• La filiera della lana “senza frontiere” dell’arco alpino
    Scienze umane e sociali

    La lana, che in passato era merce preziosa capace di stimolare e alimentare l’economia locale, ha perso negli ultimi decenni il suo valore a causa della concorrenza internazionale. Oltre a non essere utilizzata per produrre filato, la lana deve essere smaltita, secondo le norme europee, come rifiuto speciale. Non solo non produce benessere e ricchezza, ma è diventata nel tempo un enorme problema per i pastori.

    Per contrastare questo fenomeno è partito da pochi mesi, il progetto #Alptextiles, nel tentativo di ricostruire a livello transnazionale la filiera tessile, partendo proprio dalla lana. Promosso dall’archivio di Etnografia e Storia Sociale di Regione Lombardia con diversi partners europei quali scuole, musei e università di Italia, Svizzera, Austria, Germania, Francia e Slovenia, il progetto punta prima di tutto a mettere in relazione le diverse realtà legate alla filiera della lana.

    I fili prodotti in Italia, e in particolare in #Val_Camonica incontreranno quelli dell’Austria del #Montafon, sui telai di tessitura della #Valposchiavo, per creare un nuovo tessuto.

    A #Poschiavo abbiamo incontrato alcuni protagonisti del progetto “senza frontiere: #Cassiano_Luminati, direttore del #Polo_Poschiavo; #Adriana_Zanoli, artigiana e decoratrice e #Tim_Marchesi, allevatore e pastore.

    https://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/laser/La-filiera-della-lana-%E2%80%9Csenza-frontiere%E2%80%9D-dell%E2%80%99arco-alpino

    #laine #filière_laine #textile #Alpes

  • Sulla differenziata dei rifiuti tessili l’Italia è ancora all’anno zero

    Dal primo gennaio 2022 è entrato in vigore l’obbligo di raccolta separata per i vecchi vestiti che vengono gettati. A oggi sono poche le esperienze sui territori: manca una regia a livello nazionale che permetta alla filiera di strutturarsi

    Nonostante l’attenzione maniacale degli abitanti di Capannori (LU) per ridurre la produzione di rifiuti e per differenziare il più possibile le singole frazioni, una quota significativa di vecchie magliette, jeans e giacche dismessi perché troppo stretti o fuori moda continuava a sfuggire alla raccolta. “Già da tempo avevamo i cassonetti dedicati, ma da un’analisi sui materiali presenti nei sacchi ‘grigi’ è emerso che i tessili rappresentavano ancora il 15% della frazione indifferenziata”, spiega ad Altreconomia l’assessore comunale all’Ambiente, Giordano Del Chiaro-. Così abbiamo deciso di togliere i cassonetti e a luglio 2022 abbiamo avviato la raccolta porta a porta”.

    Ai cittadini viene consegnato un apposito sacco trasparente -che viene ritirato ogni due mesi- dove possono mettere indumenti, scarpe, borse, coperte, cuscini, lenzuola e tovaglie senza preoccuparsi delle loro condizioni: è possibile, infatti, conferire anche capi danneggiati o usurati. “La sperimentazione è andata bene, anche per merito dei cittadini di Capannori che sono molto sensibili a questi temi -sottolinea l’assessore-. Nel 2023 il porta a porta è diventato strutturale per questa frazione e si inserisce all’interno di un progetto più ampio: attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) abbiamo ottenuto un finanziamento da cinque milioni di euro per l’attivazione di centro di selezione con una capacità di trattamento di 6.500 tonnellate l’anno”.

    Qui si svolgeranno le attività di selezione dei capi, separando quelli rovinati da quelli in buone condizioni, i maglioni di lana dai jeans, i vestiti invernali da quelli estivi e così via con l’obiettivo di incanalarli separatamente lungo la filiera più corretta: il riutilizzo (ad esempio la commercializzazione sul mercato second hand), il riciclo (il recupero della fibra per produrre nuovi capi o l’utilizzo del materiale tessile di scarto per realizzare imbottiture) o, in quota residua, per tutto quello che non è possibile utilizzare altrimenti, lo smaltimento.

    Quella di Capannori è una delle poche novità che si sono registrate nel settore da quando, il primo gennaio 2022, è entrato in vigore l’obbligo di raccolta differenziata dei rifiuti tessili in base a quanto previsto dal decreto legislativo 116/2020 con cui l’Italia ha anticipato di tre anni l’attuazione di uno dei decreti contenuti nel “Pacchetto di direttive sull’economia circolare” adottato dall’Unione europea nel 2018. “Non si sta facendo nulla per organizzare la raccolta differenziata a livello nazionale, che però dovrà tassativamente entrare in vigore nel 2025 in base a quanto previsto dalle normative europee -commenta Rossano Ercolini, presidente della Rete Zero Waste Europe-. Da un punto di vista operativo sono stati due anni persi, anche se alcune realtà hanno iniziato a porsi il problema e a sperimentare modelli”.

    “L’assenza di una norma di riferimento pone tutti in una situazione di attesa che non aiuta le aziende e ovviamente neanche l’ambiente” – Giancarlo Dezio

    A fronte dell’obbligo di avvio della raccolta differenziata non sono stati approvati i provvedimenti necessari a strutturare la filiera. Aziende e consorzi sono quindi ancora in fase di attesa: “Abbiamo sollecitato i ministeri interessati a redigere un testo attorno al quale potersi confrontare per rendere a tutti gli effetti operativa la gestione dei prodotti tessili -spiega ad Altreconomia Giancarlo Dezio, direttore generale di Ecotessili, consorzio nato nel 2021 per iniziativa di Federdistribuzione-. L’assenza di una norma di riferimento pone tutti in una situazione di attesa che non aiuta le aziende e ovviamente neanche l’ambiente”. Oltre a Ecotessili, in questi anni hanno preso vita anche altre realtà, tra cui Re.Crea, coordinato dalla Camera nazionale della moda, Cobat Tessile e Retex.Green, lanciato dal Sistema moda Italia (Smi) ed Erion.

    A questo si aggiunge il fatto che solo a inizio luglio 2023 la Commissione europea ha pubblicato la sua proposta per la revisione della Direttiva quadro sui rifiuti (tra cui i tessili) che comprende anche la creazione di sistemi di Responsabilità estesa del produttore (Erp) obbligatori e armonizzati tra tutti i Paesi dell’Unione: sul modello di quanto avviene, ad esempio, per i rifiuti elettrici ed elettronici, i marchi di moda e i produttori tessili saranno tenuti a pagare un contributo per ogni capo immesso sul mercato, che andrà poi a coprire i costi di raccolta, selezione, riutilizzo e riciclo. Una proposta accolta con favore dalla Federazione europea di organizzazioni ambientaliste (European environmental bureau) che invita la Commissione a fissare obiettivi ambiziosi: “L’Ue si è impegnata a fermare la fast fashion. Ora è giunto il momento di una politica veramente trasformativa, che stabilisca contributi adeguati -ha dichiarato Emily Macintosh, senior policy officer della federazione per il settore tessile-. Non possiamo regalare ai brand un lasciapassare per continuare a produrre in eccesso capi di bassa qualità progettati per una breve durata di vita e aspettarci di riciclare quantità sempre maggiori di rifiuti tessili”. I tempi per l’approvazione della direttiva però si prospettano lunghi, anche alla luce delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo del giugno 2024.

    Tra chi guarda con attenzione a quello che succede a Bruxelles ci sono anche le tante realtà del mondo della cooperazione sociale cui, da anni, molti Comuni italiani o municipalizzate affidano la raccolta di questa frazione. “Quaranta realtà che aderiscono a Confcooperative Federsolidarietà raccolgono circa 50mila tonnellate di rifiuti tessili, quasi un terzo del totale a livello nazionale. Sono presenti in 11 Regioni e attraverso questa attività creano occupazione per oltre cinquemila lavoratori, di cui 1.500 persone con disabilità o soggetti svantaggiati -spiega ad Altreconomia il presidente Stefano Granata-. Abbiamo preso consapevolezza della nostra forza e delle competenze accumulate in questi anni sui tanti territori in cui siamo presenti: abbiamo una rete capillare e diffusa, ma quello che ci manca è dare una risposta più strutturata alle fasi successive della filiera.

    Sono 50mila le tonnellate di rifiuti tessili che raccolgono le quaranta realtà aderenti a Confcooperative Federsolidarietà, circa un terzo del totale a livello nazionale. Sono presenti in 11 Regioni e attraverso questa attività creano occupazione per oltre cinquemila lavoratori, di cui 1.500 persone con disabilità o soggetti svantaggiati

    Per questo vogliamo crescere ancora, anche per creare più posti di lavoro, e nel corso del 2024 daremo vita a un’associazione per riunire tutte le nostre realtà attive nel settore”. Tra quelle che hanno iniziato a tracciare un percorso virtuoso lungo i passaggi successivi alla raccolta c’è Vestisolidale, una delle nove cooperative della rete Riuse attiva in circa 400 Comuni delle province di Milano, Varese, Monza e Brianza, Bergamo e Brescia che nel corso del 2022 ha raccolto e avviato al recupero circa 13mila tonnellate di rifiuti tessili. “A oggi il sistema è stato incentrato sulla presenza di cassonetti dedicati all’abbigliamento in buone condizioni, mentre tutto il resto spesso finiva nell’indifferenziata -spiega Matteo Lovatti, presidente di Vestisolidale-. In un anno noi mediamente raccogliamo 4,5 chili per abitante, ma le stime parlano di un immesso al consumo di 20 chili all’anno per persona. La sfida è riuscire a intercettare quella differenza”.

