• L’Unione europea finanzia un nuovo centro di detenzione a Lipa, in Bosnia ed Erzegovina

    A pochi chilometri dal confine croato è sorta una nuova struttura di detenzione amministrativa per “facilitare” i rimpatri dei migranti che transitano lungo questo snodo di rotta balcanica. Per il commissario europeo Várhelyi, sostenitore del nuovo progetto, si tratterebbe di “falsi richiedenti asilo”. Cade il velo sul vero scopo di Lipa

    L’Unione europea ha finanziato un nuovo centro di detenzione nel campo di Lipa, in Bosnia ed Erzegovina. A pochi chilometri dal confine con la Croazia, la nuova struttura è stata costruita per facilitare i rimpatri dei migranti che transitano lungo questo pezzo di rotta balcanica. La conferma arriva ad Altreconomia dal Rappresentante speciale dell’Ue in Bosnia, Ferdinand Koenig. La costruzione dell’eufemisticamente definito “Temporary retention facility”, spiega Koenig, si sarebbe resa necessaria perché la struttura di detenzione amministrativa più vicina a Lipa è a Sarajevo Est, in località Lukavica, a 300 chilometri di distanza. Troppi per l’obiettivo europeo di bloccare i “falsi richiedenti asilo” -come li ha definiti il commissario europeo per il vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, a fine novembre 2022– al confine con la Croazia e poi organizzare rapidi rimpatri verso i Paesi d’origine.

    Arrivando da Bihać, la città più vicina a Lipa, la nuova struttura è stata costruita all’inizio del centro al posto del campetto di pallone. L’ufficio della delegazione Ue in Bosnia sottolinea come “l’unità di detenzione” sia separata dal centro da un “corridoio sicuro e da un ingresso indipendente” e la costruzione sia stata “agevolata” dal Centro internazionale per lo sviluppo delle politiche migratorie (Icmpd), un’organizzazione fondata nel 1993 su iniziativa di Austria e Svizzera e che opera in oltre 90 Paesi ed è molto attiva sul tema delle gestione delle frontiere (l’avevamo già “incontrata” in progetti riguardanti la guardia costiera tunisina). Questa avrebbe provveduto ad appaltare i lavori di costruzione della struttura. Non è dato sapere quale sia l’azienda né l’importo totale della costruzione: l’Icmpd ha riferito infatti ad Altreconomia che queste informazioni sono riservate. “Al termine dei lavori -risponde l’Icmpd- la gestione del centro sarà affidata al Servizio per gli affari degli stranieri (Sfa) del ministero della Sicurezza bosniaco”. Una gestione che prevede “uno staff dedicato e procedure operative standard chiare in linea con le norme internazionali in materia di migrazione” e che prevede un periodo di detenzione di “massimo 72 ore” prima del trasferimento al centro di Lukavica.

    Così il “centro multiuso” di Lipa, costruito sulle macerie di quello andato a fuoco nel dicembre 2020, svela il suo “vero” obiettivo: confinare, arrivando anche alla detenzione, per poi respingere. Come già raccontato dalla rete RiVolti ai Balcani nel report “Lipa, il campo dove fallisce l’Europa”, pubblicato nel dicembre 2021, il centro è distante due chilometri dalla strada statale asfaltata e a 24 chilometri da Bihać e da servizi essenziali come ospedali, poste, scuole, stazioni, supermarket o altre infrastrutture: un “confinamento di fatto” rispetto a cui il nuovo step della detenzione amministrativa è una finalità che secondo Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano per i rifugiati (Ics) di Trieste è “solo apparentemente contrastante con le finalità iniziali ma in realtà già occultate nella iniziale indeterminatezza giuridica con cui il campo è sorto e si è sviluppato”. Non è nota la capienza di questa nuova struttura, si sa però che il Centro di Lipa, all’8 febbraio di quest’anno, “ospitava” appena 128 persone su una capacità di 1.500 (uomini, donne e minori). Ma l’aumento delle persone transitate lungo la “rotta balcanica” nel 2022 ha allarmato, nuovamente, le istituzioni europee.

    Il commissario Várhelyi a fine novembre 2022 ha dichiarato appunto che “i falsi richiedenti asilo devono essere detenuti fino al loro ritorno nei Paesi d’origine” annunciando “un nuovo progetto pilota da 500mila euro con la Bosnia ed Erzegovina”. In questo quadro gioca un ruolo fondamentale anche l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim), in primo piano anche a Lipa. La capo missione nel Paese e coordinatrice dell’area dei Balcani occidentali, Laura Lungarotti, ha scritto ad Altreconomia che l’Oim non è coinvolta né nella gestione né nella costruzione della struttura di detenzione “vista la (nostra) politica di ricerca di alternativa alla detenzione amministrativa” e che la parola detenzione “è stata erroneamente messa nello stesso annuncio”, riferendosi al comunicato stampa in cui Várhelyi presentava il progetto. L’organo delle Nazioni Unite si occupa invece di tutto ciò che riguarda i rimpatri volontari assistiti. Anche con riferimento al centro multiuso di Lipa, Lungarotti ha detto che Oim starebbe “devolvendo sempre più responsabilità al Servizio stranieri”. Pur senza essere coinvolta in primo piano rispetto alla nuova struttura e ai rimpatri forzati, l’Organizzazione assiste però lo Sfa nelle procedure di rimpatrio forzato. “Sarà effettuato un counseling continuo prima della partenza -le parole di Lungarotti- nel qual caso volessero poter rientrare volontariamente e anche altro supporto di salvaguardia dei diritti umani nel corso di tutto il processo”. Il diritto d’asilo in Bosnia ed Erzegovina, però, dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), è un ologramma. Nel 2022 sono state registrate appena 149 richieste d’asilo, con 12 riconoscimenti di protezione con un tempo medio di analisi delle domande di 306 giorni. Quasi un anno, con scarsissime possibilità di ottenere una regolarizzazione: un elemento ormai consolidato.

    La costruzione di un centro di detenzione nasce come secondo tassello della strategia europea per “delegare” le espulsioni a Paesi terzi. Il primo passo è stata l’implementazione di accordi con i Paesi d’origine verso cui “rimandare” le persone. Caso di scuola è il Pakistan. Il 31 luglio 2022, con grande enfasi mediatica, un volo di linea con a bordo due persone residenti sul territorio bosniaco senza regolare permesso di soggiorno è atterrato a Islamabad. È stata la prima operazione di espulsione a seguito della firma di un’intesa con il governo pakistano del 23 luglio 2021, sempre su “mandato” delle istituzioni europee. “Di fatto è stata posta come prerequisito al Paese balcanico per entrare nell’Ue la sottoscrizione di accordi con Paesi terzi per facilitare le espulsioni dei migranti. È un tassello fondamentale -aveva spiegato allora ad Altreconomia la ricercatrice Gorana Mlinarevic-. Anche perché per diverse nazionalità, come quella pakistana, questo rappresenta l’unico modo per l’Ue di rimpatriare le persone. E Bruxelles lo sa bene”. Anche in quest’ottica a livello europeo qualcosa si muove: a inizio febbraio 2023, il nuovo direttore di Frontex, Hans Leijtes, ha fatto visita proprio al ministro dell’Interno del Pakistan per rafforzare la cooperazione con il Paese.

    L’Ufficio della delegazione Ue in Bosnia ed Erzegovina sottolinea nella sua risposta ad Altreconomia come “il governo bosniaco deve rafforzare le sue capacità e adottare tutte le misure necessarie per gestire efficacemente il centro di Lipa nel pieno rispetto dei diritti fondamentali, della legislazione nazionale e degli standard internazionali, anche per quanto riguarda lo screening e la registrazione, la protezione delle persone vulnerabili e la detenzione”. Un altro ologramma.

    https://altreconomia.it/lunione-europea-finanzia-un-nuovo-centro-di-detenzione-a-lipa-in-bosnia

    #Lipa #Bosnie-Herzégovine #route_des_Balkans #Balkans #asile #migrations #réfugiés #financement #UE #EU #Union_européenne #externalisation #renvois #Temporary_retention_facility #détention #rétention #détention_administrative #International_Centre_for_Migration_Policy_Development (#ICMPD) #Lukavica #OIM #IOM #expulsions

  • #Allemagne : à la recherche de solutions durables pour le logement de réfugiés en séjour long

    En 2022, Berlin a accueilli plus de 100 000 réfugiés. Des arrivées qui ont encore plus mis en lumière la #crise_du_logement que traverse la capitale allemande depuis de nombreuses années. Venus en grande majorité d’Ukraine, 90% d’entre eux ont déposé une demande de séjour long. Si à l’instar d’autres grandes villes du pays, Berlin a tout d’abord compté sur la #solidarité de ses habitants et mis en place près de 30 000 places d’#accueil_d'urgence, elle doit désormais construire et trouver des #solutions_durables pour faire face à ces nouveaux arrivants partis pour rester.

    https://www.infomigrants.net/fr/post/46053/allemagne-a-la-recherche-de-solutions-durables-pour-le-logement-de-ref
    #accueil #réfugiés #asile #migrations #Berlin #logement #séjour_long #long_séjour #réfugiés_ukrainiens #temps_long #temporalité #hébergement

    ping @karine4

  • #Tempo_di_uccidere (#film)
    Le Raccourci

    Etiopia, 1936: il Tenente Silvestri soffre di un terribile mal di denti e intraprende un viaggio per raggiungere l’accampamento militare più vicino munito di servizi ospedalieri. Durante il percorso, incontra un’indigena e, incapace di controllarsi di fronte alla sua bellezza, la violenta. Silvestri fa fuoco nel tentativo di tener lontane alcune bestie feroci ma la donna viene ferita a morte da un proiettile vagante, al che il tenente, per non incorrere in un processo militare, ne nasconde il cadavere. Raggiunto l’ospedale militare egli viene colto dal rimorso per il terribile incidente e, via via roso dal sospetto di essere stato contagiato dalla lebbra durante lo stupro, perde la ragione.

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    L’action se déroule pendant l’invasion de l’Éthiopie par l’Italie en 1936.

    Ethiopie, 1936. Parce qu’il a raté un virage avec son camion, le jeune lieutenant Enrico Silvestri se retrouve à pied, et prend un raccourci qui le conduit dans la brousse. Il y rencontre une jeune indigène, Mariam, qu’il viole. Il la tue accidentellement, et l’enterre sur place. La terreur d’être découvert le transforme en animal traqué : il s’enfuit, prêt à tout pour ne pas être pris. Une angoisse proche de la névrose s’empare de lui quand il croit avoir contracté la lèpre...

    https://it.wikipedia.org/wiki/Tempo_di_uccidere_(film)
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Le_Raccourci

    Le film est tiré du roman homonyme de #Ennio_Flaiano :

    «Quando la campagna sarà finita non po­chi si precipiteranno a scrivere dei libri» annota Flaiano nel febbraio del 1936, men­tre, sottotenente del Genio, partecipa alla guerra d’Etiopia. «Già immagino il con­tenuto e i titoli: “Fiamme nel Tigrai”, “Africa te teneo”, “Tricolore sull’Amba”!». Non a caso, attenderà dieci anni prima di rica­vare da quella sofferta esperienza – fatta di sete e stanchezza, caldo e paura – un ro­manzo. Un romanzo sconcertante, tanto più in pieno clima neorealista, che ha come sfondo non la «terra ideale dei films Para­mount», ma il paese triste, ingrato, ambi­guo, sfuggente delle iene (e che dunque cela di necessità «qualcosa di guasto»), e al centro una vicenda «assolutamente fan­tastica»: un delitto futile e fatale, che scate­na in chi l’ha commesso un corrosivo deli­rio. E gli trasmette il morbo di un «impe­ro contagioso», di un senso di colpa in­scindibile dal rancore, di una pietà com­mista a disprezzo per un mondo ignoto, l’Africa – «lo sgabuzzino delle porcherie», dove gli occidentali vanno «a sgranchirsi la coscienza».

    https://www.adelphi.it/libro/9788845935152
    #livre

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    ajouté à la métaliste sur la #colonialisme_italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

    #cinéma #Ethiopie #colonialisme #colonialisme_italien #colonisation #viol

    via @olivier_aubert

  • Perché bisogna demolire la “#new_town” di #Berlusconi

    Il processo di ricostruzione dell’Aquila deve concludersi, simbolicamente e praticamente, con una demolizione: quella del progetto C.A.S.E

    Pochi giorni fa un servizio della celebre trasmissione televisiva Report è tornato per un attimo a puntare i riflettori dell’attenzione pubblica sulla gestione del post-sisma all’Aquila, denunciando in particolare lo stato di degrado in cui versano alcuni alloggi del progetto C.A.S.E. (acronimo di Complessi Antisismici, Sostenibili ed Ecocompatibili).

    Il progetto è il principale intervento realizzato dal governo nazionale (allora presieduto da Silvio Berlusconi) per dare alloggio temporaneo alla popolazione sfollata a seguito del sisma che, nel 2009, colpì il capoluogo abruzzese – provocando 309 morti e decine di migliaia di sfollati, e riducendo in macerie ampie porzioni della città e di alcuni comuni limitrofi. Stiamo parlando di quasi 4500 alloggi, destinati a ospitare circa 17.000 persone, costituiti da palazzine residenziali realizzate su enormi piastre antisismiche in cemento armato. Le palazzine del progetto C.A.S.E. sono raggruppate in piccoli “quartieri dormitorio” (i servizi pubblici sono pochi, gli esercizi commerciali assenti) localizzati in varie aree, per lo più periferiche, della città. Questi quartieri sono conosciuti giornalisticamente come le “new towns” di Berlusconi: fu infatti il Cavaliere a spingere fortemente per la loro realizzazione. Al suono dello slogan “dalle tende alle case”, l’allora presidente del Consiglio fece un enorme investimento politico e di immagine sulla costruzione di queste strutture. I primi appartamenti furono inaugurati a soli cinque mesi dal sisma, con un Berlusconi raggiante che poteva dichiarare di aver vinto la sfida di sistemare velocemente un numero elevato di sfollati all’interno di strutture in tutto e per tutto simili a tradizionali abitazioni. Dalle tende dell’emergenza alle case del progetto C.A.S.E., per l’appunto.

    Il costo di tale apparente successo è però stato abilmente scaricato sulla collettività, senza che quest’ultima quasi se ne accorgesse. Ciò non riguarda tanto la spesa astronomica (superiore agli 800 milioni di euro) per la costruzione degli alloggi del progetto C.A.S.E., quanto la salatissima ipoteca che hanno imposto al territorio aquilano, legata alla loro nefasta natura in bilico tra temporaneo e permanente. Il progetto è stato infatti realizzato per dare rapidamente un alloggio temporaneo alla popolazione sfollata e, per questo, è stato costruito con materiali inadatti a durare a lungo. Ciò è stato plasticamente testimoniato, nel 2014, dal crollo di un balcone in una delle “new towns”, successivamente interamente evacuata. Simultaneamente, il progetto C.A.S.E. è stato realizzato nell’idea, inizialmente non troppo sbandierata, che le strutture edificate in verità non sarebbero mai state rimosse. Si trova traccia di questa intenzione già in alcuni documenti ufficiale di 2011 (tra cui il Piano di Ricostruzione, che avanzava l’ipotesi, invero alquanto strampalata, che quegli appartamenti “temporanei” avrebbero potuto ospitare studenti e turisti alla fine della ricostruzione).

    Oggi, con la ricostruzione della città che non è lontana dall’essere completata, questi alloggi sono entrati in una traiettoria di sotto-utilizzo e degrado. Su 4450 abitazioni, solo circa 2850 sono oggi occupate, in parte dagli sfollati del sisma, in parte da altri soggetti fragili (popolazione a basso reddito, famiglie monoparentali e anziani, a cui si sono aggiunte recentemente alcune decine di profughi ucraini). Dei rimanenti alloggi, solo 300 sono effettivamente disponibili, mentre risultano inagibili 870 appartamenti (quelli in corso di manutenzione sono 420). Con il passare del tempo, la quota di abitazioni inoccupate crescerà, così come, probabilmente, quella degli alloggi inagibili (e i costi di manutenzione). Che fare, dunque, del progetto C.A.S.E.?

    Il servizio di Report menzionato all’inizio di questo post ha scatenato all’Aquila un rimpallo di responsabilità tra la presente amministrazione (di centro-destra) e la precedente (di centro-sinistra), che ha dimostrato solo, in maniera inequivocabile, come nessuno, indipendentemente dal colore politico, abbia un piano unitario, a lungo termine, per queste strutture. Quello che si sta facendo è procedere a tentoni, per frammenti. In campo ci sono alcuni interessanti progetti di riutilizzo di alcune porzioni del progetto C.A.S.E., legati all’istituzione all’Aquila del Centro Nazionale del Servizio Civile Universale e alla Scuola Nazionale dei Vigili del Fuoco.

    Ma la verità è che c’è un limite ai progetti di riutilizzo che si possono inventare, motivo per cui si dovrà prima o poi ammettere che c’è un elefante nella stanza: l’unica strada percorribile per un elevato numero di queste strutture è la demolizione. E ciò nonostante l’enorme massa di denaro pubblico spesa per realizzarle poco più di un decennio fa. Si deve infatti prendere atto che il loro mantenimento non rappresenta un’opportunità (semplicemente, la città non ha bisogno di tutti quegli spazi, tanto più che c’è un problema rilevante di vuoti anche all’interno del tessuto urbano consolidato), ma un fardello, i cui costi di manutenzione non faranno che aumentare, di pari passo con l’avanzare del loro degrado e il crescere del loro inutilizzo. L’abbattimento è però più facile a dirsi che a farsi, se non altro per una questione economica: si parla di un’operazione dai costi elevatissimi (svariate decine di milioni di euro), che l’amministrazione comunale non è sicuramente in grado di affrontare. Demolire deve diventare così il tassello finale dell’azione del governo centrale rispetto al sisma dell’Aquila: simbolicamente e praticamente la ricostruzione deve terminare con una distruzione, quella del progetto C.A.S.E.

    https://www.huffingtonpost.it/blog/2022/04/27/news/bisogna_demolire_le_new_towns_di_berlusconi-9270510

    #tremblement_de_terre #Aquila #L'Aquila #temporaire #CASE #reconstruction #logement #Silvio_Berlusconi #déplacés #sfollati #new_towns #dalle_tende_alle_case #coût #logement_temporaire

  • Le #Conseil_d'Etat saisi du #contrôle_aux_frontières rétabli par la #France depuis 2015

    Des associations s’appuient sur un arrêt de la #Cour_de_justice de l’Union européenne du 26 avril pour dénoncer le renouvellement illégal de cette #dérogation à la #libre_circulation des personnes.

    Dans la nuit du 13 au 14 novembre 2015, alors que l’assaut des forces d’intervention n’avait pas encore été donné au Bataclan, François Hollande, alors président de la République, avait annoncé la proclamation de l’#état_d'urgence et la #fermeture_des_frontières pour un mois. Ce #rétablissement_des_contrôles aux #frontières_intérieures par un pays membre de l’#Union_européenne (#UE) est autorisé, mais de façon exceptionnelle et #temporaire. La France le maintient de façon interrompue depuis plus de six ans. Elle a notifié à quinze reprises à la Commission européenne le #renouvellement de cette #dérogation_temporaire au « #code_frontières_Schengen ».

    Quatre associations ont décidé, selon nos informations, de saisir le Conseil d’Etat mardi 10 mai d’une demande de #suspension_en_référé de la dernière prolongation, du 1er mai au 31 octobre 2022, notifiée par Paris. L’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé), le Groupe d’information et de soutien des immigrés (Gisti), le Comité inter-mouvement auprès des évacués (Cimade) et la Ligue des droits de l’homme (LDH) n’en sont pas à leur première tentative devant la haute juridiction administrative. Mais elles ont cette fois un atout maître avec une toute récente décision de la Cour de justice de l’Union européenne.

    Le 26 avril, la cour de Luxembourg a dit, en réponse à une question d’interprétation des textes européens posée par la #justice autrichienne, que la réintroduction des contrôles aux frontières décidée par un Etat en raison de #menaces_graves pour son #ordre_public ou sa #sécurité_intérieure « ne peut pas dépasser une durée totale maximale de six mois » , y compris ses prolongations éventuelles. L’arrêt des juges européens précise que l’apparition d’une nouvelle menace peut autoriser à réintroduire ce contrôle au-delà des six mois initiaux, mais dans ce cas elle doit être « distincte de celle initialement identifiée » . Il s’agit de protéger la libre circulation des personnes, « une des principales réalisations de l’Union européenne » , soulignent les juges.

    Or, selon le relevé de la Commission européenne, les dernières notifications de Paris pour justifier cette entorse au principe de libre circulation listent invariablement les trois mêmes « menaces » : la #menace_terroriste persistante, les #mouvements_secondaires de migrants, l’épidémie de #Covid-19. Rien de très nouveau en effet. Pour Patrice Spinosi, l’avocat des associations, le dernier renouvellement décidé « en dépit de la clarification apportée » par l’arrêt de la cour européenne constitue « une flagrante violation » de l’article 25 du code frontières Schengen.

    Hausse « considérable » des #refus_d'entrée

    Au ministère de l’intérieur, on indique en réaction à l’arrêt du 26 avril que la question du renouvellement répété de cette dérogation « est traitée par la réforme en cours du code des frontières Schengen » . On précise que le sujet sera évoqué les 9 et 10 juin, lors du prochain conseil des ministres « justice et affaires intérieures » de l’UE. Mais, d’une part, ces nouvelles règles ne sont pas encore définies, et d’autre part, la Commission européenne avait précisé en ouvrant ce chantier le 14 décembre 2021 que « l’actualisation des règles vise à faire en sorte que la réintroduction des contrôles aux frontières intérieures demeure une mesure de dernier recours. »

    Derrière les arguments sur l’ordre public et la sécurité intérieure, les associations dénoncent des pratiques illégales de contrôle migratoire. Elles ont publié le 29 avril, avec d’autres associations comme Médecins du Monde et Amnesty International, un communiqué appelant « les autorités françaises à mettre un terme à la prolongation des contrôles aux frontières intérieures et à cesser ainsi les atteintes quotidiennes aux #droits_fondamentaux des personnes exilées qui s’y présentent (violences, contrôles aux faciès, non-respect du droit d’asile et des droits de l’enfant, enfermement) ».

    Ces contrôles au sein de l’espace Schengen se traduisent par des « refus d’entrée » opposés en nombre, dénoncent les associations qui y voient des pratiques discriminatoires. « Les statistiques révèlent une augmentation considérable des refus d’entrée aux frontières intérieures depuis le 13 novembre 2015 » , de 5 000 en 2015 à 48 000 pour les huit premiers mois de 2020, écrivent-elles dans leur requête au Conseil d’Etat. Il se trouve que ce dernier a adressé le 24 février une question préjudicielle à la Cour de Luxembourg pour vérifier si le fait d’opposer un « refus d’entrée » à un #poste_frontière, même en cas de rétablissement des contrôles aux frontières, est conforme au droit de l’UE.

    Par deux fois, en décembre 2017 et octobre 2017, le Conseil d’Etat avait rejeté des requêtes émanant des mêmes associations contre le renouvellement des contrôles aux frontières, estimant qu’une « #nouvelle_menace » ou une « #menace_renouvelée » pouvait justifier une nouvelle dérogation de six mois à la #libre_circulation_des_personnes. Ce nouveau référé devrait être examiné en audience sous un mois, à moins que la juridiction considère que l’affaire mérite d’être jugée au fond, ce qui pourrait prendre quelques semaines de plus.

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2022/05/10/le-conseil-d-etat-saisi-du-controle-aux-frontieres-retabli-par-la-france-dep
    #justice

    avec un effet clair sur les #frontières_sud-Alpines, dont il est pas mal question sur seenthis ;-)
    #frontière_sud-alpine #Alpes

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  • À la frontière franco-italienne : un #bricolage du #droit qui contourne l’asile

    Le #droit_d’asile est reconnu par les textes français, européens et internationaux. Pourtant, les personnes qui se présentent à la frontière franco-italienne sont régulièrement refoulées sans pouvoir demander la protection de la France. Pour comprendre cet écart, il faut s’intéresser aux ambiguïtés de notre système juridique.

    https://www.youtube.com/watch?v=nE51SrntoIA&feature=emb_logo

    Depuis le 13 novembre 2015, la France a rétabli les contrôles à ses frontières européennes, également dites « intérieures[1] » (avec l’Italie, l’Espagne, la Belgique, l’Allemagne, le Luxembourg et la Suisse). Cette mesure, exceptionnelle et normalement temporaire, a engendré ce que l’on appelle un nouveau « régime frontière », c’est-à-dire un ensemble de normes et de pratiques qui gouvernent le mouvement des personnes aux confins de l’État. À partir de l’étude de ce nouveau régime à la frontière franco-italienne, nous considérerons l’écart qui peut exister entre le texte juridique et le terrain concernant un droit fondamental comme l’asile. Dans quelle mesure la pratique du droit et son interprétation constituent-elles une marge qui permet aux acteurs étatiques de s’accommoder de certaines règles ?
    Le droit d’asile, un régime juridique transversal

    Il faut d’abord préciser qu’en France le droit d’asile, qui protège les personnes fuyant les risques de persécutions et les conflits armés, est l’objet d’un régime juridique complexe où s’entrelacent le droit national et le droit international. L’asile contemporain est en grande partie issu de la Convention de Genève relative au statut des réfugiés de 1951 et son protocole de 1967[2] qui sont des traités internationaux. Mais une portion considérable des règles de l’asile est élaborée par le droit de l’Union européenne qui forme, à travers de multiples directives et règlements, le régime d’asile européen commun. Ensuite, bien que la Convention européenne des droits de l’homme (CEDH)[3] de 1950 ne prévoie pas directement la protection de l’asile, il est établi qu’elle protège indirectement contre certains refoulements à travers l’obligation qu’elle impose aux États en matière d’interdiction de la torture et de traitements inhumains et dégradants (article 3) et de vie privée et familiale (article 8). Enfin, le droit d’asile est consacré par la Constitution française et inscrit dans le droit français, principalement en transposition du droit de l’Union européenne (droit UE). Le droit d’asile est ainsi finement tissé dans un régime juridique qui mêle le droit international, la CEDH, le droit de l’Union européenne et le droit français, à la fois constitutionnel et commun.
    À la frontière franco-italienne, l’asile en péril

    À la frontière entre la France et l’Italie, force est de constater que le droit d’asile n’est pas pleinement appliqué. L’enquête de terrain réalisée dans la vallée de la Roya et à Briançon et, surtout, l’attention des citoyens frontaliers et le travail d’associations comme Tous Migrants[4], Médecins du Monde[5], l’Anafé[6], Amnesty International[7] — pour n’en citer que quelques-unes — parviennent au même constat : la plupart des personnes migrantes[8] interceptées en France près de la frontière avec l’Italie ne sont pas en mesure de demander l’asile. Cette observation est également partagée par des institutions publiques dans des rapports tels que ceux du Contrôleur général des lieux de privation de liberté[9], de la Commission nationale consultative des droits de l’homme et de la commission d’enquête parlementaire sur les migrations[10]. Les personnes traversent la frontière, arrivent en France et, si elles sont interceptées par la police aux frontières (PAF), seront le plus fréquemment renvoyées en Italie sans examen individuel de leur situation.

