• #Roma_coloniale

    Sul colonialismo italiano pesa il torto di una rimozione storica, culturale e politica, ancora inspiegabile: un buco nel registro delle morti del Novecento, pagine bianche nei manuali di storia nazionale.
    Il Colonialismo spiega, più di quel che si è portati a credere, il pregiudizio razzista che ancora oggi pervade le piaghe più nascoste della società italiana; un razzismo ordinario, che può esplodere, a certe condizioni, in episodi terribili, oppure continuare a covare sotto la cenere.

    Roma è una città distratta. Le tracce coloniali, incomprese, sono ovunque: viali, piazze, obelischi, cinema, statue, targhe, tutti omaggi dedicati all’impero. Si incontrano a Villa Borghese, al Circo Massimo, alla Stazione Termini, a San Giovanni, al Foro Italico, a Garbatella, a Casalbertone. E in un intero quartiere: quello Africano.
    Forse è venuto il momento di discuterne, di ricercarle e assegnare loro un significato storico più doloroso e più giusto, senza continuare a sperare nell’oblio.

    https://lecommariedizioni.it/prodotto/roma-coloniale
    #Rome #colonialisme #Italie #Italie_coloniale #colonialisme_italien #livre #traces #toponymie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #noms_de_rue #liste #inventaire

    –-

    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

  • Presentazione pubblica della mappa sull’odonomastica coloniale di Milano

    La ricerca storico archivistica commissionata dall’Area Museo delle Culture, Progetti Interculturali e Arte nello Spazio Pubblico e condotta dall’Istituto nazionale Ferruccio Parri si è focalizzata sulle denominazioni e le intitolazioni con riferimenti alle campagne coloniali, di alcune strade e piazze della città: attraverso lo studio delle delibere del Consiglio comunale di Milano e delle delibere di Giunta è stato possibile ricostruire il periodo storico in cui queste sono state denominate dall’amministrazione cittadina. Con questa ricerca sono state individuate circa centocinquanta strade e piazze intitolate a militari, esploratori, battaglie, città e altre località o persone connesse alla storia coloniale italiana. L’elenco comprende anche quegli istituti culturali e monumenti che hanno avuto un ruolo centrale nel dibattito sul colonialismo italiano.

    La mappa che viene presentata è quindi uno strumento utile per avere una maggiore consapevolezza della storia coloniale italiana e sulla sua ricaduta sul tessuto urbano. Il lavoro svolto viene inquadrato all’interno di un panorama più ampio di riflessione sulle memorie coloniali. Il Mudec ha riattivato il dialogo con alcune personalità delle comunità Habesha presenti a Milano, già coinvolta nel progetto di museologia partecipata intrapreso per l’allestimento della sezione dedicata al colonialismo italiano all’interno di Milano Globale. Il mondo visto da qui, percorso permanente del museo. Nell’ottica di un processo di rilettura della nostra storia coloniale e di risignificazione del patrimonio ma anche dei luoghi della città marcati dalla presenza di odonimi coloniali, il Mudec ha aperto un confronto che si desidera costante e permanente sulle tematiche del colonialismo con cittadine e cittadini anche con origini diasporiche. Il lavoro realizzato fino ad oggi viene presentato a Palazzo Marino in una settimana fortemente simbolica che vuole ricordare Yekatit 12 (12 febbraio secondo il calendario etiopico, equivalente al 19 febbraio nel calendario gregoriano) data della strage di Addis Abeba del 19 febbraio 1937 a opera dell’esercito italiano.

    https://www.reteparri.it/eventi/pagine-rimosse-lesperienza-coloniale-nelle-vie-milano-nei-racconti-dalleti

    –-> j’espère pouvoir récupérer la carte...

    #toponymie #carte #Milan #Italie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #passé_colonial #colonialisme #cartographie #visualisation #noms_de_rue

    • Una settimana per indagare la memoria del colonialismo italiano

      La rete #Yekatit_12-19_febbraio -composta da associazioni, comunità di afrodiscendenti, collettivi e istituzioni- organizza una serie di eventi in diverse città italiane per riaccendere l’attenzione collettiva sul rimosso passato coloniale dell’Italia, fatto di violenze e crimini. Per riflettere sul passato ma soprattutto sul presente

      Per la quasi totalità degli italiani quella del 19 febbraio è una data senza particolari significati. Una data rimossa dalla memoria collettiva insieme a molti altri eventi dell’esperienza coloniale italiana ma che meriterebbe un uno spazio significativo sui libri di storia e non solo. Tra il 19 e il 21 febbraio 1937, infatti, le truppe italiane -con il supporto dei civili e delle squadre fasciste- massacrarono circa 20mila abitanti di Addis Abeba, una feroce repressione a seguito del fallito attentato contro il maresciallo Rodolfo Graziani -allora viceré d’Etiopia- a opera di due giovani resistenti eritrei. Le violenze degli italiani durarono per mesi e si estesero ad altre parti del Paese, fino all’eccidio di chierici e fedeli nella cittadina monastica di Debre Libanos a maggio dello stesso anno.

      Per riaccendere l’attenzione collettiva su questa vicenda, sulle violenze e i crimini del colonialismo italiano e sulle memorie rimosse della storia italiana, la rete Yekatit 12-19 febbraio -formata da associazioni, comunità di afrodiscendenti, collettivi e istituzioni- che prende il nome proprio dalla data del massacro indicata secondo il calendario etiope, sia secondo il calendario gregoriano, ha organizzato l’iniziativa “Memorie e (R)esistenze” con un ricco calendario di appuntamenti diffusi in numerose città (da Milano a Roma, da Bologna a Firenze passando per Modena, Padova, Napoli e Bari) che si concentra soprattutto nella settimana compresa tra il 12 e il 19 febbraio ma che in alcuni territori si prolungherà addirittura fino a maggio.

      “La rete vuole contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia, con l’obiettivo di proporre strumenti sempre più accurati per leggere la realtà in cui viviamo, i suoi legami con la storia recente dell’Italia e con la sua costruzione statuale, nazionale e identitaria”, spiegano i promotori di Yekatit 12-19 febbraio. Conferenze, dibattiti, presentazioni di libri e documentari “saranno occasione per condividere riflessioni sul passato e sul presente di un Paese che vogliamo aperto al mondo, transculturale e capace di riconoscere e combattere il razzismo, la violenza e le ingiustizie”.

      “Il nostro obiettivo è quello di arrivare al riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano”, spiega ad Altreconomia Silvano Falocco, uno dei coordinatori della rete e autore del saggio “Roma coloniale” (Le comari edizioni, 2022). Un primo passo in questo senso è stato fatto lo scorso ottobre quando è stata presentata alla Camera una proposta di legge per l’istituzione di un Giorno della memoria per commemorare gli eccidi, le campagne militari e la politica di occupazione a cui sono state sottoposte le popolazioni dei Paesi africani dominati dall’Italia: “La promozione di iniziative locali di sensibilizzazione e informazione dal basso su questo tema ha come obiettivo quello di farne comprendere all’opinione pubblica la necessità di questa giornata”.

      Tra gli eventi più significativi di “Memorie e (R)esistenze” c’è l’incontro “Memorie decoloniali” in programma martedì 20 febbraio alla Casa della memoria e della storia di Roma: un convegno che sarà anche occasione per iniziare costruire una raccolta “dal basso” delle fotografie e dei diari che raccontano la storia coloniale italiana. “Ogni volta che partecipo a un’iniziativa pubblica sul tema vengo avvicinato da persone del pubblico che mi raccontano di avere a casa foto d’epoca o altra documentazione, spesso appartenuta ai nonni -continua Falocco-. Ci rivolgeremo ai figli e ai nipoti dei colonizzatori invitandoli a condividere con noi questo materiale che spesso percepiscono come problematico. E ci piacerebbe molto anche riuscire a intercettare la documentazione che è stata portata in Italia dai discendenti dei colonizzati per conservare la memoria del proprio Paese d’origine”.

      La rete coinvolge diverse associazioni e realtà attive sui diversi territori, tra cui Resistenze in Cirenaica e il collettivo Arbegnouc Urbani che hanno organizzato due rappresentazioni dello spettacolo teatrale “Italiani brava gente”, ispirato all’opera dello storico Angelo Del Boca, a Bologna il 16 febbraio e a Reggio Emilia il 17 febbraio. A Modena, invece, gli eventi principali saranno il convegno “Altre resistenze. Etiopia e Liba”, la presentazione della graphic novel “Yekatit 12” che racconta la lotta degli etiopi contro l’occupazione fascista e lo spettacolo teatrale “Italiani bravissima gente. Quando eravamo colonialisti” di e con Carlo Lucarelli.

      La rassegna vuole essere anche un’occasione per riflettere sui luoghi delle nostre città che portano con sé un retaggio coloniale. A partire dalla toponomastica, dai nomi di strade e piazze in titolate a sanguinose battaglie o a militari che si sono resi responsabili di massacri ai danni della popolazione civile e che non vengono “interrogati”. “Il racconto di chi ha subito le mire espansionistiche dell’Italia liberale prima e dell’imperialismo fascista poi, non sembra trovare sufficiente spazio -continua la rete-. Così come non trova spazio il racconto di chi ha organizzato la resistenza all’occupazione italiana, di chi gli è sopravvissuto come figlio, figlia, compagna o concubina e di chi ha rielaborato quella storia pensando di poter trovare cittadinanza nel Belpaese a partire già dagli anni Venti”.

      Da qui la volontà di Rete Yekatit 12-19 febbraio di contribuire ad un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia, con l’obiettivo di proporre strumenti sempre più accurati per leggere la realtà in cui viviamo, i suoi legami con la storia recente dell’Italia e con la sua costruzione statuale, nazionale e identitaria. “Il colonialismo non è semplicemente un periodo storico, ma è anche una pratica economica che prevede occupazioni e stermini -conclude Falocco-. Tempo fa avevamo rivolto un questionario a un campione di cittadini e meno del 5% delle persone che hanno risposto conoscevano il passato coloniale dell’Italia. A dimostrazione che questa storia non fa ancora parte della nostra memoria collettiva”.

      https://altreconomia.it/una-settimana-per-indagare-la-memoria-del-colonialismo-italiano
      #19_février

  • Le #jardin_Villemin situé au 105 quai de Valmy est renommé Jardin Mahsa Jina Amini, du nom de cette Iranienne de 22 ans morte il y a tout juste un an, le 16 septembre 2022, aux mains de la police des moeurs, pour un voile mal porté.

    https://twitter.com/arminarefi/status/1702978930360111602
    #toponymie #toponymie_politique #Mahsa_Amini #noms_de_rue

  • #Allemagne : une nouvelle place au nom du résistant camerounais #Rudolf_Douala_Manga_Bell

    Une troisième place au nom de Rudolf Douala Manga Bell, résistant camerounais à la colonisation allemande, a été inaugurée en Allemagne, à #Aalen, le 1er juillet dernier. Une #pétition circule auprès des autorités allemandes pour la #réhabilitation de Rudolf Douala Manga Bell et de #Ngosso_Din.

    Rudolf Douala Manga Bell fut l’ancien roi du clan Bell du peuple Douala au Cameroun pendant la période coloniale allemande. Pour avoir tenté de fédérer les communautés contre le colonisateur, il fut pendu « pour haute trahison » le 8 août 1914 à Douala avec son secrétaire Ngosso Din.

    #Jean-Pierre_Félix_Eyoum, membre de la famille et installé en Allemagne depuis un demi-siècle, travaille depuis trente ans sur cette histoire. La place Manga Bell de Aalen a été inaugurée en présence des représentants des autorités du Cameroun. Avant cela, une place a été inaugurée à #Ulm en octobre, une autre à #Berlin en décembre.

    Jean-Pierre Félix Eyoum a déposé il y a un an une pétition auprès des autorités allemandes pour la réhabilitation de Rudolf Douala Manga Bell et Ngosso Din. Pourquoi une place à Aalen ? Parce que ce fut la ville d’accueil de Roudolf Douala Manga Bell, quand il vient apprendre l’allemand à 16/17 ans en 1891 en Allemagne raconte Jean-Pierre Félix Eyoum, au micro de Amélie Tulet, de la rédaction Afrique.

    La demande de réhabilitation de Rudolf Douala Manga Bell et Ngosso Din, figures de la #résistance contre la #colonisation_allemande, est examinée au Bundestag allemand. Avant sa visite en octobre dernier au Cameroun, la ministre adjointe aux Affaires étrangères allemande avait déclaré : « la peine capitale prononcée contre le roi Rudolf Douala Manga Bell en 1914 est un parfait exemple d’#injustice_coloniale ».

    https://amp.rfi.fr/fr/afrique/20230709-allemagne-une-nouvelle-place-au-nom-du-r%C3%A9sistant-camerounais-r

    #Cameroun #toponymie #toponymie_politique #décolonial #toponymie_décoloniale #colonialisme #mémoire #noms_de_rue

    ping @cede @_kg_ @reka

    • Le #martyr camerounais Rudolf Douala Manga Bell a désormais sa place à Berlin

      Après Ulm, Berlin est la deuxième ville allemande à avoir une rue ou une place du nom de Rudolf Douala Manga Bell, ce roi camerounais, figure de la résistance face aux colonisateurs.

      Le gris et le froid berlinois n’ont pas douché l’enthousiasme de la foule. Et pour cause : la place Gustav Nachtigal, du nom du colonisateur qui hissa le drapeau allemand sur le Cameroun, n’existe plus ; elle s’appelle désormais place Rudolf et Emily Douala Manga Bell.

      Rudolf Douala Manga Bell, c’est ce roi devenu héros national pour avoir osé défier le colonisateur allemand et qui fut exécuté en 1914. « Il s’était opposé à certains plans du gouvernement allemand colonial qui essayait de déposséder les gens, de leur prendre leurs terrains... et évidemment, ça n’a pas plu aux Allemands », raconte Jean-Pierre Félix Eyum, l’un de ses descendants. Emily Douala Manga Bell, l’épouse de Rudolf, fut quant à elle l’une des premières Camerounaises à avoir été scolarisées.
      « Un message d’espoir »

      Mais si Rudolf Douala Manga Bell a maintenant une place à son nom à Berlin, il n’est pas totalement réhabilité, ce qu’attend désormais Jean-Pierre Félix Eyum. « J’attends que le gouvernement allemand prononce enfin ces mots-là : "Nous sommes désolés d’avoir fait ce que nous avons fait". C’est cela que j’appelle réhabiliter Rudolf Douala Manga Bell », indique-t-il. Il se dit optimiste à ce sujet. Il a récemment déposé une pétition dans ce sens au Parlement allemand.

