inexperience in loading shipping containers, it’s unclear how much of the shipment was completely loaded in the time allotted for the ship, as ports hold to a strict schedule in order not to disrupt capital’s global supply chains.
      Evaluation

      The main organizers received feedback in the course of the protest and adapted their strategy as the situation changed, shifting their communication to articulate what they were trying to do and explaining their choices rather than simply appealing to their authority as an organization or as Palestinians. Nonetheless, some participants have expressed displeasure about how things unfolded. It was difficult to get comprehensive information about what was going on, and this hindered people from making their own decisions and acting autonomously. Some anarchists who were on the ground report that the vessel was still being loaded when the organizers called off the event; others question the choice not to reveal the fact that the military was loading the equipment while the demonstration still had numbers and momentum.

      It is hard to determine to what extent organizers intentionally withheld information. We believe that it is important to offer constructive feedback and principled criticism while resisting the temptation to make assumptions about others’ intentions (or, at worst, to engage in snitch-jacketing, which can undermine efforts to respond to actual infiltration and security breaches in the movement and often contributes to misdiagnosing the problems in play).

      Cooperating with the authorities—especially at the expense of other radicals—is always unacceptable. This is a staple of events dominated by authoritarian organizations. Fortunately, nothing of this kind appears to have occurred during the blockade on November 6. Those on either side of this debate should be careful to resist knee-jerk reactions and to avoid projecting bad intentions onto imagined all-white “adventurists” or repressive “peace police.”

      In that spirit, we will spell out our concern. The organizers simultaneously announced that the weapons had been loaded onto the ship, and at the same time, declared victory. This fosters room for suspicion that the original intention had been to “block the boat” symbolically without actually hampering the weapons shipment, in order to create the impression of achieving a “movement win” without any substantive impact. Such empty victories can deflate movements and momentum, sowing distrust in the hundreds of people who showed up on short notice with the intention of stopping weapons from reaching Israel. It might be better to acknowledge failure, admitting that despite our best efforts, the authorities succeeded in their goal, and affirming that we have to step up our efforts if we want to save lives in Gaza. We need organizers to be honest with us so we know what we are up against.

      It’s important to highlight that ultimately it was the military that loaded the ship, not the ILWU. This move was unprecedented, just like the military spying on demonstrators during the Port Militarization Resistance. But it should not have been unexpected. From now on, we should bear in mind that the military is prepared to intervene directly in the logistics of capitalism.

      This also highlights a weakness in the strategy of blocking a ship by means of a picket line and blockading the streets around the terminal. To have actually stopped the ship, a much more disruptive action would have been called for, potentially including storming the terminal itself and risking police violence and arrests. This isn’t to say that storming the port would have been practical, nor to argue that there is never any reason to blockade the terminal in the way that we did. Rather, the point is that the mechanics of war-capitalism are more pervasive and adaptable than the strategies that people employed to block it in Oakland and Tacoma. Any form of escalation will require more militancy and risk tolerance.

      At the same time, we should be honest about our capabilities, our limits, and the challenges we face. Although many people were prepared to engage in a picket, storming a secured facility involves different considerations and material preparation, and demands a cool-headed assessment of benefits versus consequences. We should not simply blame the organizers for the fact that it did not happen. A powerful enough movement cannot be held back, not even by its leaders.

      Considering that the United States military outmaneuvered the picket strategy—and in view of the grave stakes of what is occurring Palestine—”Why not storm the port?” might be a good starting point for future strategizing. Yet from this point forward, the port is only going to become more and more secure. Another approach would be to pan back from the port, looking for points of intervention outside it. In this regard, the rail blockade in Olympia in 2017 might offer a promising example.

      Likewise, while we should explore ways to resolve differences when we have to work together, we can also look for ways to share information and coordinate while organizing autonomously. We might not be able to reach consensus about what strategy to use, but we can explore where we agree and diverge, acquire and circulate intelligence, and try many different strategies at once.

      The logic and logistics of the ruling order are intertwined all the world over. Israeli weapons helped Azerbaijan invade the Armenian enclave of Nagorno-Karabakh in September. The technologies of surveillance, occupation, and repression, refined from besieging Gaza and fragmenting the West Bank, are deployed along the deadly southern border of the United States. The FBI calls Israeli tech firms when they need to hack into someone’s phone. Everything is connected, from the ports on the Salish Sea to the eastern coast of the Mediterranean.

      Here’s to mutiny in the belly of the empire. If not us, then who? If not now, then when?

      https://pugetsoundanarchists.org/shutting-down-the-port-of-tacoma

    • Des #syndicats du monde entier tentent d’empêcher les livraisons d’armes vers Israël

      #Liège, Gênes, Barcelone, #Melbourne, #Oakland, #Toronto et peut-être bientôt différents ports français… Depuis le début du bombardement de Gaza, des syndicats ont tenté de bloquer des livraisons d’armes vers Israël, rappelant la tradition de lutte internationaliste du syndicalisme. Des initiatives insuffisantes pour entraver l’armement du pays, mais qui ont le mérite de mettre les États exportateurs d’armes face à leurs responsabilités.

      Peut-on compter sur la solidarité internationaliste des syndicats pour mettre fin à l’attaque de Gaza ? C’est en tout cas ce que veut croire la coordination syndicale Workers in Palestine. Composée de dizaines de syndicats palestiniens rassemblant travailleurs agricoles, pharmaciens ou encore enseignants, elle a lancé un appel aux travailleurs du monde entier afin d’entraver l’acheminement de matériel militaire vers Israël.

      « Nous lançons cet appel alors que nous constatons des tentatives visant à interdire et à réduire au silence toute forme de solidarité avec le peuple palestinien. Nous vous demandons de vous exprimer et d’agir face à l’injustice, comme les syndicats l’ont fait historiquement », écrivait-elle le 16 octobre. Dans la foulée, elle appelait à deux journées d’actions internationales les 9 et 10 novembre pour empêcher les livraisons d’armes.

