• La filiera della lana “senza frontiere” dell’arco alpino
    Scienze umane e sociali

    La lana, che in passato era merce preziosa capace di stimolare e alimentare l’economia locale, ha perso negli ultimi decenni il suo valore a causa della concorrenza internazionale. Oltre a non essere utilizzata per produrre filato, la lana deve essere smaltita, secondo le norme europee, come rifiuto speciale. Non solo non produce benessere e ricchezza, ma è diventata nel tempo un enorme problema per i pastori.

    Per contrastare questo fenomeno è partito da pochi mesi, il progetto #Alptextiles, nel tentativo di ricostruire a livello transnazionale la filiera tessile, partendo proprio dalla lana. Promosso dall’archivio di Etnografia e Storia Sociale di Regione Lombardia con diversi partners europei quali scuole, musei e università di Italia, Svizzera, Austria, Germania, Francia e Slovenia, il progetto punta prima di tutto a mettere in relazione le diverse realtà legate alla filiera della lana.

    I fili prodotti in Italia, e in particolare in #Val_Camonica incontreranno quelli dell’Austria del #Montafon, sui telai di tessitura della #Valposchiavo, per creare un nuovo tessuto.

    A #Poschiavo abbiamo incontrato alcuni protagonisti del progetto “senza frontiere: #Cassiano_Luminati, direttore del #Polo_Poschiavo; #Adriana_Zanoli, artigiana e decoratrice e #Tim_Marchesi, allevatore e pastore.

    https://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/laser/La-filiera-della-lana-%E2%80%9Csenza-frontiere%E2%80%9D-dell%E2%80%99arco-alpino

    #laine #filière_laine #textile #Alpes

  • Sulla differenziata dei rifiuti tessili l’Italia è ancora all’anno zero

    Dal primo gennaio 2022 è entrato in vigore l’obbligo di raccolta separata per i vecchi vestiti che vengono gettati. A oggi sono poche le esperienze sui territori: manca una regia a livello nazionale che permetta alla filiera di strutturarsi

    Nonostante l’attenzione maniacale degli abitanti di Capannori (LU) per ridurre la produzione di rifiuti e per differenziare il più possibile le singole frazioni, una quota significativa di vecchie magliette, jeans e giacche dismessi perché troppo stretti o fuori moda continuava a sfuggire alla raccolta. “Già da tempo avevamo i cassonetti dedicati, ma da un’analisi sui materiali presenti nei sacchi ‘grigi’ è emerso che i tessili rappresentavano ancora il 15% della frazione indifferenziata”, spiega ad Altreconomia l’assessore comunale all’Ambiente, Giordano Del Chiaro-. Così abbiamo deciso di togliere i cassonetti e a luglio 2022 abbiamo avviato la raccolta porta a porta”.

    Ai cittadini viene consegnato un apposito sacco trasparente -che viene ritirato ogni due mesi- dove possono mettere indumenti, scarpe, borse, coperte, cuscini, lenzuola e tovaglie senza preoccuparsi delle loro condizioni: è possibile, infatti, conferire anche capi danneggiati o usurati. “La sperimentazione è andata bene, anche per merito dei cittadini di Capannori che sono molto sensibili a questi temi -sottolinea l’assessore-. Nel 2023 il porta a porta è diventato strutturale per questa frazione e si inserisce all’interno di un progetto più ampio: attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) abbiamo ottenuto un finanziamento da cinque milioni di euro per l’attivazione di centro di selezione con una capacità di trattamento di 6.500 tonnellate l’anno”.

    Qui si svolgeranno le attività di selezione dei capi, separando quelli rovinati da quelli in buone condizioni, i maglioni di lana dai jeans, i vestiti invernali da quelli estivi e così via con l’obiettivo di incanalarli separatamente lungo la filiera più corretta: il riutilizzo (ad esempio la commercializzazione sul mercato second hand), il riciclo (il recupero della fibra per produrre nuovi capi o l’utilizzo del materiale tessile di scarto per realizzare imbottiture) o, in quota residua, per tutto quello che non è possibile utilizzare altrimenti, lo smaltimento.

    Quella di Capannori è una delle poche novità che si sono registrate nel settore da quando, il primo gennaio 2022, è entrato in vigore l’obbligo di raccolta differenziata dei rifiuti tessili in base a quanto previsto dal decreto legislativo 116/2020 con cui l’Italia ha anticipato di tre anni l’attuazione di uno dei decreti contenuti nel “Pacchetto di direttive sull’economia circolare” adottato dall’Unione europea nel 2018. “Non si sta facendo nulla per organizzare la raccolta differenziata a livello nazionale, che però dovrà tassativamente entrare in vigore nel 2025 in base a quanto previsto dalle normative europee -commenta Rossano Ercolini, presidente della Rete Zero Waste Europe-. Da un punto di vista operativo sono stati due anni persi, anche se alcune realtà hanno iniziato a porsi il problema e a sperimentare modelli”.

    “L’assenza di una norma di riferimento pone tutti in una situazione di attesa che non aiuta le aziende e ovviamente neanche l’ambiente” – Giancarlo Dezio

    A fronte dell’obbligo di avvio della raccolta differenziata non sono stati approvati i provvedimenti necessari a strutturare la filiera. Aziende e consorzi sono quindi ancora in fase di attesa: “Abbiamo sollecitato i ministeri interessati a redigere un testo attorno al quale potersi confrontare per rendere a tutti gli effetti operativa la gestione dei prodotti tessili -spiega ad Altreconomia Giancarlo Dezio, direttore generale di Ecotessili, consorzio nato nel 2021 per iniziativa di Federdistribuzione-. L’assenza di una norma di riferimento pone tutti in una situazione di attesa che non aiuta le aziende e ovviamente neanche l’ambiente”. Oltre a Ecotessili, in questi anni hanno preso vita anche altre realtà, tra cui Re.Crea, coordinato dalla Camera nazionale della moda, Cobat Tessile e Retex.Green, lanciato dal Sistema moda Italia (Smi) ed Erion.

    A questo si aggiunge il fatto che solo a inizio luglio 2023 la Commissione europea ha pubblicato la sua proposta per la revisione della Direttiva quadro sui rifiuti (tra cui i tessili) che comprende anche la creazione di sistemi di Responsabilità estesa del produttore (Erp) obbligatori e armonizzati tra tutti i Paesi dell’Unione: sul modello di quanto avviene, ad esempio, per i rifiuti elettrici ed elettronici, i marchi di moda e i produttori tessili saranno tenuti a pagare un contributo per ogni capo immesso sul mercato, che andrà poi a coprire i costi di raccolta, selezione, riutilizzo e riciclo. Una proposta accolta con favore dalla Federazione europea di organizzazioni ambientaliste (European environmental bureau) che invita la Commissione a fissare obiettivi ambiziosi: “L’Ue si è impegnata a fermare la fast fashion. Ora è giunto il momento di una politica veramente trasformativa, che stabilisca contributi adeguati -ha dichiarato Emily Macintosh, senior policy officer della federazione per il settore tessile-. Non possiamo regalare ai brand un lasciapassare per continuare a produrre in eccesso capi di bassa qualità progettati per una breve durata di vita e aspettarci di riciclare quantità sempre maggiori di rifiuti tessili”. I tempi per l’approvazione della direttiva però si prospettano lunghi, anche alla luce delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo del giugno 2024.

    Tra chi guarda con attenzione a quello che succede a Bruxelles ci sono anche le tante realtà del mondo della cooperazione sociale cui, da anni, molti Comuni italiani o municipalizzate affidano la raccolta di questa frazione. “Quaranta realtà che aderiscono a Confcooperative Federsolidarietà raccolgono circa 50mila tonnellate di rifiuti tessili, quasi un terzo del totale a livello nazionale. Sono presenti in 11 Regioni e attraverso questa attività creano occupazione per oltre cinquemila lavoratori, di cui 1.500 persone con disabilità o soggetti svantaggiati -spiega ad Altreconomia il presidente Stefano Granata-. Abbiamo preso consapevolezza della nostra forza e delle competenze accumulate in questi anni sui tanti territori in cui siamo presenti: abbiamo una rete capillare e diffusa, ma quello che ci manca è dare una risposta più strutturata alle fasi successive della filiera.

    Sono 50mila le tonnellate di rifiuti tessili che raccolgono le quaranta realtà aderenti a Confcooperative Federsolidarietà, circa un terzo del totale a livello nazionale. Sono presenti in 11 Regioni e attraverso questa attività creano occupazione per oltre cinquemila lavoratori, di cui 1.500 persone con disabilità o soggetti svantaggiati

    Per questo vogliamo crescere ancora, anche per creare più posti di lavoro, e nel corso del 2024 daremo vita a un’associazione per riunire tutte le nostre realtà attive nel settore”. Tra quelle che hanno iniziato a tracciare un percorso virtuoso lungo i passaggi successivi alla raccolta c’è Vestisolidale, una delle nove cooperative della rete Riuse attiva in circa 400 Comuni delle province di Milano, Varese, Monza e Brianza, Bergamo e Brescia che nel corso del 2022 ha raccolto e avviato al recupero circa 13mila tonnellate di rifiuti tessili. “A oggi il sistema è stato incentrato sulla presenza di cassonetti dedicati all’abbigliamento in buone condizioni, mentre tutto il resto spesso finiva nell’indifferenziata -spiega Matteo Lovatti, presidente di Vestisolidale-. In un anno noi mediamente raccogliamo 4,5 chili per abitante, ma le stime parlano di un immesso al consumo di 20 chili all’anno per persona. La sfida è riuscire a intercettare quella differenza”.

    Ma la raccolta non è tutto. Già da alcuni anni, infatti, Vestisolidale gestisce negozi per la vendita diretta di capi second hand e nel 2024 metterà in funzione anche uno stabilimento con sede a Rho, Comune alle porte di Milano, per la selezione e la preparazione del materiale tessile per le successive fasi di lavorazione: “L’impianto è stato autorizzato per trattare 20mila tonnellate di materiale all’anno e a regime contiamo di assumere una trentina di dipendenti”, aggiunge Lovatti. L’occhio esperto dei selezionatori permette di andare a dividere quei capi che possono essere re-immessi in commercio da quelli che invece devono essere destinati al riciclo e, più nel dettaglio, di separare le singole fibre che possono così essere trasformate in “materia prima-seconda” per la produzione di nuovi capi in cotone, lana o cachemire rigenerato.

    “Focalizzarsi sulla gestione dei rifiuti e non su come e quanto si produce significa ignorare il vero problema. La circolarità rischia di essere una scappatoia” – Dario Casalini

    “In Italia è presente una rete molto forte di realtà che hanno una grande esperienza e professionalità in merito al riutilizzo della frazione tessile -sottolinea Raffaele Guzzon, presidente del consorzio Erion, che riunisce realtà come Amazon, Artsana e Save the Duck-. Ma quello su cui vogliamo puntare è garantire la corretta gestione delle frazioni non riutilizzabili e che non possono essere re-immesse sul mercato del second hand: guardiamo ad esempio alle aziende che si stanno specializzando nel riutilizzo degli scarti tessili per produrre imbottiture o materiali fonoassorbenti”.

    Chi invece prova a fare un passo indietro e osservare la questione della gestione dei rifiuti tessili nel suo complesso è Dario Casalini, già docente di Diritto pubblico, oggi amministratore delegato del marchio di maglieria Oscalito 1936 e fondatore della rete Slow Fiber, una realtà che vuole essere un’alternativa al fenomeno dilagante del fast fashion. “Preoccuparsi solo dell’ultima fase di vita dei capi d’abbigliamento è come curare un mal di testa senza intervenire sulle cause -spiega-. Focalizzarsi sulla gestione dei rifiuti tessili e non su come e quanto si produce significa ignorare il vero problema. Tutta l’attenzione che, anche a livello europeo, si sta mettendo sulla circolarità è positiva, ma c’è il rischio che possa essere una scappatoia per consentire al sistema della moda di continuare a operare come sta facendo ora”.

    https://altreconomia.it/sulla-differenziata-dei-rifiuti-tessili-litalia-e-ancora-allanno-zero
    #déchets #déchets_textiles #recyclage #textiles #industrie_textiles #Italie #habits #sélection #tri #ré-usage #loi

  • I grandi marchi della fast fashion non vogliono rinunciare al petrolio russo

    Nel 2023 le due principali società produttrici di poliestere, l’indiana #Reliance industries e la cinese #Hengli group, hanno continuato a utilizzare il greggio di Mosca. La maggior parte dei brand -da #Shein a #H&M, passando per #Benetton- chiude un occhio o promette impegni generici. Il dettagliato report di #Changing_markets.

    Quest’anno i principali produttori globali di poliestere, la fibra tessile di origine sintetica derivata dal petrolio, non solo non hanno interrotto i propri legami con la Russia ma al contrario hanno incrementato gli acquisti della materia prima fondamentale per il loro business. È quanto emerge da “#Crude_Couture”, l’inchiesta realizzata da Changing markets foundation pubblicata il 21 dicembre, a un anno di distanza dalla precedente “Dressed to kill” che aveva svelato i legami segreti tra i principali marchi della moda e il petrolio di Mosca.

    “Quest’indagine -si legge nell’introduzione- evidenzia il ruolo fondamentale svolto dall’industria della moda nel perpetuare la dipendenza dai combustibili fossili e segnala una preoccupante mancanza di azione per rompere i legami con il petrolio russo”. Un’inazione, sottolineano i ricercatori, che sta indirettamente finanziando la guerra in Ucraina. E non si tratta di un contributo di poco conto: le fibre sintetiche, infatti, pesano per il 69% sulla produzione di fibre e il poliestere è di gran lunga il più utilizzato, lo si può trovare infatti nel 55% dei prodotti tessili attualmente in circolazione. Se non ci sarà una netta inversione di tendenza, si stima che entro il 2030 quasi tre quarti di tutti i prodotti tessili verranno realizzati a partire da combustibili fossili.

    Il poliestere è fondamentale per l’esistenza dell’industria del fast fashion, e ancora di più per i marchi di moda ultraveloce come Shein: un’inchiesta pubblicata da Bloomberg ha mostrato che il 95% dei capi prodotti dal marchio di moda cinese conteneva materiali sintetici mentre per brand come #Pretty_Little_Thing, #Misguided e #Boohoo la percentuale era dell’83-89%.

