• XI #Marcha_po_la_Dignidad - #Tarajal | 3.02.2024 | 10 AÑOS EXIGIENDO VERDAD, JUSTICIA Y REPARACIÓN.

    *English version below.
    **Traduction en Français ci-dessous.

    La XI MARCHA POR LA DIGNIDAD es un acto en memoria de las personas a las que arrebataron la vida la mañana del 6 de febrero de 2014 en la playa del Tarajal en Ceuta, pero también es un acto de denuncia por todas las personas a las que les arrebatan la vida por falta de vías legales y seguras para migrar.

    Los colectivos y organizaciones que quieran adherirse a la XI MARCHA POR LA DIGNIDAD deberán completar el siguiente formulario. Ello supondrá el siguiente compromiso:
    – Su inclusión como firmante en el manifiesto al que se dará lectura al finalizar el recorrido de la marcha en la Playa de El Tarajal.
    – Su inclusión en carteles y publicaciones para difusión del acto.
    – Su compromiso en la promoción y difusión de la iniciativa en redes locales, nacionales e internacionales.
    – El acceder a la información y materiales relacionados con la Marcha.
    – La facilitación de la toma de contacto con cualesquiera otros de los miembros incorporados a la red.
    – Asumir las directrices de las personas que conforman la organización de los actos.

    Os esperamos el próximo 3 de febrero en Ceuta.

    Redes de la Organización de la marcha:
    E-mail: marcha.tarajal@gmail.com
    Facebook: @marcha.tarajal
    Instagram: @marcha.tarajal
    Twitter: @marchatarajal
    ____________________________
    «10 YEARS DEMANDING TRUTH, JUSTICE AND REPARATION.»

    The XI MARCH FOR DIGNITY is an act in memory of the people whose lives were taken on the morning of February 6, 2014 on the beach of Tarajal, but it is also an act of denunciation for all the people whose lives are taken away from them due to the lack of legal and safe ways to migrate.

    Collectives and organizations wishing to join the XI MARCH FOR DIGNITY must complete the following form. This will involve the following commitment:

    / Their inclusion as a signatory organization in the manifesto that will be read at the end of the march.
    / Their inclusion in posters and publications for the dissemination of the event.
    / Your commitment in the promotion and dissemination of the initiative in local, national and international networks.
    / Access to information related to the march.
    / Facilitating contact with any other members of the network.
    / Assuming the guidelines of the Associations organizing the events.

    We look forward to seeing you on February 3th.

    Social networks of the March Organisation:
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    Facebook: @marcha.tarajal
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    ____________________________
    «10 ANS D’EXIGENCE DE VÉRITÉ, DE JUSTICE ET DE RÉPARATION».

    La 11e MARCHE POUR LA DIGNITÉ est un acte en mémoire des personnes dont la vie a été arrachée le matin du 6 février 2014 sur la plage de Tarajal, mais c’est aussi un acte de dénonciation pour toutes les personnes dont la vie leur est enlevée en raison de l’absence de moyens légaux et sûrs de migrer.

    Les collectifs et organisations qui souhaitent se joindre à la 11ème MARCHE POUR LA DIGNITÉ doivent remplir le formulaire suivant. Cela implique l’engagement suivant :

    / Leur inclusion en tant que signataire dans le manifeste qui sera lu à la fin de la marche.
    / Leur inclusion sur les affiches et les publications pour faire connaître l’événement.
    / Votre engagement à promouvoir et à diffuser l’initiative dans les réseaux locaux, nationaux et internationaux.
    / Accès aux informations relatives à la marche.
    / Faciliter le contact avec l’un des autres membres du réseau.
    / Assumer les directives des associations qui organisent les événements.

    Nous vous attendons le 3 février.

    Réseaux sociaux de l’organisation de la mache :
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    #commémoration #commémoraction #asile #migrations #réfugiés #Ceuta #Maroc #Espagne #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #2024 #dignité #justice #vérité #mémoire

    • A 10 anni dalla strage del Tarajal la XI Marcha por la dignidad

      Sono passati 10 anni dalla strage del Tarajal a Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco. Quella tragica mattina del 6 febbraio del 2014 un gruppo molto numeroso di migranti (circa 300) prova ad entrare a Ceuta a nuoto, attraverso la spiaggia di Tarajal. La Guardia Civil cerca di fermarli, sparando pallottole di gomma e fumogeni molto vicino alle persone che si trovano in acqua. Alcuni testimoni affermano che vengono lanciati proprio sulle persone, molte delle quali galleggiano a fatica. Gli agenti sparano anche quasi duecento colpi a salve. Si diffonde il panico in acqua. Muoiono 15 persone e altri rimangono feriti.

      Per ricordare questa strage e la brutalità del regime delle frontiere ogni anno a Ceuta si svolge una manifestazione, la Marcha por la Dignidad, un atto in memoria delle persone che sono state uccise, ma anche di denuncia per tutte le persone che vengono uccise a causa della mancanza di vie legali e sicure per migrare. Quest’anno sarà sabato 3 febbraio.

      «Quanto accaduto il 6 febbraio 2014 è un chiaro esempio di razzismo di Stato. È nostro dovere antirazzista sapere cosa sta accadendo al confine meridionale spagnolo, dare eco e denunciare le flagranti violazioni dei diritti umani che vi si verificano» – scrivono dalle pagine della Marcha – «anno dopo anno, manteniamo viva la fiamma della memoria e continuiamo a denunciare le politiche migratorie europee che causano morte».

      La giornata di mobilitazione, che ha raccolto oltre 220 adesioni, è organizzata in due momenti. Nel pomeriggio dalle 15.15 inizierà la manifestazione che attraverserà le strade di Ceuta da Plaza de Los Reyes per raggiungere la spiaggia della strage. Nella tarda mattinata, alle 11.30 nella Sala delle Assemblee dell’IES ABYLA di Ceuta, la tavola rotonda in cui interverranno Patuca Fernández, Viviane Ogou e Mouctar Bah (l’incontro sarà trasmesso in diretta qui).

      «La logica razziale e coloniale ha determinato le politiche migratorie dell’Europa. I confini di Ceuta e Melilla stabiliscono una divisione tra coloro che sono considerati persone e coloro che non lo sono», spiegava nella tavola rotonda del 2023, Youssef M. Ouled, giornalista specializzato in razzismo istituzionale e sociale.
      «Ricordiamo il Tarajal ma parliamo di altre stragi. Quello che è successo nel 2014 non è qualcosa di aneddotico ma sistematico», ha sottolineato.

      Sono tante, troppe, le date che rappresentano purtroppo i punti più alti del razzismo e della violenza delle frontiere. Fra meno di un mese sarà passato un anno dal 26 febbraio 2023, giorno in cui 94 persone (34 di loro erano bambine/i) sono morte a soli 150 metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro in Calabria: non una fatalità come le istituzioni vogliono far credere, ma un eccidio per omissione di soccorso diventato legge. Anche a Cutro, dopo un anno, si tornerà a manifestare ancora al fianco dei familiari e dei superstiti per non dimenticare e continuare a chiedere verità e giustizia.

      https://www.youtube.com/watch?v=g5fGZLGBVSg


      https://www.meltingpot.org/2024/02/a-10-anni-dalla-strage-del-tarajal-la-xi-marcha-por-la-dignidad

    • En 2023...

      Tarajal. Il dovere della memoria per tutte le vittime di frontiera

      Fare memoria non riguarda solo il ricordo, ma costituisce un atto politico e uno strumento di lotta per la verità e il riconoscimento delle responsabilità

      A Ceuta, enclave spagnolo situato a nord nel continente africano, centinaia di persone, tra attivistə e giovani migranti, continuano la Marcha por la Dignidad che da nove anni percorre l’intera cittadina lungo la linea che divide la Spagna dal Marocco per raggiungere la spiaggia del Tarajal dove, il 6 febbraio 2014 furono assassinate oltre 15 persone di origine sub-sahariana delle 300 che tentavano di attraversare il confine a nuoto.

      Quella mattina, all’alba di un’ennesima violenza razzista e coloniale, la Guardia Civil spagnola non solo sparò contro di loro proiettili di gomma per impedire che raggiungessero la costa, provocandone l’annegamento, ma eluse ogni tipo di soccorso delle persone in difficoltà e il recupero dei corpi in mare.

      Alla Frontera Sur sono trascorsi nove anni di impunità, nove anni di ingiustizia e violenza perpetrata verso le vittime di quella tragedia e contro tutte coloro che ogni giorno sfidano una delle frontiere più ineguali al mondo. Vigile e repressiva in modo sempre più assiduo sulle persone che da diversi paesi dell’Africa tentano l’attraversamento per mare e per terra della valla di filo spinato che separa i due continenti.

      Se è vero che nel Mediterraneo è iniziata l’Europa, altrettanto certo è che nel Mediterraneo stesso si esaurisce, tra le colonne di un mito che non ha più eroi ma esseri umani in cerca di sogni brutalmente lacerati. Uomini e donne disumanizzate affinché il fardello di colpe e responsabilità trainato da secoli di imperialismo e gerarchie di potere – ben oltre la colonialità storica – alleggerisca il suo peso.

      «Esistono due morti: quella fisica e quella ermeneutica» ha affermato Patuca Fernandez, l’avvocata di Coordinadora de barrios che prese in carico il caso del Tarajal, nel suo intervento sul dovere della memoria delle vittime di frontiera 1

      La prima costituisce quella biologica mentre la seconda riguarda quella inflitta dal processo di normalizzazione e di riduzione o perdita di rilievo del crimine che l’ha provocata. Un criminale non solo uccide la vittima ma impiega ogni sforzo necessario per trovare forme strategiche di ridurre la carica penale che ricadrebbe sui crimini commessi.

      È il modus operandi di una più profonda logica razziale che tende a interiorizzare e disumanizzare le persone migranti per normalizzare la violenza e gli abusi a loro inflitti.

      Ma queste morti non sono occasionali, né tanto meno naturali. Sono sistematiche e strutturali, legittimate da una necropolitica razzista in quanto applicata esclusivamente sulle persone che provengono da territori direttamente o indirettamente vincolati alle (ex)colonie, mediante accordi in materia di sicurezza e criminalizzazione applicata sulla base della propria origine.

      Ad oggi questo crimine resta ancora impunito, sotto la responsabilità di nessuno se non delle vittime stesse, profanate non soltanto in vita ma calpestate nella propria dignità in morte e in quella dei familiari, privati di verità e di giustizia, del diritto al dolore, al lutto, al risarcimento e alla non ripetizione.

      Fare memoria non riguarda solo il ricordo, ma costituisce un atto politico e uno strumento di lotta per la verità e il riconoscimento delle responsabilità.

      Puntare lo sguardo indietro ha un significato estremamente potente per quanto accade nel presente, e dare contenuto a quel passato che continua sistematicamente a ripetersi. Fare memoria vuol dire far conoscere la realtà di quanto accade ed esigere giustizia per ogni vittima di frontiera.

      «Ricordiamo il Tarajal ma parliamo di altre stragi», ha affermato Youssef M.Ouled, giornalista specializzato in razzismo istituzionale e sociale. «Quello che è successo nel 2014 non è qualcosa di aneddotico ma sistematico», ha continuato ricordando quanto accaduto di recente a Melilla2. Se cambiassero il luogo e la data, l’evidenza della violenza delle frontiere, esterne ed interne al Paese, sarebbero esattamente le medesime.

      https://www.youtube.com/watch?v=4HayyEDFaSc

      Tra le vittime più recenti, Moussa Sylla, espulso dal Ceti (Centro di residenza temporanea per migranti) di Ceuta dove era stato accolto al suo arrivo in territorio spagnolo lo scorso dicembre 2022. Moussa ha dovuto lasciare il centro senza però avere un altro luogo dove andare, allontanato come tanti altri minori che arrivano soli e finiscono abbandonati a sé stessi e alla disperazione. Fino allo scorso 26 gennaio era rimasto davanti alla porta dello stabilimento per chiedere di entrare. Sotto pioggia e freddo supplicava ripetutamente di non esser rilegato al margine ancora una volta. Ma non è stato ascoltato. Espulso dallo Stato che difende le frontiere anziché proteggere le persone, Moussa si è impiccato ad un albero dinanzi le porte dello stabilimento.

      Le colonne di Ercole, erette una di fronte all’altra nello stretto di Gibilterra, non sono più elemento di connessione ed unione tra due mondi inesplorati di un Ulisse che dal suo viaggio fa ritorno in patria. Le colonne dello stretto sono una stretta sul popolo in movimento indesiderato, una strategia ulteriore di chiusura all’Altro per cui l’hospes si è risolto in hostis.

      In questo incrocio di acque – Atlantico e Mediterraneo – e di terre, l‘Europa dall‘Africa, sorge l’inquietudine di una frontiera in cui i paesi e gli uomini non solo stanno di fronte ma sul fronte, in prima linea di guerra, per fronteggiarsi ed ispezionarsi.

      E’ al grido di «Basta violenza alle frontiere» che accompagniamo la marcia di commemor-azione che da nove anni si batte contro l’impunità che vige sul caso: l’inchiesta giudiziaria aperta, che stava per mettere al banco per omicidio colposo 16 guardie civili (scampate applicando la ‘dottrina Loot’), è stata definitivamente archiviata dalla Corte Suprema nel giugno dello scorso anno. La Corte Costituzionale sta ancora studiando se accogliere o meno i ricorsi presentati da diverse organizzazioni non governative e per conto delle famiglie delle vittime (a cui non è stato nemmeno permesso di recarsi in Spagna) per violazione dei loro fondamentali diritti alla vita, protezione giudiziaria effettiva e integrità morale, come indicato nelle dichiarazioni dell’avvocata Fernández.

      In memoria di Roger, Yves, Samba, Larios, Daouda, Luc, Youssouf, Armand, Ousmane, Keita, Jeannot, Oumarou, Blasie e le altre persone non identificate, continuiamo ad esigere che si faccia giustizia, che venga riconosciuta la responsabilità dei crimini di frontiera e garantire equi diritti a tutte le persone senza condizione alcuna.

      https://www.meltingpot.org/2023/02/tarajal-il-dovere-della-memoria-per-tutte-le-vittime-di-frontiera

    • La tomba 147 e l’instancabile lotta di giustizia per la strage del Tarajal

      Ceuta, 10 anni dal 6 febbraio 2014

      Nei tranquilli e placidi passaggi del cimitero di Santa Catalina a Ceuta, situato nel cortile di Santa Beatriz de Silva, c’è un corridoio infinito fiancheggiato da due file di lapidi, in cui si può scoprire un enigmatico labirinto di marmo. È adornato da nomi, cognomi e ornamenti che evocano la memoria di coloro che non ci sono più. Oltre questa fila, nel punto più alto, si trovano tombe meticolosamente numerate, sigillate nel freddo abbraccio del cemento. Questi loculi sono privi di nomi o vasi di fiori che ricordano le anime che riposano al loro interno. Guardando dall’altra parte dello stretto, si vedono le tombe dei migranti che sono morti nel tentativo di raggiungere la spiaggia di Tarajal a Ceuta e di altri che hanno subito lo stesso destino. Si tratta di tombe anonime. Qui giacciono cinque delle quindici persone che, il 6 febbraio 2014, hanno cercato di raggiungere a nuoto la spiaggia di Tarajal a Ceuta, situata al confine tra Marocco e Spagna.
      Ostacoli all’identificazione dei corpi delle vittime di Tarajal

      Solo il corpo di Nana Roger Chimie, un giovane camerunense, è stato identificato; gli altri resti sepolti nel sito rimangono non identificati, nonostante gli sforzi delle famiglie e degli avvocati di Samba, Larios e Ussman Hassan per chiarire l’identità dei corpi trovati dopo il ritrovamento di Nana, che giacciono sepolti lì.

      Patricia Fernández Vicent, avvocata della Coordinadora de Barrios, conferma che «Nana è stato identificato perché il suo corpo è stato ritrovato solo due giorni dopo i fatti e grazie agli oggetti personali che portava con sé quando ha cercato di attraversare il mare per raggiungere la Spagna. Inoltre, le sue condizioni hanno permesso di verificare le sue impronte digitali con i database camerunesi. Roger riposa nella tomba numero 147», che si distingue solo per la data e l’iscrizione: “Tarajal 6-2-14“.

      L’identità degli altri rimane un mistero. L’avvocata aggiunge: «Abbiamo chiesto al tribunale il test del DNA, ma è stato rifiutato in quanto non necessario per chiarire i fatti, quindi non è mai stato effettuato». C’è anche un quinto corpo la cui identità rimane sconosciuta, poiché non è stato fatto alcun tentativo formale di identificarlo.

      A distanza di dieci anni, le famiglie delle vittime sono ancora in cerca di giustizia e lottano senza sosta per ottenere il permesso di recarsi a Ceuta per identificare i loro cari. Tuttavia, il governo spagnolo ha ripetutamente negato i visti necessari per verificare se i resti appartengono a qualcuno dei parenti ancora dispersi.

      A tre anni dagli eventi, le famiglie delle vittime del Tarajal erano state ascoltate dal Congresso dei Deputati, in coincidenza con l’anniversario. Una dozzina di padri, madri, fratelli e sorelle di coloro che morirono sulla spiaggia di Ceuta avevano partecipato a un atto commemorativo in videoconferenza. «Vogliamo che sia fatta giustizia, vogliamo che la loro morte non rimanga impunita», aveva esclamato la madre di uno dei giovani morti di Douala, in Camerun, durante il tributo.

      Le famiglie dei giovani deceduti continuano a chiedere di conoscere la verità su quanto accaduto, chiedendo giustizia affinché queste morti non rimangano dimenticate e senza responsabilità. «Stavano solo cercando una vita migliore per le loro famiglie», ha detto un membro della famiglia.
      Dieci anni senza responsabilità

      A dieci anni dalle morti e dopo otto anni di procedimenti giudiziari, il caso non è ancora arrivato al processo, essendo stato archiviato tre volte dal giudice istruttore. La vicenda giudiziaria del caso Tarajal è stata complessa e prolungata. È iniziata nel febbraio 2015 quando il Tribunale di Ceuta ha convocato 16 agenti di polizia, con le Ong CEAR, Coordinadora de Barrios e Observatori DESC che hanno agito come parti civili.

      Nelle prime due istanze di archiviazione, nel 2015 e nel 2018, il giudice ha concluso che erano stati compiuti tutti i passi investigativi possibili, senza trovare prove di attività sanzionabile nei confronti dei 16 agenti della Guardia Civil coinvolti negli eventi di quella mattina del febbraio 2014. Tuttavia, il Tribunale Provinciale di Ceuta ha ribaltato entrambe le decisioni nel 2017 e nel 2018, incaricando il giudice di identificare i cinque deceduti e di raccogliere le dichiarazioni dei sopravvissuti. Nell’ottobre 2017, la Corte europea dei diritti umani ha condannato la Spagna per pratiche simili a Melilla.