      Tradition de lutte anti-impérialiste du syndicalisme

      En rappelant la tradition internationaliste du syndicalisme, Workers in Palestine inscrit son appel dans l’histoire des luttes syndicales contre les guerres impérialistes et coloniales. Une tradition qui n’est pas étrangère aux syndicats Français. Ainsi, en 1949, une grève organisée par les dockers de la CGT sur le port de Marseille permettait de bloquer plusieurs bateaux destinés à acheminer des armes vers l’Indochine, alors en pleine guerre de décolonisation. Et ce mode d’action n’a pas été oublié depuis. En 2019, les dockers du port de Gênes se sont mis en grève afin de ne pas avoir à charger un navire soupçonné de transporter des armes (françaises) vers l’Arabie Saoudite. « On a aussi fait des actions pendant la guerre en Irak », se remémore Didier Lebbe, secrétaire permanent de la CNE, un des syndicats belge qui a récemment refusé de transporter des armes vers Israël.

      Qu’ils répondent consciemment à l’appel de Workers in Palestine ou non, des syndicats et des collectifs citoyens ont organisé des actions sur des lieux stratégiques du commerce d’armes depuis le début des bombardements sur Gaza. Des blocages et des manifestations ont eu lieu sur les ports de Tacoma aux Etat-unis, ou encore à Melbourne, en Australie ou à Toronto au Canada. A Barcelone, des dockers ont déclaré vouloir refuser de charger ou de décharger tout matériel militaire en lien avec les bombardements à Gaza. Nous avons choisi de nous attarder sur quatre de ces initiatives.

      A Gênes, les dockers visent une entreprise de matériel militaire

      « De 2019 à aujourd’hui, nous avons bloqué presque deux fois par an les navires transportant des armes vers des zones de guerre comme le Yémen, le Kurdistan, l’Afrique et Gaza », explique Josè Nivoi, docker génois et syndicaliste à l’Unions Sindicale di Base (USB). C’est dans la continuité de ces actions qu’il s’est mobilisé avec ses collègues et son syndicat, à l’appel de Workers in Palestine. Vendredi 10 novembre, près de 400 personnes ont manifesté devant le port de Gênes pour protester contre l’envoi d’armes en Israël. Les dockers ont ensuite marché vers les locaux de Zim integrated Shipping Service, une entreprise israélienne de transport de marchandises et de matériel militaire.

      Après l’attaque du Hamas le 7 octobre, cette dernière a proposé son aide à Israël afin d’y acheminer du matériel. « Nous avons des camarades qui surveillent les navires et peuvent voir s’il y a des armes à bord », glisse le docker. Il ajoute que cette action s’inscrit dans la tradition, encore très forte à Gênes, des mobilisation anti-fasciste et anti-impérialsites : « Nous avons toujours été solidaires des peuples qui luttent pour l’autodétermination, et la question palestinienne fait partie de ces luttes. Nous sommes des travailleurs internationalistes et c’est pourquoi nous voulons nous battre pour essayer de changer les choses », explique le docker.

      En Angleterre, une usine d’armes bloquée temporairement

      Le même jour, près de 400 syndicalistes ont bloqué l’usine d’armes de l’entreprise BAE, à Rochester en Angleterre. L’usine d’arme fabrique notamment des « systèmes d’interception actif » pour les jet F35, « utilisés actuellement par Israël pour bombarder Gaza », écrivent les syndicats organisateurs de cette mobilisation. Art, culture, éducation, santé, sept organisations syndicales se sont retrouvées sous le mot d’ordre « Travailleurs pour une Palestine libre », répondant également à l’appel des syndicats palestiniens du 16 octobre.

      « L’industrie d’armement britannique, subventionnée par de l’argent public, est impliquée dans les massacres de Palestiniens. Nous sommes ici aujourd’hui pour perturber la machine de guerre israélienne et prendre position contre la complicité de notre gouvernement et nous exhortons les travailleurs de tout le Royaume-Uni à prendre des mesures similaires sur leurs lieux de travail et dans leurs communautés », explique une professeur qui manifestait vendredi à Dorchester.

      En Belgique les syndicats de l’aviation refusent de charger des armes vers Israël

      Si les avions de passagers ne relient plus Israël et la Belgique depuis l’attaque du Hamas, des avions cargos continuent de transporter des armes vers l’État hébreu, selon des syndicats. « On constate même une augmentation des vols cargo depuis Liège vers Tel Aviv », confie Christian Delcourt, porte-parole de l’aéroport de Liège, à la presse belge. Un phénomène qui n’a pas échappé aux travailleurs de ces sites. « Dans le courant du mois d’octobre, des manutentionnaires nous ont informés qu’ils chargeaient des armes dans des avions civils commerciaux. D’habitude, ces cargaisons doivent être transportées par des avions militaires. Mais quoi qu’il en soit, il n’était pas question pour eux de participer à une guerre, particulièrement quand on sait que des civils sont massacrés », explique Didier Lebbe, secrétaire permanent de la CNE. Le syndicat chrétien, majoritaire dans ces aéroports, prend alors contact avec trois autres syndicats du secteur pour rédiger un communiqué commun. « Alors qu’un génocide est en cours en Palestine, les travailleurs des différents aéroports de Belgique voient des armes partir vers des zones de guerre », écrivent-ils fin octobre. L’initiative fait en partie mouche : « parmi les deux compagnies aériennes qui effectuent ces livraisons, l’une d’elle les a arrêtées. L’autre, c’est une compagnie israélienne », soutient Didier Lebbe.

      En France, les dockers s’organisent

      En France, si aucun syndicat n’a pour l’instant appelé à des actions sur les lieux de travail, la fédération CGT Ports et docks pourrait bientôt rejoindre le mouvement international. La semaine prochaine, au port du Pirée à Athènes,12 organisations syndicales de dockers et portuaires européennes, membres de l’EDC (European Dockworkers Council )doivent se réunir pour une assemblée générale. « Au niveau français, on va pousser pour obtenir une journée d’arrêt de travail dans tous les ports européens pour manifester notre volonté d’un processus de paix, et dénoncer tous les conflits armés », affirme Tony Hautbois, secrétaire général de la fédération CGT Ports et docks. La possibilité d’un boycott des syndicats sur le transport d’armes vers Israël sera aussi en débat, il pourrait déboucher sur une position commune entre ces syndicats, qui regroupent 20 000 dockers à travers l’Europe.

