• Behind every scene in Top Gun, War Inc. steps up to take its bows
    https://responsiblestatecraft.org/2022/06/02/behind-every-scene-in-top-gun-war-inc-steps-up-to-take-its-bo

    Top Gun: Maverick is, at its core, an unapologetically pro-military industrial complex film. The Washington Post reported that the film received support from the Pentagon itself “in the form of equipment — including jets and aircraft carriers — personnel and technical expertise.” In exchange for its help, the Navy even retained the power to veto things it didn’t like in the script.

    [...] The original #Top_Gun helped America get over its Vietnam complex, rehabilitating the military in the public square. As American audiences crammed in to see Maverick’s flying antics 36 years ago, naval aviator applications reportedly increased by 500 percent. The sequel aims to recreate that, brushing aside the failures in Somalia, Iraq, Afghanistan, and Libya in the interim years to serve unabashedly as an infomercial for a romanticized version of the military, its contractors, and their mission.

  • #Palermo : An Urban Walk Against Colonialism by Wu Ming 2

    On Saturday 20 October from 9.00 am onwards, #Wu_Ming_2 presents the performance complementary to the work Viva Menilicchi! (2018), commissioned by Manifesta 12 for The Planetary Garden and realised in collaboration with the Palermo-based collective #Fare_Ala.

    Wu Ming 2, one of the members of the collective of writers and activists Wu Ming, will lead a walk through the city, during which various voices will combine to recount forgotten stories of slavery and colonialism. In fact, many places in the city of Palermo are linked to the period of Italian colonialism (1869 – 1945) and its legacy. The performance will unfold as a walk to all these places in Palermo linked to the Italian colonialist past, and will coalesce into possible actions and thoughts of resistance.

    On Friday 19 October from 8.00 pm at Teatro Garibaldi di Palermo, there will be an evening of screening and talks with director Alessandra Ferrini and researchers Francesca Di Pasquale and Chiara Giubilaro, ‘Negotiating Amnesia. Pasts and presents of Italian coloniality’, to explore strategies of memory, and negation, of a chapter in Italian history still spreading its effects on contemporaneity.

    Furthermore, Sunday, October 21, from 5.00 pm to 7.00 pm, at Teatro Garibaldi di Palermo, Wu Ming 2 will present images and documents related to the walk of the day before, thus giving life to a debate with the public on the ideas and topics of Viva Menilicchi!

    Programme and itinerary of the urban walk:

    The complete itinerary of the walk covers 16 km distance (available here:Â map.org), split into two sessions, morning (9 km, route blue in the map) and afternoon (7 km, red route), with a lunch break of about one hour.
    The meeting point for both sessions is Teatro Garibaldi di Palermo (Via Teatro Garibaldi, 46-56): in the morning the group will meet at 8.30 am and will start walking at 9.00 am; in the afternoon the group will meet at 2.30 pm and will start walking at 3.00 pm.

    The walk will end at 8.30 pm at Palazzo Chiaramonte-Steri, where Wu Ming 2 will read the essay We Refugees by Hannah Arendt. Following, at Palazzo Chiaramonte-Steri there will be the concert Fratres / Jesus’ Blood (Jerusa Barros voice + GliArchiEnsemble). Both the reading and the concert are organised by the Festival delle Letterature Migranti.

    We advise participants to bring water, picnic lunch, and a raincoat.

    The walk is free and open to everyone.Â

    A StoryMap of the walk with texts and images of some of the stops is available here.

    For those who wish to join the performance along the path, below an approximate schedule with some of the stops, indicated also on the map:Â map.org:

    Time 10.00 am, Oratorio Santa Chiara (Stop 3)
    Time 11.15 am, Intersection Cortile Barcellona / Via Juvara (Stop 6)
    Time 12.15 pm, Ex-Ospedale Psichiatrico – Entrance Via Pindemonte (Stop 9)

    Time 1.15 pm, Via E. Basile 22 (Stop 10)
    Time 4.30 pm, Piazza V. Bottego (Stop 18)
    Time 5.45 pm, Fountain in via Generale. V. Magliocco (Stop 22)
    Time 7.15 pm, La Cala / Lungomare delle Migrazioni, in front of S.Maria della Catena (Stop 26)

    Full list of the stops:

    MORNING

    Teatro Garibaldi di Palermo
    Via Pola
    Piazza Santi Quaranta
    Piazza Casa Professa
    Oratorio Santa Chiara
    Teatro Montevergini
    Tribunale / Nuova Pretura
    Cortile Barcellona / Via Juvara
    Via Orazio Antinori
    Via Re Tancredi / Via Imperatrice Costanza
    Ex – Ospedale Psichiatrico – Ingresso Pindemonte
    Via Ernesto Basile 22 – Nureddine Adnane
    Via Fiume / Via Maqueda – Yussupha Susso
    Teatro Garibaldi

    AFTERNOON

    Teatro Garibaldi di Palermo
    Facoltà di Giurisprudenza
    Palazzo Pretorio
    Piazza Bologni
    Quattro canti
    Galleria delle Vittorie
    Piazza Bottego
    Piazzetta Due Palme
    Casa del Mutilato
    Via Tripoli / Via Rodi
    Via Gen. V. Magliocco
    Piazza Castelnuovo
    Genio del Porto
    Piazza XIII Vittime
    Lungomare delle Migrazioni / La Cala
    Palchetto della Musica / Foro Italico
    Palazzo Chiaramonte-Steri

    http://m12.manifesta.org/vivamenilicchiwalk/index.html

    #colonialisme_italien #Italie #Italie_coloniale #traces_coloniales #toponymie #toponymie_coloniale #toponymie_politique #balade_décoloniale #urban_walk #balade_uraine

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  • Una mappa per ricordare i crimini del colonialismo italiano

    Il 19 febbraio saranno passati 84 anni dal massacro di Addis Abeba, tra i tanti crimini del colonialismo italiano, uno dei più disgustosi e spietati, perché commesso lontano dai campi di battaglia, senza nemmeno l’alibi di una guerra in corso.

    Si trattò di un’immane rappresaglia, scattata in seguito all’attentato fallito contro il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani. Esercito e camicie nere si riversarono in strada, non tanto per stanare e arrestare i due responsabili, quanto per terrorizzare e colpire in maniera indiscriminata i nuovi sudditi dell’Italia imperiale, colpevoli di essersi ribellati agli invasori. Oltre ai militi e ai fascisti organizzati, si lanciarono entusiasti nella caccia al nero anche operai, burocrati e impiegati coloniali. Prigionieri e semplici passanti – colpevoli soltanto di essere africani – vennero uccisi a bastonate, a badilate, oppure pugnalati, fucilati, impiccati, investiti con automezzi, bruciati vivi nelle loro case.

    Il 22 febbraio 1937, Graziani spedì a Mussolini un telegramma eloquente: “In questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni con l’ordine di far passare per le armi chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state di conseguenza passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti tucul”.

    In breve, la strage debordò dal cerchio di fuoco che gli aerei italiani avevano stretto intorno ad Addis Abeba. Raggiunse i villaggi, le case sparse, i luoghi di culto. Centinaia di persone furono arrestate e morirono nei campi di detenzione di Danane, in Somalia, e Nocra, in Eritrea, dove Graziani ordinò che avessero minime quantità d’acqua e di cibo. Il clero copto fu identificato come un pericoloso sobillatore di ribelli e dopo la classica indagine dove il colpevole è stabilito in anticipo, a maggio Graziani spedì il generale Maletti ad annientare il villaggio conventuale di Debre Libanos, la comunità monastica più importante del paese. Le esecuzioni ufficiali ammontarono a 449. Lo storico Ian Campbell considera invece plausibile l’uccisione di circa duemila persone, compresi centinaia di minorenni, sia laici sia religiosi. Almeno il doppio ne sarebbero morte, secondo Angelo Del Boca, per le strade di Addis Abeba, mentre per Campbell sarebbero state 19mila e per le autorità etiopi – come denunciarono nel dopoguerra – 30mila.

    Una proposta di legge dimenticata
    Da allora, il 19 febbraio è un giorno di lutto per l’Etiopia, ma in Italia scorre via come una giornata qualsiasi, e le grida di quegli spettri restano sepolte sotto decenni di oblio e di svilimento.

    Unica eccezione: il 23 ottobre 2006 un piccolo gruppo di deputati ha presentato alla camera una proposta di legge per istituire un “Giorno della memoria in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana”. La data prescelta era proprio il 19 febbraio.

    Si sa che gli anniversari rischiano di trasformarsi in cerimonie vuote, liturgie sempre uguali a sé stesse, dove la verità che si vorrebbe rammentare, a forza di ripeterla con le medesime formule, finisce per suonare noiosa, banale e in certi casi addirittura sospetta. D’altra parte, se sono colti come un’opportunità, e non come un obbligo, possono costituire un banco di prova per mantenere attiva la memoria, trovando parole e segni che la rinnovino, che permettano al futuro di interrogarla.

    Come ci ha insegnato in questi anni il movimento transfemminista Non una di meno, dedicare una giornata, l’8 marzo, a riflettere, manifestare e confrontarsi su un determinato tema, non significa mettersi l’anima in pace, fare un compitino, e poi dimenticarsene per altri dodici mesi. Le scadenze riflettono l’umore dei corpi che le riempiono. Sono stanche se chi le anima è affaticato, battagliere se è combattivo, e per questo hanno sempre anche lo scopo di tastare il polso a una comunità.

    Rilettura radicale e azioni di guerriglia
    Diversi segnali sembrano suggerire che i tempi sono finalmente maturi per sincronizzare gesti e pensieri su una rilettura radicale del colonialismo italiano.

    Al di là di convegni, progetti artistici e ricerche accademiche, è l’interesse degli abitanti per la “topografia coloniale” che li circonda a segnare un cambio di passo – influenzato dalle proteste di Black lives matter negli Stati Uniti – che porta il tema fuori dalle aule, fuori dai libri, dove la storia si fa materia, e le contraddizioni sono incise sulla pelle dei territori.

    Proprio nell’estate del 2020, non appena le restrizioni dovute alla pandemia hanno concesso una tregua, si è assistito a un proliferare di iniziative, su e giù per l’Italia.

    In giugno, a Roma, la rete Restiamo umani è intervenuta in via dell’Amba Aradam e di fronte alla futura stazione Amba Aradam/Ipponio sulla linea C della metropolitana.

    Le targhe stradali sono state modificate per diventare via George Floyd e Bilal Ben Messaud, mentre lungo le barriere che delimitano il cantiere della nuova fermata sono comparsi grandi manifesti con scritto: “Nessuna stazione abbia il nome dell’oppressione”. Da quest’azione di “guerriglia odonomastica” è nata la proposta di intitolare la stazione della metro al partigiano italo-somalo Giorgio Marincola.

    Pochi giorni dopo, a Padova, un nutrito gruppo di associazioni ha guidato una camminata per le vie del quartiere Palestro, svelando l’origine dei nomi coloniali e mettendoli in discussione con letture e cartelli. Una sceneggiatura molto simile a quella dei trekking urbani che il collettivo Resistenze in Cirenaica organizza a Bologna dal 2015, o al Grande rituale ambulante “Viva Menilicchi!”, celebrato a Palermo nell’ottobre 2018, e alla visita guidata nella Firenze imperiale che ha inaugurato, in quello stesso anno, il progetto Postcolonial Italy.

    Sempre nell’estate 2020, a Milano, il centro sociale Cantiere ha lanciato una chiamata alle arti, con il motto “Decolonize the city!”: un progetto durante il quale, tra lezioni all’aperto e street art, è stata inaugurata una statua di Thomas Sankara all’interno dei giardini Indro Montanelli, quelli del monumento al celebre giornalista, sanzionato l’anno prima con una cascata di vernice rosa per aver sempre giustificato con affettata nonchalance il suo matrimonio combinato con una ragazzina dodicenne durante la guerra d’Etiopia.

    A Bergamo, nel settembre 2020, alcuni cartelli sono stati appesi a diverse targhe stradali, per ricordare che il fascismo e il colonialismo furono anche violenza di genere, proponendo dediche alternative a donne che contribuirono, in diversi campi, al progresso dell’umanità. Alla riapertura delle scuole, gli Arbegnuoc Urbani di Reggio Emilia hanno contestato insieme agli studenti il nome del polo scolastico Makallé, che si trova nella strada omonima, per l’occasione ribattezzata via Sylvester Agyemang, alunno di quell’istituto travolto lì vicino da un autobus. Infine, a metà ottobre, si sono svolti a Torino i Romane worq days, in onore della principessa etiope, figlia dell’imperatore Hailé Selassié, deportata in Italia nel 1937 e morta tre anni dopo nel capoluogo piemontese.

    Tutte queste iniziative ci dicono che il 2021 potrebbe essere l’anno giusto per istituire dal basso quella giornata di memoria che il parlamento non è riuscito ad approvare. Se una questione ci sta a cuore, non abbiamo bisogno di una legge per ricordarla.

    Fantasmi che non vogliamo vedere
    Quale che sia il giorno prescelto, le diverse iniziative andrebbero a formare un rituale di massa, con il risultato di evocare fantasmi. Le nostre città ne sono piene, eppure non li notiamo, non capiamo cosa dicono, leggiamo i loro nomi e non li riconosciamo, calpestiamo le loro tracce e le gambe non tremano, ne vediamo gli effetti e li attribuiamo ad altre cause, ne saccheggiamo l’eredità e non sappiamo nemmeno chi ce l’abbia lasciata, seguiamo i loro passi e ci illudiamo di percorrere nuovi sentieri.

    Monumenti, lapidi, targhe stradali, edifici: migliaia e migliaia di luoghi, su e giù per l’Italia, ci parlano invano del passato coloniale, come fotografie scattate in un tempo remoto e di cui abbiamo perduto le didascalie. Oppure ci ripetono, con la fissità della pietra, che fu un’impresa eroica, coraggiosa, patriottica, piena di fulgidi esempi dell’italico valore, per i quali ci viene chiesto di provare ammirazione.

    Come il regno d’Italia, fin dai primi anni dopo l’unità, si è plasmato occupando terre e aggredendo popoli, in barba agli ideali dell’indipendenza, così si sono “fatti gl’italiani” anche a suon di razzismo e stereotipi imperiali, e si è modellato il paesaggio urbano perché rispecchiasse le loro avventure coloniali, virili e da civilizzatori di antico lignaggio. Uno specchio che è rimasto lì, anche quando si è smesso di interrogarlo, per paura di quelle stesse risposte che un tempo ci facevano gongolare. Meglio non sapere per quale motivo quel quartiere si chiama Neghelli, o cosa fosse “l’assedio economico” di cui parla quella targa sulla facciata del municipio, o perché dietro un monumento ai partigiani fa capolino il bassorilievo di un’antilope.