      L’actuel roi de Douala, Jean-Yves Eboumbou Douala Manga Bell, voit quant à lui dans cette cérémonie en l’honneur de son ancêtre « un symbole extraordinairement important de reconnaissance d’une situation qui a été déplorable en son temps ». « Un message d’espoir », dit-il. Cette inauguration est en tout cas une nouvelle étape dans la reconnaissance très récente par l’Allemagne de son passé colonial. Un passé longtemps éclipsé par les crimes commis par le régime nazi durant la Seconde Guerre mondiale.

      https://www.rfi.fr/fr/afrique/20221202-le-martyr-camerounais-rudolf-douala-manga-bell-a-d%C3%A9sormais-sa-plac

    • L’Allemagne inaugure une place Rudolf Douala Manga Bell en hommage au martyr camerounais

      Pour la première fois sur le sol allemand, une place au nom de Rudolf Douala Manga Bell a été inaugurée le 7 octobre, dans une tentative allemande de regarder son passé de colonisateur du Cameroun. Cela à Ulm, dans le sud de l’Allemagne, où le roi Rudolf Douala Manga Bell avait étudié le droit à la fin du XIXe siècle, avant de rentrer au Cameroun, où il fut ensuite exécuté par l’administration allemande pour avoir tenté de fédérer des communautés camerounaises contre les colons.

      Au Cameroun, son nom est dans tous les manuels scolaires : Rudolf Douala Manga Bell était un roi, le roi du clan Bell au sein du peuple Douala. Celui-ci était établi depuis des générations sur la côte Atlantique, au bord de l’estuaire du Wouri, où se trouve l’actuelle ville de Douala, capitale économique du Cameroun.

      C’est son père, le roi Auguste Douala Ndumbe Bell, qui l’envoie étudier en Allemagne pour qu’il maîtrise la langue de ceux dont la présence augmente sur la côte, avec l’arrivée de missionnaires puis l’installation de comptoirs pour le commerce.

      Mais quelques années après le retour de Rudolf Douala Manga Bell au Cameroun, le gouvernement colonial allemand remet en cause le traité de protectorat signé avec les chefs Douala. Le texte stipule que la terre appartient aux natifs, mais le gouverneur allemand veut alors déplacer les populations.

      Rudolf Douala Manga Bell s’y oppose, d’abord de façon légaliste, allant jusqu’au Parlement allemand plaider la cause de son peuple, avant de se résoudre à tenter de fédérer les autres communautés du Cameroun contre le colonisateur allemand. Mais il est arrêté en mai 1914, jugé et condamné en un seul jour. Il est pendu le 8 août 1914 avec son lieutenant pour « haute trahison ».

      Le Cameroun avait été sous domination allemande d’abord, avant d’être placé sous les mandats britannique et français après la Première guerre mondiale.
      Les descendants de la figure camerounaise appellent à la réhabilitation de son image par l’Allemagne

      Les descendants du roi Rudolf Douala Manga Bell attendent notamment sa réhabilitation par les autorités allemandes, pour laver son nom. Un des combats que mène notamment son arrière-petite-fille, la Princesse Marylin Douala Manga Bell qui constate que les choses bougent en Allemagne depuis le milieu des années 2010.

      https://www.rfi.fr/fr/afrique/20221025-l-allemagne-inaugure-une-place-rudolf-duala-manga-bell-en-hommage-au-ma

  • Nos Statues Coloniales - Teaser officiel

    Depuis 2020, en #France, les #statues_coloniales sont aux cœur des débats. Certains veulent les déboulonner d’autres se mobilisent pour les protéger. Mais est-ce qu’on connaît réellement l’histoire de ces statues ? Qui étaient les grands généraux statufiés ? Bugeaud, Gallieni, Marchand, Lyautey, Mangin... Qui a décidé de leur ériger des statues ? Vous avez votre petite idée ?

    Dans ce documentaire nous retraçons l’histoire de 5 statues coloniales parisienne. Nous sommes accompagnés par Catherine Coquery-Vidrovitch, Françoise Vergès, Jacqueline Lalouette et Pascal Blanchard.

    https://www.youtube.com/watch?v=YUPa7WMteTY


    #statues #toponymie_politique (même si c’est pas vraiment de la toponymie, mais bon... ça m’est utile pour mes archives) #déboulonnage #histoire #film #documentaire #film_documentaire #colonialisme #toponymie_coloniale
    #passé_colonial #histoire_coloniale
    ping @cede @reka @isskein

  • Ürümqi, métatoponyme de la contestation en Chine, ouvre l’ère de la révolte des plaques
    https://neotopo.hypotheses.org/5704

    de Neotoponymy/Néotoponymie Ürümqi est le nom d’une ville la région martyr chinoise du Xinjiang. Lors du confinement autoritaire et absolu imposé par les autorités chinoises, un immeuble dans lequel des personnes étaient retenues...

    #A_votre_vote_ !A_vos_noms ! #ExploreNeotopo #Neotopo_vous_signale #Toponobservations

  • Rosa-Parks ou Angela-Davis ? #Valérie_Pécresse et #Pap_Ndiaye se querellent sur le nom d’un #lycée à #Saint-Denis

    Face à un début de polémique, la présidente du conseil régional d’Ile-de-France a saisi le ministre de l’Education sur le choix du nom d’un lycée à Saint-Denis. Dans un courrier, consulté par « le Monde », Pap Ndiaye refuse d’y répondre, avançant des arguments historiques.

    L’affaire est partie d’une décision du conseil régional d’Ile-de-France : celle de changer le nom d’un lycée de Saint-Denis. Face à une polémique naissante, la présidente LR de la région, Valérie Pécresse, a demandé au ministre de l’Education nationale, Pap Ndiaye, de se déterminer sur ce changement de dénomination, indique le Monde dans un article paru mardi 18 avril. La réponse du ministre de l’Education nationale ne s’est pas fait attendre. Dans un courrier, consulté par le quotidien du soir, l’ancien universitaire a adressé « une fin de non-recevoir » à Pécresse. Une décision en partie fondée sur une « question de droit », mais surtout sur des considérations historiques.

    Au cœur de cette polémique : le lycée polyvalent de la Plaine, à Saint-Denis. Inauguré il y a six ans, l’établissement scolaire de 1 200 élèves « n’a toujours pas de nom officiel », rappelle l’article. Depuis son ouverture pourtant, élèves, enseignants et habitants, « tout comme le site de l’Education nationale », « le désignent du nom de l’écrivaine et militante américaine Angela Davis ». Une dénomination non prise en compte par la région Ile-de-France, seule autorité à pouvoir décider du nom officiel de l’établissement selon le code de l’éducation.

    Une figure « trop conflictuelle »

    Fin mars, Valérie Pécresse a alors relancé le débat. Elle a proposé de baptiser l’établissement du nom de Rosa Parks, une autre figure du mouvement des droits civiques aux Etats-Unis. Une personnalité, selon elle, « plus consensuelle », écrit le Monde. « Le conseil d’administration du lycée avait pourtant validé le nom d’Angela Davis dès mai 2018, soutenu par le maire de Saint-Denis de l’époque », développe le quotidien. La proposition a fait réagir les enseignants de l’établissement, « choqués » de ne pas y avoir été associés. Face à ce début de controverse, l’ancienne candidate à la présidentielle a saisi le ministre de l’Education nationale et le préfet de la région pour trancher.

    Dans une lettre du 31 mars destinée à Pap Ndiaye, Valérie Pécresse avance notamment la « radicalité d’ex-Black Panthers » d’Angela Davis pour justifier son choix. Les prises de position de la militante sont, d’après l’élue, trop « conflictuelle[s] pour incarner la sérénité qui doit prévaloir dans un établissement scolaire ». Des arguments balayés par Pap Ndiaye dans sa réponse. Semblant « délaisser sa casquette de ministre pour reprendre celle de l’universitaire », note le Monde, le spécialiste de l’histoire sociale des Etats-Unis et des minorités estime que l’opposition suggérée entre Rosa Parks et Angela Davis est « trop simple ». Il rappelle aussi que de nombreux établissements scolaires puisent leur nom dans des références « qui ne font pas nécessairement consensus ».

    Une réponse loin de satisfaire la présidente du conseil régional d’Ile-de-France. Interrogée par le Monde, Valérie Pécresse a affirmé donner deux mois à la communauté éducative du lycée de Saint-Denis pour lui soumettre un nouveau nom. Faute de quoi, celui de Rosa Parks sera gardé.

    https://www.liberation.fr/societe/education/rosa-parks-ou-angela-davis-valerie-pecresse-et-pap-ndiaye-se-querellent-s
    #toponymie #toponymie_politique #dénomination #Rosa_Parks #Angela_Davis

    • Ile-de-France : sur l’impulsion de #Pécresse, la région débaptise le lycée Angela-Davis de Saint-Denis

      Malgré la demande de la région de changer de nom, le conseil d’administration de l’établissement avait conforté le 21 juin celui d’Angela-Davis. Puisque la région a autorité sur les lycées, la majorité de droite a voté ce mercredi 5 juillet : Angela-Davis sera remplacée par Rosa-Parks.

      Epilogue d’une polémique insensée. Le changement de nom d’un lycée de Saint-Denis avait fait du bruit dans la presse il y a déjà quelques mois. Valérie Pécresse, présidente de la région Ile-de-France, s’opposait à la décision du conseil régional d’entériner le nom de l’établissement scolaire en hommage à Angela Davis, pourtant choisi depuis 2018. La région a enterré le débat en débaptisant le lycée ce mercredi 5 juillet. La majorité de droite a en effet voté en commission permanente pour que le nom d’Angela-Davis soit plutôt remplacé par celui de Rosa-Parks.

      En guise de justification, l’ex-candidate LR à la présidentielle avait déjà donné le ton fin mars lorsqu’elle avait refusé une première fois d’entériner le nom de la militante, pourtant choisi dès 2018 par le conseil d’administration du lycée et validé par le maire de l’époque. En résumé : pas question pour elle qu’un lycée prenne le nom d’Angela Davis, dont elle fustige les positions « contraires aux lois de la République ». Il est notamment reproché à l’universitaire, aujourd’hui âgée de 79 ans, une tribune cosignée en 2021 dans laquelle elle déplorait la « mentalité coloniale [qui] se manifeste dans les structures de gouvernance de la France, en particulier vis-à-vis des citoyens et des immigrés racisés ».
      « Course à l’échalote »

      Saisi par Valérie Pécresse à ce sujet, le ministre de l’Education Pap Ndiaye a estimé en avril qu’il n’était « pas opportun de changer le nom du lycée Angela-Davis », une « grande figure du mouvement pour les droits civiques, dont personne n’est obligé de partager tous les points de vue, mais qui peut cependant figurer sur les frontons de nos écoles ». « De très nombreuses écoles et établissements portent déjà le nom d’Angela-Davis », avait ajouté Pap Ndiaye pour qui « le nom de l’établissement » de Saint-Denis est aussi « entré dans l’usage » depuis son ouverture en 2017.

      Qu’importe : la région Ile-de-France a décidé de n’en faire qu’à sa tête, jugeant que le ministre « a détourné les yeux de cette question et s’en est remis au choix de la région ». Et ajoute que le conseil d’administration du lycée a conforté le 21 juin le nom Angela-Davis. « Faute d’avoir reçu une nouvelle proposition », la région, qui a autorité sur les lycées, choisit donc de le nommer Rosa-Parks, « figure emblématique de la lutte contre la ségrégation aux Etats-Unis, qui faisait également partie de la présélection du lycée ». L’opposition communiste a dénoncé dans un communiqué une « nouvelle démonstration de la course à l’échalote qu’une partie de la droite se livre avec l’extrême droite dans la quête de marqueurs identitaires et réactionnaires ».

      https://www.liberation.fr/societe/education/la-region-ile-de-france-change-le-nom-du-lycee-angela-davis-de-saint-deni

    • Au nom de la « #laïcité » et contre l’avis de Pap Ndiaye, Valérie Pécresse débaptise le lycée Angela-Davis

      Le conseil régional d’Île-de-France a voté, mercredi, pour débaptiser le lycée Angela-Davis, en Seine-Saint-Denis, et le renommer Rosa-Parks, malgré l’avis contraire émis par le ministre de l’éducation nationale.

      LaLa région Île-de-France, dirigée par Valérie Pécresse, a finalement baptisé Rosa-Parks le lycée de Saint-Denis qui avait choisi le nom d’Angela Davis, à l’occasion d’un vote en commission permanente, mercredi 5 juillet. Le motif de cette décision : les positions de l’universitaire américaine, jugées « contraires aux lois de la République », à cause notamment d’une tribune de 2021 dans laquelle Angela Davis fustigeait la « mentalité coloniale [qui] se manifeste dans les structures de gouvernance de la France, en particulier vis-à-vis des citoyens et des immigrés racisés ».

      Devant la bronca de l’opposition, la majorité de droite avait, dans un premier temps, suspendu le processus et annoncé, en mars dernier, saisir au préalable le ministère de l’éducation nationale. En avril, Pap Ndiaye a estimé qu’il n’était « pas opportun de changer le nom du lycée Angela-Davis », une « grande figure du mouvement pour les droits civiques, dont personne n’est obligé de partager tous les points de vue, mais qui peut cependant figurer sur les frontons de nos écoles ». Le 21 juin dernier, de nouveau, le conseil d’administration du lycée a appuyé le choix de nommer le lycée Angela-Davis.

      Mais Valérie Pécresse et sa majorité estiment aujourd’hui que, « faute d’avoir reçu une nouvelle proposition » de l’établissement et puisque la région a autorité sur les lycées, le nom Rosa-Parks, « figure emblématique de la lutte contre la ségrégation aux États-Unis », doit être entériné.

      L’opposition communiste a aussitôt fustigé dans un communiqué une « nouvelle démonstration de la course à l’échalote qu’une partie de la droite se livre avec l’extrême droite dans la quête de marqueurs identitaires et réactionnaires ».