      D’autres syndicats français ont également mis en avant la nécessité d’une action sur l’outil de travail pour empêcher les livraisons d’armes vers Israël. La fédération Sud-Rail a ainsi appelé à s’exprimer dans la rue « mais aussi avec les méthodes de la lutte des classes, comme la grève ». Sur le réseau social X (ex-Twitter), l’union locale CGT de Guingamp a relayé l’appel de Workers in Palestine.

      Des actions symboliques qui ne pèsent pas réellement sur le conflit…

      Pourtant, même si les initiatives syndicales essaiment, elles ne suffisent pas à entraver la capacité d’armement d’Israël. « Même si la vente de matériel militaire était bloquée en France, cela ne pèserait pas beaucoup. On estime que notre pays vend environ 20 millions d’euros de composants militaires par an à Israël. C’est incomparable avec ce que l’on vend aux Emirats arabes unis, par exemple », explique Patrice Bouveret, cofondateur de l’Observatoire des armements, centre d’étude antimilitariste basé à Lyon. A cela s’ajoutent les ventes de biens dits « à double usage », des composants qui peuvent servir pour produire du matériel militaire, ou non. « Mais il s’agit de matériel d’une telle précision qu’il est bien souvent utilisé uniquement pour les armes », commente Patrice Bouveret. Ces biens représentent une somme évaluée à 34 millions par le ministère de l’économie dans un rapport (voir tableau p. 38) remis aux parlementaires en juin 2023.

      « Le principal fournisseur d’armes à Israël, ce sont les États-Unis : près de 4 milliards d’euros de vente d’armes. Les américains entreposent également des stocks d’armes en Israël dans laquelle cette dernière peut puiser. Enfin, comme Israël a des capacités de production, elle peut importer des composants moins chers, qu’elle pourra elle-même transformer », continue Patrice Bouveret.

      …mais qui mettent les États face à leurs responsabilités

      Ces actions ont toutefois le mérite de poser la question de la responsabilité des États producteurs ou exportateurs d’armes dans les bombardements israéliens sur la bande de Gaza et sa population. Alors que 10 000 personnes sont mortes sous les bombes israéliennes, dont 4000 enfants, les termes « nettoyage ethnique », « génocide », ou « crimes de guerre » commencent à se faire entendre dans les plus hautes instances internationales. « La punition collective infligée par Israël aux civils palestiniens est également un crime de guerre, tout comme l’évacuation forcée illégale de civils », a déclaré Volker Türk, Haut Commissaire des Nations unies pour les réfugiés, le 8 novembre.

      Les accords et traités internationaux sont très clairs sur l’implication de pays tiers dans la commission de crimes de guerre, notamment par le biais de la vente d’armes. Le traité sur le commerce des armes (TCA), interdit tout transfert d’armes qui pourrait être employé dans le cadre de crimes de guerre. Amnesty international a déjà alerté sur l’implication de la France dans la vente d’armes à l’Arabie Saoudite, accusée de bombarder sans distinction la population civile au Yémen, où elle mène une guerre contre les rebelles Houthis, depuis huit ans.

      Quant à savoir si les bombardement israéliens constituent un crime de guerre ou un génocide, c’est à la cour pénale Internationale d’en décider. Une plainte pour « génocide » a déjà été déposée par une centaines de palestiniens, tandis que la France enquête déjà sur de possibles « crimes de guerre » du Hamas. Reporter sans Frontière a aussi déposé une plainte pour « crimes de guerres » après la mort de journalistes palestiniens et israéliens. Enfin, l’ONU enquête actuellement en Israël et en Palestine sur de possibles crimes de guerres, en lien avec l’attaque du Hamas le 7 octobre, ou les bombardements israéliens sur la bande de Gaza depuis un mois.

      https://rapportsdeforce.fr/linternationale/des-syndicats-du-monde-entier-tentent-dempecher-les-livraisons-darme

  • Crise capitaliste au moyen orient | Guillaume Deloison
    https://guillaumedeloison.wordpress.com/2018/10/08/dawla-crise-capitaliste-au-moyen-orient

    ISRAËL ET PALESTINE – CAPITAL, COLONIES ET ÉTAT

    Le conflit comme Histoire

    A la fin des guerres napoléoniennes, certaines parties du Moyen-Orient se retrouvèrent envahies par le nouveau mode de production capitaliste. Dans cette région, l’industrie textile indigène, surtout en Egypte, fut détruite par les textiles anglais bon marché dans les années 1830. Dès les années 1860, les fabricants britanniques avaient commencé à cultiver le coton le long du Nil. En 1869, on ouvrit le canal de Suez dans le but de faciliter le commerce britannique et français. Conformément à cette modernisation, on peut dater les origines de l’accumulation primitive en #Palestine à la loi de l’#Empire_ottoman de 1858 sur la #propriété_terrienne qui remplaçait la propriété collective par la propriété individuelle de la terre. Les chefs de village tribaux se transformèrent en classe de propriétaires terriens qui vendaient leurs titres aux marchands libanais, syriens, égyptiens et iraniens. Pendant toute cette période, le modèle de développement fut surtout celui d’un développement inégal, avec une bourgeoisie étrangère qui prenait des initiatives et une bourgeoisie indigène, si l’on peut dire, qui restait faible et politiquement inefficace.