    Ma la raccolta non è tutto. Già da alcuni anni, infatti, Vestisolidale gestisce negozi per la vendita diretta di capi second hand e nel 2024 metterà in funzione anche uno stabilimento con sede a Rho, Comune alle porte di Milano, per la selezione e la preparazione del materiale tessile per le successive fasi di lavorazione: “L’impianto è stato autorizzato per trattare 20mila tonnellate di materiale all’anno e a regime contiamo di assumere una trentina di dipendenti”, aggiunge Lovatti. L’occhio esperto dei selezionatori permette di andare a dividere quei capi che possono essere re-immessi in commercio da quelli che invece devono essere destinati al riciclo e, più nel dettaglio, di separare le singole fibre che possono così essere trasformate in “materia prima-seconda” per la produzione di nuovi capi in cotone, lana o cachemire rigenerato.

    “Focalizzarsi sulla gestione dei rifiuti e non su come e quanto si produce significa ignorare il vero problema. La circolarità rischia di essere una scappatoia” – Dario Casalini

    “In Italia è presente una rete molto forte di realtà che hanno una grande esperienza e professionalità in merito al riutilizzo della frazione tessile -sottolinea Raffaele Guzzon, presidente del consorzio Erion, che riunisce realtà come Amazon, Artsana e Save the Duck-. Ma quello su cui vogliamo puntare è garantire la corretta gestione delle frazioni non riutilizzabili e che non possono essere re-immesse sul mercato del second hand: guardiamo ad esempio alle aziende che si stanno specializzando nel riutilizzo degli scarti tessili per produrre imbottiture o materiali fonoassorbenti”.

    Chi invece prova a fare un passo indietro e osservare la questione della gestione dei rifiuti tessili nel suo complesso è Dario Casalini, già docente di Diritto pubblico, oggi amministratore delegato del marchio di maglieria Oscalito 1936 e fondatore della rete Slow Fiber, una realtà che vuole essere un’alternativa al fenomeno dilagante del fast fashion. “Preoccuparsi solo dell’ultima fase di vita dei capi d’abbigliamento è come curare un mal di testa senza intervenire sulle cause -spiega-. Focalizzarsi sulla gestione dei rifiuti tessili e non su come e quanto si produce significa ignorare il vero problema. Tutta l’attenzione che, anche a livello europeo, si sta mettendo sulla circolarità è positiva, ma c’è il rischio che possa essere una scappatoia per consentire al sistema della moda di continuare a operare come sta facendo ora”.

    https://altreconomia.it/sulla-differenziata-dei-rifiuti-tessili-litalia-e-ancora-allanno-zero
    #déchets #déchets_textiles #recyclage #textiles #industrie_textiles #Italie #habits #sélection #tri #ré-usage #loi

  • A la frontière entre les Etats-Unis et le Mexique, des arrivées de migrants en forte hausse
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/12/29/a-la-frontiere-entre-les-etats-unis-et-le-mexique-des-arrivees-de-migrants-e

    A la frontière entre les Etats-Unis et le Mexique, des arrivées de migrants en forte hausse
    Par Anne Vigna (Mexico, correspondante)
    Lors de leur venue à Mexico pour une réunion consacrée à la question migratoire, mercredi 27 décembre, les membres de la délégation américaine – composée du chef de la diplomatie, Antony Blinken, et du secrétaire à la sécurité nationale, Alejandro Mayorkas – arboraient un grand sourire. C’est du moins ce que montrent les photos de leur rencontre avec le président mexicain, Andres Manuel Lopez Obrador (dit « AMLO »). Mais aucun communiqué n’a été diffusé à l’issue de la discussion qui a duré plus de deux heures. « AMLO » comme la ministre des affaires étrangères mexicaine, Alicia Barcen, ont répété que la rencontre avait été « très positive » et qu’elle allait désormais se reproduire mensuellement, en invitant d’autres pays d’Amérique centrale, eux aussi concernés par le phénomène migratoire.
    Le président mexicain a précisé, lors de sa « matinale », son intervention télévisée quotidienne, jeudi 28 décembre que « les Etats-Unis ont accepté de rouvrir leurs ponts frontaliers », qui avaient été fermés à la mi-décembre devant l’afflux de migrants. « La relation avec nos voisins est fondamentale : nous devons en prendre soin et nous devons également prendre soin des migrants. Nous devons veiller à ce qu’il n’y ait pas d’abus, d’enlèvements ou d’accidents en cours de route. » Cette communication cache mal une situation de plus en plus dramatique à la frontière entre les deux pays : selon les chiffres communiqués par la police aux frontières américaine, près de 10 000 personnes sont arrivées chaque jour à la frontière sud des Etats-Unis en décembre. D’octobre 2022 à septembre 2023, 3,2 millions de migrants se sont rendus aux autorités américaines contre 2,7 millions lors de la précédente période, selon le département des douanes américain.
    D’autre part, une nouvelle caravane de près de 10 000 migrants est partie à pied du Chiapas, dans le sud du Mexique, le 25 décembre, et devrait arriver dans trois semaines à Mexico. L’image de cette colonne d’hommes et de femmes, reproduite dans de nombreux médias américains, a sonné l’alarme dans les Etats du sud des Etats-Unis. Le Texas a renforcé la protection de sa frontière et a affrété des bus pour emmener les migrants vers d’autres Etats du pays, en particulier ceux dirigés par les démocrates, comme New York et la Californie.« Ces gens fuient des situations extrêmement violentes, et cela va continuer. On ne voit toujours aucune stratégie américaine se dessiner, si ce n’est une réponse à l’urgence. Le Mexique, au contraire, a mis au point plusieurs programmes en Amérique centrale. Même si ce n’est pas parfait, c’est un début », estime la coordinatrice de l’organisation Agenda Migrante, Eunice Rendon. Face aux pressions américaines, le Mexique risque de renforcer encore les contrôles et d’augmenter les expulsions, obligeant les migrants à prendre toujours plus de risques pour parvenir à destination.

    #Covid-19#migrant#migration#etatsunis#mexique#texas#californie#newyork#frontiere#migrationirreguliere#ameriquecentrale#sante#expulsion#politiquemigratoire

  • I grandi marchi della fast fashion non vogliono rinunciare al petrolio russo

    Nel 2023 le due principali società produttrici di poliestere, l’indiana #Reliance industries e la cinese #Hengli group, hanno continuato a utilizzare il greggio di Mosca. La maggior parte dei brand -da #Shein a #H&M, passando per #Benetton- chiude un occhio o promette impegni generici. Il dettagliato report di #Changing_markets.

    Quest’anno i principali produttori globali di poliestere, la fibra tessile di origine sintetica derivata dal petrolio, non solo non hanno interrotto i propri legami con la Russia ma al contrario hanno incrementato gli acquisti della materia prima fondamentale per il loro business. È quanto emerge da “#Crude_Couture”, l’inchiesta realizzata da Changing markets foundation pubblicata il 21 dicembre, a un anno di distanza dalla precedente “Dressed to kill” che aveva svelato i legami segreti tra i principali marchi della moda e il petrolio di Mosca.

    “Quest’indagine -si legge nell’introduzione- evidenzia il ruolo fondamentale svolto dall’industria della moda nel perpetuare la dipendenza dai combustibili fossili e segnala una preoccupante mancanza di azione per rompere i legami con il petrolio russo”. Un’inazione, sottolineano i ricercatori, che sta indirettamente finanziando la guerra in Ucraina. E non si tratta di un contributo di poco conto: le fibre sintetiche, infatti, pesano per il 69% sulla produzione di fibre e il poliestere è di gran lunga il più utilizzato, lo si può trovare infatti nel 55% dei prodotti tessili attualmente in circolazione. Se non ci sarà una netta inversione di tendenza, si stima che entro il 2030 quasi tre quarti di tutti i prodotti tessili verranno realizzati a partire da combustibili fossili.

    Il poliestere è fondamentale per l’esistenza dell’industria del fast fashion, e ancora di più per i marchi di moda ultraveloce come Shein: un’inchiesta pubblicata da Bloomberg ha mostrato che il 95% dei capi prodotti dal marchio di moda cinese conteneva materiali sintetici mentre per brand come #Pretty_Little_Thing, #Misguided e #Boohoo la percentuale era dell’83-89%.

    Al centro delle due inchieste realizzate da Changing markets ci sono due importanti produttori di questo materiale: l’indiana #Reliance_industries (con una capacità produttiva stimata in 2,5 milioni di tonnellate all’anno) e la cinese #Hengli_group. I filati e i tessuti che escono dai loro stabilimenti vengono venduti ai produttori di abbigliamento di tutto il mondo che, a loro volta, li utilizzano per confezionare magliette, pantaloni, cappotti, scarpe e altri accessori per importanti brand. Su 50 marchi presi in esame in “Dressed to kill” 39 erano direttamente o indirettamente collegati alle catene di fornitura di Hengli group or Reliance industries, tra questi figurano #H&M, #Inditex (multinazionale spagnola proprietaria, tra gli altri, di #Bershka e #Zara), #Adidas, #Uniqlo e #Benetton.