    Al centro delle due inchieste realizzate da Changing markets ci sono due importanti produttori di questo materiale: l’indiana #Reliance_industries (con una capacità produttiva stimata in 2,5 milioni di tonnellate all’anno) e la cinese #Hengli_group. I filati e i tessuti che escono dai loro stabilimenti vengono venduti ai produttori di abbigliamento di tutto il mondo che, a loro volta, li utilizzano per confezionare magliette, pantaloni, cappotti, scarpe e altri accessori per importanti brand. Su 50 marchi presi in esame in “Dressed to kill” 39 erano direttamente o indirettamente collegati alle catene di fornitura di Hengli group or Reliance industries, tra questi figurano #H&M, #Inditex (multinazionale spagnola proprietaria, tra gli altri, di #Bershka e #Zara), #Adidas, #Uniqlo e #Benetton.

    Anche dopo la pubblicazione di “Dressed to kill”, Reliance e Hengli hanno continuato ad acquistare petrolio russo. A marzo 2023 l’India ha acquistato da Mosca la quantità record di 51,5 milioni di barili di greggio: “Insieme a Nayara Energya, la principale compagnia petrolifera indiana, Reliance industries ha rappresentato più della metà (52%) delle importazioni totali”, si legge nell’inchiesta. In crescita anche le importazioni cinesi (+11,7% rispetto all’anno precedente). “Nel maggio 2023, #Hengli_Petrochemical ha ricevuto 6,44 milioni di barili di greggio russo, come riportato dai dati di tracciamento delle navi dell’agenzia Reuters -scrivono gli autori del report-. Queste tendenze rivelano il persistente legame tra le aziende di moda che si riforniscono da questi produttori di poliestere e il petrolio russo”. Oltre alla violazione delle sanzioni imposte a Mosca da diversi governi, compresi quello degli Stati Uniti e dell’Unione europea.

    I ricercatori di Changing markets hanno quindi deciso di tracciare un bilancio e hanno inviato un questionario a 43 brand (compresi i 39 già presi in esame in “Dressed to kill”) per verificare se avessero interrotto i rapporti con Reliance ed Hengli. Appena 18 hanno risposto alle domande e solo due aziende (Esprit e G Star Raw) hanno dichiarato di aver tagliato i ponti con i due produttori. Una terza (Hugo Boss) si è impegnata a eliminare gradualmente il poliestere e il nylon: “Le altre rimangono in silenzio o minimizzano l’urgenza della crisi ucraina con vaghe promesse di cambiamento a diversi anni di distanza o con false soluzioni, come il passaggio al poliestere riciclato, per lo più da bottiglie di plastica”, si legge nel report.

    Tre società (H&M, C&A e Inditex) hanno risposto al questionario “distogliendo l’attenzione” dal legame con il petrolio russo per enfatizzare future strategie di transizione dal poliestere vergine a quello riciclato (da bottiglie di plastica) o verso materiali di nuova generazione. H&M ad esempio ha dichiarato la propria intenzione di non approvvigionarsi più di poliestere vergine entro il 2025 “tuttavia non ha chiarito le sue attuali pratiche per quanto riguarda i fornitori di poliestere legati al petrolio russo”. Analogamente, la catena olandese C&A afferma di volersi concentrare su materiali riciclati e di nuova generazione senza fornire informazioni sui legami con i fornitori oggetto dell’inchiesta. Nemmeno la spagnola Inditex ha risposto alle domande in merito a Reliance ed Hengli. Anche l’italiana Benetton avrebbe fornito risposte insufficienti o generiche: “Si è impegnata vagamente a una transizione verso materiali ‘preferiti’ -scrivono gli autori dell’inchiesta-, senza specificare però l’approccio ai materiali sintetici”.

    Tra quanti non hanno risposto al questionario c’è proprio Shein ma i suoi legami con il produttore indiano di poliestere sono evidenti: a maggio 2023 infatti le due società hanno sottoscritto un accordo in base al quale il colosso può utilizzare le capacità di approvvigionamento, l’infrastruttura logistica e l’ampia rete di negozi fisici e online di Reliance Retail, segnando così il ritorno di Shein in India dopo una pausa di tre anni. “Poiché il poliestere rappresenta il 64% del mix di materiali del brand e il 95,2% dell’abbigliamento di contiene plastica vergine, l’imminente collaborazione con Reliance suggerisce che una parte significativa delle circa 10mila novità giornaliere di Shein potrebbe in futuro essere derivata da prodotti di plastica vergine prodotti grazie a petrolio russo”, conclude il report.

    https://altreconomia.it/i-grandi-marchi-della-fast-fashion-non-vogliono-rinunciare-al-petrolio-

    #Russie #pétrole #fast-fashion #mode #polyester #rapport #textile #industrie_textile #industrie_de_la_mode

    • Fossil Fashion

      Today’s fashion industry has become synonymous with overconsumption, a snowballing waste crisis, widespread pollution and the exploitation of workers in global supply chains. What is less well known is that the insatiable fast fashion business model is enabled by cheap synthetic fibres, which are produced from fossil fuels, mostly oil and gas. Polyester, the darling of the fast fashion industry, is found in over half of all textiles and production is projected to skyrocket in the future. Our campaign exposes the clear correlation between the growth of synthetic fibres and the fast fashion industry – one cannot exist without the other. The campaign calls for prompt, radical legislative action to slow-down the fashion industry and decouple it from fossil fuels.

      Crude Couture: Fashion brands’ continued links to Russian oil

      December 2023

      Last year, our groundbreaking ‘Dressed to Kill’ investigation delved deep into polyester supply chains, unveiling hidden ties between major global fashion brands and Russian oil. We exposed Russia’s pivotal role as a primary oil supplier for key polyester producers India’s Reliance Industries and China’s Hengli Group, which were found to be supplying fibre for the apparel production of numerous fashion brands.

      Now, a year later, we returned to the fashion companies to evaluate if they have severed ties with these suppliers. Shockingly, our latest report reveals an alarming trend: the two leading polyester producers are increasingly reliant on war-tainted Russian oil in 2023. Despite prior warnings about these ties, major fashion brands continue to turn a blind eye, profiting from cheap synthetics, while Ukraine suffers. Only two companies – Esprit and G Star Raw – said they cut ties with the two polyester producers, while Hugo Boss committed to phase out polyester and nylon. The others remain silent or downplay the urgency of the Ukrainian crisis with vague promises of change several years ahead or with false solutions, such as switching to recycled polyester – mostly from plastic bottles. This investigation sheds light on the fashion industry’s persistent dependance on fossil fuel and their lack of action when it comes to climate change and fossil fuel phase out.

      https://changingmarkets.org/portfolio/fossil-fashion

  • Marine pollution, a Tunisian scourge: Jeans industries destroy the marine ecosystem in the #Ksibet_El-Mediouni Bay

    The Made in Tunisia clothes industry for the European market consumes large amounts of water and pollutes Tunisia’s coastline. In Ksibet El Mediouni, the population is paying the price of the environmental cost of #fast_fashion.

    Behind the downtown promontory, blue-and-white tourist villas and monuments celebrating former Tunisian President Habib Bourguiba, born in Monastir, give way to gray warehouses. Made in Tunisia clothes for export are cut, sewn, and packed inside these hangars and garages, many undeclared, by a labor force mostly of women, who are paid an average of 600 dinars, as confirmed by the latest social agreement signed with the main trade union, the Tunisian General Labour Union (UGTT), obtained by inkyfada.

    The triangle of death”

    The clothes are then shipped to the European Union, the primary export market. While most Tunisians can afford to buy second-hand clothes on the so-called “fripes” markets, 82% of Tunisian textile production leaves the country, according to the latest figures published in a report by the NGO Avocats Sans Frontières. Tunisia, like Morocco and Egypt, are attractive destinations for textile manufacturing multinationals due to their geographical proximity to the European market.

    Here, the tourist beaches quickly become a long, muddy marine expanse. The road that leads to the working-class neighborhoods south of Monastir, known as a hub of the textile industry - Khniss, Ksibet, Lamta, Ksar Hellal, Moknine - is paradoxically called Boulevard de l’Environnement (Environment Boulevard).

    This street name can be found in every major city in the country as a symbol of the ’authoritarian environmentalism of Ben Ali’s 1990s Tunisia’ - as researcher Jamie Furniss called it - redeeming the image of dictatorship ’by appealing to strategic hot-button issues in the eyes of the “West.”’

    After rolling up his pants, he dips his feet into the dirty water and climbs into a small wooden boat. ’Nowadays, to find even a tiny fish, we must move away from the coast.’

    ’Sadok is one of the last small fishermen who still dares to enter these waters,’ confirms Yassine, a history professor in the city’s public school, watching him from the main road to cope with the strong smell.

    Passers-by of Boulevard de l’Environnement agree: the Ksibet El-Mediouni Bay died ‘because of an abnormal concentration of textile companies in a few kilometers’, they say, polluting the seawater where the population used to bathe in summer.

    The region is home to five factory clusters. ’Officially, there are 45 in all, but there are illegal ones that we cannot count or even notice. They are often garages or warehouses without signs,’ confirms Mounir Hassine, head of Monastir’s Tunisian Forum for Economic and Social Rights.

    This is how the relocation of textile industries works: the big brands found in French, Italian, Spanish, and German shops relocate to Tunisia to cut costs. ’Then some local companies outsource production to other smaller, often undeclared companies to reduce costs and be more competitive,’ explains Habib Hazemi, President of the General Federation of Textiles, Clothing, Footwear, and Leather in the offices of the trade union UGTT.

    According to Hassine from the Tunisian Forum for Economic and Social Rights (FTDES), ‘undeclared factories often dig wells to access groundwater and end up polluting the Bay by discharging wastewater directly into the sea’.

    The public office responsible for water treatment (Office National de l’Assainissement, ONAS) ’fails to treat all this wastewater,’ he adds, so State and private parties bounce responsibilities off each other’. ’The result is that nothing natural is left here,’ Yassine keeps repeating.

    The unheard call of civil society

    Fatma Ben Amor, 28, has learned the meaning of pollution by looking at it through her window and listening to the stories of her grandparents, born and raised in the small town of Ksibet El Mediouni. ’ They often tell me that people used to bathe and go fishing here. I never knew the ’living’ beach,’ says this local activist.

    After the revolution, her city became the center of a wave of protests in 2013 by the population against ’an ecological and health disaster,’ it was written on the protesters’ placards. Nevertheless, the protests yielded no results, and marine pollution has continued.

    Founded in 2014, the Association for the Protection of the Environment in Ksibet el Mediouni (APEK) monitors the level of marine pollution in the so-called ’triangle of death.’ Fatma tries to raise awareness in the local community: ’We began with a common reflection on resource management in the region and the idea of reclaiming our bay. Here, youth are used to the smells, the waste, the dirty sea.’

    Under one of the bridges on Boulevard de l’Environnement runs one of the few rivers where there is still water. That water, however, ‘gathers effluent from the area’s industries’, the activists complain. ’The water coming from Oued el-Melah, where all the factories unload, pollutes the sea,’ she explains by pointing to the oued.

    According to the latest report by Avocats Sans Frontières (ASF) and FTDES in August 2023, one of the leading causes of marine pollution in Monastir governorate would be the denim washing process, a practice used in the dyeing of jeans.

    The ASF research explains that the jeans sector is characterized by technical processes involving chemicals - such as acetic acid used for washing, several chemical detergents and bleaching products, or hydrogen peroxide - and massive water consumption in a country suffering from water stress.

    During the period of 2011-2022, Tunisia has ratified important international texts that will strengthen and enrich Tunisian national law in terms of pollution control, environmental security, and sustainable development. ’ Although the regulations governing environmental protection and the use of water resources are strict, the authorities in charge of controls and prosecutions are outdated and unable to deal with the infringements,’ the ASF report confirms.

    According to both civil society organizations, there are mainly two sources of pollution in Ksibet Bay: polluting industries discharging chemicals directly into the seawater and the Office de l’Assainissement (ONAS) , ’which should be responsible for treating household wastewater, but mainly manages wastewater from factories discharging, and then throw them into the sea,’ Fatma Ben Amor explains.

    ’Take, for example, the ONAS plant at Ouad Souk, in Ksibet Bay. Created in 1992, it has a treatment capacity of 1,680 cubic meters per day, with a population more or less adapted to this capacity. It receives more than 9,000 cubic meters daily on average,’ Mounir Hassine confirms.

    ONAS did not respond to our interview requests. The Tunisian Textile and Clothing Federation (FTTH), representing part of the sector’s employers, assures that ‘the large companies in the region have all the necessary certifications and now use a closed cycle that allows water to be reused.’ The FTTH adds that the sector is taking steps towards the energy transition and respect for the environment.

    UTICA Monastir, the other branch of the employers’ association, has also confirmed this information. While a system of certifications and environmental audits has been put in place to monitor the work of large companies, ‘the underground part of the production chain escapes the rules,’ admits one entrepreneur anonymously.

    This pair of jeans is water’

    ONAS finds itself treating more water than the treatment stations’ capacities because, within a few decades, the Monastir region has radically changed its economic and resource management model. A few kilometers from the towns on the coast, roads run through olive groves that recall the region’s agricultural past.

    But today, agriculture and fishing are also industrialized: the governorate of Monastir produced almost 20,000 tonnes of olive oil by 2020. With 14 aquaculture projects far from the coast, the region ranks first in fish production, with an estimated output of between 17,000 and 18,000 tonnes by 2022.

    A wave of drought in the 1990s intensified the rural exodus from inland Tunisia to the coast. ’This coastal explosion has been accompanied by a development model that looked to globalization rather than domestic needs,’ Mounir Hassine from FTDES explains. ’Our region has been at the heart of so-called vulnerable investments, which bring in cheap labor without considering environmental needs and rights.’

    This sudden increase in residents has put greater pressure on the region’s natural water resources, ‘which supply only 50% of our water needs,’ he adds. The remaining 50 percent comes from the increasingly empty northern Oued Nebhana and Oued Medjerda dams. However, much of the water resources are not used for household needs but for industrial purposes.

    According to the ASF report, export companies draw their water partly from the public drinking water network (SONEDE). But the primary source is wells that draw water directly from the water table: ’Although the water code regulates the use of wells, 70% of the water used by the textile industry comes from the region’s unauthorized groundwater’. ’Most wells are dug inside the factories,’ Mounir Hassine from FTDES confirms.

    Due to the current drought wave and mismanagement of resources, Tunisia is now in water poverty, with an average use of 450 cubic meters of water per citizen (the poverty line is 500), according to 2021 data. Moreover, the Regional Agricultural Commission figures show that the water level in Monastir’s aquifers falls between three and four meters yearly.