    Sous le #Mandat_britannique, de nombreux propriétaires absentéistes furent rachetés par l’Association de colonisation juive, entraînant l’expulsion de métayers et de fermiers palestiniens. Étant donné que les dépossédés devaient devenir #ouvriers_agricoles sur leurs propres terres, une transformation décisive des relations de production commençait, conduisant aux premières apparitions d’un #prolétariat_palestinien. Ce processus eut lieu malgré une violente opposition de la part des #Palestiniens. Le grand tournant dans une succession de #révoltes fut le soulèvement de #1936-1939. Son importance réside dans le fait que « la force motrice de ce soulèvement n’était plus la paysannerie ou la bourgeoisie, mais, pour la première fois, un prolétariat agricole privé de moyens de travail et de subsistance, associé à un embryon de classe ouvrière concentrée principalement dans les ports et dans la raffinerie de pétrole de Haïfa ». Ce soulèvement entraîna des attaques contre des propriétaires palestiniens ainsi que contre des colons anglais et sionistes. C’est dans le même temps que se développa le mouvement des #kibboutz, comme expérience de vie communautaire inspiré notamment par des anarchistes comme Kropotkine, s’inscrivant dans le cadre du sionisme mais opposées au projet d’un état.

    La Seconde Guerre mondiale laissa un héritage que nous avons du mal à imaginer. L’implantation des juifs en Palestine, déjà en cours, mais de faible importance entre 1880 et 1929, connaît une augmentation dans les années 1930 et puis un formidable élan dans l’après-guerre ; de ce processus naquit #Israël. Le nouvel Etat utilisa l’appareil légal du Mandat britannique pour poursuivre l’expropriation des Palestiniens. La #prolétarisation de la paysannerie palestinienne s’étendit encore lors de l’occupation de la Cisjordanie et de la Bande de Gaza en 1967. Cette nouvelle vague d’accumulation primitive ne se fit pas sous la seule forme de l’accaparement des #terres. Elle entraîna aussi le contrôle autoritaire des réserves d’#eau de la Cisjordanie par le capital israélien par exemple.

    Après la guerre de 1967, l’Etat israélien se retrouvait non seulement encore entouré d’Etats arabes hostiles, mais aussi dans l’obligation de contrôler la population palestinienne des territoires occupés. Un tiers de la population contrôlée par l’Etat israélien était alors palestinienne. Face à ces menaces internes et externes, la survie permanente de l’Etat sioniste exigeait l’unité de tous les Juifs israéliens, occidentaux et orientaux. Mais unir tous les Juifs derrière l’Etat israélien supposait l’intégration des #Juifs_orientaux, auparavant exclus, au sein d’une vaste colonie de travail sioniste. La politique consistant à établir des colonies juives dans les territoires occupés est un élément important de l’extension de la #colonisation_travailliste sioniste pour inclure les Juifs orientaux auparavant exclus. Bien entendu, le but immédiat de l’installation des #colonies était de consolider le contrôle d’Israël sur les #territoires_occupés. Cependant, la politique de colonisation offrait aussi aux franges pauvres de la #classe_ouvrière_juive un logement et des emplois qui leur permettaient d’échapper à leur position subordonnée en Israël proprement dit. Ceci ne s’est pas fait sans résistance dans la classe ouvrière Israélienne, certain s’y opposaient comme les #Panthéres_noire_israélienne mais l’#Histadrout,« #syndicat » d’Etat et employeur important s’efforçait d’étouffer les luttes de la classe ouvrière israélienne, comme par exemple les violents piquets de grève des cantonniers.

    En 1987, ce sont les habitants du #camp_de_réfugiés de Jabalya à Gaza qui furent à l’origine de l’#Intifada, et non l’#OLP (Organisation de Libération de la Palestine) composé par la bourgeoisie Palestinienne, basée en Tunisie et complètement surprise. Comme plus tard en 2000 avec la seconde intifada, ce fut une réaction de masse spontanée au meurtre de travailleurs palestiniens. A long terme, l’Intifada a permis de parvenir à la réhabilitation diplomatique de l’OLP. Après tout, l’OLP pourrait bien être un moindre mal comparée à l’activité autonome du prolétariat. Cependant, la force de négociation de l’OLP dépendait de sa capacité, en tant que « seul représentant légitime du peuple palestinien », à contrôler sa circonscription, ce qui ne pouvait jamais être garanti, surtout alors que sa stratégie de lutte armée s’était révélée infructueuse. Il était donc difficile pour l’OLP de récupérer un soulèvement à l’initiative des prolétaires, peu intéressés par le nationalisme, et qui haïssaient cette bourgeoisie palestinienne presque autant que l’Etat israélien.

    Quand certaines personnes essayèrent d’affirmer leur autorité en prétendant être des leaders de l’Intifada, on raconte qu’un garçon de quatorze ans montra la pierre qu’il tenait et dit : « C’est ça, le leader de l’Intifada. » Les tentatives actuelles de l’Autorité palestinienne pour militariser l’Intifada d’aujourd’hui sont une tactique pour éviter que cette « anarchie » ne se reproduise. L’utilisation répandue des pierres comme armes contre l’armée israélienne signifiait qu’on avait compris que les Etats arabes étaient incapables de vaincre Israël au moyen d’une guerre conventionnelle, sans parler de la « lutte armée » de l’OLP. Le désordre civil « désarmé » rejetait obligatoirement « la logique de guerre de l’Etat » (bien qu’on puisse aussi le considérer comme une réaction à une situation désespérée, dans laquelle mourir en « martyr » pouvait sembler préférable à vivre dans l’enfer de la situation présente). Jusqu’à un certain point, le fait de lancer des pierres déjouait la puissance armée de l’Etat d’Israël.

    D’autres participants appartenaient à des groupes relativement nouveaux, le #Hamas et le #Jihad_Islamique. Pour essayer de mettre en place un contrepoids à l’OLP, Israël avait encouragé la croissance de la confrérie musulmane au début des années 1980. La confrérie ayant fait preuve de ses sentiments anti-classe ouvrière en brûlant une bibliothèque qu’elle jugeait être un » foyer communiste « , Israël commença à leur fournir des armes.