    C’est donc la condition de possibilité du droit d’asile qui est ici mise en question : le fait de pouvoir enregistrer une demande afin que celle-ci soit traitée par le système de protection français. Cet aspect essentiel de l’asile — la demande — est pourtant consacré par ce régime juridique transversal que nous évoquions, y compris aux frontières de la France[11]. Comment dès lors expliquer que ce droit fondamental ne soit pas réalisé à la frontière avec l’Italie ? L’on serait tenté de répondre que le droit n’est tout simplement pas appliqué convenablement et qu’il suffit qu’une cour, comme le Conseil d’État, sanctionne cette pratique. Cependant, les juges, déjà saisis de la question, n’ont pas formulé de jugement capable de modifier les pratiques de contrôle éludant le droit d’asile.

    Par ailleurs, les contrôles frontaliers font l’objet d’un discours juridique, c’est-à-dire d’une justification par le droit, de la part des autorités étatiques. Ainsi le problème ne porte-t-il pas sur la non-application du droit mais, précisément, sur la manière dont le droit est interprété et mis en application, sur la direction qui est donnée à la force du droit. Qu’est-ce qui, dans le fonctionnement du droit, rend possible la justification juridique d’une transgression d’un droit fondamental normalement applicable ? Autrement dit, comment les autorités arrivent-elles à échapper à leurs obligations internationales, européennes et, à certains égards, constitutionnelles ?

    Une partie de la réponse à cette question réside en ce que le droit — international, européen, national — est plus malléable qu’on pourrait le penser. En effet, les normes juridiques peuvent parfois être en partie indéterminées dans leur définition et dans leur application. L’on dira que le droit est indéterminé au regard d’une situation lorsque les sources juridiques (les traités, les textes européens, la Constitution, la loi, le règlement, etc.), les opérations légitimes d’interprétation ou le raisonnement juridique qui s’y rapportent sont indéterminés, c’est-à-dire lorsque plus d’une conclusion peut être, a priori, tirée de ces éléments. L’on ajoutera une chose : moins un régime juridique est détaillé, plus il laisse de place aux indéterminations. Or, le régime qui préside aux contrôles à la frontière italienne est dérogatoire au droit commun de l’espace Schengen et il est, à ce titre, très peu développé par les textes. Comment cette malléabilité du droit se déploie-t-elle à la frontière ?
    Constituer la frontière par le détournement des normes

    Tout d’abord, si la question de l’asile se pose à la frontière franco-italienne, c’est parce que celle-ci fait l’objet de contrôles dérogatoires. Selon le droit de l’Union européenne, les États membres ne devraient pas effectuer de vérifications frontalières systématiques. Ils peuvent cependant exceptionnellement réintroduire les contrôles dans le cas d’une « menace grave à l’ordre public ou la sécurité intérieure[12] », et ce, pour une durée maximale de deux ans. Il faut ici souligner deux choses.

    D’une part, la France justifie officiellement ces contrôles par l’existence d’une menace terroriste persistante, bien qu’elle les effectue non pas en raison de la lutte contre le terrorisme, mais principalement aux fins de contrôles des flux migratoires. Or, cet élément n’est pas prévu dans le droit UE comme permettant de justifier le rétablissement des contrôles. Le « Code frontières Schengen », qui détaille les normes européennes en matière de frontière, le rejette même explicitement. Cet état de fait a été reconnu par le directeur des affaires européennes du ministère de l’Intérieur dans le cadre de la commission d’enquête parlementaire sur les migrations. Il s’agit donc du détournement de la finalité et de la rationalité d’une règle européenne.

    D’autre part, la France contrôle ses frontières européennes depuis novembre 2015. En mars 2022, cela fait donc plus de six années qu’une mesure exceptionnelle et temporaire est reconduite. L’argument avancé par le gouvernement et entériné par le Conseil d’État consiste à dire, à chaque renouvellement de cette mesure de contrôle — tous les six mois —, qu’une nouvelle menace terroriste a été détectée. La menace étant « renouvelée », le fondement de la mesure repart de zéro, comme s’il n’y avait aucune continuité dans la rationalité des contrôles depuis 2015. Voilà qu’une norme européenne concernant la sécurité intérieure et le terrorisme est continuellement détournée à des fins de gouvernance des migrations. Ainsi malléable, le droit est mobilisé pour matérialiser la frontière par les contrôles, sans quoi la problématique de l’asile serait inexistante puisque la circulation serait libre comme le prévoit le droit UE.
    Épaissir la frontière par l’innovation normative

    Une fois la frontière concrètement instaurée par les contrôles se pose la question du régime juridique applicable, c’est-à-dire de l’ensemble des règles présidant aux interceptions des personnes. En France, le droit des étrangers comprend deux principaux régimes qui permettent de saisir la régularité ou l’irrégularité de la situation d’une personne étrangère : le régime de l’admission et le régime du séjour. L’admission (X peut-elle être admise en France ?) concerne uniquement les personnes franchissant une frontière extérieure de la France (avec un pays tiers à l’UE). À l’inverse, le régime du séjour (X peut-elle demeurer en France ?) s’applique sur tout le reste du territoire, en dehors des points de passage qui définissent les frontières extérieures. Si la constitution et la saisie de l’irrégularité des étrangers par le droit sont toujours limitatives des libertés des personnes, il faut souligner que le régime de l’entrée est le plus circonscrit des deux en matière de droits fondamentaux tant en théorie qu’en pratique. Le droit de demander l’asile doit être respecté dans les deux cas, mais le régime de l’admission le traduit à travers une procédure plus expéditive comportant moins de garanties.

    Sur le territoire limitrophe de l’Italie, c’est par défaut le régime du séjour qui aurait dû s’appliquer puisqu’il s’agit d’une frontière intérieure, et non celui de l’admission qui ne concerne que les frontières extérieures de la France. Cependant, d’abord de manière irrégulière, puis en adoptant la loi asile et immigration en septembre 2018, le gouvernement a déployé une partie de l’arsenal du régime de l’admission en appliquant des procédures de renvoi expéditives à travers l’émission de refus d’entrée. Chose innovante, cette loi a également étendu cette procédure à toute une zone constituée par une bande de dix kilomètres le long de la ligne frontière. Ainsi, alors que, vis-à-vis des contrôles, le droit UE délimite la frontière à des points de passage, l’innovation française l’épaissit-elle juridiquement à un large espace.
    Au sein de la frontière, bricoler le droit

    Que se passe-t-il au sein de cette frontière épaissie ? D’abord, une controverse juridique, car aux moins deux décisions, de la Cour de justice de l’Union européenne[13] et du Conseil d’État[14], remettent partiellement en question le bien-fondé de l’application des refus d’entrée aux frontières intérieures. Mais surtout, dans cet espace controversé, c’est un véritable bricolage du droit que l’on peut observer.

    Pour l’illustrer, prenons le cas de la privation de liberté. Sur le terrain, l’on constate, lors de la procédure de renvoi, que les personnes sont maintenues dans les locaux de la PAF, notamment à Montgenèvre et à Menton Pont-Saint-Louis[15]. Elles font donc l’objet d’un enfermement non consenti qui constitue une privation de liberté. Pourtant, les règles qui y président ne sont ni celles du régime du séjour ni celles du régime de l’entrée. Autrement dit, le gouvernement a décidé d’appliquer une partie du régime de l’admission — les refus d’entrée, la procédure expéditive — sans pour autant lui faire correspondre son régime de privation de liberté alors même que celle-ci est mise en place. Cet aspect est crucial, car la privation de liberté constitue une restriction grave à de nombreuses libertés fondamentales et est strictement encadrée en France.

    Ce flottement « qualificatoire » est problématique parce que les droits fondamentaux[16] des personnes maintenues ne sont garantis que par des mécanismes spécifiques associés aux régimes de privation de liberté existants. L’absence de catégories claires donne une certaine latitude aux acteurs étatiques à la frontière. Cette ambiguïté neutralise même sérieusement les droits fondamentaux en fragilisant les garanties d’accès aux droits et aux juges. L’on pourrait dire que ce bricolage du droit est parajuridique dans les deux sens du préfixe, c’est-à-dire qui s’articule autour du droit, mais aussi, parfois, contre le droit. Parce qu’il s’agit d’arrangements composites, certains aspects sont parfois invalidés par les juges, mais pas leur économie générale qui en font un mode de gouvernance des migrations dans les marges du droit. Au fond, le maintien d’un régime juridique dérogatoire au droit de l’espace Schengen semble renforcer la capacité de l’État à jouer sur les ambiguïtés du droit. Il déroge ainsi à certains droits fondamentaux et procédures administratives qui devraient s’appliquer en vertu du droit international, européen et national.

    Pour aller plus loin

    Commission nationale consultative des droits de l’homme, 2018. Avis sur la situation des personnes migrantes à la frontière franco-italienne, 19 juin URL : https://www.cncdh.fr/sites/default/files/180619_avis_situation_des_migrants_a_la_frontiere_italienne.pdf
    Charaudeau Santomauro B., 2020. « La condition des migrants sous la réintroduction des contrôles aux frontières : le cas de l’état d’urgence à la frontière franco-italienne », in : Benlolo Carabot M. (dir.), L’Union européenne et les migrations, Bruylant-Larcier, p. 337‑343. URL : https://halshs.archives-ouvertes.fr/hal-03224278
    Anafé, 2019. Persona non grata. Conséquences des politiques sécuritaires et migratoires à la frontière franco-italienne, Rapports d’observations 2017–2018. URL : https://drive.google.com/file/d/15HEFqA01_aSkKgw05g_vfrcP1SpmDAtV/view
    Contrôleur général des lieux de privation de liberté, 2017. Rapport de visite des locaux de la police aux frontières de Menton (Alpes-Maritimes). 2e visite : Contrôle des personnes migrantes à la frontière franco-italienne, 4 au 8 septembre. URL : https://www.cglpl.fr/2018/rapport-de-la-deuxieme-visite-des-services-de-la-police-aux-frontieres-de-ment

    https://www.icmigrations.cnrs.fr/2022/03/10/defacto-032-01
    https://www.icmigrations.cnrs.fr/2022/03/10/defacto-032-01
    #frontière_sud-alpine #frontières #asile #migrations #réfugiés #Alpes #France #Italie #refoulement #push-backs #régime_frontalier #fermeture_des_frontières #vallée_de_la_roya #Briançon #Hautes-Alpes #Alpes_maritimes #PAF #normes_juridiques #espace_Schengen #contrôles_dérogatoires #terrorisme #menace_terroriste #code_frontières_Schengen #temporaire #exception #état_d'urgence #régime_de_l'admission #régime_du_séjour #droits_fondamentaux #bricolage #refus_d'entrée #privation_de_liberté #enfermement

  • Temporary Urban Projects: Proposing a Multi-Positional Framework for Critical Discussion
    https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/frsc.2022.722665

    The aim of this article is to create fertile ground for critical discussion of the discursive field of temporary urban projects (TUPs), their multiple positionings and governance potential in urban and metropolitan development. TUPs constitute short-lived or temporally restricted spatial interventions and social activities in otherwise vacant urban settings. Often made from cheap materials and simple construction methods, TUPs activate urban spaces in transition. Through spatial appropriations, TUPs can explore new uses and potentials in these transforming urban areas. Despite aesthetic and spatial similarities, the discursive field of TUPs is diverse and covers a plethora of uses and understandings of space, actors, activities, intentions and strategies. A critical discussion that (...)

  • EU ministers seek solutions as Ukraine humanitarian crisis looms

    EU home affairs ministers have put off a decision on whether to grant temporary protection to Ukrainian refugees amid what threatens to become the “largest humanitarian crisis” in Europe in recent times.

    While a proposal to activate the 2001 #Temporary_Protection_Directive for Ukrainians fleeing the country was “broadly welcomed” by the ministers during their extraordinary meeting on Sunday (27 February), a formal decision will only be made on Thursday, EU Home Affairs and Migration Commissioner Ylva Johansson said after the talks.

    Once activated, the directive would stay in force for one year, unless it is prolonged, and would allow Ukrainians to take immediate, temporary refuge in the EU without going through a standard asylum process.

    The exceptional measure, which has never been activated before, is meant to deal with situations where the standard asylum system risks being overburdened due to a mass influx of refugees.

    Based on recent UN estimates, the EU is currently expecting that more than seven million Ukrainians will be displaced within the country, while 18 million will be affected in humanitarian terms, the EU Commissioner for Crisis Management, Janez Lenarčič, said after the meeting.

    Four million, he said, are expected to flee the country as refugees.

    While current rules allow any Ukrainian citizen with a biometric passport to enter the EU visa-free, they can only stay for up to 90 days.

    “We need to be prepared for day 91,” Johansson stressed. “I think it is time to activate temporary protection.”

    During the meeting, however, some countries raised doubts as to whether the time was ripe for activating the directive and instead preferred to wait a little longer, she said, while refusing to name the nay-sayers.

    French minister Gérald Darmanin, who currently chairs the Home Affairs Council, said he would not only put a formal decision on the directive on the agenda when the ministers next meet on Thursday, but would also “pick up the phone” in the meantime to lobby for the consent of so-far hesitant member states.

    Beyond the question of refugees’ entry into EU territory, it also remains unclear how they will be distributed among member states. While the temporary protection directive provides for a voluntary “relocation mechanism” to disburden the first-arrival countries, Johansson said several member states had wanted to go further.

    Humanitarian crisis

    “From my perspective, this could even be a good time to make progress on the Migration and Asylum Pact,” she added. Darmanin previously said that ministers had reached an agreement for “compulsory solidarity” to be enshrined in the pact, which is still being negotiated.

    Even before the current crisis, he had put the question of what this would entail in practice on the agenda for Thursday’s meeting. According to Darmanin, the concept would not necessarily entail a distribution key for migrants, but could also involve financial aid to recipient countries.

    Lenarčič warned that Ukraine’s neighbouring countries, both inside and outside the EU, risked being overburdened with the accommodation of refugees and were in need of support to avoid a humanitarian crisis.

    He singled out Moldova, which he said did not have the capacities to deal with the situation and for which the EU would need to “step up support”.

    “We are witnessing what could become the largest humanitarian crisis on our European continent in many, many years,” he said, saying that needs were growing continuously. “We have to prepare for this kind of emergency, which is of historical proportions.”

    https://www.euractiv.com/section/justice-home-affairs/news/eu-ministers-seek-solutions-as-ukraine-humanitarian-crisis-looms

    #réfugiés #réfugiés_ukrainiens #EU #UE #Union_européenne #directive_de_protection_temporaire #directive_protection_temporaire #asile #visa #relocalisation

    –—

    Voir aussi ce fil de discussion :
    For Ukraine’s Refugees, Europe Opens Doors That Were Shut to Others
    https://seenthis.net/messages/950929

  • Guerre en #Ukraine : « On aura une immigration de grande qualité dont on pourra tirer profit »

    Le président de la commission des Affaires étrangères à l’Assemblée nationale, #Jean-Louis_Bourlanges, a évoqué dans « Europe Matin » vendredi la « vague migratoire » qui se prépare en Europe, après l’invasion militaire russe en Ukraine. « Ce sera sans doute une immigration de grande qualité », prévient toutefois le député MoDem.

    C’est l’une des conséquences majeures de l’invasion militaire russe en Ukraine. Des milliers d’Ukrainiens vont fuir leur pays pour échapper aux combats. Jeudi, près de 100.000 d’entre eux avaient déjà quitté leur foyer, selon l’ONU. Invité d’Europe Matin vendredi, le président de la commission des Affaires étrangères à l’Assemblée nationale, Jean-Louis Bourlanges, a dit s’attendre « à des mouvements » de population, sans en connaître l’ampleur. « Il faut prévoir (le flux migratoire). Ce sera sans doute une immigration de grande qualité », a évoqué le député MoDem au micro de Lionel Gougelot.

    Pourquoi Poutine a intérêt à pousser à l’immigration

    Pour Jean-Louis Bourlanges, les Ukrainiens qui s’apprêtent à quitter leur pays seront « des intellectuels, et pas seulement, mais on aura une immigration de grande qualité dont on pourra tirer profit », a-t-il ajouté. En revanche, le député a estimé que cela allait dans le sens du président russe. « Pour des raisons politiques très claires, monsieur Poutine aura intérêt à ce qu’il y ait ces mouvements pour deux raisons », a affirmé Jean-Louis Bourlanges.

    D’abord, « pour se débarrasser d’opposants potentiels dans son pays. S’ils sont à l’extérieur, ils ne le gêneront pas », analyse le président de la commission des Affaires étrangères à l’Assemblée nationale. « Et pour nous embarrasser nous-même », a-t-il ajouté, « exactement comme a fait Loukachenko à la frontière de la Biélorussie et de la Pologne. » "Nos amis polonais s’apprêtent à recevoir des flots massifs", a souligné Jean-Louis Bourlanges.

    https://www.europe1.fr/politique/guerre-en-ukraine-on-aura-une-immigration-de-grande-qualite-dont-on-pourra-t

    #classification #tri #réfugiés #asile #migrations #Urkaine #réfugiés_ukrainiens #bon_réfugié #mauvais_réfugié
    #à_vomir #racisme

    –-

    Les formes de #racisme qui montrent leur visage en lien avec la #guerre en #Ukraine... en 2 fils de discussion sur seenthis :
    https://seenthis.net/messages/951232

    ping @isskein @karine4

    • « Il y a un geste humanitaire évident parce que la nature des réfugiés n’est pas contestable, on voit bien ce qu’ils fuient.
      Ensuite parce que ce sont des européens de culture.
      Et puis nous ne sommes pas face à des migrants qui vont passer dans une logique d’immigration »


      https://twitter.com/caissesdegreve/status/1497579243944878082

      Commentaire de Louis Witter sur twitter :

      Ce genre de waf waf de la casse automobile remonteront au créneau quand on verra ces mêmes exilés à Calais.

      https://twitter.com/LouisWitter/status/1497685913429815299

      #réfugiés_européens #européens_de_culture #culture #vrais_réfugiés

    • For Ukraine’s Refugees, Europe Opens Doors That Were Shut to Others

      Thousands of Ukrainians will end up in countries led by nationalist governments that have been reluctant to welcome refugees in the past.

      Russia’s invasion of Ukraine has pushed tens of thousands of people out of their homes and fleeing across borders to escape violence. But unlike the refugees who have flooded Europe in crises over the past decade, they are being welcomed.

      Countries that have for years resisted taking in refugees from wars in Syria, Iraq and Afghanistan are now opening their doors to Ukrainians as Russian forces carry out a nationwide military assault. Perhaps 100,000 Ukrainians already have left their homes, according to United Nations estimates, and at least half of them have crowded onto trains, jammed highways or walked to get across their country’s borders in what officials warn could become the world’s next refugee crisis.

      U.N. and American officials described their concerted diplomatic push for Ukraine’s neighbors and other European nations to respond to the outpouring of need. President Biden “is certainly prepared” to accept refugees from Ukraine, Jen Psaki, the White House press secretary, said on Thursday, but she noted that the majority of them would probably choose to remain in Europe so they could more easily return home once the fighting ended.

      “Heartfelt thanks to the governments and people of countries keeping their borders open and welcoming refugees,” said Filippo Grandi, the head of the U.N. refugee agency. He warned that “many more” Ukrainians were moving toward the borders.

      That means thousands will end up in countries led by nationalist governments that in past crises have been reluctant to welcome refugees or even blocked them.

      In Poland, government officials assisted by American soldiers and diplomats have set up processing centers for Ukrainians. “Anyone fleeing from bombs, from Russian rifles, can count on the support of the Polish state,” the Polish interior minister, Mariusz Kaminski, told reporters on Thursday. His government is spending hundreds of millions of dollars on a border wall, a project it began after refugees and migrants from the Middle East tried to reach the country last year but ended up marooned in neighboring Belarus.

      The military in Hungary is allowing in Ukrainians through sections of the border that had been closed. Hungary’s hard-line prime minister, Viktor Orban, has previously called refugees a threat to his country, and his government has been accused of caging and starving them.

      Farther West, Chancellor Karl Nehammer of Austria said that “of course we will take in refugees if necessary” in light of the crisis in Ukraine. As recently as last fall, when he was serving as interior minister, Mr. Nehammer sought to block some Afghans seeking refuge after the Taliban overthrew the government in Kabul.
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      “It’s different in Ukraine than in countries like Afghanistan,” he was quoted as saying during an interview on a national TV program. “We’re talking about neighborhood help.”

      Mr. Nehammer also said the number of Ukrainians seeking help was expected to be relatively small. At least 1.3 million people — mostly from Syria, Iraq and Afghanistan — applied for asylum in Europe in 2015 during what was widely regarded as the worst refugee crisis since World War II, stretching national budgets and creating a backlash of political nativism in countries across the continent.

      Some estimates project that at least one million refugees will flee Ukraine because of the Russian invasion. Linda Thomas-Greenfield, the U.S. ambassador to the United Nations, said this past week that the fighting could uproot as many as five million people, “putting pressure on Ukraine’s neighbors.”

      Diplomats and experts said European states that are willing to take in Ukrainians might be trying, in part, to highlight Russian aggressions against civilians by offering a humanitarian response. “If you think of causing the refugee crisis as one of Putin’s tools to destabilize the West, then a calm, efficient, orderly response is a really good rebuke to that,” said Serena Parekh, a professor at Northeastern University in Boston and the director of its politics, philosophy and economics program.

      “On the other hand,” said Ms. Parekh, who has written extensively about refugees, “it’s hard not to see that Ukrainians are white, mostly Christian and Europeans. And so in a sense, the xenophobia that’s really arisen in the last 10 years, particularly after 2015, is not at play in this crisis in the way that it has been for refugees coming from the Middle East and from Africa.”

      The Biden administration is also facing calls to take in Ukrainian refugees, much in the way it gave residency or humanitarian parole to more than 75,000 Afghans when the Taliban seized power in August.

      It is unlikely, at the moment at least, that the United States would offer a humanitarian parole program for Ukrainians that goes above what is currently allowed for the total number of refugee admissions for the current fiscal year. That number is capped at 125,000 this year — including 10,000 refugees from Europe and Central Asia. The guidelines set aside another 10,000 slots for refugees from any part of the world, as regional emergencies warrant.

      Ms. Psaki did not comment when asked by a reporter whether the administration would offer temporary residency protections, a program known as T.P.S., to Ukrainian students, workers and others who are in the United States to ensure they are not deported when their legal visas expire.

      “The war in Ukraine is exactly the type of crisis T.P.S. was created for — to allow people to live and work in the United States when they are unable to return home safely,” Senator Bob Menendez, Democrat of New Jersey and the chairman of the Foreign Relations Committee, said on Thursday night.

      Ms. Psaki said the United States had sent an estimated $52 million in humanitarian aid to Ukraine over the last year to help people, mostly in the eastern Donbas region, where the current war began as a slow-burn conflict between Ukraine’s military and Russian-backed separatists in 2014. Nearly 1.5 million people had been forced from their homes by the fighting even before the invasion this past week.

      Additionally, the U.S. Agency for International Development sent a team of disaster experts to Poland in the past week to assess demand for aid to the region — including water, food, shelter, medicine and other supplies — and to coordinate its delivery. Hours after the invasion began, the United Nations announced it would divert $20 million in emergency funds for humanitarian assistance to Ukrainians, mostly to the Donbas region.

      A European diplomat who is closely watching the refugee flow from Ukraine said neighboring nations might also feel the pull of history in welcoming people in danger as a direct result of Russia’s aggressions. A Soviet crackdown on a Hungarian uprising in 1956, for example, resulted in 200,000 refugees, most of whom fled to Austria before they were settled in dozens of countries across Europe. Between 80,000 and 100,000 people — and perhaps even more than that — left what was then Czechoslovakia to escape a Soviet invasion in 1968 that was launched to silence pro-democracy Prague Spring protests.

      In both cases, the United States sent aid to help European countries settle refugees and, in the Hungarian crisis, “in a matter of months, there were no more refugees — they had been found a permanent home,” Ms. Parekh said.

      That was largely the result of the United States working with European states to resettle the Hungarians, she said, calling the effort “an exception, historically.”

      “It was a similar thing — people fleeing our Russian enemy — that motivated us,” she said.

      https://www.nytimes.com/2022/02/26/us/politics/ukraine-europe-refugees.html?smid=tw-share

      #fermeture_des_frontières #ouverture_des_frontières #frontières

    • Deserving and undeserving refugees ...

      On February 24, 2022, Russia invaded Ukraine. Appearing on television from an undisclosed location, Ukraine’s president, Volodymyr Zelenskyy, warned the world that Vladimir Putin was attacking not only his country, but waging “a war against Europe.”

      Following the all-out invasion of Ukraine by land, air and sea, Ukrainians began fleeing their homes in the eastern part of the country. Most were headed to other parts of Ukraine, while others began to trickle across international borders into Poland and other Central European countries. It is hard to predict how many of the 44 million Ukrainians will seek refugee outside the borders of their country.

      When refugees flee, we watch who offers safe haven and assistance.

      Hours after the Russian attack on Ukraine, the Bureau for Foreigners’ Affairs in the Polish Ministry of Interior set up a website, in Polish and in Ukrainian, offering information on available assistance to Ukrainian refugees. The website provides legal information on how to launch an asylum claim and regularize one’s stay in Poland. It also provides scannable QR codes for eight reception centers near crossing points on the 500-kilometer Polish-Ukrainian border. Adam Niedzielski, the Polish Health Minister, said Poland will set up a special medical train to ferry injured people to 120 Polish hospitals. “We think that at this moment it would be possible to accept several thousand patients — wounded in military actions,” he told Politico.

      Poland has even made an exception for Ukrainians evacuating with their pets. The Chief Veterinarian of Poland has eased restrictions on dogs and cats crossing the Polish border.

      Don’t get me wrong, I think Ukrainians (and their pets) should receive as much assistance as they need, but the irony of this immediate offer to help, extended by the Polish government and the rest of the Visegrád 4, is not lost on me.

      The Ukrainian refugees are white, European, and Christian. They are the “deserving refugees.”