    Water mismanagement is not just a problem in the textile industry. This type of production, however, is highly water-hungry, especially when it comes to the denim washing process.

    Even if the big brands are at the top of the production chain that ends on the coast of Ksibet El Medeiouni, ‘ they will rarely be held accountable for the social and environmental damage they leave behind,’ admits an entrepreneur in the sector working in subcontracting. Tunisian companies all work for several brands at the same time, and they don’t carry the same name as the big brands, which outsource production.

    ‘Tracing the chain of responsibility is complicated, if not impossible,’ confirms Adel Tekaya, President of UTICA #Monastir.

    The EU wants to produce more green but continues to relocate South

    Once taken directly from the aquifer or from the public drinking water company, SONEDE, a part of the waters polluted by chemical processes, thus ends up in the sea without being filtered. According to scholars, textile dyeing is responsible for the presence of 72 toxic chemicals in water, 30 of which cannot be eliminated.

    According to the World Bank, between 17% and 20% of industrial water pollution worldwide is due to the dyeing and finishing processes used in the textile industry. A figure confirmed by the European Parliament states:

    “Textile production is estimated to be responsible for around 20% of global clean water pollution from dyeing and finishing products".

    The EU has set itself the target of achieving good environmental status in the marine environment by 2025 by applying the Marine Strategy Framework Directive. Still, several polluting sectors continue to relocate their production to the Southern countries, where ‘there are fewer controls and costs,’ explains the entrepreneur requesting anonymity for fear of consequences for criticizing a ’central sector’ in the country.

    But pollution knows no borders in the Mediterranean. 87% of the Mediterranean Sea remains contaminated by chemical pollutants, according to the first map published by the European Environment Agency (EEA), based on samples taken from 1,541 sites.

    The environmental damage of the textile industry - considered one of ‘the most polluting sectors on the planet’ - was also addressed at Cop27 in Sharm El-Sheikh, where a series of social and climate objectives concerning greater collaboration between the EU and the MENA region were listed.

    One of the main topics was the urgent harmonization of environmental standards in the framework of the installation of digital product passports’, a tool that will track the origin of all materials and components used in the manufacturing process.

    FTTH ensures that large companies on the Monastir coast have invested in a closed water re-use cycle to avoid pollution. ‘All companies must invest in a closed loop that allows water reuse,’ Mounir Hassine reiterates.

    But to invest in expensive and reconversion work requires a long-term vision, which not all companies have. After a period of ten years, companies can no longer benefit from the tax advantages guaranteed by Tunisian investment law. ‘Then they relocate elsewhere or reopen under another name,’ Mounir Hassine adds.
    Environmental and health damages of marine pollution

    Despite the damage, only female workers walking around in white or colored uniforms at the end of the working day prove that the working-class towns south of Monastir constitute the most important manufacturing hub of Made In Tunisia clothes production. The sector employs 170,000 workers in the country.

    Tunisia is the ninth-largest exporter of clothing from the EU, after Cambodia, according to a study by the Textile Technical Centre in 2022. More than 1,530 companies are officially located there, representing 31% of the national fabric. 82% of this production is exported mainly to France, Italy, Belgium, Germany, and Spain.

    Some women sit eating lunch not far from warehouses on which signs ending in -tex. Few dare to speak; one of them mentions health problems from exposure to chemicals. ’We have received complaints about health problems caused by the treatment and coloring of jeans,’ confirms FGTHCC-UGTT (Textile, Clothing, Footwear and Leather Federation) general secretary Habib Hzemi. Studies have also shown that textile workers – particularly in the denim industry – have a greater risk of skin and eye irritation, respiratory diseases, and cancer.

    Pollution, however, affects not only the textile workers but the entire community of Ksibet. ’We do not know what is in the seawater, and many of us prefer not to know. We have tried to get laboratory tests, but they are very expensive,’ explains Fatma Ben Amor of the APEK Association.

    According to an opinion poll by the Association for the Protection of the Environment of Ksibet Mediouni (APEK) in July 2016, the cancer rate is 4.3%. Among the highest rates worldwide,’ explains a study on cancer in Ksibet for the German Heinrich Böll Stiftung. Different carcinogenic diseases have been reported in the local community, but a cancer register has never been set up.

    Pollutants from the textile industry have impacted marine life too. Like all towns on the coast, Monastir is known for fishing bluefish, sea bream, cod, and other Mediterranean species. But artisanal fishing is increasingly complicated in front of the bay of Ksibet El Mediouni, and the sector has become entirely industrialized. Thus, the town’s small port is deserted.

    ’The port of Ksibet is emptying out, while the ports of Sayeda and Teboulba, beyond the bay, are still working. There are only a few small-scale fishermen left. We used to walk into the water to catch octopuses with our hands,’ one of the port laborers explains anonymously, walking on the Bay.

    ’Thirty years ago, this was a nursery for many Mediterranean species due to the shallow waters. Now, nothing is left,’ he adds. As confirmed by several fishermen in the area, the population has witnessed several fish deaths, most recently in 2020.

    ’We sucked up the algae, waste, and chemical waste a few years ago for maintenance work,’ explains the port laborer. ’Once we cleaned it up, the sea breathed again. For a few days, we saw fish again that we had not seen for years. Then the quicksand swallowed them up again.’

    https://inkyfada.com/en/2023/11/03/marine-pollution-jean-industry-tunisia

    #pollution #jeans #mode #Tunisie #mer #textile #industrie_textile #environnement #eau #pollution_marine

  • Prijelaz / #The_Passage — dedicated to our fallen comrades

    Od 14. do 21. svibnja 2021. godine u galeriji Živi Atelje DK u Zagrebu predstavljeno je spomen-platno Prijelaz / The Passage. Prijelaz / The Passage je zbirka memorijalnih portreta izrađenih od crvenog i crnog konca na botanički obojanoj tkanini koji su nastali u okviru umjetničkih istraživačkih radionica koje je osmislila i kurirala selma banich u suradnji s Marijanom Hameršak, a na kojima su sudjelovale umjetnice, znanstvenice, prevoditeljice i druge članice kolektiva Žene ženama i znanstveno-istraživačkog projekta ERIM.

    https://erim.ief.hr/en/publikacije/prijelaz-the-passage

    –-

    THE PASSAGE — dedicated to our fallen comrades

    #Selma_Banich and #Marijana_Hameršak in collaboration with Women to Women collective

    Živi Atelje DK, Zagreb, 2021

    https://selmabanich.org/index#/the-passage
    #portraits #art_et_politique #migrations #réfugiés #asile #décès #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #commémoration #mémoire #textile #Balkans #route_des_Balkans

  • Human Material Loop sets out to commercialise textiles made from hair
    https://www.dezeen.com/2023/11/28/human-material-loop-textiles-from-hair

    Dutch company Human Material Loop is using an unusual waste source to make a zero-carbon wool alternative that requires no land or water use: human hair.

    People’s discomfort around the use of human hair is said to fade when they see the fabric

    #tissus #cheveux

    • ça me parait pas mal. récupérer tel ou tel morceau pour ne pas gâcher l’entièreté des corps d’exterminés ou ne pas négliger d’éventuels usages des déchets déjà produits par des vivants, c’est la nuit (et brouillard) et le jour. voilà des matériaux organiques de qualité qui n’auront pas à être produits.

      + Hypoallergenic by nature
      + Cruelty free
      + 100% natural
      + Fully traceable
      + Value from waste

      https://humanmaterialloop.com
      je m’attendais à trouver des tarifs élevés, or ils sollicitent des dons...

      #cheveux #textile

    • Par contre on traduit un peu vite « hair » par « cheveux » alors que ça veut aussi dire « poils ». Et là, quand on pense à certains barbus d’ici et d’ailleurs, ça donne moins envie.

    • la laine c’est pas mal, ça permet aussi de vivre avec des animaux utiles pour plein de choses Les montagnes se sont vidées parce que les tracteurs tombent dans les pentes et le cheval de trait est loin. les ronces reprennent leurs droits et la forêt gagne. Mes cheveux ne feront pas l’isolation de mon toit, alors que les moutons si en plus, merci, d’empêcher les chasseurs de venir dans des forêts qui n’existent pas !
      Des fois je pige pas.
      #brouteuse

    • mais c’est pas ou bien des moutons et des chèvres ou bien des pilosités humaines devenues inutiles, pourquoi pas les deux et moins de plastique ?

      si on prend leur pub au mot, récupérer un tiers des cheveux jetés en Europe, c’est déjà une bonne manière de produire moins (sous réserve que la récup ne nécessite pas beaucoup plus de travail et d’énergie que mettons du #plastique Shein)


      edit regardant à nouveau le chiffre, je crois que c’est inévitablement un produit de niche rare et cher, que ça vaut moins que le #recyclage des tissus déjà gaspillés dans la fringue

    • @arno une très ancienne tradition d’usage du cheveux persiste dans le métier de posticheur, pour les personnes sous chimio ou le spectacle et jusqu’à très récemment pour la calvitie.
      Mon arrière grand père était posticheur et ma mère possède toujours sa poupée d’enfance avec de vrais cheveux (c’était bien souvent le cas avant l’apparition du synthétique).
      J’ai moi-même fabriqué un masque de « bête » pour un spectacle. Pour l’aspect dru, j’avais le choix entre le poil de yack ou le cheveu d’Indonésienne. Pour une question de budget j’ai choisi le premier.

  • Fin de grève amère dans les usines textiles du Bangladesh
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2023/11/17/fin-de-greve-amere-dans-les-usines-textiles-du-bangladesh_6200798_3234.html


    Des #ouvriers textiles bangladais retournent travailler dans leur usine à Ashulia, au nord de Dhaka (?), le 15 novembre 2023. MUNIR UZ ZAMAN / AFP

    Le mouvement de revendication pour de meilleurs salaires, qui a mis l’industrie textile à l’arrêt pendant trois semaines, n’a pas eu gain de cause. Presque aucun donneur d’ordre occidental n’a incité ses fournisseurs à payer décemment les ouvriers.

    Les ouvriers des usines textiles du Bangladesh n’ont pas eu gain de cause. Après trois semaines de #grève, de manifestations et de heurts avec la police, ceux qui fabriquent les vêtements #Levi’s, #Zara et autres H&M ont repris le travail, mercredi 15 novembre, sans obtenir le quasi-triplement de leurs salaires demandé.
    Le comité du #salaire minimum du secteur textile a décidé d’augmenter la rémunération de base de 56 %, la portant à 12 500 takas, soit 104 euros, mardi 8 novembre. Un montant que les syndicats jugent « ridicule » au regard des 23 000 takas, soit environ 190 euros, revendiqués.
    Sheikh Hasina, la première ministre du pays qui briguera un cinquième mandat lors des élections générales, le 7 janvier 2024, a refusé toute nouvelle hausse du salaire minimum et intimé les ouvriers de reprendre le travail sous peine de perdre leur emploi et d’avoir « à retourner dans leurs villages ».

    Troisième plus gros fournisseur mondial

    De fait, « c’est par obligation financière et sous la pression du gouvernement et la menace des autorités policières, y compris physiques, que les ouvriers grévistes ont repris le travail », observe Christie Miedema, coordinatrice de Clean Clothes Campaign, une fédération d’organisations non gouvernementales qui militent pour le respect des droits humains.
    « La situation ressemble à celle d’il y a cinq ans », déplore Mme Miedema. En 2018, le salaire minimum dans ce secteur, qui emploie quatre millions de personnes, avait été révisé à 8 000 takas, soit 65 euros, pour cinq ans. Depuis, le secteur a traversé la crise du Covid-19 et essuyé l’inflation galopante, de l’ordre de 35 % depuis 2019.

    A l’été 2023, pour la première fois, le gouvernement a monté un comité pour déterminer un #salaire_minimum applicable dans le secteur du #prêt-à-porter au 1er décembre, sans attendre l’échéance de 2024. Toutefois, aucun des syndicats représentatifs du personnel de cette puissante industrie n’y siège. A l’évidence, le patronat local rechigne à augmenter les salaires de peur de dégrader la compétitivité d’un secteur qui représente 85 % des 55 milliards d’euros d’exportations annuelles du pays. Grâce à un réseau de 3 500 usines, le secteur est connu pour être l’un des moins chers au monde : le pays est le troisième fournisseur de vêtements, derrière la Chine et le Vietnam.

    Quatre morts à Dacca

    Dix ans après l’effondrement de l’immeuble du Rana Plaza à Dacca, tuant plus de 1 100 ouvriers textiles, les conditions de travail n’ont guère évolué. En outre, le #Bangladesh est toujours dans la ligne de mire des ONG qui y dénoncent les atteintes au droit syndical. En juin dernier, Luc Triangle, secrétaire général de la Confédération syndicale internationale, a condamné le meurtre de Shahidul Islam Shahid, responsable syndical de la Fédération des travailleurs de l’industrie et des usines textiles du Bangladesh, « battu à mort » par un gang après avoir assisté à une réunion syndicale. « Cet assassinat s’inscrit dans un contexte d’attaques ciblées contre les leaders syndicaux au Bangladesh et aura un effet dissuasif sur le mouvement ouvrier déjà très restreint », avait alors réagi l’ONG américaine Human Rights Watch.

    Les manifestations de l’automne ont aussi été très violentes pour les grévistes, notamment à Dacca. Au moins quatre ouvriers ont été tués lors des manifestations, dont trois ont été abattus par les forces de l’ordre, d’après l’AFP. Quelque 140 ouvriers et plusieurs dirigeants syndicaux ont été arrêtés, et environ 10 000 travailleurs font l’objet de poursuites pour violences, selon la police, précise aussi l’agence d’informations.