      Il caso è stato nuovamente chiuso nel gennaio 2018, ma dopo i ricorsi, nell’agosto 2018, il Tribunale Provinciale di Cadice ha deciso di riaprire il caso, sottolineando le inadeguatezze dell’indagine. Nel settembre 2019, 16 agenti della Guardia Civil sono stati processati, ma il fascicolo è stato chiuso per la terza volta nell’ottobre 2019, provocando ulteriori ricorsi. Il Tribunale Provinciale di Cadice ha respinto i ricorsi nel luglio 2020.

      Le Ong hanno presentato un ricorso in Cassazione alla Corte Suprema, che è stato respinto nel maggio 2022. Nel luglio 2022 è stato presentato un ricorso per amparo alla Corte Costituzionale 1. Infine, nel giugno 2023, la Corte Costituzionale ha ammesso il ricorso per amparo, aprendo la possibilità di stabilire una dottrina costituzionale che protegga i diritti dei migranti alle frontiere.

      Nonostante si tratti di uno dei casi più mediatici degli ultimi anni, né i giudici né i pubblici ministeri si sono pronunciati pubblicamente durante il processo, limitandosi a fare riferimento alle ordinanze e ai documenti inviati alle parti. Una fonte giudiziaria ha spiegato a questo corrispondente che “si trattava di un caso insolito, in quanto era la prima volta che si trovavano di fronte a un gruppo di assalto marittimo“. Inoltre, ha sottolineato che le questioni legali sono complicate, in quanto bisogna stabilire “se c’è una responsabilità condivisa per i crimini sconsiderati e qual è stata la partecipazione specifica di ciascuna guardia civile“. Questo perché le sanzioni non possono essere applicate a gruppi, il che solleva questioni di natura strettamente legale.

      Cosa è successo nelle prime ore del 6 febbraio 2014 sulla spiaggia di Tarajal a Ceuta

      Nelle prime ore del 6 febbraio 2014, circa 400 persone hanno tentato di attraversare la barriera di confine che separa il Marocco dall’Europa. La Guardia Civil, dispiegata lungo l’intero perimetro del confine, ha cercato di impedire al gruppo di entrare a Ceuta utilizzando attrezzature antisommossa, proiettili di gomma, gas lacrimogeni e detonazioni acustiche.

      Almeno 15 persone sono state uccise e molte altre gravemente ferite. Coloro che sono sopravvissuti e sono riusciti a raggiungere il lato spagnolo della spiaggia di Tarajal sono stati immediatamente rispediti in Marocco. La mattina successiva furono ritrovati 14 corpi, 5 in Spagna e 9 in Marocco. Ufficialmente, 23 persone sono state riportate in Marocco e solo una persona è stata dichiarata dispersa.

      Secondo le ONG coinvolte nell’accusa popolare contro le guardie civili, “molte testimonianze di sopravvissuti e testimoni, insieme ai video ufficiali rilasciati dalla Guardia Civil, dimostrano che la delegazione governativa a Ceuta era a conoscenza in ogni momento dell’attivazione del livello massimo di allerta, che prevedeva la mobilitazione di varie unità della Guardia Civil dotate di attrezzature anti-sommossa“. L’allerta è stata attivata per impedire al gruppo di circa 400 persone di entrare in territorio spagnolo. Si trattava di coloro che erano riusciti a eludere i controlli delle forze marocchine nei boschi vicino al confine con Ceuta e a raggiungere la spiaggia, nella zona marocchina, dove si sono gettati in mare. Secondo i testimoni, circa 1.500 persone, per lo più africani subsahariani, hanno cercato di entrare in Europa quella mattina, ma solo 400 sono riusciti ad avvicinarsi.

      La Guardia Civil ha affrontato il gruppo in assetto antisommossa mentre nuotava verso la riva, lanciando candelotti fumogeni e palle di gomma dal frangiflutti. Questa azione non è stata inizialmente riconosciuta dal delegato del governo, Francisco Antonio González, e successivamente dal direttore generale della Guardia Civil, Arsenio Fernández de Mesa, che ha negato l’uso di materiale antisommossa in acqua, attribuendo la responsabilità dei morti alle forze marocchine.
      Le bugie del Ministero degli Interni

      Jorge Fernández Díaz, all’epoca Ministro degli Interni, si presentò una settimana dopo al Congresso ammettendo l’uso di materiale antisommossa come deterrente, ma indicando l’acqua. Queste spiegazioni seguirono la diffusione di immagini che mostravano gli agenti della Guardia Civil utilizzare “145 proiettili di gomma e cinque candelotti fumogeni” per impedire ai migranti di raggiungere la Spagna, sparando verso la posizione in cui stavano nuotando, mentre erano inseguiti da una motovedetta marocchina. Nella stessa occasione, il ministro si è rammaricato per la morte delle 15 persone sulla spiaggia di Tarajal ma, come gli ha chiesto un deputato dell’opposizione, non si è scusato con le famiglie delle vittime in quanto capo della Guardia Civil.

      Il Segretario di Stato per la Sicurezza, Francisco Martínez, al Congresso, ha dichiarato che nessuno dei giovani che hanno raggiunto la riva spagnola è rimasto ferito e che la Guardia Civil ha sparato solo mentre erano ancora in acque marocchine, attenuando l’azione dal frangiflutti. Tuttavia, sono sorte delle domande: “Perché nessuno ha cercato di salvare le persone che stavano annegando? Perché non sono stati allertati i soccorsi marittimi e la Croce Rossa?“.

      Il governo del PP, attraverso il ministro, ha ufficializzato la sua versione dei fatti e ha respinto la richiesta di aprire una commissione d’inchiesta richiesta dall’opposizione, approfittando della maggioranza assoluta di cui godeva nel 2014. Ma le registrazioni e gli audio forniti delle comunicazioni tra gli agenti e il COS mettono in dubbio la versione di Martínez. In una delle comunicazioni, gli agenti hanno avvertito della presenza di migranti che nuotavano e hanno chiesto istruzioni: “Dobbiamo fermarli?“. Dalla centrale operativa hanno risposto con incertezza: “Non sono sicuro, almeno cerchiamo di fermarli dall’avanzare, si stanno dirigendo verso Ceuta“. La risposta è stata: “Non è possibile, hanno attraversato da dietro e l’unica opzione era catturarli o lasciarli proseguire“. Le contraddizioni del delegato del governo a Ceuta e del direttore della Guardia Civil sono venute alla luce, mettendo a nudo la leadership del Ministero degli Interni. Nessuno si è dimesso.

      Persino il presidente del governo della città autonoma, Juan Jesús Vivas, si è spinto a definire “miserabili” sul suo account Facebook le organizzazioni che hanno accusato direttamente le guardie civili di essere responsabili delle morti. L’Ong Caminando Fronteras ha pubblicato un rapporto che includeva i referti delle ferite e le testimonianze dei sopravvissuti, tutti sono concordi nell’affermare che i proiettili di gomma erano diretti contro i migranti. Dopo essere venuto a conoscenza del rapporto, Francisco Antonio González ha consigliato alle guardie civili di sporgere denuncia contro l’organizzazione.
      Il vescovo di Tangeri critica l’azione della Guardia Civil

      L’arcivescovo emerito di Tangeri, Santiago Agrelo, ha criticato le azioni della Guardia Civil durante gli eventi del 6 febbraio 2014 a il Tarajal. “Quel giorno, quei giovani non si sono gettati in acqua contro nessuno: cercavano solo un futuro migliore, al quale sicuramente avevano diritto almeno quanto me“. Ha sottolineato la responsabilità delle forze dell’ordine, affermando che “le forze dell’ordine del Regno di Spagna hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per impedire a quei giovani di raggiungere la spiaggia, un fatto che non solo è stato riconosciuto ma anche rivendicato: hanno fatto ciò che dovevano fare“.

      Nessuno si è assunto la responsabilità e nessuno sa chi abbia dato l’ordine di autorizzare gli agenti spagnoli ad agire sulla spiaggia di Tarajal. A distanza di dieci anni, nessuno a nome dello Stato spagnolo si è scusato con le famiglie delle vittime di quella fatidica mattina del febbraio 2014. La tomba 147 nel cimitero di Ceuta rimarrà in silenzio.

      La mattina di domenica 4 febbraio, la tomba di Roger Nana è stata resa dignitosa. L’associazione ELIN, la Coordinadora de Barrios e alcuni attivisti hanno dedicato un poster che è stato collocato sulla tomba di Nana. Dopo un breve funerale, Javier Baeza, presidente dell’organizzazione di Madrid, ha dedicato alcune parole di omaggio alle vittime. Le altre tombe sono già segnate come “persona non identificata 6 febbraio 2014“.

      https://www.meltingpot.org/2024/02/la-tomba-147-e-linstancabile-lotta-di-giustizia-per-la-strage-del-taraja

      #responsabilité

    • #Ceuta: di tutte le stragi, una Memoria Mediterranea

      A dieci anni dalla strage del Tarajal, in cui furono uccise almeno 14 persone nel tentativo di raggiungere la Spagna a nuoto, Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco, continua a essere tra le frontiere più violente del regime necropolitico europeo: il mare da un lato, la valla di concertina tagliente dall’altro, sistematicamente iper vigilati e militarizzati per impedire il transito delle persone verso l’Europa. Luogo di incessante approccio securitario, Ceuta, come Melilla, in territorio nordafricano, è da anni scenario di morte e negazione della vita umana, non solo delle persone che tentano di sfidarlo ma di tutte coloro che restano dall’altro lato in attesa di verità sui propri familiari.

      Sono trascorsi 10 anni di silenzio sul massacro del Tarajal, quando, all’alba del 6 febbraio 2014, la Guardia Civil spagnola sparava brutalmente centinaia di proiettili di gomma contro un gruppo di oltre 300 persone migranti di origine sub – sahariana provocandone la morte per annegamento e omettendo il loro soccorso e il recupero dei corpi. Decine di persone sono annegate davanti allo sguardo inerme delle guardie che ad oggi continuano impunemente a perpetrare violenza e repressione contro le persone migranti direttamente coinvolte e contro le famiglie a cui viene negato l’accesso per poter raggiungere l’Europa e cercarli.

      Le persone che tentano di varcare il confine al costo della propria vita, vengono sottoposte a ripetute umiliazioni e procedure di controllo, trattenimento e maltrattamento propedeutiche allo smistamento e alla loro espulsione, sorte di cui spesso le famiglie rimangono ignare e lontane dalle possibilità di richiesta per verità e giustizia dai territori di origine.

      Dal massacro, il governo spagnolo ha ripetutamente respinto la richiesta dei visti ai familiari delle persone disperse e il prelievo del DNA dai resti recuperati affinché procedessero con l’eventuale identificazione dei corpi, ignorando di fatto la loro richiesta di giustizia e verità.

      Infatti, il caso del 6 febbraio fu ripetutamente archiviato dalle responsabilità di una ennesima strage di Stato, riaperto successivamente e in corso di risoluzione, solo lo scorso giugno 2023, grazie alla pressione delle stesse persone sopravvissute e delle famiglie, alle avvocate e attiviste solidali che con loro sostengono la rivendicazione contro la negazione politica della vita e della morte.

      In accordo con il Marocco – da Rajoy e i successori fino all’attuale Sanchez – lo Stato spagnolo ribadisce da decenni il proprio compromesso sul controllo bilaterale della frontiera elogiando l’impegno sempre più mirato all’esternalizzazione della frontiera sul territorio marrocchino in un’ottica di governance migratoria, disattendendo i principi democratici e i diritti di libertà e dignità per la vita delle persone migranti, in fuga da altrettante situazioni di violenze ed abuso, spesso dipese dalla onerosa precarizzazione economica.

      In questo senso, la violenza di cui Ceuta si fa testimone, la medesima che interessa Melilla e la rotta canaria in Spagna o i luoghi in cui vige la procedura di frontiera sull’intero suolo europeo – da Lampedusa a Ventimiglia e lungo i Balcani – non è rappresentata da “ assalti” ed “invasioni” illegali come mediaticamente cerca di strumentalizzare la difesa politica, ma insita nella rimozione sistematica del diritto a partire, a circolare ed arrivare liberamente, alla possibilità per tutte e tutti di avere riconosciuta un’identità ante e post mortem, il diritto a sapere e al lutto.

      Accordi con paesi terzi come il Marocco, esattamente come accade tra Italia e Libia e Tunisia, ledono ogni diritto umano, in primis quello alla vita, abusata e fatta prigioniera dietro e dentro le mura di cinta, potenziate nel meccanismo di controllo e respingimento in mare, nei dispositivi detentivi e di sorveglianza dei centri per il rimpatrio (In Spagna C.I.E.), luoghi di trattenimento forzato e punitivo senza alcuna condanna, dove però non si spengono manifestazioni per la libertà e la liberazione dalle persone trattenute e recluse, in protesta anche in questi giorni dai vari centri in Italia a seguito del suicidio di Stato di Ousmane Sylla .

      La strage di Tarajal è l’espressione di quanto accade ogni giorno da anni in cui impunità, ingiustizia e violenza assumono le sembianze della lotta alla criminalità e alla sicurezza nazionale. Massacri senza giustizia, tombe senza nome, corpi senza volto, morti senza corpo, non sono che l’espressione ultima.

      Ma non l’unica.

      Alla Frontera Sur, una ‘Marcha por la Dignidad’, organizzata da centinaia di persone migranti, familiari, attivisti e diverse organizzazioni solidali, tra cui @Caravana Abriendo Fronteras e @CarovaneMigranti, continua da 10 anni a reclamare ed esigere verità e giustizia per tutte le persone morte nel massacro di Ceuta e per tutte coloro che muoiono e scompaiono per mano della indifferente violenza sistemica di un regime politico mortifero che vigila e reprime le persone migranti alle frontiere interne ed esternalizzate.

      Anche quest’anno la Marcha, partita dalla sede della Delegazione del Governo di Ceuta, ha raggiunto la spiaggia del Tarajal, dove la commemorazione diviene strumento di lotta non solo per ricordare il Tarajal ma per parlare di tutte le ennesime stragi che si ripetono. Quanto accaduto nel 2014 non è qualcosa di aneddotico ma rigorosamente sistematico, lo abbiamo visto a Melilla, a Nador, ad Ouija, in Tunisia, in Sicilia, a Cutro. Tante, troppe e ininterrotte stragi, in altrettante date del calendario, si verificano nel silenzio politico di turno.

      Ma la lotta per la Memoria viva è un riscatto mediterraneo che unisce la rabbia per trasformare il dolore in un grido collettivo per ogni Memoria negata e inabissata che vive attraverso chi può raccontare, dalle lotte familiari e collettive.

      A dieci anni dalla strage di Ceuta, per tutte le stragi invisibili di cui non si racconta, per ogni persona coinvolta in un massacro rimosso, continuiamo a tessere un’unica Memoria Mediterranea, quella praticata tutti i giorni come strumento di denuncia e di ricerca di giustizia, custode di dignità e resistenza.

      Non lasceremo il Mediterraneo agli abissi, ce ne impossessiamo senza timore per combattere dove si combatte, per elevare la voce dove si protesta, per piantare dove si cerca di seppellire.

      Tarajal, no olvidamos!

      https://memoriamediterranea.org/ceuta-di-tutte-le-stragi-una-memoria-mediterranea
      #mémoire_méditerranéenne

  • La CEDU condanna l’Italia per detenzione illegale di minori stranieri nell’hotspot di Taranto
    https://www.meltingpot.org/2023/11/la-cedu-condanna-litalia-per-detenzione-illegale-di-minori-stranieri-nel

    Nuova condanna all’Italia dalla Corte europea per i Diritti umani. Oggi nell’hotspot permangono ancora 185 minori. L’ASGI chiede l’immediato collocamento in strutture adeguate e la supervisione dell’attuazione delle precedenti sentenze che, come dimostra la situazione nell’hotspot di Taranto, non hanno fatto modificare le prassi illegittime. La Corte Europea dei Diritti Umani, con la decisione del 23 novembre 2023 resa nel procedimento n. 47287/17 (caso A.T. ed altri c. Italia), ha condannato l’Italia per avere detenuto illegalmente nell’ hotspot di Taranto diversi minori stranieri non accompagnati (art. 5, parr. 1, 2 e 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), per avere utilizzato trattamenti (...)

    #Giurisprudenza_europea #Guida_legislativa #Speciale_Hotspot

  • La Corte europea condanna l’Italia a pagare per i maltrattamenti ai migranti : costretti a denudarsi, privati della libertà e malnutriti

    La causa avviata da quattro esuli sudanesi: dovranno ricevere in tutto 36 mila euro dallo Stato

    VENTIMIGLIA. Spogliati «senza alcuna ragione convincente». Maltrattati e «arbitrariamente privati della libertà». Ecco perché, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia a risarcire quattro migranti sudanesi con cifre che vanno dagli 8 ai diecimila euro ciascuno. La sentenza della prima sezione della Corte (presieduta da Marko Bošnjak) è datata 16 novembre, ma riguarda episodi accaduti nell’estate del 2016. Dopo aver avviato le pratiche per far attribuire ai loro clienti lo status di rifugiato, nel febbraio 2017 gli avvocati (Nicoletta Masuelli, Gianluca Vitale e Donatella Bava, tutti di Torino) avevano deciso di rivolgersi alla Corte di Strasburgo.
    I quattro erano arrivati in Italia in momenti diversi: due «in un giorno imprecisato di luglio» del 2016 a Cagliari, un altro il 14 luglio a Reggio Calabria, uno il 6 agosto sempre a Reggio Calabria e l’ultimo l’8 agosto «in un luogo imprecisato della costa siciliana». Il più giovane ha 30 anni, il più vecchio 43.