    Anche dopo la pubblicazione di “Dressed to kill”, Reliance e Hengli hanno continuato ad acquistare petrolio russo. A marzo 2023 l’India ha acquistato da Mosca la quantità record di 51,5 milioni di barili di greggio: “Insieme a Nayara Energya, la principale compagnia petrolifera indiana, Reliance industries ha rappresentato più della metà (52%) delle importazioni totali”, si legge nell’inchiesta. In crescita anche le importazioni cinesi (+11,7% rispetto all’anno precedente). “Nel maggio 2023, #Hengli_Petrochemical ha ricevuto 6,44 milioni di barili di greggio russo, come riportato dai dati di tracciamento delle navi dell’agenzia Reuters -scrivono gli autori del report-. Queste tendenze rivelano il persistente legame tra le aziende di moda che si riforniscono da questi produttori di poliestere e il petrolio russo”. Oltre alla violazione delle sanzioni imposte a Mosca da diversi governi, compresi quello degli Stati Uniti e dell’Unione europea.

    I ricercatori di Changing markets hanno quindi deciso di tracciare un bilancio e hanno inviato un questionario a 43 brand (compresi i 39 già presi in esame in “Dressed to kill”) per verificare se avessero interrotto i rapporti con Reliance ed Hengli. Appena 18 hanno risposto alle domande e solo due aziende (Esprit e G Star Raw) hanno dichiarato di aver tagliato i ponti con i due produttori. Una terza (Hugo Boss) si è impegnata a eliminare gradualmente il poliestere e il nylon: “Le altre rimangono in silenzio o minimizzano l’urgenza della crisi ucraina con vaghe promesse di cambiamento a diversi anni di distanza o con false soluzioni, come il passaggio al poliestere riciclato, per lo più da bottiglie di plastica”, si legge nel report.

    Tre società (H&M, C&A e Inditex) hanno risposto al questionario “distogliendo l’attenzione” dal legame con il petrolio russo per enfatizzare future strategie di transizione dal poliestere vergine a quello riciclato (da bottiglie di plastica) o verso materiali di nuova generazione. H&M ad esempio ha dichiarato la propria intenzione di non approvvigionarsi più di poliestere vergine entro il 2025 “tuttavia non ha chiarito le sue attuali pratiche per quanto riguarda i fornitori di poliestere legati al petrolio russo”. Analogamente, la catena olandese C&A afferma di volersi concentrare su materiali riciclati e di nuova generazione senza fornire informazioni sui legami con i fornitori oggetto dell’inchiesta. Nemmeno la spagnola Inditex ha risposto alle domande in merito a Reliance ed Hengli. Anche l’italiana Benetton avrebbe fornito risposte insufficienti o generiche: “Si è impegnata vagamente a una transizione verso materiali ‘preferiti’ -scrivono gli autori dell’inchiesta-, senza specificare però l’approccio ai materiali sintetici”.

    Tra quanti non hanno risposto al questionario c’è proprio Shein ma i suoi legami con il produttore indiano di poliestere sono evidenti: a maggio 2023 infatti le due società hanno sottoscritto un accordo in base al quale il colosso può utilizzare le capacità di approvvigionamento, l’infrastruttura logistica e l’ampia rete di negozi fisici e online di Reliance Retail, segnando così il ritorno di Shein in India dopo una pausa di tre anni. “Poiché il poliestere rappresenta il 64% del mix di materiali del brand e il 95,2% dell’abbigliamento di contiene plastica vergine, l’imminente collaborazione con Reliance suggerisce che una parte significativa delle circa 10mila novità giornaliere di Shein potrebbe in futuro essere derivata da prodotti di plastica vergine prodotti grazie a petrolio russo”, conclude il report.

    https://altreconomia.it/i-grandi-marchi-della-fast-fashion-non-vogliono-rinunciare-al-petrolio-

    #Russie #pétrole #fast-fashion #mode #polyester #rapport #textile #industrie_textile #industrie_de_la_mode

    • Fossil Fashion

      Today’s fashion industry has become synonymous with overconsumption, a snowballing waste crisis, widespread pollution and the exploitation of workers in global supply chains. What is less well known is that the insatiable fast fashion business model is enabled by cheap synthetic fibres, which are produced from fossil fuels, mostly oil and gas. Polyester, the darling of the fast fashion industry, is found in over half of all textiles and production is projected to skyrocket in the future. Our campaign exposes the clear correlation between the growth of synthetic fibres and the fast fashion industry – one cannot exist without the other. The campaign calls for prompt, radical legislative action to slow-down the fashion industry and decouple it from fossil fuels.

      Crude Couture: Fashion brands’ continued links to Russian oil

      December 2023

      Last year, our groundbreaking ‘Dressed to Kill’ investigation delved deep into polyester supply chains, unveiling hidden ties between major global fashion brands and Russian oil. We exposed Russia’s pivotal role as a primary oil supplier for key polyester producers India’s Reliance Industries and China’s Hengli Group, which were found to be supplying fibre for the apparel production of numerous fashion brands.

      Now, a year later, we returned to the fashion companies to evaluate if they have severed ties with these suppliers. Shockingly, our latest report reveals an alarming trend: the two leading polyester producers are increasingly reliant on war-tainted Russian oil in 2023. Despite prior warnings about these ties, major fashion brands continue to turn a blind eye, profiting from cheap synthetics, while Ukraine suffers. Only two companies – Esprit and G Star Raw – said they cut ties with the two polyester producers, while Hugo Boss committed to phase out polyester and nylon. The others remain silent or downplay the urgency of the Ukrainian crisis with vague promises of change several years ahead or with false solutions, such as switching to recycled polyester – mostly from plastic bottles. This investigation sheds light on the fashion industry’s persistent dependance on fossil fuel and their lack of action when it comes to climate change and fossil fuel phase out.

      https://changingmarkets.org/portfolio/fossil-fashion

  • Im Uber: Ex-Botschaftergattin Shawne Fielding zusammengeschlagen
    https://www.berliner-zeitung.de/panorama/im-uber-ex-botschafter-gattin-shawne-fielding-zusammengeschlagen-li


    Glamour-Paar der Berliner 2000er: Shawne Fielding und Thomas Borer, hier im Jahr 2007 beim Wiener Opernball.

    Es trifft die Reichen und Schönen nur, wenn sie unmittelbar von Armut und Ausbeutung profitiren wollen. Es gibt gute Gründe dafür, dass die Angehörigen der Oberklassen eigene Limousinen und Chauffeure haben. Jetzt wissen ein paar mehr : Mit Uber fahren ist gefährlich, weil man nie weiß, wer wirklich am Steuer sitzt.

    26.12.2023 Marcus Weingärtner - Shawne Fielding, die Ex-Frau des ehemaligen Schweizer Botschafters Thomas Borer, wurde in Dallas Opfer einer Gewalttat.

    Berlinerinnen und Berlinern ist Shawne Fielding ein Begriff: In den 2000ern brachten der Schweizer Botschafter Thomas Borer und seine Ehefrau Fielding den lang vermissten Glamour in die deutsche Hauptstadt. Sie unterhielten Berlin mit ihren Auftritten und dem einen oder anderen Skandälchen um angebliche Affären und Abnehmpülverchen.
    Opfer einer Gewalttat

    Shawne Fielding und Thomas Borer waren von 1999 bis 2014 verheiratet. Die beiden haben zwei gemeinsame Kinder. Danach war die gebürtige Texanerin sieben Jahre mit dem Eishockey-Spieler Patrick Schöpf (56) zusammen. Das Paar nahm 2018 an der Sendung „Sommerhaus der Stars“ teil. Nun wurde Fielding in ihrer Heimat Dallas/Texas Opfer einer Gewalttat, wie die Bild-Zeitung berichtete.

    Offenbar wurde Fielding während einer Uber-Fahrt in Dallas angegriffen und geschlagen, wie die Ex-Botschaftergattin in den sozialen Medien mitteilte:

    „Heiligabend mit der Unterstützung meiner Familie und meiner Freunde. Ich wurde gestern in einem Uber brutal angegriffen und für tot geglaubt zurückgelassen. Jeder Knöchel an meiner rechten Hand wurde genäht. Ich bin dankbar für das Weihnachtswunder, am Leben zu sein. Bitte sag den Leuten jeden Tag, wie sehr du sie liebst. Danke, Weihnachtsmann, was auch immer mir Kraft gab, zu kämpfen. Das geschah am helllichten Tag – ich hatte keine Einkaufstaschen, war aber alleine. #neveragain

    #USA #Texas #Dallas #Uber #Kriminalität

  • Marine pollution, a Tunisian scourge: Jeans industries destroy the marine ecosystem in the #Ksibet_El-Mediouni Bay

    The Made in Tunisia clothes industry for the European market consumes large amounts of water and pollutes Tunisia’s coastline. In Ksibet El Mediouni, the population is paying the price of the environmental cost of #fast_fashion.

    Behind the downtown promontory, blue-and-white tourist villas and monuments celebrating former Tunisian President Habib Bourguiba, born in Monastir, give way to gray warehouses. Made in Tunisia clothes for export are cut, sewn, and packed inside these hangars and garages, many undeclared, by a labor force mostly of women, who are paid an average of 600 dinars, as confirmed by the latest social agreement signed with the main trade union, the Tunisian General Labour Union (UGTT), obtained by inkyfada.

    The triangle of death”

    The clothes are then shipped to the European Union, the primary export market. While most Tunisians can afford to buy second-hand clothes on the so-called “fripes” markets, 82% of Tunisian textile production leaves the country, according to the latest figures published in a report by the NGO Avocats Sans Frontières. Tunisia, like Morocco and Egypt, are attractive destinations for textile manufacturing multinationals due to their geographical proximity to the European market.

    Here, the tourist beaches quickly become a long, muddy marine expanse. The road that leads to the working-class neighborhoods south of Monastir, known as a hub of the textile industry - Khniss, Ksibet, Lamta, Ksar Hellal, Moknine - is paradoxically called Boulevard de l’Environnement (Environment Boulevard).