    Mercredi 15 novembre, le principal dirigeant syndical, Babul Akhter, a demandé au gouvernement de « libérer tous les ouvriers arrêtés », avant d’appeler à reprendre le travail, tout en maintenant ses revendications. « Nous n’avons pas dévié de notre revendication d’un salaire minimum de 23 000 takas », a-t-il déclaré à l’AFP. « La colère des ouvriers a été alimentée par la hausse du coût de la vie, avec des denrées de base qui sont devenues inabordables, affirme Taslima Akhter, membre du mouvement d’ouvriers Bangladesh Garment Workers Solidarity, mais la violence s’exprime d’autant plus facilement que les syndicats ne sont autorisés que sur le papier et sont contrôlés par les propriétaires d’usines. »

    Les marques occidentales « responsables »

    De son côté, le patronat bangladais pointe le rôle ambivalent des #donneurs_d’ordre. L’Association des fabricants et des exportateurs de vêtements du Bangladesh a notamment estimé que le niveau de salaire pratiqué dans leurs usines découlait des prix imposés par leurs clients, dont surtout des #marques occidentales. « Elles sont autant responsables de la hausse des salaires que les fabricants bangladais », déclare au Monde Miran Ali, son vice-président. Selon lui, il n’est pas acceptable que ces donneurs d’ordre « prennent publiquement position en faveur d’une hausse des salaires et, en privé, refusent d’absorber cette hausse de coûts » en relevant leurs prix d’achat.
    De fait, rares sont les marques à avoir répondu aux appels de soutien des revendications salariales. L’association Clean Clothes Campaign avait notamment interpellé une douzaine d’entre elles, dont #H&M et #C&A, qui fabriquent leurs collections à moindre prix au Bangladesh. Mais seule Patagonia a répondu, observe Mme Miedema. La marque de sport américaine a rejoint l’association Fair Labor pour appeler Dacca à porter le salaire minimum à 23 000 takas. « Les autres fabricants sont moins explicites, voire totalement muets », pointe Mme Miedema. En septembre, Human Rights Watch constatait que la question de la liberté d’expression était « à peine abordée » dans la plupart des rapports d’audit sociaux commandés par les grandes marques d’habillement.
    En France, #Carrefour se contente de rappeler avoir « pris position le 13 septembre en faveur d’une revalorisation du salaire minimum des travailleurs des usines textiles ». En Espagne, #Inditex est aussi fort prudent. Le numéro un mondial de l’habillement refuse de commenter les événements récents et renvoie à ses déclarations de septembre. Il exprimait alors toute sa confiance envers le comité du salaire minimum du secteur textile afin « d’établir un salaire minimum au Bangladesh qui couvre le coût de la vie des ouvriers et de leurs familles ».

    Il n’en a rien été, estiment nombre d’ONG, dont la Fair Wear Foundation. L’association, qui travaille avec des marques, des usines et des syndicats pour améliorer les conditions de travail des employés dans l’industrie textile, fait partie des 2 500 signataires d’une lettre envoyée le 16 novembre à la première ministre pour exprimer « leur inquiétude » et l’inviter « à revoir sa décision » puisque, prévient-elle, le nouveau salaire minimum « ne couvre pas les besoins fondamentaux » des ouvriers textiles du Bangladesh.

    #textile #mode

  • La trama di Camini: storie senza confini da un piccolo paese della Locride

    Nel Comune in provincia di Reggio Calabria c’è dal 2019 #Ama-La, un laboratorio tessile eco-solidale aperto grazie ai fondi 8xmille dell’Unione Buddhista Italiana che accompagna le donne rifugiate e vittime di violenza verso l’integrazione e l’autonomia. In questi anni il paese è rinato

    Si chiama filoxenia lo spirito di Camini, piccolo paese della Locride, in provincia di Reggio Calabria. È l’esatto contrario di xenofobia, la paura dello straniero. Proprio qui nel 2019 -grazie ai fondi 8xmille dell’Unione buddhista italiana- nell’ambito di un progetto del Sistema accoglienza integrazione (Rete Sai, già Siproimi e Sprar) è nato Ama-La, un laboratorio tessile eco-solidale le cui trame trascendono il telaio.

    Lo racconta Rosario Zurzolo, presidente della cooperativa sociale Eurocoop Servizi “Jungi mundu” (che in dialetto locale significa “unisci il mondo”). “Ama-La accoglie e accompagna da quattro anni donne rifugiate da diversi Paesi, vittime di violenza di genere e altre persone migranti con storie differenti, in un processo di formazione e di crescita dell’autostima, con l’obiettivo di appropriarsi del proprio potenziale creativo, imparare un mestiere e raggiungere l’autonomia”.

    Giuliano Ienco è uno dei maestri artigiani del laboratorio: “Donne e ragazze provengono da Paesi di culture diverse, nei primi anni soprattutto da Eritrea, Senegal, Yemen e oggi da Siria, Nigeria, Afghanistan, Libia, Marocco. Nei sei mesi di corso spieghiamo le tecniche di base della tessitura e tramandiamo i saperi tradizionali calabresi, come la tecnica della pezzara, ottenuta da stoffe di riciclo e recupero, ma ogni anno affrontiamo anche un ʻfilo’ diverso, ad esempio la ginestra, il baco da seta o la coltivazione a lino”.

    Al mattino Giuliano insegna alle donne a usare il telaio e spiega i vari sistemi di tessitura, mentre il pomeriggio Caterina gestisce la parte dedicata all’eco printing (la pittura con tecniche naturali, ad esempio con le foglie). Dai telai, a seconda del talento, della cultura e della capacità espressiva delle partecipanti escono poi borse, abiti e cinture, coprispalle, borsellini, cappelli, collane ma anche tappeti e tovagliette, che si possono acquistare in loco od ordinare sulla pagina Facebook. “L’obiettivo principale del laboratorio -spiega Giuliano- non è però il profitto, ma il benessere delle persone e il riconoscimento delle loro stesse capacità: essere apprezzate è importante per tutti ed è il primo passo per ritrovare autostima e fiducia”. Una ragazza siriana e una donna afghana hanno trovato proprio qui uno sbocco lavorativo, mentre tante altre hanno proseguito il loro progetto migratorio.

    Ma il maggiore valore aggiunto è che la comunità di Camini, circa 750 abitanti, il centro storico in collina a otto chilometri dalla località costiera, grazie al progetto di ospitalità Sai e alle sue attività sta vivendo una rinascita, fondata proprio sull’accoglienza. “Il paese oggi è vivo -spiega Zurzolo-, lo spopolamento, endemico nel territorio, si è interrotto, nonostante manchino ancora le strade e molti altri servizi essenziali; i giovani stanno rientrando, alcuni migranti si sono fermati, riaprono negozi e attività”. Un piccolo miracolo, in un contesto tanto bello quanto complicato.

    “I servizi nascono solo dove c’è gente -chiarisce Rosario- e il turismo di un mese all’anno per un borgo dell’entroterra non era sufficiente a creare un circolo virtuoso. La chiave per il cambiamento è stato un atto di coraggio, ovvero dare la massima disponibilità possibile per il progetto Sai -118 persone migranti da accogliere-. Questa apertura all’’altro’ è stata possibile perché non ci è stato imposta dall’alto ma è stata condivisa con piena consapevolezza dalla comunità”.

    Rosario è stato così testimone di un piccolo miracolo. Numeri piccoli, ma importanti, perché hanno validato un modello che negli ultimi tempi era stato messo -a torto o a ragione- in discussione: nel centro storico interno vivono oggi circa 300 persone, molte delle quali hanno a che fare con il progetto Sai, ma anche cittadini residenti, italiani e stranieri. I primi, terminato il percorso di accoglienza, hanno deciso di rimanere sul territorio, i secondi hanno scelto di tornare e di investire sul borgo. “Nel 2011, come era successo in diversi centri della Locride, la scuola materna era stata chiusa e restava solo una pluriclasse di otto bambini, con due insegnanti. A dodici anni di distanza con la nascita di nuovi bambini, ci sono due sezioni della materna, quattro classi di elementari e una ventina di persone assunte, tra insegnanti e personale non docente. Ma soprattutto i bambini possono rimanere a fare scuola qui”.

    “Ho visto un paese scomparire e poi risorgere dalle ceneri, grazie alla forza delle persone -continua Rosario-. Più di uno è salito verso Camini per lavorare o per fare l’imprenditore. Oltre a me erano rimasti alcuni ex-compagni di scuola della mia generazione, poi un paio di ragazzi che erano in Inghilterra sono tornati per lavorare con la cooperativa. Abbiamo potuto creare diversi laboratori artigianali per mantenere vive le nostre tradizioni, ceramica, falegnameria, liuteria, e corsi di cucina locale e siriana che hanno luogo all’interno del bar-ristorante Jungi Mundu”.

    Le storie personali si sono incrociate con le scelte dell’amministrazione comunale e hanno fatto la differenza. “Abbiamo puntato sull’autonomia abitativa: le case lasciate vuote dagli italiani e dalle italiane, infatti, ora sono occupate dalle persone rifugiate. E si è invertita la tendenza. Così quest’anno un ventitreenne del luogo ha deciso di tornare e ha aperto un salone di parrucchiere, aperto tre giorni alla settimana, dove vengono a tagliarsi i capelli anche dai Comuni limitrofi. Cose mai viste”. I turisti di passaggio nel borgo storico, finalmente, si possono fermare a dormire qui, da giugno a settembre, grazie a un progetto di turismo solidale e trovano il bar e ristorante, le botteghe di prodotti locali e i servizi essenziali, come la Posta e il suo bancomat. Il paese è vitale, a luglio il Kaminion fest l’ha fatto risuonare di musiche e discorsi.

    Rosario ha un’idea molto chiara: “La cosa positiva è che abbiamo creato almeno l’opportunità di scegliere se restare”. Le storie sono tante. Filmon è un ragazzo eritreo che ha comprato casa con la famiglia e l’ha ristrutturata grazie a una quota dei fondi 8xmille di Unione buddhista italiana e ora fa il miele. La curatrice, Chiara Scolastica Mosciatti, ha aperto qui Duçicontemporanea, una galleria e studio d’arte e, proprio ora, a ottobre 2023 un gruppo tedesco ha inaugurato la stalla recuperata per residenze teatrali con uno spettacolo di teatro all’aperto.

    “In sintesi, pur non avendo niente, siamo diventati un’attrazione, un paese aperto a differenze culturali e religiose dove si respira l’atmosfera di felice convivenza -dice Zurzolo- quasi di fratellanza. Il Laboratorio Ama-La, espressione di derivazione tibetana che significa ʻdonna e madre’, resta il simbolo di questo percorso, perché le storie delle donne che lo frequentano sono le nostre storie e non hanno confini. Questo non è solo un posto di lavoro, è anche luogo di conforto e di cura, dove le donne possono bere un tè e condividere i propri percorsi, tra di loro o con l’assistenza di psicologa, educatrice, assistente sociale. Una terapia ʻdello stare insieme’ e del ʻparlare insieme’, aperto a tutti, anche a persone del luogo”.

    https://altreconomia.it/la-trama-di-camini-storie-senza-confini-da-un-piccolo-paese-della-locri
    #textile #accueil #réfugiés #asile #migrations #Italie #Calabre #femmes_migrantes #Jungi_mundu #Giuliano_Ienco #miracle #dépeuplement #repeuplement #artisanat

  • Quand la #mode surchauffe : #Shein, ou la course destructrice vers toujours plus de #vêtements

    En 2022, Shein enregistrait une croissance de 100 % de son chiffre d’affaires, atteignant 30 milliards de dollars. Alors que les enseignes de prêt-à-porter françaises s’enfoncent dans une crise économique et sociale sans précédent, les marques de #fast-fashion semblent être les seules à sortir leur épingle du jeu.

    https://www.amisdelaterre.org/publication/quand-la-mode-surchauffe-shein-ou-la-course-destructrice-vers-toujour
    #rapport #industrie_textile #textile

    • SHEIN, la marque d’#ultra_fast-fashion qui envahit le monde

      Shein est une marque d’ultra fast fashion chinoise. L’ultra fast fashion propose des vêtements très bas de gamme à un rythme effréné, à des prix défiant toute concurrence, visant particulièrement un public adolescent grâce à un marketing digital agressif.

      La croissance de la marque est exponentielle. Ses méthodes de production et le caractère jetable de ses vêtements sont une menace pour l’environnement, et sont rendues possibles grâce à un système d’exploitation humaine et une stratégie commerciale si agressive qu’elle paraît relever de pratiques anticoncurrentielles. Son modèle est incompatible avec un développement durable de l’industrie de la mode et du vivant en général. Faut-il interdire Shein et l’ultra fast fashion ?

      Cette question simple appelle une réponse épineuse mais a permis de soulever un mouvement citoyen d’indignation. Le 4 mai 2023, un collectif porté par The Good Goods – média et agence de conseil pour une mode fondée sur des preuves – a lancé une pétition pour contrer le modèle économique insoutenable de l’ultra fast fashion. Elle a recueilli plus de 250 000 signatures à date et permis un premier rendez-vous avec Bruno Le Maire, Ministre de L’Economie, des Finances et du Numérique.

      En amont d’un second entretien pour définir les restrictions, la pétition a besoin d’un maximum de signatures et le mouvement d’une sensibilisation du plus grand nombre au sujet de Shein et de l’ultra fast fashion en général.

      https://bonpote.com/shein-la-marque-dultra-fast-fashion-qui-envahit-le-monde

  • Nos vieux habits font des milliers de kilomètres pour finir dans des décharges Rts - Mise au point - Une enquête de François Ruchti, Dimitri Zufferey et de Drissa Bamba
    https://www.rts.ch/info/suisse/13535036-nos-vieux-habits-font-des-milliers-de-kilometres-pour-finir-dans-des-de

    Grâce à des systèmes de géolocalisation cachés, Mise au Point a remonté la route des habits déposés dans les bennes de récupération. Les résultats sont édifiants  : 250 jours après leur dépôt, des habits suisses parcourent plus de 17’000 km pour être vendus dans des marchés en Moldavie ou en Afghanistan, alors que d’autres finissent dans des décharges à ciel ouvert.


    L’équipe de Mise au Point a soigneusement caché 16 systèmes de géolocalisation, des AirTag, dans des habits et des souliers. Ces affaires ont été déposées dans des bennes de récupération en Suisse romande. Pendant 250 jours, leur localisation a été enregistrée quotidiennement. Ces puces transmettent leur position non pas sur des données satellite mais se servent du réseau bluetooth.

    Les AirTag, systèmes de géolocalisation, placés dans les vieux habits transmettent leur position via le réseau bluetooth des téléphones mobiles. [RTS]
    L’objectif de l’enquête est de comprendre le destin des habits usagés, démodés ou déchirés que les Suisses jettent chaque année. La Croix-Rouge, Solidar, mais aussi des enseignes de mode comme H&M, C&A ou Zara mettent à disposition en Suisse des bennes de récolte. Ils ont une promesse : ces habits et ces souliers seront triés, recyclés pour protéger l’environnement.