      Slovakia’s Prime Minister explicitly stated that everyone fleeing the war deserves help according to international law. The Visegrád group’s position was quite different following the “refugee crisis” of 2015.

      The Polish government led by the nationalist Law and Justice (PiS) party refused to take part in the EU efforts to relocate and resettle asylum seekers arriving in other member countries. Hungary recruited border hunters and erected barbed wire fence along its border with Serbia. On September 16, 2016, the V4 issued a joint statement expressing concern about the decreasing sense of security resulting from the arrival of Muslim refugees from war-torn Syria; vowing to cooperate with third countries to protect borders, and calling for “flexible solidarity.”

      I am glad that Poland, my country of birth, wants to extend a helping hand to Ukrainians fleeing war and accept as many as one million refugees if necessary.

      At the same time, I cannot forget the Afghans and Syrians at the Polish-Belarusian border, dying in the cold winter forest in an attempt to cross into Poland to launch an asylum claim. They are kept at arm’s length. Because they are Muslim, the Polish government sees them as a security threat. Citing danger to Polish citizens living in the borderlands, on September 2, 2021, the President of Poland declared a state of emergency in 15 localities in the Podlasie Province and 68 localities in the Lublin Province.

      These brown and non-Christian asylum seekers are apparently not the deserving ones.

      https://www.elzbietagozdziak.com/post/deserving-and-undeserving-refugees

    • Propositions d’accorder une #protection_temporaire aux réfugiés urkainiens de la part des pays de l’UE :

      While a proposal to activate the 2001 #Temporary_Protection_Directive for Ukrainians fleeing the country was “broadly welcomed” by the ministers during their extraordinary meeting on Sunday (27 February), a formal decision will only be made on Thursday, EU Home Affairs and Migration Commissioner Ylva Johansson said after the talks.
      The exceptional measure, which has never been activated before, is meant to deal with situations where the standard asylum system risks being overburdened due to a mass influx of refugees.

      https://seenthis.net/messages/951046

    • [Thread] Here is a collection of most racist coverage of #Russia's attack on #Ukraine. We are being told who deserves war, missiles, & who looks like a good refugee.
      This only serves to mislead viewers & decontextualise conflicts. Hypocrisy & its randomness..

      https://twitter.com/saracreta/status/1498072483819307011

    • Réfugiés ukrainiens : l’indignité derrière la solidarité

      Pour justifier leur soudain élan d’humanité, certains éditorialistes et responsables politiques n’ont rien trouvé de mieux que de distinguer les bons et les mauvais réfugiés. Ils convoquent leur « ressemblance » avec les Ukrainiens, mais n’expriment rien d’autre que leur racisme.

      Pour justifier leur soudain élan d’humanité, certains éditorialistes et responsables politiques n’ont rien trouvé de mieux que de distinguer les bons et les mauvais réfugiés. Ils convoquent leur « ressemblance » avec les Ukrainiens, mais n’expriment rien d’autre que leur racisme.

      « L’hypocrisie, toujours la même. » Cédric Herrou n’a pas caché son écœurement en découvrant le message posté, samedi dernier, par le maire de Breil-sur-Roya (Alpes-Maritimes) en solidarité avec la population ukrainienne. « Le même maire qui a fait sa campagne électorale contre l’accueil que nous avions fait pour d’autres populations victimes de guerres. Seule différence, ces populations étaient noires », a réagi l’agriculteur, l’un des symboles de l’aide aux migrants, grâce auquel la valeur constitutionnelle du principe de fraternité a été consacrée en 2018.

      Un principe qui se rappelle depuis quelques jours au souvenir de nombreuses personnes qui semblaient l’avoir oublié, trop occupées qu’elles étaient à se faire une place dans un débat public gangréné par le racisme et la xénophobie. Il y a deux semaines, lorsque la guerre russe était un spectre lointain et que la campagne présidentielle s’accrochait aux seules antiennes d’extrême droite, rares étaient celles à souligner que la solidarité n’est pas une insulte et qu’elle ne constitue aucun danger.

      Les mêmes qui jonglaient avec les fantasmes du « grand remplacement » et agitaient les questions migratoires au rythme des peurs françaises expliquent aujourd’hui que l’accueil des réfugiés ukrainiens en France est un principe qui ne se discute pas. À l’exception d’Éric Zemmour, dont la nature profonde – au sens caverneux du terme – ne fait plus aucun mystère, la plupart des candidat·es à la présidentielle se sont prononcé·es en faveur de cet accueil, à quelques nuances près sur ses conditions.

      Mais parce que le climat politique ne serait pas le même sans ce petit relent nauséabond qui empoisonne toute discussion, des responsables politiques et des éditorialistes se sont fourvoyés dans des explications consternantes, distinguant les réfugiés de l’Est de ceux qui viennent du Sud et du Moyen-Orient. Ceux auxquels ils arrivent à s’identifier et les autres. Ceux qui méritent d’être aidés et les autres. Les bons et les mauvais réfugiés, en somme.

      Ainsi a-t-on entendu un éditorialiste de BFMTV expliquer que cette fois-ci, « il y a un geste humanitaire immédiat, évident [...] parce que ce sont des Européens de culture » et qu’« on est avec une population qui est très proche, très voisine », quand un autre soulignait qu’« on ne parle pas là de Syriens qui fuient les bombardements du régime syrien [mais] d’Européens qui partent dans leurs voitures qui ressemblent à nos voitures, qui prennent la route et qui essaient de sauver leur vie, quoi ! »

      Dès le 25 février, sur Europe 1, le député MoDem Jean-Louis Bourlanges, qui n’occupe rien de moins que la présidence de la commission des affaires étrangères de l’Assemblée nationale, avait quant à lui indiqué qu’il fallait « prévoir un flux migratoire ». Mais attention : « ce sera sans doute une immigration de grande qualité », avait-il pris soin de préciser, évoquant « des intellectuels, et pas seulement ». Bref, « une immigration de grande qualité dont on pourra tirer profit ».

      Ces propos ont suscité de vives réactions que l’éditorialiste de BFMTV et l’élu centriste ont balayées avec la mauvaise foi des faux crédules mais vrais politiciens, le premier les renvoyant à « la gauche “wokiste” » – un désormais classique du genre –, le deuxième à « l’extrême gauche » – plus classique encore, éculé même. « Il faut avoir un esprit particulièrement tordu pour y voir une offense à l’égard de quiconque », a ajouté Jean-Louis Bourlanges, aux confins du « on ne peut plus rien dire ».

      C’est vrai enfin, s’indignerait-on aux « Grandes Gueules », « c’est pas du racisme, c’est la loi de la proximité ». D’ailleurs, le même type de commentaire a fleuri dans des médias étrangers, tels CBS News, Al Jazzeera, la BBC ou The Telegraph, comme autant de « sous-entendus orientalistes et racistes » condamnés par l’Association des journalistes arabes et du Moyen-Orient (Ameja). Preuve, s’il en fallait, que le racisme – pardon, « la loi de proximité » – n’est pas une exception française.

      Suivant la directive d’Emmanuel Macron qui a confirmé que « la France prendra sa part » dans l’accueil des réfugiés ukrainiens, le gouvernement multiplie lui aussi les communications depuis quelques jours, le plus souvent par la voix du ministre de l’intérieur. Ces réfugiés « sont les bienvenus en France » a ainsi déclaré Gérald Darmanin lundi, avant d’appeler « tous les élus […] à mettre en place un dispositif d’accueil » et à « remonter, les associations, les lieux d’hébergement au préfet ».

      Dans le même élan de solidarité, la SNCF a annoncé que les réfugiés ukrainiens pourraient désormais « circuler gratuitement en France à bord des TGV et Intercités ». « Belle initiative de la SNCF mais je rêve d’une solidarité internationale étendue à TOUS les réfugiés, qu’ils fuient la guerre en Ukraine ou des conflits armés en Afrique ou encore au Moyen-Orient. Les réfugiés ont été et sont encore trop souvent refoulés et maltraités », a réagi la présidente d’Amnesty International France, Cécile Coudriou.

      Car au risque de sombrer dans le « wokisme » – ça ne veut rien dire, mais c’est le propre des appellations fourre-tout –, on ne peut s’empêcher de noter que ces initiatives, plus que nécessaires, tranchent singulièrement avec les politiques à l’œuvre depuis des années au détriment des exilé·es : l’absence de dispositif d’accueil digne de ce nom ; le harcèlement quasi quotidien de la part des forces de l’ordre, qui lacèrent des tentes, s’emparent des quelques biens, empêchent les distributions de nourriture ; le renforcement permanent des mesures répressives…

      Or comme l’écrivait récemment la sociologue et écrivaine Kaoutar Harchi, « un accueil digne, une aide sans condition, un accès immédiat à des repas, à des soins, à des logements, un soutien psychologique, devraient être accordés à toute personne qui est en France et qui souffre. Mais c’est sans compter le racisme qui distribue l’humanité et l’inhumanité ». C’est bien lui qui se profile aujourd’hui derrière la solidarité retrouvée de certain·es.

      Le 16 août 2021, alors que les images d’Afghans s’accrochant au fuselage d’avions pour fuir l’avancée des talibans faisaient le tour du monde, Emmanuel Macron déclarait : « L’Afghanistan aura aussi besoin dans les temps qui viennent de ses forces vives et l’Europe ne peut pas à elle seule assumer les conséquences de la situation actuelle. Nous devons anticiper et nous protéger contre les flux migratoires irréguliers importants. » Imagine-t-on cette phrase prononcée dans le contexte actuel ? La réponse est évidemment non. Et son corollaire fait honte.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/010322/refugies-ukrainiens-l-indignite-derriere-la-solidarite

    • They are ‘civilised’ and ‘look like us’: the racist coverage of Ukraine

      Are Ukrainians more deserving of sympathy than Afghans and Iraqis? Many seem to think so

      While on air, CBS News senior foreign correspondent Charlie D’Agata stated last week that Ukraine “isn’t a place, with all due respect, like Iraq or Afghanistan, that has seen conflict raging for decades. This is a relatively civilized, relatively European – I have to choose those words carefully, too – city, one where you wouldn’t expect that, or hope that it’s going to happen”.

      If this is D’Agata choosing his words carefully, I shudder to think about his impromptu utterances. After all, by describing Ukraine as “civilized”, isn’t he really telling us that Ukrainians, unlike Afghans and Iraqis, are more deserving of our sympathy than Iraqis or Afghans?

      Righteous outrage immediately mounted online, as it should have in this case, and the veteran correspondent quickly apologized, but since Russia began its large-scale invasion on 24 February, D’Agata has hardly been the only journalist to see the plight of Ukrainians in decidedly chauvinistic terms.

      The BBC interviewed a former deputy prosecutor general of Ukraine, who told the network: “It’s very emotional for me because I see European people with blue eyes and blond hair … being killed every day.” Rather than question or challenge the comment, the BBC host flatly replied, “I understand and respect the emotion.” On France’s BFM TV, journalist Phillipe Corbé stated this about Ukraine: “We’re not talking here about Syrians fleeing the bombing of the Syrian regime backed by Putin. We’re talking about Europeans leaving in cars that look like ours to save their lives.”

      In other words, not only do Ukrainians look like “us”; even their cars look like “our” cars. And that trite observation is seriously being trotted out as a reason for why we should care about Ukrainians.

      There’s more, unfortunately. An ITV journalist reporting from Poland said: “Now the unthinkable has happened to them. And this is not a developing, third world nation. This is Europe!” As if war is always and forever an ordinary routine limited to developing, third world nations. (By the way, there’s also been a hot war in Ukraine since 2014. Also, the first world war and second world war.) Referring to refugee seekers, an Al Jazeera anchor chimed in with this: “Looking at them, the way they are dressed, these are prosperous … I’m loath to use the expression … middle-class people. These are not obviously refugees looking to get away from areas in the Middle East that are still in a big state of war. These are not people trying to get away from areas in North Africa. They look like any.” Apparently looking “middle class” equals “the European family living next door”.

      And writing in the Telegraph, Daniel Hannan explained: “They seem so like us. That is what makes it so shocking. Ukraine is a European country. Its people watch Netflix and have Instagram accounts, vote in free elections and read uncensored newspapers. War is no longer something visited upon impoverished and remote populations.”

      What all these petty, superficial differences – from owning cars and clothes to having Netflix and Instagram accounts – add up to is not real human solidarity for an oppressed people. In fact, it’s the opposite. It’s tribalism. These comments point to a pernicious racism that permeates today’s war coverage and seeps into its fabric like a stain that won’t go away. The implication is clear: war is a natural state for people of color, while white people naturally gravitate toward peace.

      It’s not just me who found these clips disturbing. The US-based Arab and Middle Eastern Journalists Association was also deeply troubled by the coverage, recently issuing a statement on the matter: “Ameja condemns and categorically rejects orientalist and racist implications that any population or country is ‘uncivilized’ or bears economic factors that make it worthy of conflict,” reads the statement. “This type of commentary reflects the pervasive mentality in western journalism of normalizing tragedy in parts of the world such as the Middle East, Africa, south Asia, and Latin America.” Such coverage, the report correctly noted, “dehumanizes and renders their experience with war as somehow normal and expected”.

      More troubling still is that this kind of slanted and racist media coverage extends beyond our screens and newspapers and easily bleeds and blends into our politics. Consider how Ukraine’s neighbors are now opening their doors to refugee flows, after demonizing and abusing refugees, especially Muslim and African refugees, for years. “Anyone fleeing from bombs, from Russian rifles, can count on the support of the Polish state,” the Polish interior minister, Mariusz Kaminski, recently stated. Meanwhile, however, Nigeria has complained that African students are being obstructed within Ukraine from reaching Polish border crossings; some have also encountered problems on the Polish side of the frontier.

      In Austria, Chancellor Karl Nehammer stated that “of course we will take in refugees, if necessary”. Meanwhile, just last fall and in his then-role as interior minister, Nehammer was known as a hardliner against resettling Afghan refugees in Austria and as a politician who insisted on Austria’s right to forcibly deport rejected Afghan asylum seekers, even if that meant returning them to the Taliban. “It’s different in Ukraine than in countries like Afghanistan,” he told Austrian TV. “We’re talking about neighborhood help.”

      Yes, that makes sense, you might say. Neighbor helping neighbor. But what these journalists and politicians all seem to want to miss is that the very concept of providing refuge is not and should not be based on factors such as physical proximity or skin color, and for a very good reason. If our sympathy is activated only for welcoming people who look like us or pray like us, then we are doomed to replicate the very sort of narrow, ignorant nationalism that war promotes in the first place.

      The idea of granting asylum, of providing someone with a life free from political persecution, must never be founded on anything but helping innocent people who need protection. That’s where the core principle of asylum is located. Today, Ukrainians are living under a credible threat of violence and death coming directly from Russia’s criminal invasion, and we absolutely should be providing Ukrainians with life-saving security wherever and whenever we can. (Though let’s also recognize that it’s always easier to provide asylum to people who are victims of another’s aggression rather than of our own policies.)

      But if we decide to help Ukrainians in their desperate time of need because they happen to look like “us” or dress like “us” or pray like “us,” or if we reserve our help exclusively for them while denying the same help to others, then we have not only chosen the wrong reasons to support another human being. We have also, and I’m choosing these words carefully, shown ourselves as giving up on civilization and opting for barbarism instead.

      https://www.theguardian.com/commentisfree/2022/mar/02/civilised-european-look-like-us-racist-coverage-ukraine?CMP=Share_iOSAp

    • Guerre en Ukraine : « Nos » réfugiés d’abord ?

      Il est humainement inacceptable que l’Europe et la Belgique fassent une distinction entre des réfugiés qui fuient la guerre depuis un pays du continent européen et les autres.

      Bonne nouvelle : le secrétaire d’Etat à l’Asile et à la Migration Sammy Mahdi met tout en œuvre pour accueillir dans notre pays le plus grand nombre possible de personnes fuyant l’Ukraine. Elles peuvent compter sur une protection automatique d’un an, extensible à trois ans si nécessaire. Cet accord (européen) inconditionnel, sans procédure d’asile, est unique et sans précédent. Mais sur quoi se base-t-il ?

      « Nous avons le devoir moral d’aider et de faire preuve de solidarité », a déclaré le secrétaire d’État dans De Zevende Dag. « Nous ne devons pas tarder à mettre à disposition un refuge sûr. »

      Un demi-million d’Ukrainiens ont déjà fui le pays vers l’Europe, et six à sept millions d’autres pourraient suivre. Une telle réponse humaine et directe aux personnes qui fuient la guerre doit être saluée. Les personnes dont la vie est menacée par la guerre méritent un refuge sûr ailleurs, un statut légal et une aide de base pour survivre. En cela, l’hospitalité de Mahdi suit l’esprit de la Convention des Nations unies sur les réfugiés de 1951 et du Protocole de New York de 1967. C’est un geste logique et humain.
      Frontières sacrées

      Toutefois, le contraste est troublant avec la réaction européenne envers tant d’autres personnes démunies qui ont dû quitter des zones de conflit turbulentes et qui sont « accueillies » à nos frontières extérieures par de hauts murs, des barbelés et une surveillance numérique dans laquelle l’UE investit des milliards. Les mêmes ministres européens de la Migration qui accueillent aujourd’hui les Ukrainiens/nes à bras ouverts se tenaient à la frontière entre la Lituanie et la Biélorussie en janvier dernier, en contemplant le nouveau parapet de la forteresse Europe.

      Un mur similaire est actuellement en cours de construction entre la Pologne et la Biélorussie, pour un coût de 350 millions d’euros : 5,5 m de haut, 186 km de long. Sur Facebook, le Premier ministre polonais a posté : « La frontière polonaise n’est pas seulement une ligne sur une carte. La frontière est sainte – le sang polonais a été versé pour elle ! »

      C’est précisément sur cette frontière sacrée qu’au moins 19 personnes ont été retrouvées mortes (gelées) depuis le début des travaux : des personnes originaires du Yémen, d’Irak et du Nigeria.

      Apparemment, la souffrance est mesurable sur une échelle. Apparemment, comme l’écrit la philosophe Judith Butler, certaines vies méritent d’être pleurées tandis que d’autres peuvent être traquées, illégalisées, exploitées sur le marché du travail et laissées à la merci de la politique belge d’asile et de migration. Comme si un habitant de Kaboul avait moins de raisons humaines de fuir qu’un habitant de Kiev ? Comme si notre « devoir moral d’aider » était aussi un interrupteur que l’on peut allumer et éteindre à volonté ? Alors que sous l’ancien secrétaire d’État Theo Francken, un projet de loi autorisait la police à faire une simple descente chez tous ceux qui accueillent des personnes déplacées, le hashtag #PlekVrij (#EspaceLibre) appelle désormais les citoyens/nes à libérer des chambres pour les familles ukrainiennes. Il n’y a pas plus schizophrène que cela dans l’État belge.

      Trouvez les dix différences

      Une mère réfugiée avec son enfant et une mère réfugiée avec son enfant : cherchez les dix différences. La principale différence est claire : si la mère porte un foulard ou si l’enfant est moins blanc, on aurait moins envie de les laisser entrer. Plusieurs Ukrainiens/n.s et résidents/es en Ukraine noirs témoignent aujourd’hui sur les médias sociaux de la façon dont ils ont été arrêtés/es à la frontière polonaise, volés/es et abandonnés/es à leur sort. La conclusion évidente va à l’encontre de toute convention internationale : notre politique d’asile européenne et belge est discriminatoire sur la base de la couleur et de la religion. Nos réfugiés à nous passent avant tout le monde.

      La décision véhémente de Mahdi rappelle presque l’« opération de sauvetage » controversée et très sélective de 1.500 chrétiens syriens menée par Francken en 2015. En même temps, les Afghans/nes n’ont pas pu compter sur la solidarité de Mahdi sur Twitter lors de la prise du pouvoir par les talibans l’année dernière. À l’époque, il avait écrit, avec cinq collègues de l’UE, une autre lettre à la Commission européenne pour demander que les rapatriements forcés vers l’Afghanistan ne cessent pas : « L’arrêt des retours forcés envoie un mauvais signal et incite probablement encore plus de citoyens/nes afghans/nes à quitter leur foyer. »

      Ceux qui insinuent que fuir la guerre en Ukraine est en effet « quelque chose de différent » que de fuir un conflit armé en Afghanistan, doivent enfin invoquer le type de solidarité populaire historique que beaucoup méprisent aujourd’hui chez Poutine. Il s’agit d’une distinction peu différente de l’aryanisme latent dont un procureur ukrainien s’est fait l’écho sur la BBC : « Cette guerre est très émotionnelle pour moi parce que je vois maintenant des Européens aux yeux bleus et aux cheveux blonds se faire tuer. » (1) Dans l’Europe de 2022, même dans la mort, tout le monde n’est pas égal.

      Pensez aux 23.000 personnes qui sont mortes en Méditerranée depuis 2014 à cause du régime frontalier européen. Le nationalisme de la Russie et le continentisme de l’UE ont peut-être des visages différents, mais des conséquences mortelles similaires.
      #InMyName

      Par conséquent, la préoccupation actuelle pour l’Ukraine ne devrait pas être une exception, mais devrait devenir la norme pour tous ceux qui sont contraints de quitter leur patrie. Tant que cette égalité n’est pas atteinte, le régime d’accueil spécial de l’Europe n’indique pas l’hospitalité, mais la suprématie blanche. Une fois de plus, ce statut spécial pour les Ukrainiens/nes confirme ce que 160 avocats/es belges spécialisés/es dans le droit de l’immigration ont dénoncé dans une lettre ouverte parue dans La Libre en décembre : notre politique de régularisation n’est que du vent.

      Devrons-nous donc espérer qu’à chaque crise, le secrétaire d’État se comporte en héros : « tel ou tel groupe a désormais droit à notre accueil temporaire et exceptionnel » ?

      Non, nous avons besoin de cadres juridiques équitables pour le long terme. Ce que l’État belge offre aujourd’hui, à juste titre, aux citoyens/nes ukrainiens/nes devrait s’appliquer à tout le monde : attention, confiance fondamentale, action rapide, absence d’ambiguïté. Si nous pouvons prendre en charge des millions de victimes de Poutine, nous devrions également être en mesure de garantir un avenir à quelques dizaines de milliers de concitoyens/nes sans papiers en Belgique. On dirait qu’il y a un #EspaceLibre.

      https://www.lesoir.be/427956/article/2022-03-04/guerre-en-ukraine-nos-refugies-dabord
      #Belgique

    • Le vrai ou faux : les réfugiés ukrainiens sont-ils mieux accueillis que d’autres ?

      En plus d’une exemption de procédure, les réfugiés venant d’Ukraine bénéficient d’un effort d’accueil en décalage par rapport aux standards européens.
      Depuis des semaines, la Belgique laisse chaque jour une partie des demandeurs d’asile sur le carreau, sans prise en charge, renvoyant les déçus vers les réseaux d’accueil de sans-abrisme, voire les squats et la rue. L’Etat est en faute, il a été condamné pour cela. Mais le secrétaire d’Etat et son administration n’ont cessé d’assurer faire leur possible pour aménager de nouvelles places, ne pouvant cependant couvrir les besoins. Avec le déclenchement de la guerre en Ukraine et le mouvement de solidarité face aux déjà deux millions de réfugiés boutés hors du pays, 24.000 places d’accueil ont été mises à disposition en quelques jours par les communes et les particuliers pour accueillir les réfugiés en Belgique. Le système est encore boiteux, mais la mobilisation est là. Les élus tonnent au Parlement et sur les réseaux sociaux : il n’est pas question de laisser un Ukrainien sans toit. Et Theo Francken (N-VA) de surenchérir : un toit ne suffit pas, il faut penser à l’accompagnement psychologique des personnes traumatisées par la guerre. Voilà des années pourtant que les associations alertent sur l’indigence de la prise en charge psychologique des réfugiés, sans trouver d’écho.

      L’Union européenne est-elle en train de formaliser un double standard pour les réfugiés, avec des Ukrainiens bénéficiant d’un statut automatique et des Erythréens, Syriens, Afghans soumis à une procédure d’asile longue et souvent douloureuse ? Oui. Y a-t-il lieu de s’en offusquer ? Tout dépend de ce dont on parle.

      L’activation de la protection temporaire qui octroie automatiquement une série de droits aux ressortissants ukrainiens ayant quitté le pays depuis le début du conflit a été unanimement saluée, tout comme l’élan de solidarité qui l’accompagne dans les pays européens. La question qui se pose depuis est plutôt de savoir pourquoi elle n’avait jamais été appliquée jusqu’à maintenant ? Qu’il s’agisse des déplacements de populations provoqués par les printemps arabes (en Tunisie, en Libye) ou la guerre en Syrie, les occasions n’ont pas manqué depuis sa création en 2001.

      Meltem Ineli Ciger a passé près de sept ans de sa vie à étudier la question. Pour sa thèse, à l’université de Bristol, puis à l’occasion de diverses publications jusqu’en 2018. De quoi construire une solide analyse expliquant pourquoi la directive est de facto inapplicable : maladresse dans la définition des termes et conditions, mécanisme d’activation trop complexe, défaut de solidarité structurel… Il n’aura fallu que quelques jours pour envoyer son travail à la poubelle (ou pas loin). « Comme j’ai pu avoir tort », relève non sans humour et amertume la juriste turque dans une note de blog du réseau Odysseus, spécialisé dans le droit européen de la migration. « Les événements de ces deux dernières semaines montrent une chose : les raisons que j’avais identifiées au fil des ans se réduisent à une réflexion : la directive protection temporaire n’a pas été implémentée avant 2022 parce que la Commission et le Conseil n’avaient simplement pas la volonté politique de le faire. »

      Un flux massif et inédit

      La chercheuse, aujourd’hui professeur assistante à l’université Suleyman Demirel, en Turquie, a donc revu sa copie, dressant des constats que rejoignent les différents experts contactés.

      D’abord, le caractère massif et inédit des flux de réfugiés ukrainiens. Même si les grands mouvements d’asile de 2015-2016 ont amené plus de 2 millions de personnes dans l’Union européenne, les flux se sont répartis sur deux ans. Et les Syriens, qui auraient pu prétendre à une protection automatique, ne représentaient qu’un gros quart des demandeurs. Une pression jugée absorbable par le système classique d’asile. Ici, deux millions de personnes ont traversé les frontières en 12 jours. Impossible de mener des évaluations individuelles détaillées sans provoquer des engorgements dramatiques, que ce soit à la frontière ou dans les pays d’arrivée où le système d’asile est parfois déjà en état de saturation (comme en Belgique). Surtout qu’il n’y a pas de débat quant à savoir les personnes déplacées ont besoin de protection.