    Meglio silenziare, edulcorare, censurare. Togliere le didascalie, ma lasciare le foto: in fondo il nonno era venuto così bene! Ti somiglia pure! Ma chi è quella ragazza, a petto nudo, che lo abbraccia controvoglia? E quel mucchio di cadaveri, sul quale pianta fiero il tacco dello stivale? Cadaveri? Quali cadaveri? Quelle sono zolle, zolle di terra! Non lo sai che il nonno è andato laggiù per lavorare, per coltivare, per trasformare il deserto in un giardino?

    Altri colonialismi
    Il testo della proposta di legge parla di cinquecentomila vittime africane nelle colonie del regno d’Italia, ovvero Libia, Somalia, Etiopia ed Eritrea. Possiamo star certi che furono molte di più, e d’altra parte, non è nemmeno corretto limitare l’impatto del colonialismo italiano alle sole terre d’Africa. L’Albania fu un “protettorato italiano”, con un governo fantoccio, occupato e soggiogato con le armi, un anno prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale. Le isole dell’Egeo furono un “possedimento d’Oltremare”, sottile differenza che interessa giusto ai filatelisti. Gli ebrei di Rodi e di Kos presero la cittadinanza italiana, ma nel 1938, con la proclamazione delle leggi razziali, furono cacciati dalle scuole e dagli uffici pubblici, vennero schedati nei registri civili, i loro beni furono inventariati e in parte espropriati, quindi venne chiuso il collegio rabbinico della città.

    Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, l’isola fu occupata dai nazisti. Le autorità fasciste della repubblica sociale Italiana, loro alleate, consegnarono ai tedeschi gli elenchi degli ebrei rodioti, che vennero rastrellati e deportati in Germania. Sono 1.815 i nomi accertati di ebrei residenti sull’isola che morirono nei campi di sterminio, 178 quelli rimasti in vita.

    Possiamo lasciare agli storici il compito di stabilire se fu “colonialismo” l’occupazione della Dalmazia nel 1941, quella di Fiume da parte dei legionari di D’Annunzio, o la minuscola concessione italiana nel porto cinese di Tianjin, oggi trasformata in un’attrazione turistica e commerciale, la New italian style town. Di certo il nostro colonialismo non s’è limitato all’Africa e i suoi crimini vanno ben oltre la strage di Addis Abeba del 19 febbraio. Quella, tuttavia, è l’unico delitto di così vaste proporzioni che si possa collegare a un giorno preciso. La deportazione degli abitanti del Jabal al Akhdar, in Cirenaica, per togliere supporto alla resistenza libica e far spazio a coloni italiani, provocò almeno quarantamila morti, tra quelli che crollarono durante la marcia nel deserto e quelli che morirono nei campi di concentramento sulla costa: è chiaro però che tutto questo avvenne nel corso di settimane e mesi, così come settimane durarono i bombardamenti con armi chimiche, durante l’invasione fascista dell’Etiopia, mentre l’Eritrea – la cosiddetta colonia primogenita – conobbe cinquant’anni di razzismo e violenza.

    Volendo scegliere una singola data, il 19 febbraio sembra in effetti la più adatta, considerando che la comunità etiope la commemora già tutti gli anni. In Etiopia, la data sul calendario è conosciuta come Yekatit 12 e con quel nome è intitolata una piazza della capitale. Nella nostra, di capitale, ci sono invece strade dedicate a Reginaldo Giuliani, Antonio Locatelli e Alfredo De Luca, che in Etiopia portarono morte e distruzione, inquadrati nell’esercito e nell’aviazione fascista. Qualche decina di chilometri più a est, ad Affile, sempre in provincia di Roma, sopravvive alla rabbia di molti l’ignobile mausoleo dedicato a Graziani, che del massacro di Addis Abeba fu il principale responsabile.

    Un inventario
    Non si potrà fare memoria, il 19 febbraio, dei crimini del colonialismo italiano, senza porsi il problema di come trattare certi nomi, lapidi, targhe, monumenti, edifici che ancora affollano il territorio italiano.

    Un primo passo per provare a maneggiare quest’eredità ingombrante sarebbe quello di farne un inventario, censire i luoghi, sistemarli su una mappa. È quel che ho cominciato a fare da qualche mese, nei ritagli di tempo. In principio, volevo solo localizzare le lapidi ancora esistenti – ma in molti casi riutilizzate – che il regime fascista fece posare in tutti i municipi d’Italia, il 18 novembre 1936, un anno dopo l’entrata in vigore delle sanzioni economiche contro il regno d’Italia decise dalla Società delle nazioni per condannare l’invasione dell’Etiopia.

    Ben presto, mi sono ritrovato a segnare molti altri posti, e da un paio di settimane, attraverso il blog Giap e con l’aiuto del collettivo Resistenze in Cirenaica, stiamo raccogliendo segnalazioni da tutta Italia. La mappa è ancora agli inizi, ma l’affollarsi di tanti segnaposti dà già l’impressione di una mostruosa eruzione cutanea. Una specie di allergia.

    Anticolonizzare
    La questione di come trattare le tracce che la storia lascia nel paesaggio non è certo nuova, né originale, ma si ripresenta ogni volta in maniera diversa, perché diverse sono le esigenze che la portano in superficie. Oggi è chiaro che le vestigia del colonialismo italiano provocano irritazioni e piaghe nel tessuto delle città, perché la guerra contro i migranti uccide uomini e donne i cui avi furono sterminati dai nostri. Nella strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 ci furono 366 morti accertati e 20 dispersi, molti dei quali erano eritrei, partiti da Misurata, in Libia, e naufragati nel 78° anniversario dell’invasione dell’Etiopia da parte del regno d’Italia.

    Due anni dopo, sempre a Bergamo, la fontana dedicata ad Antonio Locatelli, fiero sterminatore di etiopi con armi chimiche, si riempiva d’acqua rosso sangue e uno striscione lo chiamava assassino. Il sindaco Giorgio Gori, manco a dirlo, dichiarò che l’illustre concittadino fascista era una figura “controversa”, ma definì “maleducati” gli autori del gesto.

    Non è raro che azioni come questa siano etichettate come vandalismi, anche quando non si verificano reali danni all’arredo urbano, ma a disturbare è l’idea stessa che questo venga modificato, salvo poi accettare che enormi cartelloni pubblicitari cambino il volto di una piazza per mesi e mesi.

    L’oppressione non finisce quando la vittima se la scuote di dosso, ma quando la ripudia anche il carnefice

    Si declina in termini di decoro quello che invece è un problema di potere: se a casa mia posso cambiare l’arredamento come mi pare, chi decide l’aspetto dello spazio comune? In teoria, le amministrazioni comunali si riempiono la bocca di processi partecipati, ma nella pratica quel che ne risulta è sempre molto simile a un piano prestabilito. Le commissioni toponomastiche delle città, per esempio, tendono a escludere che si possano cambiare i nomi delle vie: troppo complicato, troppi indirizzi da modificare, troppa gente da mettere d’accordo, ci sono questioni più importanti.

    Chi invece organizza queste azioni topografiche, usa spesso il verbo “decolonizzare”, per suggerire l’idea che le nazioni europee devono liberarsi dal colonialismo, così come se ne sono liberate le loro ex colonie, in quel processo storico chiamato appunto decolonizzazione. L’oppressione non finisce quando la vittima se la scuote di dosso, ma quando la ripudia anche il carnefice. Questo è sacrosanto, eppure quando leggo che bisogna “decolonizzare le nostre città”, mi viene sempre in mente il caffè decaffeinato: l’espresso ti piace, però ti fa male. Allora gli togli la componente tossica e continui a berlo, come se niente fosse. Derattizzi un quartiere, metti le esche per i topi, et voila, sparito il problema.

    Intendo dire che in un certo senso i nostri spazi urbani sono già fin troppo de-colonizzati: entri al bar Dogali, strappi una bustina di zucchero che ha stampata sopra una faccia africana, butti giù un deca, leggi il titolo sui migranti somali partiti da Zuwara, ti lamenti perché “un negro” vuole rifilarti un accendino e tutto l’ambaradan che si porta dietro, saluti il ras del quartiere, quindi corri al lavoro, lungo via Bottego, sotto il palazzo con quella scritta in latino, “Tu regere imperio populos…”. E in tutto questo, del colonialismo e dei suoi crimini, non hai sentito nemmeno l’odore.

    Forse allora bisognerebbe impegnarsi per “anticolonizzare” il nostro paesaggio, il senso che diamo ai luoghi nell’atto di abitarli ogni giorno: introdurre anticorpi, invece di limitarsi a rimuovere il virus. Nel 1949 a Bologna gli odonimi coloniali del rione Cirenaica furono sostituiti con nomi di partigiani: ne restò solo uno, via Libia. Ora non si tratta di togliere anche quello, ma di aggiungerci un adesivo: “Nazione africana, luogo di crimini del colonialismo italiano”, e di raccontare come mai la giunta comunista decise che una delle vecchie intitolazioni doveva restare. Il che non significa fare lo stesso con il nome di Italo Balbo, nelle ventuno vie d’Italia che si chiamano così, inserendo giusto una targa esplicativa con il suo curriculum di violenze. Significa che il problema non si risolve cambiando un’intitolazione. La sfida è politica, estetica, storica e creativa, quindi avvincente.

    A chi strilla che “il passato non si cancella”, bisogna ribattere che un nome, un monumento o una targa, se stanno in strada non sono il passato, bensì il presente. E se ci restano, sono pure il futuro.

    Decidere cosa consegnare all’avvenire, e in che modo riuscirci, è sempre una questione politica, dunque materia di conflitto. Come ogni mossa che facciamo sul territorio, un passo dopo l’altro.

    https://www.internazionale.it/opinione/wu-ming-2/2021/02/15/mappa-colonialismo-italiano

    #visualisation #cartographie #carte_interactive #crowsourcing #colonialisme_italien #Italie #Italie_coloniale #traces_coloniales #toponymie #toponymie_coloniale #toponymie_politique

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  • Will The Reckoning Over Racist Names Include These Prisons?

    Many prisons, especially in the South, are named after racist officials and former plantations.

    Not long after an #Alabama lawyer named #John_Darrington began buying up land in Southeast #Texas, he sent enslaved people to work the soil. They harvested cotton and sugarcane, reaping profits for their absentee owner until he sold the place in 1848.

    More than a century and a half later, men—mostly Black and brown—are still forced to work in the fields. They still harvest cotton. They still don’t get paid. And they still face punishment if they refuse to work.

    They are prisoners at the #Darrington Unit, one of Texas’s 104 prisons. And not the only one in the South named after slaveholders.

    While the killing of George Floyd has galvanized support for tearing down statues, renaming sports teams and otherwise removing markers of a (more) racist past, the renewed push for change hasn’t really touched the nation’s prison system. But some say it should. Across the country, dozens of prisons take their names from racists, Confederates, plantations, segregationists, and owners of slaves.

    “Symbols of hate encourage hate, so it has been time to remove the celebration of figures whose fame is predicated on the pain and torture of Black people,” said DeRay McKesson, a civil rights activist and podcast host.

    Some candidates for new names might be prisons on former plantations. In #Arkansas, the #Cummins Unit—now home to the state’s death chamber—was once known as the #Cummins_plantation (though it’s not clear if the namesake owned slaves). In North Carolina, Caledonia Correctional Institution is on the site of #Caledonia_Plantation, so named as a nostalgic homage to the Roman word for Scotland. Over the years, the land changed hands and eventually the state bought that and other nearby parcels.

    “But the state opted to actually keep that name in what I would say is a kind of intentional choice,” said Elijah Gaddis, an assistant professor of history at Auburn University. “It’s so damning.”

    Among several state prison systems contacted by The Marshall Project, only North Carolina’s said it’s in the early stages of historical research to see what name changes might be appropriate. Spokesman John Bull said the department is “sensitive to the cultural legacy issues sweeping the country,” but its priority now is responding to the COVID pandemic.

    Two of the most infamous and brutal plantations-turned-prisons are #Angola in #Louisiana and #Parchman in #Mississippi—but those are their colloquial names; neither prison formally bears the name of the plantation that preceded it. Officially, they’re called Louisiana State Penitentiary and the Mississippi State Penitentiary.

    In some parts of the South, many prisons are former plantations. Unlike Darrington or Cummins, the vast majority at least bothered to change the name—but that isn’t always much of an improvement.

    In Texas, for example, most of the state’s lock-ups are named after ex-prison officials and erstwhile state politicians, a group that predictably includes problematic figures. Arguably one of the worst is Thomas J. Goree, the former slave owner and Confederate captain who became one of the first superintendents of the state’s penitentiaries in the 1870s, when prison meant torture in stocks and dark cells.

    “Goree was a central figure in the convict leasing system that killed thousands of people and he presided over the formal segregation of the prison system,” said Robert Perkinson, a University of Hawaii associate professor who studies crime and punishment. “Even though he thought of himself as a kind of benevolent master, he doesn’t age well at all.”

    In his book “Texas Tough,” Perkinson describes some of the horrors of the convict leasing practices of Goree’s era. Because the plantation owners and corporations that rented prisoners did not own them, they had no incentive to keep them alive. If you killed an enslaved person, it was a financial loss; if you killed a leased convict, the state would just replace him. For decades, Texas prison laborers were routinely whipped and beaten, and the leasing system in Goree’s day sparked several scandals, including one involving torture so terrible it was known as the “Mineola Horror.” Goree defended the system: “There are, of course, many men in the penitentiary who will not be managed by kindness.” Plus, he explained, prisoners in the South needed to be treated differently because they were different from those in the north: “There, the majority of men are white.”

    The present-day Goree Unit is in Huntsville, an hour’s drive north of Houston, but his family’s former plantation in Lovelady—about 20 miles further north—has been turned into another prison: The Eastham Unit, named for the later landowners who used it for convict leasing.

    James E. #Ferguson—namesake of the notoriously violent Ferguson Unit, also near Huntsville—was a governor in the 1910s who was also an anti-Semite and at one point told the Texas Rangers he would use his pardoning power if any of them were ever charged with murder for their bloody campaigns against Mexicans, according to Monica Muñoz Martinez, historian and author of “The Injustice Never Leaves You.”

    Ferguson got forced out of office early when he was indicted and then impeached. Afterward, he was replaced by William P. Hobby, a staunch segregationist who opposed labor rights and once defended the beating of an NAACP official visiting the state to discuss anti-lynching legislation.

    #Hobby, too, has a prison named after him.

    “In public he tried to condemn lynchings, but then when you look at his role in suppressing anti-lynching organizing he was trying to suppress those efforts,” Martinez said of Hobby. “It’s horrific to name a prison after a person like him. It’s an act of intimidation and it’s a reminder that the state is proud of that racist tradition.”

    Northwest of Abilene, the Daniel Unit takes its name from #Price_Daniel, a mid-20th-century governor who opposed integration, like most Texas politicians of the era. As attorney general he fought desegregating the University of Texas Law School, and later he signed the Southern Manifesto condemning the Supreme Court’s decision in Brown v. Board of Education.

    The namesakes of the #Billy_Moore Unit and the frequently-sued Wallace Pack Unit were a pair of prison officials—a major and a warden—who died in 1981 while trying to murder a Black prisoner. According to Michael Berryhill, a Texas Southern University journalism professor who wrote a book on the case, it was such a clear case of self-defense that three Texas juries decided to let the prisoner off.