    H&M en fait même un argument marketing  : « Une mode de qualité, au meilleur prix et de manière responsable, l’ambition de H&M est de travailler à un changement dans la manière dont la mode est faite aujourd’hui. (…) et de mener des actions en matière développement durable afin d’économiser les ressources naturelles et de ne plus avoir de vêtements dans les décharges.  »

    17’000 km pour être recyclés, revendus ou jetés
    Les résultats sont à des milliers de kilomètres de ces promesses, plus précisément à 17’000 km. C’est la distance maximale que vont parcourir certains habits et souliers déposés dans des bennes en Suisse. En moyenne, ce sont 6200 km effectués en camion ou en bateau pour chaque habit ou souliers recyclés.

    C’est en janvier 2022 que démarre le projet. L’équipe de Mise au Point dépose les pièces munies des puces. Le parcours de près de la moitié des vêtements se termine en Europe de l’Est (Moldavie, Biélorussie ou Ukraine). Les résultats de l’autre moitié sont tout aussi intéressants. Des puces de localisation signalent leur position en Asie ou en Amérique du Sud, notamment en Afghanistan et au Venezuela. Un peu plus de 20% de l’échantillon finit son parcours en Afrique (Côte d’Ivoire, Malawi, Mali). Seul un habit est resté en Suisse pour être revendu dans une boutique de seconde main, ainsi qu’un second dans la région de Naples en Italie.

    Les systèmes de localisation montrent que les habits font régulièrement des aller-retours entre des entrepôts en Afrique et en Europe. Ces entrepôts appartiennent à des intermédiaires spécialisés dans le tri des habits de seconde main. Un pull est par exemple parti en camion vers la Belgique, puis en bateau pour un entrepôt en Tunisie, avant de revenir quelques semaines plus tard dans le port de Rotterdam aux Pays-Bas pour repartir en Afrique.

    Un marché qui vaut des millions
    Un autre vêtement a lui voyagé d’entrepôt en entrepôt à travers l’Europe de l’Est jusqu’en Hongrie, avant de rejoindre la Belgique. De là, la puce arrête de transmettre la géolocalisation pendant plusieurs semaines. Un mois plus tard, il réapparaît au Togo. Il traverse encore plusieurs pays africains pour terminer dans un village au cœur de la Côte d’Ivoire.

    Contrairement à ce que beaucoup de gens pensent, les habits déposés dans les bennes de récupération ne sont pas donnés aux plus démunis. Ces affaires sont en réalité revendues à différents grossistes de la fripe. Pour la Croix-Rouge et les autres organisations humanitaires, l’argent de ces ventes est une source de financement de leurs activités caritatives.

    Un tri peu efficace
    Peu importe les filières de récupération d’habits, tous passent par des grossistes. SOEX en Allemagne, SEATEX en Belgique ou SOLTEX en Pologne sont les leaders du marché. Dans d’énormes entrepôts, les habits sont triés manuellement.

    En théorie, les vêtements considérés comme trop usés sont détruits ou recyclés, les autres exportés pour être revendus. Aucun des 16 habits et souliers munis d’un traceur n’a été recyclé, tous ont quitté les centres de tri. Un résultat étonnant car nous avions endommagé volontairement plusieurs vêtements et souliers avec des trous et des dégâts irréparables.

    Une paire de souliers hors d’usage a ainsi terminé en Afghanistan alors qu’elle était bonne à la poubelle. Sollicité, SOEX n’a pas souhaité répondre à nos questions. Sur son site internet, il est précisé  : « Nous trions de manière méticuleuse. Nous priorisons la réutilisation des vêtements plutôt que le recyclage. Tous les vêtements et souliers sont inspectés manuellement. (…) Nous avons une philosophie de zéro déchet. Notre objectif est d’éviter un maximum que des habits finissent dans des décharges ou soient brûlés ».

    Exportation de déchets
    Selon Greenpeace, 80% des fripes exportées d’Europe finissent dans des décharges à ciel ouvert. L’enquête de Mise au Point confirme le problème, mais dans une proportion moindre.

    Première bonne nouvelle, aucun habit n’a terminé dans un pays interdit. Le Rwanda a par exemple banni l’importation d’habits usagés afin de protéger les producteurs locaux.

    Autre bonne nouvelle, sur les 16 habits et souliers, deux seront même revendus dans des boutiques de seconde main en Suisse et en Italie. Cinq semblent toujours en transit dans des entrepôts. Plus de 30% des puces de localisation indiquent des zones à risque : terrain vague, bord de route ou marché à ciel ouvert sans système de traitement des déchets.

    Décharges à ciel ouvert
    L’équipe de Mise au Point s’est rendue en Côte d’Ivoire et en Moldavie pour retrouver les habits munis de puces de localisation. En Côte d’Ivoire, un pantalon a terminé dans un marché de fripes à Bouaké. Un lieu où des centaines de petits magasins revendent une partie des habits, alors que les invendus sont brûlés ou abandonnés sur le site même. La dernière position de la puce indiquait que le vêtement était parti dans un petit village aux alentours. Le traceur a depuis cessé d’émettre.

    En Moldavie, des souliers avec puces de localisation ont passé également dans un marché à ciel ouvert. Une des vendeuses du marché explique acheter ces vêtements à crédit par lot de 25-50 kilos. Elle regrette d’être obligée de trier à nouveau les habits, beaucoup étant trop usés ou démodés pour sa clientèle.

    Près de 50% sont jetés à la poubelle. Une des paires de baskets a été jetée, l’équipe de Mise au Point a pu récupérer la puce. En Moldavie, ce type de déchets termine dans des décharges, notamment à Tintareni. Cette dernière est considérée comme la plus grande du pays, elle est inondée de vêtements de seconde main.

    #recyclage #escroquerie #pollution #textile #environnement #fripes #géolocalisation #AirTag

  • Grâce aux textiles qu’elles tissaient, les femmes vikings étaient des piliers de l’économie nord-atlantique
    https://trustmyscience.com/femmes-vikings-piliers-economie-nord-atlantique-grace-tissu

    Dans la science de la culture médiévale, la femme est souvent reléguée à un rang inférieur par rapport aux hommes. Cependant, des preuves archéologiques montrent que dans les cultures auparavant considérées comme patriarcales, les femmes tenaient une place prépondérante, notamment chez les Vikings. Michèle Hayeur Smith, éminente archéologue et anthropologue à l’Université Brown (États-Unis), a révélé que grâce aux textiles qu’elles tissaient, les femmes vikings auraient été les piliers de l’économie nord-atlantique, entre le XIIe et le XVIIe siècle. Ces découvertes démontrent à quel point notre compréhension des cultures passées peut être incomplète et erronée, et devraient faire l’objet de recherches plus approfondies.

  • Au Chili, des montagnes de vêtements usagés en plein désert
    https://www.novethic.fr/actualite/environnement/dechets/isr-rse/jeudi-photo-au-chili-des-montagnes-de-vetements-usages-en-plein-desert-1503

    Des dunes de vêtements en plein désert. Cette photo prise fin septembre par le photographe de l’Agence France Presse (AFP) Martin Bernetti a des allures surréalistes. Elle montre pourtant une réalité bien palpable, celle d’une décharge sauvage de textile située dans le désert d’Atacama près la commune d’Alto Hospicio au nord du Chili.

    Plusieurs décharges comme celle-ci existent dans la région, comptabilisant environ 39 000 tonnes de déchets. Le Chili s’est spécialisé depuis une quarantaine d’années dans le commerce de vêtements de seconde main. Mais la quantité croissante d’habits à bas coût provenant d’Asie engorge son circuit de revente et nourrit de manière exponentielle ces montagnes de textile.

    « Le problème est que ces vêtements ne sont pas biodégradables et contiennent des produits chimiques, ils ne sont donc pas acceptés dans les décharges municipales », explique Franklin Zepeda, qui a fondé en 2018 EcoFibra, une entreprise de recyclage en mesure de traiter jusqu’à 40 tonnes de vêtements par mois. Un effort bienvenu mais largement insuffisant pour résoudre l’ensemble du problème.

  • Les géants de l’habillement fragilisés par le confinement prolongé du Vietnam
    https://fr.fashionnetwork.com/news/Les-geants-de-l-habillement-fragilises-par-le-confinement-prolong

    Chaussures de sport, sweat-shirts, pantalons de survêtement : le confinement strict et prolongé du Vietnam en raison du coronavirus a provoqué des pénuries de produits chez des marques internationales telles que #Nike et #Gap, devenues de plus en plus dépendantes des fabricants de ce pays d’Asie du Sud-Est.

    Dans son usine de tissus à l’est de Hanoï, Claudia Anselmi, la directrice de Hung Yen Knitting & Dyeing, sous-traitant pour plusieurs géants européens et américains de l’habillement, se demande chaque jour si les machines vont devoir s’arrêter.

    Lorsque la dernière vague de #Covid-19 a frappé le pays au printemps, la production a chuté de 50%, et l’Italienne est confrontée à des problèmes d’approvisionnement.

    « Les restrictions de voyage ont mis en péril toute la logistique d’entrée et de sortie... cela a créé de longs, longs retards » dans la livraison du fil utilisé dans des maillots de bain et des vêtements de sport pour des clients tels que #Nike, #Adidas et Gap, a-t-elle déclaré à l’AFP.

"Nous ne survivons que si nous avons du #stock".

    Ajouter à cela des mesures de #confinement contrôlées de manière stricte qui ont empêché de nombreux vietnamiens de se rendre au travail ou de circuler pendant de longues périodes.

    

Plusieurs chauffeurs du delta du Mékong ont dû attendre trois jours et trois nuits dans leur véhicule avant d’entrer dans Can Tho (sud), a raconté Hamza Harti, le responsable de l’entreprise de logistique FM Logistic lors d’une table ronde à la chambre de commerce française de Hanoï. « Ils étaient sans nourriture, sans rien ».

 

    Accélérées par la guerre commerciale entre Washington et Pékin, les relocalisations d’usines de la #Chine vers l’Asie du Sud-Est se sont amplifiées ces dernières années, particulièrement au bénéfice du Vietnam.


    Risques de rupture d’approvisionnement
    Mais les mesures sanitaires exposent désormais les #multinationales à des risques de rupture d’#approvisionnement.



    L’équipementier Nike, qui produit la moitié de ses chaussures dans le pays communiste, a annoncé des pénuries et a revu ses prévisions de vente à la baisse, déclarant que 80% de ses usines dans le sud du pays ont dû fermer.



    Le japonais Fast Retailing, propriétaire de la marque #Uniqlo, a également mis sur le compte du blocage du Vietnam des retards dans la production de ses vêtements.

    #Adidas a de son côté estimé que la baisse de ses ventes pourrait atteindre jusqu’à 500 millions d’euros d’ici à la fin de l’année.

    

Plusieurs marques dont Nike et Adidas ont annoncé qu’elles envisageaient de produire temporairement ailleurs qu’au Vietnam.


    Dans une lettre adressée au Premier ministre Pham Minh Chinh, plusieurs associations d’entreprises américaines, européennes, sud-coréenne et du sud-est asiatique ont tiré la sonnette d’alarme, avertissant que 20% de leurs membres fabricants avaient déjà quitté le pays.

"Une fois la production déplacée, il est difficile d’y revenir", ont-ils écrit.

    Nguyen Thi Anh Tuyet, directrice générale adjointe de Maxport Vietnam, dont les 6.000 employés fabriquent des vêtements de sport pour des entreprises comme #Lululemon, #Asics et Nike, a déclaré à l’AFP que l’entreprise était « très inquiète » de voir ses clients retirer leurs commandes, même si elle est l’une des rares à avoir traversé ces derniers mois pratiquement indemne.



    Sans clients étrangers, « nos travailleurs se retrouveraient sans emploi », a-t-elle ajouté. La pandémie n’a pas seulement frappé l’industrie textile du pays, elle menace également le café, le Vietnam étant le premier producteur mondial de robusta.


    Les constructeurs automobiles n’y ont pas échappé non plus : #Toyota a réduit sa production pour septembre et octobre, en partie à cause du virus, et a déclaré à l’AFP que « l’impact a été important au Vietnam », ainsi qu’en Malaisie.

    

Les pénuries ont été aggravées par un regain de la demande en Occident, après un effondrement au plus fort de la crise du Covid-19.

Dans son usine textile près de Hanoï, Mme Anselmi pense que les entreprises resteront au Vietnam si le pays parvient à retrouver une certaine normalité en octobre :

    « Si nous pouvons permettre aux usines de travailler, je pense que la confiance (dans le Vietnam) est toujours là ».

    #Textile #Vietnam #Italie #café #vêtements #industrie_textile #conditions_de_travail #exploitation #mode #coronavirus #capitalisme #chaîne_d'approvisionnement #mondialisation #pénuries

  • La seconde main : un « axe stratégique » pour les grands magasins parisiens
    https://www.francetvinfo.fr/culture/mode/la-seconde-main-un-axe-strategique-pour-les-grands-magasins-parisiens_4


    1.300 m² au sommet du bâtiment mode femmes du Printemps Haussmann à Paris dédiés à la mode circulaire, au vintage et à la seconde main. (ROMAIN RICARD)

    « La seconde main est un axe stratégique important qui s’inscrit dans une stratégie plus globale pour retrouver de l’unicité et du wahou », a affirmé sur BFM Business le président du groupe, arrivé à l’automne 2020, évoquant le caractère « instagrammable » de la vue depuis la coupole choisie.

    (...) les Galeries Lafayette poursuivent eux aussi leur engagement en faveur des nouveaux modes de vie avec l’espace (Re)Store.

    Dédié à la mode circulaire associant vintage, marques responsables, il propose du luxe et de l’accessible avec les acteurs de la seconde main, des produits green ainsi ainsi que des services pour déposer ses anciens vêtements et les recycler.

    La croissance de Vinted fait des envieux. Au moins un des leaders de la vente en ligne (zalando) s’est également lancé dans le seconde main, pour de l’ordinaire.

    #greenwashing #mode #luxe #textile #mode_circulaire

  • Macédoine du Nord : les ouvrières textiles veulent en découdre pour les « sans droits »
    https://www.rtbf.be/info/economie/detail_macedoine-du-nord-les-ouvrieres-textiles-veulent-en-decoudre-pour-les-sa

    Une machine à coudre et un poing levé, une super héroïne prête à en découdre contre les mauvais patrons : les affiches qui décorent le bureau de Kristina Ampeva, ex-ouvrière textile de Macédoine du Nord, témoignent de son combat pour défendre les droits des femmes au travail.

    Elle a troqué le fil et l’aiguille contre le mégaphone en 2016 après des années « horribles » dans les usines de l’habillement et du cuir du petit pays des Balkans, qui travaillent essentiellement pour les marchés d’Europe occidentale.