      L’autre facteur, c’est la crainte de l’appel d’air, qui a jusque-là systématiquement retenu les Etats membres. « L’enjeu, c’est l’hinterland », souligne Jean-Louis De Brouwer (Institut Egmont), qui a participé à la création de la directive. « Quand il y a la crise en Syrie ou en Afghanistan, les réfugiés vont traverser de vastes territoires qui peuvent être des pays de premier accueil. La réaction systématique et immédiate de l’Union européenne, c’est de dire : on va aider les pays limitrophes. La crainte étant qu’en activant un statut perçu comme potentiellement trop généreux tout le monde veuille venir en Europe. » Une forme de solidarité a minima qui s’accompagne d’un travail de sécurisation de la frontière via des accords avec des pays tiers d’accueil ou de transit (comme la Turquie, le Niger ou la Libye), des entraves (barbelés, murs), voire des opérations de refoulement illégales. « Ici, il n’est pas question d’appel d’air : quand les réfugiés franchissent la frontière, ils sont sur le territoire européen. »
      Une empathie sélective

      Enfin, les Ukrainiens sont européens (eux). Les médias n’ont pas tardé à rapporter les dérapages d’hommes politiques ou journalistes qualifiant cette population réfugiée d’inhabituelle car « éduquée » et issue de régions « civilisées », signes d’une empathie sélective reposant parfois sur des biais douteux. Sans parler des discriminations des étudiants étrangers, notamment nigérians, bloqués à la frontière polonaise.

      Une des rares modifications apportée par les Etats membres à la proposition de la Commission pour activer la directive a été d’exclure du mécanisme les ressortissants de pays tiers sans résidence permanente (les étudiants et les demandeurs d’asile par exemple). Et parce que les Ukrainiens sont européens, les Etats membres ont totalement renversé les paradigmes cadrant normalement les questions d’asile : les réfugiés sont ici invités à s’installer dans le pays de leur choix. La solidarité européenne se construira à partir de cette répartition spontanée et non en vertu de règles définissant des pays (frontaliers) responsables. Si cette approche résulte d’un certain pragmatisme (les Ukrainiens n’ont pas d’obligation de visa et peuvent se déplacer librement pendant 90 jours), elle est encouragée et présentée très positivement par la Commission. A 180 degrés des discours portés ces dernières années concernant les demandeurs d’asile, bloqués par le carcan d’une procédure Dublin (*) que tout le monde reconnaît pourtant comme inefficace et coûteuse.

      A vrai dire, l’enjeu du double standard devrait peser surtout dans les mois qui viennent, à supposer que le conflit en Ukraine se poursuive. La protection temporaire et le statut de réfugié ouvrent des droits assez similaires (séjour, accès au marché du travail, aux droits sociaux…). Il s’agira donc de voir si les dispositifs déployer pour aider et accueillir les Ukrainiens – pour l’accès au logement, au travail, à l’apprentissage de la langue – sans laisser sur la touche les autres réfugiés, voire les populations européennes précarisées

      https://www.lesoir.be/428815/article/2022-03-08/le-vrai-ou-faux-les-refugies-ukrainiens-sont-ils-mieux-accueillis-que-dautres

      #double_standard #empathie_sélective

    • #Grèce : Πραγματική προσφυγική πολιτική μόνο για Ουκρανούς
      –->

      Une véritable politique des réfugiés uniquement pour les Ukrainiens

      Πολλοί από τους χιλιάδες Ουκρανούς πρόσφυγες που έφτασαν στην Ελλάδα δεν έχουν χαρτιά, αλλά κανείς δεν διανοήθηκε να τους πει « παράνομους » ή « λαθραίους », να τους χαρακτηρίσει « υγειονομική απειλή » λόγω της πανδημίας, να μιλήσει για απειλή στην εδαφική ακεραιότητα, να υπαινιχθεί αλλοίωση του εθνικού μας πολιτισμού, να επισημάνει ανυπέρβλητες γλωσσικές και πολιτισμικές διαφορές που εμποδίζουν την ένταξή τους στην ελληνική κοινωνία, να εκφράσει φόβο για αύξηση της εγκληματικότητας ή να υπαινιχθεί ότι θα μας πάρουν τις δουλειές.

      Μέσα σε μια νύχτα τα κλειστά σύνορα άνοιξαν και δημιουργήθηκε ασφαλής και νόμιμη διαδρομή μέσω του Προμαχώνα, όπου οι πρόσφυγες υποβάλλουν αίτημα για ταξιδιωτικά έγγραφα. Το υπουργείο Μετανάστευσης και Ασύλου διαθέτει άμεσα χώρο στέγασης και σίτιση και ο κ. Μηταράκης, που μέχρι πρόσφατα ανακοίνωνε κλείσιμο δομών και εξώσεις, τώρα επιθεωρεί δομές της βόρειας Ελλάδας που ξαναγεμίζουν. Η υπηρεσία Ασύλου, κλειστή από τον Νοέμβριο για χιλιάδες νεοεισερχόμενους πρόσφυγες της ενδοχώρας που δεν μπορούν να ζητήσουν άσυλο, ανοίγει ξαφνικά για να δεχτεί τα αιτήματα των Ουκρανών για προσωρινή προστασία.

      Οι αρχές προαναγγέλλουν άμεση έκδοση ΑΜΚΑ και ΑΦΜ και γρήγορη πρόσβαση στην αγορά εργασίας, ενώ το υπουργείο Παιδείας απλοποιεί την εγγραφή των Ουκρανών προσφυγόπουλων στα σχολεία, που έχει ήδη αρχίσει. Μέσα σε λίγες μέρες το κράτος μοιάζει ξαφνικά με καλολαδωμένη μηχανή που λύνει προβλήματα αντί να βάζει εμπόδια. Η νέα κανονικότητα που δημιουργεί στο προσφυγικό η ρωσική εισβολή στην Ουκρανία είναι επιθυμητή και καλοδεχούμενη. Αναδεικνύει όμως τη βαθιά υποκρισία της ευρωπαϊκής και ελληνικής αντιπροσφυγικής πολιτικής των τελευταίων χρόνων, που εξακολουθεί να θεωρείται κανονικότητα για τους πρόσφυγες της Μέσης Ανατολής, της Ασίας και της Αφρικής, είναι όμως πια απογυμνωμένη από προφάσεις, ψέματα και φαιδρά επιχειρήματα και φαίνεται καθαρά το αποκρουστικό πρόσωπο του ρατσισμού.

      https://www.efsyn.gr/stiles/ano-kato/335992_pragmatiki-prosfygiki-politiki-mono-gia-oykranoys

      commentaire de Vicky Skoumbi via la mailing-list de Migreurop :

      Miracle : L’accueil digne des réfugiés devient possible, même en Grèce, dans un laps de temps record ! Pourvu que ceux-ci sont blonds aux yeux bleus et qu’ils ne menacent pas le « mode de vie européen »...Quant aux autres, qu’ils crèvent frigorifiés sur un îlot d’Evros ou sous les flots

    • #Emmanuel_Macron :

      « Quand on a peur des phénomènes migratoires, je pense qu’il faut là aussi défendre notre ADN, c’est-à-dire notre devoir d’accueillir celles et ceux qui fuient un pays en guerre comme les Ukrainiennes et les Ukrainiens aujourd’hui, mais en même temps de savoir lutter contre l’immigration clandestine [ie non européenne - NdR]. C’est par cette clarté et cette exigence que, je pense, on peut répondre aux peurs et en même temps tenir une réponse républicaine »

      https://seenthis.net/messages/955991

    • Gli studenti ucraini arrivati in Italia dopo l’invasione potranno essere ammessi alle classi successive anche in mancanza dei requisiti necessari ed essere esonerati dagli esami di Stato

      Il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, ha firmato un’ordinanza che prevede che gli studenti ucraini arrivati in Italia a seguito dell’invasione dell’Ucraina potranno essere ammessi alle classi successive anche in mancanza dei requisiti necessari e, se necessario, esonerati dagli esami di Stato. L’ordinanza riguarda i soli studenti ucraini iscritti alle scuole elementari, medie e superiori italiane a partire dallo scorso 24 febbraio, data d’inizio dell’invasione ucraina.

      Per gli studenti iscritti alle scuole superiori l’ordinanza prevede che, in mancanza dei requisiti necessari, si potrà essere ammessi all’anno successivo ma dovrà essere redatto un piano didattico individuale per raggiungere i livelli di apprendimento richiesti. Il piano dovrà essere predisposto tenendo conto dell’impatto psicologico della guerra e delle difficoltà che comporta l’apprendimento in un paese straniero.

      Per quanto riguarda gli esami di Stato, invece, l’ordinanza prevede la possibilità di esonero per gli studenti che si trovino nelle classi «terminali» (cioè terza media e quinta superiore) e non abbiano raggiunto i livelli linguistici e le competenze disciplinari necessarie a sostenerli: in questo caso, il consiglio di classe rilascerà un attestato di credito formativo, che nel caso degli studenti di terza media sarà sufficiente per iscriversi alle superiori, e nel caso degli studenti di quinta superiore per frequentare nuovamente la quinta.

      https://www.ilpost.it/2022/06/07/studenti-ucraini-ordinanza-ministero-istruzione

      #étudiants #étudiants_ukrainiens #Italie

  • Schengen : de nouvelles règles pour rendre l’espace sans contrôles aux #frontières_intérieures plus résilient

    La Commission propose aujourd’hui des règles actualisées pour renforcer la gouvernance de l’espace Schengen. Les modifications ciblées renforceront la coordination au niveau de l’UE et offriront aux États membres des outils améliorés pour faire face aux difficultés qui surviennent dans la gestion tant des frontières extérieures communes de l’UE que des frontières intérieures au sein de l’espace Schengen. L’actualisation des règles vise à faire en sorte que la réintroduction des #contrôles_aux_frontières_intérieures demeure une mesure de dernier recours. Les nouvelles règles créent également des outils communs pour gérer plus efficacement les frontières extérieures en cas de crise de santé publique, grâce aux enseignements tirés de la pandémie de COVID-19. L’#instrumentalisation des migrants est également prise en compte dans cette mise à jour des règles de Schengen, ainsi que dans une proposition parallèle portant sur les mesures que les États membres pourront prendre dans les domaines de l’asile et du retour dans une telle situation.

    Margaritis Schinas, vice-président chargé de la promotion de notre mode de vie européen, s’est exprimé en ces termes : « La crise des réfugiés de 2015, la vague d’attentats terroristes sur le sol européen et la pandémie de COVID-19 ont mis l’espace Schengen à rude épreuve. Il est de notre responsabilité de renforcer la gouvernance de Schengen et de faire en sorte que les États membres soient équipés pour offrir une réaction rapide, coordonnée et européenne en cas de crise, y compris lorsque des migrants sont instrumentalisés. Grâce aux propositions présentées aujourd’hui, nous fortifierons ce “joyau” si emblématique de notre mode de vie européen. »

    Ylva Johansson, commissaire aux affaires intérieures, a quant à elle déclaré : « La pandémie a montré très clairement que l’espace Schengen est essentiel pour nos économies et nos sociétés. Grâce aux propositions présentées aujourd’hui, nous ferons en sorte que les contrôles aux frontières ne soient rétablis qu’en dernier recours, sur la base d’une évaluation commune et uniquement pour la durée nécessaire. Nous dotons les États membres des outils leur permettant de relever les défis auxquels ils sont confrontés. Et nous veillons également à gérer ensemble les frontières extérieures de l’UE, y compris dans les situations où les migrants sont instrumentalisés à des fins politiques. »

    Réaction coordonnée aux menaces communes

    La proposition de modification du code frontières Schengen vise à tirer les leçons de la pandémie de COVID-19 et à garantir la mise en place de mécanismes de coordination solides pour faire face aux menaces sanitaires. Les règles actualisées permettront au Conseil d’adopter rapidement des règles contraignantes fixant des restrictions temporaires des déplacements aux frontières extérieures en cas de menace pour la santé publique. Des dérogations seront prévues, y compris pour les voyageurs essentiels ainsi que pour les citoyens et résidents de l’Union. L’application uniforme des restrictions en matière de déplacements sera ainsi garantie, en s’appuyant sur l’expérience acquise ces dernières années.

    Les règles comprennent également un nouveau mécanisme de sauvegarde de Schengen destiné à générer une réaction commune aux frontières intérieures en cas de menaces touchant la majorité des États membres, par exemple des menaces sanitaires ou d’autres menaces pour la sécurité intérieure et l’ordre public. Grâce à ce mécanisme, qui complète le mécanisme applicable en cas de manquements aux frontières extérieures, les vérifications aux frontières intérieures dans la majorité des États membres pourraient être autorisées par une décision du Conseil en cas de menace commune. Une telle décision devrait également définir des mesures atténuant les effets négatifs des contrôles.

    De nouvelles règles visant à promouvoir des alternatives effectives aux vérifications aux frontières intérieures

    La proposition vise à promouvoir le recours à d’autres mesures que les contrôles aux frontières intérieures et à faire en sorte que, lorsqu’ils sont nécessaires, les contrôles aux frontières intérieures restent une mesure de dernier recours. Ces mesures sont les suivantes :

    - Une procédure plus structurée pour toute réintroduction des contrôles aux frontières intérieures, comportant davantage de garanties : Actuellement, tout État membre qui décide de réintroduire des contrôles doit évaluer le caractère adéquat de cette réintroduction et son incidence probable sur la libre circulation des personnes. En application des nouvelles règles, il devra en outre évaluer l’impact sur les régions frontalières. Par ailleurs, tout État membre envisageant de prolonger les contrôles en réaction à des menaces prévisibles devrait d’abord évaluer si d’autres mesures, telles que des contrôles de police ciblés et une coopération policière renforcée, pourraient être plus adéquates. Une évaluation des risques devrait être fournie pour ce qui concerne les prolongations de plus de 6 mois. Lorsque des contrôles intérieurs auront été rétablis depuis 18 mois, la Commission devra émettre un avis sur leur caractère proportionné et sur leur nécessité. Dans tous les cas, les contrôles temporaires aux frontières ne devraient pas excéder une durée totale de 2 ans, sauf dans des circonstances très particulières. Il sera ainsi fait en sorte que les contrôles aux frontières intérieures restent une mesure de dernier recours et ne durent que le temps strictement nécessaire.
    – Promouvoir le recours à d’autres mesures : Conformément au nouveau code de coopération policière de l’UE, proposé par la Commission le 8 décembre 2021, les nouvelles règles de Schengen encouragent le recours à des alternatives effectives aux contrôles aux frontières intérieures, sous la forme de contrôles de police renforcés et plus opérationnels dans les régions frontalières, en précisant qu’elles ne sont pas équivalentes aux contrôles aux frontières.
    - Limiter les répercussions des contrôles aux frontières intérieures sur les régions frontalières : Eu égard aux enseignements tirés de la pandémie, qui a grippé les chaînes d’approvisionnement, les États membres rétablissant des contrôles devraient prendre des mesures pour limiter les répercussions négatives sur les régions frontalières et le marché intérieur. Il pourra s’agir notamment de faciliter le franchissement d’une frontière pour les travailleurs frontaliers et d’établir des voies réservées pour garantir un transit fluide des marchandises essentielles.
    - Lutter contre les déplacements non autorisés au sein de l’espace Schengen : Afin de lutter contre le phénomène de faible ampleur mais constant des déplacements non autorisés, les nouvelles règles créeront une nouvelle procédure pour contrer ce phénomène au moyen d’opérations de police conjointes et permettre aux États membres de réviser ou de conclure de nouveaux accords bilatéraux de réadmission entre eux. Ces mesures complètent celles proposées dans le cadre du nouveau pacte sur la migration et l’asile, en particulier le cadre de solidarité contraignant, et doivent être envisagées en liaison avec elles.

    Aider les États membres à gérer les situations d’instrumentalisation des flux migratoires

    Les règles de Schengen révisées reconnaissent l’importance du rôle que jouent les États membres aux frontières extérieures pour le compte de tous les États membres et de l’Union dans son ensemble. Elles prévoient de nouvelles mesures que les États membres pourront prendre pour gérer efficacement les frontières extérieures de l’UE en cas d’instrumentalisation de migrants à des fins politiques. Ces mesures consistent notamment à limiter le nombre de points de passage frontaliers et à intensifier la surveillance des frontières.

    La Commission propose en outre des mesures supplémentaires dans le cadre des règles de l’UE en matière d’asile et de retour afin de préciser les modalités de réaction des États membres en pareilles situations, dans le strict respect des droits fondamentaux. Ces mesures comprennent notamment la possibilité de prolonger le délai d’enregistrement des demandes d’asile jusqu’à 4 semaines et d’examiner toutes les demandes d’asile à la frontière, sauf en ce qui concerne les cas médicaux. Il convient de continuer à garantir un accès effectif à la procédure d’asile, et les États membres devraient permettre l’accès des organisations humanitaires qui fournissent une aide. Les États membres auront également la possibilité de mettre en place une procédure d’urgence pour la gestion des retours. Enfin, sur demande, les agences de l’UE (Agence de l’UE pour l’asile, Frontex, Europol) devraient apporter en priorité un soutien opérationnel à l’État membre concerné.

    Prochaines étapes

    Il appartient à présent au Parlement européen et au Conseil d’examiner et d’adopter les deux propositions.

    Contexte

    L’espace Schengen compte plus de 420 millions de personnes dans 26 pays. La suppression des contrôles aux frontières intérieures entre les États Schengen fait partie intégrante du mode de vie européen : près de 1,7 million de personnes résident dans un État Schengen et travaillent dans un autre. Les personnes ont bâti leur vie autour des libertés offertes par l’espace Schengen, et 3,5 millions d’entre elles se déplacent chaque jour entre des États Schengen.

    Afin de renforcer la résilience de l’espace Schengen face aux menaces graves et d’adapter les règles de Schengen aux défis en constante évolution, la Commission a annoncé, dans son nouveau pacte sur la migration et l’asile présenté en septembre 2020, ainsi que dans la stratégie de juin 2021 pour un espace Schengen pleinement opérationnel et résilient, qu’elle proposerait une révision du code frontières Schengen. Dans son discours sur l’état de l’Union de 2021, la présidente von der Leyen a également annoncé de nouvelles mesures pour contrer l’instrumentalisation des migrants à des fins politiques et pour assurer l’unité dans la gestion des frontières extérieures de l’UE.

    Les propositions présentées ce jour viennent s’ajouter aux travaux en cours visant à améliorer le fonctionnement global et la gouvernance de Schengen dans le cadre de la stratégie pour un espace Schengen plus fort et plus résilient. Afin de favoriser le dialogue politique visant à relever les défis communs, la Commission organise régulièrement des forums Schengen réunissant des membres du Parlement européen et les ministres de l’intérieur. À l’appui de ces discussions, la Commission présentera chaque année un rapport sur l’état de Schengen résumant la situation en ce qui concerne l’absence de contrôles aux frontières intérieures, les résultats des évaluations de Schengen et l’état d’avancement de la mise en œuvre des recommandations. Cela contribuera également à aider les États membres à relever tous les défis auxquels ils pourraient être confrontés. La proposition de révision du mécanisme d’évaluation et de contrôle de Schengen, actuellement en cours d’examen au Parlement européen et au Conseil, contribuera à renforcer la confiance commune dans la mise en œuvre des règles de Schengen. Le 8 décembre, la Commission a également proposé un code de coopération policière de l’UE destiné à renforcer la coopération des services répressifs entre les États membres, qui constitue un moyen efficace de faire face aux menaces pesant sur la sécurité dans l’espace Schengen et contribuera à la préservation d’un espace sans contrôles aux frontières intérieures.

    La proposition de révision du code frontières Schengen qui est présentée ce jour fait suite à des consultations étroites auprès des membres du Parlement européen et des ministres de l’intérieur réunis au sein du forum Schengen.

    Pour en savoir plus

    Documents législatifs :

    – Proposition de règlement modifiant le régime de franchissement des frontières par les personnes : https://ec.europa.eu/home-affairs/proposal-regulation-rules-governing-movement-persons-across-borders-com-20

    – Proposition de règlement visant à faire face aux situations d’instrumentalisation dans le domaine de la migration et de l’asile : https://ec.europa.eu/home-affairs/proposal-regulation-situations-instrumentalisation-field-migration-and-asy

    – Questions-réponses : https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/qanda_21_6822

    – Fiche d’information : https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/fs_21_6838

    https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/fr/ip_21_6821

    #Schengen #Espace_Schengen #frontières #frontières_internes #résilience #contrôles_frontaliers #migrations #réfugiés #asile #crise #pandémie #covid-19 #coronavirus #crise_sanitaire #code_Schengen #code_frontières_Schengen #menace_sanitaire #frontières_extérieures #mobilité #restrictions #déplacements #ordre_public #sécurité #sécurité_intérieure #menace_commune #vérifications #coopération_policière #contrôles_temporaires #temporaire #dernier_recours #régions_frontalières #marchandises #voies_réservées #déplacements_non_autorisés #opérations_de_police_conjointes #pacte #surveillance #surveillance_frontalière #points_de_passage #Frontex #Europol #soutien_opérationnel

    –—

    Ajouté dans la métaliste sur les #patrouilles_mixtes ce paragraphe :

    « Lutter contre les déplacements non autorisés au sein de l’espace Schengen : Afin de lutter contre le phénomène de faible ampleur mais constant des déplacements non autorisés, les nouvelles règles créeront une nouvelle procédure pour contrer ce phénomène au moyen d’opérations de police conjointes et permettre aux États membres de réviser ou de conclure de nouveaux accords bilatéraux de réadmission entre eux. Ces mesures complètent celles proposées dans le cadre du nouveau pacte sur la migration et l’asile, en particulier le cadre de solidarité contraignant, et doivent être envisagées en liaison avec elles. »

    https://seenthis.net/messages/910352

    • La Commission européenne propose de réformer les règles de Schengen pour préserver la #libre_circulation

      Elle veut favoriser la coordination entre États membres et adapter le code Schengen aux nouveaux défis que sont les crise sanitaires et l’instrumentalisation de la migration par des pays tiers.

      Ces dernières années, les attaques terroristes, les mouvements migratoires et la pandémie de Covid-19 ont ébranlé le principe de libre circulation en vigueur au sein de l’espace Schengen. Pour faire face à ces événements et phénomènes, les pays Schengen (vingt-deux pays de l’Union européenne et la Suisse, le Liechtenstein, la Norvège et l’Islande) ont réintroduit plus souvent qu’à leur tour des contrôles aux frontières internes de la zone, en ordre dispersé, souvent, et, dans le cas de l’Allemagne, de l’Autriche, de la France, du Danemark, de la Norvège et de la Suède, de manière « provisoirement permanente ».
      Consciente des risques qui pèsent sur le principe de libre circulation, grâce à laquelle 3,5 millions de personnes passent quotidiennement d’un État membre à l’autre, sans contrôle, la Commission européenne a proposé mardi de revoir les règles du Code Schengen pour les adapter aux nouveaux défis. « Nous devons faire en sorte que la fermeture des frontières intérieures soit un ultime recours », a déclaré le vice-président de la Commission en charge de la Promotion du mode de vie européen, Margaritis Schinas.
      Plus de coordination entre États membres

      Pour éviter le chaos connu au début de la pandémie, la Commission propose de revoir la procédure en vertu de laquelle un État membre peut réintroduire des contrôles aux frontières internes de Schengen. Pour les événements « imprévisibles », les contrôles aux frontières pourraient être instaurés pour une période de trente jours, extensibles jusqu’à trois mois (contre dix jours et deux mois actuellement) ; pour les événements prévisibles, elle propose des périodes renouvelables de six mois jusqu’à un maximum de deux ans… ou plus si les circonstances l’exigent. Les États membres devraient évaluer l’impact de ces mesures sur les régions frontalières et tenter de le minimiser - pour les travailleurs frontaliers, au nombre de 1,7 million dans l’Union, et le transit de marchandises essentielle, par exemple - et et envisager des mesures alternatives, comme des contrôles de police ciblés ou une coopération policière transfrontalières.
      Au bout de dix-huit mois, la Commission émettrait un avis sur la nécessité et la proportionnalité de ces mesures.
      De nouvelles règles pour empêcher les migrations secondaires

      L’exécutif européen propose aussi d’établir un cadre légal, actuellement inexistant, pour lutter contre les « migrations secondaires ». L’objectif est de faire en sorte qu’une personne en situation irrégulière dans l’UE qui traverse une frontière interne puisse être renvoyée dans l’État d’où elle vient. Une mesure de nature à satisfaire les pays du Nord, dont la Belgique, qui se plaignent de voir arriver ou transiter sur leur territoire des migrants n’ayant pas déposé de demandes d’asile dans leur pays de « première entrée », souvent situé au sud de l’Europe. La procédure réclame des opérations de police conjointes et des accords de réadmission entre États membres. « Notre réponse la plus systémique serait un accord sur le paquet migratoire », proposé par la Commission en septembre 2020, a cependant insisté le vice-président Schengen. Mais les États membres ne sont pas en mesure de trouver de compromis, en raison de positions trop divergentes.
      L’Europe doit se préparer à de nouvelles instrumentalisations de la migration

      La Commission veut aussi apporter une réponse à l’instrumentalisation de la migration telle que celle pratiquée par la Biélorussie, qui a fait venir des migrants sur son sol pour les envoyer vers la Pologne et les États baltes afin de faire pression sur les Vingt-sept. La Commission veut définir la façon dont les États membres peuvent renforcer la surveillance de leur frontière, limiter les points d’accès à leur territoire, faire appel à la solidarité européenne, tout en respectant les droits fondamentaux des migrants.
      Actuellement, « la Commission peut seulement faire des recommandations qui, si elles sont adoptées par le Conseil, ne sont pas toujours suivies d’effet », constate la commissaire aux Affaires intérieures Ylva Johansson.
      Pour faire face à l’afflux migratoire venu de Biélorussie, la Pologne avait notamment pratiqué le refoulement, contraire aux règles européennes en matière d’asile, sans que l’on donne l’impression de s’en émouvoir à Bruxelles et dans les autres capitales de l’Union. Pour éviter que cela se reproduise, la Commission propose des mesures garantissant la possibilité de demander l’asile, notamment en étendant à quatre semaines la période pour qu’une demande soit enregistrée et traitée. Les demandes pourront être examinée à la frontière, ce qui implique que l’État membre concerné devrait donner l’accès aux zones frontalières aux organisations humanitaires.

      La présidence française du Conseil, qui a fait de la réforme de Schengen une de ses priorités, va essayer de faire progresser le paquet législatif dans les six mois qui viennent. « Ces mesures constituent une ensemble nécessaire et robuste, qui devrait permettre de préserver Schengen intact », a assuré le vice-président Schinas. Non sans souligner que la solution systémique et permanente pour assurer un traitement harmonisé de l’asile et de la migration réside dans le pacte migratoire déposé en 2020 par la Commission et sur lequel les États membres sont actuellement incapables de trouver un compromis, en raison de leurs profondes divergences sur ces questions.

      https://www.lalibre.be/international/europe/2021/12/14/face-aux-risques-qui-pesent-sur-la-libre-circulation-la-commission-europeenn
      #réforme

  • Quelle #hospitalité est encore possible aujourd’hui ?