    This street name can be found in every major city in the country as a symbol of the ’authoritarian environmentalism of Ben Ali’s 1990s Tunisia’ - as researcher Jamie Furniss called it - redeeming the image of dictatorship ’by appealing to strategic hot-button issues in the eyes of the “West.”’

    After rolling up his pants, he dips his feet into the dirty water and climbs into a small wooden boat. ’Nowadays, to find even a tiny fish, we must move away from the coast.’

    ’Sadok is one of the last small fishermen who still dares to enter these waters,’ confirms Yassine, a history professor in the city’s public school, watching him from the main road to cope with the strong smell.

    Passers-by of Boulevard de l’Environnement agree: the Ksibet El-Mediouni Bay died ‘because of an abnormal concentration of textile companies in a few kilometers’, they say, polluting the seawater where the population used to bathe in summer.

    The region is home to five factory clusters. ’Officially, there are 45 in all, but there are illegal ones that we cannot count or even notice. They are often garages or warehouses without signs,’ confirms Mounir Hassine, head of Monastir’s Tunisian Forum for Economic and Social Rights.

    This is how the relocation of textile industries works: the big brands found in French, Italian, Spanish, and German shops relocate to Tunisia to cut costs. ’Then some local companies outsource production to other smaller, often undeclared companies to reduce costs and be more competitive,’ explains Habib Hazemi, President of the General Federation of Textiles, Clothing, Footwear, and Leather in the offices of the trade union UGTT.

    According to Hassine from the Tunisian Forum for Economic and Social Rights (FTDES), ‘undeclared factories often dig wells to access groundwater and end up polluting the Bay by discharging wastewater directly into the sea’.

    The public office responsible for water treatment (Office National de l’Assainissement, ONAS) ’fails to treat all this wastewater,’ he adds, so State and private parties bounce responsibilities off each other’. ’The result is that nothing natural is left here,’ Yassine keeps repeating.

    The unheard call of civil society

    Fatma Ben Amor, 28, has learned the meaning of pollution by looking at it through her window and listening to the stories of her grandparents, born and raised in the small town of Ksibet El Mediouni. ’ They often tell me that people used to bathe and go fishing here. I never knew the ’living’ beach,’ says this local activist.

    After the revolution, her city became the center of a wave of protests in 2013 by the population against ’an ecological and health disaster,’ it was written on the protesters’ placards. Nevertheless, the protests yielded no results, and marine pollution has continued.

    Founded in 2014, the Association for the Protection of the Environment in Ksibet el Mediouni (APEK) monitors the level of marine pollution in the so-called ’triangle of death.’ Fatma tries to raise awareness in the local community: ’We began with a common reflection on resource management in the region and the idea of reclaiming our bay. Here, youth are used to the smells, the waste, the dirty sea.’

    Under one of the bridges on Boulevard de l’Environnement runs one of the few rivers where there is still water. That water, however, ‘gathers effluent from the area’s industries’, the activists complain. ’The water coming from Oued el-Melah, where all the factories unload, pollutes the sea,’ she explains by pointing to the oued.

    According to the latest report by Avocats Sans Frontières (ASF) and FTDES in August 2023, one of the leading causes of marine pollution in Monastir governorate would be the denim washing process, a practice used in the dyeing of jeans.

    The ASF research explains that the jeans sector is characterized by technical processes involving chemicals - such as acetic acid used for washing, several chemical detergents and bleaching products, or hydrogen peroxide - and massive water consumption in a country suffering from water stress.

    During the period of 2011-2022, Tunisia has ratified important international texts that will strengthen and enrich Tunisian national law in terms of pollution control, environmental security, and sustainable development. ’ Although the regulations governing environmental protection and the use of water resources are strict, the authorities in charge of controls and prosecutions are outdated and unable to deal with the infringements,’ the ASF report confirms.

    According to both civil society organizations, there are mainly two sources of pollution in Ksibet Bay: polluting industries discharging chemicals directly into the seawater and the Office de l’Assainissement (ONAS) , ’which should be responsible for treating household wastewater, but mainly manages wastewater from factories discharging, and then throw them into the sea,’ Fatma Ben Amor explains.

    ’Take, for example, the ONAS plant at Ouad Souk, in Ksibet Bay. Created in 1992, it has a treatment capacity of 1,680 cubic meters per day, with a population more or less adapted to this capacity. It receives more than 9,000 cubic meters daily on average,’ Mounir Hassine confirms.

    ONAS did not respond to our interview requests. The Tunisian Textile and Clothing Federation (FTTH), representing part of the sector’s employers, assures that ‘the large companies in the region have all the necessary certifications and now use a closed cycle that allows water to be reused.’ The FTTH adds that the sector is taking steps towards the energy transition and respect for the environment.

    UTICA Monastir, the other branch of the employers’ association, has also confirmed this information. While a system of certifications and environmental audits has been put in place to monitor the work of large companies, ‘the underground part of the production chain escapes the rules,’ admits one entrepreneur anonymously.

    This pair of jeans is water’

    ONAS finds itself treating more water than the treatment stations’ capacities because, within a few decades, the Monastir region has radically changed its economic and resource management model. A few kilometers from the towns on the coast, roads run through olive groves that recall the region’s agricultural past.

    But today, agriculture and fishing are also industrialized: the governorate of Monastir produced almost 20,000 tonnes of olive oil by 2020. With 14 aquaculture projects far from the coast, the region ranks first in fish production, with an estimated output of between 17,000 and 18,000 tonnes by 2022.

    A wave of drought in the 1990s intensified the rural exodus from inland Tunisia to the coast. ’This coastal explosion has been accompanied by a development model that looked to globalization rather than domestic needs,’ Mounir Hassine from FTDES explains. ’Our region has been at the heart of so-called vulnerable investments, which bring in cheap labor without considering environmental needs and rights.’

    This sudden increase in residents has put greater pressure on the region’s natural water resources, ‘which supply only 50% of our water needs,’ he adds. The remaining 50 percent comes from the increasingly empty northern Oued Nebhana and Oued Medjerda dams. However, much of the water resources are not used for household needs but for industrial purposes.

    According to the ASF report, export companies draw their water partly from the public drinking water network (SONEDE). But the primary source is wells that draw water directly from the water table: ’Although the water code regulates the use of wells, 70% of the water used by the textile industry comes from the region’s unauthorized groundwater’. ’Most wells are dug inside the factories,’ Mounir Hassine from FTDES confirms.

    Due to the current drought wave and mismanagement of resources, Tunisia is now in water poverty, with an average use of 450 cubic meters of water per citizen (the poverty line is 500), according to 2021 data. Moreover, the Regional Agricultural Commission figures show that the water level in Monastir’s aquifers falls between three and four meters yearly.

    Water mismanagement is not just a problem in the textile industry. This type of production, however, is highly water-hungry, especially when it comes to the denim washing process.

    Even if the big brands are at the top of the production chain that ends on the coast of Ksibet El Medeiouni, ‘ they will rarely be held accountable for the social and environmental damage they leave behind,’ admits an entrepreneur in the sector working in subcontracting. Tunisian companies all work for several brands at the same time, and they don’t carry the same name as the big brands, which outsource production.

    ‘Tracing the chain of responsibility is complicated, if not impossible,’ confirms Adel Tekaya, President of UTICA #Monastir.

    The EU wants to produce more green but continues to relocate South

    Once taken directly from the aquifer or from the public drinking water company, SONEDE, a part of the waters polluted by chemical processes, thus ends up in the sea without being filtered. According to scholars, textile dyeing is responsible for the presence of 72 toxic chemicals in water, 30 of which cannot be eliminated.

    According to the World Bank, between 17% and 20% of industrial water pollution worldwide is due to the dyeing and finishing processes used in the textile industry. A figure confirmed by the European Parliament states:

    “Textile production is estimated to be responsible for around 20% of global clean water pollution from dyeing and finishing products".

    The EU has set itself the target of achieving good environmental status in the marine environment by 2025 by applying the Marine Strategy Framework Directive. Still, several polluting sectors continue to relocate their production to the Southern countries, where ‘there are fewer controls and costs,’ explains the entrepreneur requesting anonymity for fear of consequences for criticizing a ’central sector’ in the country.

    But pollution knows no borders in the Mediterranean. 87% of the Mediterranean Sea remains contaminated by chemical pollutants, according to the first map published by the European Environment Agency (EEA), based on samples taken from 1,541 sites.

    The environmental damage of the textile industry - considered one of ‘the most polluting sectors on the planet’ - was also addressed at Cop27 in Sharm El-Sheikh, where a series of social and climate objectives concerning greater collaboration between the EU and the MENA region were listed.

    One of the main topics was the urgent harmonization of environmental standards in the framework of the installation of digital product passports’, a tool that will track the origin of all materials and components used in the manufacturing process.

    FTTH ensures that large companies on the Monastir coast have invested in a closed water re-use cycle to avoid pollution. ‘All companies must invest in a closed loop that allows water reuse,’ Mounir Hassine reiterates.

    But to invest in expensive and reconversion work requires a long-term vision, which not all companies have. After a period of ten years, companies can no longer benefit from the tax advantages guaranteed by Tunisian investment law. ‘Then they relocate elsewhere or reopen under another name,’ Mounir Hassine adds.
    Environmental and health damages of marine pollution

    Despite the damage, only female workers walking around in white or colored uniforms at the end of the working day prove that the working-class towns south of Monastir constitute the most important manufacturing hub of Made In Tunisia clothes production. The sector employs 170,000 workers in the country.