      Nous republions notre article du 28 mars 2023, intitulé « Au nom de la “laïcité ”, Valérie Pécresse veut débaptiser le lycée Angela-Davis ».

      *

      Valérie Pécresse a fait marche arrière. Mercredi 29 mars, la présidente du conseil régional d’Île-de-France a finalement renoncé à soumettre au vote une délibération relative aux lycées franciliens. Sur le bâti scolaire, dont l’état est calamiteux par endroits ? Sur les agents techniques, en sous-effectif constant ? Sur les neuf lycées parisiens qui doivent fermer à la rentrée de septembre ? Rien de tout cela. Il s’agissait de changer le nom du lycée Angela-Davis de Saint-Denis (Seine-Saint-Denis), inauguré en 2017 et dont le titre n’avait jamais été entériné par la collectivité régionale.

      Devant l’indignation de l’opposition, Valérie Pécresse a annoncé vouloir d’abord saisir le ministère de l’éducation nationale et la préfecture « au titre du contrôle de légalité ». Ils devront déterminer si le nom d’Angela Davis répond à toutes les exigences d’une circulaire de 1988 « sur la dénomination des établissements » et à la jurisprudence administrative (notamment sur le trouble à l’ordre public).

      Voilà pourtant presque cinq ans que le conseil d’administration de l’établissement a voté cette dénomination à une très large majorité et que le nom d’Angela-Davis figure sur tous les documents du lycée, de la Région et de l’Éducation nationale.

      Mais pourquoi Angela Davis dérange-t-elle autant la présidente LR de la Région ? L’amendement préparé par le groupe majoritaire, essentiellement composé d’élu·es Les Républicains (LR), listait la « défense de la laïcité » et des « valeurs républicaines » ainsi que de la lutte contre « l’obscurantisme ».

      Dans l’exposé des motifs de cet amendement, la droite régionale détaille ses griefs à l’encontre de la militante américaine, figure de la lutte pour les droits civiques aux États-Unis. Elle se voit reprocher d’avoir signé une tribune en 2013 contre l’interdiction du voile dans les crèches associatives ou d’avoir déclaré qu’une femme voilée pouvait être « plus féministe » qu’une femme qui ne l’est pas.

      « On considère qu’un certain nombre de ses prises de position ne sont pas acceptables, pointe l’entourage de Valérie Pécresse. Dans un lycée, on doit essayer de rassembler les élèves. » « Dans un lycée français, on doit apprendre à aimer la France », a expliqué mercredi la présidente.

      Vincent Jeanbrun, le président du groupe majoritaire au conseil régional, avance aussi auprès de Mediapart : « On peut retenir énormément de choses positives sur le parcours d’Angela Davis mais il y a aussi quelques zones d’ombre. On était loin d’un engagement universaliste dans la deuxième partie de sa vie. Elle a aussi été très proche des dictatures en URSS et à Cuba. »

      À la place, Valérie Pécresse et ses soutiens proposent d’attribuer au lycée le nom de Rosa Parks, une autre figure de la lutte contre la ségrégation aux États-Unis. « Elle incarne tout aussi bien le combat contre la ségrégation raciale et elle s’est battue toute sa vie pour les droits de la femme et l’universalisme », justifie Vincent Jeanbrun. À l’inverse, conserver le nom d’Angela Davis – qui est toujours en vie – enverrait « un message désastreux à notre jeunesse et particulièrement aux jeunes femmes », estime-t-il dans l’amendement déposé.

      La position de la droite régionale est d’autant plus surprenante que depuis cinq ans, elle n’a pas exprimé la moindre réticence à l’égard du nom choisi par la communauté éducative du lycée. Début mars 2020, elle en avait même soumis l’approbation à l’assemblée régionale. Avant de retirer le rapport de l’ordre du jour, invoquant de simples vérifications administratives. « Pour moi, il n’y a aucun sujet, assurait Valérie Pécresse face aux inquiétudes des groupes de gauche. Le lycée s’appelle Angela-Davis, il a été nommé Angela-Davis, il n’y a pas de sujet. »

      En septembre 2019, l’ancienne ministre allait même plus loin. Interpellée à ce sujet par l’écologiste Bénédicte Monville, elle affirmait : « À aucun moment nous n’avons refusé d’entériner le nom d’une personnalité donnée à un lycée et cela ne nous viendrait pas à l’esprit, sauf si on appelait un lycée Adolf-Hitler. Là, nous aurions un droit de réserve et une opposition à formuler. » Et Valérie Pécresse de conclure : « Dites au proviseur du lycée de nous en saisir et nous entérinerons ces noms [sic]. »

      Trois ans plus tard, les promesses ont fait long feu. Valérie Pécresse a visiblement changé d’avis, même si son entourage assure qu’elle « donnera sa position demain [mercredi] après avoir écouté les arguments de chacun ». Alors que le code de l’éducation impose de recueillir leur avis, la droite régionale n’a averti ni la communauté éducative du lycée ni le maire de Saint-Denis, Mathieu Hanotin, qui s’en est vivement ému sur Twitter.
      Le corps enseignant « profondément choqué »

      L’indignation est plus grande encore parmi les enseignant·es mobilisé·es, qui se sont dit « profondément choqué·es » dans un communiqué. « Quelle vision des responsabilités et du fonctionnement démocratique peut découler d’une décision qui passe outre les engagements pris, les procédures officielles et l’expression collective et souveraine d’un vote ? », pointe le texte, cosigné par les sections Snes-FSU, Sud Éducation et CGT de l’établissement, qui dénonce par ailleurs les « incohérences » et le « jeu politique » d’une « droite en quête de symboles ».

      « Pour tenter d’exister politiquement, la droite régionale joue la diversion, commente Céline Malaisé, présidente du groupe communiste au conseil régional. Elle provoque une énième panique identitaire et attise la concurrence mémorielle entre deux femmes combattantes contre la discrimination raciale aux États-Unis. Cet amendement inacceptable et honteux doit être retiré. Ce lycée s’appelle Angela-Davis, c’est un état de fait, il est temps que la droite l’accepte. »

      À l’unisson, le conseiller régional socialiste Yannick Trigance dénonce un choix « absolument scandaleux » et « extrêmement choquant ». « Que le Rassemblement national se prononce contre la dénomination en hommage à Angela Davis, ça ne nous surprend pas, pointe le secrétaire national du PS sur les questions d’éducation. Mais que la droite se rallie à cette position… Ça traduit une dérive de la droite vers la radicalité et l’extrémisme et Valérie Pécresse n’y échappe pas. »

      Et Pap Ndiaye, qu’en pense-t-il ? Le ministre de l’éducation nationale connaît le sujet de près, lui qui a écrit Les Noirs américains : en marche pour l’égalité en 2009 et travaillé depuis trente ans sur la condition noire aux États-Unis et en France et la lutte contre les discriminations raciales. Contacté par Mediapart, il n’avait pas donné suite à l’heure où cet article a été publié. C’est maintenant à lui de se prononcer.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/050723/au-nom-de-la-laicite-et-contre-l-avis-de-pap-ndiaye-valerie-pecresse-debap

    • La région Ile-de-France change le nom du lycée Angela-Davis en raison des critiques de l’icône des droits civiques contre la France

      Valérie Pécresse a refusé d’entériner ce nom en pointant des prises de position des positions « contraires aux lois de la République ». Pap Ndiaye avait défendu une « grande figure du mouvement pour les droits civiques, dont personne n’est obligé de partager tous les points de vue ».

      La région Ile-de-France dirigée par Valérie Pécresse a baptisé mercredi 5 juillet Rosa-Parks le lycée de Saint-Denis qui avait lui-même choisi le nom d’Angela Davis, en raison des positions de cette dernière, jugées « contraires aux lois de la République ». La majorité de droite a voté en commission permanente cette dénomination officielle, « faute d’avoir reçu une nouvelle proposition » de la part de la communauté éducative du lycée, explique l’exécutif régional dans l’amendement adopté.

      A la fin de mars, la candidate LR à la présidentielle avait refusé d’entériner le nom d’Angela Davis, pourtant choisi dès 2018 par le conseil d’administration du lycée et validé par le maire de l’époque, en raison de prises de position critiques vis-à-vis de la France. En cause notamment, une tribune cosignée en 2021 par l’universitaire, aujourd’hui âgée de 79 ans, dans laquelle elle fustigeait la « mentalité coloniale [qui] se manifeste dans les structures de gouvernance de la France, en particulier vis-à-vis des citoyens et des immigrés racisés ».

      Saisi par Mme Pécresse à ce sujet, le ministre de l’éducation, Pap Ndiaye, avait estimé en avril qu’il n’était « pas opportun de changer le nom du lycée Angela-Davis », une « grande figure du mouvement pour les droits civiques, dont personne n’est obligé de partager tous les points de vue, mais qui peut cependant figurer sur les frontons de nos écoles ». « De très nombreuses écoles et établissements portent déjà le nom d’Angela Davis », avait ajouté M. Ndiaye, pour qui « le nom de l’établissement » de Saint-Denis est aussi « entré dans l’usage » depuis son ouverture, en 2017.

      Le ministre « a détourné les yeux de cette question et s’en est remis au choix de la région », estime cette dernière, qui annonce que le conseil d’administration du lycée a conforté le 21 juin le nom Angela-Davis. « Faute d’avoir reçu une nouvelle proposition », la région, qui a autorité sur les lycées, choisit donc de le nommer Rosa-Parks, « figure emblématique de la lutte contre la ségrégation aux Etats-Unis, qui faisait également partie de la présélection du lycée ».

      L’opposition communiste a fustigé dans un communiqué une « nouvelle démonstration de la course à l’échalote qu’une partie de la droite se livre avec l’extrême droite dans la quête de marqueurs identitaires et réactionnaires ».

      https://www.lemonde.fr/politique/article/2023/07/05/la-region-ile-de-france-change-le-nom-du-lycee-angela-davis-de-saint-denis_6

    • Lycée Angela-Davis : les enseignants dénoncent un « coup de force nauséabond »

      La région Ile-de-France a voté pour rebaptiser un lycée « Rosa-Parks » contre l’avis du conseil d’administration de l’établissement. Une cinquantaine d’enseignants dénonce une instrumentalisation politique de Valérie Pécresse et demande aux intellectuels et aux citoyens un soutien massif.

      C’est par voie de communiqué que nous avons appris, le mercredi 5 juillet, la décision de la majorité de droite de la région Ile-de-France de renommer le lycée Angela-Davis en lycée Rosa-Parks, justifiée dans un amendement invoquant la « défense de la laïcité », des « valeurs républicaines » ainsi que de la lutte contre « l’obscurantisme ».

      Le 21 juin, le conseil d’administration de l’établissement avait pourtant bien, suivant les prérogatives transmises directement par le rectorat et le ministère, répondu à l’ultimatum posé par Valérie Pécresse. A la question de savoir si nous souhaitons que notre lycée se nomme « Angela-Davis » ou « Rosa-Parks », l’écrasante majorité des élu·e·s du personnel, des parents et des élèves a répondu « Angela-Davis ». Pour la deuxième fois, dans une sorte de sentiment d’absurdité, nous avons réaffirmé notre nom. Ce que la majorité régionale nomme une « absence de réponse » est en réalité une réponse qu’elle ignore volontairement.

      Lors de ce même conseil d’administration, et comme c’est le cas depuis maintenant près de cinq ans, aucun·e représentant·e de la région n’était présent·e. Or nous pouvions légitimement attendre des explications d’un membre de cette institution devant la représentation élue du lycée.

      Nous aurions aussi saisi cette occasion pour ré-alerter la région, parmi tant d’autres choses, sur l’état de délabrement des toilettes de notre établissement, qui, mal construites, sont constamment inutilisables pour les élèves, et ce depuis l’ouverture du lycée. Ou le niveau d’effondrement de la structure de notre lycée fleuron, dont certaines poutres tombent déjà au milieu des élèves. Si la majorité régionale souhaite tant nous aider dans nos missions, qu’elle commence par répondre à nos courriers et à nos multiples appels à l’aide sur ce délabrement de l’établissement.
      De l’instrumentalisation du lycée

      Ce changement de nom est le signe d’une priorité politique qui nous dépassent et nous consternent, mais ne nous laissent pas dupes : les enjeux éducatifs sont secondaires, Valérie Pécresse qui fustige les positions « contraires aux lois de la République » d’Angela Davis, instrumentalise notre lycée pour donner des gages à son électorat dans la course à la surenchère avec l’extrême droite. En rejetant cette icône, il s’agit ici de répondre au « wokisme » présumé d’un nom en le remplaçant par un autre jugé plus consensuel.

      Au-delà de l’absurdité historique et politique qui consiste à opposer Angela Davis à Rosa Parks, deux femmes noires féministes et antiracistes, nous refusons de défendre une vision tronquée des valeurs de la République qui opère un tri partisan parmi les figures de l’histoire et ignore ouvertement l’expression démocratique des élèves, des parents et des enseignant·e·s.

      Nous refusons cette décision justifiée comme souvent par la droite au nom d’une défense d’une conception dévoyée de la laïcité. Nous refusons d’être les victimes de cette basse manœuvre politique, et nous refusons que les quartiers populaires soient, d’autant plus dans le contexte actuel de mobilisation de la jeunesse après la mort du jeune Nahel de la main de la police à Nanterre, à nouveau stigmatisés et instrumentalisés par cette droite bourgeoise et conservatrice.

      Encore une fois, c’est la voix de notre jeunesse qui est ignorée : alors que les élèves, avec les parents et l’entière communauté éducative, avaient voté pour Angela Davis, on piétine leur expression comme si elle n’était rien. Alors que les élèves ont choisi une figure militante noire et féministe pour représenter leur lycée, on leur oppose l’argument odieux que leur choix n’est pas assez « français » ou « républicain ». En imposant une décision autoritaire et absurde à la jeunesse du quartier de La Plaine Saint-Denis, madame Pécresse ne fait que jeter de l’huile sur le feu et affiche clairement son mépris pour nous, nos élèves, et leurs familles.