    À partir de quelques traits saillants de la définition de l’hospitalité, une analyse des pratiques d’hospitalité à l’épreuve du contexte politique actuel.

    Il existe plusieurs manières de définir l’hospitalité et l’une d’elles consiste à y voir un rapport positif à l’étranger. Autant dire un contre-courant radical des tendances du moment. L’action des gouvernements récents relèvent davantage d’une police des populations exilées, érigée en #politique mais qui précisément n’a rien de politique. Il s’agit d’une gestion, souvent violente et toujours anti-migratoire, des personnes, pour reprendre une idée empruntée à Étienne Tassin.

    Certes il existe une opposition à cette #gestion, mais elle ne forme pas un ensemble homogène. Elle est au contraire traversée de tensions et de conflits qui trouvent leurs racines dans des conceptions, moyens et temporalités différentes. Ce champ conflictuel met régulièrement en scène, pour les opposer, le milieu militant et les collectivités territoriales, pourtant rares à être volontaires pour entreprendre des #politiques_d’accueil*.

    L’#inconditionnalité de l’#accueil et la #réciprocité dans l’hospitalité sont deux piliers de ces pratiques. Elles nous aident à comprendre certaines tensions et certains écueils. Prenons-les pour guides dans une analyse des pratiques actuelles dites d’hospitalité, qu’elles soient privées ou institutionnelles.

    Inconditionnalité

    L’hospitalité se définit notamment par son inconditionnalité. Elle prévoit donc d’accueillir toute personne, quelle qu’elle soit, d’où qu’elle vienne et quelle que soit la raison de sa présence.

    Il est d’ailleurs intéressant de voir combien, dans la diversité des traditions d’hospitalité, cette question de l’origine de la personne accueillie est très différemment traitée. Certaines traditions interdisent simplement de questionner l’étranger·e accueilli·e sur qui ielle est et d’où ielle vient ; d’autres au contraire le prévoient, sans que cela conditionne ou détermine les modalités de l’hospitalité. Dans ce cas-là, il s’agit plutôt d’une pratique d’ordre protocolaire.

    Aujourd’hui, l’équivalent de cette question porte, outre le pays d’origine, sur le statut administratif de la personne accueillie, c’est-à-dire sur la légalité ou non de son séjour sur le territoire. Le pays d’origine nourrit un certain nombre de préjugés que peuvent refléter les offres d’hospitalité privée quand les volontaires à l’accueil expriment une préférence en matière de nationalité. Ces #préjugés sont très largement nourris par la médiatisation comme le révèlent les contextes de 2015 au plus fort de l’exil des Syrien·nes ou plus récemment à la fin de l’été 2021 après la prise de pouvoir par les Talibans à Kaboul. La médiatisation des crises façonne la perception des personnes en besoin d’hospitalité au point parfois de déterminer l’offre. Le #statut_administratif conditionne de façon plus significative l’accueil et il peut devenir un critère ; autant du côté des collectifs citoyens d’accueil que des institutions dont les moyens financiers sont généralement conditionnés par le profil du public bénéficiaire et la régularité du statut.

    Qui organise aujourd’hui un accueil inconditionnel ?

    Une enquête récente (dont quelques résultats sont publiés dans cet article : https://www.cairn.info/revue-migrations-societe-2021-3-page-65.htm) montre que les institutions et les collectivités territoriales rencontrent des contraintes qui entravent la mise en œuvre d’un accueil inconditionnel : la #catégorisation des publics destinataires distingués bien souvent par leur statut administratif et les territoires d’intervention en font partie. Les #collectifs_citoyens étudiés dans cette enquête réussissent à mettre ces contraintes à distance. Il faut préciser qu’à leur création, tous ne s’inscrivent pas dans un choix clair et conscient pour l’accueil inconditionnel mais c’est la pratique et ce qu’elle leur permet de comprendre du traitement administratif des populations exilées qui produit cet effet de mise à distance des contraintes. Le lien personnel créé par l’accueil explique également qu’il se poursuit au-delà des limites dans lesquelles le collectif s’est créé (statut administratif ; temporalité). Plusieurs collectifs montrent qu’un accueil inconditionnel a été effectivement mis en pratique, non sans débat, gestion de désaccords et disputes parfois, et grâce aux moyens à la disposition du collectif, à la capacité d’invention de ses membres et à l’indignation générée par le traitement administratif et politique des personnes et de la migration en général.

    Réciprocité

    « L’hospitalité, quoique asymétrique, rime avec réciprocité » (Anne Gotman)

    La réciprocité est un autre des éléments constitutifs fondamentaux de l’hospitalité. Comme le souligne #Anne_Gotman (Le sens de l’hospitalité), l’hospitalité pour s’exercer doit résoudre la contradiction entre la nécessaire réciprocité et l’#asymétrie évidente de la situation entre un besoin et une possibilité d’offre. Et c’est le décalage dans le temps qui permet cela : la réciprocité est mise en œuvre par la promesse d’accueil. On accueille inconditionnellement parce que tout le monde a besoin de savoir qu’ielle pourra être accueilli·e, sans faille, lorqu’ielle en aura besoin. Si l’on admet de considérer l’hospitalité comme une pratique de #don, la réciprocité est le #contre-don différé dans le temps.

    Cette interdépendance tient à un contexte où les circulations humaines et les voyages dépendaient de l’hospitalité sans laquelle il était impossible de trouver à se loger et se nourrir. Il s’agissait bien souvent d’un enjeu de survie dans des environnements hostiles. Si chacun·e a besoin de pouvoir compter sur l’hospitalité, chacun·e accueille. Aujourd’hui pourtant, la répartition des richesses et des pouvoirs au niveau global fait que ceux et celles qui voyagent n’ont plus besoin de l’hospitalité parce que cette fonction est devenue marchande et les voyageurs achètent l’« hospitalité » dont ielles ont besoin ; ce qui alors lui retire toute valeur d’hospitalité. Cette réalité crée une asymétrie, abyssale en réalité. Elle tire ses origines des fondations du capitalisme qui a construit l’Europe comme centre global et a posé les bases de la puissance et de la modernité occidentales.

    Aujourd’hui et dans le contexte français, cette asymétrie se retrouve dans une distribution de positions : celles et ceux qui sont les acteurs et actrices de l’hospitalité ne s’inscrivent plus dans ce système d’interdépendance dans lequel se situait l’hospitalité, ou se situe encore dans d’autres régions du monde. Ielles accueillent pour d’autres raisons. La #rencontre est souvent évoquée dans les enquêtes ethnographiques parmi les motivations principales des personnes engagées dans l’accueil des personnes venues chercher un refuge. Pourtant les personnes accueillies ne sont pas forcément dans cette démarche. Au contraire, parfois, elles se révèlent même fuyantes, renfermées par besoin de se protéger quand elles ont été abîmées par le voyage. Cette soif de rencontre qui anime les personnes offrant leur hospitalité n’est pas toujours partagée.

    Dans ce contexte, nous comprenons que l’hospitalité telle qu’elle est mise en œuvre aujourd’hui autour de nous, et du fait de l’asymétrie des positions, pose une relation d’#aide. Or celle-ci est elle-même fortement asymétrique car elle peut se révéler prolonger et reproduire, dans une autre modalité, la relation de #domination. La #relation_d’aide est dominante quand elle ne conscientise pas l’asymétrie justement des positions et des moyens des personnes qu’elle met en jeu. Elle sortira de cet écueil de prolonger la domination en trouvant une place pour la réciprocité. C’est #Paulo_Freire qui nous a appris que l’#aide_authentique est celle qui permet à toutes les personnes impliquées de s’aider mutuellement. Cela permet que l’acte d’aider ne se transforme pas en domination de celle ou celui qui aide sur celle ou celui aidé·e.

    Pour éviter de rejouer une relation de domination, l’hospitalité qu’elle soit privée ou institutionnelle doit trouver ou créer un espace pour l’#aide_mutuelle. Dans les pratiques actuelles de l’hospitalité, les situations d’asymétrie sont nombreuses.

    Les deux parties réunies autour la pratique de l’accueil ne disposent pas d’une répartition égale de l’information sur chacune. En effet, les personnes accueillies disposent généralement de très peu, voire pas du tout, d’information sur les personnes qui les accueillent. Alors que les hébergeur·ses connaissent les nom, prénom, date de naissance et pays d’origine, et parfois des détails du parcours de la personne qu’ielles accueillent. Cette asymétrie de connaissance organise bien différemment la rencontre, en fonction du côté duquel on se trouve. Sans information, ce sont les représentations déjà construites qui s’imposent et plusieurs personnes accueillies témoignent de la peur qu’elles ont à l’arrivée, à la première rencontre, une peur du mauvais traitement qui peu à peu cède la place à l’étonnement face à la générosité, parfois à l’abnégation, des personnes accueillantes. On comprend qu’il contraste fortement avec les représentations premières.

    Une autre asymétrie, créant une forte dépendance, repose sur le fait de posséder un #espace_intime, un #foyer. Les personnes accueillies n’en ont plus ; elles l’ont perdu. Et aucun autre ne leur est offert dans cette configuration. En étant accueilli·es, ielles ne peuvent se projeter à long terme dans un espace intime où ielles peuvent déposer leur bagage en sécurité, inviter des ami·es, offrir l’hospitalité. L’#hébergement est généralement, au moins au début, pensé comme #temporaire. Ielles n’ont pas la maîtrise de leur habitat d’une manière générale et plus particulièrement quand des heures d’entrée et de sortie de l’habitation sont fixées, quand ielles ne disposent pas des clés, quand ielles ne sont pas autorisé·es à rester seul·es.

    Enfin cette relation dissymétrique s’exprime également dans les #attentes perçues par les personnes accueillies et qui sont ressenties comme pesantes. Le récit de soi fait partie de ces attentes implicites. Les personnes accueillies parlent de peur de décevoir leurs hôtes. Ielles perçoivent l’accueil qui leur est fait comme très fragile et craignent de retourner à la rue à tout moment. Cette #précarité rend par ailleurs impossible d’évoquer des choses mal comprises ou qui ne se passent pas bien, et ainsi d’éluder des malentendus, de s’ajuster mutuellement.

    Cette asymétrie finalement dessine les contours d’une relation unilatérale de l’accueil [peut-on encore parler d’hospitalité ?]. Les personnes et les entités (les institutions qu’elles soient publiques – collectivités territoriales – ou privées – associations) qui organisent une offre d’hospitalité, ne laissant pas de place à la réciprocité. Cela signifie que cette offre produit de la #dépendance et une grande incertitude : on peut en bénéficier quand l’offre existe mais on est dépendant de son existence. Par exemple, certains dispositifs publics ont des saisonnalité ; ils ouvrent, ils ferment. De même que l’hospitalité privée peut prendre fin : les collectifs citoyens peuvent se trouver à bout de ressources et ne plus pouvoir accueillir. Ou de manière moins absolue : les règles de l’accueil, dans le cas de l’hébergement en famille, sont fixées unilatéralement par les personnes qui accueillent : les heures d’arrivée et de retour ; les conditions de la présence dans le foyer etc. Cette asymétrie nous semble renforcée dans le cas de l’hospitalité institutionnelle où l’apparition du lien personnel qui peut produire de la réciprocité par le fait de se rendre mutuellement des services par exemple, a plus de mal à trouver une place.

    On le voit, il est nécessaire d’imaginer la forme et les modalités que pourraient prendre la réciprocité dans le cadre de l’hospitalité institutionnelle où elle ne peut surgir naturellement, mais également s’assurer qu’elle trouve un espace dans les initiatives citoyennes.

    Michel Agier voit dans le #récit_de_soi, livré par les personnes accueillies, une pratique de la réciprocité. L’accueil trouvé auprès d’une famille ou d’un foyer par une personne venue chercher un refuge en Europe ce serait le don. L’histoire de son exil racontée à ses hôtes serait le contre-don. Pourtant une analyse différente peut être faite : dans ces circonstances, le récit entendu par les hôtes relève d’une injonction supplémentaire adressée aux personnes venues chercher un refuge. Qu’elle soit implicite ou ouvertement exprimée, cette injonction structure la relation de domination qu’ielles trouvent à leur arrivée. C’est pourquoi le #récit ne peut représenter cette réciprocité nécessaire à l’instauration de l’égalité.

    La place de la réciprocité et l’égalité dans les relations qui se nouent autour des actes d’hospitalité se jouent à n’en pas douter autour des représentations de personnes auxquelles ces pratiques s’adressent : les discours dominants, qu’ils soient médiatiques ou politiques, construisent les personnes venues chercher un refuge comme des #victimes. S’il serait injuste de ne pas les voir comme telles, en revanche, ce serait une #instrumentalisation de ne les voir que par ce prisme-là. Ce sont avant tout des personnes autonomes et non des victimes à assister. L’#autonomie respective des protagonistes de l’acte d’hospitalité ouvre l’espace pour la réciprocité.

    #Politisation

    Le 21 décembre 1996, au Théâtre des Amandiers de Nanterre où avait été organisée une soirée de soutien à la lutte des « sans papiers », #Jacques_Derrida s’émeut de l’invention de l’expression « #délit_d’hospitalité » et appelle à la #désobéissance_civile. Suite à l’adoption d’une loi qui prévoit un tel délit et des sanctions jusqu’à l’emprisonnement, le philosophe invite à défier le gouvernement en jugeant librement de l’hospitalité que nous voulons apporter aux personnes irrégularisées. Avec cet appel, il transforme une opposition binaire qui mettait face à face dans ce conflit l’État et des immigré·es, en un triangle avec l’intervention des citoyens. Il appelle à la politisation de l’hospitalité.

    De son côté, Anne Gotman reconnaît le sens politique de la sphère privée quand elle devient refuge. Cette politisation s’exprime également par la mutation du geste d’hospitalité initial qui est action #humanitaire et d’#urgence à la fin de l’été 2015, quand les citoyen·nes ouvrent leur maison, offrent un lit et un repas chaud. En réalité, ielles créent les conditions d’un accueil que l’État se refusent à endosser dans l’objectif de dégrader les conditions de vie des personnes venues chercher un refuge pour les décourager. L’action citoyenne est de ce point de vue une #opposition ou une #résistance. Cette #dimension_politique devient consciente quand les citoyen·nes côtoient le quotidien des personnes en recherche de refuge et découvrent le traitement administratif qu’ils et elles reçoivent. Cette découverte crée une réaction d’#indignation et pose les bases d’actes de résistance conscients, de l’ordre de la #désobéissance.

    –-

    * Ceci dit, l’association des villes et territoires accueillants, l’ANVITA, a vu récemment le nombre de ses adhérents considérablement augmenter : en novembre 2021, elle compte 52 membres-villes et 46 membres élu·es.

    –-> Intervention présentée à la semaine de l’Hospitalité, organisée entre le 13 et le 23 octobre par la métropole du Grand Lyon

    Références :

    – « Philosophie /et/ politique de la migration », Étienne Tassin, éditions Raison publique, 2017/1 n°21, p197-215

    – Le sens de l’hospitalité. Essai sur les fondements sociaux de l’accueil à l’autre, Anne Gotman, PUF 2001

    – Lettres à la Guinée-Bissau sur l’alphabétisation : une expérience en cours de réalisation, Paulo Freire, Maspero, 1978

    – Hospitalité en France : Mobilités intimes et politiques, Bibliothèque des frontières, Babels, Le passager clandestin, 2019, coordonné par Michel Agier, Marjorie Gerbier-Aublanc et Evangéline Masson Diaz

    – « Quand j’ai entendu l’expression “délit d’hospitalité”… », Jacques Derrida, Intervention retranscrite, 21/12/1996 au Théâtre des Amandiers ; http://www.gisti.org/spip.php?article3736

    https://blogs.mediapart.fr/modop/blog/221121/quelle-hospitalite-est-encore-possible-aujourd-hui

    ping @karine4 @isskein

  • #Liberté, #exigence, #émancipation. Réinstituer l’#Université

    Les strates successives de #réformes subies par l’Université depuis vingt ans, même si elles ne sont pas dénuées d’incohérences, reposent sur un socle politique et idéologique relativement précis [1]. Celui-ci trouve notamment son articulation dans les travaux de sociologie des établissements d’enseignement supérieur par Christine Musselin [2] ou dans le rapport Aghion-Cohen de 2004 [3] sur “éducation et croissance”[4]. Pour une part, ce socle reprend les théories de la #croissance par l’#innovation et la “#destruction_créatrice” inspirées de #Joseph_Schumpeter [5] , surtout pertinentes pour la #recherche. Le socle intellectuel présidant aux réformes récentes combine cet héritage avec une vision de l’#aménagement_du_territoire fondée sur la partition entre des #métropoles intelligentes et concurrentielles et un vaste hinterland tributaire du #ruissellement_de_croissance, ce qu’Olivier Bouba-Olga et Michel Grossetti [6] appellent la « #mythologie_CAME » (#compétitivité-#attractivité-#métropolisation-#excellence). Dans cette perspective, hormis quelques cursus d’élite, les formations universitaires doivent surtout offrir des gages “d’#employabilité” future. Au fil des reconversions professionnelles, le “portefeuille de #compétences” initial se verra étoffé par des #certificats_modulables attestant de quelques #connaissances_spécialisées, ou de “#savoir-faire” dont certains relèveront probablement surtout du conditionnement opérationnel. Dans le même temps, #évaluation et #valorisation sont devenus les termes incontournables et quasi indissociables de la formulation d’une offre “client” qui débouche sur une organisation par marché(s) (marché des formations diplômantes, des établissements, de l’emploi universitaire…). Dans les variantes les plus cohérentes de ce programme, ces #marchés relèvent directement du #Marché, d’où la revendication d’une #dérégulation à la fois des #frais_d’inscription à l’université et des #salaires des universitaires.

    Sortir l’Université de l’ornière où ces réformes l’ont placée impose de construire un contre-horizon détaillé. Les mots d’ordre défensifs de 2008 et 2009 n’avaient sans doute que peu de chances d’arrêter la machine. Aujourd’hui, la demande d’une simple abrogation des dispositions prises à partir de 2007 ne serait pas à la hauteur des changements internes que ces politiques ont induits dans l’Université. On ne saurait de toute façon se satisfaire d’une perspective de restauration de l’ancienne Université. C’est en ce sens que nous parlons de ré-institution ou de refondation.

    Émanciper qui, de quoi, pour quoi faire

    Il est impératif de prendre comme point de départ la question des finalités sociales et politiques de l’Université. Si la référence à la notion d’émancipation est indispensable à nos yeux, elle ne suffit pas non plus à définir un nouvel horizon. La capacité du discours réformateur néolibéral à assimiler et finalement dissoudre le projet émancipateur n’est plus à prouver, y compris en matière scolaire : le recours à la notion de compétence, du primaire à l’université, renvoie ainsi, cyniquement, à une idée généreuse de pédagogies alternatives visant à libérer l’institution scolaire de ce qui était perçu comme un carcan autoritaire transformant les élèves en singes savants. Cet idéal scolaire émancipateur systématiquement dévoyé a pris des formes multiples et parfois contradictoires, et ce n’est pas ici le lieu de les analyser. Au moins depuis Boltanski & Chiapello [7], on sait qu’il ne faut pas sous-estimer la capacité du management à digérer la “critique artiste du capitalisme”, pour mettre en place un nouveau modèle de néolibéralisme autoritaire. L’auto-entrepreneur·euse de soi-même assujetti·e aux normes de valorisation par le marché est pour nous un épouvantail, mais il s’agit d’une figure d’émancipation pour certains courants réformateurs.

    L’émancipation n’est jamais une anomie : c’est un déplacement collectif et consenti de la nature des normes et de leur lieu d’exercice. Poser la question de la finalité émancipatrice de l’#enseignement_supérieur, c’est demander qui doit être émancipé de quoi et pour quoi faire. Ce “pour quoi faire”, en retour, nous renvoie au problème du comment, dans la mesure où devant un tel objectif, c’est sans doute la détermination du chemin qui constitue en soi le seul but atteignable.

    L’#autonomie_étudiante

    À première vue, la réponse à la question « qui » est tautologique : il s’agit d’émanciper les étudiant·es — mais comme on va le voir, si l’on pose l’existence d’un cycle auto-amplificateur entre étudiant·es et enseignant·es, cela pose aussi la question de l’émancipation de l’ensemble des universitaires. Il importe de souligner que les étudiant·es ne sont pas forcément « la jeunesse », ni la jeunesse titulaire du baccalauréat. Quant à savoir de quoi il s’agit de les émanciper, la réponse est d’abord : du déterminisme par le milieu social, culturel et géographique d’origine [8]. Cela représente à la fois un enjeu démocratique et un enjeu social majeur.

    L’Université doit être librement et gratuitement accessible à toute personne détenant le baccalauréat à tout âge de la vie ; tout établissement universitaire doit proposer une voie d’accès, le cas échéant via une propédeutique, aux personnes ne détenant pas le baccalauréat mais désirant entamer des #études_supérieures ; l’#accès gratuit à l’Université et à son ouverture intellectuelle et culturelle ne doit pas être conditionné à l’inscription à un cursus diplômant.

    Ce programme impose la mise en œuvre parallèle d’une politique d’#autonomie_matérielle des étudiant·es. Nous souscrivons à l’essentiel des propositions formulées par le groupe Acides [9] en faveur d’un “#enseignement_supérieur_par_répartition”, c’est-à-dire d’un système socialisé d’#accès_aux_études, pour qu’elles soient menées dans les meilleures conditions de réussite. Nous proposons que l’#allocation_d’autonomie_étudiante soit versée de droit pour trois ans, prolongeables d’un an sur simple demande, à toute personne inscrite dans une formation diplômante de premier cycle, avec possibilité de la solliciter pour suivre une formation universitaire non-diplômante, mais aussi une formation de deuxième ou de troisième cycle. Pour ces deux derniers cycles, toutefois, ce système nous semble devoir coexister avec un dispositif de pré-recrutement sous statut d’élève-fonctionnaire dans les métiers d’intérêt général que la collectivité a vocation à prendre en charge : médecine et soins infirmiers, enseignement primaire et secondaire, recherche scientifique, aménagement du territoire et transition écologique…

    Pour une #géographie de l’#émancipation_universitaire

    Ces premiers éléments nécessitent de se pencher sur ce qu’il est aujourd’hui convenu d’appeler “le #paysage_universitaire”. Il faut ici distinguer deux niveaux : un niveau proprement géographique, et un niveau sociologique qui conduit immanquablement à poser la question des différents cursus post-bac hors universités, et notamment des grandes écoles.

    Au plan géographique, il est nécessaire de s’extraire de la dichotomie mortifère entre des établissements-monstres tournés vers la compétition internationale et installés dans des métropoles congestionnées, et des universités dites “de proximité” : celles-ci, à leur corps défendant, n’ont pas d’autre fonction aux yeux des réformateurs que d’occuper une jeunesse assignée à résidence géographiquement, socialement et culturellement [10]. Le #maillage_territorial actuel est dense, du fait de l’héritage de la dernière vague de création d’#universités_de_proximité. Pour autant, il s’organise selon une structure pyramidale : l’héritage évoqué est en effet corrigé par une concentration des investissements au profit de quelques établissements hypertrophiés. A contrario, nous préconisons une organisation en réseau, dont les cellules de base seraient des établissements de taille moyenne, c’est-à-dire ne dépassant pas les 20.000 étudiants. Nous avons besoin d’universités à taille humaine, structurées en petites entités autonomes confédérées. Ces établissements doivent offrir aux étudiants des perspectives d’émancipation vis-à-vis du milieu d’origine et de la sclérose intellectuelle qui frappe le pays ; ils doivent permettre une recherche autonome, collégiale et favorisant le temps long.

    Pour cela, nous proposons un plan en deux temps. D’une part, un surcroît d’investissement doit être consenti vers des pôles de villes moyennes pour en faire, non des “universités de proximité” centrées sur le premier cycle, mais des établissements complets proposant également une activité scientifique de pointe et exerçant une attraction nationale, afin de décentrer le système universitaire actuellement structuré par l’opposition entre métropoles et hinterland. D’autre part, nous préconisons d’installer trois à cinq nouvelles universités dans des villes moyennes ou des petites villes, à bonne distance des métropoles, en prenant appui sur le patrimoine bâti abandonné par l’État et sur les biens sous-utilisés voire inoccupés appartenant aux collectivités. Certaines #villes_moyennes voire petites disposent en effet d’anciens tribunaux, de garnisons ou même des bâtiments ecclésiastiques qui tombent en déshérence. Notons qu’il ne s’agit pas seulement de les transformer en laboratoires et en amphithéâtres : au bas mot, notre pays a aussi besoin d’une centaine de milliers de places supplémentaires de cités universitaires à très brève échéance.

    L’#utilité_sociale de l’enseignement supérieur ne se réduit pas à “former la jeunesse” : cette nouvelle géographie ne saurait être pensée sur le mode du phalanstère coupé du monde. Au contraire, les #universités_expérimentales doivent être fondues dans la ville et dans la société. La refondation de l’Université s’accompagne donc d’un projet urbanistique. L’#architecture de l’université doit être pensée en sorte que les #campus soient des #quartiers de la ville, avec les services publics et privés nécessaires à une intégration vivante de ces quartiers dans le #territoire. Les lieux de vie universitaires doivent inclure des écoles maternelles, primaires et secondaires, des commerces, des librairies, des théâtres, des zones artisanales et des quartiers d’habitation pour celles et ceux qui feront vivre ces lieux. Les bibliothèques universitaires et les bibliothèques municipales des villes universitaires doivent être rapprochées, voire fusionnées.

    La question des #Grandes_Écoles

    Les politiques de différenciation entre établissements de recherche et de proximité croisent la problématique des grandes écoles, mais ne se confond pas avec elle : en atteste l’échec du projet de fusion de Polytechnique avec l’université d’Orsay-Saclay, ou la survivance d’une myriade d’écoles d’ingénieur·es et de commerce proposant des formations indigentes avec un taux d’employabilité équivalent à celui d’une licence d’une petite université de proximité. La refondation esquissée ici sera compromise tant que la question de la dualité Université / Grandes Écoles n’aura pas été réglée. On ne fera pas l’économie d’une instauration effective du monopole de l’Université sur la collation des grades. Cela implique une montée en puissance des #capacités_d’accueil, c’est-à-dire du nombre d’établissements, des moyens récurrents et des postes d’universitaires titulaires dans tous les corps de métier, de façon à pouvoir atteindre une jauge de 600.000 étudiant·es par promotion de premier cycle, 200.000 étudiant·es par promotion de deuxième cycle, 20.000 étudiant·es (rémunéré·es !) par promotion de troisième cycle, soit un total d’environ 2,4 millions d’étudiant·es. Précisons qu’il y avait en 2019-2020 1,6 millions d’étudiants à l’Université, 600.000 dans d’autres établissements publics, majoritairement des lycées (CPGE, BTS), et 560.000 dans le secteur privé. Le chiffre de 2.4 millions d’étudiants à l’Université correspond donc à une estimation basse des effectifs une fois le monopole universitaire sur la collation des grades rétabli.