    “They should not have prisons named after them,” Berryhill said. He called it “a stain” on the Texas prison system’s reputation.

    In Alabama, the #Draper Correctional Center is named after #Hamp_Draper, a state prison director who also served as an interim leader—or “imperial representative”—in the #Ku_Klux_Klan, as former University of Alabama professor Glenn Feldman noted in his 1999 book on the state’s Klan history. The prison closed for a time in 2018 then re-opened earlier this year as a quarantine site for new intakes.

    In New York City, the scandal-prone #Rikers Island jail is one of a few that’s actually generated calls for a name change, based on the namesake family’s ties to slavery. One member of the Dutch immigrant clan, #Richard_Riker, served as a criminal court judge in the early 1800s and was known as part of the “#Kidnapping_Club” because he so often abused the Fugitive Slave Act to send free Blacks into slavery.

    To be sure, most prisons are not named for plantations, slave owners or other sundry racists and bigots—at least not directly. Most states name their prisons geographically, using cardinal directions or nearby cities.

    But some of those geographic names can be problematic. In Florida, Jackson Correctional Institution shares a name with its home county. But Jackson County is named after the nation’s seventh president, #Andrew_Jackson, who was a slave owner obsessed with removing Native people to make room for more plantations. Less than an hour to the south, #Calhoun Correctional Institution also bears the name of its county, which is in turn named after John C. Calhoun—Jackson’s rabidly pro-slavery vice president. The same is true of Georgia’s Calhoun State Prison.

    Also in #Georgia, Lee State Prison is in Lee County, which is named in honor of #Henry_Lee_III, the patriarch of a slave-owning family and the father of Robert E. Lee. A little further northeast, Lee County in South Carolina—home to violence-plagued Lee Correctional Institution—is named after the Confederate general himself.

    In #Arkansas, the namesake of #Forrest City—home to two eponymous federal prisons—is #Nathan_Bedford_Forrest, a Grand Wizard in the Ku Klux Klan who also controlled leased convicts in the entire state of Mississippi at one point.

    To many experts, the idea of changing prison names feels a bit like putting lipstick on a pig: No matter what you call it, a prison is still a prison. It still holds people who are not free. They are still disproportionately Black and brown.

    “If you are talking about the inhumanity, the daily violence these prisons perform, then who these prisons are named after is useful in understanding that,” Martinez said. “But what would it do to name it after somebody inspiring? It’s still a symbol of oppression.”

    But to Anthony Graves, a Texas man who spent 12 years on death row after he was wrongfully convicted of capital murder, the racist names are a “slap in the face of the justice system itself.” New names could be a powerful signal of new priorities.

    “At the end of the day the mentality in these prisons is still, ‘This is my plantation and you are my slaves,’” he said. “To change that we have to start somewhere and maybe if we change the name we can start to change the culture.”

    https://www.themarshallproject.org/2020/07/29/will-the-reckoning-over-racist-names-include-these-prisons

    #prisons #USA #Etats-Unis #toponymie #toponymie_politique #esclavage #Thomas_Goree #Goree #James_Ferguson #William_Hobby #John_Calhoun

  • COLONIALISMO. In Libia la strategia italiana della “terra bruciata”

    Non appena l’impiego operativo dell’aereo come fattore preponderante di superiorità nei conflitti venne teorizzato da #Giulio_Douhet nel 1909, gli italiani divennero i primi a livello mondiale ad utilizzare questa arma bellica durante la Guerra italo-turca della #Campagna_di_Libia.

    ll 1º novembre 1911 il sottotenente #Giulio_Gavotti eseguì da un velivolo in volo il primo bombardamento aereo della storia, volando a bassa quota su un accampamento turco ad #Ain_Zara e lanciando tre bombe a mano.

    Pochi anni dopo entrarono in servizio nuovi aerei, tecnicamente più capaci di svolgere il ruolo offensivo al quale erano stati predisposti e le azioni assunsero l’aspetto di un’inarrestabile escalation militare.

    Tra il mese di aprile e l’agosto del 1917 furono eseguite contro le oasi di Zanzour e Zavia, un centinaio di azioni con il lancio di 1.270 chilogrammi di liquido incendiario e 3.600 chili di bombe.

    Dal 1924 al 1926 gli aerei ebbero l’ordine di alzarsi in volo per bombardare tutto ciò che si muoveva nelle oasi non controllate dalle truppe italiane.

    Dal novembre 1929 alle ultime azioni del maggio 1930, l’aviazione in Cirenaica eseguì, secondo fonti ufficiali, ben 1.605 ore di volo bellico lanciando 43.500 tonnellate di bombe e sparando diecimila colpi di mitragliatrice.

    La strategia aerea e la politica della terra bruciata, spinse migliaia di uomini, donne e bambini terrorizzati a lasciare la Libia, chi verso la Tunisia e l’Algeria, chi in direzione del Ciad o dell’Egitto e i bombardamenti diventarono sempre più violenti, scientifici e sperimentali.

    Cirenaica pacificata, uno dei libri con i quali il generale Graziani volle giustificare la sua azione repressiva e rispondere alle accuse di genocidio, c’è un breve capitolo sul bombardamento di Taizerbo, una delle roccaforti della resistenza anti italiana capeggiata dall’imam Omar el Mukhtar, avvenuto il 31 luglio 1930, sei mesi dopo l’esortazione di Pietro Badoglio all’uso dell’iprite: “Per rappresaglia, ed in considerazione che Taizerbo era diventata la vera base di partenza dei nuclei razziatori il comando di aviazione fu incaricato di riconoscere l’oasi e – se del caso – bombardarla. Dopo un tentativo effettuato il giorno 30 -non riuscito, per quanto gli aeroplani fossero già in vista di Taizerbo, a causa di irregolare funzionamento del motore di un apparecchio, la ricognizione venne eseguita il giorno successivo e brillantemente portata a termine. Quattro apparecchi Ro, al comando del ten.col. Lordi, partirono da Giacolo alle ore 4.30 rientrando alla base alle ore 10.00 dopo aver raggiunto l’obiettivo e constatato la presenza di molte persone nonché un agglomerato di tende. Fu effettuato il bombardamento con circa una tonnellata di esplosivo e vennero eseguite fotografie della zona. Un indigeno, facente parte di un nucleo di razziatori, catturato pochi giorni dopo il bombardamento, asserì che le perdite subite dalla popolazione erano state sensibili, e più grande ancora il panico”.

    Vincenzo Lioy, nel suo libro sul ruolo dell’aviazione in Libia (Gloria senza allori, Associazione Culturale Aeronautica), ha aggiunto un’agghiacciante rapporto firmato dal tenente colonnello dell’Aeronautica Roberto Lordi, comandante dell’aviazione della Cirenaica (rapporto che Graziani inviò al Ministero delle colonie il 17 agosto) nel quale si apprende che i quattro apparecchi Ro erano armati con 24 bombe da 21 chili ad iprite, 12 bombe da 12 chili e da 320 bombe da 2 chili, e che “(…) in una specie di vasta conca s’incontra il gruppo delle oasi di Taizerbo. Le palme, che non sono molto numerose, sono sparpagliate su una vasta zona cespugliosa. Dove le palme sono più fitte si trovano poche casette. In prossimità di queste, piccoli giardini verdi, che in tutta la zona sono abbastanza numerosi; il che fa supporre che le oasi siano abitate da numerosa gente. Fra i vari piccoli agglomerati di case vengono avvistate una decina di tende molto più grandi delle normali e in prossimità di queste numerose persone. Poco bestiame in tutta la conca. II bombardamento venne eseguito in fila indiana passando sull’oasi di Giululat e di el Uadi e poscia sulle tende, con risultato visibilmente efficace”.

    II primo dicembre dello stesso anno il tenente colonnello Lordi inviò a Roma copia delle notizie sugli effetti del bombardamento a gas effettuato quel 31 luglio sulle oasi di Taizerbo “ottenute da interrogatorio di un indigeno ribelle proveniente da Cufra e catturato giorni or sono”.

    È una testimonianza raccapricciante raccolta materialmente dal comandante della Tenenza dei carabinieri reali di el Agheila: “Come da incarico avuto dal signor comandante l’aviazione della Cirenaica, ieri ho interrogato il ribelle Mohammed abu Alì Zueia, di Cufra, circa gli effetti prodotti dal bombardamento a gas effettuato a Taizerbo. II predetto, proveniente da Cufra, arrivò a Taizerbo parecchi giorni dopo il bombardamento, seppe che quali conseguenze immediate vi sono quattro morti. Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. Egli ne vide diversi che presentavano il loro corpo ricoperto di piaghe come provocate da forti bruciature. Riesce a specificare che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoruscita di liquido incolore. Rimaneva così la carne viva priva di pelle, piagata. Riferisce ancora che un indigeno subì la stessa sorte per aver toccato, parecchi giorni dopo il bombardamento, una bomba inesplosa, e rimasero così piagate non solo le sue mani, ma tutte le altre parti del corpo ove le mani infette si posavano”.

    L’uso dell’iprite, che doveva diventare un preciso sistema di massacro della popolazione civile in Etiopia qualche anno più tardi, fu certamente una scelta sia militare che politica così come i bombardamenti dovevano corrispondere a scelte di colonizzazione ben precise e sistematiche di quella che Gaetano Salvemini, quando ebbe inizio l’avventura coloniale italiana in Libia definì “Un’immensa voragine di sabbia”:

    Benito Mussolini volle che fosse il gerarca Italo Balbo ad occuparsene dopo averlo sollevato dall’incarico di Ministro dell’Aeronautica del Regno d’Italia e inviato in qualità di Governatore nel 1934.

    Balbo dichiarò che avrebbe seguito le gloriose orme dei suoi predecessori e avviò una campagna nazionale che voleva portare due milioni di emigranti sulla Quarta Sponda Italiana del Mediterraneo.

    Ne arrivarono soltanto 31mila, ma furono un numero sufficiente da trincerare dietro un muro militare, costruito nel 1931 in Cirenaica, per contrastare la resistenza delle tribù beduine degli indipendentisti libici.

    Quel muro, il muro italiano di Giarabub, è tuttora presente e in funzione come barriera anti-immigrazione: una doppia linea di recinzione metallica lunga 270 chilometri, larga quattro metri, alta tre, visibilmente malandata ma resa insuperabile da chilometri di matasse di filo spinato che si srotolano dalle regioni a ridosso del porto di Bardia, lungo le sterpaglie desolate della Marmarica, fino a perdersi nel Grande Mare di Sabbia del Deserto Libico.

    Questa grande opera venne commissionata alla Società Italiana Costruzioni e Lavori Pubblici di Roma, che la realizzò in sei mesi, dal 15 aprile al 5 settembre 1931, ad un costo complessivo di circa venti milioni di lire, impegnando nella costruzione 2.500 indigeni sorvegliati da 1.200 soldati e carabinieri, lungo un percorso totalmente privo di strade e di risorse idriche.

    Il reticolato di filo spinato è sostenuto da paletti di ferro con base in calcestruzzo, vigilato dai ruderi fatiscenti di tre ridotte e sei ridottini; lungo il suo percorso vennero costruiti tre campi d’aviazione, una linea telefonica, 270 milioni di paletti di ferro e ventimila quintali di cemento.

    Il compito di sorveglianza e controllo è sempre stato garantito dall’innesco di migliaia di mine antiuomo, ma per un certo periodo fu oggetto di ricognizioni aeree audacemente condotte, oltre che dai piloti dell’Aeronautica Militare, anche e direttamente dal loro capo supremo e Maresciallo dell’Aria Italo Balbo a bordo di veivoli derivati dai trimotori Savoia Marchetti da lui impiegati nelle transvolate atlantiche e che divennero caccia bombardieri siluranti chiamati Sparvieri.

    Nei sei anni che Balbo visse e volò in Libia, lo Sparviero abbatté tutti i record e tutti i primati di volo civile, velocità, trasporto, durata, distanza, poi il salto di qualità e da civile divenne aereo militare: nella versione S.79K, l’impiego operativo di questo modello avvenne con l’intervento italiano nella guerra civile spagnola e il 26 aprile 1937, tre S.M.79 dell’Aviazione Legionaria presero parte al bombardamento della cittadina basca di Guernica, un’incursione aerea compiuta in cooperazione con la Legione Condor nazista, che colpì nottetempo la popolazione civile inerme e ispirò il celeberrimo dipinto di denuncia di Pablo Picasso.

    Sette anni prima era alla guida di grandi imprese di voli transatlantici: il primo nel 1930 da Orbetello a Rio de Janeiro; il secondo tre anni dopo, da Orbetello a Chicago. Questa seconda crociera, organizzata per celebrare il decennale della Regia Aeronautica Militare Italiana nell’ambito dell’Esposizione Universale Century of Progress che si tenne a Chicago tra il 1933 e il 1934, lo aveva coperto di gloria.

    Il governatore dell’Illinois e il sindaco della città di Chicago riservarono ai trasvolatori un’accoglienza trionfale: a Balbo venne intitolata una strada, tutt’oggi esistente, e i Sioux presenti all’Esposizione lo nominarono capo indiano, con il nome di Capo Aquila Volante. Il volo di ritorno proseguì per New York, dove il presidente Roosevelt organizzò, in onore agli equipaggi della flotta di 25 idrotransvolanti italiani, una grande street parade.

    Gli esaltatori delle trasvolate atlantiche non mancano di citare ogni tipo di manifestazione organizzata a Chicago in onore del grande pilota, ma omettono sempre di citare lo striscione che pare recitasse “Balbo, don Minzoni ti saluta” e che commemorava l’onore da lui acquisito come pioniere dello squadrismo fascista.

    Là, in Italia, partendo dalle valli del delta padano, aveva visto portare a compimento grandi opere di bonifiche che strapparono alle acque nuove terre da coltivare e nuove forme di diritti sindacali da reprimere grazie all’”esaltazione della violenza come il metodo più rapido e definitivo per raggiungere il fine rivoluzionario” (Italo Balbo, Diario 1922, Mondadori).

    Sempre là, nella bassa provincia Ferrarese, aveva inaugurato la strategia criminale delle esecuzioni mirate come responsabile diretto, morale e politico dei due omicidi premeditati, da lui considerati ’bastonate di stile’, che significavano frattura del cranio, somministrate al sindacalista Natale Gaiba e al sacerdote don Giovanni Minzoni.

    Natale Gaiba venne assassinato per vendicare l’offesa, compiuta quando il sindacalista argentano era assessore del Comune di Argenta, di aver fatto sequestrare l’ammasso di grano del Molino Moretti, imboscato illegalmente per farne salire il prezzo, venisse strappato ai latifondisti agrari e restituito al popolo che lo aveva prodotto coltivando la terra, ridotto alla fame.