      Nous sollicitons donc l’intervention de notre ministre Pap Ndiaye, garant des libertés démocratiques de notre communauté éducative, qui s’est déjà exprimé en avril en faveur du nom Angela Davis, pour s’opposer à ce coup de force nauséabond. Nous appelons également les intellectuel·le·s et citoyen·ne·s à exprimer publiquement leur opposition à ce qui pourrait constituer un dangereux précédent, qui dit quelque chose de la droitisation extrême d’une partie de notre société.

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/lycee-angela-davis-les-enseignants-denoncent-un-coup-de-force-nauseabond-

    • Lycée Angela Davis débaptisé : sur France Inter, la militante américaine tacle Valérie Pécresse

      Durant l’été, Valérie Pécresse avait demandé de changer le nom d’un lycée de La Plaine Saint-Denis car des déclarations d’Angela Davis avaient été jugées « contraires aux lois de la République ».

      Une intervention inattendue, mais salutaire. Invitée de la matinale de France Inter ce lundi 20 novembre, l’activiste américaine et universitaire Angela Davis n’a pas manqué d’égratigner la présidente Les Républicains de la Région Île-de-France lors de ce passage en France.

      Il faut dire que la militante aujourd’hui âgée de 79 ans s’était bien malgré elle retrouvée au cœur d’une polémique politique durant l’été lorsque Valérie Pécresse avait refusé que le nom d’Angela Davis soit associé à un lycée de La Plaine Saint-Denis à cause de positions de cette dernière jugées « contraires aux lois de la République ».

      La décision avait alors été prise de remplacer le nom d’Angela Davis par celui de Rosa Parks, autre grande figure marquante de la lutte pour les droits civiques aux États-Unis. Interrogée par Sonia Devillers ce lundi sur cette décision votée en commission permanente par la majorité de droite, Angela Davis a taclé poliment la droite française et Valérie Pécresse.

      « Je ne peux pas dire que le lycée ne doit pas être nommée Rosa Parks », a-t-elle d’abord expliquée après avoir rappelé que Rosa Parks « a participé à la campagne pour (s)a liberté » et qu’elle a fait « beaucoup plus que refuser de céder sa place dans un bus » en tant que « militante et progressiste ».

      « Pourquoi Rosa Parks convient à la droite française, mais pas Angela Davis ? », lui demande alors la journaliste. « Parce que la droite française ne sait pas qui est Rosa Parks », glisse alors Angela Davis en souriant.

      « C’est au fond lui donner raison »

      Une pique délicate mais qui a le mérite de mettre l’élue des Républicains face à l’absurdité de sa décision. En effet, le 5 juillet, Valérie Pécresse avait motivé cette décision en condamnant des déclarations d’Angela Davis sur la France. « Dans ces conditions et compte tenu du fait qu’Angela Davis est toujours vivante et qu’elle peut continuer de s’exprimer de manière très positive sur l’État français (...) Je crois qu’il est nécessaire que nous rejetions la dénomination du lycée Angela Davis », avait ironisé la présidente de région.

      À la place, Valérie Pécresse avait proposé le nom de Rosa Parks, « figure emblématique de la ségrégation aux États-Unis, qui faisait partie de la présélection » pour renommer le lycée.

      Parmi les propos relevés par Valérie Pécresse pour échanger le nom d’Angela Davis : « le racisme systémique de l’État français » dénoncé par la militante. Une phrase extraite d’une tribune cosignée par Angela Davis en 2021 sur la « mentalité coloniale dans les structures de gouvernance de la France ».

      Le changement de nom avait toutefois été épinglé par Éric Coquerel, député LFI de la circonscription du lycée. « Débaptiser le lycée Angela-Davis à Saint-Denis, dans ma circonscription, parce que cette grande figure de la lutte pour les droits civiques aux États-Unis aurait dénoncé une certaine forme de racisme en France, c’est au fond lui donner raison », s’était-il permis de souligner.

      Tout comme l’opposition communiste au sein de la région Île-de-France, qui avait déploré dans un communiqué cette « nouvelle démonstration de la course à l’échalote qu’une partie de la droite se livre avec l’extrême droite dans la quête de marqueurs identitaires et réactionnaires ».

      Le ministre de l’Éducation au moment de la polémique, Pap Ndiaye, avait lui même jugé inopportun de procéder à un changement de nom de l’établissement quelques mois plus tôt et alors que le lycée porte ce nom depuis 2017.

      https://www.huffingtonpost.fr/france/article/lycee-angela-davis-debaptise-sur-france-inter-la-militante-americaine

  • Dedicato a chi rimpiange le statue degli schiavisti

    Il dibattito sui monumenti civici è appassionante. Ma il punto non è la riscrittura della storia quanto la contesa dello spazio pubblico. Dopo decenni di privatizzazioni.

    Da storico dell’arte trovo appassionante il dibattito che, in tutto l’Occidente, divampa intorno alle statue civiche. Il punto non è la riscrittura della storia, tantomeno la sua cancellazione (come vorrebbe la vulgata di destra che lo condanna): il vero oggetto di contesa è lo spazio pubblico come luogo in cui una comunità civile costruisce se stessa attraverso un giudizio sul passato e indica una via verso il futuro.

    È commovente che questo accada dopo decenni di privatizzazioni selvagge che tendono a far letteralmente sparire, in tutto il mondo, il concetto stesso di spazio pubblico. Si dovrà convenire che tenere (letteralmente) su un piedistallo nella piazza (centro della polis e dunque luogo politico per eccellenza) un personaggio, significa indicarlo come modello di virtù civili. È l’equivalente civile della santificazione: “Guardatelo, prendetelo a esempio, fate come lui”. La statua che vedete nella fotografia in questa pagina raffigura Edward Colston (1636-1721) ricco magnate della Bristol dell’età barocca, fondatore di scuole e filantropo: “Uno dei più virtuosi e saggi figli della città”, lo celebrava l’iscrizione sul basamento dell’opera che lo raffigura. Ma questo sant’uomo era uno dei più terribili schiavisti dell’età moderna: le sue navi trasportarono dalle coste africane all’America almeno 100mila persone rapite ai loro villaggi e ai loro affetti. Non meno di 20mila morirono durante le disumane traversate oceaniche.

    Ebbene, il 7 giugno 2020, l’onda lunga delle manifestazioni per la dignità della vita dei neri suscitata dall’uccisione di George Floyd a Minneapolis, ha travolto anche Edward Colston: la statua è stata abbattuta, mutilata, dileggiata e infine gettata in acqua a furor di popolo. Non ci nascondiamo dietro un dito: se masse oppresse in tutto l’Occidente non riescono a condividere la saggia svolta contro il vandalismo compiuta dalla Rivoluzione trionfante, è appunto perché sono tuttora oppresse e sconfitte. Negli ultimi vent’anni a Bristol si era aperto un duro confronto su questa statua: una petizione per la sua rimozione aveva raccolto 11mila firme, ma le autorità si sono opposte financo all’apposizione di una targa che facesse conoscere al pubblico le ombre della vita di quell’uomo vissuto quasi quattrocento anni fa. Eppure, numerose installazioni spontanee avevano reso visibile intorno alla figura bronzea di Colston l’immane tragedia che egli provocò. La notte del 18 ottobre 2018 (Giornata europea della tratta contro gli esseri umani), apparve intorno alla statua un’installazione artistica che presentava una serie di figurine di cemento giacenti a terra. Erano disposte secondo la pianta di una delle navi negriere in cui gli schiavisti come Colston trasportavano le persone in America.

    A lato dell’installazione erano presenti i nomi delle professioni odierne a rischio di schiavitù moderne: dagli addetti all’autolavaggio ai domestici, ai raccoglitori di frutta. Un eccellente esempio di risemantizzazione. L’artista Banksy ne ha proposto un altro: “Ecco un’idea che si rivolge sia a chi sente la mancanza della statua di Colston sia a chi non la sente -scrive Banksy ai suoi 9,4 milioni di follower su Instagram-. Lo tiriamo fuori dall’acqua, lo rimettiamo sul piedistallo, gli mettiamo un cavo attorno al collo e facciamo realizzare alcune statue di bronzo a grandezza naturale di manifestanti nell’atto di tirarlo giù. Tutti contenti. Un giorno straordinario commemorato”. Non sarebbe una cattiva idea.

    https://altreconomia.it/dedicato-a-chi-rimpiange-le-statue-degli-schiavisti

    #monument #monuments #statue #esclavage #toponymie_politique
    #espace_public #Edward_Colston #Colston
    ping @cede

  • #Mapping_Diversity

    Mapping Diversity is a platform for discovering key facts about diversity and representation in street names across Europe, and to spark a debate about who is missing from our urban spaces.

    We looked at the names of 145,933 streets across 30 major European cities, located in 17 different countries. More than 90% of the streets named after individuals are dedicated to white men. Where did all the other inhabitants of Europe end up? The lack of diversity in toponymy speaks volumes about our past and contributes to shaping Europe’s present and future.


    https://mappingdiversity.eu
    #cartographie #noms_de_rue #toponymie #toponymie_féministe #toponymie_politique #visualisation #Europe #base_données #villes #urban_matter #ressources_pédagogiques

    ping @_kg_ @cede

    • Pocas y ocultas: la infrarrepresentación de las mujeres en el callejero de Europa

      Da igual que sea una calle principal en las afueras de una gran ciudad o un pequeño callejón en el centro histórico; en Escandinavia o en el Mediterráneo; en la ciudad más occidental de Europa o en la sufrida Kiev. Las calles del Viejo Continente tienen una cosa en común: rinden homenaje a muchos más hombres que mujeres.

      La European Data Journalism Network (EDJNet) ha analizado, con la participación de El Orden Mundial, 145.933 calles en 30 grandes ciudades de 17 países de la Unión Europea o candidatos a formar parte del grupo comunitario. De todas ellas, el 91% llevan nombre masculino. Incluso en la ciudad con menor brecha de género, Estocolmo, las calles que homenajean a hombres siguen suponiendo más del 80% del callejero.

      No todas las ciudades son iguales

      En algunas ciudades de Europa, particularmente en el norte y el este del continente, es relativamente común dedicar nombres de calles a personas. Además de la capital sueca, las urbes con mayor representación de mujeres son las españolas (Madrid, Barcelona y Sevilla) y Copenhague, aunque en el caso de España las cifras están condicionadas por la gran cantidad de calles dedicadas a las vírgenes católicas (211 calles en 3 ciudades). En el lado contrario, menos de un 5% de las calles de Atenas, Praga y Debrecen (Hungría) tienen nombre de mujer.

      En total, la EDJNet ha identificado 41.000 individuos con al menos una calle en su honor, y aunque Europa es una región densamente poblada y con cientos de años de rica historia, solo 3.500 mujeres aparecen en el callejero de las 30 ciudades que forman parte de la investigación. Si todas ellas hubiesen coincidido en el tiempo, apenas ocuparían las casas y viviendas de una simple avenida. La preponderancia de figuras masculinas en las calles de Europa es un fuerza sublime pero constate que ayuda a perpetuar la marginación de las mujeres y su contribución a la historia, la cultura y la ciencia.

      La Virgen María y Santa Ana son las figuras femeninas mas populares en el callejero de las ciudades analizadas por la EDJNet. Pese a esto, la mayoría de calles dedicadas a mujeres no son de figuras religiosas, sino del mundo de la cultura y la ciencia, incluidas escritoras y artistas. La nobleza y la política son otros campos con una representación fuerte en el callejero femenino de Europa.

      Existen, eso sí, diferencias entre ciudades. Tanto Copenhague como Cracovia tiene 71 calles dedicadas a mujeres, pero en la primera ciudad solo hay una figura religiosa, mientras que en la capital polaca son diez. Las diferencias son mucho más pequeñas cuando se analiza el origen de estas mujeres: aparte de algunas santas de Oriente Medio, la inmensa mayoría son mujeres europeas. Solo destacan dos excepciones: la líder india Indira Gandhi y la artista sudafricana Miriam Makeba.
      Una brecha que no se cierra

      La gran brecha de género en el callejero europeo no sorprende si se tienen en cuenta los siglos de discriminación que han sufrido las mujeres en la educación, la vida pública y la economía. Los paisajes urbanos tienden a reflejar las relaciones de poder que existían cuando se construyeron las calles. En el caso de Europa, esto sucedió en el siglo XIX y principios del XX.

      Gracias al esfuerzo de activistas o intelectuales, la concienciación en torno a la sobrerrepresentación de hombres blancos y ricos en el callejero ha crecido en Europa. Sin embargo, los datos sugieren que esta concienciación aún no se ha visto acompañada de un cambio significativo en los nombres de las calles. Durante los últimos diez años, ninguna de las grandes ciudades de Europa ha estado cerca de cerrar la brecha de género, y en algunos casos se ha perpetuado: en el periodo 2012-2022, ciudades como Ámsterdam, Berlín, Valencia o Milán siguieron dedicando más calles a hombres que mujeres.

      «Desde 2017, hemos aplicado estrictamente el reparto equitativo en la denominación de las calles, homenajeando a una nueva mujer por cada nuevo hombre. Sin embargo, todavía recibimos muchas más propuestas de nombres masculinos, unas diez veces más, que nombres femeninos», dice Antonella Amodio, la funcionaria a cargo de seleccionar los nombres de las calles en Milán. Una mayor sensibilidad hacia el tema ha llevado a una mayor concienciación: la ciudad ahora monitorea la brecha de género y está construyendo un sitio web dedicado a explorar lugares y monumentos dedicados a mujeres destacadas y sus vidas.

      Pero aplicar la paridad no es suficiente para cerrar la brecha de género. De hecho, ni siquiera sería suficiente si todas las calles nuevas llevasen nombre de mujer. Las ciudades europeas simplemente no crecen tan rápido como solían hacer, y solo se construyen algunas decenas de calles cada año. En la actualidad hay 43.330 calles más dedicas a hombres que a mujeres en las ciudades analizadas, por lo que la desigualdad tardaría siglos en cerrarse.