    Dans le détail, l’application de ce programme signifie que les formations d’ingénieurs pourront et devront être assurées à l’Université, avec un pré-recrutement dans certains domaines, l’écologie notamment ; les sections de technicien supérieur (STS) seront soit rattachées aux instituts universitaires de technologie (IUT) existants, soit constituées en IUT. Pour ce qui est des écoles de commerce, on pourra se contenter de supprimer la reconnaissance de leurs diplômes dans les conventions collectives et les concours de la Fonction publique. L’Institut d’Études Politiques de Paris doit devenir une université de droit commun. Les IEP de Province et les antennes régionales de l’IEP Paris ont vocation à intégrer l’université la plus proche sous la forme d’une UFR de sciences politiques, tandis que la Fondation Nationale des Sciences Politiques doit être dissoute, et son patrimoine transféré, par exemple à la Fondation Maison des Sciences de l’Homme [11].

    La question des #Écoles_Normales_Supérieures (#ENS), initialement pensées pour pré-recruter des enseignants et des chercheurs au service de l’Université, peut être résorbée par l’extension de ce pré-recrutement à travers le pays, le décentrage vis-à-vis de Paris et Lyon, la construction de cités étudiantes dotées de bibliothèques et la mise en place de formations expérimentales par la recherche interdisciplinaire. Les ENS seraient ainsi rendues caduques du fait de l’extension à l’Université du mode de fonctionnement qui était censé être le leur.

    Une fois privées de leur débouché de principe, on peut se demander quelle utilité resterait aux #classes_préparatoires : beaucoup fermeraient, mais certaines pourraient être maintenues pour aider au maillage territorial à un niveau de propédeutique, si l’on souhaite rétablir une sorte de trivium occupant les trois ou quatre premiers semestres, fonction que le DEUG assurait jadis. En tout état de cause, la licence elle-même ne pourra être obtenue qu’à l’Université.

    Que faire des #cursus ?

    Cela nous amène au problème de l’organisation des enseignements et des cursus, lequel nous impose de faire retour à la question initiale : émanciper qui, de quoi, comment et pour quoi faire ? Pour nous, l’existence de l’Université comme institution d’enseignement distincte du lycée se justifie par un lien spécifique entre la formation universitaire et la #recherche_scientifique. L’enseignement secondaire a pour fonction de transmettre des savoirs déjà stabilisés, ce qui n’est pas exclusif d’un aperçu de l’histoire complexe de cette consolidation, ni même des contradictions subsistant dans les corpus enseignés. La formation universitaire a ceci de spécifique qu’elle ne dissocie jamais totalement la production, la transmission et la critique des #savoirs. Par conséquent, seul le niveau propédeutique, encore essentiellement consacré à l’acquisition de bases communément admises d’une discipline, peut à la rigueur être dispensé hors Université, dans la mesure où il ne donne pas lieu à la collation d’un grade.

    Inversement, la licence (ou le titre qui pourrait lui succéder) impose un saut qualitatif avec une première confrontation aux réalités de la recherche scientifique, entendue comme pratique collégiale de la dispute argumentée, sur une problématique construite par la communauté au vu d’un état de la recherche. Aucune licence ne devrait pouvoir être accordée sans une première expérience en la matière, ne serait-ce qu’en position d’observation. Cette première expérience doit prendre des formes différentes selon les disciplines : stage d’observation en laboratoire, brève étude de terrain, traduction commentée… assortis de la rédaction d’un état de l’art. De ce fait, un #cursus_universitaire doit reposer sur un enseignement dispensé par des scientifiques ayant une activité de recherche. On peut penser qu’en-deçà de deux tiers du volume horaire d’enseignement assuré directement par des scientifiques titulaires, le caractère universitaire d’un cursus est remis en jeu. Reconnaître ce seuil aurait également le mérite de limiter réglementairement le recours aux #vacataires et contractuel·les, qui s’est généralisé, tout en laissant une marge suffisamment importante pour offrir aux doctorant·es qui le souhaitent une première expérience de l’enseignement, et en ménageant une place à des intervenant·es extérieur·es qualifié·es dont le point de vue peut être utile à la formation.

    S’agissant des formes d’#enseignement, nous ne croyons pas qu’il soit possible de s’abstraire dès le premier cycle d’une présentation argumentée et contradictoire de l’#état_de_l’art sur les grandes questions d’une discipline. Le #cours_magistral garde donc une pertinence, non comme instrument de passation d’un savoir déjà établi, mais comme outil de liaison entre transmission et critique des savoirs existants. La dimension expérimentale et créative de la formation doit toutefois monter en puissance au fur et à mesure que cette phase propédeutique initiale approche de son terme. De même, la forme du #séminaire_de_recherche doit avoir sa place dans le ou les derniers semestres de licence, et ce quel que soit le cursus.

    Nous ne nous inscrivons pas dans la distinction binaire entre cursus professionnalisants et non-professionnalisants. Cette question de la qualification nous paraît relever d’une pluralité de pratiques qui doit être réglée à l’échelle des disciplines et des mentions. Pour tenir les deux bouts, l’Université doit proposer un éventail de formations présentant des degrés divers d’imbrication avec la recherche finalisée et non-finalisée, des formes plurielles d’application, et des objectifs professionnels différents. Elle doit être conçue comme une grande maison rassemblant la diversité des formations supérieures ; à cet égard, elle ne doit pas reproduire l’opposition des trois baccalauréats (général, technologique et professionnel), ni leur hiérarchie.

    #Disciplines et #indiscipline

    La progression chronologique des cursus et leur cohérence académique ont une importance particulière. Nous persistons à penser que la connaissance scientifique a une dimension historique et cumulative, qui inclut aussi une part de contradictions. C’est ce qui fait l’importance de l’initiation à la notion d’état de la recherche. De ce fait, la temporalité des cursus doit être pensée en conformité avec une progression intellectuelle, pédagogique et scientifique, et non réduite à une combinaison de modules qu’il faudrait faire entrer au chausse-pied dans des maquettes obéissant à des contraintes essentiellement administratives. De là découlent plusieurs conséquences, qui s’appliquent aussi aux cursus interdisciplinaires et expérimentaux que nous appelons de nos vœux. Tout d’abord, les contraintes bureaucratiques ne doivent pas conduire à malmener la #temporalité_pédagogique des étudiant·es. Cela signifie en particulier que l’allocation d’autonomie étudiante en licence devra pouvoir être portée à quatre ans sur simple demande.

    Sur le plan de l’organisation de l’offre de cours, l’insistance sur la #progression_pédagogique et intellectuelle implique de définir quels enseignements fondamentaux doivent impérativement être validés pour permettre le succès dans les étapes ultérieures de la formation. Cela pose la question de la “compensation” des sous-disciplines entre elles : dans sa forme la plus radicale, ce dispositif permet notamment de passer à l’année supérieure si l’on obtient une moyenne générale supérieure à 10/20, sans considération des enseignements non-validés. Il ne nous semble pas pertinent d’abolir toute forme de compensation, car ce dispositif procède assez logiquement de l’idée qu’un cursus n’est pas une juxtaposition de certificats, mais représente l’agencement cohérent d’enseignements obéissant à une structure systématique. En revanche, nous pensons que pour chaque cursus, un bloc disciplinaire doit être dégagé, à l’échelle duquel un niveau minimal doit être atteint par l’étudiant·e pour être en situation de bénéficier des enseignements ultérieurs. Pour augmenter les chances de succès des étudiant·es après une première tentative infructueuse, les enseignements fondamentaux du premier cycle doivent être répétés à chaque semestre.

    On touche ici à un équilibre délicat : en effet, l’exigence d’une progression pédagogique cohérente, qui requiert un cadrage disciplinaire national, ne doit pas être mise au service d’une conception privilégiant la pure transmission au détriment de la production, de la critique et de la reconfiguration des savoirs et in fine des disciplines elles-mêmes. La discipline représente un stade socialement stabilisé de la pratique scientifique, mais elle émerge à partir d’un réseau social (au sens littéral du terme) de scientifiques, qui développent un jargon, des modèles de pensée, des revues, des conférences, dans une dialectique de l’évolution et de la conservation. Les maquettes de cursus et les instances d’élaboration du cadrage national doivent donc impérativement maintenir le caractère évolutif des disciplines, ainsi que la possibilité de leur hybridation, de leur scission ou de leur fusion.

    Si le contact avec la production et la critique des savoirs, au niveau licence, peut se réduire à une simple observation, il n’en va pas de même en master. Tout master, y compris ceux qui préparent à l’enseignement secondaire et ceux qui ouvrent le droit au titre d’ingénieur, doit inclure une part significative de séminaires de recherche et/ou de séjours en laboratoires et de terrains d’analyse. Considérant la définition que nous donnons de la recherche scientifique comme pratique argumentative contradictoire empiriquement étayée, reposant sur un état de l’art et faisant appel à un appareil probatoire objectivable, il nous semble que la mobilité des étudiants d’un établissement ou d’un laboratoire vers un autre doit être encouragée. Cela passerait par la mise en place de dispositifs d’accompagnement financier et logistique pour favoriser une pratique démocratique de la peregrinatio étudiante. En particulier, elle peut être systématisée dans les cursus donnant lieu à un pré-recrutement sous statut d’élève-fonctionnaire.

    Échapper à la Tour d’Ivoire

    La finalité sociale d’une refondation de l’enseignement supérieur ne doit pas se réduire à la formation initiale des corps mettant en œuvre l’accès aux droits fondamentaux (soin, santé environnementale, génie civil, justice, éducation…). Plus généralement, le rôle de l’Université excède la question de l’émancipation “des étudiant·es” au sens d’un groupe social à la recherche d’une formation précise ou d’une qualification. À la crise environnementale qui frappe la terre entière selon des modalités différentes s’ajoute en France une crise sociale et démocratique profonde. L’objectif de refondation de l’Université est une étape de la réponse politique à cette triple crise.

    Nous devons satisfaire trois exigences : la première est l’autonomie intellectuelle et matérielle maximale de la jeunesse ; la deuxième nécessité est la réévaluation de l’utilité sociale des savoirs et des qualifications, contre les hiérarchies actuelles : il s’agit d’aller vers une organisation où un·e bachelier·e professionnel·le maîtrisant les bonnes techniques agro-écologiques ne se verra plus placé.e socialement et scolairement en-dessous d’un·e trader·euse polytechnicien·ne, ni un·e professeur·e des écoles en-dessous d’un·e publicitaire. Le troisième objectif, par lequel nous souhaitons terminer cette contribution, est l’octroi d’une formation scientifique, technique et artistique de qualité pour le plus grand nombre, condition nécessaire à un traitement démocratique et contradictoire des grands problèmes scientifiques, techniques et écologiques du moment.

    Ce dernier point impose un double mouvement. L’imbrication de l’Université dans la ville doit également concerner les formations elles-mêmes. L’Université doit être sa propre “#université_populaire”, dispensant des enseignements ouverts à toutes et tous. Cela peut se faire pour partie sous la forme d’une #formation_continue gratuite ; l’argent actuellement versé au titre de la formation continue serait alors converti en cotisations patronales à l’enseignement supérieur “par répartition”. Mais au-delà des formations continues, l’Université doit continuer de proposer des formations scientifiques non diplômantes et des cours libres à destination des publics intéressés, et étoffer cette offre lorsqu’elle existe.

    Réinstituer une #communauté_universitaire

    Ce plan suppose une émancipation des universitaires, en particulier des corps enseignants, qui soit l’œuvre des universitaires eux-mêmes. Or après vingt années de fabrication managériale du consentement, le refus ou la difficulté de penser la science et ses modalités de production, de réception et de critique prévalent dans l’esprit d’un grand nombre d’enseignant·es-chercheur·euses. Répondre en détail à ce défi imposerait un retour sur les #politiques_de_recherche qu’il s’agit de reconstruire, et sur l’organisation collective de l’#autonomie_du_monde_savant, avec ses conditions budgétaires et statutaires notamment. Cette affirmation ne relève pas du mot d’ordre catégoriel mais de la nécessité intellectuelle : une recherche scientifique de qualité, participant du libre exercice de la #disputatio ou discussion argumentée et orientée vers la recherche de la vérité, demande des garanties matérielles contre toute tentative d’intimidation ou toute dépendance vis-à-vis de donneur·euses d’ordres, de financeur·euses extérieur·es ou tout·e collègue plus puissant·e et susceptible de prendre ombrage d’un travail. La #liberté_académique a ses conditions de réalisation, et la première est d’offrir aux universitaires un statut pérennisant leur indépendance [12].

    La #précarisation objective et subjective des emplois universitaires et scientifiques change la nature de leur métier, et par ricochet, l’essence même de la recherche, et des formations dispensées à l’Université. En droit, cette protection statutaire s’étend à tous les corps de métier vitaux à l’exercice des missions universitaires. Pour nous, les personnes concernées ne sont pas des “personnels des universités” : elles sont l’Université en tant que communauté de pratiques et de buts. Aujourd’hui, une sphère bureaucratico-managériale s’est constituée par accrétion d’une partie de ces corps de métier (au premier rang desquels certain·es enseignant·es-chercheur·euses). Cette sphère se trouve de fait dans une situation de sécession vis-à-vis du reste de l’Université. Ses prébendes reposent sur la dépossession pratique des agent·es qui constituent la sphère académique. Pour le dire autrement : la sphère gestionnaire des universités se construit sur la négation de l’idée d’Université, et la reconstruction de celle-ci passera nécessairement par le démantèlement de celle-là.

    Le réarmement rationaliste critique a des implications pour l’organisation même de l’Université, qui doit être intégralement revue dans le sens d’une gestion collégiale à échelle humaine, avec rotation des responsabilités, réduction maximale de la division du travail, reconnaissance de la valeur de tous les métiers de l’enseignement supérieur et de la recherche, protection contre les différentes formes de harcèlement et d’intimidation, qu’elles émanent de l’intérieur ou de l’extérieur de l’institution. Cette auto-administration au plus près du terrain doit être redoublée par des garanties nationales en termes de péréquation territoriale et disciplinaire et par la présence d’instances démocratiques de coordination en réseau, selon le principe d’équilibre territorial énoncé plus haut. Les prérogatives accaparées par les bureaucraties depuis vingt ans doivent être reprises démocratiquement, à la fois au sommet (au niveau du pilotage national), et au niveau de l’organisation du fonctionnement des établissements.

    Il y a quelques années, un dirigeant d’université parisienne déplorait que son établissement, alors occupé par des étudiants, soit devenu un “capharnaüm” avec “de la violence, de la drogue, du sexe même” — il y aurait beaucoup à dire sur la hiérarchie des maux que construit cette formule. Signalons simplement que l’Université promue par ces dirigeants est une maison qui rend fou, pleine de violence, de CAME et de souffrance. L’avenir démocratique du pays dépend en partie de notre capacité à leur opposer une vision de l’Université comme tiers-lieu plein de controverses argumentées, d’invention intellectuelle et de #plaisir.

    [1] L’objet de cette contribution n’est pas de récapituler la littérature abondante consacrée à la critique de l’existant ou à la documentation des réformes. Pour une synthèse informée, on se reportera notamment à l’ouvrage de Chr. Granger La destruction de l’Université française (La Fabrique, 2015). On lira également avec intérêt, pour ce qui est des questions de formation, L’Université n’est pas en crise de R. Bodin et S. Orange (Le Croquant, 2013) et La Société du concours d’A. Allouch (Le Seuil, 2017). Le séminaire « Politique des Sciences » et la revue Contretemps Web proposent également des suivis analytiques intéressants de la mécanique réformatrice sur la moyenne durée. Pour une critique des premières étapes du programme réformateur, on lira notamment les travaux de Chr. Charle et Ch. Soulié, comme Les ravages de la « modernisation » universitaire en Europe (Paris : Syllepse, 2007) et La dérégulation universitaire : La construction étatisée des « marchés » des études supérieures dans le monde (Paris : Syllepse, 2015).

    [2] Chr. Musselin, Le Marché des universitaires. France, Allemagne,États-Unis, Paris, Presses de Sciences Po, 2005 ; Chr. Musselin, La grande course des universités,Paris, Presse de Sciences Po, 2017.

    [3] Ph. Aghion, É. Cohen (avec É. Dubois et J. Vandenbussche). Éducation et croissance. Rapport du Conseil d’Analyse Économique, 2004. https://www.cae-eco.fr/Education-et-croissance.html

    [4] Il faudrait également analyser sur la durée la production de think tanks et de revues proches des milieux réformateurs. Citons par exemple plusieurs rapports de l’Institut Montaigne : J.-M. Schlenker, Université : pour une nouvelle ambition, avril 2015 ; G. Babinet & E. Husson (dir.), Enseignement supérieur et numérique : connectez-vous !, juin 2017 ; R. McInness (dir.), Enseignement supérieur et recherche : il est temps d’agir !, avril 2021. On pourra également prendre connaissance avec intérêt du dossier « Universités : vers quelle autonomie ? » paru dans Esprit en décembre 2007, sous la codirection d’Yves Lichtenberger, Emmanuel Macron et Marc-Olivier Padis.

    [5] On pourrait contester l’interprétation que Philippe Aghion, notamment, donne de Schumpeter, en objectant que les théories de celui-ci sont pensées pour l’innovation industrielle et prennent pour point de départ le profit lié au cycle de la marchandise. L’application de tels modèles à un capitalisme de crédit faisant une place importante à la dette étudiante représente une rupture par rapport au cadre initial de Schumpeter, rupture dont les tenants et aboutissants en terme d’économie politique gagneraient à être explicités par les économistes défendant de ce nouveau modèle.

    [6] O. Bouba-Olga et M. Grossetti, “La mythologie CAME (Compétitivité, Attractivité, Métropolisation, Excellence) : comment s’en désintoxiquer ?”, 2018. hal-01724699v2

    [7] L. Boltanski et E. Chiapello, Le Nouvel Esprit du Capitalisme, Paris, Gallimard, 1999.

    [8] La réflexion politique de RogueESR étant articulée autour des notions d’autonomie et de liberté, nous employons de préférence le terme d’ »émancipation », à la fois pour sa dimension simultanément collective et individuelle, pour sa capacité à désigner l’autoritarisme réformateur comme adversaire central, et pour sa faculté à souligner qu’il ne s’agit pas d’offrir l’éducation à celles et ceux qui en sont privés, mais aussi de libérer celle-ci. Mais au moins pour ce qui est de son premier volet, ce programme d’émancipation rejoint la problématique de la « démocratisation » posée par le Groupe de Recherches pour la Démocratisation Scolaire.

    [9] D. Flacher, H. Harari-Kermadec, L. Moulin. “Régime par répartition dans l’enseignement supérieur : fondements théoriques et estimations empiriques », Économie et Institutions, 2018. DOI : 10.4000/ei.6233

    [10] Le projet de “collège de premier cycle” de l’université Paris-Saclay a montré que le même établissement peut parfois jouer tour à tour les deux rôles via des dispositifs de différenciation interne.

    [11] Assurément, ces changements, qui n’affecteront qu’une minorité d’étudiant·es, se heurteront à une résistance considérable compte tenu du rôle que les corps concernés jouent dans l’appareil d’Etat. C’est l’une des raisons pour lesquelles nous récusons l’idée qu’une refondation de l’enseignement supérieur pourrait se faire sur la seule base de revendications catégorielles ou à plus forte raison strictement budgétaires : le concept d’Université, pour être réalisé, demande une articulation à un programme de ré-institution plus large de la société.

    [12] Cela implique un plan de rattrapage pour l’emploi titulaire, à destination des universitaires précaires qui assurent aujourd’hui des tâches fondamentales dans tous les corps de métiers. Dans la mesure où le chiffre de 15.000 postes parfois avancé est manifestement insuffisant puisqu’inférieur à ce que nécessiterait le simple maintien des taux d’encadrement tels qu’ils étaient en 2010, nous ne nous avancerons pas sur un chiffrage : celui-ci devra être réalisé a posteriori, sur la base d’un audit des besoins qui en définisse le plancher – et non le plafond. Pour un chiffrage des besoins, voir https://tinyurl.com/2jmfd5k9. Le collectif Université Ouverte a également publié des éléments de chiffrage : https://tinyurl.com/4uptvran

    https://mouvements.info/liberte-exigence-emancipation-reinstituer-luniversite

  • Géographie de la #dispersion des migrations subsahariennes au #Maroc. Le cas de deux villes-refuge, #Tiznit et #Taza

    Contexte et problématique de la thèse

    Cette thèse de Doctorat traite des conséquences de la politique d’externalisation des dispositifs de #sécurisation des #frontières de l’Union européenne (UE) au Maroc dans le contexte post-crise migratoire de 2015. Le Royaume du Maroc, pays d’émigration est aussi un espace de #transit, d’#installation et d’#attente pour des individus en migration en provenance d’Afrique subsaharienne. Cette recherche est centrée sur l’outil conceptuel de « dispersion » que j’ai introduit en raison de sa fécondité explicative pour appréhender la politique d’immigration et d’asile marocaine en matière de gestion de l’accueil et d’#inclusion_urbaine des migrants subsahariens dans deux villes moyennes, Tiznit (au Sud) et Taza (au Nord-Est).

    Sous l’impulsion et l’accompagnement financier de l’UE, le Maroc a ainsi organisé la politique de dispersion afin d’endiguer les mouvements migratoires subsahariens désireux d’atteindre l’Europe par les côtes marocaines ou les enclaves espagnoles de #Ceuta et #Melilla. À ce titre, la dispersion s’opère via la #distribution_spatiale et la #relocalisation interne des migrants par les autorités publiques. Elle se fait principalement depuis les camps de la frontière nord jusqu’aux villes moyennes de l’intérieur et du Sud marocain. Le processus de « #frontiérisation » que j’associe à celui de « dispersion », comme étant l’une de ses dimensions, est devenu l’un des instruments de la gestion de la frontière au Maroc. La problématique de cette thèse interroge ainsi la dispersion comme nouveau mode de contrôle et de pratique des #frontières, engendrant une dialectique entre les intérêts étatiques et ceux des migrants dispersés. Elle permet une lecture nouvelle et plus précise du phénomène migratoire subsaharien et de sa gestion, marquée à la fois par la contingence des #spatialités et #temporalités migratoires et les réactions imprévisibles des autorités marocaines. Elle nous éclaire également sur les effets complexes des #déplacements_forcés en créant de nouvelles #villes-étapes, inscrites dans le parcours migratoire, qui posent la question de leur transformation potentielle en « #villes-refuges ».

    https://journals.openedition.org/cdg/7545
    #géographie #spatialité #temporalité #migrerrance

    ping @karine4 @_kg_

  • Le Covid et le temps : « Who is in the driver’s seat » ? | François Hartog, Analyse Opinion Critique-mais-point-trop. Encéphalogramme français
    https://aoc.media/analyse/2021/01/26/le-covid-et-le-temps-who-is-in-the-drivers-seat

    Depuis un an, l’irruption du Covid-19 et sa propagation rapide ont bouleversé nos temporalités quotidiennes. Le virus s’est imposé en maître impérieux du temps et la courte histoire de l’épidémie pourrait être représentée comme celle d’une succession de batailles pour en reprendre le contrôle. Il en va ainsi de la mise en œuvre des confinements, des couvre-feux et, dernièrement, de la campagne de vaccination. Mais la découverte des variants relance doutes et inquiétudes : par ses capacités à muter sans cesse, le virus a inévitablement un coup d’avance, et nous, un coup de retard.

    « Les économistes sont présentement au volant de notre société, alors qu’ils devraient être sur la banquette arrière. »
    John Maynard Keynes (1946)

     

    Janvier 2020, c’était il y a un an : le Covid-19 était déjà là. Il avait déjà infecté la ville de Wuhan et il cheminait. Des foyers allaient se déclarer, bientôt l’OMS parlerait d’épidémie, puis déclarerait l’état de pandémie (11 mars). Il y a un an nous ne savions pas, et le monde occidental, pris à l’improviste, a mis un certain temps à vouloir puis à pouvoir voir ce qu’était et ce qu’allait entraîner ce nouvel agent pathogène : imprévu mais pas imprévisible. Un an après, sur lui et ses effets nous savons, assurément pas tout (loin s’en faut), puisqu’il est toujours aussi actif et meurtrier sinon plus, mais beaucoup, puisque les premiers vaccins vont enfin permettre de le contrer.

    Loin des propos lénifiants ou bafouillants du début, loin des proclamations de résilience instantanée, loin des « reprises » guettées ou trop vite décrétées après quelques mois, très loin des dénégations façon Trump et ses émules, nous savons que nous sommes confrontés à une crise devenue un « fait social total », pour reprendre le concept de Marcel Mauss, et d’un fait social total mondial : il a « mis en branle » les sociétés et leurs institutions en leur « totalité ». Dans Les capitalismes à l’épreuve de la pandémie, son dernier livre, l’économiste Robert Boyer vient de démontrer la fécondité d’une telle approche. Plus limité est mon propos.

    En effet, dans un précédent article « Troubles dans le présentisme » (AOC, 2 avril 2020), je m’efforçais de cerner à chaud ce que l’irruption du coronavirus venait modifier dans nos rapports au temps. Près d’un an après, qu’en est-il des temporalités inédites générées par lui, de celles qu’il a bouleversées ? D’autres ont-elles émergé depuis ? Les « troubles » dans le présentisme se sont-ils encore accentués ? Et, surtout, les conflits entre ces diverses temporalités se sont-ils aggravés ? Du fait social total et mondial, je ne retiendrai donc que ses composantes temporelles.

    L’irruption du virus et sa propagation rapide ouvrent un temps nouveau qui relève d’une forme de kairos : il vient rompre le cours du temps chronos ordinaire. D’où, ici et là, chez certains croyants des réponses religieuses plus ou moins affirmées, voire véhémentes. Il n’y a là rien d’étonnant, puisqu’associer épidémies et colères divines est un trait très ancien. On se meut alors dans l’univers du châtiment, de l’expiation, souvent aussi de la recherche de boucs émissaires. Mais si l’on reste dans le seul registre du temps chronos, la diffusion du virus peut être vue comme celle d’une bombe à fragmentation. Il va, en effet, infecter ou affecter de proche en proche les multiples temporalités qui trament le quotidien de nos sociétés et de nos vies jusqu’à s’imposer comme un maître impérieux du temps.