    In comune, i quattro hanno che sono stati tutti trasferiti nello stesso centro di accoglienza gestito dalla Croce Rossa a Ventimiglia. Sono stati «costretti a salire su un furgone della polizia», trasportati in una caserma dove sono stati «perquisiti», obbligati a consegnare «i telefoni, i lacci delle scarpe e le cinture» e poi «è stato chiesto loro di spogliarsi». Sono rimasti nudi dieci minuti, in attesa che gli agenti rilevassero le loro impronte digitali.
    Concluse le procedure, la polizia ha fatto salire i quattro (assieme a una ventina di connazionali) su un pullman. Destinazione: l’hotspot di Taranto. Secondo quanto ricostruito nella sentenza, i migranti sono stati «costretti a rimanere seduti per l’intero viaggio» e potevano andare in bagno soltanto scortati e lasciando la porta spalancata, rimanendo «esposti alla vista degli agenti e degli altri migranti».
    Il 23 agosto, i quattro (con un gruppo di compatrioti) sono risaliti su un pullman diretti a Ventimiglia, dove hanno incontrato un rappresentante del governo sudanese che li ha riconosciuti come cittadini del suo Paese. A quel punto, è stata avviata la procedura per il rimpatrio. In aereo, dall’aeroporto di Torino Caselle. Ma sul velivolo c’era posto soltanto per sette migranti, così il questore aveva firmato un provvedimento di trattenimento e i quattro sono stati accompagnati al Centro di identificazione ed espulsione di Torino.
    Uno, però, è stato prelevato pochi giorni dopo dalla polizia. Per lui, era pronto un posto sull’aereo per il rimpatrio. Lui non voleva, arrivato a bordo ha incominciato a dare in escandescenze assieme a un altro migrante finché il comandante del velivolo ha deciso di chiedere alla polizia di farli sbarcare entrambi, per problemi di sicurezza. Appena rientrato al Cie, l’uomo ha ribadito la sua intenzione di ottenere la protezione internazionale. Lo stesso hanno fatto gli altri tre. Tutti hanno ottenuto lo status di rifugiato.

    La sentenza della Corte condanna l’Italia a pagare per varie violazioni. Una riguarda «la procedura di spogliazione forzata da parte della polizia», che «può costituire una misura talmente invasiva e potenzialmente degradante da non poter essere applicata senza un motivo imperativo». E per i giudici di Strasburgo «il governo non ha fornito alcuna ragione convincente» per giustificare quel comportamento. Poi, ci sono le accuse dei quattro di essere rimasti senz’acqua e cibo nel trasferimento Ventimiglia-Taranto e ritorno. Il governo aveva ribattuto fornendo «le copie delle richieste della questura di Imperia a una società di catering», che però «riguardavano altri migranti». Per la Corte, quella situazione «esaminata nel contesto generale degli eventi era chiaramente di natura tale da provocare stress mentale». E ancora, le condizioni vissute in quei giorni «hanno causato ai ricorrenti un notevole disagio e un sentimento di umiliazione a un livello tale da equivalere a un trattamento degradante», vietato dalla legge. I giudici di Strasburgo ritengono, poi, che i quattro siano «stati arbitrariamente privati della libertà», pur se in una situazione di «vuoto legislativo dovuto alla mancanza di una normativa specifica in materia di hotspot», già denunciata nel 2016 dal garante nazionale dei detenuti.

    Per la Corte, ce n’è abbastanza per condannate l’Italia a risarcire i quattro: uno dovrà ricevere 8 mila euro, un altro 9 mila e altri due diecimila «a titolo di danno morale».

    https://www.lastampa.it/cronaca/2023/11/18/news/litalia_condannata_a_pagare_per_i_maltrattamenti_ai_migranti-13871399

    Le périple des 4 Soudanais en résumé :
    – 4 personnes concernées, ressortissants soudanais
    – 2 arrivés à Cagliari en juillet 2016, un le 14 juillet à Reggio Calabria, un le 16 août 2016
    – Transfert des 4 au centre d’accueil de la Croix-Rouge à Vintimille avec un fourgon de la police —> dénudés, humiliés
    – Transfert (avec 20 autres) vers l’hotspot de Taranto
    – 23 août —> transfert à Vintimille par bus, RV avec un représentant du gouvernement soudanais qui a reconnu leur nationalité soudanaise, début procédure de renvoi vers Soudan en avion
    – Transfert à l’aéroport de Torino Caselle, mais pas de place pour les 4 dans l’avion
    – Transfert au centre de rétention de Turin
    – Personne ne part, les 4 arrivent à demander l’asile et obtenir le statut de réfugié
    – Novembre 2023 : Italie condamnée par la Cour européenne des droits de l’homme

    #justice #condamnation #Italie #frontières #frontière_sud-alpine #CEDH #cour_européenne_des_droits_de_l'homme #mauvais_traitements #privation_de_liberté #nudité #violences_policières #Taranto #hotspot #CPR #rétention #détention_administrative #réfugiés_soudanais #Turin #migrerrance #humiliation

    voir aussi ce fil de discussion sur les transferts frontière_sud-alpine - hotspot de Taranto :
    Migranti come (costosi) pacchi postali


    https://seenthis.net/messages/613202

    • Denudati, maltrattati e privati della libertà: la CEDU condanna nuovamente l’Italia

      Le persone migranti denunciarono i rastrellamenti avvenuti a Ventimiglia nell’estate 2016

      La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) ha nuovamente condannato l’Italia a risarcire con un totale di 27mila euro (più 4.000 euro di costi e spese legali) quattro cittadini sudanesi per averli denudati, maltrattati e privati della libertà nell’estate 2016 durante le cosiddette operazioni per “alleggerire la pressione alla frontiera” di Ventimiglia, quando centinaia di persone migranti venivano coattivamente trasferite negli hotspot del sud Italia 1 e, in alcuni casi, trasferiti nei CIE e quindi rimpatriati nel paese di origine 2.

      C’è da dire che la Corte avrebbe potuto condannare l’Italia con maggiore severità, soprattutto per quanto riguarda le deportazioni in un paese non sicuro come il Sudan. Tuttavia, si tratta dell’ennesima conferma che l’Italia nega i diritti fondamentali alle persone migranti e che i governi portano avanti operazioni nei quali gli abusi e i maltrattamenti delle forze dell’ordine non sono delle eccezioni o degli eccessi di un singolo agente, ma qualcosa di strutturale e quindi sistemico. E quando queste violazioni sono denunciate, nemmeno vengono condotte indagini per fare luce sulle responsabilità e indagare i colpevoli.

      La sentenza della CEDU pubblicata il 16 novembre 3 riguarda nove cittadini sudanesi arrivati in Italia nell’estate del 2016 i quali hanno denunciato diversi abusi subiti dalle autorità italiane, un tentativo di rimpatrio forzato e uno portato a termine.

      Nel primo caso i ricorrenti hanno avanzato denunce in merito al loro arresto, trasporto e detenzione in Italia, uno di loro ha anche affermato di essere stato maltrattato.

      I quattro ricorrenti del primo caso hanno ottenuto la protezione internazionale, mentre i cinque ricorrenti del secondo caso hanno affermato di aver fatto parte di un gruppo di 40 persone migranti che erano state espulse subito dopo il loro arrivo in Italia.

      Le persone sono state difese dall’avv. Gianluca Vitale e dell’avv.te Nicoletta Masuelli e Donatella Bava, tutte del foro di Torino.
      I fatti riportati nella sintesi

      I quattro ricorrenti nel primo caso sono nati tra il 1980 e il 1994. Vivono tutti a Torino, tranne uno che vive in Germania. I ricorrenti nel secondo caso sono nati tra il 1989 e il 1996. Uno vive in Egitto, uno in Niger e tre in Sudan.

      Tutti e nove i richiedenti sono arrivati in Italia nell’estate del 2016. I primi quattro hanno raggiunto le coste italiane in barca, mentre gli altri cinque sono stati salvati in mare dalla Marina italiana. Alcuni sono transitati attraverso vari hotspot e tutti sono finiti a Ventimiglia presso il centro della Croce Rossa.

      Secondo i ricorrenti nel primo caso, il 17 e il 19 agosto 2016 sono stati arrestati, costretti a salire su un furgone della polizia e portati in quella che hanno capito essere una stazione di polizia. Sono stati perquisiti, è stato chiesto loro di spogliarsi e sono stati lasciati nudi per circa dieci minuti prima che venissero prese le loro impronte digitali.

      Sono stati poi costretti a salire su un autobus, scortati da numerosi agenti di polizia, senza conoscere la loro destinazione e senza ricevere alcun documento sulle ragioni del loro trasferimento o della loro privazione di libertà. In seguito hanno scoperto di essere stati trasferiti da Ventimiglia all’hotspot di Taranto.

      Nell’hotspot di Taranto, dal quale non avrebbero potuto uscire, sostengono di aver ricevuto un provvedimento di respingimento il 22 agosto 2016. Il giorno successivo sono stati riportati a Ventimiglia in autobus.

      Secondo i ricorrenti, le condizioni all’hotspot erano difficili come lo erano durante ciascuno dei trasferimenti in autobus durati 15 ore. Erano sotto il costante controllo della polizia, in un clima di violenza e minacce, senza cibo o acqua sufficienti in piena estate.

      Sostengono di non aver incontrato un avvocato o un giudice durante quel periodo e di non aver capito cosa stesse succedendo. Il 24 agosto 2016 sono stati trasferiti da Ventimiglia all’aeroporto di Torino per essere imbarcati su un volo per il Sudan. Poiché non c’erano abbastanza posti sull’aereo, il loro trasferimento è stato posticipato. Sono stati quindi trasferiti al CIE (Centro di identificazione ed espulsione) di Torino e il Questore ha emesso per ciascuno di loro un provvedimento di trattenimento.

      Uno dei ricorrenti (T.B.) sostiene che le autorità hanno tentato di espellerlo nuovamente il 1° settembre 2016. Ha protestato e la polizia lo ha colpito al volto e allo stomaco. Lo hanno poi costretto a salire sull’aereo e lo hanno legato. Tuttavia, il pilota si è rifiutato di decollare a causa del suo stato di agitazione. È stato riportato al CIE di Torino.

      Tutti e quattro i richiedenti hanno ottenuto la protezione internazionale, essenzialmente sulla base della loro storia personale in Sudan e del conseguente rischio di vita in caso di rimpatrio.

      Secondo i ricorrenti del secondo caso, invece, non sono mai stati informati in nessun momento della possibilità di chiedere protezione internazionale. Sostengono inoltre di aver fatto parte di un gruppo di circa 40 migranti per i quali è stato trovato posto sul volo in partenza il 24 agosto 2016 e di essere stati rimpatriati a Khartoum lo stesso giorno.

      Il governo italiano ha contestato tale affermazione, sostenendo che i ricorrenti non sono mai stati sul territorio italiano. Hanno fornito alla Corte le fotografie identificative delle persone rimpatriate in Sudan il 24 agosto 2016, sostenendo che non presentavano una stretta somiglianza con i ricorrenti. Ha sostenuto inoltre che i nomi delle persone allontanate non corrispondevano a quelli dei ricorrenti. In considerazione del disaccordo delle parti, la Corte ha nominato un esperto di comparazione facciale della polizia belga (articolo A1, paragrafi 1 e 2, del Regolamento della Corte – atti istruttori) che, il 5 ottobre 2022, ha presentato una relazione per valutare se le persone rappresentate nelle fotografie e nei filmati forniti dai rappresentanti dei ricorrenti corrispondessero a quelle raffigurate nelle fotografie identificative presentate dal Governo.

      Il rapporto ha concluso, per quanto riguarda uno dei ricorrenti nel caso, W.A., che i due individui raffigurati in tali fonti corrispondevano al massimo livello di affidabilità. Per quanto riguarda gli altri quattro richiedenti, non vi era alcuna corrispondenza affidabile.
      La decisione della Corte

      Le sentenze sono state emesse da una Camera di sette giudici, composta da: Marko Bošnjak (Slovenia), Presidente, Alena Poláčková (Slovacchia), Krzysztof Wojtyczek (Polonia), Péter Paczolay (Ungheria), Ivana Jelić (Montenegro), Erik Wennerström (Svezia), Raffaele Sabato (Italia), e anche Liv Tigerstedt, Vice Cancelliere di Sezione.

      La Corte, ha ritenuto, all’unanimità, che vi è stata:

      1) una violazione dell’articolo 3 per quanto riguarda l’assenza di una ragione sufficientemente convincente per giustificare il fatto che i ricorrenti siano stati lasciati nudi insieme a molti altri migranti, senza privacy e sorvegliati dalla polizia e le condizioni dei loro successivi trasferimenti in autobus da e verso un hotspot, sotto il costante controllo della polizia, senza sapere dove stessero andando;

      2) una violazione dell’articolo 3, in quanto non è stata svolta alcuna indagine in merito alle accuse del ricorrente di essere stato picchiato da agenti di polizia durante un tentativo di rimpatrio;

      3) la violazione dell’articolo 5, paragrafi 1, 2 e 4 (diritto alla libertà e alla sicurezza) per quanto riguarda tre dei quattro ricorrenti in relazione al loro fermo, trasporto e detenzione arbitrari.

      La Corte ha stabilito che l’Italia deve pagare ai ricorrenti nel caso A.E. e T.B. contro Italia 27.000 euro per danni morali e 4.000 euro, congiuntamente, per costi e spese.

      In particolare:

      Per quanto riguarda i restanti reclami dei ricorrenti in A.E. e T.B. contro l’Italia, la Corte ha riscontrato che le condizioni del loro arresto e del trasferimento in autobus, considerate nel loro insieme, devono aver causato un notevole disagio e umiliazione, equivalenti a un trattamento degradante, in violazione dell’Articolo 3.

      Inoltre, i successivi lunghi trasferimenti in autobus dei ricorrenti sono avvenuti in un breve lasso di tempo e in un periodo dell’anno molto caldo, senza cibo o acqua sufficienti e senza che sapessero dove erano diretti o perché. Erano sotto il costante controllo della polizia, in un clima di violenza e di minacce. Queste condizioni, nel complesso, devono essere state fonte di angoscia.

      Infine, la Corte ha riscontrato una violazione dell’Articolo 3 per quanto riguarda il richiedente (T.B.) che ha affermato di essere stato picchiato durante un altro tentativo di allontanamento. Due degli altri richiedenti hanno confermato il suo racconto durante i colloqui relativi alle loro richieste di protezione internazionale; uno ha dichiarato in particolare di aver visto un altro migrante che veniva riportato dalla polizia dall’aeroporto con il volto tumefatto. Anche se T.B. aveva detto, durante un colloquio con le autorità, di essere in grado di identificare i tre agenti di polizia responsabili dei suoi maltrattamenti, non è stata condotta alcuna indagine.

      La Corte ha notato che il Governo le aveva fornito una copia di un’ordinanza di refusal-of-entry nei confronti di uno dei richiedenti, A.E., datata 1 agosto 2016, e la Corte ha quindi dichiarato inammissibile il suo reclamo sulla sua detenzione. D’altra parte, ha rilevato che gli altri tre ricorrenti nel caso, ai quali non erano stati notificati ordini di refusal-of-entry fino al 22 agosto 2016, erano stati arrestati e trasferiti senza alcuna documentazione e senza che potessero lasciare l’hotspot di Taranto. Ciò ha comportato una privazione arbitraria della loro libertà, in violazione dell’Articolo 5 § 1.

      Inoltre, era assente una legislazione chiara e accessibile relativa agli hotspot e la Corte non ha avuto alcuna prova di come le autorità avrebbero potuto informare i richiedenti delle ragioni legali della loro privazione di libertà o dare loro l’opportunità di contestare in tribunale i motivi della loro detenzione de facto.

      La Corte ha però respinto come inammissibili tutti i reclami dei nove ricorrenti, tranne uno, in merito al fatto che le autorità italiane non avevano preso in considerazione il rischio di trattamenti inumani se fossero stati rimpatriati in Sudan. In A.E. e T.B. contro Italia, i richiedenti, che avevano ottenuto la protezione internazionale, non erano più a rischio di deportazione e non potevano quindi affermare di essere vittime di una violazione dell’Articolo 3. In W.A. e altri c. Italia, la Corte ha ritenuto che quattro dei cinque ricorrenti, per i quali il rapporto della polizia belga del 2022 non aveva stabilito una corrispondenza affidabile tra le fotografie fornite dalle parti, non avessero sufficientemente motivato i loro reclami.

      La Corte ha dichiarato ammissibile il reclamo del ricorrente, W.A.. Ha osservato che i documenti disponibili erano sufficienti per concludere che si trattava di una delle persone indicate nelle fotografie identificative fornite dal Governo. Ha quindi ritenuto che fosse tra i cittadini sudanesi allontanati in Sudan il 24 agosto 2016. Tuttavia, la Corte ha continuato a ritenere che non vi fosse stata alcuna violazione dell’Articolo 3 nel caso di W.A. .

      In particolare, ha notato che c’erano state delle imprecisioni nel suo modulo di richiesta alla Corte e che, sebbene fosse stato assistito da un avvocato in diversi momenti della procedura di espulsione, aveva esplicitamente dichiarato di non voler chiedere la protezione internazionale e di essere semplicemente in transito in Italia. Inoltre, a differenza dei richiedenti nel caso A.E. e T.B. contro l’Italia, che avevano ottenuto la protezione internazionale sulla base delle loro esperienze personali, W.A. aveva sostenuto di appartenere a una tribù perseguitata dal Governo sudanese solo dopo aver presentato la domanda alla Corte europea. Questa informazione non era quindi disponibile per le autorità italiane al momento rilevante e la Corte ha concluso che il Governo italiano non ha violato il suo dovere di fornire garanzie effettive per proteggere W.A. dal respingimento arbitrario nel suo Paese d’origine.

      – Guerra al desiderio migrante. Deportazioni da Ventimiglia e Como verso gli hotspot, di Francesco Ferri (https://www.meltingpot.org/2016/08/guerra-al-desiderio-migrante-deportazioni-da-ventimiglia-e-como-verso-gl) – 17 agosto 2026
      – Rimpatrio forzato dei cittadini sudanesi: l’Italia ha violato i diritti. Rapporto giuridico sul memorandum d’intesa Italia-Sudan a cura della Clinica Dipartimento di Giurisprudenza di Torino (https://www.meltingpot.org/2017/10/rimpatrio-forzato-dei-cittadini-sudanesi-litalia-ha-violato-i-diritti-um) – 31 ottobre 2017.
      - The cases of A.E. and T.B. v. Italy (application nos. 18911/17, 18941/17, and 18959/17, https://hudoc.echr.coe.int/?i=001-228836) and W.A. and Others v. Italy (no. 18787/17, https://hudoc.echr.coe.int/?i=001-228835)

      https://www.meltingpot.org/2023/11/denudati-maltrattati-e-privati-della-liberta-la-cedu-condanna-nuovamente

  • #Taux_de_change : retour sur la politique israélienne des #otages

    Eyal Weizman, fondateur du collectif Forensic Architecture, revient sur la manière dont les #civils installés autour de #Gaza ont servi de « #mur_vivant » lors des massacres du 7 octobre perpétrés par le #Hamas, et retrace l’évolution de la politique israélienne à l’égard des otages.