    D’abord connus comme les « accords Gaza-Jéricho », les accords d’Oslo fit de l’OLP l’autorité palestinienne. Le Hamas a su exploiter ce mécontentement tout en s’adaptant et en faisant des compromis. Ayant rejeté les accords d’Oslo, il avait boycotté les premières élections palestiniennes issues de ces accords en 1996. Ce n’est plus le cas désormais. Comme tous les partis nationalistes, le Hamas avec son discours religieux n’a nullement l’intention de donner le pouvoir au peuple, avec ou sans les apparences de la démocratie bourgeoise. C’est d’ailleurs ce qu’il y a de profondément commun entre ce mouvement et l’OLP dans toutes ses composantes : la mise en place d’un appareil politico-militaire qui se construit au cours de la lutte, au nom du peuple mais clairement au-dessus de lui dès qu’il s’agit de prendre puis d’exercer le pouvoir. Après plusieurs années au gouvernement, le crédit du Hamas est probablement et selon toute apparence bien entamé, sans que personne non plus n’ait envie de revenir dans les bras du Fatah (branche militaire de l’OLP). C’est semble-t-il le scepticisme, voire tout simplement le désespoir et le repli sur soi, qui semblent l’emporter chaque jour un peu plus au sein de la population.

    Le sionisme, un colonialisme comme les autres ?

    Dans cette situation, la question de déterminer les frontières de ce qui délimiterait un État israélien « légitime » est oiseuse, tant il est simplement impossible : la logique de l’accaparement des territoires apparaît inséparable de son existence en tant qu’État-nation. S’interroger dans quelle mesure l’État israélien est plus ou moins « légitime » par rapport à quelque autre État, signifie simplement ignorer comment se constituent toujours les États-nations en tant qu’espaces homogènes.

    Pour comprendre la situation actuelle il faut appréhender la restructuration générale des rapports de classes à partir des années 1970. Parallèlement aux deux « crises pétrolières » de 1973-74 et 1978-80, à la fin du #nationalisme_arabe et l’ascension de l’#islamisme, la structure économique et sociale de l’État d’Israël change radicalement. Le #sionisme, dans son strict sens, fut la protection et la sauvegarde du « travail juif », soit pour le capital israélien, contre la concurrence internationale, soit pour la classe ouvrière contre les prolétaires palestiniens : ce fut en somme, un « compromis fordiste » post-1945, d’enracinement d’une fraction du capital dans dans un État-nation. Le sionisme impliquait qu’il donne alors à l’État et à la société civile une marque de « gauche » dans ce compromis interclassiste et nationaliste. C’est ce compromis que le Likoud a progressivement liquidé ne pouvant plus garantir le même niveau de vie au plus pauvres. Pourtant la définition d’Israël comme « État sioniste » résiste. Agiter des mots comme « sioniste », « lobby », etc. – consciemment ou pas – sert à charger l’existence d’Israël d’une aire d’intrigue, de mystère, de conspiration, d’exceptionnalité, dont il n’est pas difficile de saisir le message subliminal : les Israéliens, c’est-à-dire les Juifs, ne sont pas comme les autres. Alors que le seul secret qu’il y a dans toute cette histoire, c’est le mouvement du capital que peu regardent en face. La concurrence généralisé, qui oppose entre eux « ceux d’en haut » et aussi « ceux d’en bas ». L’aggravation de la situation du prolétariat israélien et la quart-mondialisation du prolétariat palestinien appartiennent bien aux mêmes mutations du capitalisme israélien, mais cela ne nous donne pour autant les conditions de la moindre « solidarité » entre les deux, bien au contraire. Pour le prolétaire israélien, le Palestinien au bas salaire est un danger social et de plus en plus physique, pour le prolétaire palestinien les avantages que l’Israélien peut conserver reposent sur son exploitation, sa relégation accrue et l’accaparement des territoires ».

    La #solidarité est devenue un acte libéral, de conscience, qui se déroule entièrement dans le for intérieur de l’individu. Nous aurons tout au plus quelques slogans, une manifestation, peut-être un tract, deux insultes à un flic… et puis tout le monde rentre chez soi. Splendeur et misère du militantisme. Entre temps, la guerre – traditionnelle ou asymétrique – se fait avec les armes, et la bonne question à se poser est la suivante : d’où viennent-elles ? Qui les paye ? Il fut un temps, les lance-roquettes Katioucha arrivaient avec le « Vent d’Est ». Aujourd’hui, pour les Qassam, il faut dire merci à la #Syrie et à l’#Iran. Il fut un temps où l’on pouvait croire que la Révolution Palestinienne allait enflammer le Tiers Monde et, de là, le monde entier. En réalité le sort des Palestiniens se décidait ailleurs, et ils servirent de chair à canon à l’intérieur des équilibres de la #Guerre_Froide. Réalité et mythe de la « solidarité internationale ».

    Nous savons trop bien comment la #religion peut être « le soupir de la créature opprimée, le sentiment d’un monde sans cœur » (Karl Marx, Contribution à la critique de la philosophie du droit de Hegel). Mais cette généralité vaut en Palestine, en Italie comme partout ailleurs. Dans le Proche et Moyen-Orient, comme dans la plupart des pays arabes du bassin méditerranéen, l’islamisme n’est pas une idéologie tombée du ciel, elle correspond à l’évolution des luttes entre les classes dans cette zone, à la fin des nationalisme arabe et la nécessité de l’appareil d’état pour assurer l’accumulation capitaliste. Le minimum, je n’ose même pas dire de solidarité, mais de respect pour les prolétaires palestiniens et israeliens, nous impose tout d’abord d’être lucides et sans illusions sur la situation actuelle ; de ne pas considérer le prolétariat palestinien comme des abrutis qui se feraient embobiner par le Hamas ni comme des saints investi par le Mandat du Ciel Prolétarien ; de ne pas considérer le prolétariat israélien comme des abruti qui serait simplement rempli de haine envers les palestinien ni comme des saint dont la situation ne repose pas sur l’exploitation d’autres. L’#antisionisme est une impasse, tout comme l’#antimondialisme (défense du #capital_national contre le capital mondialisé), ou toutes les propositions de gestion alternative du capital, qui font parties du déroulement ordinaire de la lutte des classe sans jamais abolir les classes. Sans pour autant tomber dans un appel à la révolution globale immédiate pour seule solution, il nous faut partir de la réalité concrètes et des divisions existantes du mode de production, pour s’y attaquer. Le communisme n’est pas le fruit d’un choix, c’est un mouvement historique. C’est avec cette approche que nous cherchons à affronter cette question. Il en reste pas moins que désormais – à force de réfléchir a partir de catégories bourgeoises comme « le droit », « la justice » et « le peuple » – il n’est pas seulement difficile d’imaginer une quelconque solution, mais il est devenu quasi impossible de dire des choses sensées à cet égard.