      Es más, los expertos advierten de que las nuevas valles dedicadas a mujeres tienden a estar localizadas en áreas periféricas, zonas residenciales donde la visibilidad es menor, como el barrio de Sanchinarro en Madrid. Por contra, las calles con nombres de hombres siguen siendo las avenidas y plazas más importantes de los centros históricos.

      https://elordenmundial.com/mapas-y-graficos/infrarrepresentacion-mujeres-callejero-europa

  • En Soutien à l’Ukraine dans la guerre d’invasion et d’agression menée par la Russie : une plateforme pour le changement des noms de rues dans lesquelles se trouvent les représentations russes
    https://neotopo.hypotheses.org/4929

    La plateforme Ukraine Street regroupe l’ensemble des pétitions en cours et abouties réclamant des changements de noms de voies ou places où se situent les représentations russes (ambassades et consulats). Elles concernent 35 pays...

    #A_votre_vote_ !A_vos_noms ! #ExploreNeotopo #Neotopo_vous_signale #Toponobservations

  • #Alana_Osbourne - “Decolonial Tours” - 30th June 2022 - Beyond Inhabitation Lab Spring Seminar Series

    I focus on tour guides who offer decolonial narratives and experiences of Brussels to an eclectic and changing audience. Drawing on the embodied temporalities of walking tours and by reviving urban memories, these guides give texture and shape to the city’s sensorium in a way that reaffirms black life against the resonances of colonialism in Belgium. Suturing past, present and future, this quilting of urban times fosters new relationships between people, landscapes and histories, and opens spaces of togetherness within a riven city.

    Dr. Alana Osbourne is a FNRS post-doctoral fellow at the Anthropological Laboratory for Contemporary Worlds (LAMC) at the Brussels Free University (ULB | Université Libre de Bruxelles). An anthropologist and filmmaker, her research interests include: sensorial anthropology and affect, the anthropology of violence, archival studies, Caribbean studies and film. She alternates her academic work with film and theatre projects.

    https://www.youtube.com/watch?v=03AOAlPxQV8


    #balade_décoloniale #Bruxelles #Belgique #décolonial #villes #urban_matter #temps #passé #présent #conférence #toponymie #toponymie_politique

    via @cede

    • #There_Are_Black_People_In_The_Future

      There are Black People in the Future is inspired by afro-futurist artists and writers who highlight the need for Black people to claim their place. Through the inscription and utterance of the words, ‘There are Black People in the Future,’ the project addresses systemic oppression of black communities through space and time by reassuring the presence of Black bodies. In 2017, Wormsley placed these words on a billboard in East Liberty, a neighborhood in Pittsburgh’s east end that has suffered gentrification. When the billboard was removed by the city, community members protested, in response to this community support, Wormsley has raised grant money to artists, activists, and community workers in Pittsburgh around their interpretation of the phrase “There Are Black People in the Future”. Since then, the billboard has been replicated in Detroit, Charlotte, New York City, Kansas City and Houston, internationally London, Accra and Qatar. Each site can pull from this precedence of supporting Black futures locally, whether through commissions, grants, project funding or programming. The text, which Wormsley encourages others to use freely, has since been used in protest, critical art theory, essays, song, testimony and collective dreaming.


      https://www.alishabwormsley.com/tabpitf

      #art #TABPITF #Alisha_Wormsley

    • La conférence de Alana Osbourne commence par introduire (et se construit à partir de) du rapport de la #commission_parlementaire (belge) chargée d’examiner le #passé_colonial :
      Le #rapport sur le passé colonial de la Belgique achoppe sur la question des #excuses

      Après deux ans et demi de travaux, des déplacements en République démocratique du Congo, au Rwanda, au Burundi, l’audition de près de 300 personnes, la commission parlementaire chargée d’examiner le passé colonial du pays devait remettre son rapport final. Mais les libéraux ont refusé d’adopter le texte lundi.

      L’écologiste Wouter de Vriendt, qui préside la commission parlementaire chargée d’examiner le passé colonial de la Belgique, avait demandé que la chambre des représentants présente des excuses aux peuples congolais, burundais et rwandais pour « la #domination et l’#exploitation_coloniale, les #violences et les #atrocités, les violations individuelles et collectives des droits humains durant cette période, ainsi que le #racisme et la #discrimination qui les ont accompagnées ».

      #Wouter_de_Vriendt invitait également « le pouvoir exécutif à faire des démarches analogues sur le plan des #réparations_symboliques ». Le président de la commission précisait bien que cette #reconnaissance du rôle de la Belgique, n’impliquerait aucune #responsabilité_juridique et ne pourrait donc donner lieu à une #réparation_financière.

      Des précautions qui n’ont pas suffi à convaincre les députés libéraux. Ces derniers ont claqué la porte de la commission lundi 19 décembre. Ils refusent que soient présentées des excuses, car celles-ci pourraient entraîner selon eux des réparations financières, ce dont ils ne veulent pas entendre parler. Ces députés préfèrent ainsi en rester aux regrets présentés par le roi.

      Faute d’accord sur cette question des excuses, la commission ne remettra donc pas son rapport final. C’est là un échec, d’autant plus douloureux que nombre de recommandations formulées par le président de cette commission semblaient faire consensus.

      https://www.rfi.fr/fr/afrique/20221220-les-excuses-au-c%C5%93ur-des-dissensions-parlementaires-sur-le-pass%C3%

  • Un quartier de #Berlin rebaptise des lieux avec les noms de résistants africains à la #colonisation

    Une rue et une #place portant le nom de personnalités phares du colonialisme allemand ont été débaptisées, début décembre, dans le quartier de #Wedding. Elles ont désormais le nom de résistants ayant œuvré, au début du XXe siècle, contre l’action de l’Allemagne en Afrique.

    “Fini d’honorer les dirigeants de la colonisation.” Comme le rapporte le Tagesspiegel, plusieurs lieux du “quartier africain” de Berlin ont été rebaptisés, dans le cadre d’une initiative menée par les autorités locales. “L’ancienne place #Nachtigal est devenue la place #Manga-Bell ; et la rue #Lüderitz, la rue #Cornelius-Fredericks”, détaille le titre berlinois. Le tout au nom du “travail de mémoire” et du “#décolonialisme”.

    #Gustav_Nachtigal et #Adolf_Lüderitz, dont les noms ornaient jusqu’à présent les plaques du quartier, avaient tous deux “ouvert la voie au colonialisme allemand”. Ils ont été remplacés par des personnalités “qui ont été victimes de ce régime injuste”.

    À savoir Emily et Rudolf Manga Bell, le couple royal de Douala qui s’est opposé à la politique d’expropriation des terres des autorités coloniales allemandes au #Cameroun, et Cornelius Fredericks, résistant engagé en faveur du peuple des #Nama, avant d’être emprisonné et tué dans le camp de concentration de #Shark_Island, dans l’actuelle #Namibie.

    “Indemnisation symbolique”

    “Les noms des rues du quartier africain ont fait polémique pendant plusieurs années”, assure le journal berlinois. Lorsqu’en 2018 l’assemblée des délégués d’arrondissement de ce quartier, Wedding, dans l’arrondissement de #Berlin-Mitte, avait proposé pour la première fois de changer les noms de certains lieux, près de 200 riverains étaient montés au créneau, critiquant notamment le coût de la mesure. Ils assuraient par ailleurs qu’“on ne peut pas faire disparaître l’histoire des plaques de rue”.

    Mais les associations des différentes diasporas africaines, elles, considèrent que les changements de noms sont importants, dans un pays “où les crimes du colonialisme allemand ne sont pas éclaircis systématiquement”. L’Empire allemand a en effet été responsable de diverses atrocités commises pendant sa courte période coloniale – comme le génocide des Héréro et des Nama, entre 1904 et 1908, dans ce que l’on appelait à l’époque le “Sud-Ouest africain allemand” et qui correspond aujourd’hui à la Namibie.

    Cet épisode de l’histoire n’a été reconnu par l’Allemagne qu’en mai 2021, rappellent les organisations décoloniales d’outre-Rhin. “Elles demandent de nouveaux noms de rue à titre d’indemnisation symbolique pour les victimes, mais également à titre éducatif.”

    https://www.courrierinternational.com/article/memoire-un-quartier-de-berlin-rebaptise-des-lieux-avec-les-no

    #toponymie #toponymie_politique #colonialisme #résistance #noms_de_rue #rebaptisation #colonialisme_allemand #Allemagne_coloniale #Allemagne #toponymie_coloniale #mémoire

    ping @cede @nepthys

    • Keine Ehre für Kolonialherren in Berlin: Straßen im Afrikanischen Viertel werden umbenannt

      Aus dem Nachtigalplatz wird am Freitag der Manga-Bell-Platz und aus der Lüderitzstraße die Cornelius-Fredericks-Straße. Anwohner hatten gegen die Umbenennung geklagt.

      Nach jahrelangen Protesten werden ein Platz und eine Straße im Afrikanischen Viertel in Wedding umbenannt. Aus dem bisherigen Nachtigalplatz wird der Manga-Bell-Platz und aus der Lüderitzstraße die Cornelius-Fredericks-Straße.

      „Straßennamen sind Ehrungen und Teil der Erinnerungskultur“, sagte Bezirksbürgermeisterin Stefanie Remlinger (Grüne). Daher sei es eine wichtige Aufgabe, Namen aus dem Berliner Straßenbild zu tilgen, die mit Verbrechen der Kolonialzeit im Zusammenhang stehen.

      Gustav Nachtigal und Adolf Lüderitz waren Wegbereiter des deutschen Kolonialismus, der im Völkermord an den Herero und Nama gipfelte. An ihrer Stelle sollen nun Menschen geehrt werden, die Opfer des deutschen Unrechtsregimes wurden.

      Das Königspaar Emily und Rudolf Duala Manga Bell setzte sich nach anfänglicher Kooperation mit deutschen Kolonialautoritäten gegen deren Landenteignungspolitik zur Wehr. Cornelius Fredericks führte den Widerstandskrieg der Nama im damaligen Deutsch-Südwestafrika, dem heutige Namibia, an. Er wurde 1907 enthauptet und sein Schädel zur „Erforschung der Rassenüberlegenheit“ nach Deutschland geschickt und an der Charité aufbewahrt.

      Über die Straßennamen im Afrikanischen Viertel wurde viele Jahre gestritten. Im April 2018 hatte die Bezirksverordnetenversammlung Mitte nach langem Hin und Her beschlossen, den Nachtigalplatz, die Petersallee und die Lüderitzstraße umzubenennen. Dagegen hatten 200 Gewerbetreibende sowie Anwohnende geklagt und die Namensänderungen bis jetzt verzögert. Im Fall der Petersallee muss noch über eine Klage entschieden werden.

      Geschichte könne nicht überall von Straßenschildern getilgt werden, argumentieren die Gegner solcher Umbenennungen. Denn konsequent weitergedacht: Müsste dann nicht sehr vielen, historisch bedeutenden Personen die Ehre verweigert werden, wie etwa dem glühenden Antisemiten Martin Luther?
      Klagen verzögern auch Umbenennung der Mohrenstraße

      Ein anderes viel diskutiertes Beispiel in Mitte ist die Mohrenstraße, deren Namen als rassistisch kritisiert wird. Auch hier verzögern Klagen die beschlossene Umbenennung. Gewerbetreibende argumentieren auch mit Kosten und Aufwand für Änderung der Geschäftsunterlagen.

      Vor allem afrodiasporische und solidarische Organisationen wie der Weddinger Verein Eoto und Berlin Postkolonial kämpfen für die Straßenumbenennungen. Sie fordern sie als symbolische Entschädigung für die Opfer, aber auch als Lernstätte. Denn bis heute fehlt es oft an Aufklärung über die deutschen Verbrechen. Die Debatte darüber kam erst in den letzten Jahren in Gang.

      Wenn am Freitag ab 11 Uhr die neuen Straßenschilder enthüllt werden, sind auch die Botschafter Kameruns und Namibias sowie König Jean-Yves Eboumbou Douala Bell, ein Nachfahre des geehrten Königspaares, dabei. Die Straßenschilder werden mit historischen Erläuterungen versehen. (mit epd)

      https://www.tagesspiegel.de/berlin/bezirke/keine-ehre-fur-kolonialherren-in-berlin-strassen-im-afrikanischen-viert

    • Benannt nach Kolonialverbrechern: #Petersallee, Nachtigalplatz - wenn Straßennamen zum Problem werden

      Die #Mohrenstraße in Berlin wird umbenannt. Im Afrikanischen Viertel im Wedding dagegen wird weiter über die Umbenennung von Straßen gestritten.

      Die Debatte über den Umgang mit kolonialen Verbrechen, sie verläuft entlang einer Straßenecke im Berliner Wedding. Hier, wo die Petersallee auf den Nachtigalplatz trifft, wuchert eine wilde Wiese, ein paar Bäume werfen kurze Schatten, an einigen Stellen bricht Unkraut durch die Pflastersteine des Bürgersteigs. Kaum etwas zu sehen außer ein paar Straßenschildern. Doch um genau die wird hier seit Jahren gestritten.

      Am Mittwoch hat die Bezirksverordnetenversammlung Berlin-Mitte beschlossen, die Mohrenstraße in Anton-Wilhelm-Amo-Straße umzubenennen, nach einem widerständigen afrikanischen Gelehrten. Im gleichen Bezirk hat die Organisation „Berlin Postkolonial“ in dieser Woche ein Informationszentrum zur deutschen Kolonialgeschichte in der Wilhelmstraße eröffnet – in den kommenden vier Jahren soll es von Erinnerungsort zu Erinnerungsort ziehen.

      Das Zentrum ist die erste speziell dem Thema gewidmete öffentliche Anlaufstelle in der Stadt.

      Andernorts aber kämpft man seit Jahren nach wie vor erfolglos für eine Umbenennung von Straßennamen mit Bezügen zur Kolonialzeit. In ganz Deutschland gibt es noch immer mehr als 150 – im Berliner Wedding treten sie besonders geballt im sogenannten Afrikanischen Viertel auf. Orte wie die Petersallee, der Nachtigalplatz und die Lüderitzstraße. Orte, die nach deutschen Kolonialverbrechern benannt sind.
      #Carl_Peters wurde wegen seiner Gewalttaten „blutige Hand“ genannt. Gustav Nachtigal unterwarf die Kolonien Togo, Kamerun und Deutsch-Südwestafrika.

