• #Guerriglia_odonomastica: una rivolta contro i nomi che abitiamo, per conoscere le nostre città

    Cos’è la «guerriglia odonomastica»? Su Giap, negli ultimi anni, abbiamo fatto diversi esempi. Si tratta di azioni e performances il cui scopo è reintitolare dal basso vie e piazze delle nostre città – o aggiungere informazioni ai loro nomi per cambiare senso all’intitolazione.

    Una via può essere reintitolata alla luce del sole, durante cortei o altre iniziative pubbliche, oppure col favore delle tenebre, a opera dei «soliti ignoti» o «solite ignote».

    I nomi di vie e piazze – tecnicamente, gli «odonimi» – sono simboli, ma spesso sono anche sintomi. Sintomi di malattie che affliggono la memoria pubblica, sindromi causate dalla cattiva coscienza, da rimozioni e ipocrisie, da un mancato fare i conti col passato.

    Nelle nostre città e paesi abbondano gli odonimi che celebrano il fascismo e il colonialismo, celebrano crimini politici, coloniali e di guerra. Odonimi razzisti, nomi che omaggiano gli oppressori e glorificano l’oppressione. È su questi che si sono concentrati gli interventi recenti. Su Giap abbiamo raccontato dei progetti Resistenze in Cirenaica (Bologna) e Viva Menilicchi! (Palermo).

    Cambiare i nomi che abitiamo è cambiare il modo in cui pensiamo alla città. Attirando improvvisamente l’attenzione sul senso del nome di una via o piazza, la guerriglia odonomastica ci addestra a non dare per scontato il luogo stesso. Non dandolo per scontato, cominciamo a riappropriarcene.

    Quanto conosciamo le nostre città?

    Uno dei più celebri passi di Furio Jesi è tratto dal suo scritto postumo Spartakus. Simbologia della rivolta, terminato il 12 dicembre 1969 – poche ore prima della strage di Piazza Fontana – e uscito soltanto nel 2000:

    «Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’haut-lieu e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli altri; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città.»

    Jesi si riferiva tanto alla rivolta spartachista nella Berlino del 1919, di cui ricorreva il cinquantennale, quanto alle sommosse urbane del 1968 e dintorni, che erano parte della sua esperienza.

    La pratica del conflitto insegna a non fuggire in modo prevedibile, e quindi a esplorare lo spazio urbano, a scoprire nuovi luoghi e nuovi tragitti. È quello che Belbo insegna a Casaubon nel capitolo 15 de Il pendolo di Foucault di Umberto Eco:

    «Mi trovai a fuggire per via Larga […] Sull’angolo di via Rastrelli, Belbo mi afferrò per un braccio: “Per di qua, giovanotto”, mi disse. Tentai di chiedere perché, via Larga mi pareva più confortevole e abitata, e fui preso da claustrofobia nel dedalo di viuzze tra via Pecorari e l’Arcivescovado. Mi pareva che, dove Belbo mi stava conducendo, mi sarebbe stato più difficile mimetizzarmi nel caso che la polizia ci venisse incontro da qualche parte. Mi fece cenno di stare zitto, girò due o tre angoli, decelerò gradatamente, e ci trovammo a camminare, senza correre, proprio sul retro del Duomo, dove il traffico era normale e non arrivavano echi della battaglia che si stava svolgendo a meno di duecento metri […] “Vede, Casaubon,” mi disse allora Belbo,”non si scappa mai in linea retta […] Quando si partecipa a un raduno di massa, se non si conosce bene la zona il giorno prima si fa una ricognizione dei luoghi, e poi ci si colloca all’angolo da dove si dipartono le strade più piccole.”»

    Impossibile non pensare a tutto questo vedendo che in Francia, dopo settimane di rivolte, l’intelligenza collettiva ha inventato MediaManif, applicazione per smartphone che si appoggia a OpenStreetMap ed è stata subito chiamata «il Waze degli scontri». Come spiega il sito lundi.am, MediaManif è

    «una mappa interattiva del mondo e dunque di ogni città, ogni via, ogni rotatoria sulla quale è possibile segnalare la presenza di gruppi più o meno significativi di gilet gialli, ma anche degli immediati pericoli che ogni cittadino potrà quindi schivare o aggirare. Chi non vorrebbe, in questi tempi agitati, poter attraversare la sua città evitando le nubi di lacrimogeni?»

    La cartografia della sommossa e la guerriglia odonomastica hanno in comune l’intento di riscoprire la città a uso del conflitto e dunque della vera vita, oltre la mera sopravvivenza, il tran tran, i tragitti soliti, l’uso passivo dello spazio urbano.

    Non è casuale che la guerriglia odonomastica porti a scoprire le rivolte urbane del passato. Il progetto Viva Menilicchi! prende il nome dal grido che socialisti e anarchici lanciarono a Palermo il 2 marzo 1896, durante una protesta contro la guerra d’Abissinia che sfociò in cariche di polizia, scontri e arresti.

    Ecco, queste note servono a introdurre un importante testo di Mariana E. Califano, pubblicato sul blog di Resistenze in Cirenaica.

    Si intitola Della guerriglia odonomastica ed è la riflessione più approfondita uscita sinora su questi temi.

    https://www.wumingfoundation.com/giap/2018/12/guerriglia-odonomastica
    #guerrilla_toponymique #toponymie #Italie #toponymie_politique #guérilla_odonymique

    • Guerriglia Odonomastica

      […] Non ho altra malattia che le mura del campo attorno. Le nere guardie. Il filo spinato che ci separa dalla strada del ritorno.

      ‘Canto del campo di al-‘Aqila’ di Rajab Bu-Huwayish

      La necessità di comunicare ci ha portato ad assegnare nomi a cose, oggetti, concetti e luoghi che abbiano un significato condiviso e questo naturalmente vale anche per le strade. Quando nel medioevo si rogava l’acquisto di un immobile, i notai dovevano annotare dove si trovasse. Per farlo, esso veniva identificato attraverso i luoghi confinanti. I nomi di questi luoghi venivano codificati solo nell’uso comune di cui erano oggetto: per esempio tutti sapevano dov’era il Trivio di Porta Ravegnana, l’attuale piazza di Porta Ravegnana, attraverso la quale, percorrendo la strada San Vitale, si raggiungeva – e si raggiunge tuttora – Ravenna.

      Se avete preso un taxi in Giappone saprete che da quelle parti le cose funzionano ancora più o meno così… ma qui, la necessità di dare stabilità a un’odonomastica tramandata oralmente ha portato alla produzione di documenti che descrivono le vie della città attraverso i loro nomi.

      Da qualche anno l’Università di Tor Vergata ha istituito un laboratorio internazionale di onomastica (LIOn) a cui lavorano glottologi, linguisti, dialettologi e altri esperti. Tra i vari progetti portati a termine c’è anche un censimento a tappeto dello stradario nazionale.

      MA CHE COS’È L’ODONOMASTICA?

      L’odonomastica è lo studio storico-linguistico dei nomi delle aree di comunicazione di un centro urbano, delle sue vie e delle sue piazze (dal greco hodós, via, strada e onomastikòs, onomastica: studio dei nomi propri, delle loro origini e dei processi di denominazione nell’ambito di una o più lingue o dialetti).

      Si tratta di un ambito più ristretto e specifico della toponomastica (dal greco tòpos, luogo e onomastikòs), che si occupa dello studio storico-linguistico dei nomi dei luoghi geografici. L’odonomastica, in breve, è la toponomastica stradale.

      COSA CI DICONO I NOMI DELLE STRADE?

      I nomi delle vie, delle piazze e dei vicoli raccontano la storia di un paese, perché nella maggioranza dei casi ricordano luoghi, fatti e personaggi.

      Un tempo le strade portavano i nomi delle famiglie che ci abitavano o possedevano proprietà in loco come via de’ Castagnoli o piazza de’ Calderini; dei mestieri e delle botteghe che le animavano come via dei Falegnami, via degli Orefici o via Calzolerie. In altri casi le vie dovevano i loro toponimi ai santi ai quali le chiese erano dedicate come via Santo Stefano o alle caratteristiche del paesaggio come nel caso di via Frassinago e via Nosadella per i frassini e i noci.

      Si racconta poi che alcune vie debbano i loro nomi a usi più triviali, come via Centotrecento per le tariffe del quarto d’ora di piacere che un tempo ci si poteva concedere da quelle parti o via Ca’ Selvatica in cui, nel 1521, vennero trasferite le meretrici.

      Dopo l’Unità d’Italia e sul finire dell’Ottocento prese piede l’uso di intitolare le vie a personaggi di rilievo come Luigi Zamboni, protomartire del Risorgimento italiano che a Bologna nel 1794 guidò una sommossa contro lo Stato Pontificio e morì in una cella nota come Inferno nelle carceri del Torrone.

      All’epoca si diffuse anche l’uso di intitolare le strade a eventi storici come il XX Settembre che ricorda la presa di Roma, la famosa breccia di Porta Pia, il nodo gordiano risorgimentale che sancì la fine dello Stato Pontificio e l’annessione della futura capitale al Regno d’Italia.

      PERCHÉ GLI ODONIMI RIPORTANO NOMI, DATE O SIMBOLI?

      La tendenza che prese piede dopo l’Unità d’Italia di chiamare le vie con date di fatti storici importanti o con nomi di personaggi illustri deriva, palesemente, dal bisogno di ‘fare gli italiani’. In questo paese, gli odonimi contribuirono – e contribuiscono – alla costruzione dell’identità nazionale, carattere intimamente legato alla storia di un popolo e, pertanto, in continua trasformazione.

      Si rende omaggio a patrioti, letterati, scienziati, ecc. che si sono distinti in grandi imprese o si ricordano determinati momenti storici per costruire, imporre o consolidare un racconto che si vuole sia o divenga collettivo e condiviso.

      Sappiamo bene, però, che la memoria collettiva è la memoria di un determinato gruppo di appartenenza, un gruppo ristretto rispetto all’insieme della popolazione.

      A Bologna la riuscita dell’impresa coloniale in Tripolitania e Cirenaica venne celebrata nel 1913 con la delibera del Consiglio Comunale che approvava gli odonimi via Tripoli, via Bengasi, via Libia, via Due Palme, ecc. per il reticolo di strade fuori porta comprese tra via San Donato e via San Vitale.

      Nel 1938, in pieno ventennio fascista invece venne edificato il Villaggio della Rivoluzione, un quartiere nato per ospitare le famiglie dei caduti, dei feriti e dei mutilati per la causa della rivoluzione fascista e le strade presero i nomi dei simboli del regime. Così fecero capolino via delle Camicie Nere, via dello Squadrista, via del Legionario.

      Colonialismo e fascismo non finirono con la Liberazione e continuano a vivere negli spazi costruiti, negli usi di quegli spazi, nei significati e in quell’insieme attraverso il quale il potere politico – e simbolico – si esprime nella vita quotidiana di una città.

      Nel caso del rione Cirenaica, per esempio, la celebrazione del colonialismo persiste tuttora in via Libia che né il trattato di Pace del 1947 che privava l’Italia delle sue colonie né l’approvazione della proposta della Commissione Consultiva per la denominazione delle vie del 1949 riuscirono o vollero modificare.

      GLI ODONIMI COME LUOGHI DELLA MEMORIA

      L’espressione ‘luoghi della memoria’ rimanda a una pluralità di situazioni e significati la cui indagine consente una pluralità di approcci.

      Sono luoghi della memoria Porta Lame a Bologna, dove il 7 novembre 1944 i partigiani della 7ª GAP combatterono un’importante battaglia o il parco storico di Monte Sole, il colle dove i nazisti compirono una feroce strage tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944.

      Anche i nomi delle vie sono ‘luoghi della memoria’ come via Caduti di Amola: una frazione di S. Giovanni in Persiceto in cui Il 5 dicembre 1944 le SS e i paracadutisti della divisione Göring, grazie ai fascisti locali, circondarono il rifugio dei partigiani della 63^ brigata Bolero Garibaldi e rastrellarono circa trecento persone. Molti di loro vennero fucilati a Sabbiuno del Monte a Paderno, mentre altri furono trasferiti al lager di Bolzano e da lì deportati a Mauthausen.

      Un luogo della memoria non è solo un luogo fisico ma, come spiega lo storico Mario Isnenghi, può contenere dati materiali e simbolici, richiamare eventi o figure e partecipare al consolidamento e alla diffusione di miti e riti collettivi.

      I luoghi della memoria indicano chi e cosa ricordare, sono il riflesso dell’anima di un paese, della sua comunità. L’odonomastica quindi è uno dei tanti specchi in cui il paese e la sua storia si riflettono, sono ‘supporti memoriali’ – come li definisce la professoressa Patrizia Violi – di un passato che si vuole tramandare.

      POLITICHE DELLA MEMORIA E DELL’OBLIO E TRASFORMAZIONI DELL’IDENTITA’ NAZIONALE.

      La memoria è una narrazione con carattere retrospettivo e a livello soggettivo seleziona e assimila ciò che ha senso in funzione del proprio presente e del proprio futuro.