    (version partiellement corrigée de ses erreurs typo et orthographe par moi)

  • Écoutez les personnes handicapées ou dégagez de notre chemin | griffin epstein, kate klein
    https://cabrioles.substack.com/p/ecoutez-les-personnes-handicapees

    Si le COVID-19 menace de manière disproportionnée les personnes qui sont déjà confrontées à une oppression structurelle et/ou qui ont des problèmes de santé préexistants, la pandémie est également en soi un événement handicapant de masse. Une chose est claire : pour protéger efficacement les travailleur·euses dans un monde qui n’est décidément pas post-pandémique, les syndicats devront écouter les mouvements populaires menés par les personnes handicapées et d’autres travailleur·euses opprimé·es, ou bien dégager de notre chemin.

    kate klein (iel) est animateur·ice, enseignant·e et militant·e. Iel s’organise au sein de son collectif abolitionniste local pour créer de la sécurité sans/malgré la police dans son quartier, et contre le validisme en milieu de travail avec griffin et d’autres travailleur·euses universitaires malades et handicapés. rebelpedagogy.ca

    griffin epstein (iel) est éducateur·ice blan·che fol/psychiatrisé·e, chercheu·se engagé·e localement et poéte à Toronto (Dish with One Spoon/Two Row/Treaty 13 territory). griffin.epstein.com

    Dans l’État américain du Tennessee, deux lois entravent les luttes syndicales pour la sécurité sur les lieux de travail : les employeur·euses ne peuvent pas imposer de vaccins ou de masques, et les lieux de travail ne peuvent pas être entièrement syndiqués. Ainsi, dès les premiers jours de la pandémie de COVID-19, les enseignant·es du programme de médecine, de santé et de sciences de l’université Vanderbilt de Nashville ont pris les choses en main. Iels ont créé une « banque de masques » gratuite pour les étudiant·es et le personnel en mettant en commun leurs ressources pour acheter et distribuer des masques de haute qualité. Aimi Hamraie, professeur·e, se souvient : « Nous avons fini par essayer d’obtenir de l’université qu’elle nous laisse payer ces masques sur nos fonds de recherche, parce que [...] nous fournissions ce qui devrait être une ressource et un service institutionnel pour les gens. Mais l’université n’a pas voulu nous laisser utiliser nos fonds de recherche pour acheter des masques, car il n’y a pas de catégorie dans son système de remboursement pour les EPI. » Les travailleur·euses impliqué·es ont fait savoir qu’iels ne devraient pas avoir à payer pour l’équipement de protection individuelle (EPI) sur leur lieu de travail, mais l’université n’a pas voulu bouger, et iels n’allaient pas se mettre en danger, ni mettre en danger leurs étudiant·es.

    #travail #EPI #masques #covid #syndicat

  • #Premier_de_corvée

    Malgré deux emplois dans la #restauration et la #livraison, la vie hors des radars d’un travailleur clandestin malien. Un documentaire qui raconte par l’exemple les #luttes des sans-papiers en France, estimés à près de 700 000, pour de meilleures conditions d’existence.

    Depuis son arrivée en France en 2018, Makan cumule deux boulots : plongeur dans une brasserie chic près des Champs-Élysées et livreur à vélo. Solitaire et sacrifiée, la vie de ce Malien de 35 ans est tout entière dédiée au travail, qui lui permet de subvenir aux besoins de sa famille restée au pays, une femme et des enfants qu’il n’a pas vus depuis bientôt quatre ans. « On n’est pas venu ici pour prendre des photos de la tour Eiffel. On est venu ici pour bosser. Ta famille est dans la merde, toi aussi t’es dans la merde », confie-t-il. Comme des centaines de milliers d’autres personnes en France, cantonnées aux #marges de la société alors qu’ils font tourner des pans entiers de l’#économie, Makan est sans-papiers. Il espère sortir de la #clandestinité et, en attendant, « reste dans [son] coin », effectuant avec courage ces métiers ingrats que seule une main-d’oeuvre précaire accepte désormais. « Si les immigrés ne se présentaient pas, je ne sais pas qui prendrait leur place », reconnaît sans ciller sa cheffe de cuisine. En attendant, Makan se demande pourquoi sa vie reste si difficile en France, « le pays des droits »...

    Existences invisibles
    Entre spleen et courage, le documentaire suit le quotidien d’un travailleur sans-papiers dans sa quête de régularisation, précieux sésame qui lui permettrait de se rendre dans son pays natal pour revoir ses proches qui subsistent grâce à son sacrifice. Aidé notamment par des militants syndicaux de la #CGT, Makan, qui tente de sortir de l’ornière administrative où il s’est enlisé, a rejoint la #lutte de ceux qui se mettent en grève pour obtenir de meilleures #conditions_de_travail. Mettant en lumière ces « premiers de corvées » condamnés à mener des existences invisibles (ils seraient près de 700 000 en France), ce film révèle sans misérabilisme le vécu intime de l’exil, de la clandestinité et de l’#abnégation.

    https://www.arte.tv/fr/videos/107817-000-A/premier-de-corvee
    https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/68753_0
    #film #documentaire #film_documentaire #sans-papiers #travail #migrations #régularisation #France #logement #travailleurs_sans-papiers #sacrifice #déqualification #syndicat #grève

    ici aussi (via @kassem) :
    https://seenthis.net/messages/1006257

  • Changer de boussole. La croissance ne vaincra pas la pauvreté

    « En tant que moyen de lutter contre la pauvreté et les #inégalités, la #croissance_économique a franchi le pic de son utilité : dans les pays riches, elle est devenue contre-productive.