    Don Minzoni, parroco di Argenta, venne assassinato dai fascisti locali: Balbo non volle ammettere che fossero stati individuati e arrestati i colpevoli e intervenne in molti modi, anche con la costante presenza in aula, per condizionare lo svolgimento e il risultato sia delle indagini che del processo penale, garantendo l’impunità del crimine.

    Qui, in Libia, Italo Balbo non riuscì a trovare, nemmeno con la forza, l’acqua sufficiente da donare alla terra di quei pochi coloni veneti e della bassa ferrarese che, sotto l’enfasi propagandistica del regime, lo avevano raggiunto, si erano rimboccati le maniche e si erano illusi di rendere verde il deserto “liberato”.

    Fu sempre qui, in Libia, che italo Balbo, per tragica ironia della sorte o per fatale coincidenza, precipitò realmente in una voragine di sabbia e trovò la morte, colpito dal fuoco amico della artiglieria contraerea italiana nei cieli di Tobruk il 28 giugno 1940. Evidentemente mentre lui seguiva le orme dei grandi colonizzatori italiani, qualcos’altro stava seguendo le sue tracce, poiché la responsabilità storica di quanto avvenuto per sbaglio, come tragico errore e incidente di guerra, venne assunta in prima persona da un capo pezzo del 202 Reggimento di Artiglieria, che ammise di aver sparato raffiche di artiglieria contraerea all’indirizzo del trimotore Savoia Marchetti 79 pilotato dal suo comandante supremo nonché concittadino Italo Balbo, essendo significativamente pure lui, Claudio Marzola, 20enne, un ferrarese purosangue.

    I colpi letali partirono da una delle tre mitragliatrici da 20 mm in dotazione a un Incrociatore Corazzato della Marina Regia che permaneva in rada semiaffondato e a scopo difensivo antiaereo, varato con lo stesso nome del santo patrono della città di Ferrara: San Giorgio.

    https://pagineesteri.it/2021/05/27/africa/colonialismo-in-libia-la-strategia-italiana-della-terra-bruciata
    #colonialisme #Italie #terre_brûlée #colonisation #histoire_coloniale #Italie_coloniale #colonialisme_italien #aviation #Zanzour #Zavia #oasis #bombardement #Cirenaica #Graziani #Rodolfo_Graziani #Taizerbo #iprite #Pietro_Badoglio #Badoglio #Roberto_Lordi #Italo_Balbo #fascisme #Giarabub #Balbo #Legione_Condor #violence #Natale_Gaiba #Giovanni_Minzone #don_Minzoni #Claudio_Marzola

    Un mur construit à l’époque coloniale et encore debout aujourd’hui et utilisé comme barrière anti-migrants :

    Quel muro, il muro italiano di Giarabub, è tuttora presente e in funzione come barriera anti-immigrazione: una doppia linea di recinzione metallica lunga 270 chilometri, larga quattro metri, alta tre, visibilmente malandata ma resa insuperabile da chilometri di matasse di filo spinato che si srotolano dalle regioni a ridosso del porto di Bardia, lungo le sterpaglie desolate della Marmarica, fino a perdersi nel Grande Mare di Sabbia del Deserto Libico.
    Questa grande opera venne commissionata alla Società Italiana Costruzioni e Lavori Pubblici di Roma, che la realizzò in sei mesi, dal 15 aprile al 5 settembre 1931, ad un costo complessivo di circa venti milioni di lire, impegnando nella costruzione 2.500 indigeni sorvegliati da 1.200 soldati e carabinieri, lungo un percorso totalmente privo di strade e di risorse idriche.
    Il reticolato di filo spinato è sostenuto da paletti di ferro con base in calcestruzzo, vigilato dai ruderi fatiscenti di tre ridotte e sei ridottini; lungo il suo percorso vennero costruiti tre campi d’aviazione, una linea telefonica, 270 milioni di paletti di ferro e ventimila quintali di cemento.

    #murs #barrières_frontalières

    –-

    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

    • #Balbo street à #Chicago —> une rue est encore dédiée à #Italo_Balbo :

      Nei sei anni che Balbo visse e volò in Libia, lo Sparviero abbatté tutti i record e tutti i primati di volo civile, velocità, trasporto, durata, distanza, poi il salto di qualità e da civile divenne aereo militare: nella versione S.79K, l’impiego operativo di questo modello avvenne con l’intervento italiano nella guerra civile spagnola e il 26 aprile 1937, tre S.M.79 dell’Aviazione Legionaria presero parte al bombardamento della cittadina basca di Guernica, un’incursione aerea compiuta in cooperazione con la Legione Condor nazista, che colpì nottetempo la popolazione civile inerme e ispirò il celeberrimo dipinto di denuncia di Pablo Picasso.

      Sette anni prima era alla guida di grandi imprese di voli transatlantici: il primo nel 1930 da Orbetello a Rio de Janeiro; il secondo tre anni dopo, da Orbetello a Chicago. Questa seconda crociera, organizzata per celebrare il decennale della Regia Aeronautica Militare Italiana nell’ambito dell’Esposizione Universale Century of Progress che si tenne a Chicago tra il 1933 e il 1934, lo aveva coperto di gloria.

      Il governatore dell’Illinois e il sindaco della città di Chicago riservarono ai trasvolatori un’accoglienza trionfale: a Balbo venne intitolata una strada, tutt’oggi esistente, e i Sioux presenti all’Esposizione lo nominarono capo indiano, con il nome di Capo Aquila Volante. Il volo di ritorno proseguì per New York, dove il presidente Roosevelt organizzò, in onore agli equipaggi della flotta di 25 idrotransvolanti italiani, una grande street parade.


      https://www.openstreetmap.org/search?query=balbo%20street%20chicago#map=17/41.87445/-87.62088

      #toponymie #toponymie_politique #toponymie_coloniale

      Et un #monument :
      Balbo Monument

      The Balbo Monument consists of a column that is approximately 2,000 years old dating from between 117 and 38 BC and a contemporary stone base. It was taken from an ancient port town outside of Rome by Benito Mussolini and given to the city of Chicago in 1933 to honor the trans-Atlantic flight led by Italo Balbo to the #Century_of_Progress_Worlds_Fair.


      https://en.wikipedia.org/wiki/Balbo_Monument

      #statue

      ping @cede

  • Manhattan’s Chinese Street Signs Are Disappearing

    As with many neighborhoods in New York City, Chinatown has a history that is legible in layers. Here in Lower Manhattan, Republic of China flags still flutter above the offices of family associations that were founded before the Communist Revolution. Job posting boards covered in slips of paper cater to recent immigrants. Instagrammable dessert shops serve young locals and tourists alike. “For Rent / 出租” signs are everywhere, alluding to the shrinking number of Chinese businesses and residents.

    And above a dwindling number of intersections hang signs declaring the names of the street in English and in Chinese.

    Bilingual street signs have hung over the bustling streets of the city’s oldest Chinatown for more than 50 years. They are the product of a program from the 1960s aimed at making navigating the neighborhood easier for those Chinese New Yorkers who might not read English.

    These signs represented a formal recognition of the growing influence of a neighborhood that for more than a century had largely been relegated to the margins of the city’s attention. But as the prominence of Manhattan’s Chinatown as the singular Chinese cultural center of the city has waned in the 21st century, this unique piece of infrastructure has begun to slowly disappear.

    https://www.nytimes.com/interactive/2022/03/11/nyregion/nyc-chinatown-signs.html

    #toponymie #bilinguisme #Manhattan #Chinatown #USA #Etats-Unis #New_York #chinois #dialectes #panneau #cartographie #cartographie_narrative #NYC #visualisation #cartographie #langue #anglais

    via @fil

    • ‘Free Ukraine Street’ : Russian Embassies Get Pointed New Addresses

      Officials in many European cities are giving streets, squares and intersections in front of Russian missions names with pro-Ukraine themes.

      The unassuming intersection in front of the Russian Embassy in central Oslo didn’t really have a name until Tuesday, when its local council bestowed on it a particularly pointed one: “Ukrainas Plass,” or Ukraine’s Square.

      “We wanted to make a statement that we find Russia’s actions totally unacceptable,” said Tore Walaker, a councilor for Frogner, the neighborhood where the embassy is, which has been the scene of spirited protests since the Russian invasion.

      Russian embassy staff will soon have to pass a sign identifying the area as Ukraine’s Square on their way to work, said Jens Jorgen Lie, the chairman of the Frogner borough council.

      “It’s not helping to stop the war,” he said. “But we do the little we can and must.”

      As Russian embassies have become a focus for protests in Europe and around the world against President Vladimir V. Putin, officials in some European cities are expressing their outrage at the invasion of Ukraine by trying to change street names.

      In the Lithuanian capital, Vilnius, an unnamed street leading to the Russian Embassy was officially named “Ukrainian Heroes Street” on Wednesday, according to the city’s mayor, Remigijus Simasius, who added that mail might not be delivered to the embassy if it did not use the new address. “Everyone who writes a letter to the embassy will have to think about the victims of Russian aggression and the heroes of Ukraine,” he said in a post on Facebook.

      Tirana, the Albanian capital, said it would name a street segment that is home to the Russian Embassy “Free Ukraine.” In Latvia, the Russian Embassy in Riga will now lie on “Ukraine Independence Street,” according to a local deputy mayor. And in Copenhagen, city officials will next week discuss changing the name of the street on which the Russian Embassy sits from “Kristianiagade” to “Ukrainegade.”

      In England, lawmakers have lobbied for the street address of the Russian Embassy in London to be switched to “Zelensky Avenue,” after the Ukrainian president, Volodymyr Zelensky, who vowed in an address to Britain’s House of Commons this week that he would never surrender to Russian forces. “Britain must shame Putin at every possible opportunity,” said Layla Moran, a spokeswoman on foreign affairs for the Liberal Democrats.

      The borough of Kensington and Chelsea, an affluent area that contains the Russian, Ukrainian and other embassies, said it supported the Ukrainian community, but had not yet received any official applications to change the name of the street.

      “We share the world’s anger at Putin’s assault on Ukraine and are horrified at the plight of the men, women and children caught up in the conflict,” the borough said in a statement, but added: “It is actions rather than symbolism that they desperately need now.”

      The proposals for name changes have been met with largely positive reactions from supporters of Ukraine, though some question the effectiveness of such symbolic moves. Others have said the renaming of streets should be even more extensive.

      In Oslo, Eugenia Khoroltseva, an activist with family in Ukraine and Russia who has demonstrated near what is now Ukraine’s Square since the invasion began, said of the renaming: “I fully support it on behalf of the pro-democratic Russian community living in Norway.”

      In a statement on Wednesday, the Russian Embassy in Oslo said the move would be “regarded as an anti-Russian action, whether by the government or the district authorities. Norwegians should consider this.”

      In Copenhagen, the Russian Embassy noted that its street — Kristianiagade — carried the former name of Norway’s capital, a symbol of “historical bonds and good relationships between Denmark and Norway.”

      “I think the Norwegians will understand,” said Jakob Ellemann-Jensen, a Danish lawmaker who is leading the proposal for renaming the street Ukrainegade. “I think there are many things we should do to help the Ukrainians. There is no action that is too small.”

      The inspiration, he added, came from the naming of a plaza in front the Russian Embassy in Washington after Boris Nemtsov, the Russian opposition leader and outspoken critic of Mr. Putin who was assassinated in 2015. A similar proposal to rename a square outside a Russian consulate was made by a politician last year in the town of Kirkenes, close to the Norwegian-Russian border, but was met with resistance.
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      “This is a war we will never forget and a war that the Russians should never forget,” Mr. Ellemann-Jensen said.

      https://www.nytimes.com/2022/03/10/world/europe/ukraine-russia-war-embassies-street-names.html

    • Guerre en Ukraine : à #Dnipro, des russophones font tout pour ne plus parler russe

      Dans une partie de l’Ukraine, la langue la plus couramment parlée est le russe. Mais pour de nombreux habitants, la guerre ravive un élan patriotique qui passe aussi par une réappropriation de la langue ukrainienne. Illustration à Dnipro, en plein cœur du pays.

      (...)

      Et dans cette guerre linguistique, la ville de Dnipro prend aussi sa part. "Nous avons changé les dénominations d’une trentaine de rues, confirme Mirailo Lysenko, maire adjoint en charge de l’aménagement.

      "La plupart [des rues] ont pris le nom de nos #villes_martyres et d’autres ont pris le nom d’importantes personnalités ukrainiennes, conclut Mirailo Lysenko. Les nouvelles plaques sont en train d’être fabriquées. Dans quelques semaines, le passage Moscovite va ainsi devenir #passage_Azovstal, du nom de cette usine métallurgique symbole de la résistance de #Marioupol.

      https://www.francetvinfo.fr/monde/europe/manifestations-en-ukraine/reportage-guerre-en-ukraine-a-dnipro-des-habitants-font-tout-pour-ne-pl

    • Russia not waging campaign against Ukraine’s culture, says diplomat

      “Russia have not launched a campaign to demolish monuments to prominent Ukrainians or rename streets, bearing their names, and have never done so,” Maria Zakharova stressed

      Russia has never sought to harm Ukraine’s #culture in any way, Russian Foreign Ministry Spokeswoman Maria Zakharova told a news briefing on Friday.

      “Who has ever tried to intentionally damage Ukraine’s cultural heritage, when and in what way?” Zakharova said. “Unlike our neighbors, we have never been prone to such behavior. We have not launched a campaign to demolish monuments to prominent Ukrainians or rename streets, bearing their names, and have never done so.”

      The EU’s accusations against Russia of damaging Ukraine’s cultural heritage cause confusion, Zakharova said. “What are you talking about? Do the people, who level such claims, know anything about our common history, about present-day reality?”

      The EU’s weapons supplies to Ukraine are in conflict with the objective to protect and restore Ukraine’s cultural heritage the bloc has been declaring, the diplomat said.

      “That’s another example of Brussels’ destructive logic: it is prepared to sacrifice basic principles of international humanitarian cooperation and politicize culture, sports, science and youth policy, while pursuing its aims or the aims imposed on it,” Zakharova said.

      https://tass.com/politics/1460203

      #monuments

    • Ανταπόκριση από τη σημερινή δράση για την έμφυλη βία

      Σήμερα το πρωί πραγματοποιήθηκε συμβολική αλλαγή ονομάτων στις πινακίδες κεντρικών οδών της πόλης, από πρωτοβουλία γυναικών.
      Αναπαράγουμε αυτούσιο το κείμενο που μοιράστηκε κατά τη διάρκεια της δράσης.


      θυμόμαστε, εν όψει της 8ης Μαρτίου, ημέρας μνήμης και αγώνα, τις γυναίκες στα υφαντουργεία και τα ραφτάδικα της Νέας Υόρκης, των οποίων οι διεκδικήσεις δέχθηκαν άγρια καταστολή το 1857.

      αλλάζουμε συμβολικά τα ονόματα στις πινακίδες των οδών, σε μια προσπάθεια να τις οικειοποιηθούμε και να καταδείξουμε την καταπίεση που βιώνεται από την κοινωνική εμπειρία του να είσαι γυναίκα ή άτομο που υφίστασαι διακρίσεις λόγω του φύλου ή της σεξουαλικότητάς σου.