      Questo vale anche per la memoria istituzionale, costruita dallo Stato e dal governo in carica. La sostanziale differenza è che nel caso della memoria istituzionale si tratta di memoria che diventa Storia e che viene trasmessa alle generazioni future attraverso l’educazione scolastica. La storia da tramandare è, pertanto, il risultato di una scelta politica e il revisionismo, per esempio, è uno dei vari strumenti con il quale l’avvicendarsi di governi di diversi orientamenti cercano di modificare le interpretazioni ormai consolidate dei più importanti avvenimenti storici per mitigare le memorie in conflitto, sopratutto in relazione al fascismo, alla Resistenza e alla shoah.

      Sempre Isnenghi, intervistato da Barbara Bertoncin nel 2016 a proposito dell’opportunità di fare un museo nella casa del fascio di Predappio, ci ricorda che «Nel ’45 molte di queste case del fascio sono diventate case del popolo, come a suo tempo le case del popolo erano diventate case del fascio; questo fa parte della guerriglia politica. Nelle nostre città, che lo sappiamo o no, ci aggiriamo continuamente fra le macerie di antiche guerriglie politiche, guerre semiologiche in cui gli ex conventi sono stati espropriati dal benemerito Napoleone e sono diventate caserme o scuole, magari intitolandosi a Giordano Bruno o a Paolo Sarpi o a Galileo Galilei, all’interno cioè di una lotta dello stato laico contro la tradizione clericale. Questo è fisiologico. Naturalmente spetta poi agli storici contribuire alla costruzione di una coscienza pubblica diffusa di questo processo dentro cui molti nostri concittadini si possono aggirare senza averne piena coscienza, così come ci aggiriamo in una nomenclatura viaria che via via perde di significato. Un mucchio di gente certamente si aggira nelle vie Battisti senza sapere chi fosse, confondendolo col cantante o peggio.»

      Se ci fosse qualche improbabile dubbio, ricordiamo che le strade sono intitolate a Cesare Battisti, il politico socialista e irredentista che si batté per l’autonomia del Trentino dall’Impero austro-ungarico e che durante la Grande guerra si arruolò come volontario negli alpini. Catturato dall’esercito austriaco, fu processato e impiccato per alto tradimento.

      La scelta di chi o cosa ricordare comporta di conseguenza la decisione di chi o cosa dimenticare. Le politiche della memoria e dell’oblio dunque hanno un ruolo determinante nella costruzione dell’identità nazionale, intesa come progetto in divenire.
      In History as Social Memory, lo storico britannico Peter Burke ricorda che la parola ‘amnesia’ è etimologicamente imparentata con la parola ‘amnistia’ (dal greco amnestía cioè oblio e questo da amnestèo cioè dimenticare: da A negativo e dalla radice mnéme, memoria) e che l’‘amnistia’ è un atto di oblio volontario e al tempo stesso una cancellazione ufficiale della memoria.

      La delibera del Consiglio Comunale di Bologna del 1949 segnò un cambio d’indirizzo, in tutti i sensi: il racconto condiviso dalla collettività non doveva più celebrare i luoghi del colonialismo fascista, ma onorare gli uomini che avevano contribuito a liberare la città dall’occupante.

      Così i nomi delle strade della Cirenaica cambiarono e oggi ricordano alcuni partigiani: via Tripoli divenne via Paolo Fabbri, via Bengasi divenne via Giuseppe Bentivogli, via Zuara prese il nome di via Massenzio Masia, via Due Palme quello del comandante Lupo, Mario Mussolesi, ecc.

      L’odonimo di #via_Libia, invece, rimase immutato.

      Perché? Cosa si è scelto di ricordare e cosa si è pensato di cancellare? La risposta più ovvia sembra riguardare l’intenzione di condannare il colonialismo di stampo fascista, ma non il colonialismo in tutte le sue espressioni, visto che le aspirazioni di ottenere il proprio posto al sole dell’Italia risalgono agli anni che seguono l’Unità e l’occupazione della Libia al finire dell’età giolittiana.

      Uno dei problemi più importanti delle società contemporanee è quello d’imparare a elaborare il passato nel rispetto di quell’etica che si trova alla radice di storia e memoria.

      Come sostiene Paolo Jedlowski nell’introduzione a Memoria e storia: il caso della deportazione di Anna Rossi-Doria: «[…] Ricordare è infatti serbare traccia non solo di ciò che genericamente ‘è stato’, ma anche e sopratutto di ciò che siamo stati: per questa via è accrescimento della consapevolezza di sé. La consapevolezza è responsabilità nel senso etimologico del termine: capacità di rispondere dei nostri atti; ricordare ciò che siamo stati serve a assumere la responsabilità di ciò che abbiamo compiuto… Ricordare i torti che abbiamo subito è cosa da poco: ma la memoria e la storia mostrano tutta la loro carica etica quando ricordiamo i torti che abbiamo inflitto.»

      DI ODONIMI DISCUTIBILI E DI STRUMENTI CHE FANNO CILECCA

      A nessuno verrebbe in mente di rispolverare i nomi delle vie del Villaggio della Rivoluzione perché renderebbe evidente il reato di apologia del fascismo da cui la Legge Scelba (legge n. 645 del 20 giugno 1952) cercò di tutelarci. Senza molto successo, verrebbe da aggiungere, data la diffusione del saluto romano e di altre amenità nelle sempre più frequenti manifestazioni neofasciste.

      Isnenghi ci viene ancora una volta in aiuto fornendoci una spiegazione del perché la sola legge non potè né può tutelarci.

      «… il Movimento Sociale c’era ed era anche un partito in grado di accogliere un bel po’ di voti. Teoricamente la Costituzione non avrebbe permesso l’esistenza di un simile partito; di fatto era così grosso che sarebbe stato un bel problema politico concretizzare il discorso giuridico costituzionale e metterlo fuorilegge.

      «Tant’è vero che nel secondo dopoguerra non mancavano le forze (oltreoceano, ma anche all’interno del paese) che casomai avrebbero preferito mettere fuorilegge il PCI e non il MSI [il Movimento Sociale Italiano confluito poi in Alleanza Nazionale]. Così stavano realisticamente le cose.

      «Stando così le cose, si capisce che anche le sinistre antifasciste abbiano infine accettato questo tran tran parlamentare, purché il MSI se ne stesse nelle sue ridotte.»

      La proibizione per legge del neofascismo fu un provvedimento che si rivelò puramente di facciata, una strategia che finì per deludere le aspettative di molti perché a decidere furono i rapporti di forza e gli accomodamenti tra partiti.

      Ma quanto è diffusa l’intitolazione di vie a personaggi e luoghi che celebrano il fascismo o il colonialismo? Per farsene un’idea basta realizzare una ricerca in rete.

      Prendiamo, per esempio, la recente diatriba sull’intitolazione di una via di Roma a Giorgio Almirante, senza dimenticare che di vie a lui dedicate ne esistono a Foggia, Agrigento, Aversa, Fiumicino, Molfetta, Lecce, Trani, San Severo, Rieti, Francavilla Fontana, Viterbo e solo per citarne alcune.

      Ma chi era costui? Basti ricordare che aderì al fascismo quando era ancora un liceale e non rinnegò mai la sua lealtà al regime e al Duce. Nel 1938 fu tra i firmatari del Manifesto della razza e collaborò alla rivista La difesa della razza come segretario di redazione.

      Allo scoppio della Seconda guerra mondiale ottenne una promozione come corrispondente di guerra e partì per la Libia al seguito della Divisione 23 marzo delle Camicie Nere, una divisione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale che scelse il nome del giorno della fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento, avvenuta per l’appunto il 23 marzo 1919.

      Nel 1944 aderì alla RSI, dove ricoprì la carica di capo gabinetto del ministero della Cultura Popolare e firmò un manifesto ritrovato negli archivi di Massa Marittima in cui ordinava di passare per le armi i renitenti alla leva della Repubblica di Salò.

      Nel dopoguerra partecipò alla riunione costitutiva del MSI di cui fu segretario e nel 1972 fu accusato di voler ricostituire il partito fascista, mentre nel 1986 fu rinviato a giudizio per favoreggiamento aggravato verso i due terroristi di Ordine Nuovo colpevoli della strage di Peteano e poi venne amnistiato.

      Dopo aver ricordato chi era Giorgio Almirante, sorge spontaneo domandarsi: chi vorrebbe intitolargli una via? E la risposta più ovvia potrebbe essere: un fascista, un neofascista, uno stragista. Allora com’è possibile che diversi politici avanzino proposte di questo genere? Non possiamo certo dire che si tratti di stragisti o terroristi neri.

      La risposta va cercata altrove.

      Come abbiamo accennato, oltre a essere un provvedimento generale di clemenza con cui lo Stato rinuncia alla punizione di un determinato numero di reati, l’amnistia è un atto di oblio volontario e al tempo stesso una cancellazione ufficiale della memoria.

      La proposta di intitolazione di una via a Giorgio Almirante non lascia alcun dubbio sul potere amnesico dell’amnistia.

      È proprio nell’ambito di ciò che è stato dimenticato, scordato, obliato, rimosso, che si gioca un’importante battaglia politica, in cui gli odonimi rappresentano solo uno dei tanti indicatori dello stato delle cose e cioè dell’affermarsi e del consolidarsi di un’immagine annacquata ed edulcorata del fascismo e dei suoi crimini, dell’idea stessa degli italiani brava gente.

      Il punto di vista sempre più diffuso; veicolato, ahimè, anche da molti soggetti che dovrebbero vegliare e contribuire alla costruzione della coscienza pubblica; è quello di un fascismo bonario che, in fin dei conti, non ha commesso gli orrendi crimini contro l’umanità di cui si è macchiato il nazismo.

      Ma un’affermazione simile non solo pecca di amnesia perché cancella con un colpo di spugna lo squadrismo; le marce forzate, la deportazione e i campi di concentramento in Libia ancor prima che Hitler diventasse cancelliere del Reich; l’uso di gas e armi chimiche in violazione dell’allora
      recente Protocollo di Ginevra del 1925; il primo bombardamento aereo di un ospedale della croce rossa nel 1935 a Malca Dida; le leggi razziali e la deportazioni degli ebrei, per citare solo le atrocità più note, ma assolve e amnistia tutti noi da ciò che siamo stati, dispensandoci dal compito di accrescere la nostra consapevolezza e, pertanto, dalla gravosa assunzione di responsabilità dei nostri atti.

      Forse lo storico statunitense di origine ebraica Yosef Hayim Yerushalmi con le sue Riflessioni sull’oblio, può darci una mano a capire il problema davanti al quale ci troviamo.

      Prendendo spunto dall’Ebraismo, lo studioso propone un’analisi che pone l’accento sulle dinamiche della trasmissione e della ricezione della memoria.

      Per lo storico, a rigor di logica gli individui possono dimenticare solo i fatti che sono avvenuti nel corso della loro esistenza. Quando si dice che un popolo ricorda, in realtà prima si afferma che il passato viene attivamente trasmesso alle generazioni contemporanee attraverso i canali e i ricettacoli della memoria – i ‘luoghi della memoria’ di Pierre Nora – e dopo si sostiene che quel passato che è stato trasmesso è stato anche ricevuto.

      Pertanto, secondo Yerushalmi, un popolo dimentica quando la generazione che ha vissuto il passato non lo trasmette a quella successiva o quando quest’ultima rifiuta ciò che le è stato trasmesso o smette di trasmetterlo a sua volta.

      «L’oblio in senso collettivo compare quando certi gruppi umani non riescono – volontariamente o passivamente, per rifiuto, indifferenza o indolenza o per una catastrofe storica che ha interrotto il trascorrere dei giorni e delle cose – a trasmettere alla posterità ciò che hanno imparato del passato…»

      Se condividiamo le affermazioni di Yerushalmi, l’affievolirsi di una condanna del fascismo potrebbe derivare dall’incapacità volontaria e/o passiva, da un rifiuto, dall’indifferenza, dall’indolenza e aggiungerei dall’assenza di un linguaggio che abbia un significato condiviso tra generazioni e, più probabilmente, dall’insieme di tutte queste ragioni.

      Ascoltando le dichiarazioni sul fascismo dell’attuale classe politica risulta evidente che la trasmissione e la ricezione del passato hanno fatto cilecca e ci hanno condotti a una de-responsabilizzazione per cui, oltre a chiederci come, quando e perché sia successo, dobbiamo trovare un modo di ristabilire la trasmissione e garantire la ricezione.

      Lo storico continua segnalando che la fenomenologia della memoria e dell’oblio collettivi sono essenzialmente gli stessi in tutti i gruppi sociali e che a cambiare sono solo i dettagli.

      Yerushalmi spiega che non c’è popolo per il quale alcuni elementi del passato, siano essi storici o mitici o una combinazione di entrambi, non diventino una ‘Torah’, cioè un insieme di insegnamenti e precetti riconosciuti, e pertanto condivisi, trasmessi oralmente o in forma scritta che hanno bisogno di consenso.

      Secondo lo storico ebreo, questi insegnamenti possono sopravvivere solo nella misura in cui diventano una tradizione. Lo studioso crede che ogni gruppo, ogni popolo ha la sua ‘halakhah’, la sua Legge intesa come tradizione normativa che include anche usi e costumi.