    Comme toujours, la vraie question est qui tient le volant ? Aussi pourrait-on représenter la encore courte histoire de l’épidémie comme celle d’une succession de batailles (jusqu’à présent non victorieuses) menées par chronos pour reprendre le contrôle. La découverte récente de variantes, plus contagieuses, montre que la lutte n’est pas terminée. Tel Protée, il échappe aux prises et mène, si j’ose dire, sa vie de virus, mutant et passant d’hôtes en hôtes selon son rythme et avec sa propre temporalité (plus il circule, plus il mute, et plus les chances augmentent de voir apparaître de nouvelles variantes).

    Le temps du virus

    Dans quel contexte temporel fait-il intrusion ? Il survient dans des sociétés où au quotidien domine le présentisme. Ce sont les tweets, les sms, les médias en continu, les réseaux sociaux, les grandes plateformes, les cotations boursières en direct qui donnent le rythme ; bref, règne l’urgence, voire sa tyrannie. Avec l’urgence, qui est une forme de concentré de présent, vient presque immanquablement le retard. On déclare l’urgence et on dénonce le retard. Les deux font couple. Pour répondre à l’urgence et conjurer le spectre du retard, on compte alors sur l’accélération, et sur une accélération qui se doit d’être de plus en plus véloce.

    La panoplie des premières réponses à l’épidémie s’inscrit tout à fait dans ce cadre. Hautement significatif à cet égard est le vote de l’urgence sanitaire par le Parlement (le 23 mars 2020, prolongée le 17 octobre et reprolongée pour l’instant jusqu’au 16 février 2021). On peut noter une accélération du recours à cette procédure qui instaure un temps d’exception en rupture avec le temps ordinaire de la vie démocratique. En l’occurrence, il doit permettre, entre autres, aux autorités de répondre plus vite aux évolutions de la situation sanitaire.

    Dans les premières semaines de l’épidémie, les exigences de la scène médiatique-présentiste ont fait que, sur les plateaux de télévision, les économistes et les politistes ont été remplacés par des cohortes d’épidémiologistes, virologues, infectiologues, urgentistes qui ont vite montré les impasses d’une science qu’on voudrait voir se faire en direct. Ils ont occupé le siège du conducteur, mais il semblait y en avoir plus d’un. Plus sérieusement, comment une situation d’incertitude pourrait-elle se plier aux contraintes de l’urgence médiatique ? Comment des tâtonnements inhérents à toute recherche ne seraient-ils pas ramenés à l’énoncé de simples opinions différentes, voire divergentes ? Alors même que les chercheurs étaient les premiers à reconnaître (pour s’en féliciter) qu’on n’avait jamais avancé aussi vite dans la connaissance d’un virus et que les États n’avaient jamais mis autant de moyens en vue de la mise au point d’un vaccin. Mais l’article premier de la loi de l’accélération est qu’elle est sans fin : plus on va vite, plus vite encore il faut aller.

    Or les médias, au nom de leur devoir d’informer, se chargeaient de remettre chaque jour, pour parler familièrement, une pièce dans la machine. Produisant pour finir l’effet inverse de celui qui était annoncé : non pas éclairer toujours mieux, mais entretenir l’anxiété puisque chaque avancée était immédiatement suivie de nouveaux doutes et du pointage de potentielles inquiétudes, sur le mode du : « Et si on décide de faire ça, alors n’y a-t-il pas un risque que… ? ». Un peu comme si, une porte venant à s’entrebâiller, il fallait d’abord inventorier tous les dangers qui pouvaient se trouver derrière avant d’y risquer un pied. Cela revient à prétendre lutter contre la peur en l’alimentant : le présent est intenable mais le futur est menaçant. Il y a urgence, mais il n’en est pas moins urgent d’attendre ! Avec l’arrivée du vaccin, s’est aussitôt faite entendre la petite musique du « Attendons d’avoir un peu plus de recul ! ». Et c’est ainsi que le vieux précepte du festina lente a pu être repeint en stratégie vaccinale.

    Avec la décision prise par les États de confiner, donc d’arbitrer en faveur de la vie au détriment de l’économie, les temps de l’économie se sont trouvés mis en question, à commencer par le postulat selon lequel « les marchés seraient le meilleur moyen de socialiser les vues sur l’avenir » (Robert Boyer, Les capitalismes à l’épreuve de la pandémie, p. 49). Comment forger des anticipations informées alors même que le principe de rationalité économique vacille ? Si les théories financières ont cherché à acclimater le risque (en 2008, la crise des subprimes en a douloureusement montré les limites), elles sont démunies face à l’incertitude, à une incertitude radicale. Acheter, vendre ? La volatilité règne et les Bourses dégringolent. Face à cette situation d’aporie, le mimétisme, comme le pointe Robert Boyer, a été un recours, qu’il s’agisse des investisseurs ou des États, en vertu du principe selon lequel mieux vaut se tromper ensemble que prendre le risque d’avoir raison tout seul.

    C’est ainsi qu’on peut comprendre le rôle joué, en mars 2020, par le modèle de l’Imperial College sur la diffusion et la mortalité de l’épidémie. En Europe, il a de fait servi de référence pour la fixation de plusieurs stratégies nationales. Avec les multiples dégâts entraînés par la crise du coronavirus, la finance de marché – qui est un puissant moteur du présentisme – pourrait comprendre que faire de son temps ultra bref la mesure de tous les autres, aussi bien celui de l’économie que de la société dans toutes ses composantes n’est pas tenable durablement. On peut toujours rêver d’une inversion de la hiérarchie des temporalités que seuls les États, pour autant qu’ils agissent de façon concertée, pourraient imposer. Et encore, car les GAFAM sont devenus de très puissants ordonnateurs du temps dont la pandémie a encore accru l’emprise.

    Une autre déclinaison du présentisme que la crise est venue battre en brèche est celle du just in time, largement diffusé comme moyen de réduire les coûts. On produit à la demande et on ne garde pas de stock. On a vu ce qu’a donné cette logique appliquée au domaine de la santé : pénurie de masques, de respirateurs, de principes actifs. Tout le monde s’est rué en même temps sur les mêmes fournisseurs en Asie. « Les gestionnaires ont redécouvert que le juste-à-temps ne garantissait de bas coûts que si l’environnement était stable et prévisible » (Boyer, p. 96). Pour combien de temps cette redécouverte ? En tout cas, c’est alors qu’a déferlé de tous côtés le mantra « anticipation » pour vitupérer contre son absence. C’était évidemment de bonne guerre, mais qui avait anticipé, alors même que, depuis des décennies la santé était considérée comme un coût qu’il fallait contenir, voire réduire ? En témoigne l’interminable crise de l’hôpital ?

    Au couple urgence-retard, il faut ajouter anticipation. Mais que veut dire anticiper en régime présentiste, alors même que presque tout peut se faire en ligne et que quelques clics doivent suffire à activer le just in time pour répondre sans retard à l’urgence ? Puis, quand, face à la progression exponentielle des contaminations, le monde se confine et plonge dans une incertitude radicale, ne doit-on pas reconnaître que le temps du virus est devenu le maître ? C’est bien lui qui occupe le siège du conducteur. Comme le temps chronos ne réussit pas à reprendre la main, on agit indirectement sur le temps du virus. Il y a là un paradoxe : pour accélérer la sortie de la crise, on en est réduit à suspendre le temps du monde, ce qui a pour effet de ralentir la circulation du virus. On est entre freinage et accélération.

    Il va de soi que la médecine ne peut s’en tenir à ces anciens gestes prophylactiques. Faute de pouvoir guérir, elle voudrait au moins réussir à articuler un diagnostic et un pronostic un peu sûr, c’est-à-dire à convertir le temps au départ inconnu puis mal connu de la maladie – avec ses phases, ses moments critiques – en un temps chronos qu’on peut décompter en jours et en semaines. Les modélisateurs, de leur côté, n’ont d’abord d’autre choix que d’adapter les modèles construits pour les épidémies précédentes (SRAS et H1N1), et ce n’est qu’avec l’accumulation de nouvelles données qu’ils peuvent progressivement préciser le chiffrage des divers paramètres. D’où des marges d’incertitude et des divergences de pronostics d’un modèle à un autre. Si certains sont plus « alarmistes » que d’autres, tous sont confrontés à la difficulté de tester au fur et à mesure les effets des différentes décisions prises. Dessinent-ils des scénarios ou formulent-il des prédictions ? Annoncent-ils ce qui va se passer ou, à l’instar des anciens prophètes, ce qui va se passer sauf si… ? Comment faire un bon usage de ces modèles pour une aide à la décision en situation d’incertitude ? Ce sont autant de questions qui se sont posées jour après jour.

    Dans ces conditions, se comprend mieux la tentation chez les décideurs politiques du mimétisme, surtout s’il se trouve conforté par le recours à un modèle de référence (celui de l’Imperial College pour un temps). D’autant plus qu’en quelques semaines, l’État est devenu tout à la fois le premier et le dernier recours : au titre de l’urgence sanitaire, de l’urgence économique, de l’urgence sociale. On a aussitôt parlé du « retour » de l’État, pour immédiatement après en dénoncer les lourdeurs. En déclarant l’état de guerre, le président de la République a tenté de se poser en maître des horloges, celles du moins des temps sociaux et politiques. Pour le reste, le virus continuait d’occuper le siège du conducteur.

    Avec le confinement, il suspend, en effet, le temps ordinaire et avec l’annonce du déconfinement, il le remet en marche. En indiquant des dates repères (11 mai, 15 décembre 2020), il met en place une chronologie et fixe un horizon par rapport auquel peuvent se caler les diverses temporalités économiques, sociales, politiques et devrait s’enclencher leur resynchronisation. Mais, comme nous en avons fait l’expérience, rien n’oblige le temps du virus à s’y conformer. Ce qui entraîne derechef des bordées de protestations et des bouffées de colère : « pas de cap », « pas de stratégie » et, bien sûr, « absence d’anticipation » ! Il y a là une forme d’hystérisation présentiste. Si j’attire l’attention sur les formes temporelles qui structurent débats et controverses, cela ne signifie évidemment pas qu’ils s’y réduisent et qu’ils sont dépourvus de contenus.

    Le droit n’est pas resté intouché par le présentisme. Comment le pourrait-il puisque les constructions juridiques sont toujours des opérations sur le temps ? À cet égard, la crise du Covid a joué un rôle d’accélérateur. Elle a été l’occasion d’un renforcement de la judiciarisation de la vie publique. En France, des plaintes judiciaires à l’encontre de responsables ont été déposées en nombre en temps réel sinon en direct. Étant une façon de prendre date, la plainte arrête le temps. Aussi longtemps qu’elle est là, on demeure, en effet, dans le présent de la plainte, le plaignant revendiquant la place de la victime. S’il est normal qu’un responsable soit amené à rendre compte et même à rendre des comptes de son action, vient un moment où la menace de plaintes instantanées (à la vitesse d’un tweet) ralentit, voire suspend l’action.

    L’accusation de mise en danger de la vie d’autrui et un usage extensif du principe de précaution sont autant d’instruments qui transforment le futur en parcours judiciaire. Une part de ce qui est, plus que jamais, dénoncé comme les lenteurs ou les lourdeurs de la bureaucratie vient de là : les juristes des organismes publics pondent des textes interminables qui doivent les rendre inattaquables. Les politiques ont tendance à se défausser sur l’administration qui, pour sa part, veille à ce que tous les parapluies soient ouverts. Mais le long parcours des procédures à respecter fait immanquablement surgir les accusations de lenteurs insupportables et de retards inadmissibles. On ne peut sortir du cercle urgence, accélération, retard, anticipation.

    L’air du temps présentiste a également fait qu’on a dès le début de la crise mobilisé le concept de résilience : comme si elle pouvait être instantanée. Avant même que le traumatisme ne soit advenu ou avéré, certains responsables lançaient cet autre mantra de la communication. Puisque se féliciter de la résilience des uns ou des autres, des Français en général, était une façon de vouloir faire croire que le plus dur était derrière eux et qu’ils avaient magnifiquement tenu le coup ! La résilience est elle aussi happée par l’urgence. Une autre formule, abondamment mobilisée dans les premières semaines, y compris par le chef de l’État, était celle du « monde d’avant » et du « monde d’après ». Rien ne sera plus, ne devra plus être comme avant.

    L’illusion d’une année zéro s’inscrit dans l’univers présentiste pour qui la durée est presque devenue un mot obscène. Comme si les reconfigurations qui interviendront une fois la crise sanitaire maîtrisée ne seraient pas tributaires des tendances lourdes, notamment en matière d’économie, qui préexistaient à la pandémie. Robert Boyer cite une étude ayant montré que les effets des grandes épidémies au cours de l’Histoire s’étendent sur plusieurs décennies. L’appel à un monde d’après différent, voire très différent a aussi été lancé par celles et ceux qui estiment que l’épidémie est l’occasion à saisir (kairos) pour hâter l’entrée dans un monde autre. Il faudrait en user comme d’un accélérateur pour précipiter la fin du capitalisme (néolibéral) et, du même coup, pour au moins retarder la possible sixième extinction des espèces qui menace. Entrant en scène, l’urgence climatique vient s’ajouter aux autres et pose la difficile question de leur hiérarchie : quelle est la plus urgente ? En tout cas, on oscille toujours entre urgence, ralentissement et accélération, mais il s’agit, cette fois, d’accélérer pour mieux ralentir. Sont mobilisés les mêmes opérateurs temporels, mais pour les mettre au service de politiques plus ou moins radicales.

    Avec le vaccin enfin, on échappe, semble-t-il, à la cage présentiste. Avec lui, dont on a suivi semaine après semaine l’avancée jusqu’à la confirmation de son arrivée puis de sa certification, s’opère une réelle ouverture en direction du futur et surgit un nouvel horizon. Il est l’arme qui va permettre la « sortie du tunnel ». Arrivant en Europe à la veille de Noël (date qui ne doit peut-être pas tout au hasard), il est attendu comme une sorte de messie. Pas par tout le monde, bien entendu. Tout au contraire, on peut y reconnaître une œuvre du diable ou du Grand Satan ! Fantasmes, oppositions, peurs, interrogations, qui prospèrent sur les réseaux sociaux et nettement au-delà, traduisent, du point du vue du rapport au temps (le seul qui me retienne ici), des replis présentistes. Si jusqu’alors le virus restait, en dernier ressort, le maître du temps, le vaccin doit pouvoir lui ravir la place : le temps chronos devrait enfin reprendre le volant.

    Sauf que la découverte des mutants (britannique et d’Afrique du Sud) relance doutes et inquiétudes. Le virus-Protée a toujours un coup d’avance et nous un coup de retard. Il est frappant mais nullement étonnant de constater à quel point les calendriers de vaccination (à peine arrêtés) et les campagnes (à peine lancées) sont pris dans le tourbillon du trio infernal urgence, accélération, retard. Le gouvernement français a cru préférable ou habile ou les deux d’opter pour le festina lente, qui est aussitôt dénoncé comme lenteur inadmissible, voire criminelle, et retard incompréhensible par rapport à nos voisins. D’un coup l’horizon recule. Alors qu’il y a une urgence d’autant plus urgente que les mutants sont là, il faut donc accélérer au maximum. C’est à nouveau une course de vitesse qui est engagée. Sans entrer dans une discussion des arguments eux-mêmes, je me limite à être attentif à la rhétorique temporelle qui les informe et que partagent peu ou prou tous les acteurs. Certains n’hésitent d’ailleurs pas à faire des tête-à-queue : un jour, c’est l’accélération qu’ils réclament et, le jour d’après, leur colère exige plus de lenteur. Mais tout se joue à l’intérieur de la même cage présentiste, palinodies y comprises.

    Intervenant en ce contexte, la crise du Covid-19 a peut-être chahuté mais pas ébranlé le présentisme. En en faisant ressortir les traits les plus saillants et les injonctions contradictoires, elle a opéré comme un catalyseur ou un révélateur. Mais elle a fait plus et l’a aussi renforcé. En effet, la vie confinée qui, pour beaucoup (mais de loin pas tous) a été une vie connectée, le développement du télétravail, le recours accru aux services des grandes plateformes, voilà autant de facteurs qui ont accéléré la transition vers une « condition numérique » et, donc, foncièrement présentiste. L’addiction aux écrans et l’emprise des grandes plateformes (qui ont vu leurs valorisations boursières augmenter fortement) se sont renforcées, même si, en sens inverse, le temps du confinement a été vécu par certains comme une occasion de sortir de l’urgence ordinaire en faisant fond sur le ralentissement. Savoir prendre le temps voudrait être une nouvelle règle de vie. S’agit-il d’un luxe, de l’aménagement de niches à l’intérieur de la cage présentiste ou d’un mouvement qui ira s’amplifiant pour en sortir véritablement ?

    Au-delà du présentisme

    Parallèlement à ces réactions cherchant à parer au plus pressé, le virus a suscité des interrogations qui ont obligé à regarder en arrière : vers le passé immédiat ou en direction de passés lointains. Si avec lui s’ouvre bien un temps nouveau, forme de kairos, il ne vient pas de nulle part, ni géographiquement ni chronologiquement. Il a même une très longue histoire derrière lui. Inédit peut-être, il n’est assurément pas sans précédent, puisque humanité et épidémie vont de pair, au moins depuis les débuts de l’agriculture et de la domestication des animaux. De cette longue cohabitation l’histoire n’a, bien sûr, retenu que les épisodes les plus sévères. Au printemps 2020, on s’est donc tourné vers les historiens de la médecine et des épidémies.

    Ce fut l’occasion de réactiver le vieux topos des leçons de l’Histoire, pour déplorer qu’elles n’aient pas été tirées ou, pire encore, oubliées. De la Grande peste de 1348, qui avait liquidé en quelques mois un tiers de la population de l’Europe, à la grippe de Hongkong, qui, en 1969, avait fait en France trente mille morts dans l’indifférence générale, en passant par la grippe espagnole en 1918, qui avait emporté entre trente et cinquante millions de personnes à travers le monde. En relevant similitudes et différences, on donnait déjà un premier arrière-plan historique à la pandémie en cours. Pouvaient ainsi être mises en perspective les peurs suscitées par les épidémies ainsi que les manières d’y faire face.

    Au-delà de ce cadre général, des épidémies plus récentes (SARS, H1N1, EBOLA) avaient suscité des recherches scientifiques et donné lieu à des mises en garde précises. Les coronavirus apparaissaient, en effet, comme de bons candidats pour la propagation d’une pandémie globale. Dans son livre de 2012, Spillover : Animal Infections and the New Human Pandemic (non traduit en français), qui a eu un grand retentissement, le journaliste scientifique David Quammen en parlait comme du « Next Big One ». Il précisait que ce virus se caractériserait probablement « par un niveau élevé de contagiosité précédant l’apparition de symptômes notables, lui permettant ainsi de se propager à travers villes et aéroports tel un ange de mort ». En 2020, il est devenu celui qui avait « prédit » l’épidémie du Covid-19.

    Si les pays asiatiques plus touchés par ces agents pathogènes avaient pris des mesures, le monde occidental estimait qu’il n’était pas directement concerné. Le virus H1N1 qui avait eu le bon ton de disparaitre rapidement était devenu, en France, synonyme d’excès de précautions et de fiasco vaccinal. Ne plus parler de masques ni de vaccinodromes ! Dans les premiers mois de 2020 les décalages d’un continent à l’autre sont devenus patents. Les pays d’Asie n’ignoraient pas l’anticipation, tandis que l’Occident s’en remettait à sa capacité à réagir rapidement. Les masques, revenus, si j’ose dire, en boomerang dans l’espace public, ont montré le peu de fondement de cette assurance.

    Ces épidémies qu’on pourrait dire de nouvelles générations sont des zoonoses, dont les études montrent que le nombre ne cesse d’augmenter. Elles sont dues à l’activité humaine et, en particulier, aux destructions toujours plus étendues et plus rapides d’écosystèmes. Ce qu’il convient de retenir ici, c’est l’accélération des épidémies. Elle est à mettre directement en rapport avec la Grande Accélération, soit la période qui a vu depuis les années 1950 une croissance exponentielle de tous les paramètres de l’activité humaine sur la Terre. Il n’y a nulle raison, en effet, que les pandémies soient une exception à la loi de l’accélération. Elles appartiennent à la globalisation, dont elles sont, si l’on veut, un des coûts longtemps négligés. Avec elles on a un état au vrai de nos rapports avec la nature sauvage.

    Au moyen de ces quelques remarques nous dotons le Covid-19 d’une histoire et nous l’inscrivons dans le temps du monde. Mais il faut aller plus loin et sortir de la cage présentiste, en procédant à un véritable renversement temporel : non plus nous, regardant dans l’urgence le virus, mais le virus regardant ces hôtes accueillants que sont dernièrement devenus les humains, quel que soit l’agent intermédiaire (le vison peut-être) qui lui ait permis de passer de la chauve-souris à l’homme. Autrement dit, la pandémie n’est qu’un épisode de l’histoire de l’évolution, et un épisode en cours. Les variantes récemment isolées montrent, en effet, que, par ses capacités à muter sans cesse, le SARS-CoV-2 a inévitablement un coup d’avance. « Dans la lutte ancienne et permanente entre les microbes et l’homme, écrivent dans un article récent les immunologues David Morens et Anthony Fauci, les microbes génétiquement adaptés ont le dessus : ils nous surprennent régulièrement et souvent nous attrapent alors que nous n’y sommes pas préparés ». Dans cette bataille où le virus n’a d’autre objectif que d’assurer sa reproduction, le retard est forcément du côté de l’hôte.

    Poussons plus loin encore. Par rapport aux virus, les humains sont nés d’hier. « Homo sapiens remonte à quelque 300 000 ans », alors que, soulignent Morens et Fauci, « des formes microbiennes de vie ont persisté sur cette planète depuis 3,8 milliards d’années ». Et ils ajoutent avec la pointe d’humour qui convient « It may be a matter of perspectives as to who is in the evolutionnary driver’s seat ». Voilà qui ouvre, en effet, une tout autre perspective, comme si, pour prendre une autre image, on devait faire entrer des milliards d’années dans la malle-cabine du présentisme !

    #crise_sanitaire #présentisme #urgence #retard #anticiper #temporalités

  • Germany eases restrictions on church asylum

    Germany’s asylum office has moved away from its restrictive practice against church asylum. The introduced changes pertain to the time limits within which responsibility for an asylum seeker would move to Germany from other EU countries. The obstacles to church asylum had previously been so high that help for hardship cases was made nearly impossible.

    Germany’s Federal Office for Migration and Refugees (#BAMF) has changed course in regards to how it deals with church asylum cases, a spokesperson for BAMF confirmed on Thursday (January 14) in a reply to a request by the news agency KNA.

    According to BAMF, important changes have been applied to deadlines for transfers in so-called Dublin cases. People sheltering in church asylum now have to stick it out for only six month in order to drop out of the Dublin system. After six month, they no longer qualify to be transferred back to the EU country where they first had claimed asylum.

    With the time limit being shortened, the odds of an asylum seeker getting deported are effectively much lower, as the other EU country in such cases will no longer be responsible for people in church asylum after six month, in accordance with the Dublin Regulation
    EU regulation that lays down the criteria and mechanisms for determining the EU member state responsible for examining an application for international protection lodged in one of the member states by a third-country national or a stateless person. Many asylum seekers are so-called Dublin cases, meaning they first entered the EU in a country other than their current one and will likely be transferred back there since that country is responsible.
    .

    In other words: asylum seekers can now stay in Germany after spending six months in church asylum.

    Germany’s “Ökumenische Bundesarbeitsgemeinschaft Asyl in der Kirche” ("federal ecumenical work group for asylum in the church") welcomed the BAMF decision in an online statement and on Twitter.
    Important changes

    In 2018, the conference of Germany’s interior ministers had extended this period from 6 to 18 months, which rendered providing church asylum all but impossible.

    After the extension, the chances of migrants in church asylum receiving protection against deportation had dropped to nearly zero. In 2019, German authorities stopped such deportations on humanitarian grounds in fewer than 2% of cases.
    Court ruling against extension

    The German state interior ministers in 2018 decided to enact an extension from 6 to 18 months to make it more difficult for people in church asylum to simply sit out those deadlines.

    The basis for the extension was a provision of the Dublin Regulation that allowed an extension of the standard time limit if the asylum seeker is deemed “flüchtig” ("on the run").

    However, Germany’s highest court in June last year ruled that this interpretation was against the law. The ruling argued that people who enjoyed church asylum could not be regarded as “flüchtig” as they were not on the run, and their whereabouts were known to the authorities.

    As part of an agreement between the churches and German authorities dating back to 2015, churches have to inform authorities about cases of church asylum and the exact whereabouts of the accommodated person.

    https://www.youtube.com/watch?v=g2ArdgLTMok&feature=emb_logo

    ’Overdue step’

    The BAMF spokesperson said, however, that according to the law, people in church asylum would have to abandon that status if authorities decided that there was no special, individual case of hardship that needed to be evaluated.

    “Ökumenische Bundesarbeitsgemeinschaft Asyl in der Kirche” had called for the implementation of the change since said last year’s court ruling. Chairperson Dietlind Jochims, a woman minister in Hamburg, called it an “overdue step.”

    Strain on churches

    The one-sided extension of the deadline for Dublin cases in church asylum had put a strain on parishes, monasteries and religious orders.

    Jochims said she hoped for a “return to a solutions-oriented communication on humanitarian hardship cases.” She also called for taking back already granted extensions of deadlines in existing church asylum cases.