      εκτρέπουμε τη ρότα σε μια χώρα γεμάτη δρόμους…

      αφιερωμένους σε -καθιερωμένους στην κοινή συνείδηση ως- “ισχυρούς άνδρες”. Θυμόμαστε γυναίκες που δολοφονήθηκαν λόγω του φύλου τους και άλλες που αντιστάθηκαν στην έμφυλη βία που τους ασκήθηκε. Θυμόμαστε ακόμα, πρόσωπα που θάφτηκαν μέσα στην ιστορία ή δεν μνημονευτήκαν επαρκώς.

      Σε μια κοινωνία που συντηρεί συστηματικά τις έμφυλες διακρίσεις

      ΓΥΝΑΙΚΕΣ ΚΑΚΟΠΟΙΟΥΝΤΑΙ ΚΑΙ ΔΟΛΟΦΟΝΟΥΝΤΑΙ

      από άνδρες συντρόφους, συζύγους, πατεράδες και αφεντικά.

      Μετρώντας τουλάχιστον 17 γυναικοκτονίες μόνο μέσα στο 2021, καθίσταται επίκαιρο και επιτακτικό να μετασχηματίσουμε τις κοινωνικές μας σχέσεις και να εξαλείψουμε κάθε μορφής έμφυλη βία.

      Δεν σιωπούμε μπροστά στις παρενοχλήσεις που βιώνουν οι μανάδες, οι φίλες, οι συναδέλφισσες, οι γειτόνισσες, ΕΜΕΙΣ.
      Σταματάμε να αναπαράγουμε τους έμφυλους ρόλους που καθημερινά μας καταπιέζουν, μας εμποδίζουν να βρούμε τα μεταξύ μας κοινά και διαλύουν τις ζωές μας.

      Με τη δράση αυτή, επιδιώκουμε συμβολικά να καταδείξουμε την καταπίεση που βιώνεται από την κοινωνική εμπειρία του να είσαι γυναίκα ή άτομο που υφίστασαι διακρίσεις λόγω του φύλου ή της σεξουαλικότητάς σου. Ειδικά, όταν η κοινωνική αυτή εμπειρία συνυπάρχει με την υποτίμηση βάσει τάξης, ηλικίας, φυλής ή αναπηρίας οποιασδήποτε μορφής.

      Ο ι δ ρ ό μ ο ι φ τ ι ά χ τ η κ α ν π ρ ο χ ω ρ ώ ν τ α ς

      Είναι διαφορετικοί για εμάς.

      Μάθαμε και τους περπατάμε αλλιώς,

      ξέρουμε τις σκιές τους και τα μάτια μας κοιτάνε πάντα σε αυτές

      και τα κεφάλια μας γυρίζουν πάντα πίσω.

      Τα βήματά μας δεν έχουν την ίδια σιγουριά.

      Τους αλλάζουμε τα ονόματα για να τους οικειοποιηθούμε,

      για να βρούμε και εμάς μέσα σε αυτούς.

      Γ ι α τ ί ο ι δ ρ ό μ ο ι φ τ ι ά χ τ η κ α ν α λ λ ά ζ ο ν τ α ς

      Ο Δ Ο Σ

      ΑΓΝΩΣΤΩΝ ΓΥΝΑΙΚΩΝ
      ΣΟΥΖΑΝ ΙΤΟΝ, ΣΤΟ ΜΑΛΕΜΕ ΧΑΝΙΩΝ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      ΕΠΙΖΗΣΑΣΩΝ ΕΜΦΥΛΗΣ ΒΙΑΣ
      ΓΑΡΥΦΑΛΛΙΑΣ, ΣΤΗ ΦΟΛΕΓΑΝΔΡΟ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      ΕΛΕΝΗΣ ΠΑΠΑΓΙΑΝΝΑΚΗ – « ΗΛΕΚΤΡΑΣ », 17ΧΡΟΝΗ ΧΑΝΙΩΤΙΣΣΑ ΜΑΧΗΤΡΙΑ
      ΣΤΑΥΡΟΥΛΑΣ, ΣΤΟ ΠΑΝΟΡΜΟ ΡΕΘΥΜΝΟΥ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      ΕΙΡΗΝΗΣ ΓΚΙΝΗ ή ΜΙΡΚΑΣ ΓΚΙΝΟΒΑ. ΣΛΑΒΟΜΑΚΕΔΟΝΙΣΣΑ ΔΑΣΚΑΛΑ & ΑΝΤΑΡΤΙΣΣΑ. ΕΚΤΕΛΕΣΤΗΚΕ ΤΟ 1949.
      ΕΛΕΝΗΣ ΤΟΠΑΛΟΥΔΗ, ΣΤΗ ΡΟΔΟ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      ΔΗΜΗΤΡΑΣ ΤΗΣ ΛΕΣΒΟΥ, ΤΡΑΝΣ ΑΤΟΜΟ. ΕΓΚΑΤΑΛΕΙΦΘΗΚΕ ΣΕ ΤΡΟΧΑΙΟ
      ΚΛΕΙΟΥΣ. ΑΤΟΜΟ ΜΕ ΑΝΑΠΗΡΙΑ. ΣΤΟ ΜΑΣΤΑΜΠΑ ΗΡΑΚΛΕΙΟΥ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      ΑΡΓΥΡΩΣ ΠΟΛΥΧΡΟΝΑΚΗ, ΧΑΝΙΩΤΙΣΣΑ ΑΝΤΑΡΤΙΣΣΑ
      ΜΕΤΑΝΑΣΤΡΙΩΝ ΕΡΓΑΤΡΙΩΝ ΓΥΝΑΙΚΩΝ
      ΒΑΣΙΛΙΚΗΣ, ΣΤΑ ΜΕΣΚΛΑ ΧΑΝΙΩΝ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      ΝΕΚΤΑΡΙΑΣ, ΣΤΗΝ ΙΕΡΑΠΕΤΡΑ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      Π.Α 22ΧΡΟΝΗ, ΣΤΗΝ ΚΟΡΙΝΘΟ. Καταδικάστηκε, ενώ βρισκόταν σε αυτοάμυνα απέναντι σε σεξουαλική επίθεση
      ΑΔΑΜΑΝΤΙΑΣ, ΣΤΗ ΝΕΑ ΑΛΙΚΑΡΝΑΣΣΟ ΗΡΑΚΛΕΙΟΥ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      ΚΑΤΕΡΙΝΑΣ, ΣΤΗ ΣΗΤΕΙΑ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      ΑΦΓΑΝΗΣ ΕΓΚΥΟΥ ΠΡΟΣΦΥΓΙΣΣΑΣ, ΣΤΟ ΚΑΡΑ ΤΕΠΕ. Αυτοπυρπολήθηκε διαμαρτυρόμενη για τις συνθήκες κράτησής της.
      ΖΑΚ ΚΩΣΤΟΠΟΥΛΟΥ/ΖΑCKIE ΟΗ. ΑΚΤΙΒΙΣΤΗΣ. ΗΤΑΝ ΔΟΛΟΦΟΝΙΑ
      ΚΑΡΟΛΑΪΝ, ΣΤΑ ΓΛΥΚΑ ΝΕΡΑ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      8ης ΜΑΡΤΙΟΥ 1857, ΑΓΩΝΑΣ ΓΥΝΑΙΚΩΝ ΕΡΓΑΤΡΙΩΝ ΚΛΩΣΤΟΫΦΑΝΤΟΥΡΓΙΑΣ, ΝΕΑ ΥΟΡΚΗ

      Le flyer :

      https://solidaritywithrosanera.wordpress.com/2022/03/05/%ce%b1%ce%bd%cf%84%ce%b1%cf%80%cf%8c%ce%ba%cf%81%c

  • Toponymie, Genève :
    Volte-face au Grand Conseil

    Les parlementaires ont accepté vendredi une #pétition demandant de « cesser d’opposer les hommes et les femmes » pour le baptême des rues.

    (#paywall)

    https://lecourrier.ch/2022/02/27/volte-face-au-grand-conseil
    #toponymie_politique #noms_de_rue #toponymie #toponymie_féministe #féminisme #re-nomination #repabtisation #Suisse #Genève

    –-

    ajouté à ce fil de discussion :
    Les rues genevoises en voie de #féminisation
    https://seenthis.net/messages/787572

  • Nach über 100 Jahren noch im Stadtplan erkennbar: Der Schwarze Graben - Charlottenburg-Wilmersdorf
    https://www.berliner-woche.de/charlottenburg-wilmersdorf/c-umwelt/der-schwarze-graben_a337001

    20.1.2022 von Michael Roeder - Den Schwarzen oder Haupt-Graben in Wilmersdorf, Schöneberg und Charlottenburg gibt es zwar seit Ende des 19. Jahrhunderts nicht mehr, aber er hatte Einfluß auf die Stadtplanung und ist noch heute deutlich erkennbar am Verlauf verschiedener Grünanlagen und Straßenzüge. Er diente sowohl der Entwässerung der sumpfigen Landstriche östlich und nördlich von Wilmersdorf und des Lietzensees als auch dem Abtransport von Fäkalien.

    1862

    Entstehung und Verlauf

    Um 1680 Ausgangspunkt ist eine Karte von 1680 [Karte 1]. Sie zeigt den ursprünglichen Bach „Schwarzer Graben“ von seinem Ausgangspunkt nordwestlich des Botanischen Gartens (heute: Kleistpark) bis zur Einmündung in die Spree kurz oberhalb der Schloßbrücke, wobei er auf dem Weg dorthin das sumpfige Hopfenbruch (das Gebiet zwischen Kurfürstendamm und Berliner Straße) durchfloß, den Kurfürstendamm am Priesterweg (Leibnizstraße) unterquerte und schließlich noch den Abfluß des Lietzensees aufnahm.

    Um 1800 Im 18. Jahrhundert wurde der Bach zu einem Abflußgraben ausgebaut und wesentlich verlängert. Auf einem Plan von 1800 [Karte 2] sieht man diesen neugeschaffenen südlichen Grabenteil, der die Verbindung zwischen dem Wilmersdorfer See und dem einstigen Bach am Botanischen Garten herstellte. Hier ist diese Verlängerung noch namenlos; auf späteren Karten wird sie „Großes Fenn“ genannt. Mit diesem Vorflutgraben wurde das sumpfige Fenn zwischen Wilmersdorf und Schöneberg (heute: Volkspark) entwässert und Regenwasser abgeführt. Der Graben lief, parallel zur Hauptstraße, unmittelbar am Rand des Dorfes Schöneberg entlang und bog nach Unterquerung der Akazienstraße nach Norden ab, direkt auf den ausgebauten Bach zu, der auf dieser Karte mit „Haupt-Graben“ bezeichnet wird. Gleichzeitig hatte man diesen ein Stück nach Osten verlängert.

    1862/Schöneberg Im Schöneberger Teil des Hobrechtplans von 1862 [Karte 3] ist zu erkennen, wie der Graben – nachdem er nach Norden abgeknickt ist – als nächstes die Straße 13 (Grunewaldstaße) unterquert. Fast auf der gesamten Länge dieses nordwärts führenden Abschnitts wurde später die Gleditschstraße angelegt. Am nördlichen Ende des späteren Winterfeldtplatzes (auf der Karte Straßen 14 und 12) mündete das „Große Fenn“ schließlich in den nach Westen fließenden „Haupt-Graben“. An dieser Stelle ist im Hobrecht-Plan die Straße 19 eingetragen; dies ist die spätere Winterfeldtstraße. Der Graben führte nun schnurstacks – über Viktoria-Luise-Platz, Regensburger Straße und Pariser Straße – bis zum Olivaer Platz. Dabei durchquerte er, wie bereits erwähnt, das Hopfenbruch am Nordrand von Wilmersdorf.

    1862/Charlottenburg Im Charlottenburger Teil des Hobrechtplan (hier mit Überlagerung der Stadtbahn ab 1882) [Karte 4] läßt sich anhand des Straßennetzes der Verlauf des Schwarzen Grabens gut nachvollziehen. Noch ist die Giesebrechtstraße, die nach 1893 anstelle des Grabens angelegt wurde (siehe unteren Pfeil), noch nicht einmal geplant. Der obere Pfeil weist auf den abschließenden Grabenverlauf, nachdem er den Stuttgarter Platz passiert hatte. Heute verläuft hier anstelle des Grabens, bis kurz vor seiner Mündung in die Spree, die Kaiser-Friedrich-Straße.

    Sein Ende

    1880 wurde der gesamte Schwarze Graben auf Schöneberger Gebiet zwischen Dominicustraße und Bundesallee unterirdisch verlegt. Es handelte sich um eine Tonrohrleitung von 50-60 cm Ø, die den zum Abwasser- und Fäkalienkanal mutierten Graben aufnahm. „In Charlottenburg ergaben sich völlig unhaltbare Zustände, denn hier ging der Schwarze Graben noch offen durch das Gelände.“ Erst durch einen Vertrag von Wilmersdorf, Friedenau und Schöneberg mit Charlottenburg aus dem Jahr 1888 über den Bau einer Kanalisation, in die die Abwässer eingeleitet werden sollten, „erhielt Charlottenburg die Berechtigung, den Schwarzen Graben zu beseitigen“. So war schließlich vom Wilmersdorfer See bis zur Einmündung des Lietzenseeabflusses an der Schustehrusstraße der Graben zugeschüttet. Das letzte offene Stück von dort bis zur Spree bestand noch in den 1890er Jahren. Erst nachdem in den ersten Jahren des 20. Jahrhundert auch der Abfluß des Lietzensees zur Spree verrohrt worden und an seiner Stelle Hebbelstraße und Lohmeyerstraße entstanden waren, war der Schwarze Graben auf seiner ganzen Länge verschwunden.

    Seine Spuren im heutigen Stadtbild
    In folgenden Grünanlagen und Straßen läßt sich also der Schwarze Graben noch heutzutage wiederfinden:
    in Wilmersdorf im Volkspark Wilmersdorf
    in Schöneberg: Rudolph-Wilde-Park – Heinrich-Lassen-Park – Gleditschstraße – Winterfeldtstraße – Viktoria-Luise-Platz – östlicher Abschnitt der Regensburger Straße
    nochmals in Wilmersdorf im westlichen Abschnitt der Regensburger Straße und in der Pariser Straße
    schließlich in Charlottenburg: Giesebrechtstraße – Ostende des Stuttgarter Platzes – Kaiser-Friedrich-Straße – Lohmeyerstraße.
    Und noch bis in die heutige Zeit wirkt der Schwarze Graben auch ganz unmittelbar nach, wie gelegentliche Schäden an Häusern zeigen, die auf dem sumpfigen Untergrund gebaut wurden, z.B. am Heinrich-Lassen-Park in der Belziger Straße 53c, auch bekannt als „das schiefe Haus von Schöneberg“.

    Fred Niedobitek, Die Entwicklung der Stadthygiene und Gesundheitspflege in Schöneberg im späten 19. und frühen 20. Jahrhundert. Zeittafel zum Bau der Kanalisation in Schöneberg, S. 1 und Helmut Winz, Es war in Schöneberg. Aus 700 Jahren Schöneberger Geschichte, S. 120.