      «La parola ebrea deriva da halakh, che significa ‘camminare’, halakhah pertanto è il cammino sul quale si procede, il Cammino, la Via, il Tao, quell’insieme di riti e credenze che danno a un popolo il senso della sua identità e del suo destino. Del passato solo si trasmettono gli episodi che si giudicano esemplari o edificanti per l’halakhah di un popolo tale e quale la si vive nel presente.»

      Yerushalmi, quindi, oltre ad affermare che l’identità di un popolo sia il risultato di un processo di selezione e assimilazione di ciò che ha senso in funzione del presente e del futuro, ci mette in guardia da un pericolo: se del passato si trasmettono solo gli episodi che si giudicano esemplari o edificanti, non è probabile che quelli riprovevoli, col passare del tempo, vengano edulcorati se non dimenticati?

      E allora, l’accento messo sulla lotta partigiana potrebbe in qualche modo aver contribuito a mettere in ombra i crimini del fascismo? E ancora, perché la memoria e la storia sprigionino tutta la loro carica etica non dovremmo ricordare anche i torti che abbiamo inflitto?

      D’altro canto, lo studioso ci indica anche una strada da percorrere: per sopravvivere, gli elementi del passato che compongono la ‘Torah’ devono diventare una ‘tradizione’.

      Ma, come e cosa fare? Come potete immaginare gli ambiti sui quali lavorare e gli strumenti da utilizzare per riprenderci dall’amnesia sono molteplici.

      RISVEGLIARE GLI ANTICORPI DELLA SOCIETÀ: STRUMENTI.

      Tra i tanti mezzi su cui contare per ripristinare la ‘trasmissione’, favorire la ricezione, creare o ristabilire una ‘tradizione’ e/o vegliare sulla memoria da tramandare, ne esistono alcuni promossi dal basso che si propongono di ristabilire la verità per rendere giustizia e che risultano utili sopratutto quando le istituzioni o gli organi competenti per convenienza, impossibilità, pigrizia o incapacità non si adoperano in tal senso.

      A metà degli anni Novanta, in Argentina nacque H.I.J.O.S. (Hijos por la Identidad y la Justicia contra el Olvido y el Silencio), un’organizzazione che radunò – e raduna – i figli di desaparecidos che si battono per l’identità e la giustizia, contro l’oblio e il silenzio dei crimini dell’ultima dittatura.

      H.I.J.O.S. ha ideato e promosso una modalità inedita con cui affrontare l’impunità dei militari: l’‘Escrache’, che in spagnolo significa ‘sputtanamento’, e che consisteva nell’organizzare delle manifestazioni presso le abitazioni degli individui direttamente compromessi col regime.

      Le loro abitazioni venivano ‘marchiate’ col lancio di un palloncino pieno di vernice rossa.

      Lo scopo dell’‘Escrache’ non era solo quello di sopperire alle mancanze della giustizia, ma anche di avvertire i vicini che un complice del regime viveva tra loro, promuovendo così una sorta di giustizia popolare o sociale.

      I marchiati, condannati all’infamia, non erano più benaccetti nei luoghi pubblici, il panettiere non gli vendeva il pane, i vicini gli toglievano il saluto , ecc.

      Luoghi e spazi pubblici e di socialità dell’intero paese diventavano per loro una prigione fatta di disprezzo e condanna sociale.

      Queste politiche ebbero successo e, col passare del tempo, vennero applicate anche in altri ambiti non necessariamente legati alla dittatura militare. Vennero utilizzate infatti per denunciare ogni tipo di reato e contribuirono a sviluppare anticorpi nel tessuto sociale della comunità.

      In Italia, quale antidoto all’amnesia, il collettivo Resistenze in Cirenaica, noto con l’acronimo RIC, ha scelto di rispolverare la tradizione folclorica dei cantastorie e, come annota Wu Ming 1 nell’articolo in uscita su Linus, in particolare «A Bologna e in Emilia, negli anni si è sviluppata una peculiare forma di reading-concerto, di declamazione narrativa su musica. L’esperienza dei CCCP ha influenzato le sperimentazioni di band come Massimo Volume, Starfuckers, Offlaga Disco Pax; sperimentazioni che a loro volta si sono ibridate con l’approccio alla lettura scenica di vari scrittori (su tutti Stefano Tassinari), teatranti, di musicisti provenienti dal jazz e dal punk. RIC ha ripreso questa tradizione, fondando una vera e propria officina di reading.»

      Lo strumento di cui RIC spesso si è avvalso è una miscela di performance artistica, trekking urbano, reading-concerto e guerriglia odonomastica.

      DI ASSEGNAZIONE DI ODONIMI A VIE E PIAZZE

      Nel caso delle grosse città, l’iter amministrativo che porta all’assegnazione di un odonimo a una strada è subordinato al parere di una commissione composta di solito da rappresentanti del Comune e dell’ufficio toponomastica.

      La delibera della commissione deve essere sottoposta al vaglio della giunta comunale e al prefetto per l’autorizzazione definitiva.

      Nella scelta dell’odonimo, la commissione tiene conto della toponomastica preesistente e della particolare storia di un quartiere. Può prendere in considerazione segnalazioni di comitati di cittadini, associazioni pubbliche o private. A loro sta il compito di raccogliere e presentare la documentazione sul personaggio a cui si desidera dedicare una via. In questi casi la persona deve essere morta da almeno dieci anni, fatta salva qualche personalità di spicco.

      Nel caso di piccoli centri urbani, l’iter prevede il coinvolgimento della polizia municipale e dell’urbanistica, sempre previa approvazione della giunta comunale.

      Alcune delle amministrazioni più ‘illuminate’ hanno preso coscienza della capacità degli odonimi di riflettere l’anima di un paese e della sua comunità e sono intervenute per modificare l’intitolazione di vie a personaggi e luoghi del fascismo e del colonialismo.

      A Madrid, grazie a una legge del governo spagnolo del 2007, sono state sostituite una cinquantina di odonimi dedicati a Franco e ad altri gerarchi franchisti, mentre a Berlino, sempre
      nell’aprile di quest’anno, i nomi di personaggi legati al colonialismo africano sono stati sostituiti con nomi di combattenti per la liberazione.

      In Italia un’esempio è stato quello della commissione alla toponomastica di Udine che, nel 2011 ha deciso di cambiare il nome di piazza Luigi Cadorna, il cui conclamato disprezzo per la vita dei soldati impiegati al fronte offende non solo la memoria dei tanti caduti sotto il suo comando, ma quella di chiunque ricordi il suo spocchioso agire alla testa delle truppe. La piazza oggi si chiama ‘piazzale Unità d’Italia’.

      Il 27 settembre 2015 il collettivo Resistenze in Cirenaica, il cantiere culturale permanente che si è proposto di fare del rione Cirenaica un laboratorio di memoria storica per riportare alla luce il rimosso coloniale, unificare le resistenze, opporsi all’antirazzismo e all’antifascismo ed essere solidale coi migranti e profughi, ha fatto un primo intervento di rinominazione dal basso di via Libia coprendo i cartelli stradali ufficiali con quelli recanti l’odonimo Vinka Kitarovic.

      Per l’intera giornata, e fino a quando le autorità e qualche solerte cittadino con ‘poca simpatia per l’iniziativa’, non hanno rimosso i cartelli, la via è stata intitolata a una partigiana croata di Šibenik deportata in Italia nel 1942 che, dopo essere stata rinchiusa nell’istituto per la rieducazione delle minorenni traviate in via Viola a Borgo Panigale, nel 1943 divenne staffetta della 7^ GAP, adottando il nome di Lina.

      Da allora, molto altri cartelli in diverse città d’Italia sono stati ‘hackerati’ o ‘aumentati’. In via Libia a Bologna e in via Tripoli a Casalecchio, per fare degli esempi locali, sotto il nome della strada è apparsa la scritta Luogo di crimini del colonialismo italiano, o in via Vittorio Bottego, sempre in città: esploratore e pluriomicida.

      La guerriglia odonomastica è uno strumento per riscuoterci dall’amnesia, un atto di resistenza con valore contro-informativo che contribuisce a smontare le false credenze e a mettere in rilievo storie accantonate o ignorate.

      È un gesto di riappropriazione degli spazi cittadini, dell’ambiente circostante; è un atto di consapevolezza e di coscienza per ricordare ciò che siamo stati e assumerci la responsabilità di ciò che abbiamo compiuto.

      Perché sapere ciò che è stato in passato, alla luce di ciò che siamo oggi, permette di promuovere il dibattito sulle figure ignobili della nostra storia. La guerriglia odonomastica pertanto è un atto politico.

      LA NASCITA DI RIC, DELLA GUERRIGLIA ODONOMASTICA E NON SOLO.

      Come già detto RIC è un cantiere culturale permanente con l’obiettivo di liberarsi di ogni sguardo italocentrico ed eurocentrico, che si propone di leggere le resistenze europee come parte di un ciclo più lungo e d’inserirle in un contesto planetario, quello della lotta anticoloniale attraverso la valorizzazione del ‘rovescio’ del Discorso sul colonialismo di Aimé Césaire: «se il progetto hitleriano, all’osso, consisté nell’aver applicato all’Europa metodi colonialistici che fino a quel momento avevano subito solo gli arabi d’Algeria, i coolies dell’India e i negri dell’Africa», allora la resistenza al nazifascismo fu anche una guerra anticoloniale nel cuore d’Europa.

      RIC crede che si possa e si deva ‘sprovincializzare’ e ‘creolizzare’ la narrazione delle guerre partigiane e i doppi nomi delle vie della Cirenaica gli hanno fornito un utilissimo spunto narrativo, che si integra alla perfezione col fatto che durante l’occupazione, nel rione si trovasse una tipografia clandestina e la sede del CUMER, il comando militare della Resistenza in Emilia-Romagna.

      Il 27 settembre 2015, oltre all’intitolazione dal basso a di via Libia a Vinka Kitarovic, a conclusione di un’intera giornata di reading, storie musica e performance, RIC insieme a centinaia di persone ha reso omaggio a Lorenzo Giusti con una targa col suo nome e la scritta ‘ferroviere anarchico’ nel giardino a lui dedicato e strappato alla speculazione edilizia grazie a un movimento di cittadini dal basso.

      La giornata è cominciata al Vag61 con un pranzo seguito da un trekking urbano per le vie del rione in cui Wu Ming 2 ha fatto tappa nella già via Rodi per raccontare la storia della famiglia Rossi e dei due fratelli, Giovanni detto Gianni e Gastone un coraggioso partigiano morto a soli sedici anni.

      La passeggiata è proseguita e, all’imbocco dell’’ex via Zuara, si è narrata la storia di Massenzio Masia, che si distinse tra le altre cose per aver messo in salvo dalla requisizione nazi-fascista la dotazione di radio custodita all’ospedale Sant’Orsola.

      In via Mario Musolesi grandi e piccoli hanno ascoltato la storia del comandante Lupo e della brigata Stella Rossa. Le soste sono state introdotte dal canto delle giovani voci del coro R’esistente, mentre le camminate erano accompagnate dalla musica delle Brigate Sonore.

      L’ultima tappa del trekking è stata in via Libia, ovviamente dedicata alla storia di Vinka. A seguire, tutti si sono spostati al Giardino Lorenzo Giusti per lo spettacolo della Compagnia Fantasma, che ha messo in scena il processo al capo della resistenza libica Omar al-Mukhtār; per il reading di Kai Zen J con il Buthan Clan sul bombardamento aereo dell’ospedale della Croce Rossa nei pressi di Malca Dida, per quello di Wu Ming 1 su Ilio Barontini, l’antifascista internazionalista per eccellenza conosciuto col nome di battaglia ‘Paulus’ e quelli di Valerio Monteventi su Paolo Fabbri, il figlio di mezzadri che dedicò anima e corpo alle lotte contadine, subì la galera e il confino e si uni ai partigiani e infine quello di Serafino D’Onofri su Lorenzo Giusti, il ferroviere anarchico che combatté in Spagna e partecipò alla resistenza nell’imolese.

      A questa giornata inaugurale ne sono seguite molte altre a Bologna e in altre città tra cui Ferrara e Bolzano. La più recente si è svolta lo scorso ottobre a Palermo nell’ambito della dodicesima edizione di Manifesta, la biennale nomade europea di arte contemporanea, che ha ospitato la più grossa iniziativa di guerriglia odonomastica, intitolata Viva Menilicchi!, descritta con estro in un post su Giap, il blog di Wu Ming Foundation.

      Resistenze in Cirenaica pubblica a cadenza irregolare i Quaderni di Cirene che riportano queste e altre esperienze oltre a saggi e interventi esterni.

      https://resistenzeincirenaica.com/della-guerriglia-odonomastica

  • Roma, la fermata della metro C #Amba_Aradam cambia nome: approvata l’intitolazione al partigiano #Marincola. Il vox tra i cittadini

    E’ stata approvata questo pomeriggio la mozione che impegna l’amministrazione capitolina ad intitolare la futura fermata della Metro C Amba Aradam al partigiano italo-somalo #Giorgio_Marincola. Mentre nell’Aula Giulio Cesare l’assemblea capitolina votava la mozione, appoggiata dalla sindaca Virginia Raggi, per cambiare quel nome simbolo del colonialismo italiano e di una delle peggiori stragi compiute dal regime fascista in Africa, i residenti che abitano nel quartiere vicino l’omonima via Amba Aradam, nell’area di San Giovanni, si dividono sull’iniziativa.