    Au printemps 1956, huit ans après la Nakba (un terme arabe qui désigne « la catastrophe » ou « le désastre » que fut pour les Palestiniens la création d’Israël), un groupe de fedayins palestiniens franchit le fossé qui sépare Gaza de l’État d’Israël. D’un côté se trouvent 300 000 Palestiniens, dont 200 000 réfugiés expulsés de la région ; de l’autre, une poignée de nouvelles installations israéliennes. Les combattants palestiniens tentent de pénétrer dans le kibboutz de Nahal Oz, tuent Roi Rotberg, un agent de sécurité, et emportent son corps à Gaza, mais le rendent après l’intervention des Nations unies.

    #Moshe_Dayan, alors chef de l’état-major général d’Israël, se trouvait par hasard sur place pour un mariage et a demandé à prononcer, le soir suivant, l’éloge funèbre de Rotber. Parlant des hommes qui ont tué #Rotberg, il a demandé : « Pourquoi devrions-nous nous plaindre de la #haine qu’ils nous portent ? Pendant huit ans, ils se sont assis dans les camps de réfugiés de Gaza et ont vu de leurs yeux comment nous avons transformé les terres et les villages où eux et leurs ancêtres vivaient autrefois. » Cette reconnaissance de ce que les Palestiniens avaient perdu, les hommes politiques israéliens d’aujourd’hui ne peuvent plus se permettre de l’exprimer. Mais Dayan ne défendait pas le #droit_au_retour : il a terminé son discours en affirmant que les Israéliens devaient se préparer à une #guerre_permanente et amère, dans laquelle ce qu’Israël appelait les « #installations_frontalières » joueraient un rôle majeur.

    Au fil des ans, le #fossé s’est transformé en un système complexe de #fortifications - une #zone_tampon de 300 mètres, où plus de deux cents manifestants palestiniens ont été tués par balle en 2018 et 2019 et des milliers d’autres blessés, plusieurs couches de #clôtures en barbelés, des #murs en béton s’étendant sous terre, des mitrailleuses télécommandées - et des équipements de #surveillance, dont des tours de guet, des caméras de vidéosurveillance, des capteurs radar et des ballons espions. À cela s’ajoute une série de #bases_militaires, dont certaines situées à proximité ou à l’intérieur des installations civiles qui forment ce que l’on appelle l’#enveloppe_de_Gaza.

    Empêcher le retour des réfugiés

    Le #7_octobre_2023, lors d’une attaque coordonnée, le Hamas a frappé tous les éléments de ce système interconnecté. #Nahal_Oz, l’installation la plus proche de la clôture, a été l’un des points névralgiques de l’attaque. Le terme « #Nahal » fait référence à l’unité militaire qui a créé les installations frontalières. Les installations du Nahal ont débuté comme des avant-postes militaires et sont devenues des villages civils, principalement de type #kibboutz. Mais la transformation n’est jamais achevée et certains résidents sont censés se comporter en défenseurs quand la communauté est attaquée.

    La « #terre_des_absents » a été la #tabula_rasa sur laquelle les planificateurs israéliens ont dessiné le projet des colons sionistes après les expulsions de 1948. Son architecte en chef était #Arieh_Sharon, diplômé du Bauhaus, qui a étudié avec Walter Gropius et Hannes Meyer avant de s’installer en Palestine en 1931, où il a construit des lotissements, des coopératives de travailleurs, des hôpitaux et des cinémas. Lors de la création de l’État d’Israël, David Ben Gourion l’a nommé à la tête du département de planification du gouvernement. Dans The Object of Zionism (2018), l’historien de l’architecture Zvi Efrat explique que, bien que le plan directeur de Sharon soit fondé sur les principes les plus récents du design moderniste, il avait plusieurs autres objectifs : fournir des logements aux vagues d’immigrants arrivés après la Seconde Guerre mondiale, déplacer les populations juives du centre vers la périphérie, sécuriser la frontière et occuper le territoire afin de rendre plus difficile le retour des réfugiés.

    Dans les années 1950 et 1960, le #plan_directeur de Sharon et de ses successeurs a conduit à la construction, dans les « #zones_frontalières », définies à l’époque comme représentant environ 40 % du pays, de centres régionaux ou « #villes_de_développement » qui desservaient une constellation d’#implantations_agraires. Ces villes de développement devaient accueillir les immigrants juifs d’Afrique du Nord – les Juifs arabes – qui allaient être prolétarisés et devenir des ouvriers d’usine. Les implantations agraires de type kibboutz et #moshav étaient destinées aux pionniers du #mouvement_ouvrier, principalement d’Europe de l’Est. Les #terres appartenant aux villages palestiniens de #Dayr_Sunayd, #Simsim, #Najd, #Huj, #Al_Huhrraqa, #Al_Zurai’y, #Abu_Sitta, #Wuhaidat, ainsi qu’aux tribus bédouines #Tarabin et #Hanajre, sont occupées par les villes de développement #Sderot et #Ofakim et les kibboutzim de #Re’im, #Mefalsim, #Kissufim et #Erez. Toutes ces installations ont été visées le 7 octobre.

    La première #clôture

    À la suite de l’#occupation_israélienne de 1967, le gouvernement a établi des installations entre les principaux centres de population palestinienne à Gaza même, dont la plus grande était #Gush_Katif, près de Rafah, à la frontière égyptienne ; au total, les #colonies israéliennes couvraient 20 % du territoire de Gaza. Au début des années 1980, la région de Gaza et ses environs a également accueilli de nombreux Israéliens évacués du Sinaï après l’accord de paix avec l’Égypte.

    La première clôture autour du territoire a été construite entre 1994 et 1996, période considérée comme l’apogée du « #processus_de_paix ». Gaza était désormais isolée du reste du monde. Lorsque, en réponse à la résistance palestinienne, les colonies israéliennes de Gaza ont été démantelées en 2005, certaines des personnes évacuées ont choisi de s’installer près des frontières de Gaza. Un deuxième système de clôture, plus évolué, a été achevé peu après. En 2007, un an après la prise de pouvoir du Hamas à Gaza, Israël a entamé un #siège à grande échelle, contrôlant et limitant les flux entrants de produits vitaux - #nourriture, #médicaments, #électricité et #essence.

    L’#armée_israélienne a fixé les privations à un niveau tel que la vie à Gaza s’en trouve presque complètement paralysée. Associé à une série de campagnes de #bombardements qui, selon les Nations unies, ont causé la mort de 3 500 Palestiniens entre 2008 et septembre 2023, le siège a provoqué une #catastrophe_humanitaire d’une ampleur sans précédent : les institutions civiles, les hôpitaux, les systèmes d’approvisionnement en eau et d’hygiène sont à peine capables de fonctionner et l’électricité n’est disponible que pendant la moitié de la journée environ. Près de la moitié de la population de Gaza est au #chômage et plus de 80 % dépend de l’#aide pour satisfaire ses besoins essentiels.

    L’enveloppe de Gaza

    Le gouvernement israélien offre de généreux #avantages_fiscaux (une réduction de 20 % de l’impôt sur le revenu par exemple) aux habitants des installations autour de Gaza, dont beaucoup longent une route parallèle à la ligne de démarcation, à quelques kilomètres de celle-ci. L’enveloppe de Gaza comprend 58 installations situées à moins de 10 km de la frontière et comptant 70 000 habitants. Au cours des dix-sept années depuis la prise de pouvoir par le Hamas, malgré les tirs sporadiques de roquettes et de mortiers palestiniens et les bombardements israéliens sur le territoire situé à quelques kilomètres de là, les installations n’ont cessé d’augmenter. La hausse des prix de l’immobilier dans la région de Tel-Aviv et les collines ouvertes de la région (que les agents immobiliers appellent la « Toscane du nord du Néguev ») a entraîné un afflux de la classe moyenne.

    De l’autre côté de la barrière, les conditions se sont détériorées de manière inversement proportionnelle à la prospérité croissante de la région. Les installations sont un élément central du système d’#enfermement imposé à Gaza, mais leurs habitants tendent à différer des colons religieux de Cisjordanie. Démontrant l’aveuglement partiel de la gauche israélienne, certaines personnes installées dans le Néguev sont impliquées dans le #mouvement_pacifiste.

    Le 7 octobre, les combattants du Hamas ont forcé les éléments interconnectés du réseau de siège. Des tireurs d’élite ont tiré sur les caméras qui surplombent la zone interdite et ont lancé des grenades sur les #tours_de_communication. Des barrages de roquettes ont saturé l’#espace_radar. Plutôt que de creuser des tunnels sous les clôtures, les combattants sont venus par le sol. Les observateurs israéliens ne les ont pas vus ou n’ont pas pu communiquer assez rapidement ce qu’ils ont vu.

    Les combattants ont fait sauter ou ouvert quelques douzaines de brèches dans la clôture, élargies par les bulldozers palestiniens. Certains combattants du Hamas ont utilisé des parapentes pour franchir la frontière. Plus d’un millier d’entre eux ont pris d’assaut les bases militaires. L’armée israélienne, aveuglée et muette, n’a pas de vision claire du champ de bataille et les détachements mettent des heures à arriver. Des images incroyables sont apparues sur Internet : des adolescents palestiniens ont suivi les combattants à vélo ou à cheval, sur une terre dont ils avaient peut-être entendu parler par leurs grands-parents, maintenant transformée au point d’en être méconnaissable.

    Les #massacres du 7 octobre

    Les événements auraient pu s’arrêter là, mais ce ne fut pas le cas. Après les bases, ce furent les installations, les horribles massacres maison par maison, et le meurtre d’adolescents lors d’une fête. Des familles ont été brûlées ou abattues dans leurs maisons, des civils incluant des enfants et des personnes âgées ont été prises en otage. Au total, les combattants ont tué environ 1 300 civils et soldats. Plus de 200 personnes ont été capturées et emmenées à Gaza. Jusqu’alors, rien, dans la #violence ni la #répression, n’avait rendu de tels actes inévitables ou justifiés.

    Israël a mis des décennies à brouiller la ligne de démarcation entre les fonctions civiles et militaires des installations, mais cette ligne a aujourd’hui été brouillée d’une manière jamais envisagée par le gouvernement israélien. Les habitants civils cooptés pour faire partie du mur vivant de l’enveloppe de Gaza ont subi le pire des deux mondes. Ils ne pouvaient pas se défendre comme des soldats et n’étaient pas protégés comme des civils.

    Les images des installations dévastées ont permis à l’armée israélienne d’obtenir carte blanche de la part de la communauté internationale et de lever les restrictions qui avaient pu être imposées précédemment. Les hommes politiques israéliens ont appelé à la #vengeance, avec un langage explicite et annihilationiste. Les commentateurs ont déclaré que Gaza devrait être « rayée de la surface de la Terre » et que « l’heure de la Nakba 2 a sonné ». #Revital_Gottlieb, membre du Likoud à la Knesset, a tweeté : « Abattez les bâtiments ! Bombardez sans distinction ! Assez de cette impuissance. Vous le pouvez. Il y a une légitimité mondiale ! Détruisez Gaza. Sans pitié ! »

    L’échange de prisonniers

    Les otages civils des installations dont Israël a fait un « mur vivant » sont devenus pour le Hamas un #bouclier_humain et des atouts pour la #négociation. Quelle que soit la façon dont le #conflit se termine, que le Hamas soit ou non au pouvoir (et je parie sur la première solution), Israël ne pourra pas éviter de négocier l’#échange_de_prisonniers. Pour le Hamas, il s’agit des 6 000 Palestiniens actuellement dans les prisons israéliennes, dont beaucoup sont en #détention_administrative sans procès. La prise en otages d’Israéliens a occupé une place centrale dans la #lutte_armée palestinienne tout au long des 75 années de conflit. Avec des otages, l’#OLP et d’autres groupes cherchaient à contraindre Israël à reconnaître implicitement l’existence d’une nation palestinienne.

    Dans les années 1960, la position israélienne consistait à nier l’existence d’un peuple palestinien, et donc qu’il était logiquement impossible de reconnaître l’OLP comme son représentant légitime. Ce déni signifiait également qu’il n’y avait pas à reconnaître les combattants palestiniens comme des combattants légitimes au regard du droit international, et donc leur accorder le statut de #prisonniers_de_guerre conformément aux conventions de Genève. Les Palestiniens capturés étaient maintenus dans un #vide_juridique, un peu comme les « combattants illégaux » de l’après 11-septembre.

    En juillet 1968, le Front populaire de libération de la Palestine (FPLP) a détourné un vol d’El-Al et l’a fait atterrir en Algérie, inaugurant une série de détournements, dont l’objectif explicite était la libération de prisonniers palestiniens. L’incident d’Algérie a conduit à l’échange de 22 otages israéliens contre 16 prisonniers palestiniens, bien que le gouvernement israélien ait nié un tel accord. Seize contre 22 : ce taux d’échange n’allait pas durer longtemps. En septembre 1982, après l’invasion du Liban par Israël, le Commandement général du FPLP d’Ahmed Jibril a capturé trois soldats de l’armée israélienne ; trois ans plus tard, dans le cadre de ce qui a été appelé l’accord Jibril, Israël et le FPLP-CG sont finalement parvenus à un accord d’échange de prisonniers : trois soldats contre 1 150 prisonniers palestiniens. Dans l’accord de 2011 pour la libération de Gilad Shalit, capturé par le Hamas en 2006, le taux d’échange était encore plus favorable aux Palestiniens : 1 027 prisonniers pour un seul soldat israélien.
    Directive Hannibal

    Anticipant de devoir conclure de nombreux accords de ce type, Israël s’est mis à arrêter arbitrairement davantage de Palestiniens, y compris des mineurs, afin d’augmenter ses atouts en vue d’un échange futur. Il a également conservé les corps de combattants palestiniens, qui devaient être restitués dans le cadre d’un éventuel échange. Tout cela renforce l’idée que la vie d’un colonisateur vaut mille fois plus que la vie d’un colonisé, calcul qui évoque inévitablement l’histoire du #colonialisme et du commerce d’êtres humains. Mais ici, le taux de change est mobilisé par les Palestiniens pour inverser la profonde asymétrie coloniale structurelle.

    Tous les États ne traitent pas de la même manière la capture de leurs soldats et de leurs citoyens. Les Européens et les Japonais procèdent généralement à des échanges secrets de prisonniers ou négocient des rançons. Les États-Unis et le Royaume-Uni affirment publiquement qu’ils ne négocient pas et n’accèdent pas aux demandes des ravisseurs et, bien qu’ils n’aient pas toujours respecté cette règle à la lettre, ils ont privilégié l’abstention et le silence lorsqu’une opération de sauvetage semblait impossible.

    Cette attitude est considérée comme un « moindre mal » et fait partie de ce que les théoriciens des jeux militaires appellent le « jeu répété » : chaque action est évaluée en fonction de ses éventuelles conséquences à long terme, les avantages d’obtenir la libération d’un prisonnier étant mis en balance avec le risque que l’échange aboutisse à l’avenir à la capture d’autres soldats ou civils.

    Lorsqu’un Israélien est capturé, sa famille, ses amis et ses partisans descendent dans la rue pour faire campagne en faveur de sa libération. Le plus souvent, le gouvernement y consent et conclut un accord. L’armée israélienne déconseille généralement au gouvernement de conclure des accords d’échange, soulignant le risque pour la sécurité que représentent les captifs libérés, en particulier les commandants de haut rang, et la probabilité qu’ils encouragent les combattants palestiniens à prendre davantage d’otages. Yahya Sinwar, qui est aujourd’hui le chef du Hamas, a été libéré dans le cadre de l’#accord_Shalit. Une importante campagne civile contre ces échanges a été menée par le mouvement religieux de colons #Gush_Emunim, qui y voyait une manifestation de la fragilité de la société « laïque et libérale » d’Israël.

    En 1986, à la suite de l’#accord_Jibril, l’armée israélienne a publié la directive controversée Hannibal, un ordre opérationnel secret conçu pour être invoqué lors de la capture d’un soldat israélien par une force armée irrégulière. L’armée a nié cette interprétation, mais les soldats israéliens l’ont comprise comme une autorisation de tuer un camarade avant qu’il ne soit fait prisonnier. En 1999, #Shaul_Mofaz, alors chef de l’état-major général, a expliqué cette politique en ces termes : « Avec toute la douleur que cela implique, un soldat enlevé, contrairement à un soldat tué, est un problème national. »

    Bien que l’armée ait affirmé que le nom de la directive avait été choisi au hasard par un programme informatique, il est tout à fait approprié. Le général carthaginois Hannibal Barca s’est suicidé en 181 avant J.-C. pour ne pas tomber aux mains des Romains. Ceux-ci avaient fait preuve d’une détermination similaire trente ans plus tôt : lorsque Hannibal tenta d’obtenir une rançon pour les soldats qu’il avait capturés lors de sa victoire à Cannes, le Sénat, après un débat houleux, refusa et les prisonniers furent exécutés.

    Le 1er août 2014, lors de l’offensive sur Gaza connue sous le nom d’« #opération_Bordure_protectrice », des combattants palestiniens ont capturé un soldat de Tsahal près de Rafah, et la #directive_Hannibal est entrée en vigueur. L’armée de l’air a bombardé le système de tunnels où avait été emmené le soldat, tuant 135 civils palestiniens, dont des familles entières. L’armée a depuis annulé la directive. Toutefois, la plupart des bombardements actuels vise les #tunnels où se trouvent les postes de commandement du Hamas et les otages : le gouvernement semble ainsi, par ces bombardements aveugles, non seulement menacer les Gazaouis d’une #destruction sans précédent, mais aussi revenir au principe de préférer des captifs morts à un accord. #Bezalel_Smotrich, ministre israélien des finances, a appelé à frapper le Hamas « sans pitié, sans prendre sérieusement en considération la question des captifs ». #Gilad_Erdan, ambassadeur d’Israël auprès des Nations unies, a déclaré que les otages « ne nous empêcheraient pas de faire ce que nous devons faire ». Mais dans cette guerre, le sort des #civils de Gaza et des Israéliens capturés est étroitement lié, tout comme celui des deux peuples.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/041123/taux-de-change-retour-sur-la-politique-israelienne-des-otages
    #Israël #Palestine #Eyal_Weizman #à_lire

    • Commémor’action des mort.e.s aux frontières le 6 février 2022

      Depuis 2014, et le massacre de Tarajal, le 6 février est devenu un jour de commémoration pour toutes les personnes décédées ou disparues aux frontières, victimes - sur leur parcours d’exil - de politiques migratoires assassines.
      En plus de la traditionnelle Marche pour la Dignité à Ceuta le 5 février (IXe édition), de nombreux évènements de commémor’action sont prévus en Afrique et en Europe le 6 février pour rendre hommage à ces victimes que nous n’oublions pas, réclamer justice, et rappeler que la migration est un droit.
      Liberté de circulation pour toutes et tous !

      https://migreurop.org/article3082.html?lang_article=fr

      La #liste des lieux de commémoraction :
      https://migreurop.org/IMG/pdf/events_commemoraction_2022.pdf

    • #6_février_2014 : Massacre de #Tarajal

      Le permis de tuer des gardes-frontières

      Aujourd’hui, les familles des victimes et leurs soutiens commémorent, pour la quatrième année consécutive, le massacre de Tarajal. Cette date est devenue l’un des symboles tragiques de politiques migratoires qui portent atteinte aux droits et à la vie des personnes en exil.