    According to its own information, BAMF received 355 church asylum notifications for 406 persons last year. The highest number of church asylum cases were reported in 2016, when more than 1,000 people, whose official asylum requests had earlier been rejected, sought refuge in German parishes.

    https://www.infomigrants.net/en/post/29675/germany-eases-restrictions-on-church-asylum

    #asile #migrations #réfugiés #Eglises #Eglise #Kirchenasyl
    #religion #Dublin #renvois #expulsions #asile_temporaire #temporaire #tolérance #18_mois

    ping @karine4 @isskein @_kg_

  • Où est passé le temps libre ? | Travail en cours
    https://play.acast.com/s/travail-en-cours/ouestpasseletempslibre-rediffusion-

    Est-ce que vous aussi, il vous arrive d’avoir l’impression de courir sans arrêt après le temps ? Et en général, de manquer cruellement de temps libre ? Dans cet épisode de Travail (en cours), Adrien Naselli s’entretient avec Jean Viard, sociologue spécialisé sur le temps libre et les loisirs. Auteur du livre « Le Triomphe d’une utopie. Vacances, loisirs, voyages : la révolution des temps libres », Jean Viard décortique l’équilibre entre temps de travail et temps libre, et comment celui-ci a évolué au fil des siècles. Durée : 26 min. Source : Louie Media

    https://stitcher.acast.com/livestitches/8f193150-6b0e-43a6-8e08-5afe6acffc7f/577bd0c5bc8afc94c2bef99e7357d613.mp3

  • Le temps à l’œuvre
    https://laviedesidees.fr/Le-temps-a-l-oeuvre.html

    À propos de : Corine Maitte et Didier Terrier, Les rythmes du labeur. Enquête sur le #temps_de_travail en Europe occidentale, XIVe-XIXe siècle, La Dispute. En dépit de l’omniprésence du travail dans nos sociétés, que sait-on vraiment du temps qui lui est consacré ? En tournant le dos aux approches historiques linéaires, la vaste enquête de Corine Maitte et Didier Terrier explore les rapports complexes entre durée et profit.

    #Histoire
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20201223_cabantous.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20201223_cabantous.docx

  • La Ville monde

    Mars 2016, faisant face à l’arrivée massive de réfugiés dans sa ville, Grande-Synthe, le Maire crée le premier camp UNHCR de France. Idéaliste et déterminé, l’architecte qui a conseillé à sa conception essaye de convaincre les acteurs de projeter ce lieu comme un quartier, mais sa pensée se cogne sans cesse à la réalité du terrain. De l’emménagement du camp à sa destruction, le réalisateur suit l’expérience dans toute sa complexité, ses espoirs, ses impasses, témoignant du rêve des uns devenu cauchemar des autres.

    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/53160

    #film #film_documentaire
    #migrations #asile #réfugiés #camp #campement #Grande-Synthe #Damien_Carême #camp_de_la_Linière #Cyrill_Hanappe #architecture #Utopia_56 #impensé #temporaire #urbanité #espace_public #ordre_républicain #France #dignité #sécurité #risques #drapeau #transit #identification #Afeji #urgence_humanitaire #Calais #jungle #bidonville #CAO #passeurs #ville_accueillante #quartiers_d'accueil #police #participation #incendie

    –----

    1’32’15 : Maire de Mythilène (Grèce)

    « Mon très cher maire, toutes les municipalités ont besoin de joindre leurs forces, et grâce à de petites constructions, elles pourront supporter cette charge, qui peut être modeste, et si nous travaillons tous ensemble, elle peut même devenir bénéfique pour nos petites communes »

  • La député LREM #Frédérique_Meunier a déposé une proposition de #loi le 19 MAI 2020...

    "PROPOSITION DE LOI VISANT À INSTAURER L’ENSEIGNEMENT NUMÉRIQUE DISTANCIEL DANS LES LYCÉES, COLLÈGES ET ÉCOLES ÉLÉMENTAIRES".

    Cette proposition de loi a un seul article qui introduit le mot
    « obligatoirement » au deuxième alinéa de l’article L 131-2 du code de
    l’éducation."

    Et regardez ce deuxième alinéa de l’article L 131-2 :

    Article L131-2 (Modifié par Loi n°2005-380 du 23 avril 2005 - art. 11
    JORF 24 avril 2005) - voir : https://www.ac-amiens.fr/dsden02/sites/dsden02/IMG/pdf/code_de_l_education_1_.pdf
    – L’instruction obligatoire peut être donnée soit dans les
    établissements ou écoles publics ou privés, soit dans les familles par
    les parents, ou l’un d’entre eux, ou toute personne de leur choix.
    – Un service public de l’enseignement à
    distance est « OBLIGATOIREMENT » organisé notamment pour assurer
    l’instruction des enfants qui ne peuvent être scolarisés dans une
    école ou dans un établissement scolaire.

    Ce qui était concevable uniquement en volontariat deviendra probablement obligatoire pour les enseignants...

    Or, avant cette loi :

    le décret portant sur le télétravail dans la fonction publique a été modifié le 5 mai 2020. Comme le souligne l’analyse d’Académia, il faudrait une loi pour changer la nécessité du #volontariat pour mettre les #personnels de la #fonction_publique en #télétravail. Cela n’a donc pas été modifié dans le décret du 5 mai 2020 amendant celui du 11 février 2016. Mais ledit décret prévoit désormais que lorsque le travailleur demande à télétravailler, « l’administration peut autoriser l’utilisation de l’équipement informatique personnel de l’agent ». Et soudain, tout s’éclaire. Nous rendre la vie impossible sur note lieu de travail à l’aide de mesures sanitaires si drastique qu’elles sont intenables en présentiel, c’est nous pousser à demander à télétravailler et à faire du distanciel, sans que les universités n’aient à débourser le moindre rond pour les coûts (matériel, communication, etc.) découlant de l’exercice de nos fonctions…

    #le_monde_d'après #ESR #école #enseignement #enseignement_à_distance #distanciel #France #obligatoire #travail

    Copié-collé de messages reçus via la mailing-list Facs et Labos en lutte.

    • Faudra-t-il transformer les universités en supermarchés pour y revoir les étudiants ?

      Alors que se prépare déjà une rentrée de septembre où l’enseignement à distance risque d’avoir une grande part, il est important d’exprimer que le tout-numérique est inacceptable.

      La scène est devenue banale : un appel est lancé, une tête apparaît dans une fenêtre, puis d’autres suivent. Soudain, un enseignant, fébrile, dans une pièce tant bien que mal isolée des autres occupants du domicile, s’essaie à dispenser ce que l’on appelait autrefois un cours. C’est ainsi que, dans un silence d’outre-tombe numérique, ce personnage malhabile s’emploie à singer quelques-uns des artifices pédagogiques d’antan : humour, interpellations ou art de la rhétorique. Sauf que cette fois-ci, rien. Le silence et l’écho de sa seule voix résonnent en guise de réponse à ce qui permettait jadis de capter l’attention et de partager des idées. Désormais, l’enseignant numérique fait cours, mais sans vraiment savoir à qui il s’adresse. Cet enseignant se rassure toutefois en se disant qu’en ces temps de crise, lui aussi est au « front » et qu’il n’est pas question d’abandonner ses étudiants. Pourtant il ressent une grande frustration et un sentiment de faire autre chose que ce pour quoi il avait choisi d’embrasser ce métier.

      La crise sanitaire que nous traversons a surpris par sa soudaineté en bouleversant profondément nos quotidiens. L’enseignement supérieur n’est pas en reste de ce choc. Face à la crise, l’injonction à la continuité pédagogique fut immédiate, et bon nombre de collègues se sont employés avec zèle à maintenir un semblant de normalité. Les outils d’enseignement à distance ont alors déferlé, chacun y allant de son nouveau logiciel à installer, si bien que les PC sont rapidement devenus de véritables démonstrateurs pour enseignants virtuels. Pourtant, alors que la crise se tasse, et que nous commençons à disposer de données sur l’incidence mineure de ce virus sur les moins de 50 ans, nous observons que certains semblent prendre goût à ce climat de crise.
      Deux métiers différents

      Tandis que nous ignorons beaucoup de choses sur le devenir de cette épidémie, nous voyons un nombre conséquent de responsables de l’enseignement supérieur pratiquer le zèle dans leurs anticipations, prévoyant dès le mois de mai la dégradation sine die de nos conditions d’enseignement. C’est ainsi que, sous ces injonctions anxiogènes, nous sommes priés d’imaginer une rentrée de septembre autour de scénarios invraisemblables : des étudiants ayant cours une semaine sur deux, des cours en ligne (sans consentement des enseignants, donc ?) ou encore de réduire la vie étudiante à néant.

      S’il est compréhensible de parer à tous les scénarios, pérorer ex cathedra sur ce que « sera » la rentrée de septembre dès mai trahit l’inavouable : certains profitent de cette crise pour avancer leur propre agenda. Ne nous y trompons pas : l’expérience de l’enseignement à distance pour tous est globalement un fiasco. S’il est d’ordinaire un complément utile de l’enseignement en présentiel, sa substitution intégrale en montre toutes ses limites.

      D’abord, nous constatons qu’enseigner à distance n’est pas qu’une transposition de l’enseignement physique face caméra. Il s’agit de compétences tout à fait différentes et donc de deux métiers différents. Transmettre est un acte complexe, dans lequel l’enseignant fait appel aux sens, à l’émotion et à différentes techniques pédagogiques. De plus, les étudiants ne sont pas tous égaux face au numérique et à l’apprentissage !

      La difficulté majeure de cette forme d’enseignement reste l’absence d’implication émotionnelle entre l’étudiant et l’enseignant. C’est une des raisons pour lesquelles l’apprentissage par Mooc [« Massive Open Online Course », cours en ligne ouverts à tous, ndlr] est un échec à former en masse : au mieux, seuls 10% des Mooc sont terminés par les personnes inscrites, alors même qu’elles sont volontaires !
      Injonctions pressantes

      Ensuite, nous pouvons questionner ce que cette évolution, que certains voudraient voir durable, dit de la vision divergente autour de notre profession. Pour ceux qui, ayant adopté goulûment la novlangue pédagogique et ses approches « par compétence », considèrent que l’enseignement à l’université doit être exclusivement une formation opérationnelle utilitariste, le cours en ligne est une aubaine pour alléger la charge (budgétaire ?) de l’enseignement présentiel. Mais cette fascination pour le virtuel conduit aussi à une négation de ce qu’est la vie étudiante, faite d’interaction en cours, certes, mais aussi d’amitiés et d’expériences structurantes à un âge où se bâtit la vie d’adulte. Là encore, le numérique n’est qu’un pis-aller.

      Certains collègues se veulent rassurants et expliquent que tout ceci n’est que passager. On voudrait les croire et imaginer qu’après avoir investi des millions d’euros dans des logiciels, des plateformes et des équipements numériques, les universités les remisent ensuite aux côtés des stocks de masques d’Etat pour la prochaine crise. Pourtant, un doute peut nous saisir en lisant certaines injonctions pressantes à nous « transformer ». N’oublions pas qu’en France, le temporaire en temps de crise a souvent des airs de pérennité. Qui se rappelle encore que l’impôt sur le revenu a été créé initialement pour financer la Première Guerre mondiale ? Cent ans après, l’impôt persiste. Faut-il en déduire que la guerre a été plus longue que prévu ?

      Cette tribune n’aura probablement aucune incidence sur le cours des choses, et chaque collègue prend place dans le camp des fatalistes ou des optimistes. Néanmoins, il est important d’exprimer que le tout-numérique est inacceptable. Faudra-t-il que nous déguisions nos universités en églises pour pouvoir y bénéficier de la liberté de culte et ainsi les rouvrir ? Ou bien faudra-t-il y installer des supermarchés pour que les étudiants puissent y reprendre leur place ? L’absurdité et l’asymétrie des règles de reprise d’activité masquent mal le sacrifice générationnel qui est programmé contre la jeunesse qui va affronter le chômage, après avoir été privée de ses études.

      Nos étudiants méritent notre indignation publique. Si elle ne suffit pas et que nous refusons d’être complices du naufrage numérique, il faudra alors songer à quitter le navire pour aider cette génération sacrifiée autrement.

      https://www.liberation.fr/debats/2020/05/29/faudra-t-il-transformer-les-universites-en-supermarches-pour-y-revoir-les
      #temporaire #pérennité #tout-numérique #émotions #enseignement #MOOC #métier #normalité #transmission_du_savoir #implication_émotionnelle #vie_étudiante #indignation #génération_sacrifiée

    • Le gouvernement reporte la responsabilité politique de l’abandon du présentiel sur les universités, à grands coups de circulaires particulièrement suggestives mais qui n’imposent rien, voir

      https://services.dgesip.fr/T712/S780/fiches_pratiques_et_informations

      Voir en particulier fiche 10 :
      https://services.dgesip.fr/fichiers/Fiche_10_-_Hybrider_la_formation_dans_un_contexte_restreint.pdf
      et fiche 6 :
      https://services.dgesip.fr/fichiers/Fiche_6_-_Evaluer_et_surveiller_a_distance.pdf

      Message reçu via la mailing-list Facs et Labos en lutte, le 02.06.2020.

      Avec ce commentaire supplémentaire :

      Pour Rennes 1, nous avons reçu le document en pj, qui nous réclame aussi comme en Franche Comté du 20% de présentiel 80% de distanciel, pour pouvoir tout désinfecter, ce qui n’est écrit nulle part dans les fiches de la DGESIP.

      Dans mon UFR, je me retrouve à réclamer d’enseigner le samedi pour pouvoir ne pas enseigner à distance.

      La question des horaires est délicate. Si les conditions politico-sanitaires imposent des salles peu remplies, les amphis vont être une denrée rare, et je préfèrerais, je dois dire, faire cours le samedi (en me libérant un autre jour) plutôt que de reprendre le cirque du téléenseignement.

      Et ce qui est dingue, c’est la sidération collective qui est la nôtre, là où il faudrait, partout, réclamer des moyens humains pour dédoubler les groupes.

      –-> La pièce-jointe dont elle parle est la « PROPOSITION DE LOI VISANT À INSTAURER L’ENSEIGNEMENT NUMÉRIQUE DISTANCIEL DANS LES LYCÉES, COLLÈGES ET ÉCOLES ÉLÉMENTAIRES » (voir ci-dessus) où elle a surligné ce passage :

  • Like after #9/11, governments could use coronavirus to permanently roll back our civil liberties

    The ’emergency’ laws brought in after terrorism in 2001 reshaped the world — and there’s evidence that it could happen again.

    With over a million confirmed cases and a death toll quickly approaching 100,000, Covid-19 is the worst pandemic in modern history by many orders of magnitude. That governments were unprepared to deal with a global pandemic is at this point obvious. What is worse is that the establishment of effective testing and containment policies at the onset of the outbreak could have mitigated the spread of the virus. Because those in charge failed to bring in any of these strategies, we are now seeing a worrying trend: policies that trample on human rights and civil liberties with no clear benefit to our health or safety.

    Broad and undefined emergency powers are already being invoked — in both democracies and dictatorships. Hungary’s Prime Minister Viktor Orban was granted sweeping new powers to combat the pandemic that are unlimited in scope and effectively turn Hungary’s democracy into a dictatorship. China, Thailand, Egypt, Iran and other countries continue to arrest or expel anyone who criticizes those states’ response to coronavirus.

    The US Department of Justice is considering charging anyone who intentionally spreads the virus under federal terrorism laws for spreading a “biological agent”. Israel is tapping into previously undisclosed smartphone data, gathered for counterterrorism efforts, to combat the pandemic. States in Europe, anticipating that measures against Covid-19 will violate their obligations under pan-European human rights treaties, are filing official notices of derogation.

    A chilling example of the effects of emergency powers on privacy rights and civil liberties happened during the aftermath of the September 11, 2001 attacks and the resulting “war on terror”, in which successive US presidents pushed the limits of executive power. As part of an effort to protect Americans from security threats abroad, US government officials justified the use of torture in interrogation, broad state surveillance tactics and unconstitutional military strikes, without the oversight of Congress. While the more controversial parts of those programs were eventually dismantled, some remain in place, with no clear end date or target.

    Those measures — passed under the guise of emergency — reshaped the world, with lasting impacts on how we communicate and the privacy we expect, as well as curbs on the freedoms of certain groups of people. The post-September 11 response has had far-reaching consequences for our politics by emboldening a cohort of populist leaders across the globe, who ride to election victories by playing to nationalist and xenophobic sentiments and warning their populations of the perils brought by outsiders. Covid-19 provides yet another emergency situation in which a climate of fear can lead to suspension of freedoms with little scrutiny — but this time we should heed the lessons of the past.

    First, any restriction on rights should have a clear sunset clause, providing that the restriction is only a temporary measure to combat the virus, and not indefinite. For example, the move to grant Hungary’s Viktor Orban sweeping powers has no end date — thus raising concerns about the purpose of such measures when Hungary is currently less affected than other regions of the world and in light of Orban’s general penchant for authoritarianism.

    Second, measures to combat the virus should be proportional to the aim and narrowly tailored to reach that outcome. In the case of the US Department of Justice debate as to whether federal terrorism laws can be applied to those who intentionally spread the virus, while that could act as a potent tool for charging those who actually seek to weaponize the virus as a biological agent, there is the potential for misapplication to lower-level offenders who cough in the wrong direction or bluff about their coronavirus-positive status. The application of laws should be carefully defined so that prosecutors do not extend the boundaries of these charges in a way that over-criminalizes.

    Third, countries should stop arresting and silencing whistleblowers and critics of a government’s Covid-19 response. Not only does this infringe on freedom of expression and the public’s right to know what their governments are doing to combat the virus, it is also unhelpful from a public health perspective. Prisons, jails and places of detention around the world are already overcrowded, unsanitary and at risk of being “superspreaders” of the virus — there is no need to add to an at-risk carceral population, particularly for non-violent offenses.

    Fourth, the collectors of big data should be more open and transparent with users whose data is being collected. Proposals about sharing a person’s coronavirus status with those around them with the aid of smartphone data should bring into clear focus, for everyone, just what privacy issues are at stake with big tech’s data collection practices.

    And finally, a plan of action should be put in place for how to move to an online voting system for the US elections in November 2020, and in other critical election spots around the world. Bolivia already had to delay its elections, which were key to repairing its democracy in a transitional period following former President Evo Morales’s departure, due to a mandatory quarantine to slow the spread of Covid-19. Other countries, including the US, should take note and not find themselves flat-footed on election day.

    A lack of preparedness is what led to the current scale of this global crisis — our rights and democracies should not suffer as a result.

    https://www.independent.co.uk/voices/911-coronavirus-death-toll-us-trump-government-civil-liberties-a94586

    #le_monde_d'après #stratégie_du_choc #11_septembre #coronavirus #covid-19 #pandémie #liberté #droits_humains #urgence #autoritarisme #terrorisme #privacy #temporaire #Hongrie #proportionnalité #liberté_d'expression #surveillance #big-data #données

    ping @etraces

  • prism-break.org - Zintv
    https://zintv.org/outil/prism-break

    Met­tons fin à notre dépen­dance à l’é­gard des ser­vices pro­prié­taires. LE SITE PRISM-BREAK.org LUTTE CONTRE LA SURVEILLANCE Échap­per aux pro­grammes de sur­veillance néces­site de chan­ger la manière dont on uti­li­ser Inter­net. Néan­moins, trou­ver et uti­li­ser les bons outils numé­riques alter­na­tifs n’est pas for­cé­ment à la por­tée de tout le monde. Dans ce sens, le site prism-break.org pro­pose toute une série de logi­ciels qui n’ont pas été déve­lop­pés par les géants du web qui col­la­borent avec la NSA. (...)

    #Altaba/Yahoo ! #Apple #GCHQ #Google #Microsoft #Facebook #PalTalk #Skype #YouTube #TOR #cryptage #Android #Linux #smartphone #Tempora #Windows #XKeyscore #DuckDuckGo #VPN #iOS #historique #FiveEyes #PRISM (...)

    ##Altaba/Yahoo_ ! ##surveillance

  • Le #camp de #Nea_Kavala en #Grèce

    Dans l’Union européenne, certains camps pour personnes étrangères sont dits « ouverts » : les habitants sont libres d’y rester ou non, en attendant une réponse à leur demande d’asile – dans les faits, ils n’ont pas vraiment le droit ni les moyens de s’installer ailleurs.

    Le 28 février 2016, la création de ce camp intervient dans un contexte de #fermetures_des_frontières dans les #Balkans, et du besoin de répartir les habitants du camp d’#Idomeni. 3520 personnes sont alors transférées vers des tentes disposées sur le tarmac de l’aéroport militaire « Asimakopoulou »[1], pour une capacité d’accueil estimée à 2500 personnes. Sur le bitume, les personnes sont exposées aux vents et aux températures parfois extrêmes. Elles attendront le mois de novembre pour que des containers soient mis en place.

    Quatre ans plus tard, le camp est toujours là. L’Organisation Internationale pour les Migrations (OIM) considère Nea Kavala comme une « installation d’accueil de long terme » ; et y transfère notamment des réfugiés depuis le camp de Moria à Lesbos[2].

    Les habitants ont eu le temps de réaliser des « travaux d’agrandissement » sur certains containers (© Louis Fernier)

    La vie s’est organisée à la marge de la société grecque. Des personnes migrantes sont isolées, bloquées dans un lieu initialement prévu pour que des avions décollent et atterrissent. Sur le tarmac, les préfabriqués ont été installés « de façon à contenir les effets des rafales de vent » ; les personnes « accueillies » partagent des sanitaires extérieurs l’été comme l’hiver, et une unique source d’eau potable située à l’entrée du camp. Si elles le souhaitent, elles sont toutefois libres de marcher 5 KM le long d’une voie rapide pour atteindre la première pharmacie. Sur place, nos observations nous ont permis de réaliser la carte ci-après :

    Ce croquis illustre comment la vie prend forme dans un tel environnement. Les ressources et acteurs clés se situent presque exclusivement à l’entrée, dans le nord du camp.

    L’Etat grec a délégué la majeure partie des tâches de coordination au Danish Refugee Council. Les ministères de l’éducation et de la santé restent toutefois censés accomplir leurs missions respectives. Hélas, la majorité des enfants ne sont scolarisés que la moitié de la semaine, et le médecin du camp n’est présent que 15 heures par semaine. Deux associations non-gouvernementales, « Drop in the Ocean » et We Are Here », sont présentes au quotidien pour soutenir les personnes encampées. C’est au sein de We Are Here que nous effectuons une enquête de terrain depuis deux mois. Composée uniquement de bénévoles, cette association gère un espace social, organise des cours d’Anglais et de musique, et des activités pour les plus jeunes. Elle tient aussi un centre d’informations et un espace réservé aux femmes. Au quotidien, elle s’active dans un univers interculturel, comme le montre la diversité des nationalités présentes depuis 2016, et la nécessité de s’adapter en continue.

    Être bénévole à We Are Here, c’est aussi travailler dans un milieu en perpétuel mouvement : la population connait des fluctuations parfois très soudaines.

    Si la population n’a plus dépassé la capacité du camp depuis sa création, elle a connu certains pics – à la fin de l’été 2019 notamment. Les conditions de vie paraissaient alors peu dignes pour un « site d’accueil de long terme ». Une personne réfugiée témoignait le 02 septembre 2019 :

    “Nea Kavala Camp is one of hell’s chosen spots in Greece. And to think that this government sees it as a suitable place for vulnerable refugees shows to me how much it must hate us. Nobody should be expected to stay there.”

    Depuis le 12 mars 2020, les mesures de protection face au Covid-19 ont entraîné l’arrêt des activités de We Are Here ; cependant, nous sommes toujours en observation depuis le village voisin, en contact avec les habitants du camp. Et la crise sanitaire n’a pas freiné les travaux d’aménagement de Nea Kavala, en prévision de l’accueil de 1000 personnes transférées depuis l’île de Lesbos.

    A l’intérieur de ces tentes, les familles sont aujourd’hui réparties par petites salles. Un habitant nous rapporte que « l’on y entend les voisins, c’est très serré. Il y a une table, quatre chaises et quatre lits pour toute une famille ».

    Nea Kavala compte 372 arrivées depuis la fin du mois de février, dans le contexte actuel de pandémie mondiale. Le Danish Refugee Council estime que 700 nouvelles personnes arriveront encore d’ici l’été. Les locaux de We Are Here et de Drop in the Ocean ont été demandés pour organiser de potentielles mises en quarantaine. En attendant d’y retourner, nous espérons que le virus épargnera le camp ; et que l’ennui, l’isolement et les conditions d’accueil ainsi décrites n’entraineront pas de tensions. Nous retenons notre souffle.

    https://mi.hypotheses.org/2122
    #transferts #migrerrance #immobilité #Grèce_continentale #frontières #Thessalonique #Polykastro #Asimakopoulou #OIM #IOM #temporaire #isolement #marginalité #marges #aéroport #tarmac #préfabriqués #croquis #cartographie #visualisation #Danish_Refugee_Council #déscolarisation #accès_aux_soins #Drop_in_the_Ocean #We_are_here

  • Des trajectoires immobilisées : #protection et #criminalisation des migrations au #Niger

    Le 6 janvier dernier, un camp du Haut-Commissariat des Nations Unies pour les Réfugiés (HCR) situé à une quinzaine de kilomètres de la ville nigérienne d’Agadez est incendié. À partir d’une brève présentation des mobilités régionales, l’article revient sur les contraintes et les tentatives de blocage des trajectoires migratoires dans ce pays saharo-sahélien. Depuis 2015, les projets européens se multiplient afin de lutter contre « les causes profondes de la migration irrégulière ». La Belgique est un des contributeurs du Fonds fiduciaire d’urgence de l’Union européenne pour l’Afrique (FFUE) et l’agence #Enabel met en place des projets visant la #stabilisation des communautés au Niger

    http://www.liguedh.be/wp-content/uploads/2020/04/Chronique_LDH_190_voies-sures-et-legales.pdf
    #immobilité #asile #migrations #réfugiés #Agadez #migrations #asile #réfugiés #root_causes #causes_profondes #Fonds_fiduciaire #mécanisme_de_transit_d’urgence #Fonds_fiduciaire_d’urgence_pour_l’Afrique #transit_d'urgence #OIM #temporaire #réinstallation #accueil_temporaire #Libye #IOM #expulsions_sud-sud #UE #EU #Union_européenne #mise_à_l'abri #évacuation #Italie #pays_de_transit #transit #mixed_migrations #migrations_mixtes #Convention_des_Nations_Unies_contre_la_criminalité_transnationale_organisée #fermeture_des_frontières #criminalisation #militarisation_des_frontières #France #Belgique #Espagne #passeurs #catégorisation #catégories #frontières #HCR #appel_d'air #incendie #trafic_illicite_de_migrants #trafiquants

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    Sur l’incendie de janvier 2020, voir :
    https://seenthis.net/messages/816450

    ping @karine4 @isskein :
    Cette doctorante et membre de Migreurop, Alizée Dauchy, a réussi un super défi : résumé en 3 pages la situation dans laquelle se trouve le Niger...

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    Pour @sinehebdo, un nouveau mot : l’#exodant
    –-> #vocabulaire #terminologie #mots

    Les origine de ce terme :

    Sur l’origine et l’emploi du terme « exodant » au Niger, voir Bernus (1999), Bonkano et Boubakar (1996), Boyer (2005a). Les termes #passagers, #rakab (de la racine arabe rakib désignant « ceux qui prennent un moyen de trans-port »), et #yan_tafia (« ceux qui partent » en haoussa) sont également utilisés.

    https://www.reseau-terra.eu/IMG/pdf/mts.pdf