    C’è chi difende l’iniziativa del Campidoglio. Chi vuole conservare il vecchio nome scelto per la stazione metro C di Roma, ‘Amba Aradam‘, affinché “anche gli errori e le atrocità non vengano dimenticate”. Ma anche chi rivendica che “la storia non si debba cambiare”, quasi ‘nostalgico’ del periodo coloniale di matrice fascista.

    Lì, dove è in costruzione una nuova fermata della metropolitana (che dovrebbe essere ultimata entro il 2024, ndr) erano state le azioni dimostrative degli attivisti di #Black_Lives_Matter, seguite da appelli della società civile, a porre il problema di quella controversa toponomastica. Chiedendo di sostituire quel nome e di rendere invece omaggio al partigiano Marincola. Figlio di un soldato italiano e di una donna somala, da giovanissimo scelse di combattere per la Resistenza, contro l’occupazione nazifascista, ucciso dalle SS in Val di Fiemme il 4 maggio 1945.

    “Una scelta giusta, omaggiare un partigiano di colore può essere un atto di grande valore simbolico”, c’è chi spiega. Altri concordano: “Perché no?”. Una proposta che ha anche permesso di conoscere una storia spesso dimenticata: “Non lo conoscevo, ho letto sui giornali. Ma ora sono convinto che sia giusto dedicargli questo riconoscimento”, spiega una ragazza.

    Altri invece sono contrari: “Deve restare il nome ‘Amba Aradam’, si è sempre chiamata così anche la via”. Eppure, tra i sostenitori del vecchio nome (ma non solo), quasi nessuno conosce la storia della strage fascista che si consumò nel massiccio montuoso a nord di Addis Abeba, lungo il Tigre, quando, nel 1936, le truppe del maresciallo Badoglio e l’aviazione italiana massacrarono 20mila etiopi, compresi civili, donne e bambini, usando gas vietati già allora dalle convenzioni internazionali, come l’iprite. Altre centinaia persero la vita tre anni più tardi, all’interno di una profonda grotta dell’area, con le truppe fasciste che fecero uso di gas e lanciafiamme contro la resistenza etiope, per poi murare vivi gli ultimi sopravvissuti.

    Una storia che quasi nessuno conosce, anche chi difende il nome ‘Amba Aradam’. Certo, chi concorda con la nuova intitolazione è convinto che, al di là dei simboli, siano necessarie altre azioni concrete sul tema immigrazione, compreso il diritto alla cittadinanza per chi nasce, cresce e studia in Italia: “Ius soli e Ius culturae? Sono favorevole”, spiegano diversi residenti. Ma non solo: “Serve anche ripartire dalle scuole e dalla formazione per debellare il razzismo”.

    https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/08/04/roma-la-fermata-della-metro-c-di-via-amba-aradam-sara-intitolata-al-partigiano-marincola-il-vox-tra-i-residenti-sulliniziativa-del-campidoglio/5889280
    #toponymie #toponymie_politique #Italie #colonialisme #Rome #partisans #métro #station_de_métro #colonialisme_italien #passé_colonial #mémoire #guerre_d'Ethiopie #Ethiopie #massacre #Badoglio

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
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    • Prossima fermata: Giorgio Marincola

      Sulla scia di Black Lives Matter, un piccolo movimento d’opinione ha proposto di rinominare una stazione della metro C in costruzione. Sarà intitolata al partigiano nero che morì combattendo i nazisti in val di Fiemme.

      La zona intorno a via dell’Amba Aradam a Roma, alle spalle della basilica di San Giovanni in Laterano, è da tempo sottosopra per la presenza di un grande cantiere. Sono i lavori della linea C della metropolitana: uno dei tanti miti romani che si spera possa un giorno, chissà, diventare realtà. Se tutto andrà bene, nel 2024 la città avrà una fermata della nuova metro chiamata per l’appunto «Amba Aradam».

      Anzi, non più. Martedì 4 agosto l’Assemblea capitolina ha approvato – con l’appoggio della sindaca Virginia Raggi – una mozione che vincola l’Amministrazione cittadina a cambiare quel nome. Niente Amba Aradam: la stazione si chiamerà «Giorgio Marincola». Alla grande maggioranza degli italiani nessuno di questi due nomi – di luogo il primo, di persona il secondo – dice alcunché. Il primo è da tempo dimenticato dai più; il secondo nemmeno l’hanno mai sentito. Eppure la decisione di sostituire l’uno con l’altro, maturata nelle settimane recenti sulla scia del movimento Black Lives Matter e delle sue ripercussioni in Italia, è una svolta importante, di rilevante significato politico. Certifica l’opposta curva che la reputazione, l’eco dei due nomi percorre nella coscienza dei contemporanei.

      L’Amba Aradam, gruppo montuoso della regione del Tigrè, fu teatro a metà febbraio 1936 di una battaglia nel corso dell’aggressione fascista all’Etiopia. All’epoca venne celebrata in Italia come una grande vittoria, tacendo che era stata ottenuta con l’uso massiccio e indiscriminato di gas asfissianti proibiti dalla Convenzione di Ginevra. Ventimila morti tra combattenti e civili inermi abissini: una strage, un crimine di guerra per il quale nessuno è mai stato processato. Il Negus, costretto all’esilio, denunciò l’accaduto dalla tribuna della Società delle Nazioni, attirando sull’Italia l’obbrobrio delle democrazie. Oggi gli italiani in massima parte non sanno o non vogliono sapere. Restano i nomi di strade e piazze in varie località del Paese e un’espressione, «ambaradàn», di cui s’è scordata l’origine e che sta a significare una gran confusione.

      All’epoca della battaglia Giorgio Marincola aveva 12 anni e mezzo e frequentava la scuola media a Roma. La sua esistenza, sia prima che dopo, non ebbe nulla dell’apparente banalità che sembrano indicare queste scarne notizie. E merita di essere raccontata, perché troppo pochi ancora la conoscono.

      Giorgio era nato in Somalia nel settembre del ’33. Suo padre Giuseppe era un maresciallo maggiore della Regia Fanteria; sua madre, Askhiro Hassan, era somala; la sua pelle era color caffellatte. Prendere una concubina del posto, per gli italiani che a vario titolo si trovavano nella colonia somala era, all’epoca, comportamento diffuso. Per niente diffusa, viceversa, la scelta di riconoscere i figli nati da quelle unioni: ma Giuseppe Marincola volle comportarsi così, e li portò con sé in Italia. Giorgio, negli anni dell’infanzia, fu affidato a una coppia di zii che vivevano in Calabria e non avevano figli. La sorellina Isabella, di due anni più giovane, crebbe invece presso il padre e la moglie italiana che Giuseppe aveva nel frattempo sposato. Questa precoce separazione segnò le vite dei bambini: il maschio fu avvolto dall’affetto degli zii come fosse figlio loro; Isabella fu respinta dalla cattiveria e dai maltrattamenti di una matrigna che non l’amava. (La sua storia è narrata nel bel libro di Wu Ming 2 e Antar Mohamed Timira, pubblicato da Einaudi nel 2012, dal quale sono tratte la maggior parte delle informazioni qui riferite).

      Adolescente, Giorgio Marincola fu riunito alla sua famiglia a Roma. Negli anni del liceo, iscritto all’Umberto I, ebbe come insegnante di Storia e Filosofia Pilo Albertelli, al quale quello stesso istituto scolastico è oggi dedicato. Il professor Albertelli, partigiano, eroe della Resistenza, medaglia d’oro al valor militare, fu arrestato il primo marzo del ’44 mentre faceva lezione, torturato, infine trucidato tra i martiri dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. A quel punto Giorgio, che nel frattempo aveva terminato le superiori e si era iscritto a Medicina, ne aveva già seguito l’esempio unendosi ai gruppi partigiani legati a Giustizia e Libertà attivi a Roma e nel Lazio.

      Nel giugno del ’44 i tedeschi lasciarono Roma e i compagni d’avventura di Giorgio, deposte le armi, si apprestarono a tornare all’università. Lui volle invece continuare a combattere: raggiunse la Puglia, dove ricevette una sommaria formazione da parte delle forze speciali alleate, e qualche settimana dopo fu paracadutato sul Biellese. Si unì alle formazioni partigiane di GL in Piemonte, finché non fu catturato. I fascisti repubblichini usavano costringere i prigionieri a lanciare appelli dalla loro emittente Radio Baita, affinché convincessero i compagni a deporre le armi. Messo davanti al microfono, Marincola pronunciò invece parole che andrebbero riportate su ogni manuale scolastico di storia: «Sento la patria come una cultura e un sentimento di libertà, non come un colore qualsiasi sulla carta geografica… La patria non è identificabile con dittature simili a quella fascista. Patria significa libertà e giustizia per i popoli del mondo. Per questo combatto gli oppressori…».

      Così il giovane eroe fu consegnato ai tedeschi, che lo deportarono nel campo di transito di Gries, alle porte di Bolzano. Lì lo raggiunse la Liberazione, all’indomani del 25 aprile 1945. La guerra in Italia era finita ma ancora una volta Giorgio si mise a disposizione dei comandi militari di Giustizia e Libertà. Insieme ad altri cinque o sei ragazzi, fu incaricato di presidiare un bivio in località Stramentizzo in Val di Fiemme, poco a nord di Trento, sulla strada della ritirata delle colonne tedesche le quali, in base agli accordi di resa, avevano avuto concesso libero transito verso il loro Paese. Per evitare incidenti, la piccola unità partigiana aveva ricevuto ordine di non portare le armi: si trattava insomma soltanto di dirigere il traffico.

      Alle prime ore di una bella mattina di maggio, il giorno 5, una colonna di SS si presentò all’incrocio, preceduta da bandiere bianche. I soldati scesero dai camion e fecero fuoco. Poi procedettero verso il paese di Stramentizzo, seminando morte tra le case: fu l’ultima strage nazista in territorio italiano. L’episodio è stato variamente raccontato: sta di fatto che così finì la giovane vita di Giorgio Marincola, a 22 anni non ancora compiuti. Quando i comandi di GL ricevettero le prime confuse notizie dell’accaduto, furono informati che tra i morti c’era un ufficiale di collegamento americano: nessuno immaginava che un uomo dalla pelle nera potesse essere italiano.

      Da molti decenni Stramentizzo non esiste più: alla metà degli anni Cinquanta finì sul fondo del lago artificiale creato dalla diga costruita sul corso del torrente Avisio. A Marincola fu conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria; nel ’46 l’Università di Roma gli attribuì la laurea in Medicina honoris causa. Poi il suo nome finì nel dimenticatoio: una via a Biella, nelle cui vicinanze aveva combattuto; un’aula della scuola italiana a Mogadiscio, in Somalia, in seguito demolita. Nient’altro. Finché, piano piano, con una lotta sorda e ostinata per salvarne la memoria, si è tornati a parlare di lui: un libro, Razza partigiana, di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio; l’aula di Scienze del liceo Albertelli di Roma, dove oggi ai ragazzi viene raccontata la sua storia. E, nel prossimo futuro, una stazione delle metropolitana, affinché i romani ricordino.

      https://www.azione.ch/attualita/dettaglio/articolo/prossima-fermata-giorgio-marincola.html

    • Metro C, nuova stazione Amba Aradam-Ipponio sarà intitolata a partigiano Giorgio Marincola

      Approvata in Campidoglio una mozione per intitolare la futura fermata della metro C Amba Aradam/Ipponio al partigiano antifascista Giorgio Marincola. Figlio di un sottufficiale italiano e di una donna somala, vissuto a Roma nel quartiere di Casalbertone, scelse di contribuire alla liberazione d’Italia nel periodo della Resistenza. Morì in Val di Fiemme nel maggio 1945.

      L’iniziativa per l’intitolazione era stata lanciata, nelle scorse settimane, con una petizione su change.org che ha raccolto numerose adesioni.

      https://www.comune.roma.it/web/it/notizia/metro-c-nuova-stazione-amba-aradam-ipponio-sara-intitolata-a-partigiano-

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      Le texte de la motion:
      Mozione n.68 del 4agosto 2020
      https://www.carteinregola.it/wp-content/uploads/2016/09/moz68-20-intitolazione-stazione-metro-marincola.pdf

    • La pétition sur change.org:
      Fanpage - "Perché intitolare al partigiano meticcio Marincola la stazione della metro C Amba Aradam

      «Giorgio Marincola, figlio di una madre somala e di un soldato italiano, è stato un partigiano che ha combattuto da Roma al Nord Italia fino agli ultimi giorni della Liberazione. Sarebbe meglio intitolare la nuova stazione della metro C a lui, piuttosto che con il nome Amba Aradam, che ricorda uno degli episodi più atroci dell’occupazione italiana in Etiopia. La proposta, rilanciata anche da Roberto Saviano, ora è diventata una petizione online rivolta alla sindaca Virginia Raggi.»

      https://www.change.org/p/virginia-raggi-intitoliamo-la-stazione-della-metro-c-di-via-dell-amba-aradam-a-giorgio-marincola/u/27093501

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      Perché intitolare al partigiano meticcio Giorgio Marincola la stazione della metro C di Amba Aradam

      Giorgio Marincola, figlio di una madre somala e di un soldato italiano, è stato un partigiano che ha combattuto da Roma al Nord Italia fino agli ultimi giorni della Liberazione. Sarebbe meglio intitolare la nuova stazione della metro C a lui, piuttosto che con il nome Amba Aradam, che ricorda uno degli episodi più atroci dell’occupazione italiana in Etiopia. La proposta, rilanciata anche da Roberto Saviano, ora è diventata una petizione online rivolta alla sindaca Virginia Raggi.