      Carl Peters (1856–1918) war die treibende Kraft hinter der Gründung der ehemaligen deutschen Kolonie #Deutsch-Ostafrika, seine Gewalttätigkeit brachte ihm die Spitznamen „Hänge-Peters“ und „blutige Hand“ ein. Gustav Nachtigal (1834– 1885) nahm eine Schlüsselrolle ein bei der Errichtung der deutschen Herrschaft über die drei westafrikanischen Kolonien Togo, Kamerun und Deutsch-Südwestafrika, das heutige Namibia. Und der Bremer Kaufmann Adolf Eduard Lüderitz (1834–1886) gilt als der Mann, der das deutsche Kolonialreich mit einem betrügerischen Kaufvertrag in Gang setzte.

      Eine Ehrung für außergewöhnliche Leistungen

      Straßennamen sollen eine besondere Ehrung darstellen, sie sollen an Menschen erinnern, die außergewöhnlich Gutes geleistet haben. Das deutsche Kolonialreich aufgebaut zu haben, fällt nicht mehr in diese Kategorie. Aus diesem Grund wurden in der Geschichte der Bundesrepublik bislang allein 19 Straßen umbenannt, die Carl Peters im Namen trugen. Das erste Mal war das 1947 in Heilbronn. Der aktuellste Fall findet sich 2015 in Ludwigsburg. Auch nach dem Ende des Nationalsozialismus und dem der DDR hat man im großen Stil Straßen umbenannt, die als Würdigung problematischer Personen galten.

      Im Wedding ist wenig passiert, in der Welt zuletzt viel. Die Ermordung des schwarzen US-Amerikaners George Floyd hat Proteste ausgelöst, weltweit. Gegen Rassismus, gegen Polizeigewalt. Aber auch gegen die noch immer präsenten Symbole des Kolonialismus, dem diese Ungerechtigkeiten, diese Unterdrückungssysteme entspringen. Im englischen Bristol stürzten Demonstranten die Statue des Sklavenhändlers Edward Colston von ihrem Sockel und versenkten sie im Hafenbecken.

      „Krieg den Palästen“

      Ein alter Gewerbehof in Kreuzberg unweit des Landwehrkanals, Sommer 2019. Tahir Della, Sprecher der Initiative Schwarze Menschen in Deutschland, sitzt an seinem Schreibtisch in einem Co-Working-Space. Um ihn herum Bücher, Flyer. Hinter Della lehnen zwei große Plakate. Auf dem einen steht: „Black Lives Matter“. Auf dem anderen: „Krieg den Palästen“. Ein paar Meter über Dellas Kopf zieht sich eine großformatige Bildergalerie durch die ganze Länge des Raums. Fotos von Schwarzen Menschen, die neue Straßenschilder über die alten halten.

      „Die kolonialen Machtverhältnisse wirken bis in die Gegenwart fort“, sagt Della. Weshalb die Querelen um die seit Jahren andauernde Straßenumbenennung im Wedding für ihn auch Symptom eines viel größeren Problems sind: das mangelnde Bewusstsein und die fehlende Bereitschaft, sich mit der deutschen Kolonialvergangenheit auseinanderzusetzen. „Die Leute haben Angst, dieses große Fass aufzumachen.“

      Denn wer über den Kolonialismus von damals spreche, der müsse auch über die Migrations- und Fluchtbewegungen von heute reden. Über strukturellen Rassismus, über racial profiling, über Polizeigewalt, darüber, wo rassistische Einordnungen überhaupt herkommen.

      Profiteure der Ausbeutung

      „Deutsche waren maßgeblich am Versklavungshandel beteiligt“, sagt Della. In Groß Friedrichsburg zum Beispiel, an der heutigen Küste Ghanas, errichtete Preußen schon im 17. Jahrhundert ein Fort, um von dort aus unter anderem mit Sklaven zu handeln. „Selbst nach dem sogenannten Verlust der Kolonien hat Europa maßgeblich von der Ausbeutung des Kontinents profitiert, das gilt auch für Deutschland“, sagt Della.

      Viele Menschen in diesem Land setzen sich aktuell zum ersten Mal mit dem Unrechtssystem des Kolonialismus auseinander und den Privilegien, die sie daraus gewinnen. Und wenn es um Privilegien geht, verhärten sich schnell die Fronten. Weshalb aus einer Debatte um die Umbenennung von kolonialen Straßennamen in den Augen einiger ein Streit zwischen linkem Moralimperativ und übervorteiltem Bürgertum wird. Ein Symptom der vermeintlichen Empörungskultur unserer Gegenwart.

      Ein unscheinbares Café im Schatten eines großen Multiplexkinos, ebenfalls im Sommer 2019. Vor der Tür schiebt sich der Verkehr langsam die Müllerstraße entlang, dahinter beginnt das Afrikanische Viertel. Drinnen warten Johann Ganz und Karina Filusch, die beiden Sprecher der Initiative Pro Afrikanisches Viertel.
      Die Personen sind belastet, aber die Namen sollen bleiben

      Ganz, Anfang 70, hat die Bürgerinitiative 2010 ins Leben gerufen. Sie wünschen sich eine Versachlichung. Er nennt die betreffenden Straßennamen im Viertel „ohne Weiteres belastet“, es sei ihm schwergefallen, sie auf Veranstaltungen zu verteidigen. Warum hat er es dennoch getan?

      Seine Haltung damals: Die Personen sind belastet, aber die Straßennamen sollten trotzdem bleiben.

      „Da bin ich für die Bürger eingesprungen“, sagt Ganz, „weil die das absolut nicht gewollt haben.“ Und Filusch ergänzt: „Weil sie nicht beteiligt wurden.“

      Allein, das mit der fehlenden Bürgerbeteiligung stimmt so nicht. Denn es gab sie – obwohl sie im Gesetz eigentlich gar nicht vorgesehen ist. Für die Benennung von Straßen sind die Bezirksverwaltungen zuständig. Im Falle des Afrikanischen Viertels ist es das Bezirksamt Mitte. Dort entschied man, den Weg über die Bezirksverordnetenversammlung zu gehen.
      Anwohner reichten 190 Vorschläge ein

      In einem ersten Schritt bat man zunächst die Anwohner, Vorschläge für neue Namen einzureichen, kurze Zeit später dann alle Bürger Berlins. Insgesamt gingen etwa 190 Vorschläge ein, über die dann eine elfköpfige Jury beriet. In der saß neben anderen zivilgesellschaftlichen Akteuren auch Tahir Della, als Vertreter der Schwarzen Community. Nach Abstimmung, Prüfung, weiteren Gutachten und Anpassungen standen am Ende die neuen Namen fest, die Personen ehren sollen, die im Widerstand gegen die deutsche Kolonialmacht aktiv waren.

      Die #Lüderitzstraße soll in Zukunft #Cornelius-Fredericks-Straße heißen, der Nachtigalplatz in Manga-Bell-Platz umbenannt werden. Die Petersallee wird in zwei Teilstücke aufgeteilt, die #Anna-Mungunda-Allee und die #Maji-Maji-Allee. So der Beschluss des Bezirksamts und der Bezirksverordnetenversammlung im April 2018. Neue Straßenschilder hängen aber bis heute nicht.

      Was vor allem am Widerstand der Menschen im Viertel liegt. Mehrere Anwohner haben gegen die Umbenennung geklagt, bis es zu einer juristischen Entscheidung kommt, können noch Monate, vielleicht sogar Jahre vergehen.

      Eine Generation will endlich gehört werden

      Auf der einen Seite ziehen sich die Prozesse in die Länge, auf der anderen steigt die Ungeduld. Wenn Tahir Della heute an die jüngsten Proteste im Kontext von „Black Lives Matter“ denkt, sieht er vor allem auch eine jüngere Generation, die endlich gehört werden will. „Ich glaube nicht, dass es gleich nachhaltige politische Prozesse in Gang setzt, wenn die Statue eines Versklavungshändlers im Kanal landet“, sagt Della, „aber es symbolisiert, dass die Leute es leid sind, immer wieder sich und die offensichtlich ungerechten Zustände erklären zu müssen.“

      In Zusammenarbeit mit dem Berliner Peng-Kollektiv, einem Zusammenschluss von Aktivisten aus verschiedenen Bereichen, hat die Initiative kürzlich eine Webseite ins Leben gerufen: www.tearthisdown.com/de. Dort findet sich unter dem Titel „Tear Down This Shit“ eine Deutschlandkarte, auf der alle Orte markiert sind, an denen beispielsweise Straßen oder Plätze noch immer nach Kolonialverbrechern oder Kolonialverbrechen benannt sind. Wie viel Kolonialismus steckt im öffentlichen Raum? Hier wird er sichtbar.

      Bemühungen für eine Umbenennung gibt es seit den Achtzigerjahren

      Es gibt viele Organisationen, die seit Jahren auf eine Aufarbeitung und Auseinandersetzung mit dem Unrecht des Kolonialismus drängen. Zwei davon sitzen im Wedding, im sogenannten Afrikanischen Viertel: EOTO, ein Bildungs- und Empowerment-Projekt, das sich für die Interessen Schwarzer, afrikanischer und afrodiasporischer Menschen in Deutschland einsetzt, und Berlin Postkolonial.

      Einer der Mitbegründer dieses Vereins ist der Historiker Christian Kopp. Zusammen mit seinen Kollegen organisiert er Führungen durch die Nachbarschaft, um über die Geschichte des Viertels aufzuklären. Denn Bemühungen, die drei Straßen umzubenennen, gibt es schon seit den achtziger Jahren.

      Kopp erzählt auch von der erfolgreichen Umbenennung des Gröbenufers in Kreuzberg im Jahr 2010, das seitdem den Namen May-Ayim-Ufer trägt. „Vor zehn Jahren wollte niemand über Kolonialismus reden“, sagt Kopp. Außer man forderte Straßenumbenennungen. „Die Möglichkeit, überhaupt erst eine Debatte über Kolonialismus entstehen zu lassen, die hat sich wohl vor allem durch unsere Umbenennungsforderungen ergeben.“

      Rassismus und Raubkunst

      2018 haben sich CDU und SPD als erste deutsche Bundesregierung überhaupt die „Aufarbeitung des Kolonialismus“ in den Koalitionsvertrag geschrieben. Auch die rot-rot-grüne Landesregierung Berlins hat sich vorgenommen, die Rolle der Hauptstadt in der Kolonialzeit aufzuarbeiten.

      Es wird öffentlich gestritten über das koloniale Erbe des Humboldt-Forums und dem Umgang damit, über die Rückgabe von kolonialer Raubkunst und die Rückführung von Schädeln und Gebeinen, die zu Zwecken rassistischer Forschung einst nach Deutschland geschafft wurden und die bis heute in großer Zahl in Sammlungen und Kellern lagern.

      Auch die Initiative Pro Afrikanisches Viertel hat ihre Positionen im Laufe der vergangenen Jahre immer wieder verändert und angepasst. War man zu Beginn noch strikt gegen eine Umbenennung der Straßen, machte man sich später für eine Umwidmung stark, so wie es 1986 schon mit der Petersallee geschehen ist. Deren Name soll sich nicht mehr auf den Kolonialherren Carl Peters beziehen, sondern auf Hans Peters, Widerstandskämpfer gegen den Nationalsozialismus und Mitglied des Kreisauer Kreises.

      Straßen sollen vorzugsweise nach Frauen benannt werden

      Heute ist man bei der Initiative nicht mehr für die alten Namen. Für die neuen aber auch nicht wirklich. Denn diese würden nicht deutlich genug im Kontext deutscher Kolonialgeschichte stehen, sagt Karina Filusch, Sprecherin der Initiative. Außerdem würden sie sich nicht an die Vorgabe halten, neue Straßen vorzugsweise nach Frauen zu benennen.

      An Cornelius Fredericks störe sie der von den „Kolonialmächten aufoktroyierte Name“. Und Anna Mungunda habe als Kämpferin gegen die Apartheid zu wenig Verbindung zum deutschen Kolonialismus. Allgemein wünsche sie sich einen Perspektivwechsel, so Filusch.

      Ein Perspektivwechsel weg von den weißen Kolonialverbrechern hin zu Schwarzen Widerstandskämpfern, das ist das, was Historiker Kopp bei der Auswahl der neuen Namen beschreibt. Anna Mungunda, eine Herero-Frau, wurde in Rücksprache mit Aktivisten aus der Herero-Community ausgewählt. Fredericks war ein Widerstandskämpfer gegen die deutsche Kolonialmacht im heutigen Namibia.
      Bezirksamt gegen Bürger? Schwarz gegen Weiß?

      Für die einen ist der Streit im Afrikanischen Viertel eine lokalpolitische Auseinandersetzung zwischen einem Bezirksamt und seinen Bürgern, die sich übergangen fühlen. Für die anderen ist er ein Symbol für die nur schleppend vorankommende Auseinandersetzung mit der deutschen Kolonialgeschichte.

      Wie schnell die Dinge in Bewegung geraten können, wenn öffentlicher Druck herrscht, zeigte kürzlich der Vorstoß der Berliner Verkehrsbetriebe. Angesichts der jüngsten Proteste verkündete die BVG, die U-Bahn-Haltestelle Mohrenstraße in Glinkastraße umzutaufen.

      Ein Antisemit, ausgerechnet?

      Der Vorschlag von Della, Kopp und ihren Mitstreitern war Anton-W.-Amo- Straße gewesen, nach dem Schwarzen deutschen Philosophen Anton Wilhelm Amo. Dass die Wahl der BVG zunächst ausgerechnet auf den antisemitischen russischen Komponisten Michail Iwanowitsch Glinka fiel, was viel Kritik auslöste, offenbart für Della ein grundsätzliches Problem: Entscheidungen werden gefällt, ohne mit den Menschen zu reden, die sich seit Jahrzehnten mit dem Thema beschäftigen.