    Quelle: http://blog.klausenerplatz-kiez.de/archive/2015/01/11/strassen_und_platze_der_schwar

    1800

    1860

    1862

    #Berlin #Chalrlottenburg #Schöneberg #Wilmersdorf #Geschichte #Topographie #Entwässserung #Kanalisation #Wasser #Stadtentwicklung

  • Grothendieck : la moisson | Radio France
    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/la-methode-scientifique/grothendieck-la-moisson-5643669

    Le grand chef d’œuvre d’Alexandre Grothendieck, « Récoltes et Semailles », rédigé entre 1985 et les années 2000, a enfin été publié. Comment appréhender cet opus énorme et complexe, mêlant mathématiques, physique, autobiographie, réflexions politiques, philosophiques, poétiques et spirituelles ?

    #Grothendieck #récoltes_et_semailles #topos #mathématique

  • The slave trader’s statue that divided a city

    Following the murder of George Floyd in 2020, protestors in #Bristol tore down the statue of 17th Century slave trader #Edward_Colston. While some residents of Bristol supported the change, others felt a sentimental attachment to the statue, as Colston’s surname was ’stitched into the city’.

    Statue Wars explores the aftermath of the statue’s removal and how the action thrust the city of Bristol onto the global stage.

    https://www.bbc.com/reel/video/p0bm2slm/the-slave-trader-s-statue-that-divided-a-city

    #statue #esclavage #mémoire #espace_public #décolonial #Colston #toponymie #toponymie_politique

    ping @cede
    via @reka

  • Straßennamen in Wien

    Wiens Straßennamen erinnern an bedeutende Personen sowie prägende Ereignisse und erzählen Geschichten über die Stadt beziehungsweise ihre Entwicklung. Frauen und Männer sind im Stadtraum jedoch nicht gleich repräsentiert: bei 4269 nach Personen benannten Straßen waren für lediglich 356 Straßen Frauen namensgebend. Im Sinne einer gendergerechten Stadtplanung wird diesem Ungleichgewicht mittels der Benennung von Straßen nach Pionierinnen in neuen Stadtvierteln wie z.B. in der Seestadt Aspern entgegengewirkt.

    https://genderatlas.at/articles/strassennamen.html

    #cartographie #visualisation #toponymie #toponymie_féministe #Vienne #Autriche #inégalités #discriminations #patriarcat

    via @nepthys
    cc @cede

  • Une citation autour de la toponymie tirée du livre Racée de Rachel Khan :


    « Prenons, par exemple, l’inauguration de la station Rosa-Parks située sur la ligne du RER E, en région Ile-de-France. Pour le choix de ce nom, il y a eu un vote quelque part au sein d’une assemblée. Puis, la préparation d’un discours en hommage à cette figure majeure de la lutte contre la ségrégation raciale aux Etats-Unis. Tout se passe comme si nous n’avions pas de personnalité de ce type dans notre histoire de France. Nous célébrons une femme qui s’est battue pour ne pas être à l’arrière du bus en baptisant de son nom une station où personne n’a envie de descendre. Où est le symbole de la lutte contre la ségrégation si Rosa Parks n’est pas au coeur de Paris ?

    ’C’est une avancée’, m’ont dit les élus. Mais une avancée vers quoi ? Vers qui ?

    Si ce n’est de conforter les haineux victimaires assoiffés d’Amérique »
    (p.76)

    https://www.editions-observatoire.com/content/Rac%C3%A9e

    #toponymie #toponymie_politique #Rosa_Parks #Paris

    ping @cede

  • 27.11.2018
    Migrant drowns in Reka river

    Koper, 27 November - The #Ilirska_Bistrica police have apprehended a group of six illegal migrants on Tuesday morning, presumably coming from Algeria. One migrant reportedly drowned while crossing the Reka river (SW).

    https://english.sta.si/2579139/migrant-drowns-in-reka-river

    #Croatie #Slovénie #asile #migrations #réfugiés #frontière_sud-alpine #Alpes #montagne #décès #mort #Reka_river

    –—

    Ajouté à cette métaliste des morts à la frontière Slovénie-Croatie :
    https://seenthis.net/messages/811660

    Elle-même ajouté à la métaliste des morts dans les Alpes :
    https://seenthis.net/messages/758646

    • Beyond the Mediterranean, the MMP team recorded several deaths on land routes in Europe. On 27 November, the remains of four men were found on train tracks near the town of Fylakas, in north-eastern Greece. Local authorities reported that a night train ran over the group of migrants, who may have been sleeping on the lines. On the same day, a young Algerian man reportedly drowned in the Reka river, in Ilirska Bistrica, Slovenia. He was travelling with a group of six migrants, who were apprehended by authorities on 27 November.

      https://www.iom.int/news/mediterranean-migrant-arrivals-reach-107216-2018-deaths-reach-2123

    • V reki Reki se je utopil prebežnik

      Potapljači so ob 12.30 v reki Reki našli moško truplo, so sporočili s Policijske uprave Koper. Zdravnica ni ugotovila znakov nasilja, razlog za smrt je bila utopitev.

      Ilirskobistriški policisti so zjutraj pri Topolcu prijeli šest nezakonitih prebežnikov, sporočajo s PU-ja Koper. Po prvih podatkih gre za Alžirce, ki so policistom povedali, da sta dva iz skupine prečkala reko Reko, a eden izmed njiju ni prišel na drugi breg oziroma je ob prečkanju izginil pod površje.

      Nemudoma je stekla reševalna akcija, v kateri se je 15 policistom priključilo še šest gasilcev iz Ilirske Bistrice in pripadnika tamkajšnje civilne zaščite ter rafting kluba Mrzla voda. Pregledovali so breg reke, zatem pa še reko s čolnom. Takoj so aktivirali tudi potapljače.

      Ob 12.30 so potapljači v reki dejansko našli moško truplo. Zdravnica ni ugotovila znakov nasilja, razlog za smrt je bila utopitev.

      Policisti bodo v nadaljevanju ugotavljali okoliščine, opravili razgovore in identificirali utopljenega. Na policiji so izrekli pohvalo tako policistom kot tudi prostovoljcem, ki so se trudili rešiti moškega.
      Na temo migracij je sicer potekal posvet, poimenovan Stičišče znanja, ki ga je organizirala SID banka v sodelovanju z Akademijo Finance.
      Šefic : Potreben je družbeni dogovor
      Na posvetu je nekdanji državni sekretar na ministrstvu za notranje zadeve Boštjan Šefic dejal naslednje : « Migracije bodo tudi v prihodnje del našega življenja, zato bo pri soočanju z njimi potreben družbeni dogovor, sicer bomo ta problem še naprej reševali tako kot danes, ko povzročajo samo trenja. »

      Migracije Slovenije ne bodo zaobšle, aktualne bodo tudi v prihodnje, zato je po njegovem prepričanju izjemnega pomena, da se tako v Sloveniji kot EU-ju poglobimo v izzive, ki jih prinašajo. Predvsem pa bo potrebna strpna, argumentirana in na realnih podatkih temelječa razprava, je prepričan nekdanji državni sekretar, pristojen za migracije na vrhuncu migrantske krize leta 2015.

      Osnovna težava EU-ju pri spoprijemanju z migracijami je, da države ne izvajajo tega, kar so se dogovorile. Kot opozarja Šefic, bo treba vzpostaviti programe v izvornih državah migracij, pomagati državam tranzita in se zavedati, da nezakonite migracije niso rešitev za popolnjevanje vrzeli na področju trga delovne sile.

      Pri dolgoročnem naslavljanju tega vprašanja pa se bo treba lotiti odpravljanja vzrokov za migracije, je dejal na letnem posvetu Stičišče znanja.

      Slovenija ima dokumente in strategije, s katerimi se s fenomenom migracij lahko učinkovito spoprijema. Vendar pa težava nastane zaradi različnih razlag teh rešitev in pri tem se pojavljajo konflikti, je dejal in pozdravil odločitev vlade, da pripravi novo strategijo.

      Slovenija še vedno ni ciljna država prebežnikov, za mednarodno zaščito pa zaprosi minimalno število tistih, ki pridejo v državo, je poudaril Šefic. Glede vprašanja, ali je v kratkem računati na večji migrantski val, pa odgovarja, da se ta trenutek države zavedajo izzivov, ki jih prinašajo neregulirane migracije, kar je lahko zagotovilo, da podobnega eksodusa, kot smo mu bili priča leta 2015, ne bo. Pri tem pa je pomemben zlasti odnos med EU-jem in Turčijo, je opozoril.

      https://www.rtvslo.si/crna-kronika/v-reki-reki-se-je-utopil-prebeznik/473076
      #Topolc

    • Texte publié sur la page FB de No name kitchen : le nom de #Nasim apparaît sur ce post :

      There are three ways of reaching Europe without a visa, and for those people who are fleeing difficult situations in their countries of origin, the Balkan route is the least dangerous. That’s why many people from Morocco and Argelia are here. They decided to take this overland route instead of falling into the trap of dying at sea. They also have the option of flying safely to Turkey. However, this route is long and winding. It can last for more than one year.
      On its part, Europe has incorporated a stumbling block on the route: Slovenian and Croatian police, who undertake illegal deportations of any undocumented person found in their country. Some days ago, Nasim, who had chosen this route, found his death in a river, located only a few kilometres from the border with Italy. Yesterday we talked to his friends. As they were crossing one of the rivers on the route, they saw the police and decided to cross faster to escape. Nasim couldn’t swim and he drowned. His friends tried to save him without success. Ignoring this situation, authorities decided to deport illegally the rest of the group and take these young people to the Croatian police. His friends weren’t allowed to see Nasim’s body in the morgue. Moreover, it seems that Croatian police considered that the situation wasn’t traumatic enough and, when they took the migrants to the border with Bosnia, at night, they made these young people leave the car one by one, beating each of them. The boy bearing the brunt of this extreme situation was the one who hours before had been taken to hospital after collapsing due to the death of Nasim. One of the policemen, wearing – as all of them do - a ski-mask, took the boy’s head using both hands and hit his face with his knee.
      We normally avoid giving names on our posts, in respect of the privacy of the people we know thanks to our work. However, we think that Nasim - that boy always standing at the front of the queue for the shower- deserves to be remembered. He died at the early age of 25, as a direct result of the ridiculous European border policies, when he was pursuing his dream.

      https://www.facebook.com/NoNameKitchenBelgrade/posts/631323180599303

  • #Cancel_Culture : « ce n’est pas faire table rase du passé, c’est précisément l’inverse ! »

    Pourquoi déboulonner les statues dans l’espace public ? #Laure_Murat, professeure au département d’études françaises de l’Université de Californie nous explique les enjeux de la "Cancel culture".

    Il est beaucoup question de « Cancel culture » dans les débats contemporains. Edward Colston, marchand d’esclavage, décollé de son piédestal et jeté à l’eau à Bristol ; ou Leopold II, exploiteur du Congo, enlevé par une grue à Anvers. Les exemples sont nombreux, un peu partout dans le monde. Laure Murat, professeure au département de langues européennes et études transculturelles, vient de publier au Seuil le texte d’une conférence qui s’intitule « Qui annule quoi ? ». Que l’on soutienne ou que l’on dénonce les actions de la « Cancel culture » , celle-ci remobilise les citoyens sur des débats importants.

    La statuaire publique visée ?

    « Cancel culture » signifie culture de l’annulation, mais selon Laure Murat, cela ne veut pas dire grand-chose. On range sous ce vocable cyberharcèlement, déboulonnages de statues ou encore déchéance de cinéastes ; Laure Murat parle de « mot écran ».

    « Ce que j’ai voulu comprendre ce sont les raisons pour lesquelles un certain nombre de militants protestent sur des faits historique en déboulonnant des statues, supposément de grands hommes. Contrairement à ce que l’on entend beaucoup, à savoir que la « Cancel culture » serait une éradication de l’histoire, elle est un rappel de faits importants dans l’histoire qui résonnent dans notre culture aujourd’hui. »

    Selon Laure Murat, les déboulonnements de statues ont pris une ampleur mondiale considérable après la mort de Georges Floyd, afro-américain, mort sous le genou d’un policier blanc. Cet événement contemporain est un fait divers tragique qui a occasionné une vague de protestations très spécifiques pour rappeler qu’au cours de l’histoire il y a eu l’esclavage, la colonisation et la ségrégation aux Etats-Unis ; et qu’il existe un lien entre le passé et le présent. On peut donc se demander, d’après Laure Murat, si le racisme auquel on assiste aujourd’hui est une conséquence directe de l’esclavage et de la ségrégation.

    « Les militants disent, à juste titre, qu’on ne peut célébrer dans l’espace public une politique liée à un crime contre l’humanité alors qu’il y a toujours des crimes contre l’humanité quand il y a crime raciste. »

    Faut-il garder dans l’espace public des statues de personnalités ayant contribué à des crimes contre l’humanité ?

    L’histoire se fait autant en érigeant qu’en déboulonnant des statues. Laure Murat distingue l’histoire et les statues. Eriger une statue en hommage à une personnalité ou mettre une figure historique au Panthéon, ce n’est pas faire l’histoire, c’est une affaire de mémoire ; ce qui est d’ailleurs presque le contraire souligne Laure Murat. Célébrer par des statues, dans l’espace public, certaines personnalités qui ont contribué à un programme idéologique criminel, c’est laisser ces symboles dans l’espace public comme s’ils étaient ininterrogés .

    Les militants interrogent la nécessité de garder dans l’espace public des personnalités qui ont contribué à des crimes contre l’humanité.

    « Cela n’enlève rien à l’histoire. L’histoire se fait dans les manuels, dans les musées et on ne va pas effacer l’histoire de la colonisation, ce qui serait d’ailleurs une grossière erreur puisque cela enlèverait aux opprimés l’histoire de l’oppression. Il ne s’agit donc pas de faire table rase du passé. C’est précisément l’inverse. Il s’agit de dire que l’histoire est toujours présente et de se demander si on veut vraiment cautionner cette idéologie. »

    Peut-on concilier monumentalité et éphémère ?

    Dans son ouvrage « Qui annule quoi ? » Laure Murat se demande quelles seraient les solutions pour les statues qu’on érige aujourd’hui. Et comment faire pour qu’elles ne soient pas elles-mêmes mises à terre plus tard ? Elle évoque le fait de mettre en exergue l’éphémère plutôt que le pérenne.

    « On peut faire un parallèle avec la Révolution française. La Révolution française a supprimé tous les symboles de la tyrannie : les statues des rois, les symboles monarchiques. Mais les révolutionnaires se sont rendus compte qu’il y avait un effondrement du patrimoine qu’il fallait sauver. Sous la Révolution, on a eu cette invention géniale du musée. Aujourd’hui, que faudrait-il faire de toutes ces statues ? La destruction voudrait dire censure et je crois qu’éradiquer, supprimer n’est jamais une bonne solution. Néanmoins, je pense que ce n’est pas une bonne idée non plus de maintenir ces statues sur leur socle dans l’espace public. »

    Beaucoup d’idées fleurissent autour de cette question et les artistes contemporains s’y intéressent en proposant des solutions éphémères.