      Nella notte tra giovedì e venerdì un’azione da parte di un gruppo di attivisti antirazzisti ha portate anche nella capitale la mobilitazione che, partita dagli Stati Uniti e allargatasi all’Europa e non solo, mette in discussione i simboli del passato coloniale e schiavista, siano essi statue, targhe, intitolazioni di vie e piazze. A Milano a finire (di nuovo) nel mirino è stata la statua dedicata al giornalista Indro Montanelli. A Roma, con l’hashtag Black Lives Matter, a essere presa di mira è stata la statua del generale #Antonio_Baldissera, protagonista degli orrori dell’avventura coloniale fascista, il cui busto al Pincio è stato coperto di vernice. Contemporaneamente largo dell’Amba Aradam e via dell’Amba Aradam venivano reintitolati a #George_Floyd e a #Bilal_Ben_Messaud. «#Nessuna_stazione_abbia_il_nome_dell'oppressione», con questo cartello gli attivisti hanno posto il problema del nome della stazione della Metro C di prossima apertura, che richiama uno degli episodi più sanguinosi e brutali della repressione della resistenza etiope all’occupazione italiana.

      Una questione, quella del nome della nuova stazione, che ha visto un’apertura da parte dell’assessore ai Trasporti di Roma Capitale Pietro Calabrese. “Ci stavamo già pensando, anche perché, al di là di tutto, la stazione non è su viale dell’Amba Aradam”, ha dichiarato al Fatto Quotidiano. Intanto in rete ha cominciato a circolare una proposta: perché non intitolarla al partigiano Giorgio Marincola? Figlio di un soldato italiano e di una donna somala, il padre Giuseppe Marincola era stato caporale maggiore e, decise di riconoscere i due figli avuti dall’unione con Askhiro Hassan.

      Una proposta che è stata rilanciata da Roberto Saviano e che è diventata ora una petizione su Change.org indirizzata alla sindaca Virginia Raggi, lanciata dal giornalista Massimiliano Coccia: «La fermata della Metro C di Roma che sorge a ridosso di Porta Metronia in via dell’Amba Aradam sia intitolata a Giorgio Marincola, partigiano nero, nato in Somalia e ucciso dai nazisti in Val di Fiemme. Giorgio liberò Roma e scelse di liberare l’Italia. Una storia spesso dimenticata dalla storiografia attuale ma che racconta una pagina generosa della nostra Resistenza». Sarebbe questa una scelta simbolica certo, ma di grande impatto, per affrontare la questione del colonialismo italiano e cominciare a fare i conti con il mito degli «italiani brava gente» che, appunto altro non è che un mito. Giorgio Marincola non è stato solo una partigiano, ma la vicenda della sua famiglia già dagli anni ’20 del secolo pone la questione dell’esistenza di una black Italy misconosciuta e negata.
      La storia di Giorgio e Isabella Marincola è la storia di un’Italia meticcia

      Giorgio Marincola arriva in Italia poco dopo la sua nascita e si iscrisse nel 1941 alla facoltà di Medicina cominciando ad avvicinarsi al Partito d’Azione con cui poi decise di partecipare alla Resistenza, prima a Roma poi nel Nord Italia. Catturato dalle SS fu tradotto dopo percosse e torture in carcere a Torino e poi a Bolzano. Qui fu liberato dagli Alleati ma invece di portarsi in Svizzera con un convoglio della Croce Rossa, decise di proseguire la Resistenza in Val di Fiemme e qui sarà ucciso il 4 maggio 1945 a un posto di blocco dai soldati tedeschi ormai in rotta. Alla sua storia è stato dedicato un libro «Razza Partigiana», che è anche un sito internet, scritto da Carlo Costa e Lorenzo Teodonio ed edito da Iacobelli. Anche la storia della sorella di Giorgio, Isabella Marincola, è entrata in un libro scritto dal figlio Antar Mohamed e dallo scrittore Wu Ming 2, è intitolato «Timira. Romanzo Meticcio» (Einaudi) e indaga attraverso il caleidoscopio biografico di Isabella e di Antar la storia coloniale italiana e il suo presente di rimozione, una storia che attraversa tutto il Novecento e l’inizio del nuovo secolo attraverso la vicenda a tratti incredibile di una «italiana nera».

      https://roma.fanpage.it/perche-intitolare-al-partigiano-meticcio-giorgio-marincola-la-stazione-

    • Il blitz: via Amba Aradam intitolata a George Floyd e Bilal Ben Messaud

      Raid antirazzista nella notte in via dell’Amba Aradam in zona San Giovanni a Roma. Cartelli della toponomastica modificati con fogli con su scritto il nome di George Floyd e Bilal Ben Messaud ed esposto uno striscione con su scritto «Nessuna stazione abbia il nome dell’oppressione» firmato Black Lives Matter. Sul posto la polizia. Inoltre, sempre durante la notte, il busto di Antonio Baldissera, generale a capo delle truppe italiane in Eritrea, è stata imbrattata con vernice rossa. I raid antirazzisti sono stati messi a segno dal gruppo Restiamo umani. «Smantelleremo i simboli del colonialismo nella Capitale», annunciano su Facebook dando «il sostegno ai manifestanti che a partire da Minneapolis hanno riempito le piazze di decine di città del mondo» e rifiutando «ogni contestualizzazione storica». I componenti del gruppo Restiamo umani dunque prendono come bersaglio «le strade che richiamano stragi vergognose compiute dai soldati italiani in Etiopia, come via dell’Amba Aradam» o i «monumenti che conferiscono invece gloria eterna a uomini colpevoli delle peggiori atrocità verso il genere umano: tra gli “illustri” della storia italiana al Pincio c’è un busto di Antonio Baldissera, generale a capo delle truppe italiane in Eritrea e successivamente governatore della colonia italiana di Eritrea alla fine del XIX secolo, quasi che il passato coloniale italiano fosse un lustro invece che un crimine che come tale va ricordato».

      https://video.corriere.it/blitz-via-amba-aradam-intitolata-george-floyd-bilal-ben-messaud/bd76d308-b20b-11ea-b99d-35d9ea91923c

    • Fantasmi coloniali

      Nella notte di giovedì 18 giugno, la Rete Restiamo Umani di Roma ha compiuto un’azione di #guerriglia_odonomastica in alcuni luoghi della città che celebrano gli orrori del colonialismo italiano in Africa. In particolare sono stati colpiti la via e il largo «dell’Amba Aradam», insieme alla futura stazione «Amba Aradam/Ipponio» sulla linea C della metropolitana.

      Le targhe stradali sono state modificate per diventare «via George Floyd e Bilal Ben Messaud», mentre lungo le barriere che delimitano il cantiere della nuova fermata sotterranea sono comparsi grandi manifesti con scritto: «Nessuna stazione abbia il nome dell’oppressione».

      Il gesto degli attivisti romani intende denunciare la rimozione, il silenzio e la censura sui crimini del colonialismo, poiché questi contribuiscono a rafforzare e legittimare il razzismo di oggi. Amba Aradam è infatti il nome di un’altura dell’Etiopia dove l’esercito italiano, guidato da Pietro Badoglio, sconfisse i soldati di Hailé Selassié, sparando anche 1.367 proietti caricati ad arsine, un gas infiammabile e altamente tossico, in aperta violazione del Protocollo di Ginevra del 1925, contro l’impiego in guerra di armi chimiche.

      Nei giorni successivi, l’aviazione italiana bombardò le truppe nemiche in fuga. Nella sua relazione al Ministero delle Colonie, Badoglio scrisse che: «in complesso 196 aerei sono stati impiegati per il lancio di 60 tonnellate di yprite (sic) sui passaggi obbligati e sugli itinerari percorsi dalle colonne».

      La strada si chiama così dal 21 aprile 1936, quando venne inaugurata da Mussolini in persona. Il suo nome precedente era «Via della Ferratella», forse per via di una grata, nel punto in cui il canale della Marana passava sotto Porta Metronia. Per non cancellare quell’odonimo, venne ribattezzata «via della Ferratella in Laterano» una strada subito adiacente.

      Negli ultimi anni, molte azioni di guerriglia odonomastica si sono ripetute nelle città italiane, dimostrando che i simboli del passato parlano al presente anche quando li si vorrebbe anestetizzare e seppellire nell’indifferenza. L’intervento di giovedì scorso ha avuto grande risonanza non perché sia il primo di questo genere, ma in quanto si collega esplicitamente alle proteste per l’assassinio di George Floyd, al movimento Black Lives Matter e al proliferare di attacchi contro statue e targhe odiose in tutto il mondo.

      Tanta attenzione ha prodotto, come primo risultato, la proposta di intitolare la nuova stazione della metro Ipponio/Amba Aradam al partigiano italo-somalo Giorgio Marincola, con tanto di petizione on-line alla sindaca Raggi. Quest’idea ci rende ovviamente felici, perché da oltre dieci anni ci sforziamo di far conoscere la storia di Giorgio e di sua sorella Isabella, con libri, spettacoli, ricerche, interventi nelle scuole e progetti a più mani.

      Ci sembra anche molto significativo che un luogo sotterraneo porti il nome di Giorgio Marincola, dal momento che la sua resistenza fu ancor più clandestina di quella dei suoi compagni, visto il colore molto riconoscibile della sua pelle, specie quando agiva in città, nelle file del Partito d’Azione. E d’altra parte, la miglior memoria della Resistenza è quella che si esprime dal basso, underground, senza bisogno di grandi monumenti, riflettori e alzabandiera: una memoria tuttora scomoda, conflittuale, che fatica a vedere la luce del sole.

      Ben venga quindi la stazione “Giorgio Marincola” della Metro C, ma ci permettiamo di suggerire che quell’intitolazione sia vincolata a un’altra proposta. Non vorremmo infatti che il nome di Giorgio facesse dimenticare quell’altro nome, Amba Aradam. Non vorremmo che intitolare la stazione a un “bravo nero italiano” finisse per mettere tra parentesi la vera questione, quella da cui nasce la protesta della Rete Restiamo Umani, ovvero la presenza di fantasmi coloniali nelle nostre città: una presenza incontestata, edulcorata e in certi casi addirittura omaggiata. Non vorremmo che uscendo dalla stazione Giorgio Marincola si continuasse a percorrere, come se niente fosse, via dell’Amba Aradam. Sarebbe davvero un controsenso.

      Roberto Saviano, appoggiando l’idea della “stazione Giorgio Marincola” ha scritto: «la politica sia coraggiosa, almeno una volta». Ma che coraggio ci vuole per intitolare una fermata della metro a un italiano morto per combattere il nazifascismo? Davvero siamo arrivati a questo punto? Siamo d’accordo con Saviano, c’è bisogno di gesti coraggiosi, non di gesti spacciati per coraggiosi che ci esimano dall’avere coraggio.

      Sappiamo che cambiare ufficialmente il nome a via dell’Amba Aradam sarebbe molto difficile, anche se l’esempio di Berlino dimostra che quando davvero si vuole, certe difficoltà si superano: nella capitale tedesca, tre strade intitolate a protagonisti del colonialismo in Africa sono state dedicate a combattenti della resistenza anti-coloniale contro i tedeschi.

      Ci piacerebbe allora che la stazione “Giorgio Marincola” venisse inaugurata insieme a un intervento “esplicativo” su via dell’Amba Aradam, come si è fatto a Bolzano con il bassorilievo della Casa Littoria e con il Monumento alla Vittoria. Si potrebbero affiggere alle targhe stradali altri cartelli, che illustrino cosa successe in quel luogo e in quale contesto di aggressione; si potrebbe aggiungere una piccola chiosa, sul cartello stesso, sotto il nome della via: «luogo di crimini del colonialismo italiano», o qualunque altro contributo che risvegli i fantasmi, che li renda ben visibili, che non ci lasci tranquilli e pacificati, convinti che l’ambaradan sia solo un ammasso di idee confuse.

      https://comune-info.net/che-il-colonialismo-non-riposi-in-pace
      #guerilla_toponymique #Via_della_Ferratella #fascisme #via_della_Ferratella_in_Laterano #Indro_Montanelli #Partito_d’Azione #Francesco_Azzi #Azzi #Magliocco

    • Siamo molto content* che l’amministrazione capitolina abbia scelto di dedicare a Giorgio Marincola la stazione inizialmente nominata «Amba Aradam», e siamo content* che il processo che ha portato a questa scelta sia iniziato grazie alla nostra azione del 18 giugno scorso. Crediamo però che questo sia solo un primo passo. La via e il largo di fronte alla stazione, dedicati all’ignobile eccidio compiuto dal nostro esercito colonizzatore in Etiopia devono al più presto seguire la stessa strada e cambiare nome. Il percorso per decolonizzare la toponomastica razzista e colonialista ancora presente nella nostra città ha avuto solo un inizio e deve necessariamente continuare. Lo dobbiamo a chi è morto per le atrocità compiute dall’esercito tricolore, lo dobbiamo a chi è discriminato per razzismo oggi, lo dobbiamo a chi muore in mare per l’ignavia del nostro governo. Ricordiamo che il governo Conte e la sua maggioranza hanno vergognosamente confermato gli accordi con le milizie libiche responsabili di atroci violazioni a diritti umani della popolazione migrante africana. In forme diverse e più mediate, ma la violenza coloniale e razzista del nostro paese continua tutt’oggi e non smetteremo di lottare perché abbia fine.

      https://www.facebook.com/ReteRestiamoUmani

    • Why a Somali-born fighter is being honoured in Rome

      Rome’s city council voted earlier this month to name a future metro station in the Italian capital in honour of Giorgio Marincola, an Italian-Somali who was a member of the Italian resistance.