    Elle nous a conduit à franchir une série de limites planétaires : la Terre ne peut plus continuer à fournir des ressources à ce rythme, ni à absorber les déchets et la pollution causés par notre culture du jetable et notre désir infini de consommer. Mais la quête de croissance a aussi conduit à augmenter les inégalités et l’#exclusion_sociale. Au nom de cette quête, on a flexibilisé le #marché_du_travail, et on a encouragé l’émergence d’un #précariat_mondial. On a abaissé les obstacles aux échanges commerciaux et à l’investissement, ce qui a fragilisé les travailleurs et travailleuses les moins qualifiés et affaibli le pouvoir de négociation des #syndicats. On a encouragé la marchandisation de pans entiers de l’existence, au risque d’augmenter encore la mise à l’écart de celles et ceux qui ont le moins.

    Depuis quarante ans, la quête de croissance a ainsi créé de l’exclusion, et elle a conduit à une augmentation massive des inégalités. Il nous faut autre chose : il nous faut imaginer la #prospérité sans croissance. C’est à cette condition qu’on pourra réconcilier la population, y compris les plus précarisés, avec la #transformation_écologique : faire en sorte que celle-ci soit vue comme une opportunité plutôt que comme un fardeau. »

    http://www.editionslesliensquiliberent.fr/livre-Changer_de_boussole-9791020924889-1-1-0-1.html
    #livre #pauvreté #croissance #travail

  • Tribune de Sophie Binet : « La vérité sort de la bouche des jeunes générations tristement obligées de bifurquer pour trouver un travail qui ait du sens »

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/10/13/sophie-binet-le-travail-et-son-organisation-sont-au-centre-d-une-question-de

    La secrétaire générale de la CGT propose, dans une tribune au « Monde », l’ouverture de cinq chantiers pour permettre aux salariés de retrouver la maîtrise du sens et du contenu de leur travail.

    La mobilisation contre la réforme des retraites a mis sur le devant de la scène la dégradation des conditions de travail et le fait qu’une large majorité de salariés ne se voient pas « tenir » à leur poste jusqu’à 64 ans, voire 67 ans. Pourtant, à l’image des « premières de corvées » découvertes avec le Covid-19 et aussitôt oubliées, la question du travail est de nouveau sortie des radars. Le politique a abandonné le sujet de longue date quand, côté syndical, nous peinons à trouver des leviers d’action, tant les moyens et prérogatives des représentants du personnel ont reculé ces dernières années.

    Résultat : alors que le travail occupe une place centrale dans nos vies, son organisation et sa finalité sont abandonnées au patronat, comme si le lien de subordination donnait les pleins pouvoirs à l’employeur. Le travail et son organisation sont au centre d’une question démocratique majeure. Permettre aux salariés de retrouver la maîtrise du sens et du contenu de leur travail, c’est reprendre la main sur le progrès technologique et donner les moyens à notre force de travail de répondre aux besoins sociaux et environnementaux plutôt qu’à dégager toujours plus de valeur pour les actionnaires. Pour cela, il faut ouvrir cinq chantiers.

  • [Émissions spéciales] Escapade chez les escapés - film d’atelier
    https://www.radiopanik.org/emissions/emissions-speciales/escapade-chez-les-escapes-film-datelier

    Ateliers urbains se racontent. Avec Charles, Jonathan, Martin, Daniel, Ghizlane, Liévin, reçus par Arthur en Studio.

    Quelques I.M.M.E.N.S.E.S (Individu dans une Merde Matérielle Énorme mais Non Sans Exigences) visitent les beaux quartiers de #bruxelles. Au nombre des concernés par l’implacable crise du #logement, ils offrent leur regard. Leur vécu perce la fragilité des couches sociales, transcende notre peur de dégringoler.

    Comme dans un safari pistant l’insaisissable “riche”, planqué derrière les hautes haies des quartiers nantis à l’orée de la Forêt de Soignes, ces sans-chez-soi débusquent ce qu’en fait tous·tes savent : la ville est pauvre mais bordée au sud et à l’est d’Îlots de privilégiés ; héritage historique certes, égoïsme urbanistique surtout.

    Dans un récit poétique, poignant, semé de situations (...)

    #watermael-boitsfort #uccle #cinéma_documentaire #syndicat_des_immenses #ateliers_urbains #woluwé #sans-chezsoirisme #auderghem #logement,bruxelles,watermael-boitsfort,uccle,cinéma_documentaire,syndicat_des_immenses,ateliers_urbains,woluwé,sans-chezsoirisme,auderghem
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/emissions-speciales/escapade-chez-les-escapes-film-datelier_16600__1.mp3

  • Trois syndicalistes CGT hôtellerie jugés pour escroquerie
    https://france3-regions.francetvinfo.fr/paris-ile-de-france/hauts-de-seine/trois-syndicalistes-cgt-hotellerie-juges-pour-escroquer

    Le ministère public a requis huit et cinq mois de prison avec sursis mercredi contre deux syndicalistes de la CGT HPE, Hôtels de prestige et économiques, jugés pour escroquerie, devant le tribunal correctionnel de Nanterre. lls sont accusés d’avoir sollicité des dons auprès des salariés qu’ils défendaient.

    À la barre du tribunal de Nanterre mercredi, l’ex-trésorier du syndicat Claude Lévy, son épouse Tiziri K. et un troisième syndicaliste. Les trois prévenus sont accusés d’avoir sollicité des #dons auprès des salariés qu’ils défendaient devant les #prud'hommes. Ils sont soupçonnés de les avoir incités à verser à leur #syndicat 10% des sommes obtenues devant ces juridictions. Au total, 46 personnes se sont constituées parties civiles, ainsi que l’Union départementale CGT Paris et l’Union régionale Île-de-France CGT .

    Claude Levy est bien connu dans le monde de l’#hôtellerie en Ile-de-France. Il s’est notamment engagé en 2013 dans la défense de #femmes_de_chambres qui demandaient à être embauchées dans un palace parisien, le #Park_Hyatt Paris-Vendôme ou plus récemment il y a deux ans, au côté d’autres femmes de chambres de l’hôtel #IBIS_Batignoles. Elles exigeaient une amélioration de leurs #salaires.