      Am Dienstag dieser Woche ist der Berliner Senat einen wichtigen Schritt gegangen: Mit einer Änderung der Ausführungsvorschriften zum Berliner Straßengesetz hat er die Umbenennung umstrittener Straßennamen erleichtert. In der offiziellen Mitteilung heißt es: „Zukünftig wird ausdrücklich auf die Möglichkeit verwiesen, Straße umzubenennen, wenn deren Namen koloniales Unrecht heroisieren oder verharmlosen und damit Menschen herabwürdigen.“

      https://www.tagesspiegel.de/gesellschaft/petersallee-nachtigalplatz-wenn-strassennamen-zum-problem-werden-419073

  • #Malik_Oussekine

    Demain sera l’anniversaire de l’assassinat de #MalikOussekine par le pelotons voltigeurs de la police nationale dans la nuit du 5 au 6 décembre 1986.
    Nous manifesterons du métro Odéon métro Luxembourg en renommant la rue monsieur le Prince (où il a été tué) « rue #Malik_Oussekine »


    https://twitter.com/SautereyF/status/1599337417827549187
    #toponymie #toponymie_politique #noms_de_rue

  • Delhi Outram Estate, Islington

    Just north of London Kings X lies the “#Delhi_Outram_Estate” in #Islington, a council estate built in the late 1970s which appears to commemorate the Indian Rebellion of 1857 (& its brutal suppression by the British) with streets named after those associated with its key events.

    Some of the streets predate the estate itself, presumably having been named soon after the suppression of the Mutiny and the establishment of the Raj proper. Delhi Street was named after the Mughal capital of India, whose fall to the British was a significant event, in 1871.

    Similarly Outram Place would seem to run along the erstwhile Outram St, recorded in the 1861 Census, and named after “General Sir James Outram, who along with Havelock, relieved Lucknow”

    Sir Henry Havelock, who died of dysentery a few days after the Siege of Lucknow ended, also got a street named after him pretty much contemporaneously. Havelock St seems to have been laid out between 1856-9.

    But some of the names of streets in the estate seem to date from the redevelopment of this area into the present council estate, in the late 1970s. Vibart Walk, named in 1980, May be named after Edward Vibart, who was an EIC army officer who chronicled the events of 1857…

    … or his father, Major Edward Vibart, who was executed on June 27, 1857 by the rebels after being captured in Kanpur. Who knows? But Islington Council did name this “walk” after this “hero” of 1857 as late as 1980.

    And then we have Brydon Walk, named after William Brydon, an EIC Army Surgeon who was one of the few of 4,500 men & 12,000 accompanying civilians to survive the “long retreat” from Kabul to Jalalabad in 1842 & survived the siege of the Lucknow Residency (a survivor, this one!)

    Then, we have Campbell Walk, named in 1980 after Sir Colin Campbell, Baron Clyde, who was commander of the British forces in India during the Rebellion. He “never married or fathered any children”…. Hmm.

    Finally, there’s Lawrence Place, named after Sir Henry Lawrence, who died during the siege of Lucknow. Also named in 1980. Incidentally, his son was created 1st Baronet Lawrence of Lucknow, in 1868. The Baronetcy survives; their apparent is one Christopher Cosmo Lawrence, a visual effects supervisor who won an Oscar for his work on Gravity in 2013 & has been nominated thrice since. Anyway, thought Islington Council naming streets after colonial celebrities as late as 1980 was … fascinating.

    All the information on street names and dates comes from the wonderful “Streets With a Story: The Book of Islington” by Eric A Willats, which I found online.

    https://twitter.com/sd268/status/1597333942361018368
    #Londres #UK #Angleterre #toponymie #toponymie_politique #colonialisme #colonisation #Inde

    ping @cede

  • Las estatuas más incómodas de América

    En años recientes, conquistadores, militares y caudillos han sido bajados de sus pedestales por manifestantes o por los mismos gobiernos, que enfrentan un debate creciente sobre los símbolos y deben definir qué hacer con los monumentos antiguos, qué representan y qué lugar les corresponde

    En marzo de 2011, durante una visita oficial a la Argentina, el entonces presidente Hugo Chávez vio la estatua que se levantaba detrás de la Casa Rosada y preguntó: “¿Qué hace ahí ese genocida?”. Era una escultura de Cristóbal Colón de unos seis metros de alto y 38 toneladas, hecha en mármol de Carrara, ubicada allí desde hacía casi un siglo. “Colón fue el jefe de una invasión que produjo no una matanza, sino un genocidio. Ahí hay que poner un indio”, dijo Chávez. Para los funcionarios que lo acompañaban, ciudadanos de un país donde aún se repite que los argentinos descienden de los barcos, aquella figura tal vez nunca había resultado incómoda hasta ese momento. Pero tomaron nota de sus palabras.

    El comentario de Chávez no solo fue disparador de la remoción del monumento dedicado al marino genovés en Buenos Aires —una medida que tomó el Gobierno de Cristina Kirchner en 2013 y desató una larga polémica y una batalla judicial con la comunidad italiana—, sino también el síntoma de una época en que las sociedades de América, y algunos de sus dirigentes, empezaban a poner en discusión de forma más o menos central los símbolos que han dominado los espacios urbanos durante décadas. A veces manifestación de impotencia, a veces demagogia, a veces el descubrimiento repentino de una forma de mostrar la historia y de una resistencia que ya estaban allí desde hacía bastante tiempo, pero en los márgenes.

    “Las estatuas hablan siempre de quien las colocó”, escribió en 2020 el autor peruano Marco Avilés, columnista del Washington Post, después de una serie de ataques a monumentos confederados y a figuras de Cristóbal Colón durante las protestas antirracistas en Estados Unidos. En su texto, Avilés cuenta sobre el derribo a martillazos de una escultura del conquistador Diego de Mazariegos en San Cristóbal de las Casas, México, en octubre de 1992. Aquella estatua había sido emplazada 14 años antes frente a la Casa Indígena por orden del alcalde, para celebrar un aniversario de fundación de la ciudad. “Consultar a las personas indígenas o negras no es una costumbre muy extendida entre las élites que ahora gobiernan América Latina, y era peor hace cuatro décadas”, escribe Avilés.

    Bajar o dañar monumentos no es algo nuevo, pero desde finales de 2019, cuando las protestas en Chile marcaron el inicio de una ola de estallidos sociales en todo el continente, dejó de ser un gesto extremo, marginal, y pasó a ser una especie de corriente revisionista febril que recorría la región a martillazos. Y un desafío esperado. En Santiago, la escultura del general Baquedano —militar que participó en las campañas contra los mapuche y es considerado un héroe de la Guerra del Pacífico— se convirtió en ícono de la revuelta ciudadana. Fue pintada y repintada, embanderada, convertida en blanco y en proclama: la más notable de los más de mil monumentos dañados esos meses. En Ciudad de México, la estatua de Cristóbal Colón que estaba en el Paseo de la Reforma —la avenida más importante de la ciudad— fue retirada con rapidez la noche del 10 de octubre de 2020, ante el rumor de que algunos grupos planeaban destruirla el 12 de octubre. Ese mismo año comenzó en Colombia una serie de derribos de estatuas que llegó a su punto máximo durante el Paro Nacional de 2021, cuando bajaron la escultura del conquistador Sebastián de Belalcázar en Cali y siguieron con Gonzalo Jiménez de Quesada en Bogotá —fundador de la ciudad—, Cristóbal Colón, Isabel la Católica y hasta Simón Bolívar.

    Durante los últimos dos años, la pandemia permitió mitigar por momentos el fuego de la protesta social en el continente y ofreció un respiro a los monumentos, pero la crisis sanitaria ha dejado de ocupar un lugar central en la vida pública y los asuntos pendientes vuelven a salir a flote. Este mes, la alcaldía de Cali ha decidido restituir —y resignificar— la estatua de Belalcázar, y Chile ha reinstalado la estatua de Manuel Baquedano, ya restaurada, en el Museo Histórico Militar, aunque no está claro su destino final. Mientras el aumento en el costo de vida vuelve a caldear los ánimos en las calles de la región, y un nuevo 12 de octubre se acerca, la discusión sobre cómo y con qué símbolos se recuerda la historia propia en las ciudades de América sigue abierta.

    México y Argentina: un Colón en el armario

    En 2013, dos años después de la visita de Hugo Chávez a la capital argentina, el Gobierno de Cristina Kirchner finalmente retiró la estatua de Cristóbal Colón de su sitio y la reemplazó por una de Juana Azurduy, heroína de la independencia que luchó contra la monarquía española por la emancipación del Virreinato del Río de la Plata.

    El cambio levantó ampollas en la colectividad italiana en el país. Sus miembros recordaron que habían sido ellos los donantes de la estatua de Colón hacía más de un siglo y exigieron un nuevo emplazamiento a la altura del personaje. El proceso no fue sencillo. Colón estuvo a la intemperie durante más de dos años, repartido en múltiples fragmentos y preso de un arduo debate político. La oposición criticaba lo que consideraba una decisión desafectada de la historia; el Gobierno se escudaba en el revisionismo histórico y en la necesidad de respetar la memoria de los pueblos originarios.

    El Colón de mármol terminó de encontrar un sitio en 2017. El Gobierno levantó un pedestal en la costanera norte del Río de la Plata, entre pescadores, caminantes y puestos de comida que los fines de semana se llenan de gente. La estatua mira desde entonces hacia Europa, como lo hacía antes del traslado, con el rostro atento a las olas y abierto a las tormentas. Un sitio solo apto para marinos.

    Fue también un gobierno progresista el responsable de remover la estatua de Cristóbal Colón instalada en el Paseo de la Reforma de Ciudad de México, pero la medida no fue convertida en un gesto épico, sino en uno de evasión; una forma de evitar un problema: el 10 de octubre de 2020, dos días antes de la conmemoración de la llegada del genovés a América, las autoridades de la ciudad hicieron quitar la escultura de bronce. La versión extraoficial es que lo hicieron para que el Colón no fuera destruido por manifestantes el 12 de octubre. Sin embargo, semanas después, se anunció que la figura estaba resguardada en una bodega donde iban a intervenirla para su conservación, y que después de estos trabajos sería reubicada en otro sitio.

    Estas decisiones abrieron el debate sobre la pertinencia de la estatua en el siglo XXI. Los grupos que protestaban contra Colón aseguraban que se trataba de “un homenaje al colonialismo” y que su relevancia debía ser revisada. Su retiro coincidió con la conmemoración de los 500 años de la caída de Tenochtitlan ante los conquistadores españoles. A diferencia de lo que ocurrió en Argentina, no existieron reclamos a favor de conservar la estatua en la principal avenida de la capital mexicana, pero su destino siguió siendo una incógnita.

    El próximo mes se cumplirán dos años desde que la figura de Colón — que fue instalada en 1875— fuera retirada de las calles. “Se le dará un lugar, no se trata de esconder la escultura”, dijo el año pasado la jefa de Gobierno de la ciudad, Claudia Sheinbaum, sobre su reubicación. La glorieta que Colón ocupaba ahora alberga el Monumento de las Mujeres que Luchan, una improvisada manifestación de diversos grupos feministas que se han apropiado del sitio para protestar contra la violencia machista. El Gobierno tenía planes de instalar otro tipo de escultura, pero los planes permanecen frustrados hasta ahora.
    Chile y Colombia, de las calles a los museos

    En septiembre de 2020 en Popayán, capital del departamento colombiano del Cauca y una de las ciudades más poderosas del virreinato de la Nueva Granada, un grupo de indígenas de la comunidad misak derribó una estatua ecuestre del conquistador español Sebastián de Belalcázar que había sido ubicada en el lugar de un cementerio precolombino, por lo que era vista como una humillación. Lo hicieron tres meses después de que el Movimiento de Autoridades Indígenas del Sur Occidente difundiera un comunicado en el que los llamados Hijos del Agua o descendientes del Cacique Puben escenificaron un “juicio” a Belalcázar.

    Medio año después, cuando el país se sacudía por las protestas sociales en medio de un paro nacional, de nuevo un grupo misak del movimiento de Autoridades Indígenas del Sur Occidente derribó la estatua de Belalcázar en Cali, la tercera ciudad del país, cerca de Popayán. “Tumbamos a Sebastián de Belalcázar en memoria de nuestro cacique Petecuy, quien luchó contra la corona española, para que hoy sus nietos y nietas sigamos luchando para cambiar este sistema de gobierno criminal que no respeta los derechos de la madre tierra”, explicaron entonces. Diez días después, tras llegar a Bogotá, derribaron la estatua del fundador de la ciudad, Gonzalo Jiménez de Quesada. Y, de forma menos debatida y visible, cayeron también un conjunto de estatuas de Cristóbal Colón e Isabel la Católica, y una estatua ecuestre de Simón Bolívar.

    Esos monumentos y acciones han dejado tras sí una estela de reflexiones y unos dilemas de política pública que se han resuelto de manera diferente, como parte de un proceso de discusión del significado de la conquista en un país mayoritariamente mestizo. En Cali, un decreto ordenó reinstalar la estatua con una placa que debe reconocer a “las víctimas de la conquista española”. Bogotá ha optado por llevar las figuras derribadas a los museos, dejando visible los efectos de las caídas, para así dejar abierto el debate.

    Preservar las marcas de guerra en las esculturas parece una forma hábil de conciliar los significados múltiples que adquiere un monumento intervenido o derribado durante una protesta social, pero no es aplicable a cualquier escala. En Chile, en los cuatro meses siguientes a octubre de 2019, 1.353 bienes patrimoniales sufrieron algún tipo de daño a lo largo del país, según un catastro del Consejo de Monumentos Nacionales. Decenas de ellos se perdieron por completo, se retiraron o se reemplazaron.

    La extracción más simbólica debido a su ubicación en el epicentro de las revueltas fue la escultura del General Manuel Baquedano. La obra de bronce erigida hace casi un siglo en la Plaza Italia de Santiago fue removida de su sitio en marzo de 2021 después de que un grupo intentase cortar las patas del caballo sobre el que posa el militar. Tras una exhaustiva labor de restauración, la escultura ha sido reinstalada esta semana en el Museo Histórico y Militar (MHN) por solicitud del Ejército. Las otras seis piezas que conforman el conjunto escultórico, también seriamente dañadas, están almacenadas en el museo a la espera de ser restauradas.