      He was killed at the age of 21 by withdrawing Nazi troops who opened fire at a checkpoint on 4 May 1945, two days after Germany had officially surrendered in Italy at the end of World War Two.

      The station, which is currently under construction, was going to be called Amba Aradam-Ipponio - a reference to an Italian campaign in Ethiopia in 1936 when fascist forces brutally unleashed chemical weapons and committed war crimes at the infamous Battle of Amba Aradam.

      The name change came after a campaign was launched in June, in the wake of Black Lives Matter protests around the world following the killing of African American George Floyd by US police.

      Started by journalist Massimiliano Coccia, he was supported by Black Lives Matter activists, other journalists and Italian-Somali writer Igiabo Scego and Marincola’s nephew, the author Antar Marincola.
      The ’black partisan’

      Activists first placed a banner at the metro site stating that no station should be named after “oppression” and pushed for Marincola’s short, but remarkable life to be remembered.

      He is known as the “partigiano neroor” or “black partisan” and was an active member of the resistance.

      In 1953 he was posthumously awarded Italy’s highest military honour, the Medaglia d’Oro al Valor Militare, in recognition of his efforts and the ultimate sacrifice he made.

      Marincola was born in 1923 in Mahaday, a town on the Shebelle River, north of Mogadishu, in what was then known as Italian Somaliland.

      His mother, Ashkiro Hassan, was Somali and his father an Italian military officer called Giuseppe Marincola.

      At the time few Italian colonists acknowledged children born of their unions with Somali women.

      But Giuseppe Marincola bucked the trend and later brought his son and daughter, Isabella, to Italy to be raised by his family.

      Isabella went on to become an actress, notably appearing in Riso Amaro (Bitter Rice), released in 1949.

      Giorgio Marincola too was gifted, excelling at school in Rome and went on to enrol as a medical student.

      During his studies he came to be inspired by anti-fascist ideology. He decided to enlist in the resistance in 1943 - at a time his country of birth was still under Italian rule.

      He proved a brave fighter, was parachuted into enemy territory and was wounded. At one time he was captured by the SS, who wanted him to speak against the partisans on their radio station. On air he reportedly defied them, saying: “Homeland means freedom and justice for the peoples of the world. This is why I fight the oppressors.”

      The broadcast was interrupted - and sounds of a beating could be heard.

      ’Collective amnesia’

      But anti-racism activists want far more than just the renaming of a metro stop after Marincola - they want to shine the spotlight on Italy’s colonial history.

      They want the authorities in Rome to go further and begin a process of decolonising the city.

      This happened unilaterally in Milan when, amid the Black Lives Matter protests, the statue of controversial journalist Indro Montanelli, who defended colonialism and admitted to marrying a 12-year-old Eritrean girl during his army service in the 1930s, was defaced.

      Yet to bring about true change there needs to be an awareness about the past.

      The trouble at the moment is what seems to be a collective amnesia in Italy over its colonial history.

      In the years I have spent reporting from the country I am always struck at how little most Italians seem to know about their colonial history, whether I’m in Rome, Palermo or Venice.

      The extent of Italy’s involvement in Eritrea, Somalia, Libya and Albania to Benito Mussolini’s fascist occupation of Ethiopia in the 1930s is not acknowledged.
      Somali bolognese

      Last month, Somalia celebrated its 60th anniversary of independence.

      Reshaped by 30 years of conflict, memories of colonial times have all been lost - except in the kitchen where a staple of Somali cuisine is “suugo suqaar”- a sauce eaten with “baasto” or pasta.

      But for this Somali bolognese, we use cubed beef, goat or lamb with our version of the classic Italian soffritto - sautéed carrots, onion and peppers - to which we add heady spices.

      I love to cook these dishes and last summer while I was in Palermo did so for Italian friends, serving it with shigni, a spicy hot sauce, and bananas.

      It was a strange pairing for Italians, though my friends tucked in with gusto - with only the odd raised eyebrow.

      And Somalis have also left their own imprint in Italy - not just through the Marincola siblings - but in the literature, film and sports.

      Cristina Ali Farah is a well-known novelist, Amin Nour is an actor and director, Zahra Bani represented Italy as a javelin thrower and Omar Degan is a respected architect.

      And today Somalis constitute both some of Italy’s oldest and newest migrants.

      In spring 2015 I spent a warm afternoon meandering throughout the backstreets near Rome’s Termini station meeting Somalis who had been in Italy for decades and Somalis who had arrived on dinghies from Libya.

      Those new to Italy called the older community “mezze-lira” - meaning “half lira” to denote their dual Somali-Italian identities.

      In turn they are called “Titanics” by established Somalis, a reference to the hard times most migrants have faced in making the perilous journey across the Mediterranean to reach Europe, and the lives they will face in Italy with the political rise of anti-migration parties.

      The naming of a station after Marincola is an important move for all of them - and a timely reminder for all Italians of the long ties between Italy and Somalia.

      https://www.bbc.com/news/world-africa-53837708

    • «La Casati era una delle varie imprese satelliti di una società, molto più grande, che da decenni dominava lo sviluppo urbanistico di Roma in serena continuità con il fascismo. Era già stata protagonista dello sviluppo della Città Eterna quando essa era diventata capitale dell’Italia unita, e aveva costruito interi quartieri in quella che un tempo era campagna. A molto delle nuove strade tracciate a inizio secolo e poi durante il Ventennio erano stati dati nomi coloniali - Viale Libia, via Eritrea, Via Dire Daua - che finita la guerra nessuno, nonostante la fine congiunta di fascismo e possedimenti d’oltremare, pensò di sostituire. Nemmeno quelli, come viale Amba Aradam, intitolati a carneficine».

      (pp.240-241)

      «In seguito certi soldati, quando furono tornati in Italia, presero a usare il nome di quel luogo come sinonimo dell’indescrivibile orrore. Come però succede da sampre i reduci di ogni guerra, non li capì nessuno. Chi non c’era stato non poteva immaginare il tappeto di carne che significavano quelle due parole: Amba Aradam. Anche perché il Duce le dichiarò il nome di una vittoria, qualcosa a cui intitolare piazze e strade. Gli italiani, come massaie che lavano imbarazzanti macchie dalle lenzuola prima di stenderle, ne eliminarono ogni retrogusto di orrore e le unirono in una sola dal suono buffo.
      ’Non fare questo ambaradam’ presero a dire le madri ai loro piccoli capricciosi’»

      (pp.354-355)

      in : #livre « #Sangue_giusto » de #Francesca_Melandri


      http://bur.rizzolilibri.it/libri/sangue-giusto-

  • Nairobi’s street names reveal what those in power want to remember, or forget
    https://neotopo.hypotheses.org/3231

    By: Melissa Wanjiru-Mwita: Post-doctoral Fellow, Université de Genève This article was first published on The Conversation The recent global events of civil and political unrest that started in the US have brought to...

    #African_Neotoponymy_Observatory_in_Network #Catégories #ExploreNeotopo #Notes_de_recherche

  • #Princeton to remove #Woodrow_Wilson's name from school, citing his ’racist thinking and policies’

    “Trustees concluded that Woodrow Wilson’s racist thinking and policies make him an inappropriate namesake” for the School of Public and International Affairs, the Princeton president said.
    https://media1.s-nbcnews.com/j/newscms/2020_26/3393125/200627-woodrow-wilson-princeton-al-1244_ffafbd36f937e1aae675e2d425

    Princeton University’s board has voted to remove the name of former U.S. President Woodrow Wilson from the university’s prestigious School of Public and International Affairs due to his “racist thinking and policies.”

    Friday’s statement by the board of trustees was shared with the Princeton community by Princeton President Christopher L. Eisgruber.

    “On my recommendation, the board voted to change the names of both the School of Public and International Affairs and Wilson College,” Eisgruber wrote. “As you will see from the board’s statement, the trustees concluded that Woodrow Wilson’s racist thinking and policies make him an inappropriate namesake for a school or college whose scholars, students, and alumni must stand firmly against racism in all its forms.”

    The board had previously considered removing Wilson’s name in 2016 after a group of student activists occupied the university president’s office months earlier, Eisgruber noted.

    But a review committee chose to keep the name, recommending instead a “number of reforms to make this University more inclusive and more honest about its history,” the president said in his email Saturday.

    The decision to reconsider came in the wake of deaths of George Floyd, Breonna Taylor, Ahmaud Arbery and Rayshard Brooks, which have sparked nationwide protests.

    What was Wilson College will now be called First College, while the public affairs school will be known as The Princeton School of Public and International Affairs.

    “Wilson’s racism was significant and consequential even by the standards of his own time. He segregated the federal civil service after it had been racially integrated for decades, thereby taking America backward in its pursuit of justice. He not only acquiesced in but added to the persistent practice of racism in this country, a practice that continues to do harm today,” the president wrote.

    The university had already planned to close Wilson College and retire the name as it builds two new residential colleges but decided the course of action would be to accelerate the retirement of the name.

    Presidential historian Michael Beschloss wrote on Twitter that “Princeton is doing the right thing by firmly separating itself from the Woodrow Wilson legacy.”

    In a second tweet, he posted a screenshot of a quote from the racist film, “#Birth_of_a_Nation,” in which #Wilson praised the Ku Klux Klan.


    https://twitter.com/BeschlossDC/status/1276931208778260481?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E12

    Sam Wang, a professor of neuroscience at the university, also praised the decision as did several students.

    “He was a consequential figure in our nation’s history and in building Princeton University. But his racism, unacceptable even during his lifetime, was too much,” Wang tweeted.

    Chaya Crowder, a doctoral candidate at the university, wrote on Twitter that the renaming is “a product of years of dedicated organizing by students activists.”

    “It took too long and is absolutely the [bare] minimum, but the removal of the woodrow wilson name is a direct result of the work of the BJL,” student Josiah Gouker posted, referring to the student activist organization the Black Justice League.

    “We need to continue that work,” Gouker tweeted.

    https://www.nbcnews.com/news/us-news/princeton-remove-woodrow-wilson-s-name-school-citing-his-racist-n1232340?ci
    #toponymie_politique #toponymie #USA #Etats-Unis #racisme #KKK #Ku_Klux_Klan

  • Françoise Vergès : « Qu’on m’explique pourquoi l’État a fait de Gallieni un héro national ! » | Patrick Piro
    https://www.politis.fr/articles/2020/06/francoise-verges-quon-mexplique-pourquoi-letat-a-fait-de-gallieni-un-hero-na

    Politiste, militante féministe, Françoise Vergès est très engagée dans les débats sur la « décolonialisation ». Elle se trouvait jeudi 18 juin place Vauban à Paris pour soutenir une action symbolique : le dépôt d’un drap noir sur la statue du général Gallieni. Promoteur de concepts raciaux, il s’est distingué à Madagascar à la fin du 19e siècle par une politique radicale de colonisation ayant conduit à des massacres et l’usage du travail forcé. Source : Politis

    • Au déboulonnage des statues s’oppose la proposition d’apposer des plaques rétablissant la vérité historique sur la carrière de ces personnages. Quelle est votre position ?