    « J’ai rejoint ce combat avec tout mon coeur et toute mon âme pour aider cette main d’oeuvre sans droits », explique à l’AFP la jeune femme dans le local de son ONG à Stip, dans l’est du pays.

    « Glasen tekstilec » (Ouvrier textile qui se fait entendre) défend les salariés individuels tout en militant pour des réformes générales. L’ONG a arraché des succès avec ses campagnes, comme l’application du salaire minimum au secteur qui emploie une écrasante majorité de femmes.

    Ces dernières années, les organisations de défense des femmes se font de plus en plus entendre. Mais la vraie égalité semble encore loin dans une société patriarcale où une part non négligeable de la population pense que le rôle principal des femmes est d’élever les enfants à la maison.

    Sur le marché du travail, les inégalités sont criantes, que ce soit en termes d’accès à l’emploi ou de salaires, déclare Neda Petkovska, chercheuse à l’ONG Reactor. Elle craint que les rares avancées obtenues soient balayées par la crise sanitaire.

    La grande majorité travaillent pour le salaire minimum, moins de 250 euros mensuels quand le salaire moyen est d’environ 460 euros.

    #salaire #textile #habillement #Kristina_Ampeva #Glasen_tekstilec #capitalisme

  • Travail forcé des #Ouïgours : une enquête ouverte en France contre des géants du textile, dont Uniqlo et Zara
    https://www.nouvelobs.com/justice/20210701.OBS46003/travail-force-des-ouigours-une-enquete-ouverte-en-france-contre-des-geant

    Le parquet national antiterroriste (PNAT) a ouvert fin juin une enquête pour « recel de crimes contre l’humanité » visant quatre géants du textile, dont Inditex et Uniqlo, accusés d’avoir profité du travail forcé d’Ouïgours en Chine, a indiqué une source judiciaire ce jeudi 1er juillet à l’AFP, confirmant une information de Mediapart.

    • Ouïghours : une enquête ouverte en France contre Uniqlo et des géants du textile pour recel de crimes contre l’humanité
      1 juillet 2021 Par François Bougon
      https://www.mediapart.fr/journal/international/010721/ouighours-une-enquete-ouverte-en-france-contre-uniqlo-et-des-geants-du-tex

      Une enquête pour recel de crimes contre l’humanité a été ouverte fin juin à Paris à la suite d’une plainte déposée deux mois auparavant contre Uniqlo et trois autres géants du textile par trois ONG (le collectif Éthique sur l’étiquette, l’association Sherpa et l’Institut ouïghour d’Europe) et une rescapée ouïghoure.

      Pour la première fois, la justice française se saisit d’un dossier lié à la répression impitoyable des minorités ethniques turcophones, notamment les Ouïghours, au Xinjiang, dans le nord-ouest de la Chine, par le régime chinois. Une enquête a été ouverte fin juin à Paris pour recel de crimes contre l’humanité à la suite d’une plainte déposée deux mois auparavant par trois ONG (le collectif Éthique sur l’étiquette, l’association Sherpa et l’Institut ouïghour d’Europe) et une rescapée ouïghoure, a-t-on appris de source judiciaire.

      Cette action ne vise pas directement les autorités de la République populaire de Chine – « Il semble actuellement peu probable que les dirigeants chinois puissent être renvoyés devant une juridiction répression pour répondre de leurs actes », reconnaît le texte de la plainte –, mais les multinationales aux marques connues qui sont accusées de profiter du système de répression mis en place par Pékin dans cette région stratégique proche de l’Asie centrale : en l’occurrence trois géants du textile – le groupe espagnol Inditex, propriétaire de la marque Zara, le japonais Uniqlo et le français SMCP (Sandro, Maje, Claudie Pierlot et De Fursac) – et le fabricant américain de chaussures de sport Skechers.

      Pour les plaignants, ces grandes entreprises, qui se sont pourtant dotées ces dernières années de comités d’éthique chargés de veiller aux bonnes pratiques parmi leurs sous-traitants, profitent malgré tout du travail forcé des Ouïghours et des autres minorités turcophones (kazakhes et kirghizes) en commercialisant des produits dans des usines y ayant recours.

      Manifestation de solidarité avec les Ouïghours devant l’ambassade de Chine à Paris en juillet 2020. © Noémie Coissac/Hans Lucas/AFP Manifestation de solidarité avec les Ouïghours devant l’ambassade de Chine à Paris en juillet 2020. © Noémie Coissac/Hans Lucas/AFP

      Ils avaient porté plainte à la fois pour recel du crime de réduction en servitude aggravée, recel du crime de traite des êtres humains en bande organisée, recel du crime de génocide et recel de crime contre l’humanité, mais seul ce dernier chef a été retenu par le parquet. L’enquête a été confiée au pôle spécialisé du tribunal de Paris dans la lutte contre les crimes contre l’humanité qui dépend du Parquet national antiterroriste (PNAT) et a une compétence universelle.

      « C’est une très bonne nouvelle, d’autant plus que le collectif parlementaire de solidarité avec les Ouïghours vient de déposer une proposition de résolution pour la reconnaissance du génocide au Xinjiang par la France. Cela ne peut que renforcer nos demandes et nos démarches », a déclaré à Mediapart Dilnur Reyhan, présidente de l’Institut Ouïghour d’Europe.
      « Un moment historique »

      Interrogé par Mediapart, l’avocat William Bourdon, à l’origine de la plainte, estime que « l’ouverture de cette enquête va faire tomber les masques sur le cynisme des grandes enseignes de textiles qui communiquent à tour de bras sur leurs engagements éthiques et s’accommodent de s’enrichir, en connaissance de cause, au prix des pires crimes commis à l’encontre des communautés ouïghoures ».

      « L’ouverture d’une enquête pour recel de crime contre l’humanité est une première, elle ouvre une porte pour l’avenir essentielle afin de mettre un terme à une culture de duplicité qui reste encore trop familière pour les grandes entreprises multinationales », a-t-il poursuivi.

      Pour sa part, Sherpa, par la voix de sa directrice Sandra Cossart, « se réjouit de l’ouverture d’une enquête préliminaire pour recel de crime contre l’humanité, qui témoigne de l’implication potentielle des acteurs économiques dans la commission des crimes les plus graves afin d’augmenter leurs marges bénéficiaires ».

      « Cela démontre que le travail innovant de Sherpa, qui aboutit ici pour la première fois à l’ouverture d’une enquête pour “recel de crimes contre l’humanité” contre des multinationales, permet de faire bouger les lignes du droit afin de lutter contre l’impunité des acteurs économiques, poursuit-elle. Il importe néanmoins de ne pas se limiter aux quelques acteurs ciblés ici : un système de dispositions légales rend possible chaque jour ces pratiques, c’est ce système qu’il faut combattre. »

      De son côté, l’eurodéputé Raphaël Glucksmann, au premier rang dans le combat pour la reconnaissance du génocide au Xinjiang, tout en évoquant « un moment historique », juge qu’il s’agit d’« un message extrêmement puissant envoyé à ces multinationales ».
      Tensions à venir

      Récemment, en dévoilant un rapport de son organisation sur les crimes exercés au Xinjiang, la secrétaire générale d’Amnesty International, Agnès Callamard, avait dénoncé l’apathie de la communauté internationale et des instances des Nations unies. Elle avait appelé la communauté internationale à « s’exprimer et agir à l’unisson pour que cessent ces atrocités, une fois pour toutes » et à une enquête indépendante des Nations unies.

      Des ONG dénoncent l’internement par Pékin depuis 2017 de plus d’un million de personnes au Xinjiang dans des centres de rééducation politique. Le régime communiste dément ce chiffre, évoque des « centres de formation professionnelle » aux fins de déradicalisation.

      Alors que la Chine célèbre avec faste le centenaire du Parti communiste (voir ici le spectacle donné lundi soir dans le Stade olympique en présence du secrétaire général Xi Jinping et là le grand rassemblement jeudi sur la place Tiananmen), l’annonce de l’ouverture de cette enquête ne manquera pas de provoquer de nouvelles tensions avec Pékin, qui réfute en particulier les accusations de génocide, portées par exemple par Washington et d’autres capitales occidentales (pas par Paris).

      En mars, la Chine avait imposé des sanctions à dix responsables politiques européens – dont cinq eurodéputés, dont Raphaël Glucksmann –, ainsi qu’à l’encontre de centres de réflexion et d’organes diplomatiques, en représailles à celles imposées par les Occidentaux aux hauts dirigeants chinois accusés de violations des droits de l’homme au Xinjiang.
      Lire aussi

      Amnesty dénonce des crimes contre l’humanité contre les musulmans du nord-ouest de la Chine Par François Bougon
      Gulbahar Jalilova, rescapée ouïghoure : « Nous ne sommes pas des êtres humains pour eux » Par Rachida El Azzouzi

      Par la suite, le Parlement européen avait voté une résolution suspendant la ratification d’un accord encadrant les investissements avec la Chine conclu en décembre tant que Pékin n’aura pas levé ces mesures de rétorsion.

      Une cinquantaine de députés français, parmi lesquels Frédérique Dumas et Aurélien Taché, ont déposé le 17 juin une proposition de résolution afin que la France reconnaisse le génocide au Xinjiang, comme l’ont fait le gouvernement des États‑Unis, les Parlements britannique, néerlandais et canadien.

      « Des procédures similaires sont en cours dans d’autres États (Belgique, Allemagne, Lituanie et Nouvelle‑Zélande). Quant à elle, la France a dénoncé un “système de répression institutionnalisé” en février 2021 et a engagé des réflexions sur l’emploi du terme de “génocide”, sans toutefois reconnaître ni condamner ce crime en tant que tel », expliquent-ils. Lors d’une conférence de presse mardi, Alain David, du groupe socialiste et membre de la commission des affaires étrangères, a espéré pouvoir la présenter au vote à l’automne.
      Devoir de vigilance

      Parallèlement au combat des ONG, des députés européens ont poussé pour l’adoption d’un cadre législatif plus sévère pour encadrer les pratiques des multinationales et de leurs sous-traitants, en particulier dans le secteur textile. Une loi a été adoptée en 2017 en France mais son champ d’action reste limité.

      En mars a été adopté par le Parlement européen à une très large majorité un projet d’initiative sur le devoir de vigilance, qui pourrait servir de base à une proposition de directive que la Commission doit présenter à l’automne.

      Les eurodéputés souhaitent contraindre les entreprises à « identifier, traiter et corriger » toutes les opérations, y compris dans leurs filières, qui pourraient porter préjudice aux droits humains, à l’environnement ou encore à la « bonne gouvernance » (corruption, pots-de-vin). Ils proposent aussi l’interdiction dans l’UE de produits liés à de graves violations des droits humains, comme le travail forcé ou des enfants.

      « L’ouverture de l’enquête [par la justice française – ndlr] est dans le droit-fil du combat que l’on mène au Parlement européen sur le devoir de vigilance », a souligné Raphaël Glucksmann auprès de Mediapart.

      Cependant, Total, Bayer ou des géants du textile à l’instar d’Inditex (Zara) ne manquent pas d’investir à fond dans le lobbying à Bruxelles, dans l’espoir d’assouplir le texte (lire ici). Business first…

  • #En_découdre - paroles ouvrières en roannais

    Après la deuxième guerre mondiale, l’industrie textile emploie des milliers d’ouvrières sur le territoire Roannais. Elles produisent des vêtements de luxe dont la qualité est reconnue dans la France entière. A travers une série d’entretiens, ce film retrace l’histoire de ces femmes rentrant souvent jeunes à l’usine. Elles y découvrent des conditions de travail difficiles, le paternalisme patronal, mais également la solidarité ouvrière. Relatant les inégalités qui se jouent entre ouvriers et ouvrières, elles décrivent surtout la rencontre avec la culture syndicale et leur volonté d’en découdre avec l’exploitation. Des promesses d’émancipation de « mai 1968 » jusqu’aux combats contre la fermeture des usines et les destructions de leurs emplois à partir des années 1980, ces paroles ouvrières livrent une mémoire à la fois personnelle et politique des grandes mutations du monde contemporain.

    https://vimeo.com/330751537


    #ouvrières #femmes #industrie #femmes_ouvrières #France #industrie #histoire #industrie_textile #textile #témoignages #histoire_ouvrière #CGT #syndicat #syndicalisme #usines #bruit #paternalisme
    #film #film_documentaire #salaires #sainte_Catherine #cadeaux #droit_de_cuissage #inégalités_salariales #émancipation #premier_salaire #désindustrialisation #métallurgie #conditions_de_travail #horaire #horaire_libre #grève #occupation #Rhônes-Alpes #délocalisation #toilettes #incendies #chantage #treizième_salaire #plans_sociaux #outils_de_travail #Comité_national_de_la_Résistance (#CNR) #chronométrage #maladie_du_travail #prêt-à-porter #minutage #primes #prime_au_rendement #solidarité #compétition #rendement_personnel #esprit_de_camaraderie #luttes #mai_68 #1968 #licenciement #ARCT #financiarisation #industrie_textile

  • Le passé nauséabond de l’industrie textile suisse

    Bien qu’elle n’ait pas eu de colonies, la Suisse a profité du colonialisme. C’est ce que montre l’histoire des #indiennes_de_coton imprimé. Le commerce de ces #tissus colorés avait des liens avec l’#exploitation_coloniale, le #prosélytisme_religieux et le #commerce_des_esclaves.

    Au 17e siècle, le #coton imprimé venait d’#Inde – la seule région possédant le savoir-faire nécessaire. Mais bientôt, cette technique de production d’étoffes imprimées de couleurs vives fut copiée par les Britanniques et les Néerlandais qui, grâce à la mécanisation, les produisaient à meilleur prix. Ils supplantèrent l’industrie textile indienne. Les « indiennes » claires et abordables produites en Europe connurent une telle vogue que, sous la pression des producteurs de laine, de soie et de lin, Louis XIV, le Roi-Soleil, dut interdire leur production et leur importation.

    Cette interdiction fut une aubaine pour la Suisse du 17e siècle. Des #huguenots français qui s’étaient réfugiés en Suisse pour fuir les persécutions religieuses dans leur pays fondèrent des #usines_textiles à #Genève et à #Neuchâtel, d’où ils pouvaient écouler les indiennes en France par #contrebande. La demande atteignait alors un sommet : en 1785, la #Fabrique-Neuve de #Cortaillod, près de Neuchâtel, devint la plus grande manufacture d’indiennes d’Europe, produisant cette année-là 160’000 pièces de #coton_imprimé.