    10 % de dons

    Mercredi au tribunal, les trois #syndicalistes ont rejeté en bloc assurant ces 10% des sommes versés par des salariés constituent des "dons juridiques" librement consentis dont le principe a été voté à l’unanimité lors de plusieurs congrès tenus par la CGT.

    En juin 2021, a rappelé la présidente, ces transferts représentaient plus de la moitié du capital de la CGT-HPE qui s’élevait à cette date à « un peu plus de 800.000 euros ». Les recherches conduites par les enquêteurs pour évaluer votre rythme de travail devant les instances prud’homales pourraient éventuellement justifier de ce montant", pointe la présidente qui décompte "600 procédures" qui seraient allées jusqu’au jugement.

    Une ambiance tendue

    Lors d’une audience de plus de dix heures, ponctuée par de nombreux rappels de la présidente dans une ambiance tendue, les prévenus se sont défendus de manière véhémente. "Ce #procès, c’est le procès d’un vilain syndicaliste qui s’est impliqué pendant plus de 70 heures (par semaine, nldr ) pour aider les plus démunis. Qu’on me traite d’exploiteur des opprimés, il y a de quoi péter un plomb !", s’est exclamé M. Lévy. La prévenue Tiziri K. a déclaré être victime d’un "règlement de compte" et n’avoir "contraint personne" à verser une partie des indemnités perçues.

    Ils ont mentionné plusieurs attestations versées au dossier, produites par des salariés expliquant avoir versé librement ces sommes à la #CGT-HPE.

    Huit mois de #prison_avec_sursis assortis d’une amende de 8.000 euros ont été requis contre l’ex-trésorier du syndicat Claude Lévy. Son épouse Tiziri K. a été visée par des réquisitions de cinq mois d’emprisonnement avec sursis et une #amende de 5.000 euros. Concernant une troisième syndicaliste également mise en cause, soupçonnée de complicité d’#escroquerie, le parquet a déclaré qu’il s’en remettait à la décision de la cour, qui sera rendue le 28 novembre.

    Le parquet a également demandé la #privation_de_droits_d'éligibilité pendant cinq ans pour les deux prévenus et de manière non obligatoire, l’interdiction d’exercer toute fonction dans le domaine social pendant cinq ans.

    des structures de cette même #CGT qui, dans de nombreux cas, ne donne des infos aux salariés, chômeurs et précaires qui en demandent qu’à la condition qu’ils adhérent juge utile de se porter partie contre des militants syndicaux qui animent des grèves

    #bureaucratie_syndicale #justice #luttes_sociales #luttes_syndicales #grève #caisse_de_grève

    • Ce qui en jeu ici c’est aussi une lutte de tendance au sein de la CGT où l’accusé (et condamné) est clairement identifié comme un opposant à la ligne confédérale, plus combatif que cette dernière et, surtout, contre les pratiques de la fédération, cette dernière, étant de mon point de vue, clairement identifiée comme vendue au patronat.

      À titre d’exemple, cet article de PLI d’août 2022 :

      [Radio] Retour sur l’action de la CGT-HPE - Paris-luttes.info
      https://paris-luttes.info/radio-retour-sur-l-action-de-la-16024

      Retour sur l’action de la CGT-HPE
      Publié le 6 août 2022

      Dans cette émission de Vive la sociale - FPP 106.3 FM - nous aurons un long échange avec Claude Levi, animateur syndical des luttes dans le secteur de la propreté et notamment dans l’hôtellerie. Bonne écoute !
      Retour sur l’action de la CGT-HPE

      Dans cet entretien, Claude Lévy, longtemps cheville ouvrière de la CGT-HPE, dresse un tableau de la situation de la sous-traitance dans l’hôtellerie et des activités de son syndicat. Sont également abordés ses démêlés avec l’union syndicale CGT du commerce parisienne et les brimades qu’il a dû subir, ainsi que Tiziri Kandi, ces dernières années. L’entretien se termine sur un tour d’horizon des perspectives du syndicat CGT-HPE et des projets de Claude et Tiziri.

  • Entretien avec douze vétéran·es : « L’UTCL, un ouvriérisme à visage humain ! »
    https://www.unioncommunistelibertaire.org/?Entretien-avec-douze-veteran-es-L-UTCL-un-ouvrierisme-a-

    Entretien avec douze vétéran·es : « L’UTCL, un ouvriérisme à visage humain ! »
    26 septembre 2023 par Redac-web-01 / 83 vues

    Les locaux d’AL à Paris 19e, une après-midi devant soi, un buffet campagnard, et le plaisir de retrouver quelques camarades qu’on n’a parfois plus vu depuis plusieurs années… Le 18 septembre 2005, douze anciennes et anciens prenaient part à un entretien croisé sur l’histoire de l’Union des travailleurs communistes libertaires. Dans une ambiance décontractée, sans esquiver les questions dérangeantes, les participants ont offert une image nuancée de ce qu’avait été leur organisation.

    Une explication de l’histoire quelque peu auto-centrée mais le travers est inévitable dans ce genre d’évocation. Pour autant, il n’y a aucune raison d’ignorer le rôle des « minorités agissantes » - avec tout ce que ce terme peut receler d’ambiguïté et de dérives - dans le déroulement des luttes sociales. Un des écueils du militantisme étant, qu’au nom de l’action, l’objectif de « l’auto-organisation dans la lutte », parte dans les limbes, happé par la routine quotidienne militante - notamment syndicaliste - dont le rythme fondamental est imposé par les institutions capitalistes. L’organisation spécifique serait alors précisément le moyen d’échapper à ce travers ? Peut-être. On appréciera d’autant plus l’humilité et la sincérité des militant.es de l’UTCL quand iels évoquent nombre d’erreurs et de dévoiements contre lesquels l’orga n’a été d’aucun recours.

    De mon point de vue, ce long témoignage mérite surtout d’être lu pour les problématiques - dont un certaines sont toujours d’actualité - ayant traversé le mouvement social et sa composante, dite révolutionnaire, et, en particulier, libertaire, depuis une cinquantaine d’année.