      Françoise Vergès : Mais, pour Gallieni, il faudrait en raconter énormément ! Et puis l’on se rendra compte que la plaque informative est une solution d’évitement. Car, enfin, il ne s’agit pas de relater les horreurs qu’il a commises à Madagascar, mais surtout de nous expliquer pourquoi la France a fait un héros national d’un massacreur, qui a imposé le travail forcé, privé les gens de citoyenneté, etc. Je suis pour une pédagogie active, et pas seulement « littéraire ». La place de cette statue est plutôt dans un musée, où seraient expliqués son parcours et l’idée qu’il avait des races. On entendrait des témoignages de Malgaches et de Vietnamiens dont les mouvements de résistance à la colonisation ont été écrasés. Et l’on expliquerait pourquoi, avec un tel parcours, la France a fait de Gallieni un héros national. C’est une explication que je n’ai jamais entendue. Emmanuel Macron nous dit qu’il ne faut pas effacer l’Histoire. Mais dites-nous pour quelle raison célébrer Gallieni ! Et pas plutôt Aimé Césaire, par exemple, ou Maurice Audin, Henri Alleg, Louise Michel…

  • Mémoire. #Roosevelt, #Washington, #Jefferson : ces présidents américains déboulonnés

    La #statue de l’ancien président Theodore Roosevelt va être délogée de l’entrée du Muséum d’histoire naturelle de #New_York. Aux États-Unis, le débat national sur la pertinence de certains monuments s’est élargi à des personnages tels que les pères fondateurs George Washington et Thomas Jefferson.

    https://www.courrierinternational.com/article/memoire-roosevelt-washington-jefferson-ces-presidents-america

    #statues #mémoire #toponymie_politique #USA #Etats-Unis

  • La station de #métro #Gallieni, à #Bagnolet, rebaptisée « #Josette_et_Maurice_Audin »

    Le 17 juin, à la station de métro Gallieni, à Bagnolet, le terminus de la ligne 3 du métro parisien, une opération symbolique a été organisée pour l’appeler « Josette et Maurice Audin », conjointement à une demande officielle à la RATP pour qu’elle soit ainsi rebaptisée. Ci-dessous l’article de Rosa Moussaoui que le quotidien l’Humanité a publié le 19 juin 2020, et les échos de ce rassemblement sur LCI et la radio France bleu, Paris. Nous reprenons également le dossier réalisé par les Archives nationales sur la carrière militaire et coloniale du général #Joseph_Gallieni et son gouvernorat sanglant de #Madagascar (de 1896 à 1905).

    https://histoirecoloniale.net/La-station-de-metro-Gallieni-a-Bagnolet-rebaptisee-Josette-et-Mau
    #toponymie #toponymie_politique #Paris #France #colonialisme

    ping @karine4 @cede

  • La carte de la #mémoire statuaire par Christian Grataloup - Sciences et Avenir

    https://www.sciencesetavenir.fr/archeo-paleo/la-carte-de-la-memoire-statuaire-par-christian-grataloup_145329

    Les pratiques mémorielles collectives les plus courantes ne coutent pas bien cher. Il suffit de nommer. Plutôt que de numéroter les rues ou les établissements (scolaires, hospitaliers, militaires, etc.), on leur donne un nom, le plus souvent celui d’une personne, décédée de préférence. La dépense se limite à quelques plaques. On retrouve aussi ces dénominations sur les papiers à en-tête ou les cartes de visites, dans la mesure où subsistent encore ces pratiques prénumériques. Quel effet cela a-t-il pour le souvenir du (rarement de la) disparu(e) ? Très certainement peu de choses. Beaucoup de résidents ignorent qui était l’illustre dont leur adresse porte le patronyme et avouent souvent ne pas même s’être posé la question. Habiter avenue des tilleuls ou rue Gambetta ne change rien à la vie quotidienne ou aux représentations qu’on se fait de sa propre géographie. Littéralement, le plan de la ville n’est pas une carte-mémoire.

    #traces #statues #déboulonage

    • Les #pratiques_mémorielles collectives les plus courantes ne coutent pas bien cher. Il suffit de nommer. Plutôt que de numéroter les rues ou les établissements (scolaires, hospitaliers, militaires, etc.), on leur donne un #nom, le plus souvent celui d’une personne, décédée de préférence. La dépense se limite à quelques #plaques. On retrouve aussi ces #dénominations sur les papiers à en-tête ou les cartes de visites, dans la mesure où subsistent encore ces pratiques prénumériques. Quel effet cela a-t-il pour le souvenir du (rarement de la) disparu(e) ? Très certainement peu de choses. Beaucoup de résidents ignorent qui était l’illustre dont leur adresse porte le #patronyme et avouent souvent ne pas même s’être posé la question. Habiter avenue des tilleuls ou rue Gambetta ne change rien à la vie quotidienne ou aux représentations qu’on se fait de sa propre #géographie. Littéralement, le plan de la ville n’est pas une carte-mémoire.

      "Ah, s’il avait pu ne pas exister, celui-là !"

      Je me souviens avoir, il y a plus de quarante ans, enseigné dans un collège (un CES alors) de ce qui était la banlieue rouge. La municipalité communiste lui avait donné le nom de #Marcel_Cachin. Lorsque la vie politique française du XXe siècle figurait dans les programmes, je me faisais un devoir de citer l’homme politique communiste, longtemps directeur de L’Humanité. Je n’ai jamais rencontré un élève qui en avait au préalable une vague connaissance. Pourtant, cela faisait moins de vingt ans qu’il était décédé et l’environnement politique local aurait pu favoriser ce culte du héros. L’ignorance était aussi profonde dans l’établissement voisin baptisé (si j’ose dire) Eugénie Cotton. Chose amusante, il est plusieurs fois arrivé que des élèves s’écrient : "ah, s’il avait pu ne pas exister, celui-là !". On pourrait imaginer une dystopie où il serait possible d’effacer le passé, ce qui ferait disparaître tous les lieux portant le nom évanoui. L’abolition historique générant l’abolition géographique. L’amnésie gommant la carte.

      En supprimant une statue, ne serait-on pas quelque peu dans un processus de même nature, mais inversé ? Effacer la #matérialisation d’une mémoire, ce n’est plus, bien sûr, la glorifier, mais ce n’est pas non plus montrer quelles nuisances, quelles souffrances elle avait occultées. Passé le bref moment de satisfaction qu’apporte le sentiment d’avoir infligé une juste punition, comment pourra-t-on rappeler au quotidien ces nuisances et ces souffrances ? En érigeant d’autres statues, jusqu’à ce que plus tard d’autres mécontentements finissent par les prendre pour cibles, soit par regret des #célébrations antérieures, soit, plus probablement, parce que les personnages ou les actes célébrés apparaissent trop tièdes, trop ambigus. Ce sont les actuelles mésaventures de #Victor_Schœlcher, dont les représentations n’ont d’autres buts que de rappeler l’abolition de l’#esclavage (sinon, qui se souviendrait de cet assez modeste personnage politique du XIXe siècle ?), raison qui lui a valu d’être, avec #Félix_Eboué, panthéonisé en 1949 (et sa tombe fleurie par Mitterrand en 1981).

      Contextualiser et non effacer

      La colère qui aboutit au renversement d’une statue est d’aujourd’hui. Ce ne sont pas les comptes du passé qui sont réglés, mais des souffrances bien contemporaines qui s’expriment. S’attaquer à la mémoire des traites négrières et de leurs acteurs hurle la blessure constamment rouverte du racisme subi au quotidien. Mais en tentant de changer la mise en scène du passé – qui ne passe pas, selon la formule consacrée -, c’est la mémoire qui risque de disparaître, pas le racisme présent qui n’a nul besoin de profondeur historique.

      De fait, tous les historiens et autres spécialistes de sciences sociales ne cessent de dire qu’il faut avant tout contextualiser et non effacer. Bien sûr, je ne peux y manquer. Mais je contenterai d’un seul critère de mise en situation : éviter de réduire une personne et sa statue à une symbolique marginale dans ce qu’elles peuvent représenter. En 2005, la célébration du bicentaire de la victoire d’Austerlitz a avorté. Cela pouvait se comprendre par refus d’une exaltation militariste et impérialiste. Mais le grand reproche fait alors à Napoléon a été d’avoir rétabli l’esclavage aux colonies trois ans avant la bataille. Ce retour en arrière sur un acquis majeur de la Révolution, même s’il n’avait guère eu d’effet concret, est évidemment un acte honteux. Mais ce n’est vraiment pas pour cela qu’on a érigé des statues de l’empereur. La situation est la même pour la figure du roman national la plus honnie aujourd’hui : Jean-Baptiste Colbert. On peut le détester pour les mêmes raisons qui ont fait réinventer son personnage par la 3ème République : le fait qu’il soit un maillon essentiel dans la chaîne des bâtisseurs de l’Etat central. Le roman national en faisait un modèle à suivre pour les petits écoliers, en vantant sa capacité de travail : l’imagerie le montrait entrant dans son bureau très tôt le matin et se frottant les mains pour exprimer son plaisir de voir d’énormes piles de dossiers à travailler. Le colbertisme n’a que marginalement à voir avec le Code noir dont la haine dont il est l’objet témoigne d’abord d’une totale décontextualisation. Certes, il vaut mieux prendre des symboles qui tiennent la route et Christiane Taubira a très justement tranché sur la mémoire de Colbert en insistant sur les raisons toutes autres de sa célébration. Sacrifier la statue qui trône devant l’Assemblée nationale (d’ailleurs une copie) n’aurait pas grand sens et n’aboutirait qu’à provoquer d’inutiles divisions.

      Les oubliées, les opprimées, les minoritaires

      L’ancien contrôleur général des finances de Louis XIV connaît ainsi un bref moment de « popularité » qui n’a pas grand rapport avec la patrimonialisation généralisée dans laquelle nous baignons depuis au moins trois décennies. Dans un monde où toute ancienne usine, toute petite zone humide, toute vieille ferme est célébrée comme un lieu de mémoire si sa destruction est envisageable, ne resterait-il que les statues qu’il faudrait effacer ? Alors que, dans l’ensemble, on ne leur prête généralement aucun intérêt et que même ceux qui passent régulièrement devant elles ne s’y intéressent pas le moins du monde. Une solution est aujourd’hui souvent prônée : ériger nouvelles statues célébrant les oubliées, les opprimées, les minoritaires. Vu que l’immense majorité de la statuaire publique (et encore, compte non tenu des monuments aux morts militaires) représente des hommes blancs, souvent vieux, la tâche est impressionnante, digne d’une relance économique hyper-keynésienne. Mais les sommes monumentales (désolé, le jeu de mot est tentant) nécessaires ne seraient-elles pas mieux employées à remettre à flots les hôpitaux publics ? Il est vrai que ce serait sans doute un facteur de réindustrialisation, les bronziers ayant largement disparu du territoire national.

      Lorsque le président sénégalais #Abdoulaye_Wade a voulu ériger sur les #collines_des_Mamelles, près de #Dakar et face à l’Atlantique, l’énorme groupe statuaire qu’est le monument de la #Renaissance_africaine (52 mètres de haut, en bronze et cuivre), un seul pays s’est montré capable de relever le défi technique : la Corée du Nord. Statufier les mémoires est chose difficile. Deux passés particulièrement douloureux, la Shoah et les traites négrières se livrent à ce qu’il est convenu d’appeler une concurrence mémorielle. Des lieux ont pu être ainsi fabriqués, ainsi la maison des esclaves de Gorée où sans doute peu d’esclaves sont passés, mais peu importe. D’autres subsistent, comme la cité de la Muette à Drancy qui fut l’antichambre d’Auschwitz. Neuf juifs sur dix déportés de France passèrent par le camp de Drancy. En 2006 une sorte de jumelage mémoriel fut mis en place entre les municipalités de Gorée et de Drancy avec l’érection de deux groupes statuaires, un dans chaque lieu, réalisés par deux artistes guadeloupéens, Jean et Christian Moisa. Mais les deux célèbrent la fin de l’esclavage, pas la libération des camps.

      Finalement, la statue la plus durable serait celle qui n’a pas de corps. Grace aux déboulonnages opérés durant l’occupation pour fournir des métaux rares aux Allemands, ont longtemps subsisté sur bien des places de France, des socles vides, pourvu néanmoins d’une plaque. La solution a été adoptée pour un des très récents ensembles de statues érigées à Paris : le monument aux 549 soldats français morts en #Opex inauguré le 11 novembre 2019 par le président Macron. Le cercueil porté par les 6 soldats de bronze est non seulement vide, mais il n’existe pas. La statue idéale.

      #statues #Christian_Grataloup #toponymie_politique #effacement #contextualisation

      ping @albertocampiphoto @isskein

  • "Via la statua di #Montanelli da Milano, è stato un razzista": la richiesta dei Sentinelli apre il dibattito in Comune

    Dopo l’uccisione negli Usa di George Floyd l’associazione milanese chiede che venga tolta la statua e cambiata l’intitolazione dei giardini pubblici. Salvini: «Che vergogna». Parte del Pd sostiene la proposta di discuterne, ma dal capogruppo arriva il no.

    L’anno scorso le donne di «Non una di meno» l’avevano imbrattata con la vernice rosa durante il corteo dell’8 marzo. Ora sono i ’#Sentinelli_di_Milano', a fare una lettera appello al sindaco Beppe Sala e al Consiglio comunale per chiedere di rimuovere la statua dedicata a #Indro_Montanelli, giornalista e scrittore che in Africa durante il colonialismo italiano si macchiò della colpa di fare di una bambina eritrea la sua concubina. A lui la giunta del sindaco Gabriele Albertini intitolò anche il giardino di Porta Venezia dove c’è la statua a lui dedicata. Un tema molto controverso che viene adesso legato all’omicidio in America dell’afroamericano George Floyd, scatena il dibattito in Rete e in futuro approderà in aula a Palazzo Marino.

    L’appello per la rimozione è sulla pagina Facebook dell’associazione che si batte per i diritti (https://www.facebook.com/isentinellidimilano/photos/a.326149944234099/1563182730530808/?type=3&theater): «A Milano ci sono un parco e una statua dedicati a Indro Montanelli, che fino alla fine dei suoi giorni ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale, durante l’aggressione del regime fascista all’Etiopia. Noi riteniamo che sia ora di dire basta a questa offesa alla città e ai suoi valori democratici e antirazzisti e richiamiamo l’intero consiglio a valutare l’ipotesi di rimozione della statua, per intitolare i #Giardini_Pubblici a qualcuno che sia più degno di rappresentare la storia e la memoria della nostra città Medaglia d’Oro della Resistenza», si legge nel post subito condiviso e approvato da migliaia di persone. Molte però anche le critiche arrivate in coda allo stesso post, come avvenne l’anno scorso dopo la manifestazione delle femministe.