    Tunisia is the ninth-largest exporter of clothing from the EU, after Cambodia, according to a study by the Textile Technical Centre in 2022. More than 1,530 companies are officially located there, representing 31% of the national fabric. 82% of this production is exported mainly to France, Italy, Belgium, Germany, and Spain.

    Some women sit eating lunch not far from warehouses on which signs ending in -tex. Few dare to speak; one of them mentions health problems from exposure to chemicals. ’We have received complaints about health problems caused by the treatment and coloring of jeans,’ confirms FGTHCC-UGTT (Textile, Clothing, Footwear and Leather Federation) general secretary Habib Hzemi. Studies have also shown that textile workers – particularly in the denim industry – have a greater risk of skin and eye irritation, respiratory diseases, and cancer.

    Pollution, however, affects not only the textile workers but the entire community of Ksibet. ’We do not know what is in the seawater, and many of us prefer not to know. We have tried to get laboratory tests, but they are very expensive,’ explains Fatma Ben Amor of the APEK Association.

    According to an opinion poll by the Association for the Protection of the Environment of Ksibet Mediouni (APEK) in July 2016, the cancer rate is 4.3%. Among the highest rates worldwide,’ explains a study on cancer in Ksibet for the German Heinrich Böll Stiftung. Different carcinogenic diseases have been reported in the local community, but a cancer register has never been set up.

    Pollutants from the textile industry have impacted marine life too. Like all towns on the coast, Monastir is known for fishing bluefish, sea bream, cod, and other Mediterranean species. But artisanal fishing is increasingly complicated in front of the bay of Ksibet El Mediouni, and the sector has become entirely industrialized. Thus, the town’s small port is deserted.

    ’The port of Ksibet is emptying out, while the ports of Sayeda and Teboulba, beyond the bay, are still working. There are only a few small-scale fishermen left. We used to walk into the water to catch octopuses with our hands,’ one of the port laborers explains anonymously, walking on the Bay.

    ’Thirty years ago, this was a nursery for many Mediterranean species due to the shallow waters. Now, nothing is left,’ he adds. As confirmed by several fishermen in the area, the population has witnessed several fish deaths, most recently in 2020.

    ’We sucked up the algae, waste, and chemical waste a few years ago for maintenance work,’ explains the port laborer. ’Once we cleaned it up, the sea breathed again. For a few days, we saw fish again that we had not seen for years. Then the quicksand swallowed them up again.’

    https://inkyfada.com/en/2023/11/03/marine-pollution-jean-industry-tunisia

    #pollution #jeans #mode #Tunisie #mer #textile #industrie_textile #environnement #eau #pollution_marine

  • Prijelaz / #The_Passage — dedicated to our fallen comrades

    Od 14. do 21. svibnja 2021. godine u galeriji Živi Atelje DK u Zagrebu predstavljeno je spomen-platno Prijelaz / The Passage. Prijelaz / The Passage je zbirka memorijalnih portreta izrađenih od crvenog i crnog konca na botanički obojanoj tkanini koji su nastali u okviru umjetničkih istraživačkih radionica koje je osmislila i kurirala selma banich u suradnji s Marijanom Hameršak, a na kojima su sudjelovale umjetnice, znanstvenice, prevoditeljice i druge članice kolektiva Žene ženama i znanstveno-istraživačkog projekta ERIM.

    https://erim.ief.hr/en/publikacije/prijelaz-the-passage

    –-

    THE PASSAGE — dedicated to our fallen comrades

    #Selma_Banich and #Marijana_Hameršak in collaboration with Women to Women collective

    Živi Atelje DK, Zagreb, 2021

    https://selmabanich.org/index#/the-passage
    #portraits #art_et_politique #migrations #réfugiés #asile #décès #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #commémoration #mémoire #textile #Balkans #route_des_Balkans

  • Human Material Loop sets out to commercialise textiles made from hair
    https://www.dezeen.com/2023/11/28/human-material-loop-textiles-from-hair

    Dutch company Human Material Loop is using an unusual waste source to make a zero-carbon wool alternative that requires no land or water use: human hair.

    People’s discomfort around the use of human hair is said to fade when they see the fabric

    #tissus #cheveux

    • ça me parait pas mal. récupérer tel ou tel morceau pour ne pas gâcher l’entièreté des corps d’exterminés ou ne pas négliger d’éventuels usages des déchets déjà produits par des vivants, c’est la nuit (et brouillard) et le jour. voilà des matériaux organiques de qualité qui n’auront pas à être produits.

      + Hypoallergenic by nature
      + Cruelty free
      + 100% natural
      + Fully traceable
      + Value from waste

      https://humanmaterialloop.com
      je m’attendais à trouver des tarifs élevés, or ils sollicitent des dons...

      #cheveux #textile

    • Par contre on traduit un peu vite « hair » par « cheveux » alors que ça veut aussi dire « poils ». Et là, quand on pense à certains barbus d’ici et d’ailleurs, ça donne moins envie.

    • la laine c’est pas mal, ça permet aussi de vivre avec des animaux utiles pour plein de choses Les montagnes se sont vidées parce que les tracteurs tombent dans les pentes et le cheval de trait est loin. les ronces reprennent leurs droits et la forêt gagne. Mes cheveux ne feront pas l’isolation de mon toit, alors que les moutons si en plus, merci, d’empêcher les chasseurs de venir dans des forêts qui n’existent pas !
      Des fois je pige pas.
      #brouteuse

    • mais c’est pas ou bien des moutons et des chèvres ou bien des pilosités humaines devenues inutiles, pourquoi pas les deux et moins de plastique ?

      si on prend leur pub au mot, récupérer un tiers des cheveux jetés en Europe, c’est déjà une bonne manière de produire moins (sous réserve que la récup ne nécessite pas beaucoup plus de travail et d’énergie que mettons du #plastique Shein)


      edit regardant à nouveau le chiffre, je crois que c’est inévitablement un produit de niche rare et cher, que ça vaut moins que le #recyclage des tissus déjà gaspillés dans la fringue

    • @arno une très ancienne tradition d’usage du cheveux persiste dans le métier de posticheur, pour les personnes sous chimio ou le spectacle et jusqu’à très récemment pour la calvitie.
      Mon arrière grand père était posticheur et ma mère possède toujours sa poupée d’enfance avec de vrais cheveux (c’était bien souvent le cas avant l’apparition du synthétique).
      J’ai moi-même fabriqué un masque de « bête » pour un spectacle. Pour l’aspect dru, j’avais le choix entre le poil de yack ou le cheveu d’Indonésienne. Pour une question de budget j’ai choisi le premier.

  • Notepad++ Marks 20th Anniversary with New Release
    https://www.omgubuntu.co.uk/2023/11/notepad-plus-plus-20th-anniversary-update

    The open-source text editor Notepad++ is celebrating its 20th anniversary with a new release filled with some neat new features. In Notepad++ 8.6 (the 238th release since 2003, for those keeping count) the Windows-based code tool adds to its extensive feature set with an improved multi-edit feature. Now, I’m not a developer. I dip into a bit of basic PHP for the omg! sites on occasion, but it doesn’t require a bespoke coding environment. I don’t know how this feature adds to or adjust what was (apparently) available in earlier versions of the app. A few 3rd-party plugins for Notepad++ […] You’re reading Notepad++ Marks 20th Anniversary with New Release, a blog post from OMG! Ubuntu. Do not reproduce elsewhere without (...)

    #News #App_Updates #notepad++ #texteditor

    • Il est déconseillé de l’utiliser pour les grands paragraphes car cela peut entraîner une perte de performance, le navigateur ayant besoin d’effectuer plus de calculs que d’habitude.

      En fait c’est plus net encore : text-wrap: balance ne s’applique que sur les paragraphes de six lignes maximum. Ce n’est pas conçu pour maquetter des paragraphes (sa logique même, graphiquement, ne correspond pas à des paragraphes de texte courant), mais des titres et intertitres.

  • Fin de grève amère dans les usines textiles du Bangladesh
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2023/11/17/fin-de-greve-amere-dans-les-usines-textiles-du-bangladesh_6200798_3234.html


    Des #ouvriers textiles bangladais retournent travailler dans leur usine à Ashulia, au nord de Dhaka (?), le 15 novembre 2023. MUNIR UZ ZAMAN / AFP

    Le mouvement de revendication pour de meilleurs salaires, qui a mis l’industrie textile à l’arrêt pendant trois semaines, n’a pas eu gain de cause. Presque aucun donneur d’ordre occidental n’a incité ses fournisseurs à payer décemment les ouvriers.

    Les ouvriers des usines textiles du Bangladesh n’ont pas eu gain de cause. Après trois semaines de #grève, de manifestations et de heurts avec la police, ceux qui fabriquent les vêtements #Levi’s, #Zara et autres H&M ont repris le travail, mercredi 15 novembre, sans obtenir le quasi-triplement de leurs salaires demandé.
    Le comité du #salaire minimum du secteur textile a décidé d’augmenter la rémunération de base de 56 %, la portant à 12 500 takas, soit 104 euros, mardi 8 novembre. Un montant que les syndicats jugent « ridicule » au regard des 23 000 takas, soit environ 190 euros, revendiqués.
    Sheikh Hasina, la première ministre du pays qui briguera un cinquième mandat lors des élections générales, le 7 janvier 2024, a refusé toute nouvelle hausse du salaire minimum et intimé les ouvriers de reprendre le travail sous peine de perdre leur emploi et d’avoir « à retourner dans leurs villages ».