      Le 6 février 2014, plus de 200 personnes, parties des côtes marocaines, ont tenté d’accéder à la nage à l’enclave espagnole de Ceuta. Alors qu’elles n’étaient plus qu’à quelques dizaines de mètres de la plage du Tarajal, la Guardia civil a utilisé du matériel anti-émeute – fumigènes et balles en caoutchouc – pour les empêcher d’arriver en « terre espagnole ». Ni la Guardia civil ni les militaires marocains présents n’ont porté secours aux personnes qui se noyaient devant eux. Quinze corps ont été retrouvés côté espagnol, des dizaines d’autres ont disparu, les survivants ont été refoulés, certains ont péri côté marocain.
      Les investigations menées par des journalistes et des militant·e·s européen·ne·s ont permis de produire des images et de récolter des témoignages de survivants et témoins oculaires établissant directement la responsabilité des gardes civils pour ces morts. La juge en charge de l’affaire a elle conclu à l’absence d’irrégularités quant au matériel utilisé par la Guardia civil. Elle a également validé la décision de refouler directement vers le Maroc les 23 personnes qui avaient réussi à atteindre la plage.
      Le 16 octobre 2015, la juge a classé l’affaire et abandonné les poursuites contre les 16 gardes civils mis en examen. Dans son ordonnance, elle allait jusqu’à souligner la responsabilité des victimes : « Les migrants ont assumé le risque d’entrer illégalement sur le territoire espagnol par la mer, à la nage, faisant de plus abstraction des agissements dissuasifs tant des forces marocaines que de la Guardia civil ». L’Asociación Pro Derechos Humanos de Andalucía avait alors répliqué qu’« en aucun cas le droit de migrer n’implique d’assumer le fait que l’on peut mourir pendant son parcours ou à la frontière. Ce qui s’est passé n’est pas un accident et il est nécessaire de faire lumière, de sanctionner les responsables et de garantir que ça ne se reproduise plus » [1].

      En juin 2016, des familles de victimes se sont vu refuser leur demande de visa pour aller identifier le corps de leurs fils à Ceuta. Après que de nombreux vices de procédure ont été soulevés, l’enquête a cependant été rouverte avant d’être à nouveau classée en janvier 2018.
      Pour que ces morts ne sombrent pas dans l’oubli, la société civile espagnole s’est mobilisée et a organisé le 3 février 2018 la cinquième « Marche de la dignité » à Ceuta.

      Migreurop soutient ces mobilisations et toutes les initiatives visant à faire la lumière sur le massacre de Tarajal. À la suite de la condamnation de l’Espagne par la Cour européenne des droits de l’Homme [2], le réseau et ses membres exigent l’arrêt immédiat et définitif des pratiques illégales opérées à cette frontière par la Guardia civil, notamment les refoulements menés en coopération avec les autorités marocaines, tant au niveau des barrières de Ceuta ou Melilla que sur les côtes de ces enclaves.
      La semaine passée, au moins 110 nouvelles personnes, dont une vingtaine parties des côtes marocaines, ont perdu la vie en tentant d’atteindre l’Europe. Elles ont rejoint la liste des plus de 16 000 personnes mortes en Méditerranée depuis 2013. Au travers de la militarisation de ses frontières extérieures, l’Union européenne pratique depuis de nombreuses années une politique du laissez-mourir incarnée notamment dans la criminalisation des actions de secours et de sauvetage [3]. Le massacre de Tarajal rappelle que, sans respect du droit à émigrer, formulé notamment dans l’art. 13 de la Déclaration universelle des droits de l’Homme (DUDH), les politiques de « contrôle des flux » relèvent non seulement de la non assistance à personne en danger mais sont également à l’origine d’atteintes délibérées au droit le plus fondamental, celui à la vie (art. 3 DUDH).

      http://migreurop.org/article2856.html?lang=fr

    • 6 février : journée internationale de CommemorAction des disparu·es aux frontières

      Avec notre terme « Commemor’Action », nous faisons une double promesse : celle de ne pas oublier ceux qui ont perdu la vie et celle de lutter contre les frontières qui les ont tués. Nous offrons un espace de commémoration et nous construirons collectivement quelque chose à partir de notre chagrin. « Leur vie, notre lumière leur destin, notre colère ».

      Leur vie, notre lumière
      leur destin, notre colère"
      ont fait partie des mots choisis à Marseille pour exprimer les émotions face à ces injustices.

      Avec notre terme "Commemor’Action", nous faisons une double promesse : celle de ne pas oublier ceux qui ont perdu la vie et celle de lutter contre les frontières qui les ont tués. Nous offrons un espace de commémoration et nous construirons collectivement quelque chose à partir de notre chagrin. Nous ne sommes pas seul.e.s et nous n’abandonnerons pas. Nous continuerons à lutter pour la liberté de mouvement de toutes et tous dans notre vie quotidienne, nous exigeons la vérité, la justice et la réparation pour les victimes de la migration et leurs familles.

      Depuis 2020, nous consacrons la journée de 6 février à la Commemor’Action dans différents endroits du monde. (le lien pour une vidéo vers un extrait des différentes mobilisations ici )

      Nous, sommes des parent.e.s, ami.e.s et connaissances de personnes décédées, portées disparues et/ou victimes de disparitions forcées le long des frontières terrestres ou maritimes, en Afrique, en Amérique, en Asie, en Europe et partout dans le monde. Des personnes qui ont survécu à la tentative de traverser les frontières à la recherche d’un avenir meilleur. Des citoyen.e.s solidaires qui assistent et secourent les personnes en mobilité se trouvant dans des situations de détresse. Des pêcheurs, des activistes, des militant.e.s, des migrant.e.s, des académicien.e.s,…etc. Nous sommes une grande famille.

      La Commemor’Action, c’est un mémento chargé d’actions mêlant messages politiques et performances artistiques, mais surtout, mettant en relation les proches en deuil avec le plus grand nombre de personnes possible pour créer ensemble des plateformes et ainsi faire connaître leurs histoires et leurs revendications. Les journées de Commémor’Action sont des moments pour se souvenir de ces victimes et construire collectivement des processus de soutien aux familles dans leurs revendications de vérité et de justice aux noms de leurs êtres chers.

      Les crimes contre l’humanité en mobilité marquent tellement de jours de l’année avec peine et colère qu’il est impossible d’en choisir un seul. La date symbolique du 6 Février fait référence au massacre de 2014 à Tarajal où la Guardia Civil, a tiré des balles en caoutchouc pour dissuader les migrant.e.s tentant de rejoindre les côtes espagnoles. Cet acte criminel et inhumain qui demeure impuni a causé la mort de 15 personnes sous les yeux du système qui les traque et plusieurs disparu.e.s, laissant leurs familles et proches dans l’oubli.

      Nous nous engageons à ne pas les oublier : chaque année, à travers des actions décentralisées dans des horizons différents et contextes variés (Tarajal, Agadez, Berlin, Calais, Dakar, Douala, Marseille, Mexique, Niamey, Oujda, Palerme, Paris, Tunisie, Zarzis…etc.)nous nous réunirons pour protester contre ces régimes assassins.

      A Marseille, en ce 6 février 2023, de nombreuses personnes se sont retrouvées et rencontrées sous l’ombrière du vieux port en début de soirée afin de visibiliser et rendre hommage. Les mots sont difficiles à trouver pour résumer ces quelques heures partagées ensemble mais elles étaient puissantes et importantes. Merci à toutes les personnes qui se sont exprimées. Merci d’avoir parlé de ce qu’il se passe aux portes de nos frontières internes (en France et notamment avec la nouvelle loi contre l’immigration de Darmanin qui va précariser et diviser davantage les personnes en situation d’exile en France, les situations entre l’Italie et la France, entre la France et le Royaume Uni) mais aussi aux portes de l’Europe, sur la route des Balkans, en Méditerranée et bien au delà entre les Etats Unis et le Mexique notamment. . Merci d’avoir abordé la question de l’externalisation des frontières, du fait que les crimes et la répression des états européens commencent déjà bien au Sud, au Sahel, au Niger, en Lybie, au Maroc, en Tunisie et font là aussi de nombreuses victimes et injustices. Merci d’avoir rappelé que les Etats Européens sont responsables et coupables, notamment à l’aide de Frontex, organe assez opaque et pourtant étant celui recevant le + d’argent des pays européens (budget 2022 : 704 703 142 d’euros. 2021 : 499 610 042 d’euros) ( voir campagne Abolish Frontex). Merci aux personnes qui se sont exprimées pour parler de leurs expériences sur diverses routes migratoires pour arriver jusqu’ici, des personnes laissées en chemin, des milliers de kilomètres parcourus, parfois à pieds pour arriver jusqu’ici et faire face à cet accueil, ou plutôt trop souvent ce non-accueil, honteux. Et merci à toutes les personnes qui n’ont pas pu s’exprimer mais que nos coeurs ont honorées, pour lesquelles nos pensées se sont unies et ont rendu hommage à leur silence subi.

      Nous exigeons que ces morts soient reconnues comme des victimes des régimes impérialistes racistes et des états capitalistes. Et parce que nos politiques gouvernementales ne leur rendent pas justice nous construisons ensemble cette justice et nous ne cesserons de lutter pour la faire reconnaître. Nos états ne prennent pas leurs responsabilités, empirent la situation et rendent ce monde de plus en plus inhumain et justifient leurs crimes racistes de manières abjectes et insensée. Nous n’abandonnerons jamais parce que notre objectif est bien plus puissant que les leurs, celui de vivre dans un monde plus juste pour toutes et tous. Et parce que nous ne voulons pas d’un monde qui perpétue le colonialisme et le racisme et dans lequel certaines vies et certaines morts ont davantage de valeur que d’autres.

      Depuis les nombreuses mobilisations qui ont eut lieu dans d’autres villes au Mali, au Togo, en Grèce, en Tunisie, au Sénégal, au Liban, au Maroc, en Allemagne, ailleurs en France, en Espagne, en Italie, à Malte, en Sierra Leone, en Autriche, on a pu lire :

      Des vies pas des nombres !

      Migrer pour vivre, pas pour mourir !

      Ni oubli, ni pardon !

      Combattre le racisme, partout tout le temps.

      Vos frontières, nos morts !

      Ensemble luttons pour la liberté de circulation !

      Pour plus d’informations et soutenir cet engagement noble et pour retrouver la collection des actions menées partout dans le monde :

      Adresse mail : globalcommemoraction@gmail.com

      Facebook : Commemor-Action

      Pages : www.missingattheborders.org ; www.alarmephonesahara.info

      https://blogs.mediapart.fr/clementine-seraut/blog/080223/6-fevrier-journee-internationale-de-commemoraction-des-disparu-es-au

      #2023

    • 6 Février 2021 : Journée internationale de Commémoraction pour les personnes tuées et disparues sur les routes de migration

      Le 6 février 2014, plus de 200 personnes migrantes ont essayé d’entrer dans la ville de Ceuta, enclave espagnole, depuis le territoire marocain à travers la plage de Tarajal. La Guardia Civil espagnole tirait des cartouches de fumée et des balles en caoutchouc sur les personnes dans l’eau pour les empêcher aux personnes d’entrer dans le territoire espagnol. Quinze migrants étaient tués du côté espagnol, des dizaines ont disparu et d’autres sont morts sur le territoire marocain.

      Depuis lors, le 6 février a été déclaré un jour de commémoration pour les personnes migrantes tuées et disparues le 6 février 2014 entre Tarajal et Ceuta et au-delà pour toutes les personnes migrantes et réfugiées tuées et disparues dans les mers, dans les déserts, aux frontières et sur les routes de migration.

      Malgré les conditions difficiles et exceptionnelles imposées par la pandémie de Covid-19, le samedi 6 février 2021, des CommémorActions transnationales pour les mort-e-s de la migration ont eu lieu, entre autres, à Agadez au Niger ; à Sokodé au Togo ; à Oujda et Saidia au Maroc ; à Dakar et Gandiol au Sénégal ; à Madrid et d’autres villes en Espagne, à Bruxelles et à Liège en Belgique et à Berlin et Frankfort en Allemagne.

      https://alarmephonesahara.info/fr/blog/posts/6-fevrier-2021-journee-internationale-de-commemoraction-pour-les

    • 6 février : Journée mondiale de Commémor‘Action pour les mort.e.s, disparu.e.s et les victimes de disparitions forcées en mer et aux frontières !

      Le 6 février 2021, les militant.e.s du réseau Alarm Phone organisent des actions dans différentes villes au Maroc et au Sénégal. “Nous connaissons tout.e.s la tragédie qui s’est produite le 6 février 2014 à Ceuta, sur la plage de Tarajal” explique Babacar Ndiaye, militant du réseau Alarm Phone qui prépare actuellement les activités de commémoration à Dakar, au Sénégal. “La Guardia Civil espagnole a tiré sur des migrants qui tentaient de rejoindre la plage. Par la suite, on a parlé de 14 morts, mais il y en a eu beaucoup d’autres. Depuis nous avons organisé des journées de commémor‘action chaque année. Cette année avec la pandémie, nous nous réunirons en petits groupes dans différentes villes, y compris ici au Sénégal”.

      Abdou Maty, membre de Alarm Phone basé à Laayoune ajoute : “Jusqu’à présent ces décès n’ont pas été reconnus pour ce qu’ils sont : des meurtres. Par nos actions, nous voulons commémorer les vies qui ont été perdues. Luttons pour la justice, pour la liberté de circulation ! Le 6 février, nous nous réunissons pour échanger avec les familles des mort.e.s et des disparu.e.s en mer. Nous rendons visibles nos luttes, la souffrance des personnes qui traversent les frontières. Le 6 février est une journée de commémor‘action mondiale !”

      En raison de la pandémie plusieurs actions décentralisées seront organisées à travers le Maroc au lieu d’un seul grand événement. Parmi les activités prévues figurent une manifestation “Main sur le coeur – Action aux disparus” à Berkane (est du Maroc), une caravane de solidarité sur la plage de Saidia à la frontière maroco-algérienne organisée par Alarm Phone Oujda, une minute de silence avec la communauté des migrant.e.s et un match de football à Tanger, ainsi que des prières et une cérémonie de commémoration dans le port de Laayoune (Sahara Occidental).

      Des activités auront également lieu dans d‘autres pays pour commémorer les mort.e.s en mer. À Dakar, au Sénégal, une manifestation est organisée par les membres de Alarm Phone et d’autres groupes devant la mairie, une liste des naufrages survenus en Méditerranée occidentale et dans l’Atlantique en 2020 sera affichée. À Sokodé, au Togo, des militant.e.s organisent une campagne de sensibilisation et une émission radio ainsi qu’une action symbolique en déposant des fleurs dans le fleuve Na. À Agadez, au Niger, des militant.e.s et des migrant.e.s se réuniront pour écouter les témoignages de ceux qui ont perdu leurs proches à la frontière, projetteront des films et animeront des débats sur le thème des politiques meurtrières de l’Europe. En Espagne, des groupes d’activistes organisent des manifestations et des ateliers en ligne dans de nombreuses villes espagnoles les 5 et 6 février.

      Khady Ciss, membre de Alarm Phone Tanger, veut envoyer un message fort à l’Union européenne : “L’immigration n’est pas un crime ! L’Union européenne et le gouvernement marocain ont des obligations internationales en matière de droits humains, mais leur préoccupation est axée sur la protection de leurs frontières et pas tournée vers les vies humaines qu’ils détruisent ! Nous dénonçons toute forme de racisme, de violence physique et nous demandons justice !”

      Junior Noubissy, également membre de Alarm Phone Tanger, souligne le travail essentiel des organisations de sauvetage en mer : “Sauver des vies en mer n’est pas un crime, mais une nécessité. Notre objectif est de faire du 6 février une date connue dans le monde entier. Nous luttons pour qu’un jour, les migrant.e.s soient des êtres humains libres”.

      Les meurtres du 6 février 2014 ne sont pas le seul incident autour duquel les militants du Alarm Phone s’organisent ces jours-ci. Dans plusieurs villes européennes et en Tunisie, des rassemblements et des manifestations commémoreront le naufrage du 9 février 2020, au cours duquel 91 personnes sont mortes en mer méditerrannée entre la Libye et l’Italie.

      Hommage à tous et à toutes les migrant.e.s mort.e.s et disparu.e.s en mer et aux frontières !

      Toute notre solidarité avec leurs familles et leurs amis !

      Nous ne les oublierons pas !

      https://www.youtube.com/watch?v=K6ucdt8TGvo&source_ve_path=Mjg2NjY&feature=emb_logo

      https://alarmphone.org/fr/2021/02/05/6-fevrier-journee-mondiale-de-commemoraction

    • Tarajal : transformer la douleur en Justice

      Le 6 février 2014, quatorze personnes ont perdu la vie en tentant de rejoindre l’Espagne après avoir été violées avec du matériel anti-émeute par les autorités espagnoles. Leurs familles favoriseraient un processus organisationnel sans précédent pour transformer leur profonde douleur en justice.

      https://i.imgur.com/uq3NV19.png
      LES FAITS

      Le 6 février 2014, nous avons reçu à l’aube un appel d’une personne désespérée alertant d’un « massacre » qui était en train de se perpétrer sur une plage espagnole. Selon ce que les rescapés ont rapporté à l’autre bout du fil, trois cents personnes ont tenté de gagner Ceuta à la nage en essayant de contourner la jetée du Tarajal. C’est alors que des agents de la Guardia civil espagnole ont commencé à tirer du matériel anti-émeute (bombes lacrymogènes et balles en caoutchouc) sur les personnes qui nageaient pour atteindre le rivage.

      De la violence a été exercée à partir de plusieurs points. En effet, on a tiré à bout portant sur les bouées et les corps de ceux qui nageaient à partir des blocs de pierre de la jetée du Tarajal elle-même et au moins d’un bateau et d’une embarcation de type Zodiac avec des agents de la Guardia civil à bord. Par ailleurs, des coups de feu de dissuasion ont été tirés depuis le « mirador » (la tour de contrôle de la Guardia civil espagnole), pour décourager ceux qui protégeaient les corps de leurs compagnons de voyage déjà décédés.