    Atacar esculturas fue una práctica habitual durante las manifestaciones. En la mayoría de los casos fueron rayadas con proclamas, pero en los más extremos llegaron a destruir monumentos, principalmente de figuras de la colonización europea o militares chilenos. En el centro de la ciudad norteña de Arica, por ejemplo, destruyeron un busto de Cristóbal Colón elaborado con mármol, donado por la Sociedad Concordia Itálica en 1910, en el centenario de la independencia chilena. El municipio se encargó de resguardar los pedazos. En La Serena, 400 kilómetros al norte de Santiago, derribaron y quemaron una estatua del conquistador español Fracnisco de Aguirre, que luego fue reemplazada por la de una mujer diaguita amamantando a un bebé.
    Estados Unidos: contra confederados y colonialistas

    Las estatuas que se consideran símbolos del esclavismo y el racismo llevan décadas provocando polémica en Estados Unidos, pero en los últimos años la batalla sobre los símbolos se ha recrudecido. En 2017, la decisión de Charlottesville de retirar la estatua del general confederado Robert E. Lee llevó a movilizarse hasta allí a cientos de neonazis y supremacistas blancos con antorchas, y generó a su vez una contraprotesta de los habitantes de la ciudad. Una mujer de 32 años murió arrollada por el coche de un neonazi. Tras los disturbios, y la respuesta equidistante de Trump, decenas de placas y estatuas en homenaje al general Lee y otros destacados miembros del bando confederado, que defendía la esclavitud en la Guerra Civil, fueron derribadas, dañadas o retiradas. La de Charlottesville fue retirada cuatro años después de la revuelta supremacista.

    Esa llama reivindicativa contra el racismo institucionalizado se reavivó en la primavera de 2020 tras la muerte de George Floyd en Mineápolis a manos de la policía. Una estatua del presidente confederado Jefferson Davis fue derribada en Richmond (Virginia), y también en esa ciudad, que fue capital confederada durante la guerra, fueron atacadas estatuas de los generales J. E. B. Stuart, Stonewall Jackson y el propio Lee. Monumentos confederados en Alabama, Luisiana, Carolina del Norte y Carolina del Sur, entre otros, fueron derribados o pintados también.

    Especialmente en esa última oleada, las protestas han puesto en el punto de mira las estatuas en memoria de quienes consideran artífices del colonialismo. Una manifestación contra el racismo derribó en junio de 2020 en San Francisco una estatua de Fray Junípero Serra, fundador de las primeras misiones de California. También la de Los Ángeles fue derribada por activistas indígenas. Pero el más señalado por esa reivindicación contra el colonialismo fue y sigue siendo Cristóbal Colón, pese a que no pisó Norteamérica. También en junio de 2020, la estatua de Colón en Boston fue decapitada; la de Richmond (Virginia), fue arrancada y arrojada a un lago; la de Saint Paul (capital de Minnesota), fue derribada y la de Miami, llena de pintadas de protesta por parte del movimiento Black Lives Matter.
    Un nuevo sujeto social: los realistas peruanos

    En el Perú, Cristóbal Colón aún conserva su cabeza. No ha sido tumbado por sogas ni ha ido a parar a algún depósito. Pero cada 12 de octubre se discute si su estatua de mármol, inaugurada hace dos siglos, debe permanecer oronda en el Centro de Lima, con una mujer indígena a sus pies.

    Vladimir Velásquez, director del proyecto cultural Lima antigua, sostiene que el descontento ciudadano hacia el navegante genovés se ha manifestado en un ataque simbólico. “La escultura más vandalizada del Centro Histórico es la de Colón. No la han destruido de un combazo, pero en varias ocasiones le han rociado de pintura roja, aludiendo a los charcos de sangre que se desataron en la época colonial”, dice.

    En octubre de 2020, cincuenta activistas enviaron un pedido formal a la Municipalidad de Lima para que la estatua de Cristóbal Colón sea retirada y llevada a un museo. “No estamos a favor que se destruya, pero sí que se le dé una dimensión histórica. Debería construirse un lugar de la memoria sobre el coloniaje”, dice el abogado Abel Aliaga, impulsor de la moción. La respuesta municipal le llegó por correo electrónico el 4 de mayo de este año. Fue breve y contundente: es intocable por ser considerada Patrimonio Cultural de la Nación.

    En octubre del año pasado, sin embargo, sucedió un hecho inédito: al pie del monumento se plantó un grupo de manifestantes, autodenominados realistas, con escudos de madera pintados con el Aspa de Borgoña, símbolo de la monarquía española. El grupo llamado Sociedad Patriotas del Perú, que ha defendido el supuesto fraude a la candidata Keiko Fujimori en las últimas elecciones presidenciales, se enfrentó a los activistas decoloniales. No pasó a mayores, pero hubo tensión. Hay un debate ideológico debajo de la alfombra que amenaza con salir a la luz el próximo 12 de octubre.

    https://elpais.com/internacional/2022-09-25/las-estatuas-mas-incomodas-de-america.html

    #monuments #statue #colonialisme #toponymie #toponymie_politique #Amérique_latine #Christophe_Colomb #Colomb #Mexique #Chili #Manuel_Baquedano #Argentine #Colombie #Popayán #Sebastián_de_Belalcázar #Belalcázar #Cali #Gonzalo_Jiménez_de_Quesada #Simón_Bolívar #Isabelle_la_catholique #Mujeres_Creando #résistance #Arica #USA #Etats-Unis #Charlottesville #Robert_Lee #Jefferson_Davis #Richmond #Stonewall_Jackson #Stuart #Boston #Miami #Black_Lives_Matter (#BLM) #Lima #Pérou

    ping @cede

  • A Genève, une sépulture théâtrale pour les victimes du colonialisme allemand

    Dans « #Vielleicht », l’acteur #Cédric_Djedje met en lumière le combat d’activistes berlinois pour que les rues du « #quartier_africain » de la capitale allemande changent de nom. Au Grütli, ce spectacle touche souvent juste, malgré des raccourcis discutables.

    Antigone est leur sœur. Comme l’héroïne de Sophocle, les comédiens afro-descendants Cédric Djedje et #Safi_Martin_Yé aspirent à rendre leur dignité aux morts, à ces dizaines de milliers de #Hereros et de #Namas exterminés en #Namibie par les Allemands entre 1904 et 1908. Un #génocide, reconnaissaient les autorités de Berlin au mois de mai 2021.

    Au Grütli à Genève, avant le Théâtre de Vidy et le Centre de culture ABC à La Chaux-de-Fonds, Cédric Djedje – à l’origine du spectacle – et Safi Martin Yé offrent une sépulture symbolique à ces oubliés de l’Histoire. L’artiste a découvert cette tragédie lors d’un séjour prolongé à Berlin. Il en est revenu avec Vielleicht, plongée personnelle dans l’enfer du #colonialisme. Ce spectacle est militant, c’est sa force et sa limite. Il met en lumière l’inqualifiable, dans l’espoir d’une #réparation. Il ne s’embarrasse pas toujours de subtilité formelle ni intellectuelle dans son épilogue.

    Qu’est-ce que Vielleicht ? Un rituel d’abord, une enquête ensuite, avec le concours de l’historienne #Noémi_Michel. Les deux à la fois en vérité. Un geste poétique et politique. Cédric Djedje et Safi Martin Yé ne vous attendent pas dans l’agora qui sert de lice à leur dialogue. Ils s’affairent déjà autour d’un monticule de terre. Ils y enfouissent des bocaux vides, habitacles des âmes errantes, qui sait ? Vous vous asseyez en arc de cercle, tout près d’eux. En face, une feuille d’arbre géante servira d’écran. Dans le ciel, des cerfs-volants badinent. Dans l’air, une musique répand sa prière lancinante.

    Le poids des noms

    C’est beau et triste à la fois. Ecoutez Cédric Djedje. Il raconte ces semaines à arpenter le quartier berlinois de Wedding, l’« #Afrikanisches_Viertel », son étonnement quand il constate que très peu d’Africains y habitent, sa surprise devant les noms des rues, « #Togostrasse », « #Senegalstrasse « . Que proclame cette nomenclature ? Les appétits de conquête de l’empire allemand à la fin du XIXe siècle. Que masque-t-elle surtout ? Les exactions d’entrepreneurs occidentaux, avidité prédatrice incarnée par l’explorateur et marchand #Adolf_Lüderitz qui fait main basse en 1883 sur #Angra_Pequena, baie de la côte namibienne.

    Cédric Djedje rencontre des activistes allemands d’origine africaine qui se battent pour que les rues changent de nom. Il les a interviewés et filmés. Ce sont ces personnalités qui s’expriment à l’écran. Quarante ans qu’elles œuvrent pour que #Cornelius_Fredericks notamment, chef nama qui a osé défier les troupes impériales entre 1904 et 1907, soit honoré. Vielleicht est la généalogie d’un crime et un appel à une réparation. C’est aussi pour l’artiste un retour sur soi, lui qui est d’origine ivoirienne. Dans une séquence filmée, il demande à sa mère pourquoi elle ne lui a pas parlé le #bété, la #langue de ses ancêtres.

    Si le propos est souvent captivant, les deux insertions théâtrales, heureusement brèves, n’apportent rien, tant elles sont maladroites et outrées – trois minutes pour résumer la fameuse conférence de Berlin qui, entre la fin de 1884 et le début de 1885, a vu les puissances européennes se partager l’Afrique. Le théâtre militant va droit au but, quitte à parfois bâcler la matière ou à asséner des parallèles qui méritent d’être interrogés.

    Le naturaliste genevois Carl Vogt, dont les thèses reposent sur une vision raciste de l’homme hélas courante à l’époque, est-il ainsi comparable aux colonialistes allemands de la fin du XIXe ? Invitée surprise, une activiste genevoise l’affirme à la fin de la pièce, exigeant avec d’autres que le boulevard Carl-Vogt soit débaptisé – le bâtiment universitaire qui portait son nom le sera bientôt, annonçait le rectorat fin septembre. On peut le comprendre, mais le cas Vogt, qui est toujours au cœur d’un débat vif, mériterait en soi une pièce documentée. Toutes les situations, toutes les histoires ne se ressemblent pas. L’amalgame est la tentation de la militance. Exit la nuance. C’est la limite du genre.

    https://www.letemps.ch/culture/geneve-une-sepulture-theatrale-victimes-colonialisme-allemand
    #toponymie #toponymie_politique #colonialisme #Allemagne #colonialisme_allemand #Allemagne_coloniale #art_et_politique #théâtre #Berlin #noms_de_rues

    ping @_kg_ @cede

    • Vielleicht

      Nous arpentons quotidiennement les rues de notre ville, nous y croisons des noms d’hommes (le plus souvent…) qui nous sont totalement inconnus. Qui étaient-ils au fond ? Qu’ont-ils fait de leur vivant pour mériter que leur mémoire soit honorée par un boulevard, une avenue, une place ?
      Cédric Djedje s’est penché sur ces questions en vivant plusieurs mois à Berlin dans le quartier de Wedding, quartier dit « africain » ou Afrikaniches Viertel qui doit son surnom avec vingt-cinq noms de rue se rapportant au passé colonial allemand, lui rendant par là hommage à l’endroit même où vivent, en somme, les descendants des peuples colonisés.
      En s’intéressant aux fantômes de la colonisation dans l’espace urbain contemporain, le comédien s’est interrogé sur comment on s’attache à un espace, comment l’histoire coloniale résonne avec cet attachement et comment dialoguent Histoire et vécu intime et quotidien.
      En imaginant une performance où se mêleront dimensions documentaire et fictionnelle, à la convergence de plusieurs disciplines et en faisant coexister et se frictionner les temporalités, la compagnie Absent.e pour le moment ambitionne de créer un spectacle qui questionne les concepts d’Histoire et de restitution : que veut dire « restituer » ? Est-ce possible ? Et comment ?
      Entre histoire dite « grande » et sentiments personnels vécus par le créateur — lui-même afro-descendant — lors de son enquête, Vielleicht fera peut-être écho chez les spectatrices à l’heure de traverser la place ou le carrefour si souvent empruntés au sortir de chez soi.

      https://grutli.ch/spectacle/vielleicht

    • Espace public genevois et héritage colonial. Les esclaves de Monsieur Gallatin. Invitation

      Madame,
      Monsieur,

      La Ville de Genève a décidé d’empoigner le sujet des hommages rendus dans l’espace public - par des monuments ou des noms de rues - à des personnalités ayant encouragé le racisme, l’esclavagisme et le colonialisme.

      Le rapport commandité par la commune auprès de MM. Mohamedou et Rodogno a été publié ce printemps : “L’idée d’effacer l’histoire n’est pas une option viable, comme celle d’invisibiliser continuellement et impunément des actions passées racistes, esclavagistes ou coloniales ne peut en être est une, affirme ce rapport. La notion même de [commémoration] dans l’espace public doit être réexaminée afin de dire l’histoire différemment et la dire entièrement.” Et, à cet effet, il est important ”d’impliquer les associations issues de la société civile, le monde associatif et les acteurs locaux, y compris les sociétés d’histoire locales ”.

      Du coup, c’est aussi le rôle des “Editions Parlez-moi de Saint-Jean”, une part intégrante de la Maison de Quartier de Saint-Jean, de lancer le débat public à partir de problématiques situées dans l’espace local, de faire émerger les questions, d’essayer de “dire l’histoire différemment et entièrement” afin de participer à l’élaboration d’une mémoire collective locale et de la réactualiser. (Pour voir les publications des éditions : https://mqsj.ch/parlez-moi-de-saint-jean#ouvrages).

      Le rapport ayant fait figurer l’Avenue De-Gallatin dans sa liste des sites et symboles genevois concernés par cette problématique, la Maison de Quartier de Saint-Jean et le Forum Démocratie participative 1203 ont décidé de consacrer un de leurs “apéros-débats” à la question des “esclaves de Monsieur Gallatin”. Vous trouverez ci-joint le flyer de cette manifestation qui renferme quelques explications supplémentaires.

      Nous espérons que cette initiative retiendra votre attention et nous nous réjouissons de vous accueillir à cet apéro-débat, jeudi prochain, 17 novembre, à 18h 30 (fin à 20 heures) à la Maison de Quartier de Saint-Jean. Nous vous remercions d’avance de bien vouloir faire circuler cette information auprès de toute personne intéressée.

      Pour la Maison de Quartier de Saint-Jean (www.mqsj.ch) :
      Pierre Varcher, membre du comité

      PS Vous pouvez consulter l’article de présentation de cet apéro-débat dans le dernier Quartier Libre, journal de la Maison de Quartier de Saint-Jean, p. 11 :


      téléchargeable :
      https://mqsj.ch/wp-content/uploads/2022/09/QL127-1.pdf

      #héritage_colonial #colonialisme #espace_public #toponymie #toponymie_politique #invisibilisation #histoire #commémoration #mémoire_collective