    Troisième plus gros fournisseur mondial

    De fait, « c’est par obligation financière et sous la pression du gouvernement et la menace des autorités policières, y compris physiques, que les ouvriers grévistes ont repris le travail », observe Christie Miedema, coordinatrice de Clean Clothes Campaign, une fédération d’organisations non gouvernementales qui militent pour le respect des droits humains.
    « La situation ressemble à celle d’il y a cinq ans », déplore Mme Miedema. En 2018, le salaire minimum dans ce secteur, qui emploie quatre millions de personnes, avait été révisé à 8 000 takas, soit 65 euros, pour cinq ans. Depuis, le secteur a traversé la crise du Covid-19 et essuyé l’inflation galopante, de l’ordre de 35 % depuis 2019.

    A l’été 2023, pour la première fois, le gouvernement a monté un comité pour déterminer un #salaire_minimum applicable dans le secteur du #prêt-à-porter au 1er décembre, sans attendre l’échéance de 2024. Toutefois, aucun des syndicats représentatifs du personnel de cette puissante industrie n’y siège. A l’évidence, le patronat local rechigne à augmenter les salaires de peur de dégrader la compétitivité d’un secteur qui représente 85 % des 55 milliards d’euros d’exportations annuelles du pays. Grâce à un réseau de 3 500 usines, le secteur est connu pour être l’un des moins chers au monde : le pays est le troisième fournisseur de vêtements, derrière la Chine et le Vietnam.

    Quatre morts à Dacca

    Dix ans après l’effondrement de l’immeuble du Rana Plaza à Dacca, tuant plus de 1 100 ouvriers textiles, les conditions de travail n’ont guère évolué. En outre, le #Bangladesh est toujours dans la ligne de mire des ONG qui y dénoncent les atteintes au droit syndical. En juin dernier, Luc Triangle, secrétaire général de la Confédération syndicale internationale, a condamné le meurtre de Shahidul Islam Shahid, responsable syndical de la Fédération des travailleurs de l’industrie et des usines textiles du Bangladesh, « battu à mort » par un gang après avoir assisté à une réunion syndicale. « Cet assassinat s’inscrit dans un contexte d’attaques ciblées contre les leaders syndicaux au Bangladesh et aura un effet dissuasif sur le mouvement ouvrier déjà très restreint », avait alors réagi l’ONG américaine Human Rights Watch.

    Les manifestations de l’automne ont aussi été très violentes pour les grévistes, notamment à Dacca. Au moins quatre ouvriers ont été tués lors des manifestations, dont trois ont été abattus par les forces de l’ordre, d’après l’AFP. Quelque 140 ouvriers et plusieurs dirigeants syndicaux ont été arrêtés, et environ 10 000 travailleurs font l’objet de poursuites pour violences, selon la police, précise aussi l’agence d’informations.

    Mercredi 15 novembre, le principal dirigeant syndical, Babul Akhter, a demandé au gouvernement de « libérer tous les ouvriers arrêtés », avant d’appeler à reprendre le travail, tout en maintenant ses revendications. « Nous n’avons pas dévié de notre revendication d’un salaire minimum de 23 000 takas », a-t-il déclaré à l’AFP. « La colère des ouvriers a été alimentée par la hausse du coût de la vie, avec des denrées de base qui sont devenues inabordables, affirme Taslima Akhter, membre du mouvement d’ouvriers Bangladesh Garment Workers Solidarity, mais la violence s’exprime d’autant plus facilement que les syndicats ne sont autorisés que sur le papier et sont contrôlés par les propriétaires d’usines. »

    Les marques occidentales « responsables »

    De son côté, le patronat bangladais pointe le rôle ambivalent des #donneurs_d’ordre. L’Association des fabricants et des exportateurs de vêtements du Bangladesh a notamment estimé que le niveau de salaire pratiqué dans leurs usines découlait des prix imposés par leurs clients, dont surtout des #marques occidentales. « Elles sont autant responsables de la hausse des salaires que les fabricants bangladais », déclare au Monde Miran Ali, son vice-président. Selon lui, il n’est pas acceptable que ces donneurs d’ordre « prennent publiquement position en faveur d’une hausse des salaires et, en privé, refusent d’absorber cette hausse de coûts » en relevant leurs prix d’achat.
    De fait, rares sont les marques à avoir répondu aux appels de soutien des revendications salariales. L’association Clean Clothes Campaign avait notamment interpellé une douzaine d’entre elles, dont #H&M et #C&A, qui fabriquent leurs collections à moindre prix au Bangladesh. Mais seule Patagonia a répondu, observe Mme Miedema. La marque de sport américaine a rejoint l’association Fair Labor pour appeler Dacca à porter le salaire minimum à 23 000 takas. « Les autres fabricants sont moins explicites, voire totalement muets », pointe Mme Miedema. En septembre, Human Rights Watch constatait que la question de la liberté d’expression était « à peine abordée » dans la plupart des rapports d’audit sociaux commandés par les grandes marques d’habillement.
    En France, #Carrefour se contente de rappeler avoir « pris position le 13 septembre en faveur d’une revalorisation du salaire minimum des travailleurs des usines textiles ». En Espagne, #Inditex est aussi fort prudent. Le numéro un mondial de l’habillement refuse de commenter les événements récents et renvoie à ses déclarations de septembre. Il exprimait alors toute sa confiance envers le comité du salaire minimum du secteur textile afin « d’établir un salaire minimum au Bangladesh qui couvre le coût de la vie des ouvriers et de leurs familles ».

    Il n’en a rien été, estiment nombre d’ONG, dont la Fair Wear Foundation. L’association, qui travaille avec des marques, des usines et des syndicats pour améliorer les conditions de travail des employés dans l’industrie textile, fait partie des 2 500 signataires d’une lettre envoyée le 16 novembre à la première ministre pour exprimer « leur inquiétude » et l’inviter « à revoir sa décision » puisque, prévient-elle, le nouveau salaire minimum « ne couvre pas les besoins fondamentaux » des ouvriers textiles du Bangladesh.

    #textile #mode

  • La trama di Camini: storie senza confini da un piccolo paese della Locride

    Nel Comune in provincia di Reggio Calabria c’è dal 2019 #Ama-La, un laboratorio tessile eco-solidale aperto grazie ai fondi 8xmille dell’Unione Buddhista Italiana che accompagna le donne rifugiate e vittime di violenza verso l’integrazione e l’autonomia. In questi anni il paese è rinato

    Si chiama filoxenia lo spirito di Camini, piccolo paese della Locride, in provincia di Reggio Calabria. È l’esatto contrario di xenofobia, la paura dello straniero. Proprio qui nel 2019 -grazie ai fondi 8xmille dell’Unione buddhista italiana- nell’ambito di un progetto del Sistema accoglienza integrazione (Rete Sai, già Siproimi e Sprar) è nato Ama-La, un laboratorio tessile eco-solidale le cui trame trascendono il telaio.

    Lo racconta Rosario Zurzolo, presidente della cooperativa sociale Eurocoop Servizi “Jungi mundu” (che in dialetto locale significa “unisci il mondo”). “Ama-La accoglie e accompagna da quattro anni donne rifugiate da diversi Paesi, vittime di violenza di genere e altre persone migranti con storie differenti, in un processo di formazione e di crescita dell’autostima, con l’obiettivo di appropriarsi del proprio potenziale creativo, imparare un mestiere e raggiungere l’autonomia”.

    Giuliano Ienco è uno dei maestri artigiani del laboratorio: “Donne e ragazze provengono da Paesi di culture diverse, nei primi anni soprattutto da Eritrea, Senegal, Yemen e oggi da Siria, Nigeria, Afghanistan, Libia, Marocco. Nei sei mesi di corso spieghiamo le tecniche di base della tessitura e tramandiamo i saperi tradizionali calabresi, come la tecnica della pezzara, ottenuta da stoffe di riciclo e recupero, ma ogni anno affrontiamo anche un ʻfilo’ diverso, ad esempio la ginestra, il baco da seta o la coltivazione a lino”.

    Al mattino Giuliano insegna alle donne a usare il telaio e spiega i vari sistemi di tessitura, mentre il pomeriggio Caterina gestisce la parte dedicata all’eco printing (la pittura con tecniche naturali, ad esempio con le foglie). Dai telai, a seconda del talento, della cultura e della capacità espressiva delle partecipanti escono poi borse, abiti e cinture, coprispalle, borsellini, cappelli, collane ma anche tappeti e tovagliette, che si possono acquistare in loco od ordinare sulla pagina Facebook. “L’obiettivo principale del laboratorio -spiega Giuliano- non è però il profitto, ma il benessere delle persone e il riconoscimento delle loro stesse capacità: essere apprezzate è importante per tutti ed è il primo passo per ritrovare autostima e fiducia”. Una ragazza siriana e una donna afghana hanno trovato proprio qui uno sbocco lavorativo, mentre tante altre hanno proseguito il loro progetto migratorio.

    Ma il maggiore valore aggiunto è che la comunità di Camini, circa 750 abitanti, il centro storico in collina a otto chilometri dalla località costiera, grazie al progetto di ospitalità Sai e alle sue attività sta vivendo una rinascita, fondata proprio sull’accoglienza. “Il paese oggi è vivo -spiega Zurzolo-, lo spopolamento, endemico nel territorio, si è interrotto, nonostante manchino ancora le strade e molti altri servizi essenziali; i giovani stanno rientrando, alcuni migranti si sono fermati, riaprono negozi e attività”. Un piccolo miracolo, in un contesto tanto bello quanto complicato.