      « Les premières fois ils ont tiré en l’air, mais quand ils ont réalisé que nous avions dépassé la déviation de la jetée et que nous nous approchions de la côte espagnole, ils ont commencé à tirer sur les corps. Dans mon cas, la première balle m’a atteint dans le dos et la seconde dans la mâchoire. »

      « Sanda a appelé à l’aide, a tendu sa main vers le rocher et la Guardia civil l’a frappé et renvoyé dans l’eau. »

      La non-assistance à personne en danger par la Guardia civil espagnole et l’absence de tentatives de réanimation des personnes inconscientes par les forces de l’ordre marocaines ont éliminé toute possibilité de pouvoir sauver la vie de ceux qui étaient en danger et qui ont fini par mourir. Ce sont les migrants eux-mêmes qui ont tenté d’aider leurs compagnons évanouis et qui, avec l’aide des forces marocaines, ont ramené les corps inertes sur la côte marocaine. L’État espagnol a refusé toute collaboration pour repêcher les corps au motif que les décès s’étaient produits sur le territoire marocain. Au moins quinze personnes sont mortes, et le corps de l’une d’entre elles n’a jamais été retrouvé. Au moins seize des survivants arrivés en Espagne ont subi un renvoi immédiat, dont un mineur de dix-sept ans.
      LES FAMILLES

      « Je me suis faite la promesse de voir un jour, avec l’aide de Dieu, l’endroit où repose la dépouille de mon fils, ne serait-ce qu’une fois, et de ramener ses cendres sur la terre de nos ancêtres afin que nous puissions lui organiser des funérailles dignes, conformes à nos traditions africaines. Je vous livre mon témoignage alors que je n’ai toujours pas surmonté le traumatisme causé par la disparition de Larios. Que justice soit faite, au nom de mon fils. »
Ndeubi Marie-Thérèse, mère de Larios Fotio.

      Les familles des victimes nous ont contactés au fur et à mesure qu’elles recevaient des informations sur ce qui s’était passé : elles cherchaient à connaître les faits et à savoir quoi faire pour retrouver le corps de leurs proches décédés. Le premier à le faire était le frère de Larios Fotio. En effet, en voyant que ses amis mentionnaient Helena Maleno sur les réseaux sociaux après la tragédie, il a décidé de nous écrire en même temps qu’il annonçait à sa mère, Ndeubi Marie-Thérèse, la mort de son fils Larios.

      Les familles ont fait confiance à notre collectif pour reconstruire le déroulement des faits qui ont mené à la mort de leurs proches, une tâche qu’aucune institution espagnole n’a daigné réaliser. Le 8 février, nous nous sommes rendus aux morgues de l’hôpital Hassan II à Fnideq et de l’hôpital Mohamed VI à M’diq avec des parents et des amis des victimes. L’ambassade du Cameroun au Maroc a soutenu cette opération et a pris en charge l’enterrement de quatre morts identifiés. Le 25 février, nous avons lancé notre enquête sur les faits et quelques semaines plus tard nous avons publié un rapport inédit reconstituant la tragédie et ses conséquences.

      Pour lever les multiples doutes qui planaient sur l’affaire et répondre au besoin de connaître les détails de ce qui s’est passé, plusieurs visites ont été nécessaires au Cameroun, pays d’origine de plusieurs des défunts. Lors de la première réunion, les familles des victimes nous ont donné leur consentement exprès pour les représenter à travers diverses entités qui se sont présentées en tant qu’accusation populaire lorsqu’en février 2015 la juge d’instruction a convoqué seize agents de la Guardia civil espagnole pour apporter leur témoignage sur ce qui s’était produit.

      Sur le plan judiciaire, « l’affaire Tarajal » a été une suite d’ouvertures et de clôtures d’enquête. Notre collectif a exprimé son désaccord avec la décision de ne pas recueillir les témoignages des survivants, même par vidéoconférence, ainsi qu’avec le refus d’accorder des visas pour que les familles puissent se rendre sur le lieu de décès de leurs proches et leur rendre hommage. Finalement, l’affaire a été classée en octobre 2019, sans que les responsables n’aient été condamnés ni que les familles n’aient été indemnisées pour leurs pertes. Caminando Fronteras parie toujours sur l’accompagnement des familles dans des actions alternatives à la justice européenne afin d’obtenir la vérité, la réparation et des garanties de non-répétition.

      Nous sommes retournés au Cameroun en 2016 dans le but de réaliser un documentaire mettant en avant les proches des victimes. « Tarajal : Transformar el dolor en justicia » (Tarajal : transformer la douleur en justice) (Caminando Fronteras, 2016) a mis en lumière la lutte pour rendre leur dignité aux victimes et le processus communautaire pour y parvenir. En effet, pour la première fois, des familles d’Afrique subsaharienne se sont organisées pour exiger des responsabilités à la suite de morts survenues à la frontière. Cette deuxième visite a abouti à la naissance de « Asociación de Familias de Víctimas de Tarajal » (l’association des familles de victimes du Tarajal).

      « La justice signifie la lumière, connaître les circonstances dans lesquelles les faits se sont produits, « la vérité »… Si on connaît « la vérité », il faut que la culpabilité des personnes impliquées soit établie. La réparation aura lieu lorsque justice sera faite » 24:58 (déclaration du frère d’une des victimes lors de l’assemblée de fondation de l’association).

      En 2017, l’association « Asociación de Familias de Víctimas de Tarajal » a décidé, à l’occasion du troisième anniversaire de la tragédie, d’organiser un hommage aux victimes des frontières à Douala, auquel ont participé des dizaines de familles de morts aux frontières. Au cours de cette rencontre, que nous avons contribué à promouvoir, les proches des victimes ont relaté la violence de la situation aux frontières, ont montré leur inquiétude face au nombre croissant de jeunes qui émigrent et ont expliqué ce que signifiait faire le deuil de leurs proches au milieu de tant d’incertitudes. À la fin de l’hommage, une liaison en direct avec le parlement espagnol a été organisée, après la projection de notre documentaire devant des députés. Bien qu’insuffisant, ce fut le seul acte de réparation par une institution espagnole aux familles, qui ont pu occuper le Parlement de leurs voix pour demander, une fois de plus, justice pour leurs défunts.

      https://caminandofronteras.org/fr/tarajal-transformer-la-douleur-en-justice

    • L’#appel


      À l’approche du 6 février et de la commémoration du massacre de Tarajal, le CRID appelle à soutenir et relayer l’appel de #Global_Commemoraction « 6 février 2023 : migrer est un droit ! », pour une Journée mondiale de lutte contre le régime de mort aux frontières et pour exiger la vérité, la justice et la réparation pour les victimes de la migration et leurs familles.

      L’appel :

      Journée mondiale de lutte contre le régime de mort aux frontières et pour exiger la vérité, la justice et la réparation pour les victimes de la migration et leurs familles

      Nous sommes parents, amis et amies de personnes décédées, portées disparues et/ou victimes de disparitions forcées le long des frontières terrestres ou maritimes, en Europe, en Afrique, en Amérique.

      Nous sommes des personnes qui ont survécu à la tentative de traverser les frontières à la recherche d’un avenir meilleur.

      Nous sommes des citoyen.e.s solidaires qui aident les immigré.e.s durant leur voyage en fournissant une aide médicale, de la nourriture, des vêtements et un soutien lorsqu’ils se trouvent dans des situations dangereuses pour que leur voyage ait une bonne fin.

      Nous sommes des activistes qui ont recueilli les voix de ces immigrés et de ces immigrées avant leur disparition, qui s’efforcent d’identifier les corps anonymes dans les zones frontalières et qui leur donnent une sépulture digne.

      Nous sommes une grande famille qui n’a ni frontières ni nationalité, une grande famille qui lutte contre les régimes de mort imposés à toutes les frontières du monde et qui se bat pour affirmer le droit de migrer, la liberté de circulation et la justice globale pour tous et toutes.

      Année après année, nous assistons aux massacres en cours aux frontières et dans les lieux de détention conçus pour décourager les départs des personnes migrantes. Nous ne pouvons pas oublier ces victimes ! Nous ne voulons pas rester silencieux face à ce qui se passe !

      En février 2020, familles et militants se sont réunis à Oujda pour organiser le premier Grand CommémorAction. A cette occasion, nous avons choisi la date du 6 février, jour du massacre de Tarajal, comme date symbolique pour organiser des événements décentralisés dans tous les pays du monde contre la militarisation des frontières et pour la liberté de circulation.

      En septembre 2022, nous nous sommes réunis à Zarzis en Tunisie pour la deuxième Grand CommémorAction et à cette occasion nous avons réaffirmé notre volonté de continuer à construire la date du 6 février comme une journée pour unifier toutes les luttes que de nombreuses organisations mènent chaque jour pour dénoncer la violence mortelle des régimes frontaliers du monde et pour exiger vérité, justice et réparation pour les victimes de la migration et leurs familles.

      Nous demandons à toutes les organisations sociales et politiques, laïques et religieuses, aux groupes et collectifs des familles des victimes de la migration, aux citoyens et citoyennes de tous les pays du monde d’organiser des actions de protestation et de sensibilisation à cette situation le 6 février 2023.

      Nous vous invitons à utiliser le logo ci-dessus, ainsi que vos propres logos, comme élément pour souligner le lien entre toutes les différentes initiatives. Tous les événements qui auront lieu seront publiés sur la page Facebook Commemor-Action

      Migrer pour vivre, pas pour mourir !

      Ce sont des personnes, pas des chiffres !

      Liberté de mouvement pour tous et toutes !

      https://crid.asso.fr/appel-de-global-commemoraction-pour-le-06-fevrier-migrer-est-un-droit

    • Journée de commémoration pour les morts aux frontières : « On veut migrer pour vivre, pas pour mourir »

      Comme dans de nombreuses villes d’Afrique du Nord et d’Europe, une centaine de personnes se sont retrouvées, à Paris, lundi soir, pour la quatrième journée internationale de « CommémorAction ».

      A la lumière du jour qui décline, quelques manifestants se rejoignent près de la fontaine des Innocents, à Paris. Majoritairement issus du secteur associatif, ils commentent, emmitouflés dans leurs vestes d’hiver, le projet de loi sur l’immigration, l’expulsion d’un squat la veille dans le XVe arrondissement ou encore les projets de leurs structures respectives tout en acceptant les bougies que leur tendent les organisateurs. La mobilisation à laquelle ils participent est organisée dans une quarantaine de villes d’Afrique du Nord et d’Europe et rend hommage aux quinze hommes morts le 6 février 2014.

      Ce jour-là, environ 200 personnes ont essayé de traverser à la nage la délimitation entre le Maroc et l’enclave espagnole de Ceuta. Afin de les empêcher d’accéder au territoire européen, la Guardia civil a tiré 145 balles de caoutchouc et cinq fumigènes, selon Amnesty International. Dans une panique générale, quinze hommes se sont noyés et une dizaine ont disparu. Les seize gardes-frontières espagnols assignés en justice pour non-assistance à personne en danger et pour avoir utilisé du matériel anti-émeute ont été acquittés en octobre 2015 et l’affaire a été classée. La mobilisation des familles des victimes, des associations et de journalistes a poussé à la réouverture de l’enquête, qui a été classée à nouveau, en 2018. La commémoration de cet événement tragique est devenue celle de tous les morts et disparus aux frontières notamment françaises.
      « Derrière les noyades, il y a des violences, des os cassés et brisés »

      Dès 2014, des manifestations et des commémorations ont eu lieu en Espagne, au Maroc, au Cameroun, en Guinée, au Mali ou encore au Niger pour honorer la mémoire des défunts et réclamer justice. En 2020, les proches des disparus se sont retrouvés à Oujda (Maroc) pour organiser la première « journée mondiale de CommémorAction contre le régime de mort aux frontières et pour exiger la vérité, la justice et la réparation pour les victimes de la migration et leurs familles ».

      A Paris, devant les portraits alignés des morts de la plage de Tarajal – des carrés noirs ont été accrochés pour ceux dont l’identité n’a pas encore été définie –, un texte commun signé par la liste des associations organisatrices (Coordination des sans-papiers 75, 20 et de Montreuil, le Crid, Emmaüs International, la Cimade…) est lu, avant une prise de parole. Une militante de la Coordination des sans-papiers du 75 évoque la situation de la Tunisie, son pays d’origine. « Derrière les noyades, il y a des violences, des os cassés et brisés. […] On veut migrer pour vivre, pas pour mourir ! » assène-t-elle.
      Bribes de témoignage

      Nayan K. de l’organisation Solidarités Asie France cite, lui, l’exemple de Tonail, 38 ans, originaire du Bangladesh, mort fin 2022 à la frontière turque. Il aurait payé des passeurs plus de 10 000 euros pour arriver en France. C’est son compagnon de route qui le trouvera mort de froid alors qu’ils cherchaient à traverser la frontière turque. Sur la photo que celui-ci a diffusée sur les réseaux sociaux pour pouvoir l’identifier, on voit Tonail vêtu de toutes les couches de vêtements qu’il a pu trouver, allongé dans la neige, immobile, les yeux mi-ouverts. Sa famille, dont il était l’aîné, a pu rapatrier son corps au Bangladesh pour lui offrir des funérailles.

      En France, on pourrait aussi nommer Ibrahima Diallo, originaire du Sénégal, et Abdouraman Bah, de nationalité guinéenne, qui se sont noyés dans le fleuve Bidassoa, à la frontière basque, respectivement le 12 février et le 18 juin 2022, selon l’association d’aide aux migrants Bidasoa Etorkinekin. Ou encore Ullah Rezwan Sheyzad, un garçon de 15 ans qui avait quitté l’Afghanistan en juin 2021 et a été retrouvé mort en février 2022 près d’une voie ferrée à la frontière franco-italienne. Dans son sac à dos, quelques adresses de connaissances à Paris.

      Pour retrouver un proche disparu sur les routes des migrations, les familles peuvent s’adresser à Restoring Family Links, un programme proposé par la Croix-Rouge internationale. Du fait de la longueur des procédures, elles se tournent également vers les associations et ONG présentes dans les pays de sorties et d’arrivées qui collectent le maximum d’informations et de bribes de témoignages possibles. Lors des départs, Alarm Phone, spécialisée dans le sauvetage en mer, peut aussi leur fournir des informations sur la localisation de leurs proches.
      « Ce ne sont pas les frontières qui tuent, c’est leur sécurisation »

      En attendant, parfois, de retrouver le corps d’un proche, « faire son deuil est difficile », affirme Mohammed T., du Collectif des sans-papiers du XXe. Quand des obsèques finissent par être organisées, avec ou sans la dépouille du défunt, elles prennent place dans le pays d’origine de la personne et dans celui où elle est décédée. « On loue une grande salle, et pendant tout le week-end, de 8 heures à 16 heures, des personnes viennent et donnent de l’argent pour la famille », raconte le militant.

      Après quelques chansons écrites en solidarité aux personnes en situation d’exil, la « CommémorAction » s’achève et la foule d’une centaine de personnes se disperse. Orianne S., militante de Paris d’exil, rappelle l’intérêt de ce genre de mobilisations : « Il s’agit d’un espace de témoignage qui permet de ne pas oublier les morts et de tenir les Etats pour responsables de ce qu’ils font. Ce ne sont pas les frontières qui tuent, c’est leur sécurisation. » Une autre militante renchérit : « Il n’y a aucune fatalité, on pourrait reconnaître l’égale valeur des vies humaines en admettant la liberté de circulation et d’installation pour tous. »

      Selon l’Organisation internationale des migrations, plus de 20 000 personnes ont disparu ou ont perdu la vie sur les routes migratoires depuis 2014, dont la moitié en Méditerranée. Pour l’année 2022, l’organisation estime ce bilan humain à 2 000 personnes.

      https://www.liberation.fr/societe/journee-de-commemoration-pour-les-morts-aux-frontieres-on-veut-migrer-pour-vivre-pas-pour-mourir-20230207_6IBCSHNYMRBYRMQ5TB22G2JFPI/?redirected=1

  • #Alberi_sonori

    Des graines sont plantées dans une terre vibrante,

    les racines se nourrissent lorsque le chant des cigales résonne.

    La voix est profonde, nouvelle et puissante.

    Ces graines ont grandi, ce sont des Arbres maintenant.

    Leurs fruits transmettent de l’énergie

    et leurs branches regardent au-delà de l’horizon.

    C’est l’âme d’une musique vivante.

    https://www.alberisonori.com

    canal youtube :
    https://www.youtube.com/channel/UCVigWLM8IkL5BFkQfFLlifg

    https://www.youtube.com/watch?v=5e_SDCVSwmM

    https://www.youtube.com/watch?v=jjU3nOemBDE

    https://www.youtube.com/watch?v=6cn32Y3ToG0

    #musique #chant #musique #musique_populaire #chants_populaires #Italie #Italie_du_sud #pizzica #tarantella

  • La petite photo du jour...
    https://www.flickr.com/photos/valkphotos/51145678185

    Flickr

    ValK. a posté une photo :

    #photodujour #pictureoftheday #photooftheday #picoftheday #fotodeldia #nature #naturephotography #naturaleza #pissenlit #dentdelion #dandelion #dientedeleon #amargon #taraxacum
    .
    « les petites photos »
    ¤ autres photos : https://vu.fr/valkphotos
    ¿ infos audios : frama.link/karacole
    ☆ oripeaux : frama.link/kolavalk
    ◇ rdv locaux : 44.demosphere.net
    ○ réseaux : twitter.com/valkphotos
    ♤ me soutenir : liberapay.com/ValK

    • J’ai une question : tu m’as l’air d’avoir un objectif avec un piqué particulièrement fin. Quel est-il donc ? :o)

      Le pissenlit est moins renversant que la feuille ou la coccinelle sur sa feuille verte, mais alors le niveau de détail est renversant !

  • Rapporti di monitoraggio

    Sin dal 2016 il progetto ha pubblicato report di approfondimento giuridico sulle situazioni di violazione riscontrate presso le diverse frontiere oggetto delle attività di monitoraggio. Ciascun report affronta questioni ed aspetti contingenti e particolarmente interessanti al fine di sviluppare azioni di contenzioso strategico.

    Elenco dei rapporti pubblicati in ordine cronologico:

    “Le riammissioni di cittadini stranieri a Ventimiglia (giugno 2015): profili di illegittimità“

    Il report è stato redatto nel giugno del 2015 è costituisce una prima analisi delle principali criticità riscontrabili alla frontiera italo-francese verosimilmente sulla base dell’Accordo bilaterale fra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica francese sulla cooperazione transfrontaliera in materia di polizia e dogana (Accordo di Chambery)
    #Vintimille #Ventimiglia #frontière_sud-alpine #Alpes #Menton #accord_bilatéral #Accord_de_Chambéry #réadmissions

    Ajouté à la #métaliste de liens autour d’#accords_de_réadmission entre pays européens...
    https://seenthis.net/messages/736091
    Et plus précisément ici:
    https://seenthis.net/messages/736091#message887941

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    “Le riammissioni di cittadini stranieri alla frontiera di Chiasso: profili di illegittimità”

    Il report è stato redatto nell’estate del 2016 per evidenziare la situazione critica che si era venuta a creare in seguito al massiccio afflusso di cittadini stranieri in Italia attraverso la rotta balcanica scatenata dalla crisi siriana. La frontiera italo-svizzera è stata particolarmente interessata da numerosi tentativi di attraversamento del confine nei pressi di Como e il presente documento fornisce una analisi giuridica delle criticità riscontrate.