    « Laura Nsengiyumva, artiste contemporaine, a proposé d’exposer une statue en glace de Léopold II, qui a fondu pendant toute une nuit et tout un jour. Cela a permis aux spectateurs de se demander pourquoi Léopold II fond sous leurs yeux. Cette œuvre est une réflexion sur l’histoire, sur la disparition et sur l’écoulement du temps. Je pense que c’est une réflexion intéressante sur la monumentalité. Peut-on concilier monumentalité et éphémère ? »

    https://www.franceculture.fr/emissions/affaire-en-cours/affaire-en-cours-du-mercredi-12-janvier-2022


    #histoire #mémoire #monuments #toponymie_politique #statue #déboulonnement #espace_public

    ping @cede @isskein

  • Al #Parco_Grandi inaugurata la stele in memoria di #Nicole_Lelli, vittima di femminicidio

    Alla giovane uccisa dal marito a soli 23 anni è stata intitolato un monumento. I famigliari lo dedicano anche a tutte le donne vittime del femminicidio
    Al parco Achille Grandi al Collatino è stata inaugurata una stele. E’ dedicata a Nicole Lelli ed a tutte le vittime del femminicidio. Alla vigilia della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il monumento acquisisce un significato particolare.

    Una battaglia culturale

    «Dopo che abbiamo elaborato il lutto – ha spiegato il papà di Nicole – ci siamo impegnati sul fronte culturale. Stiamo combattendo una battaglia per sensibilizzare i giovani sul rispetto di genere. E questo ’monumentino’ – per realizzare il quale è stato necessario ottenere molti permessi – si inserisce in questa battaglia» .
    L’omicidio di Nicole

    Nicole è stata uccisa a soli ventitre anni dall’uomo che aveva amato. Yoandris Medina Nunez, col quale si era sposata a Cuba, non aveva accettato la fine del loro rapporto. Per questo l’ha aspettata fuori un locale di Testaccio. L’ha invitata a salire sulla propria auto e poi le ha sparato. Per questo, tra le proteste ancora oggi reiterate dalla famiglia, non è stato condannato all’ergastolo, ma a vent’anni di reclusione.

    Una libertà pagata a caro prezzo

    «Siamo orgogliosi di aver donato a Roma questo monumento – ha dichiarato il papà di Nicole, durante l’inaugurazione, anche a nome del fratello della ragazza – e vorrei ricordare che le vittime dei femminicidi – per come sono state trattate – sono come le nuove streghe. Non vengono messe al rogo ma sono state assassinate perchè hanno rinvedicato la propria libertà di decidere se amare o meno un uomo. Per questo sono state uccise».

    La lettera della mamma

    Durante la cerimonia cui, insieme a tanti famigliari, hanno preso parte anche le istituzioni municipali, sono state lette le parole che la mamma ha dedicato a Nicole. Si è trattato di un momento particolarmente intenso. «Ti ho qui sempre e ovunque dove ci sia il colore del sole. Nei stessi sogni che facevamo insieme prima che diventassi mare, cielo e terra. Prima che diventassi oltre». Per questo «perchè nessuno dimentichi tutte le donne uccise» è stato realizzato questo monumento che «vivrà in eterno». Alla vigilia della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, dal Collatino arriva un messaggio chiaro. Grazie alle istituzioni ma soprattutto ai famigliari di una ragazza che, a soli 23 anni, ha smesso di vivere.

    https://www.romatoday.it/zone/pigneto/collatino/stele-nicole-lelli-parco-grandi-collatino-.html

    #Collatino #Rome #Italie
    #mémoire #monument #toponymie #toponymie_féministe #féminicide

  • Via cardinal Massaia, Rome

    «’Via cardinal Massaia, nel quartiere Littorio... quello che voi somali vi ostinate a chiamare Warta Nabbada.’
    Via cardinal Massaia... nessuno chiamava la loro via così. Tutti sapevano che lì era la via di Hagi Safar, degli indovini e dei cantastorie. Era lì che si cullavano le stelle e si intravedevano mondi nelle pupille dei neonati.
    Gli italiani gli avevano appiccicato il nomedi uno sconosciuto cardinale. Anche a Mogadiscio c’era una via cardinal Massaia, ad Hamarweyne, in pieno mercato per giunta. E anche a Mogadiscio quel nome era un sopruso.»

    in : #Igiaba_Scego, Adua, Giunti, 2015, p.70
    https://www.giunti.it/catalogo/adua-9788809792340

    Rue dédiée à #Guglielmo_Massaia

    Guglielmo Massaia, au siècle #Lorenzo_Antonio_Massaia (9 juin 1809 - 6 août 1889) est un missionnaire catholique et religieux capucin italien qui fut vicaire apostolique de Harar en Abyssinie, et créé cardinal par le pape Léon XIII. Il est reconnu vénérable par l’Église catholique qui a engagé la procédure pour sa béatification.

    https://fr.wikipedia.org/wiki/Guglielmo_Massaia
    #toponymie #toponymie_politique #Italie #colonialisme #Italie_coloniale #colonialisme_italien #Warta_Nabbada
    #livre #citation #Warta_Nabada
    #Mogadiscio #Somalie #Rome

  • Plaques du Patrimoine : Un outil de repérage de l’ensemble des voies et équipements publics français dotés de noms de femmes
    https://neotopo.hypotheses.org/3960

    L’outil PlaquesDuMatrimoine, développé par Philippe Gambette dans le cadre du projet Cité des Dames : créatrices dans la cité, financé par l’I-Site Future de l’université Gustave Eiffel, vise à repérer les voies et les...

    #Neotopo_vous_signale #ToponoGender

  • L’Internationale - Derribar las estatuas de Colón
    https://internationaleonline.org/opinions/1073_derribar_las_estatuas_de_colon

    Pour ceux qui lisent l’espagnol. L’article est illustré avec plein d’images et cartes qui valent la peine. https://www.internationaleonline.org/opinions/1073_derribar_las_estatuas_de_colon

    Deberíamos contagiarnos de la rabia de los movimientos anticoloniales y antirracistas y desmontar el tinglado simbólico que apuntala nuestra superioridad euroblanca.

    «Por cierto, señor, aunque a Colón se hiciera una estatua de oro no pensaran los
antiguos que le pagaban si en su tiempo fuera»
 Gonzalo Fernández de Oviedo, De la natural historia de las Indias, 
Toledo, 1526, fol. xx

    El furor de los últimos tiempos contra las estatuas y monumentos que perpetúan la memoria de la historia colonial puede parecer algo extemporáneo y fuera de lugar; impropio de “sociedades avanzadas”. Son reliquias del pasado, se nos dice, carentes de capacidad mnemónica o contenido ideológico, cuyo valor cultural y artístico ha de ser respetado y protegido como parte de nuestro patrimonio. Tal apariencia vulnerable e inocua es uno de los modos más efectivos de naturalización del status quo en nuestros regímenes modernos. Desde su pedestal, las viejas estatuas señalan de manera sutil y silenciosa a los depositarios legítimos de la memoria, aunque su contenido se haya olvidado, confirmando sin violencia aparente el orden de privilegios y exclusiones transmitido a lo largo del tiempo. Esta airada furia revisionista molesta e indigna porque transgrede los limex de ese ámbito sagrado, anacrónico y estético, en el que colocamos los mitos fundacionales de nuestro sistema de tal manera que permanezcan incuestionados y a resguardo. Por eso también ha causado perplejidad y enojo el modo en que la nueva derecha reactiva ostentosamente ritos “tribales” que se creían superados o se tenían pudorosamente alejados de la visión pública. Los periodos de intensa crisis como el que vivimos tienen la virtud de rasgar velos y disipar espejismos devolviendo a símbolos en apariencia dormidos todo su poder de atracción y repulsión, como cápsulas que condensan el sentido de procesos históricos tan virulentos en su naturaleza como profundos y duraderos en sus consecuencias.

    Réplica, Daniela Ortiz, 2014. Video courtesy of the artist.

    El caso de las estatuas de Cristóbal Colón, objeto predilecto de las celebraciones y de las protestas actuales en torno a los monumentos, ilustra ejemplarmente el modo en que operan estos hitos del espacio público. En apariencia indiferente, desde lo alto de una céntrica glorieta madrileña, Colón es testigo “por defecto” de las paradas militares que cada 12 de octubre marcan la Fiesta nacional, sin que los discursos institucionales hayan de hacer mención directa a su persona o su significado. La enorme bandera que desde hace unos años ondea cerca de la estatua, rivalizando con ella en altura, satura el sentido simbólico de la plaza, haciendo innecesaria cualquier referencia precisa. Más explícita ha sido la elección del lugar por los líderes de los partidos conservadores con el fin de escenificar su indisoluble unidad en defensa de la patria, así como por las cada vez más frecuentes manifestaciones ultras congregadas bajo el grito de “se rompe España”. Estos fenómenos, que responden a la tendencia neofascista de invocar fantasmáticamente momentos “gloriosos” del pasado, logran a pesar de su vacuidad e impostura hacer visibles las profundas razones históricas que vinculan el mundo colonial con el orden social y político del presente.
    Jesus Carrillo 2 Coco Fusco 10 Koda Color 002
    Two Undiscovered Amerindians Visit Madrid, Coco Fusco and Guillermo Gómez Peña, 1992. Photo courtesy of the artist.

    Así lo puso en evidencia la artista peruana Daniela Ortiz cuando escenificó entre la muchedumbre españolista congregada ante la estatua barcelonesa el 12 de octubre de 2014 la posición del indio arrodillado y sumiso que aparece esculpida junto al religioso catalán Bernat Boïl, acompañante de Colón en su segundo viaje. Su performance incomodaba a los alegres portadores de banderas al hacer patente el componente racista y colonial del orgullo español que celebraban. La artista hacía un guiño a la acción llevada a cabo veintidós años antes por Coco Fusco y Guillermo Gómez Peña, en el contexto de las celebraciones del V Centenario. Haciéndose pasar por “dos indígenas aún no descubiertos”, ambos artistas se exhibían enjaulados ante la curiosa y crédula mirada de los turistas en los “setenteros” Jardines del Descubrimiento de Madrid, junto a la estatua de Colón. Lejos de ser un acontecimiento singular, petrificado en los monumentos, demostraban paródicamente que el acto colonial del “descubrimiento” se ha venido repitiendo ininterrumpidamente hasta el presente, incluida la espectacularización turística de las celebraciones del 92, preludio de la intensificación del extractivismo y la aculturación durante la globalización.

    El que estas proyecciones hayan convergido en la figura de Colón dista, sin embargo, de ser resultado de un proceso lineal y exento de contradicciones. Ya que los monumentos afirman principios y valores definitivos e incontrovertibles, listos para ser colectivamente asumidos o eventualmente rechazados, no está de más poner de manifiesto los pies de barro de tales estatuas, explorando cómo y porqué han llegado a cobrar el significado que hoy les damos.
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    Universalis Cosmographia, Martin Waldseemüller, Strasbourg, 1507

    Colón tuvo que esperar casi cuatrocientos años a que España le hiciese el tipo de estatua que Fernández de Oviedo evocaba al dirigirse al emperador. No existía a principios del siglo XVI una tradición monumental en España capaz de traducir la retórica evocación romanista del cronista. De haberla, difícilmente se habría aplicado a Cristóbal Colón “el descubridor”, habida cuenta su detención y el áspero litigio que sostuvieron él y sus herederos sobre las riquezas y el gobierno de “las Indias”. Tal celebración de su persona era incompatible, en cualquier caso, con la titularidad absoluta que se arrogaba la Corona respecto al acontecimiento y sus implicaciones, que no permitía el reconocimiento de otra gloria que no fuera la suya propia. La sombra proyectada sobre la figura de Colón favoreció que Américo Vespucio fuera reconocido como sucesor de Ptolomeo por Waldseemüller en su famosa Universalis Cosmographia de 1507, mientras el mapa de costa de la entonces bautizada “América” se poblaba de insignias lusitanas y castellano-leonesas, de acuerdo con lo firmado entre ambas coronas en Tordesillas en 1494. Waldseemüller no ignoraba el papel de Colón en el descubrimiento, sin embargo, aquel enviado de la monarquía castellana no podía ser considerado como el moderno equivalente del geógrafo alejandrino.

    La proverbial confusión de Colón respecto a la naturaleza de su descubrimiento: “las Indias”, es una buena metáfora de lo contingente de un relato cuyo perfil iba a difuminarse en los escritos del cronista real Lucio Marineo Siculo, Opus de rebus hispaniae memorabilius, publicado en 1530. Ni las fechas, ni el número de barcos, ni el nombre mismo de Colón aparecen registrados correctamente. Ese mismo texto recogía el episodio espurio del hallazgo de una antigua moneda imperial romana en una playa americana, prueba irrefutable de una dependencia histórica del Nuevo Mundo respecto al viejo. La narración del hito del genovés no se iba a fraguar siguiendo la voluntad de construir el relato épico de la conquista española del Nuevo Mundo, sino como la primera de las múltiples historias derivadas de las aventuras, desventuras y conflictos que acompañaron a un proceso inconmensurable e inenarrable en los términos de la época. A pesar de los diarios y cartas anejos a sus viajes, la historia de Colón empieza realmente a tramarse tras 1497, el año en que el rey y la reina deciden cancelar su contrato y Diego Colón viaja a Roma para hablar a favor de su hermano cerca de Julio II. El humanista Pietro Martire, a cargo de fijar la versión oficial de los hechos, iba a ser persuadido por Colón para que terminara lo antes posible la primera parte de su historia latina, incluyendo la información acerca de los descubrimientos que él mismo le había dado. De hecho, a la muerte de Colón, su historia sólo sobrevive gracias a la publicación de De orbe novo en 1516.
    Jesus Carrillo 4 Columbus Landing On Hispaniola
    Columbus Landing at Hispaniola, etching by Theodor de Bry illustrating the work by Girolamo Benzoni, Americae pars quarta. Sive, Insignis & admiranda historia de primera occidentali India à Christophoro Columbo, Frankfurt, 1594.

    Veinte años después de la muerte del almirante hubo un intento frustrado de resucitar a Colón como héroe basilar del imperio, digno de ser conocido por todo “buen español”. En 1526, en la misma carta al emperador Carlos que abre De la natural historia de las Indias, Gonzalo Fernández de Oviedo afirma, como principio argumental de la misma:

    Que como es notorio, don Cristóbal Colón, primer almirante de estas indias las descubrió en tiempos de los católicos reyes Don Fernando y Doña Isabel, abuelos de Vuestra Majestad, en el año de 1491 años [sic] [...] El cual servicio hasta hoy es uno de los mayores que ningún vasallo pudo hacer a su príncipe y tan útil es a sus reinos, como es notorio. Y digo tan útil, porque hablando la verdad, yo no tengo por castellano ni buen español al hombre que de esto desconociese.