    “I servizi nascono solo dove c’è gente -chiarisce Rosario- e il turismo di un mese all’anno per un borgo dell’entroterra non era sufficiente a creare un circolo virtuoso. La chiave per il cambiamento è stato un atto di coraggio, ovvero dare la massima disponibilità possibile per il progetto Sai -118 persone migranti da accogliere-. Questa apertura all’’altro’ è stata possibile perché non ci è stato imposta dall’alto ma è stata condivisa con piena consapevolezza dalla comunità”.

    Rosario è stato così testimone di un piccolo miracolo. Numeri piccoli, ma importanti, perché hanno validato un modello che negli ultimi tempi era stato messo -a torto o a ragione- in discussione: nel centro storico interno vivono oggi circa 300 persone, molte delle quali hanno a che fare con il progetto Sai, ma anche cittadini residenti, italiani e stranieri. I primi, terminato il percorso di accoglienza, hanno deciso di rimanere sul territorio, i secondi hanno scelto di tornare e di investire sul borgo. “Nel 2011, come era successo in diversi centri della Locride, la scuola materna era stata chiusa e restava solo una pluriclasse di otto bambini, con due insegnanti. A dodici anni di distanza con la nascita di nuovi bambini, ci sono due sezioni della materna, quattro classi di elementari e una ventina di persone assunte, tra insegnanti e personale non docente. Ma soprattutto i bambini possono rimanere a fare scuola qui”.

    “Ho visto un paese scomparire e poi risorgere dalle ceneri, grazie alla forza delle persone -continua Rosario-. Più di uno è salito verso Camini per lavorare o per fare l’imprenditore. Oltre a me erano rimasti alcuni ex-compagni di scuola della mia generazione, poi un paio di ragazzi che erano in Inghilterra sono tornati per lavorare con la cooperativa. Abbiamo potuto creare diversi laboratori artigianali per mantenere vive le nostre tradizioni, ceramica, falegnameria, liuteria, e corsi di cucina locale e siriana che hanno luogo all’interno del bar-ristorante Jungi Mundu”.

    Le storie personali si sono incrociate con le scelte dell’amministrazione comunale e hanno fatto la differenza. “Abbiamo puntato sull’autonomia abitativa: le case lasciate vuote dagli italiani e dalle italiane, infatti, ora sono occupate dalle persone rifugiate. E si è invertita la tendenza. Così quest’anno un ventitreenne del luogo ha deciso di tornare e ha aperto un salone di parrucchiere, aperto tre giorni alla settimana, dove vengono a tagliarsi i capelli anche dai Comuni limitrofi. Cose mai viste”. I turisti di passaggio nel borgo storico, finalmente, si possono fermare a dormire qui, da giugno a settembre, grazie a un progetto di turismo solidale e trovano il bar e ristorante, le botteghe di prodotti locali e i servizi essenziali, come la Posta e il suo bancomat. Il paese è vitale, a luglio il Kaminion fest l’ha fatto risuonare di musiche e discorsi.

    Rosario ha un’idea molto chiara: “La cosa positiva è che abbiamo creato almeno l’opportunità di scegliere se restare”. Le storie sono tante. Filmon è un ragazzo eritreo che ha comprato casa con la famiglia e l’ha ristrutturata grazie a una quota dei fondi 8xmille di Unione buddhista italiana e ora fa il miele. La curatrice, Chiara Scolastica Mosciatti, ha aperto qui Duçicontemporanea, una galleria e studio d’arte e, proprio ora, a ottobre 2023 un gruppo tedesco ha inaugurato la stalla recuperata per residenze teatrali con uno spettacolo di teatro all’aperto.

    “In sintesi, pur non avendo niente, siamo diventati un’attrazione, un paese aperto a differenze culturali e religiose dove si respira l’atmosfera di felice convivenza -dice Zurzolo- quasi di fratellanza. Il Laboratorio Ama-La, espressione di derivazione tibetana che significa ʻdonna e madre’, resta il simbolo di questo percorso, perché le storie delle donne che lo frequentano sono le nostre storie e non hanno confini. Questo non è solo un posto di lavoro, è anche luogo di conforto e di cura, dove le donne possono bere un tè e condividere i propri percorsi, tra di loro o con l’assistenza di psicologa, educatrice, assistente sociale. Una terapia ʻdello stare insieme’ e del ʻparlare insieme’, aperto a tutti, anche a persone del luogo”.

    https://altreconomia.it/la-trama-di-camini-storie-senza-confini-da-un-piccolo-paese-della-locri
    #textile #accueil #réfugiés #asile #migrations #Italie #Calabre #femmes_migrantes #Jungi_mundu #Giuliano_Ienco #miracle #dépeuplement #repeuplement #artisanat

  • Brassage d’air
    https://ricochets.cc/Brassage-d-air.html

    Devant les milliers de morts causés chaque année par la pollution automobile, le maire de la capitale a décidé de réagir énergiquement et de révéler un nouveau projet. Après concertation avec l’ensemble des partenaires, une mesure innovante a été décidée. Elle sera mise en place dès ce printemps. La solution retenue consiste en l’installation de gros ventilateurs aux points stratégiques de l’agglomération. Ils seront orientés vers le haut et vers la périphérie de la ville afin d’aspirer et chasser l’air (...) #Les_Articles

    / Poésie & Nouvelles, #Textes_très_courts

    #Poésie_&_Nouvelles
    https://sitetestexterne.art-engage.net/Brassage-d-air.html

  • Tout comme il faut
    https://ricochets.cc/Tout-comme-il-faut.html

    Dans ma vie, j’ai fait tout ce qu’il fallait, tout ce qu’on m’a dit, tout comme il faut. J’ai été un brave petit enfant et un adolescent pas trop chiant. Après quelques aventures, j’ai fini par me marier et par obtenir un bon travail. Je n’ai jamais embêté personne, je respecte toutes les croyances, toutes les opinions, je vote aux grandes élections, je vais aux bonnes manifestations, je fais quelques dons quand la télé le demande et il m’est même arrivé de faire du bénévolat pour des œuvres sociales. (...) #Les_Articles

    / Poésie & Nouvelles, #Textes_très_courts

    #Poésie_&_Nouvelles
    https://sitetestexterne.art-engage.net/Tout-comme-il-faut.html

  • Pour produire toujours plus de gaz de schiste, TotalEnergies profite de la faiblesse des autorités texanes
    https://disclose.ngo/fr/article/pour-produire-toujours-plus-de-gaz-de-schiste-totalenergies-profite-de-la-

    Dans la ville d’Arlignton, au Texas, des habitants se mobilisent contre TotalEnergies dont la production de gaz de schiste a explosé ces dernières années. En réaction à leur influence grandissante, la multinationale française s’organise. À coup de billets verts. Lire l’article

  • Comprendre l’extermination à Auschwitz : histoire d’un témoignage miraculé
    https://www.radiofrance.fr/franceculture/comprendre-l-extermination-a-auschwitz-histoire-d-un-temoignage-miracule

    ... cette publication est surtout un événement dans la mesure où plus de trente-cinq ans ont été nécessaires pour que ce #texte nous soit pleinement accessible. Et c’est cet intervalle qui leste le double legs de Nadjary d’une dimension supplémentaire, et vient en souligner l’importance. Car ce délai ne vient pas seulement éclairer la difficulté à rendre déchiffrable un texte fragile qui aura miraculeusement résisté parce qu’il avait été enfoui dans le sol d’#Auschwitz, plié en douze petits feuillets miniatures, et roulé dans un thermos. Entre sa découverte, à l’automne 1980, neuf années après la mort de Nadjary, et la toute première publication sous forme de récit, en 1991 et en Grèce, onze années s’étaient écoulées. Mais le progrès technique n’avançait pas à la même cadence, et seuls 10% du manuscrit étaient en réalité déchiffrables à l’époque : le papier avait été grignoté par l’humidité, et l’encre bleue délavée semblait avoir inondé les pages arrachées à un cahier. C’est seulement après sa dissémination à l’international, et parce qu’une édition en russe, notamment, avait vu le jour, qu’un expert informatique russe, rompu à l’imagerie high tech, se manifestera, pour proposer ses services et déchiffrer le reste du manuscrit. Il avait entendu parler du texte tandis qu’il écoutait une émission de radio, et pensait que l’#imagerie dernier cri saurait faire des miracles. Il avait raison.

    ... Contrairement à l’image qui est longtemps restée, les #Sonderkommandos n’ont joué aucun rôle direct dans l’assassinat des #Juifs_déportés : tenace, ce lieu commun n’a aucune prise avec la réalité historique. Pour la bonne raison, explique encore Tal Brutmann, que ces déportés-là aussi étaient destinés à être assassinés, le moment venu : “Les nazis n’ont jamais confié les moyens d’assassiner à des Juifs puisque les Sonderkommandos aussi devaient mourir, parce qu’eux aussi était juifs.” En octobre 1944, près de six cents membres des Sonderkommandos seront assassinés, après qu’un groupe, composé notamment de Grecs, ait entrepris de se révolter. La moitié seront tués à titre de représailles. Pas #Marcel_Nadjary, qui survivra à la défaite nazie et témoignera en 1947 à nouveau.