    Le boom en Suisse et le commerce des esclaves

    Le commerce des indiennes a apporté une énorme prospérité en Suisse, mais il avait une face obscure : à l’époque, ces étoffes étaient utilisées en Afrique comme monnaie d’échange pour acheter les #esclaves qui étaient ensuite envoyés en Amérique. En 1789 par exemple, sur le #Necker, un navire en route pour l’Angola, les étoffes suisses représentaient les trois quarts de la valeur des marchandises destinées à être échangées contre des esclaves.

    Les entreprises textiles suisses investissaient aussi directement leurs fortunes dans la #traite des noirs. Des documents montrent qu’entre 1783 et 1792, la société textile bâloise #Christoph_Burckardt & Cie a participé au financement de 21 #expéditions_maritimes qui ont transporté au total 7350 Africains jusqu’en Amérique. Une grande partie de la prospérité des centres suisses du textile était liée au commerce des esclaves, que ce soit à Genève, Neuchâtel, #Aarau, #Zurich ou #Bâle.

    Un projet colonial

    Au milieu du 19e siècle, la Suisse était devenue un des plus importants centres du commerce des #matières_premières. Des marchands suisses achetaient et revendaient dans le monde entier des produits tels que le coton indien, la #soie japonaise ou le #cacao d’Afrique de l’Ouest. Bien que ces marchandises n’aient jamais touché le sol helvétique, les profits étaient réalisés en Suisse.

    L’abolition de l’esclavage aux États-Unis à la suite de la guerre de Sécession a conduit à une crise des matières premières, en particulier de la production du coton qui était largement basée sur une économie esclavagiste. Le marché indien prit encore plus d’importance. L’entreprise suisse #Volkart, active aux Indes depuis 1851, se spécialisa alors dans le commerce du #coton_brut. Afin d’étendre ses activités dans ce pays, elle collabora étroitement avec le régime colonial britannique.

    Les Britanniques dirigeaient la production et, sous leur joug, les paysans indiens étaient contraints de cultiver du coton plutôt que des plantes alimentaires et devaient payer un impôt foncier qui allait directement dans les caisses du gouvernement colonial. Combinée avec l’extension du réseau de chemins de fer à l’intérieur du sous-continent indien, cette politique oppressive permit bientôt à Volkart de prendre en charge un dixième de l’ensemble des exportations de coton vers les manufactures textiles d’Europe. Volkart avait son siège à #Winterthour et occupait ainsi une situation centrale sur le continent européen d’où elle pouvait approvisionner les #filatures installées en Italie, dans le nord de la France, en Belgique, dans la Ruhr allemande ou dans toute la Suisse.

    Les collaborateurs de Volkart devaient éviter les comportements racistes, mais cela ne les empêcha pas d’adopter en Inde certains usages de l’occupant colonial britannique : les Indiens n’avaient pas accès aux salles de détente des employés européens.

    Ardeur missionnaire

    Une autre entreprise prospère à l’époque coloniale fut la #Société_évangélique_des_missions_de_Bâle, ou #Mission_bâloise. Fondée en 1815 par des protestants suisses et des luthériens allemands, son but était de convertir les « païens » au #christianisme. Elle a connu un certain succès au sud de l’Inde dans les territoires des États actuels du #Kerala et du #Karnataka, en particulier auprès des Indiens des couches sociales inférieures qui accédaient ainsi pour la première fois à la formation et à la culture.

    Toutefois, en se convertissant à une autre religion, les autochtones prenaient le risque d’être exclus de leur communauté et de perdre ainsi leur gagne-pain. La Mission de Bâle a réagi en créant des filatures afin de donner des emplois aux réprouvés. Elle résolvait ainsi un problème qu’elle avait elle-même créé et en tirait encore des bénéfices : dans les années 1860, la Mission exploitait quatre filatures et exportait des textiles aux quatre coins de l’#Empire_britannique, de l’Afrique au Proche-Orient en passant par l’Australie.

    L’industrie textile a largement contribué à la prospérité de la Suisse mais de nombreux déshérités l’ont payé au prix fort dans les pays lointains. La Suisse n’était peut-être pas une puissance coloniale indépendante, mais elle a énormément profité du colonialisme.

    https://www.swissinfo.ch/fre/indiennes_le-pass%C3%A9-naus%C3%A9abond-de-l-industrie-textile-suisse/45862606

    #histoire #histoire_suisse #industrie_textile #textile #colonialisme #colonisation #Suisse

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    Ajouté à la métaliste sur la Suisse coloniale :
    https://seenthis.net/messages/868109

  • La #Suisse et ses colonies

    La Suisse n’avait pas de colonies – et pourtant, des Suisses fonctionnaient en harmonie avec les puissances coloniales et bénéficiaient, en tant que resquilleurs économiques, de l’appropriation militaire des #terres et des #ressources.

    Vers 1800, les naturalistes européens décrivaient les Confédérés comme des « semi-sauvages » qui rappelaient les visites aux « peuples non éduqués sur des côtes pacifiques ». L’Europe intellectuelle voyait dans les Suisses des gens qui vivaient encore dans leur état naturel — une image déformée que les Suisses se sont appropriée. Aucune publicité pour des yaourts et aucun concept touristique ne peut se passer d’images exotiques où les Suisses apparaissent comme de « nobles sauvages ». Cette image de soi se retrouve encore dans la rhétorique politique qui s’embrase de temps en temps, selon laquelle la Suisse menace de devenir une colonie de l’Union européenne.

    Pourtant, dans leur histoire moderne, les Suisses se sont rarement rangés du côté des colonisés, mais plus souvent du côté des colonisateurs. Il est vrai que la Suisse, en tant qu’État-nation, n’a pas poursuivi de politique impérialiste et n’a soumis aucune colonie. Même des tentatives de création d’organisations économiques comme la Compagnie des Indes orientales ont échoué.

    Cependant, le colonialisme inclut la conviction que les habitants des zones colonisées étaient inférieurs aux Européens blancs. Cette idée faisait également partie de la compréhension générale du monde dans la Suisse du 19e siècle.

    Des générations de Suisses ont grandi avec des histoires pour enfants présentant des « négrillons stupides », des reportages sur des sauvages naïfs et enfantins et des images publicitaires dans lesquelles les colonisés apparaissaient au mieux comme des figurants pour les produits coloniaux. Cet #héritage continue de marquer le pays jusqu’à aujourd’hui.

    Des #soldats_suisses dans les colonies

    Mais le problème de l’enchevêtrement historique de la Suisse avec le colonialisme va bien au-delà de polémiques sur des noms ou du déboulonnage de statues. Cela semble particulièrement évident dans les colonies où des Suisses ont combattu comme soldats.

    Quand, en 1800, les esclaves noirs de l’île de #Saint-Domingue — dans l’actuelle Haïti — se sont soulevés contre leurs maîtres français, Napoléon a fait combattre 600 Suisses, qui avaient été mis contractuellement à la disposition de la France par le gouvernement helvétique contre rémunération. Mais ce ne fut pas un cas isolé. Même après la fondation de l’État fédéral en 1848, des Suisses ont continué à se battre pour les puissances coloniales — bien qu’illégalement.

    L’une des motivations était la solde des #mercenaires. Ils touchaient en effet une bonne rente s’ils ne mouraient pas d’une maladie tropicale dans leurs premiers mois de services ou s’ils ne mettaient pas prématurément fin à leur engagement.

    Commerce des esclaves

    Cependant, les grandes sommes d’argent des colonies n’allaient pas aux mercenaires, qui venaient souvent de familles démunies et voyaient le fait de servir les Pays-Bas ou la France comme une grande aventure, mais dans le #commerce des marchandises coloniales — et dans le commerce des habitants des colonies.

    L’une des imbrications les plus problématiques de la Suisse avec le colonialisme mondial est celle de la #traite_des_esclaves.

    Des Suisses et des entreprises suisses ont profité de l’#esclavage en tant qu’#investisseurs et #commerçants. Ils ont organisé des #expéditions_d’esclaves, acheté et vendu des personnes et cultivé des #plantations dans des colonies en tant que #propriétaires_d’esclaves.

    Le système de l’esclavage a fonctionné dans l’Atlantique jusqu’au XIXe siècle sous forme de commerce triangulaire : des navires chargés de marchandises de troc naviguaient vers les côtes africaines, où ils échangeaient leur cargaison contre des esclaves. Ces derniers étaient ensuite transportés à travers l’océan. Enfin, les navires revenaient d’Amérique vers l’Europe chargés de produits fabriqués par les esclaves : le sucre, le café et surtout le coton.

    Selon Hans Fässler, qui fait des recherches sur l’histoire des relations suisses et de l’esclavage depuis des décennies, la Suisse a importé plus de #coton que l’Angleterre au XVIIIe siècle. Il souligne également que la traite des esclaves était une industrie clef qui a rendu possible la production de nombreux biens. Pour dire les choses crûment : sans le coton cueilli par les esclaves, l’#industrialisation de la production #textile suisse aurait été impossible.

    Une branche de cette industrie a manifestement bénéficié directement de la traite des esclaves : les producteurs de ce que l’on appelle les #tissus_indiens. Ceux-ci ont été produits pour le marché européen, mais aussi spécifiquement comme moyen d’échange pour le #commerce_triangulaire. Souvent, même les modèles ont été conçus pour répondre au goût des trafiquants d’êtres humains qui échangeaient des personnes contre des produits de luxe sur les côtes africaines.

    Une famille suisse qui produisait ce genre de tissus faisait la publicité suivante dans une annonce de 1815 : « La société #Favre, #Petitpierre & Cie attire l’attention des armateurs de navires négriers et coloniaux sur le fait que leurs ateliers tournent à plein régime pour fabriquer et fournir tous les articles nécessaires au troc des noirs, tels que des indiennes et des mouchoirs ».

    Passage à un colonialisme sans esclaves

    Après l’interdiction de la traite des esclaves aux États-Unis, l’industrie textile mondiale a sombré dans une crise des #matières_premières : les marchés du coton en #Inde redevenaient plus attractifs. La société suisse #Volkart, qui opérait en Inde depuis 1851, en a profité et s’est spécialisée dans le commerce du coton brut en Inde. Ici, les Britanniques contrôlaient la production : les agriculteurs indiens étaient obligés de produire du coton au lieu de denrées alimentaires. Grâce à une étroite collaboration avec les Britanniques, Volkart a pu rapidement prendre en charge un dixième de toutes les exportations indiennes de coton vers les usines textiles de toute l’Europe.

    Une autre entreprise qui a bien survécu à la crise provoquée par la fin de l’esclavage est la #Mission_de_Bâle, la communauté missionnaire évangélique. Soutenue par les mêmes familles bâloises qui avaient auparavant investi dans la traite des esclaves, la mission a ouvert un nouveau modèle commercial : elle a converti les « païens » au christianisme en Inde. Les convertis étaient abandonnés par leurs communautés et la Mission de Bâle les laissait alors travailler dans ses usines de tissage.

    Un missionnaire faisait ainsi l’éloge de ce modèle vers 1860 : « Si des païens veulent se convertir au Christ (...) nous les aiderons à trouver un abri autour des #fermes_missionnaires et à trouver un emploi pour gagner leur vie, que ce soit dans l’agriculture ou dans tout autre commerce. C’est ce qu’on appelle la colonisation. »

    Le colonialisme comprend également l’exploitation de relations de pouvoir asymétriques au profit économique des colons. Cependant, l’État suisse a laissé la recherche de ce profit dans les colonies entièrement à l’initiative privée. Des demandes parlementaires appelant à un plus grand soutien à « l’émigration et au colonialisme » par l’État fédéral ont été rejetées. Le Conseil fédéral objectait notamment qu’un pays sans accès à la mer ne pouvait pas coloniser et que la Confédération n’était pas à même d’assumer une telle responsabilité.

    Il est intéressant de noter que ces demandes ont été faites dans les années 1860 par les démocrates radicaux, ceux-là mêmes qui préconisaient des réformes sociales et se battaient pour une plus grande influence de la démocratie directe face à la bourgeoisie au pouvoir. Les démocrates radicaux qui soutenaient le colonialisme se considéraient comme les représentants de ceux qui fuyaient la pauvreté et la faim en Suisse.

    La politique d’émigration de la Suisse a en effet changé au XIXe siècle : si, au début du siècle, les colonies étaient encore considérées comme des lieux d’accueil de personnes que l’on ne pouvait plus nourrir, elles sont devenues de plus en plus la base de réseaux mondiaux. Les colonies offraient un terrain d’essai à de nombreux jeunes commerçants.

    Les Suisses jouissaient des mêmes privilèges que les membres des régimes coloniaux européens — ils étaient des colons, mais sans patrie impérialiste. En 1861, l’économiste allemand #Arwed_Emminghaus admirait cette stratégie des « liens commerciaux étendus » de la Suisse et la considérait comme une variation de la politique expansionniste impériale des puissances coloniales : « Nul besoin de flottes coûteuses, ni d’administration coûteuse, ni de guerre ou d’oppression ; les #conquêtes se font par la voie la plus pacifique et la plus facile du monde. »

    Sources (en allemand)

    – Andreas Zangger: Koloniale Schweiz. Ein Stück Globalgeschichte zwischen Europa und Südostasien (1860-1930). Berlin 2011.
    - Lea Haller: Transithandel: Geld- und Warenströme im globalen Kapitalismus. Frankfurt am Main 2019.
    - Patricia Purtschert, Barbara Lüthi, Francesca (Hg.): Postkoloniale Schweiz: Formen und Folgen eines Kolonialismus ohne Kolonien
    - Thomas David, Bouda Etemad, Janick Marina Schaufelbuehl: Schwarze Geschäfte. Die Beteiligung von Schweizern an Sklaverei und Sklavenhandel im 18. und 19. Jahrhundert. Zürich 2005.
    - Hans Fässler: Reise in schwarz-weiss: Schweizer Ortstermine in Sachen Sklaverei. Zürich 2005.

    https://www.swissinfo.ch/fre/la-suisse-et-ses-colonies/45906046

    #colonialisme_suisse #Suisse_coloniale #colonialisme #colonisation #impérialisme

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    Ajouté à la métaliste sur la Suisse coloniale:
    https://seenthis.net/messages/868109

  • Crise de nerfs à Sciences Po Lille autour d’un « poste à moustache »
    https://www.mediacites.fr/enquete/lille/2020/07/17/crise-de-nerfs-a-sciences-po-lille-autour-dun-poste-a-moustache

    Le recrutement d’un maître de conférence sur lequel pèse des soupçons de favoritisme a fait l’objet d’un recours en annulation au tribunal administratif et d’un signalement au procureur, générant des tensions au sein de l’établissement nordiste. L’affaire met en lumière l’existence de postes d’enseignants faussement ouverts au concours, dits « postes à moustache » dans le milieu universitaire.