    Ajouté à la #métaliste de liens autour d’#accords_de_réadmission entre pays européens...
    https://seenthis.net/messages/736091
    Et plus précisément ici:
    https://seenthis.net/messages/736091#message887940

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    “Lungo la rotta del Brennero”

    Il report, redatto con la collaborazione della associazione Antenne Migranti e il contributo della fondazione Alex Langer nel 2017, analizza le dinamiche della frontiera altoatesina e sviluppa una parte di approfondimento sulle violazioni relative al diritto all’accoglienza per richiedenti asilo e minori, alle violazioni all’accesso alla procedura di asilo e ad una analisi delle modalità di attuazione delle riammissioni alla frontiera.

    #Brenner #Autriche

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    “Attività di monitoraggio ai confini interni italiani – Periodo giugno 2018 – giugno 2019”

    Report analitico che riporta i dati raccolti e le prassi di interesse alle frontiere italo-francesi, italo-svizzere, italo-austriache e italo slovene. Contiene inoltre un approfondimento sui trasferimenti di cittadini di paesi terzi dalle zone di frontiera indicate all’#hotspot di #Taranto e centri di accoglienza del sud Italia.

    #Italie_du_Sud

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    “Report interno sopralluogo Bosnia 27-31 ottobre 2019”

    Report descrittivo a seguito del sopralluogo effettuato da soci coinvolti nel progetto Medea dal 27 al 31 ottobre sulla condizione delle persone in transito in Bosnia. Il rapporto si concentra sulla descrizione delle strutture di accoglienza presenti nel paese, sull’accesso alla procedura di protezione internazionale e sulle strategie di intervento future.

    #Bosnie #Bosnie-Herzégovine

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    “Report attività frontiere interne terrestri, porti adriatici e Bosnia”

    Rapporto di analisi dettagliata sulle progettualità sviluppate nel corso del periodo luglio 2019 – luglio 2020 sulle diverse frontiere coinvolte (in particolare la frontiera italo-francese, italo-slovena, la frontiera adriatica e le frontiere coinvolte nella rotta balcanica). Le novità progettuali più interessanti riguardano proprio l’espansione delle progettualità rivolte ai paesi della rotta balcanica e alla Grecia coinvolta nelle riammissioni dall’Italia. Nel periodo ad oggetto del rapporto il lavoro ha avuto un focus principale legato ad iniziative di monitoraggio, costituzione della rete ed azioni di advocacy.

    #Slovénie #mer_Adriatique #Adriatique

    https://medea.asgi.it/rapporti

    #rapport #monitoring #medea #ASGI
    #asile #migrations #réfugiés #frontières
    #frontières_internes #frontières_intérieures #Balkans #route_des_balkans

    ping @isskein @karine4

  • The Next Chapter For ’Me Too’ Is Here. Tarana Burke Says ’We All Can Play A Part.’ | HuffPost Australia
    https://www.huffpost.com/entry/me-too-act-too-tarana-burke_n_5f876bfdc5b6c5eccffcfe6d

    Tarana Burke, the founder of the Me Too movement and a longtime activist, knows people are outraged ― and that many of them are overwhelmed. So she and the Me Too organization, in collaboration with creative data marketing agency FCB/SIX, are launching a new digital platform that allows activists, both longtime and newer to the movement, to educate themselves and get involved.
    (...)
    Me Too Act Too is a crowd-sourced digital platform that gives “survivors, advocates and allies tools to work toward a world free of sexual violence,” according to the organization. The website is meant to be an accessible tool for people who may not see themselves as career activists or who do not have the ability to devote a large amount of time to this work.

    la plateforme en question : https://acttoo.metoomvmt.org

    #me_too #activisme #millitant

  • #MBL (#Musicisti_Basso_Lazio)

    #MBL (#Musicisti_Basso_Lazio) è il nome sia di un progetto culturale che di un gruppo folk italiano, fondato dal musicista e cantautore #Benedetto_Vecchio, nel 2000. Da oltre quindici anni il gruppo è impegnato nel recupero e promozione della specifica identità regionale del sud Lazio, grazie alla sua attività di ricerca storica e folclorica sia nel settore della musica che della danza. Leggi altro...


    http://www.musicistibassolazio.it

    #musique #folk #musique_populaire #Italie #Lazio #Latium #pizzica #tarantelle #tarantella

    https://www.youtube.com/watch?v=9wQk9Wfchks

  • Mexico
    Une ville sous le regard indien

    Joani Hocquenghem

    https://lavoiedujaguar.net/Mexico-Une-ville-sous-le-regard-indien

    Dominant l’horizon de l’altiplano de ses plus de deux mille mètres, le cercle de volcans veille sur la vallée de l’Anáhuac. En son centre, Mexico baigne dans une nappe de fumée dense où les vapeurs du Popocatepetl se mêlent aux gaz de la machine-monstre. « La marmite de sorcier », « la chaudière du diable » disent les Mexicains, « la terre qui pousse par en haut », « la vallée où vit le pouvoir », l’appellent les zapatistes. Là établirent leur capitale les Mexicas jusqu’à ce qu’une force plus grande, venue d’au-delà de l’horizon, les abolissent. Là régna l’Espagne jusqu’à l’indépendance, rivée au même site ; là s’imposa Porfirio Díaz jusqu’à la révolution ; là gouverna le PRI jusqu’à l’année 2000.

    À partir de la bataille de Tenochtitlan, l’onde de choc de la conquête, son sillage de violence et d’épidémies, propage un mouvement de fuite des peuples indiens. À mesure que la colonie importe d’Europe sa classe dominante, se remplit par le haut de nouveaux possédants, les uns sont intégrés à la société de l’envahisseur tout au bas de l’échelle, les autres chassés des terres fertiles, des plaines irriguées et tempérées vers les sierras ou la selva. L’Indépendance n’est pas leur émancipation ; le nouvel État accélère cette dépossession géographique et historique, nie toute existence à leur propriété communautaire de la terre.

    Avec la révolution, le mouvement centrifuge tend à s’inverser, par à-coups. La montée à la capitale en 1914 des paysans indiens en rébellion, plus qu’un raid militaire, prend des allures de retrouvailles, d’une reprise de contact entre deux mondes séparés. (...)

    #Mexique #Joani_Hocquenghem #Indiens #ville #Mexico #Tenochtitlan #zapatistes #révolution #cinéma #Mayas #Nahuas #Tarahumaras #Chiapas

  • Seis años del asesinato impune de 15 inmigrantes en la playa del #Tarajal

    Hoy hace 6 años del asesinato de 15 inmigrantes que trataban de llegar a España por la playa del Tarajal en Ceuta. Fueron recibidos por la Guardia Civil con pelotas de goma y botes de humo cuando aún estaban en el mar y murieron ahogados. El caso fue archivado por “falta de pruebas”. Seis años de impunidad.

    La madrugada del 6 de febrero de 2014 unos 200 inmigrantes se disponían a cruzar la frontera entre Marruecos y España saltando la valla que separa a los dos países a la altura de Ceuta en la Playa del Tarajal. Un grupo trata de pasar la frontera a nado, bordeando un espigón que separa ambos territorios. No son más de 30 metros hasta la playa ceutí del Tarajal. En ese momento comienza la tragedia. Varios agentes de la Guardia Civil les disparan pelotas de goma y gases lacrimógenos cuando aún están en el agua, lo que termina provocando que 15 hombres mueran ahogados según las cifras oficiales. Además 23 fueron expulsados mediante lo que se conoce como “#devoluciones_en_caliente”.

    Durante estos seis años, a pesar de la presión y reclamo por parte de distintas ONG, asociaciones de inmigrantes y otros colectivos por esclarecer lo ocurrido todavía no se ha dirimido la responsabilidad de las muertes de estos inmigrantes y la causa ha sido archivada por “falta de pruebas”.

    En el momento de lo sucedido el Gobierno de Rajoy se negó inicialmente a reconocer que la Guardia Civil había disparado pelotas de goma. Primero, el Cuerpo difundió un vídeo editado para enmascarar su responsabilidad. Pero pronto se descubrió la verdad. A los pocos días un vídeo verdadero salió a la luz. Arrancó una investigación, pero el Partido Popular, en ese momento en el gobierno, vetó la comisión encargada de esclarecer los hechos y censuró la información sobre lo ocurrido en Ceuta.

    A pesar de que un año después 16 Guardia Civiles fueron imputados por homicidio imprudente y citados a declarar en octubre de 2015, se terminó archivando la causa por primera vez de manera provisional argumentando que no había pruebas suficientes y que no lograron contactar con testimonios.

    Las ONG que se han dedicado a seguir el caso como Caminando Fronteras, la Coordinadora de Barrios o la Comisión Española de Ayuda al Refugiado (CEAR) −estas dos últimas personadas como acusación particular en el caso− no han encontrado más que obstáculos durante estos años por parte del Estado. El último, en agosto de 2019 cuando se reabrió la causa, pero terminó archivándose por segunda vez en un proceso en el que ni tan siquiera se tomó declaración a dos de los supervivientes. La ONG Caminando Fronteras había recogido previamente los testimonios de los supervivientes del Tarajal en un informe, pero este fue desestimado por la Justicia.

    La denuncia de todos estos colectivos es clara: no se trata únicamente de un caso de negligencia policial, sino que responde a una lógica de Estado de control migratorio, de ahí el veto claro a la investigación. Hablar del Tarajal es hablar de la política del Estado hacia los inmigrantes, una política que excede al gobierno de aquel entonces y que es criminal con aquellos que tratan de llegar a Europa.

    En 2017 vio la luz el documental Desmontando la impunidad de la frontera sur, un documental de los mismos directores de Ciutat morta (2013) que desglosa el caso tomando testimonios de supervivientes y activistas de asociaciones que buscaron desmontar la versión del gobierno y la Guardia civil apoyada por los medios de comunicación. En el documental también aparecen cargos del Estado y representantes de las fuerzas de seguridad que dejan ver el discurso y políticas xenófobas del Estado y sus garantes.

    https://www.youtube.com/watch?v=81MQN-6IaFM&feature=emb_logo

    El PSOE, en aquel momento en la oposición, no pasó de las críticas a la “gestión” del PP sobre el caso. Sin embargo, cuando se reabrió la causa en el verano de 2019, el PSOE recién llegado al gobierno en funciones no hizo ni una mención sobre el mismo. Algo que nadie esperaba ya que los gobiernos del PSOE han implementado gran parte de las medidas xenófobas del Estado español contra los inmigrantes, empezando por la creación de los CIEs -que ahora continúa con la creación del CIE de Algeciras- la utilización de concertinas en las vallas y las restrictivas leyes de extranjería, políticas que Pedro Sánchez no estaba dispuesto a cambiar. Ni tampoco se propone hacerlo sus socios de Unidas Podemos en e “gobierno progresista”.

    Los hechos de Tarajal no fueron una “tragedia” como sostuvo la prensa, sino un verdadero asesinato de 15 inmigrantes indefensos por parte de la Guardia Civil. Un crimen social que forma parte de una ofensiva imperialista y racista, de políticas fronterizas cada vez más restrictivas, que día a día llevan a la muerte a miles de personas intentando cruzar el mar o las alambradas.

    Oumar, Larios, Joseph, Armand, Daouda, Ibrahim, Ousman, Nana, Jeannot, Yves, Samba, Youssouf y todos los demás que aún siguen sin identificar, Presentes!

    http://www.izquierdadiario.es/Seis-anos-del-asesinato-impune-de-15-inmigrantes-en-la-playa-del-Tar
    #Ceuta #Espagne #Maroc #frontières #massacre #film #film_documentaire #décès #morts #impunité #assassinat #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #6_février_2014 #refoulement #push-back

    Plus sur Tarajal sur seenthis:
    https://seenthis.net/tag/tarajal

    ping @reka

  • Ventimiglia : sempre più caro e pericoloso il viaggio dei migranti al confine Italia-Francia

    Confine Francia-Italia: migranti fermati, bloccati, respinti

    I respingimenti sono stati monitorati uno ad uno dagli attivisti francesi del collettivo della Val Roja “#Kesha_Niya” (“No problem” in lingua curda) e dagli italiani dell’associazione Iris, auto organizzati e che si danno il cambio in staffette da quattro anni a Ventimiglia per denunciare gli abusi.

    Dalle 9 del mattino alle 20 di sera si piazzano lungo la frontiera alta di #Ponte_San_Luigi, con beni alimentari e vestiti destinati alle persone che hanno tentato di attraversare il confine in treno o a piedi. Migranti che sono stati bloccati, hanno passato la notte in un container di 15 metri quadrati e infine abbandonati al mattino lungo la strada di 10 km, i primi in salita, che porta all’ultima città della Liguria.

    Una pratica, quella dei container, che le ong e associazioni Medecins du Monde, Anafé, Oxfam, WeWorld e Iris hanno denunciato al procuratore della Repubblica di Nizza con un dossier il 16 luglio. Perché le persone sono trattenute fino a 15 ore senza alcuna contestazione di reato, in un Paese – la Francia – dove il Consiglio di Stato ha stabilito come “ragionevole” la durata di quattro ore per il fermo amministrativo e la privazione della libertà senza contestazioni. Dall’inizio dell’anno i casi sono 18 mila, scrive il Fatto Quotidiano che cita dati del Viminale rilasciati dopo la richiesta di accesso civico fatta dall’avvocata Alessandra Ballerini.

    Quando sia nato Sami – faccia da ragazzino sveglio – è poco importante. Più importante è che il suo primo permesso di soggiorno in Europa lo ha avuto a metà anni Duemila. All’età di 10 anni. Lo mostra. È un documento sloveno. A quasi 20 anni di distanza è ancora ostaggio di quei meccanismi.

    A un certo punto è stato riportato in Algeria – o ci è tornato autonomamente – e da lì ha ottenuto un visto per la Turchia e poi la rotta balcanica a piedi. Per provare a tornare nel cuore del Vecchio Continente. Sami prende un foglio e disegna le tappe che ha attraversato lungo la ex Jugoslavia. Lui è un inguaribile ottimista. Ci riproverà la sera stessa convinto di farcela.

    Altri sono in preda all’ansia di non riuscire. Come Sylvester, nigeriano dell’Edo State, vestito a puntino nel tentativo di farsi passare da turista sui treni delle Sncf – le ferrovie francesi. È regolare in Italia. Ha il permesso di soggiorno per motivi umanitari, oggi abolito da Salvini e non più rinnovabile.

    «Devo arrivare in Germania perché mi aspetta un lavoro come operaio. Ma devo essere lì entro ottobre. Ho già provato dal Brennero. Come faccio a passare?», chiede insistentemente.

    Ventimiglia: le nuove rotte della migrazione

    Il flusso a Ventimiglia è cambiato. Rispetto ai tunisini del 2011, ai sudanesi del 2015, ma anche rispetto all’estate del 2018. Nessuno, o quasi, arriva dagli sbarchi salvo sporadici casi, mostrando plasticamente una volta di più come la cosiddetta crisi migratoria in Europa può cambiare attori ma non la trama. Oggi sono tre i canali principali: rotta balcanica; fuoriusciti dai centri di accoglienza in Italia in seguito alle leggi del governo Conte e ai tagli da 35 a 18-21 euro nei bandi di gare delle Prefetture; persone con la protezione umanitaria in scadenza che non lavorano e non possono convertire il permesso di soggiorno. Questa la situazione in uscita.

    In entrata dalla Francia si assiste al corto circuito del confine. Parigi non si fida dell’Italia, pensa che non vengano prese le impronte digitali secondo Dublino e inserite nel sistema #Eurodac. Perciò respinge tutti senza badare ai dettagli, almeno via treno. Incluse persone con i documenti che devono andare nelle ambasciate francesi del loro Paese perché sono le uniche autorizzate a rilasciare i passaporti.

    Irregolari di lungo periodo bloccati in Italia

    In mezzo ci finiscono anche irregolari di lungo periodo Oltralpe che vengono “rastrellati” a Lione o Marsiglia e fatti passare per nuovi arrivi. Nel calderone finisce anche Jamal: nigeriano con una splendida voce da cantante, da nove mesi in Francia con un permesso di soggiorno come richiedente asilo e in attesa di essere sentito dalla commissione. Lo hanno fermato gli agenti a Breil, paesotto di 2 mila anime di confine, nella valle della Roja sulle Alpi Marittime. Hanno detto che i documenti non bastavano e lo hanno espulso.

    Da settimane gli attivisti italiani fanno il diavolo a quattro con gli avvocati francesi per farlo rientrare. Ogni giorno spunta un cavillo diverso: dichiarazioni di ospitalità, pec da inviare contemporaneamente alle prefetture competenti delle due nazioni. Spesso non servono i muri, basta la burocrazia.

    Italia-Francia: passaggi più difficili e costosi per i migranti

    Come è scontato che sia, il “proibizionismo” in frontiera non ha bloccato i passaggi. Li ha solo resi più difficili e costosi, con una sorta di selezione darwiniana su base economica. In stazione a Ventimiglia bastano due ore di osservazione da un tavolino nel bar all’angolo della piazza per comprendere alcune superficiali dinamiche di tratta delle donne e passeurs. Che a pagamento portano chiunque in Francia in automobile. 300 euro a viaggio.

    Ci sono strutture organizzate e altri che sono “scafisti di terra” improvvisati, magari per arrotondare. Come è sempre stato in questa enclave calabrese nel nord Italia, cuore dei traffici illeciti già negli anni Settanta con gli “spalloni” di sigarette.

    Sono i numeri in città a dire che i migranti transitato, anche se pagando. Nel campo Roja gestito dalla Croce Rossa su mandato della Prefettura d’Imperia – l’unico rimasto dopo gli sgomberi di tutti gli accampamenti informali – da gennaio ci sono stabilmente tra le 180 e le 220 persone. Turn over quasi quotidiano in città di 20 che escono e 20 che entrano, di cui un minore.