    Téléphone arabe

    Son témoignage, écrit en grec mais ponctué de ce qu’on appelle "la #langue_des_camps", n’avait jamais été traduit en français, mais seulement en anglais, en russe et en polonais. Or en France, l’idée était restée, dans un sillage tenace, que les Sonderkommandos avaient bénéficié de privilèges au bénéfice de leur rôle au premier rang de la machine d’#extermination nazie. Au point que les #témoignages des Sonderkommandos ont longtemps suscité de la méfiance, et pendant les années qui suivirent la Libération, ces récits ont d’abord été accueillis avec méfiance par les #historiens. S’ils avaient témoigné, n’était-ce pas qu’ils avaient mieux survécu ? C’était en réalité oublier que, comme celui de Nadjary, ces témoignages avaient traversé le temps à la faveur d’un enfouissement précaire dans le sol, ou encore que l’immense majorité de ces travailleurs préposés à des tâches qu’ils n’avaient pas choisies n’étaient pas consentants, et massivement liquidés précisément parce que les nazis entendaient maintenir le #secret le plus durable sur le processus d’extermination. C’est en particulier le récit de Primo Levi qui, auprès du lectorat français et bientôt de l’opinion publique, a contribué à prolonger le doute sur la fiabilité d’un témoignage comme celui de Marcel Nadjary. Si les Sonderkommandos n’étaient pas responsables de ce qu’ils avaient dû faire, n’avaient-ils pas été un rouage de la machine de mise à mort nazie ? Un véritable exemple de “téléphone arabe”, analyse en fait a distance Tal Brutmann, qui explique Primo Levi se trouvait en réalité détenu dans une toute autre zone du camp d’Auschwitz, où l’information circulait mal et où des rumeurs pouvaient se frayer un chemin, à la faveur de mauvaises informations, ou de l’angoisse.

    Or le témoignage de Marcel Nadjary est au contraire décisif pour accéder à un savoir plus empirique sur l’histoire des #chambres_à_gaz. Lui qui croit qu’il va mourir, au moment où il s’adresse par écrit à ses amis à la manière d’un geste de testament, se donne pour tâche de décrire avec précision le mécanisme de l’extermination. Il inclut à son texte des informations précises, techniques, mais aussi chiffrées : comme le souligne Serge Klarsfeld, qui préface cette édition française de Nadjary qui paraît chez Signes et balises, c’est lui qui parvient à s’approcher, plus que bien d’autres, du chiffre le plus proche du nombre des victimes juives à Auschwitz. Nadjary, bien sûr, se trompe, lui qui n’a passé que six mois au seuil du Crématoire III : il évoque 1 400 000 #Juifs assassinés, là où le nombre exact sera de 1 052 000 pour le seul camp d’Auschwitz. Mais davantage que bien des statisticiens qui s’efforceront de prendre la mesure de l’assassinat de masse durant cinquante ans, c’est lui qui collera le plus près à la réalité. C’est aussi lui qui décrira des comportements, des façons de faire, qui permettent aujourd’hui d’approcher au plus proche de ce que fut le tri des déportés sur la rampe à la descente du train, ou encore la manière dont le gaz était utilisé : libéré ensuite par des trappes, nous apprend son manuscrit, le #gaz était transporté jusqu’au crématoire dans un véhicule de la Croix rouge allemande affrété par deux soldats SS.

    “Les rouleaux d’Auschwitz”

    Né en 1917 à Thessalonique, Nadjary finira sa vie à New-York, où il est mort en 1971, vingt ans après avoir émigré. Son manuscrit, des six témoignages laissés par les Sonderkommandos qui aient pu être retrouvés à ce jour, est le seul qu’on doive à un #Grec. Or en Grèce, cette mémoire de la Shoah est longtemps restée un territoire méconnu, en même temps qu’une trace largement enfouie, bien que des historiens comme Raul Hilberg, par exemple, aient pu estimer que 85% de la population juive de Grèce ait péri dans la Shoah. “Un taux comparable à la Pologne”....

    #nazisme #camps_d'extermination #histoire #radio #livre

    edit le témoignage de Nadjary est utilisé au théâtre dans C’était un samedi https://seenthis.net/messages/1015526

  • Je viens de poster sur https://git.spip.net mon #plugin_spip de Maquettes multiples :
    https://git.spip.net/spip-contrib-extensions/maquettes_multiples

    C’est l’élément central qui me sert à créer des « formes longues » avec SPIP, comme ici :
    https://musee.info

    Le plugin propose 10 compositions pour les articles, permettant de créer des blocs à une colonne, deux, trois ou quatre colonnes, dans différentes configurations.

    Alors ce n’est pas le plugin qu’on installe, et hop, vous avez un nouveau site Web public : là il faut fabriquer ses propres squelettes en allant regarder dans /squelettes/inc.

    Les CSS sont responsive, par contre c’est assez oldschool. Parce que c’est du code que j’ai fabriqué il y a longtemps, donc pas de flex ni de grid ni de calc(). Mais ça a l’avantage de s’afficher sans risques sur n’importe quel machine.

    • #merci @arno ! Je suis en train de préparer quelques projets de livres plurilingues alors je testerai la gestion des versions de langue et annotations dans les champs supplémentaires et leur mise en forme dans les colonnes de Maquettes multiples :-)

      Puisqu’il s’agit de textes de livres je pense ne pas avoir besoin des fonctions de multilinguisme de SPIP qui sont très utiles pour les sites web en développement constant par une équipe.

      Tu m’a donné l’idée d’un affichage par couches superposées (layer) pour les versions de langue qu’on devrait pouvoir activer et désactiver dans une sorte de navigation verticale alors que la navigation entre chapitres et paragraphes se ferait par déplacement haut/bas du texte sur l’écran.

      #SPIP

    • Tu peux mettre des exemples de liens où ya 2, 3 et 4 colonnes ? :)

      Plutôt que des champs rajoutés en dur, et qui sont très arbitraires, peut-être qu’un découpage à l’intérieur du texte principal pourrait être fait, avec des plugins du genre de celui de @touti
      https://contrib.spip.net/Raccourci-colonne
      (ou une version améliorée si on trouve qu’il manque des classes ou autre, ou qu’on veut pouvoir l’utiliser sans que ça ajoute ses propres CSS)

    • Sur la page d’accueil de musee.info référencée dans mon message, tu as 2, 3 et 4 colonnes, et aussi une colonne principale et une annexe à droite ou à gauche.

      En fait, pour des formes longues rédactionnelles, j’utilise essentiellement une colonne et les différentes variantes de deux colonnes. Les 3 et 4 colonnes, dans tous les cas les colonnes sont étroites, donc c’est pas adapté à du texte long, mais plus à de la présentation « vitrine » (à la façon de la page d’accueil de Musee.info).

      L’idée est de jouer beaucoup, aussi, avec mon plugin « Insertion avancée d’images ». Par exemple pour un « vrai » longform éditorial :
      https://musee.info/L-histoire-de-la-collection-italienne
      https://musee.info/Soulages-a-Montpellier
      https://musee.info/Moyen-age-et-Renaissance

      Pour ce qui est de fonctionner avec une structuration des différentes colonnes avec l’unique champ #TEXTE, c’est ce que j’ai fait très longtemps. J’avais un plugin qui découpait en colonnes selon les intertitres :

      {{{Première colonne}}}
      {{{# Deuxième colonne}}}
      {{{## Troisième }}}
      {{{### Quatrième }}}}

      Mais en pratique, ce n’est pas aussi pratique. Des champs multi là-dedans c’est chiant. Déplacer du texte d’une colonne à l’autre c’est chiant. Expliquer au client qu’il faut qu’il bidouille plusieurs colonnes dans un seul champ texte c’est chiant. :-))

      De ce fait, à un moment j’ai recodé mon plugin pour avoir 4 champs texte différents, j’ai même une moulinette pour récupérer depuis l’ancien format.

    • Une remarque importante : utilisé avec le plugin Médias responsive, le plugin Maquettes multiples joue énormément avec les possibilités d’alignement hors des colonnes de texte. C’est un gros point fort, à mon goût, de ces maquettes : on peut par exemple afficher les légendes à côte de l’image, en dehors de la colonne de texte, soit avec le pile |large, forcer l’image plus large que la colonne de texte et la légende qui vient se positionner en dessous, toujours en dehors de la colonne.

      C’est particulièrement visible dans le longform sur le collection italienne :
      https://musee.info/L-histoire-de-la-collection-italienne

  • Comment nous avons enquêté sur le gaz de schiste de TotalEnergies au Texas
    https://disclose.ngo/fr/article/comment-nous-avons-enquete-sur-le-gaz-de-schiste-de-totalenergies-au-texas

    Disclose poursuit son incursion dans l’industrie du gaz fossile. Dans une nouvelle enquête publiée mardi 26 septembre, notre journaliste Alexander Abdelilah s’est rendu au Texas, où TotalEnergies exploite 1 700 gisements de gaz de schite. Carnet de reportage. Lire l’article

  • Designing Accessible Text Over Images: Best Practices, Techniques, And Resources — Smashing Magazine
    https://www.smashingmagazine.com/2023/08/designing-accessible-text-over-images-part1
    https://www.smashingmagazine.com/2023/08/designing-accessible-text-over-images-part2

    #CSS #gradient #Images #Text

    En complément de https://seenthis.net/messages/924372

  • Un mur flottant équipé de « scies circulaires » à la frontière américano-mexicaine
    https://observers.france24.com/fr/am%C3%A9riques/20230811-un-mur-flottant-%C3%A9quip%C3%A9-de-scies-circulaires-%


    Finalement, on n’a plus besoin des nazis comme figure universelle de la #dégueulasserie #barbare humaine ordinaire.

    Des vidéos diffusées sur les réseaux sociaux le 8 août 2023 permettent d’observer de plus près la barrière frontalière flottante installée par le gouverneur du Texas, Greg Abbott, et destinée à empêcher les migrants clandestins d’entrer aux États-Unis. Ces installations controversées, près desquelles un corps a récemment été retrouvé, sont équipées de disques métalliques pointus fabriqués par Cochrane Global.