    Cette affaire a déchiré le vivre-ensemble à l’école. Elle a créé un conflit qui a forcé tout le monde à choisir qui soutenir. » Pour ce professeur vétéran de Sciences Po Lille, qui s’exprime sous couvert d’anonymat (voir l’encadré En Coulisses), il n’y a pas de doute : le recrutement controversé d’un enseignant-chercheur voilà deux ans a provoqué un traumatisme au sein de la grande école lilloise.

    En février 2018, l’IEP de Lille décide d’ouvrir un poste de maître de conférences en « sociologie financière et fiscale ». Quatre candidats postulent. Un est retenu. Jusque-là, hormis l’intitulé plutôt original du poste, rien que de très banal. Sauf que les trois candidats recalés décident de déposer un recours en annulation du concours au tribunal administratif. Plus étonnant encore, des enseignants, membres de la commission scientifique, adressent un signalement en mai de la même année auprès du procureur de la République pour faux et usage de faux.

    « L’affaire » commence lorsqu’un des candidats non retenus désire prendre connaissance de son dossier. Comme il réside à l’étranger, sa candidature doit faire l’objet d’un examen préalable du conseil scientifique. Et de fait, un procès verbal atteste de la tenue d’une réunion. Problème, trois enseignants de Sciences Po, sur les neuf membres de ce comité, affirment ne pas avoir été présents ce jour-là. Et se disent « choqués » d’avoir vu leur signature apposée sur le procès verbal. Ils décident donc de le signaler au Procureur.


    Fausses signatures
    
Dans ces signalements, que Mediacités a pu consulter, les enseignants s’émeuvent de l’usurpation de leur signature. « Je n’ai reçu aucune convocation à cette réunion, aucun ordre du jour, aucune pièce préparatoire, et je doute fortement qu’elle ait eu lieu » ; « ces documents me paraissent être des faux et sont de nature à me causer un grave préjudice professionnel et moral », peut-on notamment y lire.

    Tous leurs collègues ne partagent pas cet émoi. « C’est secondaire, c’est du détail, tente d’expliquer un enseignant-chercheur qui ne siège pas dans cette commission scientifique. Il aurait mieux valu régler ça en interne plutôt que d’entacher la réputation de l’institution. Il y a certes des informalités. Mais il nous arrive de signer des PV a posteriori, notamment pour des jurys sans délibération. » Sauf que dans ce cas précis, les membres en question s’insurgent qu’on puisse utiliser leur signature sans leur consentement. « C’est clairement un faux en écriture alors que . . . . . .

    #sciences_po #SciencesPo #Sciences-Popo #faux #usage_de_faux #faux_en_écriture #procès_verbal #lille #france #IEP #conseil_scientifique

  • L’élection des présidents dans les métropoles : la démocratie confisquée par les élus
    https://www.mediacites.fr/tribune/national/2020/07/13/lelection-des-presidents-dans-les-metropoles-la-democratie-confisquee-par-les-elus/?mc_cid=e250c5812d&mc_eid=6eb9734654

    Les désignations à huis-clos des présidents des intercommunalités ont consacré les mécanismes de confiscation de la démocratie locale par les élus à un point jamais atteint, estime Fabien Desage, maître de conférence en sciences politiques à l’Université de Lille.

    l y a près de 10 ans, avec David Guéranger, nous publiions un ouvrage consacré à l’histoire et au fonctionnement des intercommunalités en France, avec un titre volontairement interpellant : « La politique confisquée ». Loin d’être polémique, ce dernier soulignait, sur la base de recherches rigoureuses menées durant de nombreuses années selon les canons scientifiques en vigueur, combien les pouvoirs métropolitains en France s’étaient développés à l’abri des regards des citoyens, donnant lieu à des compromis entre élus locaux, à bonne distance des procédures démocratiques https://www.mediacites.fr/decryptage/lille/2018/06/29/les-intercommunalites-sont-des-prisons-dorees-pour-les-elus . Nous montrions que loin d’être provisoires, ces « consensus métropolitains » faisaient désormais partie de l’ADN de ces structures, partout en France, et qu’ils étaient souhaités si ce n’est désirés par des élus locaux s’accommodant fort bien de cette distance avec le peuple.

    Ces « consensus communautaires » ne sont pas le résultat d’accords sur les objectifs de l’action publique ou de la volonté de dépasser les « logiques politiciennes », mais en sont au contraire l’expression la plus pure. Ils traduisent l’autonomisation croissante des logiques d’action des représentations par rapport à l’élection. Au sein des intercommunalités, les élus municipaux à peine élu.es scellent ainsi des « pactes de non-agression » avec leurs adversaires d’hier, qui n’ont pour seule fin que de préserver leur pré-carré communaux et de leur permettre de négocier la répartition des ressources intercommunales à l’abri des regards.

    Une logique de consensus paralysante
    Ces ressources intercommunales sont pourtant colossales. Aujourd’hui, disons le sans ambages, les établissements intercommunaux concentrent l’essentiel des moyens d’investissement au niveau local, indispensables pour faire face aux défis de l’avenir, sur les plans social, sanitaire, économique et climatique. Mais les consensus entre élus, loin d’augmenter la capacité d’agir de ces instances, ont pour effet de les paralyser, de les empêcher de faire des choix qui soient autre chose que des plus petits dénominateurs communs. Des « non choix » en somme, à un moment où les arbitrages sont essentiels.

    Tout cela est fort bien démontré par tous les chercheurs qui s’intéressent à ces structures. Ainsi, aucune métropole, en dépit des nombreuses réformes de la loi NOTRe en passant par la loi MAPTAM , n’est parvenue à freiner la consommation des terres agricoles, à lutter contre la hausse de la pollution atmosphérique ou contre les logiques ségrégatives croissante au sein des espaces urbains. Autant de maux, qui menacent nos villes de grands périls. 

    Les désignations à huis-clos des présidents des métropoles cette dernière semaine ont consacré les mécanismes de confiscation de la démocratie locale par les élus, à un point jamais atteint. Jusqu’à l’indécent, dans un contexte où chacun se sentait obligé de proclamer qu’il ou elle avait tiré les leçons des échecs du « monde d’avant »…

    Farce tragique
    Ainsi de Martine Vassal ou de Patrick Ollier, réélus président.es de leurs métropoles respectives d’Aix-Marseille-Provence et du Grand-Paris, en dépit des évolutions électorales et, surtout, de leur délégitimation électorale évidente. Défaite à Marseille, Martine Vassal, la mal nommée, continue d’être « primus inter pares ». Pour être réélu.es, ces sortants ont noué des accords partisans incompréhensibles pour le quidam, qui contribueront, outre les accusations de collusion, à favoriser l’immobilisme de ces structures et leur incapacité à faire face aux défis essentiels de gouvernement des villes.

    Au sein de la métropole européenne de Lille, La 4ème du pays en importance, qui compte 1,2 million d’habitant.es, l’élection du président a tourné à la farce https://www.mediacites.fr/reportage/lille/2020/07/10/election-a-la-metropole-de-lille-on-prend-les-memes-et-on-recommence . Une farce tragique pour cette agglomération, la plus inégalitaire de France après… les agglomérations parisienne et marseillaise ! (d’après les travaux du collectif Degeyter https://www.mediacites.fr/interview/lille/2017/05/25/lille-une-agglomeration-toujours-plus-inegalitaire ). En dépit de sa mise en examen pour « trafic d’influence passif » et « complicité de favoritisme » dans l’affaire du grand stade, d’enquêtes en cours relatives à des abus de biens sociaux, le président sortant, maire de droite d’une petite commune de la MEL – a en effet été largement et facilement réélu à la tête de l’institution, avec le soutien du groupe des socialistes et apparentés (avec Martine Aubry à la manoeuvre https://www.mediacites.fr/enquete/lille/2020/07/06/presidence-de-la-mel-aubry-choisit-castelain-malgre-tout ), de plusieurs élus LR (dont le maire de Marcq-en-Baroeul https://www.mediacites.fr/enquete/lille/2020/06/30/apres-les-municipales-damien-castelain-en-pole-position-pour-la-metropole ) et le cortège des maires « sans étiquette » des communes périurbaines.

    Plus encore sans doute, c’est l’absence totale de débat https://www.mediacites.fr/tribune/national/2020/07/13/lelection-des-presidents-dans-les-metropoles-la-democratie-confisquee-par-les-elus/?mc_cid=e250c5812d&mc_eid=6eb9734654#annexe-1 lors de la campagne autour de la position pourtant préparée de longue date de Martine Aubry et des élus de son groupe qui interpelle et éclaire la vraie nature des compromis faustiens métropolitains. Certains observateurs se rassurent – à tort – en voyant dans le soutien des maires de Tourcoing et de Roubaix à un autre candidat le signe de la « fin du consensus ». C’est bien mal connaître le fonctionnement de ces instances que de le croire. 

    Faut-il rappeler que ces maires de droite de Tourcoing et de Roubaix ont été des soutiens directs du président Castelain et de la MEL durant le précédent mandat ? Qu’ils ont voté le choix de la location de longue durée du nouveau siège – le “Biotope” – récemment étrillé par la Chambre régionale des comptes, comme la quasi-unanimité des conseillers communautaires, avant de se rétracter pour une partie d’entre eux quand il était trop tard.

    Défaut de politique redistributive
    Comme toujours, dans cet espace en permanence « confiné » que constitue le conseil métropolitain, les opposants d’aujourd’hui seront les soutiens discrets de demain. Si d’aventure le président Castelain devait quitter ses fonctions forcé à le faire par la justice https://www.mediacites.fr/complement-denquete/lille/2017/08/01/damien-castelain-nechappera-pas-au-tribunal-pour-trafic-dinfluence-passif ce qui n’est pas improbable, on peut parier que les « contestataires » rentreront dans le rang et soutiendront la formation d’un exécutif consensuel élargi, qui leur permettrait de réassurer leur position, au détriment des intérêts des habitants de leurs communes.

    Parce qu’il faut le rappeler avec force : si les maires des grandes villes trouvent opportun de rallier la majorité de la MEL pour défendre le soutien de cette dernière à leurs « grands projets » contestés (à l’image de Saint-Sauveur pour Martine Aubry à Lille), c’est au détriment des intérêts d’une grande partie de leur population. Majoritairement peuplées par les classes populaires, Lille, Roubaix et Tourcoing sont les territoires dont les habitants perdent le plus à des compromis avec les élus des communes périurbaines et/ou privilégiées, qui empêchent toute politique réellement redistributive à l’échelle intercommunale qui tiendrait compte de ces inégalités et tenterait de les résorber.

    De la sorte, ces maires de grandes villes déjà si mal élus (moins de 15% des inscrits) nourrissent l’indifférence voire la défiance des citoyens à leur égard, à l’égard des institutions politiques, et creusent un peu plus la tombe de la démocratie locale, en même temps que la leur et que la nôtre…

    #Démocratie #Démocratie_locale #Farce #Communes #Métropoles #intercommunalités #consensus #ségrégation #terres_agricoles #pollution_atmosphérique #martine_aubry #Lille #Roubaix #Tourcoing #grands_projets #Saint-Sauveur #Loi_NOTRe #Loi_MAPTAM #Fabien_Desage

    Loies NOTRe et MAPTAM
    Les lois NOTRe (Nouvelle organisation territoriale de la République, août 2015) et MAPTAM (Modernisation de l’action publique territoriale et d’affirmation des métropoles, janvier 2014) ont pour but de redéfinir et clarifier les compétences entre les différentes collectivités territoriales. Elles renforcent notamment le pouvoir des régions et des métropoles. 

    • 10 000 « esclaves » dans les usines de Leicester
      http://www.lessentiel.lu/fr/news/europe/story/10-000-esclaves-dans-les-usines-de-leicester-28304438

      La pandémie de coronavirus a mis en lumière les conditions de travail dans les ateliers textiles de Leicester, ville d’Angleterre. Une enquête va être ouverte.

      Jusqu’à 10 000 personnes sont employées dans des conditions proches de l’esclavage, dans les ateliers textiles de Leicester, une ville du centre de l’Angleterre, a affirmé lundi un député local. La ministre de l’Intérieur, Priti Patel, s’en est émue devant le Parlement lundi, dénonçant « ce fléau moderne » et son ministère a annoncé l’ouverture d’une enquête sur ces allégations par l’Agence nationale contre la criminalité (NCA), alors que, depuis quelques jours, les dénonciations publiques de la situation dans les usines de Leicester se multiplient.

      Une flambée de cas de coronavirus a poussé les autorités, fin juin, à prolonger d’au moins deux semaines le confinement dans cette ville industrielle des Midlands. Les ateliers de confection ont continué à fonctionner pendant le confinement et ils sont soupçonnés d’avoir joué un rôle dans la deuxième vague de contaminations. Ce qui a braqué les projecteurs sur les pratiques dans ces usines.

      Boohoo montrée du doigt
      Selon le député conservateur Andrew Brigden, interrogé par l’AFP, jusqu’à 10 000 personnes pourraient être employées pour un salaire de misère de 2 livres sterling de l’heure (environ 2,2 euros). Les victimes de ces pratiques sont « un mélange de gens du cru et de travailleurs immigrés, dont certains seraient en situation illégale, raison pour laquelle ils sont réduits en esclavage », a ajouté Andew Brigden. Labour Behind the Label, un groupe de défense des droits des travailleurs, a assuré dans un rapport que certaines usines fonctionnaient à plein régime pendant la crise, même quand un salarié avait été testé positif, alors qu’il était « inconcevable » qu’elles puissent respecter les mesures préconisées contre le virus, comme les gestes barrière.

      « Cela fait des années que circulent les allégations d’abus dans bon nombre de sociétés de Leicester », a souligné Dominique Muller, de Labour Behind the Label. Selon un récent rapport parlementaire, Leicester, une ville à forte diversité ethnique, compte un bon millier d’ateliers textiles. Labour Behind The Label accuse les marques comme Boohoo, spécialiste de la « Fast Fashion », de piétiner le droit du travail.

      #esclavage en #Angleterre #migrants #textile #Fast Fashion #confinement #covid-19 #coronavirus #contamination #travail #MissPap #PrettyLittleThing #Nasty_Gal