    Le poche ong che hanno progetti aperti sul territorio frontaliero sono Save The Children, WeWorld e Diaconia Valdese (Oxfam ha lasciato due settimane fa), oltre allo sportello Caritas locale per orientamento legale e lavorativo. 78 minori non accompagnati da Pakistan, Bangladesh e Somalia sono stati trasferiti nel Siproimi, il nuovo sistema Sprar. Il 6 e il 12 luglio, all’una del pomeriggio, sono partiti due pullman con a bordo 15 e 10 migranti rispettivamente in direzione dell’hotspot di Taranto. È stato trasferito per errore anche un richiedente asilo a cui la polizia ha pagato il biglietto di ritorno, secondo fonti locali.

    Questi viaggi sono organizzati da Riviera Trasporti, l’azienda del trasporto pubblico locale di Imperia e Sanremo da anni stabilmente con i conti in rosso e che tampona le perdite anche grazie al servizio taxi per il ministero dell’Interno: 5 mila euro a viaggio in direzione dei centri di identificazione voluti dall’agenda Europa nel 2015 per differenziare i richiedenti asilo dai cosiddetti “migranti economici”.
    A Ventimiglia vietato parlare d’immigrazione oggi

    A fine maggio ha vinto le elezioni comunali Gaetano Scullino per la coalizione di centrodestra, subentrando all’uscente Pd Enrico Ioculano, oggi consigliere di opposizione. Nel 2012, quando già Scullino era sindaco, il Comune era stato sciolto per mafia per l’inchiesta “La Svolta” in cui il primo cittadino era accusato di concorso esterno. Lui era stato assolto in via definitiva e a sorpresa riuscì a riconquistare il Comune.

    La nuova giunta non vuole parlare di immigrazione. A Ventimiglia vige un’ideologia. Quella del decoro e dei grandi lavori pubblici sulla costa. C’è da completare il 20% del porto di “Cala del Forte”, quasi pronto per accogliere i natanti.

    «Sono 178 i posti barca per yacht da 6,5 a oltre 70 metri di lunghezza – scrive la stampa del Ponente ligure – Un piccolo gioiello, firmato Monaco Ports, che trasformerà la baia di Ventimiglia in un’oasi di lusso e ricchezza. E se gli ormeggi sono già andati a ruba, in vendita nelle agenzie immobiliari c’è il complesso residenziale di lusso che si affaccerà sull’approdo turistico. Quarantaquattro appartamenti con vista sul mare che sorgeranno vicino a un centro commerciale con boutique, ristoranti, bar e un hotel». Sui migranti si dice pubblicamente soltanto che nessun info point per le persone in transito è necessario perché «sono pochi e non serve».

    Contemporaneamente abbondano le prese di posizione politiche della nuova amministrazione locale per istituire il Daspo urbano, modificando il regolamento di polizia locale per adeguarsi ai due decreti sicurezza voluti dal ministro Salvini. Un Daspo selettivo, solo per alcune aree della città. Facile immaginare quali. Tolleranza zero – si legge – contro accattonaggio, improperi, bivacchi e attività di commercio abusivo. Escluso – forse – quello stesso commercio abusivo in mano ai passeurs che libera la città dai migranti.

    https://www.osservatoriodiritti.it/2019/07/24/ventimiglia-migranti-oggi-bloccati-respinti-francia-situazione/amp
    #coût #prix #frontières #asile #migrations #Vintimille #réfugiés #fermeture_des_frontières #France #Italie #danger #dangerosité #frontière_sud-alpine #push-back #refoulement #Roya #Vallée_de_la_Roya

    –----------

    Quelques commentaires :

    Les « flux » en sortie de l’Italie, qui entrent en France :

    Oggi sono tre i canali principali: rotta balcanica; fuoriusciti dai centri di accoglienza in Italia in seguito alle leggi del governo Conte e ai tagli da 35 a 18-21 euro nei bandi di gare delle Prefetture; persone con la protezione umanitaria in scadenza che non lavorano e non possono convertire il permesso di soggiorno. Questa la situazione in uscita.

    #route_des_Balkans et le #Decrét_Salvini #Decreto_Salvini #decreto_sicurezza

    Pour les personnes qui arrivent à la frontière depuis la France (vers l’Italie) :

    In entrata dalla Francia si assiste al corto circuito del confine. Parigi non si fida dell’Italia, pensa che non vengano prese le impronte digitali secondo Dublino e inserite nel sistema Eurodac. Perciò respinge tutti senza badare ai dettagli, almeno via treno. Incluse persone con i documenti che devono andare nelle ambasciate francesi del loro Paese perché sono le uniche autorizzate a rilasciare i passaporti.
    (...)
    In mezzo ci finiscono anche irregolari di lungo periodo Oltralpe che vengono “rastrellati” a Lione o Marsiglia e fatti passare per nuovi arrivi.

    #empreintes_digitales #Eurodac #renvois #expulsions #push-back #refoulement
    Et des personnes qui sont arrêtées via des #rafles à #Marseille ou #Lyon —> et qu’on fait passer dans les #statistiques comme des nouveaux arrivants...
    #chiffres

    Coût du passage en voiture maintenant via des #passeurs : 300 EUR.

    Et le #business des renvois de Vintimille au #hotspot de #Taranto :

    Il 6 e il 12 luglio, all’una del pomeriggio, sono partiti due pullman con a bordo 15 e 10 migranti rispettivamente in direzione dell’hotspot di Taranto. È stato trasferito per errore anche un richiedente asilo a cui la polizia ha pagato il biglietto di ritorno, secondo fonti locali.

    Questi viaggi sono organizzati da #Riviera_Trasporti, l’azienda del trasporto pubblico locale di Imperia e Sanremo da anni stabilmente con i conti in rosso e che tampona le perdite anche grazie al servizio taxi per il ministero dell’Interno: 5 mila euro a viaggio in direzione dei centri di identificazione voluti dall’agenda Europa nel 2015 per differenziare i richiedenti asilo dai cosiddetti “migranti economici”.

    –-> l’entreprise de transport reçoit du ministère de l’intérieur 5000 EUR à voyage...

  • Affaire Zineb #Redouane – Intrigues et omerta au #parquet de #Marseille
    https://lemediapresse.fr/politique/affaire-zineb-redouane-intrigues-et-omerta-au-parquet-de-marseille

    Au point mort depuis 7 mois, les dernières révélations sur le dossier Zineb Redouane semblent en mesure de changer la donne. Alors que Le Média continue d’enquêter, la pression est désormais forte sur les autorités politiques, judiciaires et policières. L’affaire ayant pris une dimension nationale, on perçoit à Marseille les échos de ce revirement. Au tribunal, notamment, où des soupçons de dérapages policiers pèsent sur un autre dossier. Hier, il fallait être dans la rue et lire la presse pour toucher du doigt les trop nombreuses zones d’ombre.

    #Politique #Social #Algérie #Autopsie #Castaner #Gilets_Jaunes #IGPN #Justice #Lacrymo #Police #Provence #tapie #tarabeux

  • #Journalisme : une tribune importante mais que je n’ai pas pu signer, je m’en explique à la fin :

    "Nous assistons à une volonté délibérée de nous empêcher de travailler" : plus de 350 #médias, #journalistes, #photographes, #vidéastes, indépendants ou appartenant à des rédactions dénoncent, dans une tribune publiée sur franceinfo.fr, les violences policières subies par leur profession depuis le début du mouvement. Ils alertent sur la précarisation de leurs conditions de travail et les agressions physiques et psychologiques vécues sur le terrain. Ils revendiquent leur droit à informer et la liberté de la presse.

    https://www.francetvinfo.fr/economie/transports/gilets-jaunes/tribune-nous-assistons-a-une-volonte-deliberee-de-nous-empecher-de-trav


    photo : Niclas Messyasz

    Cette tribune est doublement importante. Évidemment elle l’est car elle dénonce enfin, clairement et massivement, la volonté flagrante de mutiler les témoins de la répression.

    Il n’y a pas eu de manifestations ou de rassemblements ces derniers mois sans qu’un·e journaliste n’ait été violenté·e physiquement et ou verbalement par les forces de l’ordre.

    Par violence, nous entendons : mépris, tutoiement quasi systématique, intimidations, menaces, insultes. Mais également : tentatives de destruction ou de saisie du matériel, effacement des cartes mémoires, coups de matraque, gazages volontaires et ciblés, tirs tendus de lacrymogènes, tirs de LBD, jets de grenades de désencerclement, etc. En amont des manifestations, il arrive même que l’on nous confisque notre matériel de protection (masque, casque, lunettes) en dépit du fait que nous déclinions notre identité professionnelle.

    Toutes ces formes de violences ont des conséquences physiques (blessures), psychiques (psychotraumatismes) ou financières (matériel cassé ou confisqué). Nous sommes personnellement et professionnellement dénigré·e·s et criminalisé·e·s.

    Plus récemment, un cap répressif a été franchi. Plusieurs confrères ont été interpellés et placés en garde à vue pour « participation à un groupement en vue de commettre des violences ou des dégradations », alors même que nous nous déclarons comme journalistes. Par ces faits, la police et la justice ne nous laissent ainsi que deux options :
    – venir et subir une répression physique et ou judiciaire ;
    – ne plus venir et ainsi renoncer à la liberté d’information.

    Cela fait des années qu’on le sait, qu’on le dit, un premier acte de solidarité avait été avorté en 2014 suite à la manif pour la #zad de Notre-Dame-des-Landes du 22 février à Nantes, suite à laquelle #Yves_Monteil et #Gaspard_Glanz avaient porté plainte, en vain, dans un silence assourdissant face au rouleau compresseur de la communication parlant uniquement d’une ville « dévastée » (image faussée à laquelle, ironie du sort, ce dernier avait contribué en parlant de guerre). Voir l’article de @bastamag à l’époque : Silence médiatique sur les dizaines de manifestants et de journalistes blessés à Nantes : https://www.bastamag.net/Silence-mediatique-sur-les

    Depuis, ça n’a fait que s’aggraver, forçant certain-e-s à bosser groupé-e-s sans être libres de suivre leur inspiration, forçant les autres à prendre de gros risques. Et pour témoigner de manière indépendante il ne reste que deux solutions : la première consiste à ne jamais aller au front, ce qui était mon cas, mais désormais le front est partout et des traumatismes en 2018 m’ont fait définitivement quitter le terrain des manifs. L’autre consiste à s’infiltrer dans le black-bloc, voire à faire du « #gonzo », au risque de devenir aussi la cible de celles et ceux qui, légitimement, veillent à l’anonymat des personnes présentes. De très nombreuses images de ces angles différents ayant permis aux flics de faire des « triangulations » et mettre en taule un paquet de militant-e-s, souvent avec des preuves très bancales et la complicité de la justice...

    Cette tribune est aussi importante car elle souligne, en ce #1er_mai, la précarité de la profession, allant jusqu’à entraîner parfois un asservissement volontaire et souvent des distorsions cognitives chez les candidat-e-s aux métiers du journalisme. C’est difficile sur le terrain mais c’est aussi difficile ensuite. Après le dérushage et le travail / indexage des images, il faut se battre pour vendre. A des tarifs de misère particulièrement en photo. 15€ en PQR, 150€ en presse nationale... Ça ne permet que rarement de vivre et d’avoir les moyens de continuer. Et, à quelques exceptions près, l’esprit de concurrence prime sur tout. Écouter les interviews croisées de #NnoMan_Cadoret, #Adèle_Löffler, #Martin_Noda et #Maxime_Reynié qui n’ont pas tou-te-s de carte de presse délivrée par la Commission de la Carte d’Identité des Journalistes Professionnels. Et qui, pourtant, font vraiment le métier de journalistes...
    https://radioparleur.net/2019/04/30/photojournalistes-independants-violences-policieres

    J’en viens à la raison qui m’a empêchée de signer cette tribune.
    D’une part je ne me considère pas comme journaliste, mais comme photographe-illustratrice , ou photographe #auteure, comme on dit. Pour ça, je ne dois pas viser le fait de vendre, mais de faire, d’œuvrer. Être oeuvrière comme le dit justement Lubat. Faire sens. Et donc de ne pas quitter le chemin de ce qui m’inspire, de refuser beaucoup de compromis et n’accepter que ce qui va dans le sens de ce que je fais. Évidemment, être payée pour illustrer articles et livres est une joie et j’espère le faire de plus en plus ... et pour être franche, mon matériel photo en a grave besoin ! Même si franchement, la méconnaissance de ce travail et les contrôles incessants de la CAF ne motivent pas... Mais le #bénévolat est logique pour illustrer les #médias_libres et les luttes auxquelles je participe ; à contrario la recherche de vente à tout prix tait / tue mon travail. Être considéré-e comme professionnel-le est certes beaucoup trop inféodé à l’argent et pas suffisamment à la pratique mais cette tribune ne parle hélas pas des autres professions de l’information, de l’illustration, ni du bénévolat. J’ai donc posé la question de l’exclusion des autres photographes, craignant que nous nous retrouvions à définir une nouvelle norme qui allait de toute façon en laisser beaucoup sur le carreau.

    Je sais pas trop comment exprimer ça mais s’engouffrer dans ce truc de carte de presse je le perçois comme le même piège que la signature des conventions pour la zad : c’est déléguer sur [nous] la norme et le tri alors que le problème n’est pas là. Quid des hors-normes ?
    Le véritable problème c’est la répression, les violences policières et judiciaires, le mépris d’un Castaner accompagné d’une « christalisation » dangereuse autour de Gaspard Glanz dont lui-même ne veut pas, qui tendrait à faire croire qu’il existe un modèle de « bavure » inacceptable
    Macron base toute sa politique sur une communication orwellienne. Tout le monde le sait, même, et surtout, son fan club mediatique, qui se mord les lèvres entre hilarité face à l’insolence et désir de lui ressembler. Refuser et contrer cette stratégie est un devoir.
    Je me garderai bien d’évoquer une solution car pour moi seule la diversité des réponses ALLIÉES peut faire effet. Et on est loin du compte, surtout si face à chaque attaque nous choisissons ce qui nous trie et nous affaibli...
    https://twitter.com/ValKphotos/status/1121714579350929408

    Autre questionnement, encore plus important à mes yeux : quid de tou-te-s les autres témoins ? De toutes les personnes qui, enfin, légitimement, et souvent en tremblant, lèvent leurs smartphones face aux violences policières ? N’exiger le respect de l’acte de « reporter » que pour les « professionnel-le-s » et pas pour tout-e-s, n’est-ce pas la brèche qu’attendent les censeurs pour revenir sur le décret qui permet à toute personne de témoigner et l’usage qui permet à bien des personnes d’être journalistes bénévoles ou à temps choisi ?

    Et quid des témoins des #violences_policières dans les quartiers et cités ? Il y a deux ans l’arrestation de #Amal_Bentounsi avait d’ailleurs relancé pour la énième fois le sujet de l’autorisation de filmer les forces de l’ordre : https://www.bondyblog.fr/reportages/au-poste/amal-bentounsi-arretee-et-placee-en-garde-a-vue-pour-diffusion-dimages-de- D’ailleurs un policier avait fait une note assez complète sur le sujet : https://blog.francetvinfo.fr/police/2017/06/19/le-policier-et-le-droit-a-son-image.html
    En proie régulièrement aux mêmes problèmes, #Taranis avait fait un dossier très complet dont le 1er chapitre revient sur ce droit que j’espère inaliénable avec un pdf vers la circulaire de police rappelant la loi, ainsi qu’un mémo :

    « Les policiers ne bénéficient pas de protection particulière en matière de droit à l’image, hormis lorsqu’ils sont affectés dans les services d’intervention, de lutte anti-terroriste et de contre-espionnage spécifiquement énumérés dans un arrêté ministériel [comme le GIGN, le GIPN, la BRI …] et hormis les cas de publications d’une diffamation ou d’une injure à raison de leurs fonction ou de leur qualité. ».

    http://taranis.news/2017/04/classic-manuel-de-survie-du-journaliste-reporter

    Lorsque j’ai posé ces deux questions il était, m’a-t-on dit, trop tard pour modifier le texte : il y avait effectivement déjà une centaine de signataires. L’initiateur ne m’a pas répondu mais d’autres ont tenté d’apporter le débat de l’intérieur. Hélas dans le même temps ils ont dû faire face à une levée de boucliers de professionnels inquiets pour leurs privilèges et refusant l’idée d’un plus grand accès à la carte de presse... La question a été posée sur twitter, je vous laisse vous délecter des réponses : https://twitter.com/gchampeau/status/1123485761842626562

    Je sais qu’une partie des signataires sera attentive à ne pas faire de cette tribune la brèche qui permettra de trier qui a le droit ou non de témoigner en image de la répression et plus généralement des dérives actuelles. Mais j’avoue ne pas être optimiste du tout...

    • Je n’avais pas vu ton mot, @aude_v : nous sommes d’accord. Après, pour avoir pas mal discuté avec une des personnes qui ont fait cette tribune, iels n’ont absolument pas anticipé les risques que ça induisait pour les autres. Je crois que ce qui s’est passé avec l’arrestation de Gaspard a été le signal déclencheur d’un trop plein et de la nécessité de se rassembler pour être plus fort-e-s. Et c’est ce qui a fait que j’ai réellement hésité à la signer, moi aussi, jusqu’au dernier moment, car je comprends vraiment le fond.

      L’autre truc ballot c’est de l’avoir sortie au matin du 1er mai alors qu’on savait que d’une manière ou d’une autre ça allait être une grosse journée. Du coup elle a été noyée sous la lacrymo et le reste. En fait c’est aujourd’hui, « _Journée De La #Liberté De La #Presse_ » qu’il aurait fallu sortir cette tribune. Mais quand je vois comment l’intox #Pitié_Salpetrière a été démontée, je suis encore plus convaincue par les raisons que j’ai privilégiées pour ne pas l’avoir signée : ce sont clairement les anonymes qui ont fait le « reportage » et les journalistes sans cartes (comme @davduf ) qui ont fait le job d’alerter tout le monde.

      Je continue à ne pas savoir comment me définir, où me situer là dedans... mais je ne peux appeler ce que je fais comme ici https://seenthis.net/messages/778352, là https://seenthis.net/messages/653494 / https://seenthis.net/messages/744712 ou ce 1er mai ici https://seenthis.net/messages/778352 , ou encore avec @karacole ici ou comme transmission de flux ailleurs, ou pour #demosphere aussi, comme du journalisme. Même si, pourtant, c’est ma motivation journalière, clairement. Faire passer l’info depuis les sources, et parfois mettre en perspective, décrypter, pour que le plus grand nombre ait la possibilité d’un accès direct et se fasse sa propre opinion...
      Vivement qu’on foute les riches dans des camps de redressements et qu’on puise, mondialement, avoir le choix du toit et du couvert, et ne se consacrer qu’à ce qui nous fait vibrer, pour le bien du plus grand nombre !
      :D