    Tras la retórica con que adorna esta introducción, Oviedo aspiraba a modelar y fijar un relato hegemónico con muy pocas posibilidades de éxito. Su énfasis en la dimensión épica de la empresa colombina delataba un vacío en el corazón de la conquista que resultaba tanto más evidente cuanto más avanzaba la invasión militar y la sórdida explotación material y humana de las así denominadas “Indias”. Para llenar dicho hueco Oviedo ofrecía la figura emblemática de Colón como prefiguración de la de sí mismo, con toda la ambivalencia de un temprano sujeto colonial: por un lado, como personificación del espíritu de la monarquía, por nacimiento y por servicio, y, por otro, desde su posición de miembro de la primera generación de pobladores españoles tras su desembarco en tierras del continente en 1513. A pesar de la distancia irreconciliable entre Oviedo y su contemporáneo Fray Bartolomé de Las Casas, ambos coincidían en señalar el vertiginoso abismo epistemológico y moral que abría la conquista y en reivindicar la figura de Colón como nudo desde el que tramar una historia plausible de la misma. Desde el particular punto de vista de Oviedo, la recuperación de Colón como único y legítimo descubridor era tan necesaria para la pensabilidad del imperio como lo era la representación del mundo natural que se desplegaba ante los ojos de los recién llegados y que él se disponía a acometer en su obra. Como sabemos, Oviedo fracasó en sus esfuerzos en más de un sentido. Cortés, y no Colón, iba a ser el héroe sin disputa en los textos de Ginés de Sepúlveda y de Lope de Gómara. Ambos autores imperiales beben abundantemente de los escritos de Oviedo, pero se paran al llegar a la figura de Colón, diluyendo su responsabilidad en el descubrimiento en circunstancias confusas y una neblina de testimonios contradictorios.
    Jesus Carrillo 5 Allegory Of America
    Allegory of America, Jan van der Straet, ca. 1587.

    Cuando la figura de Colón reaparece varias décadas más tarde en las famosas ilustraciones de Theòdore de Bry sobre la conquista de América, lo hace a través del buril del enemigo luterano y en el contexto de la así llamada “leyenda negra”. Vestido como soldado a las órdenes de la reina, pica en mano y espada a la cintura, se le retrata sometiendo a los desnudos e ingenuos indígenas a la autoridad de la corona española. Esta representación, muy alejada de la del navegante a que estamos acostumbrados, no era sino la imagen especular de aquella única que le cabía al almirante y a todos los que le siguieron en el camino de las Indias según la narración hispana. El perfil de valeroso emprendedor y sabio cosmógrafo que, por contraste, quisieron dejar sus herederos en ese collage de narraciones que es La historia del Almirante firmada por su hijo Hernando, acabó dirigiéndose a los lectores italianos, traduciéndose y publicándose en Venecia en 1571. A pesar de tales esfuerzos, en el famoso dibujo de Jan van der Straet, America (ca 1575), seguirá siendo Américo Vespucio quien aparezca despertando y nombrando al “nuevo mundo”, personificado por una mujer desnuda recostada en una hamaca. Mientras América, apenas erguida, solo cuenta con su cuerpo erotizado, el cosmógrafo, en pie ante ella, porta los atributos que simbolizan el dominio civilizatorio europeo. En este caso no son la pica y la espada, como en el Colón de Bry, sino un astrolabio y una bandera con la cruz.

    En el discurso de la nación hispana Colón no iba a tener el áureo papel que Camões diera a Vasco de Gama en Os Lusíadas, ni tampoco el que el mismo Colón representara más tarde en el imaginario de las jóvenes repúblicas americanas, o para la naciente Italia del siglo XIX. De hecho, Colón iba a tener que esperar hasta 1846 para protagonizar el Canto épico sobre el descubrimiento de América, y su autor –Narciso Foxá– sería un cubano de adopción nacido en San Juan de Puerto Rico.
    Jesus Carrillo 6 Monumento A Cristoforo Colombo, Genova
    Monument to Columbus, Genova, various artists, 1846-1892.

    El primer monumento europeo a Colón se erigió en su natal Génova ese mismo 1846, en el umbral de la unificación italiana, representando a un personaje sin insignias militares y apoyado en un ancla marinera. A sus pies se sienta una india desnuda, aunque en este caso sus manos están llenas: una cruz en la derecha y un cuerno de la abundancia en la izquierda. En uno de los lados del pedestal, en grandes letras latinas se lee: DIVINATO UN MONDO LO AVVINSE DI PERENNI BENEFIZI ALL’ ANTICO (“habiendo imaginado un mundo, lo encontró para perpetuo beneficio del viejo”) dejando claro el sentido extractivo y económico del proceso inaugurado por el descubrimiento a ojos de sus compatriotas. En el lado principal aparece el complementario significado nacional del monumento: A CRISTOFORO COLOMBO. LA PATRIA. El visionario Colón genovés, “injustamente” apresado por los reyes de España, personificaba el pujante espíritu de las nuevas naciones burguesas que por entonces aspiraban tanto a enriquecerse como a liberarse de las cadenas de la tiranía, recobrándose desde esa nueva faceta patriótico-capitalista el protagonismo “usurpado” por Vespucio.

    Cuando se erigieron los monumentos de Barcelona y Madrid unas décadas más tarde, se haría con cierta desidia institucional y habiendo de adaptar la iconografía de Colón a patrones ideológicos y a referencias históricas de sentido muy diferente. Aunque el liberalismo burgués trataba de abrirse paso en una cultura anclada en el Antiguo Régimen, nuestro país seguía siendo más de venerar a santos y vírgenes que a prohombres de la patria. Cabe recordar que el 12 de octubre seguimos celebrando la Virgen del Pilar, patrona de España y de la Guardia Civil.
    Jesus Carrillo 9 Monumento A Colón (madrid) 06
    Monument to Christopher Columbus, Madrid, detail by Jerónimo Suñol, 1881-1885, uncovered in 1892. Image: Antonio García, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons.

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    Monument to Christopher Columbus, Madrid, detail by Arturo Mélida, 1881-1885, uncovered in 1892. Image: Jay Cross, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons.

    En el agitado contexto de la Primera República, el federalista Ayuntamiento de Barcelona quiso que un monumento a Colón presidiera la así llamada Plaza de la Junta Revolucionaria, situando al intrépido héroe en las antípodas del nacionalismo centralista español. Cuando quince años más tarde, reprimido el fervor revolucionario, se construyó el monumento barcelonés al final de Las Ramblas, quedó muy corta la suscripción popular inicialmente prevista. Menos éxito aún tuvo el arquitecto murciano formado en París, José Marín-Baldo, quien empleó su juventud en proponer la construcción de un costosísimo cenotafio inspirado en los mausoleos imperiales romanos. Presentó infructuosamente el proyecto a Isabel II y posteriormente lo llevó, con éxito de crítica, pero sin resultados prácticos, a la Exposición Universal de Filadelfia de 1876. Una trayectoria similar tuvo el proyecto que el arquitecto vasco Alberto de Palacio presentó a la Exposición Mundial Columbina de Chicago de 1893, con el que pretendía emular a la torre de su maestro Eiffel para la exposición parisina de 1889. Su descomunal monumento devolvía a Colón el rol que le negara Waldseemüler como generador de una nueva imagen del mundo, moderna y tecnológica; un mundo listo para ser dominado según los parámetros del progreso capitalista. Se trataba de un globo terráqueo metálico de 300 metros de altura situado sobre un complejo arquitectónico con bibliotecas, museos y lugares de ocio. En su modernidad, incluso lo acompañó de un plan de viabilidad económica basado en la explotación turística. Como en el caso de Marín-Baldo, el reconocimiento estadounidense tampoco resultó en la materialización de tan desmesurado proyecto, que también fue desestimado cuando propuso construirlo en El Retiro madrileño, junto al Palacio de Cristal que él mismo había construido unos años antes para los fastos coloniales de la Exposición de Filipinas de 1887.
    Jesus Carrillo 7 Proyecto De Don José Marín Baldo, Monumento A Colón, En Cristóbal Colón Su Vida, Sus Viajes, Sus Descubrimientos
    Monument to Columbus, José Marín-Baldo, 1876, part of José María Asensio, Cristóbal Colón : su vida, sus viajes, sus descubrimientos, p. XLV. Barcelona (1888?). José Marín-Baldo (1826-1891), Public domain, via Wikimedia Commons.

    La imagen que finalmente cristalizaría no sería ni la del héroe clásico de Marín-Baldo, ni la del pionero de un futuro mundialista, que imaginara Palacios, sino otra historicista y autorreferencialmente hispánica. Cuando el Madrid de la Restauración erigió el monumento sito en el Paseo de Recoletos lo haría en dimensiones conceptual y económicamente más modestas y colocando la estatua sobre un desproporcionado pedestal gótico “Reyes Católicos”, acorde con los esfuerzos de restaurar la erosionada imagen de una monarquía metropolitana en plena decadencia. Su figura, con los brazos abiertos y la mirada extasiada hacia el cielo, imita a la de nuestros místicos patrios. El relieve de un Colón encadenado que ilustrara el pedestal de la estatua genovesa se veía aquí sustituido por enfáticas alusiones a su vinculación a la monarquía y a la religión católica. Un lugar privilegiado iba a tener el escudo de armas concedido por los reyes al almirante en que se lee en letras góticas “A CASTILLA Y A LEÓN UN NUEVO MUNDO DIO COLÓN”. A pesar de tal esfuerzo de traducción ideológica, su entrega al Ayuntamiento, coincidiendo con el IV centenario del descubrimiento, se llevó a cabo sin pena ni gloria. Por una jugada del destino, el “Pabellón de los descubrimientos”, que pretendía recuperar por fin la narración hispano-colombina desde la historia de la ciencia y la tecnología en la Expo 92, sufrió un demoledor incendio dos meses antes de la apertura de la “feria” sevillana, extirpando violentamente ese aspecto de las celebraciones del V centenario.
    Jesus Carrillo 8 1890 08 30, La Ilustración Española Y Americana, Monumento Colosal En Memoria De Cristóbal Colón, Proyecto Del Arquitecto Bilbaíno Alberto De Palacio
    Colossal Monument to the Memory of Columbus, Alberto de Palacio, illustration of La Ilustración Española y Americana XXXII, p.117, 1890. Image credits: Alberto Palacio, Public domain, via Wikimedia Commons.

    La narración de la historia de Colón estuvo destinada desde sus inicios a marcar distancia respecto al significado del descubrimiento que daba de iure y de facto la Monarquía española, a excepción del vano intento de Oviedo y Las Casas por dotar de sentido al sinsentido de una empresa que excedía los parámetros heredados de la Cruzada contra el islam. Lo fue desde posiciones muy diferentes. Su “hagiografía” se tramó como defensa de los intereses de sus herederos y, solo tras un prolongado hiato, fue recogida por el republicanismo independentista americano, desde el Cono Sur a Las Antillas, así como por un rampante Estados Unidos de Norteamérica que encontraba afinidad en su espíritu individualista y pionero. Teñido de orgullo patriótico, la reivindicó Génova en el contexto ideológico de la unificación y el Risorgimento, y el colonialismo capitalista de finales del XIX volvió a mirarse especularmente en aquel hombre emprendedor, blanco y de origen europeo, presto a dominar el mundo mediante su supuesta superioridad racial, cultural y tecnológica. La “reespañolización” de Colón, según hemos narrado, fue tardía e impostada, desde una posición defensiva, teniendo que negociar con narraciones generadas, precisamente, para separar “el descubrimiento” del discurso español.

    Es interesante comprobar que a pesar de la violencia y la desigualdad racista que impera en Estados Unidos, se están eliminando gradualmente las conmemoraciones y monumentos de su venerado Colón mediante la implementación de decisiones democráticas adoptadas en los consejos municipales desde Los Ángeles a Nueva York, pasando por Denver, Phoenix, Alburquerque o Minneapolis. Recientemente, fue retirada la estatua de Colón e Isabel la Católica que presidía la rotonda del Capitolio de California, como parte de una limpieza general de imágenes ofensivas para la población indígena por celebrar su genocidio. Es el resultado de largos y ásperos procesos de activismo y protesta antirracista y en defensa de los derechos civiles que nos hablan de la plasticidad que conserva aún la sociedad norteamericana.

    En 2010, coincidiendo con el segundo centenario de las independencias latinoamericanas, se inauguró la exposición Principio Potosí en el Museo Reina Sofía, templo de la modernidad española después de la dictadura. El equipo curatorial, formado por un imposible cruce germano-boliviano, pretendió romper definitivamente el “huevo de Colón” poniendo en evidencia que existe un único e ininterrumpido proceso de expropiación y explotación que aún continúa a escala global. Desmontando el mito racionalista del progreso, señalaban que la sustancia de lo que denominamos modernidad se fraguó en el proceso de “acumulación primitiva” violentamente incoado por los españoles en las minas de Potosí en el siglo XVI y desplegado sin solución de continuidad por el capitalismo hasta hoy. Con ello minaban de paso los fundamentos ilustrados de las narraciones de independencia que se celebraban entonces. Siguiendo a Enrique Dussel, el sujeto moderno se configuraría como ego conquiro a partir de una dialéctica de la dominación previa e inseparable de la misión supuestamente cristianizadora y civilizadora de España y Occidente. Habiendo estallado las últimas costuras del proyecto ilustrado, la modernidad se desvelaría en toda su crudeza barroca, excéntrica, mestiza y violenta, aunque no por ello carente de fermentos disruptivos y emancipatorios.

    Los movimientos anticoloniales y antirracistas contemporáneos reconocen, con los comisarios y artistas de Principio Potosí, que el Colón emprendedor y cosmopolita y el Colón soldado al servicio de España son dos caras de una misma moneda; partes constitutivas del proceso que ha esculpido con su cincel de dominación nuestro espacio social y ha esquilmado el planeta en su totalidad. El acto “bárbaro” de derribar sus estatuas, ya sea metafórica o literalmente, debería contagiarnos algo de su rabia y llevarnos a desmontar de una vez por todas el tinglado simbólico que entiba nuestra superioridad euroblanca, un gesto imprescindible y urgente si queremos imaginar y construir un mundo vivible.
    Jesus Carrillo 11 Mncars 0349
    Exhibition view of The Potosí Principle. How shall we sing the Lord’s song in a strange land?, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Madrid, 2010. Photo by Joaquín Cortes and Román Lores.

    Article originally published in Spanish in ’CONTEXTO Y ACCION’, 25 March 2021 https://ctxt.es/es/20210301/Firmas/35353/derribo-estatuas-Colon-racismo-colonialismo-blanquitud-Jesus-Carillo.htm
    Jesus Carrillo 1 Detalle De La Estatua De Colón En Barcelona Laslovarga
    Detail of the statue of Christopher Columbus in Barcelona, Laslo Varga

    #Christophe_Colombe #colonialisme #statue #monument Cristobal_Colon #Barcelone #Madrid