    «Giù le mani dal grande Indro Montanelli. Che vergogna la sinistra, viva la libertà», interviene il leader della Lega Matteo Salvini. Ma i Sentinelli non arretrano: «Dopo la barbara uccisione di George Floyd a Minneapolis le proteste sorte spontaneamente in ogni città con milioni di persone in piazza e l’abbattimento a Bristol della statua in bronzo dedicata al mercante e commerciante di schiavi africani #Edward_Colston da parte dei manifestanti antirazzisti di #Black_Lives_Matter - scrivono ancora su Fb - richiamiamo con forza ogni amministrazione comunale a ripensare ai simboli del proprio territorio e a quello che rappresentano».

    Della richiesta si farà portatrice Diana De Marchi, consigliera comunale del Pd, che potrebbe chiedere il dibattito in aula a Palazzo Marino. «Ne parlerò con il gruppo quando riceveremo la richiesta - spiega De Marchi - Certo, sarebbe tema della mia commissione e la storia tra Montanelli e una giovanissima donna eritrea così descritta era una brutta pagina per i diritti. Ma devo anche andare a ricostruire la proposta della statua, come era stata valutata, perché molti di noi non c’erano a quel tempo e nemmeno io». Sulla discussione in consiglio è d’accordo anche Alessandro Giungi (Pd): «In aula discutiamo di tutto e se ci sarà una richiesta in tal senso, perché non dovremmo farlo? Ma non ho mai detto di essere per lo spostamento della statua. Montanelli è stato comunque un protagonista della vita cittadina».

    L’idea piace ad Arci Milano che si associa alla richiesta dei Sentinelli, mentre una bocciatura netta arriva dal capogruppo Pd in Comune, Filippo Barberis: «Sono molto, molto lontano culturalmente da questi tentativi di moralizzazione della storia e della memoria che trovo sbagliati e pericolosi. Atteggiamenti che hanno a che fare più con la categoria della censura che della riflessione critica e che hanno ben poco a che vedere con la sensibilità della nostra città che da sempre si confronta con le contraddizioni e la complessità della società e dei suoi personaggi. Montanelli ha commesso un errore grave, imperdonabile. Se questo fosse però il criterio per rimuovere statue o cambiare il nome alle vie dovremmo rivedere il 50% della toponomastica mondiale. Sarebbe inoltre poco comprensibile dedicare tempo all’argomento in Comune in questa delicatissima fase dove in testa e a cuore dovremmo avere, e a tutti gli effetti abbiamo, ben altre priorità e progetti».

    Protesta anche l’ex vicesindaco e vice presidente di Regione Lombardia Riccardo De Corato, che fu tra i promotori della installazione della statua: «Continuano gli attacchi alla memoria di Indro Montanelli, uno dei più grandi giornalisti, che con il suo lavoro ha dato lustro all’Italia. La ’Floyd mania’ sta offuscando le menti di qualche consigliere comunale: confondere l’omicidio di un povero uomo di colore con la statura culturale di Montanelli, ferito per le sue idee liberali dalle Brigate Rosse, e voler addirittura aprire un dibattito in consiglio comunale è vergognoso».

    https://milano.repubblica.it/cronaca/2020/06/11/news/statua_montanelli_sentinelli_milano-258873542

    #statue #Italie #colonialisme #histoire #passé_colonial #colonisation #viol #racisme #toponymie_politique #toponyie #monument #mémoire #symboles #Erythrée #Ethiopie #histoire_coloniale

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    A #Palerme aussi une rue dédiée à Montelli avait été détournée:


    https://seenthis.net/messages/829668

    • Avessimo la coda di paglia, scriveremmo un pippotto per raccontare la nostra storia, il nostro modo di fare politica rappresentato da 5 anni che sono lì a dimostrare chi siamo, cosa siamo, come agiamo.

      Invece ci limitiamo a scrivere che la nostra proposta civile, fatta in settimana alla luce del sole proprio per permettere una discussione pubblica, non contemplava altro.

      Piuttosto la violenza verbale fatta dal pensiero unico mainstream che ci ha voluto in modo caricaturale descrivere come dei talebani, ha portato il dibattito su un livello volutamente distorto.
      Mentre sui social tantissime persone si riconoscevano nella nostra richiesta, sui media è passato per giorni la voce di una sola campana.
      Come se improvvisamente avessimo toccato un nervo scoperto.
      Polito, Severgnini, Battista, Cerasa, Cazzullo, Levi, Ferrara, Mattia Feltri, Lerner, Cruciani, Travaglio, Scanzi, Gomez, Padellaro, Parenzo tutti maschi, bianchi, benestanti, eterosessuali a discutere se sia stato o meno legittimo per Montanelli stuprare una 12enne. Non ci viene in mente un altro Paese che si definisce democratico e civile, insorgere così compattamente quando si mette in discussione il suo diritto alla misoginia.

      Ci fosse mai stata questa levata di scudi bipartisan da parti delle «grandi firme», sulla piaga che non conosce fine della violenza sulle donne, figlia di una cultura patriarcale della quale era intriso il pensiero anche del Signor Montanelli.
      Ci fosse mai stata questa indignazione di massa sulla quotidiana strage nel mar Mediterraneo che affoga il futuro di donne, uomini, bambini, bambine.

      Bambine, quelle che ancora in Africa come nel 1935 subiscono la violenza sopraffatrice di chi si sente in diritto di infibularle, darle in sposa, comprarle.

      Indro Montanelli ancora nel 2000 rivendicava il suo agire da soldato mandato in Eritrea in un’azione del Regime colonizzatore.

      Noi la lettera mandata a Sindaco e Consiglio Comunale la rifaremmo anche ora.
      Perché non c’è nessuna violenza nell’esprimere il proprio pensiero in modo trasparente.
      Quel parco di Milano deve liberarsi di un nome che non fa onore alla nostra città.
      E peggio di una vernice rossa c’è chi senza entrare nel merito della nostra proposta preferisce buttarla in caciara vendendoci come degli integralisti.

      https://www.facebook.com/isentinellidimilano/posts/1563182763864138

  • Quand le #parc_Geisendorf s’appelait #Surinam

    En 1770, le long de la rue de Lyon, se trouvait le domaine d’un planteur genevois rentré de la #Guyane_hollandaise.

    Le parc Geisendorf est propriété municipale depuis 1931. Situé rue de Lyon, dans le quartier de la Servette, il est connu pour son école primaire et pour ses ombrages, dont ceux d’un fameux chêne vert au nombre des « arbres remarquables qui racontent Genève ». Ce parc public était l’immense jardin d’une maison de campagne jusqu’au krach de 1929 : la fin d’une époque pour les propriétaires de quelques-uns des anciens domaines du pourtour de la ville. L’un d’eux, et non des moindres, Beaulieu, qui abrite lui aussi une école à l’ombre de ses cèdres séculaires, était aux banquiers Chauvet jusqu’à la faillite de leur établissement au moment de la grande crise.

    Au 56, rue de Lyon, ce sont les descendants du commerçant en papeterie Charles Geisendorf et de sa femme Pauline Decrue qui cèdent Surinam à la Ville en 1931. Pourquoi Surinam ? Pourquoi ce nom emprunté au plus petit État d’Amérique du Sud, colonie néerlandaise jusqu’en 1975 ? Nous voilà partis pour un voyage à travers le temps et les océans. Jusqu’en 1769, un Genevois du nom de Jean-Zacharie Robin, né en 1723, vit dans ce petit pays baigné par les mêmes eaux que les deux Guyanes qui l’enserrent. Une dépendance tropicale de la Hollande où l’esclavage sévit avec une grande sévérité. Il n’y sera aboli qu’en 1863. Une pratique qui ne semble pas avoir retenu notre Robin de chercher fortune en ces lieux. Il y a créé un domaine près de Paramaribo – sans doute une plantation de café, d’indigo, de coton ou de canne à sucre – qu’il a appelé tout simplement « La Campagne ».

    Un colon à Châtelaine

    De retour d’Amérique, où son fils et les descendants de celui-ci continueront longtemps à exploiter, sinon à battre « La Campagne », Jean-Zacharie Robin achète aux Lucadou-Naville leur domaine de Châtelaine, délimité par la route de Lyon et les futures rues de la Poterie et Liotard. Ce sera 160 ans plus tard le parc Geisendorf. Aujourd’hui, le chemin Surinam, perpendiculaire à la rue de Lyon, entre la rue Lamartine et l’avenue Wendt, perpétue le nom choisi par Robin pour son domaine agricole. Ses successeurs gardent le même nom, d’abord Isaac-Louis Naville, auquel l’ancien colon a vendu son bien pour s’en aller du côté de Cologny, puis la sœur de Naville, madame Galiffe, avant Jean-André Melly, dont les héritiers vendent Surinam en 1883 à Charles Geisendorf. De l’époque des Naville, ou de madame Galiffe, morte en 1814, daterait le décor du grand salon de la maison de maître aujourd’hui disparue. Des boiseries sculptées et des moulures en stuc attribuées au décorateur Jean Jaquet, coqueluche des salons de la fin du XVIIIesiècle et du début du XIXe à Genève.

    « Je me souviens les avoir admirées quand la maison principale servait à des fins scolaires, se souvient l’arrière-petite-fille de Charles Geisendorf, Claire Honegger-Pallard. J’y ai donné des cours de piano et l’une de mes tantes Brun-Geisendorf m’avait conseillé de bien regarder l’intérieur de la maison. Elle y avait passé de nombreuses vacances mais pas moi, car je n’étais pas née quand Surinam a été vendu. »

    Pour se faire une idée des dimensions de la propriété et de l’emplacement des bâtiments qui s’y trouvaient, il faut se reporter aux indispensables plans et cartes en ligne sur internet. L’atlas cantonal de Mayer, des années 1828 à 1831, indique du bâti en T à Surinam, sans doute la maison de maître et ses communs tels qu’ils étaient encore quand Charles Geisendorf acquit le domaine. Aucune urbanisation en vue. Trois propriétés seulement sont ses voisines : la Servette, la Prairie et les Délices.

    Un peu plus tard, sur la carte Dufour datant de 1842, on distingue l’avenue qui menait de la rue de Lyon à la maison et à ses dépendances. Un petit pavillon près du portail permettait de guetter les visites ou simplement de se distraire en regardant passer les voitures. Plaisirs d’un autre âge… Ce pavillon est visible sur plusieurs photos en possession de Claire Honegger-Pallard, qui nous a aimablement permis de les reproduire ici. Le parc est vaste. Des prairies s’étendent autour de la maison, de la rue de la Poterie à la rue Liotard et jusqu’à la rue Lamartine. Un plan postérieur, la carte Siegfried de 1899, détaille trois bâtiments en plus du pavillon au bord de la route. D’autres maisons sont apparues sur le pourtour du fonds, suggérant qu’un morcellement a commencé. Le nom Surinam identifie tout le quartier en devenir, jusqu’à la route des Franchises. Nous voici en 1963, la carte a fait place à la photographie aérienne et seul demeure au bout de l’avenue un bâtiment allongé, qui est la maison de maître aux boiseries de Jean Jaquet. Elle ne résistera pas aux exigences du projet d’aménagement du groupe scolaire de Geisendorf. Des travaux échelonnés entre 1952 et 1969 qui aboutissent à la réalisation des cinq bâtiments actuels.

    https://www.tdg.ch/quand-le-parc-geisendorf-sappelait-surinam-319045994828
    #Suisse #colonialisme #passé_colonial #toponymie #toponymie_politique #histoire #Genève #chemin_du_surinam #noms_de_rue

    Chemin de Surinam :

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    Ajouté à la métaliste sur la #Suisse_coloniale :
    https://seenthis.net/messages/868109

    ping @simplicissimus @albertocampiphoto

  • Trump refuse de rebaptiser les #bases_militaires honorant des généraux sudistes

    Le président américain Donald Trump s’est dit mercredi catégoriquement opposé à l’idée de rebaptiser des bases militaires portant le nom de #généraux_sudistes, y voyant un manque de #respect pour les #soldats.

    Les tweets présidentiels interviennent au moment où les manifestations contre le racisme, consécutives à la mort de George Floyd sous le genou d’un policier blanc, ont relancé avec vigueur le débat sur le passé esclavagiste du pays.

    Ce n’est pas la première fois que Donald Trump se range de ce côté sur ce sujet sensible aux Etats-Unis où certains voient dans l’#hommage rendu aux #Sudistes, qui étaient favorables à l’esclavage, la célébration d’un passé raciste.

    A l’été 2017, il avait estimé que l’#histoire américaine était « mise en pièces » par le retrait de statues de personnages des Etats confédérés.

    Dix bases de l’armée de terre, toutes situées dans le sud du pays, portent le nom d’anciens #militaires_sudistes.

    Dans une série de tweets, le président américain a estimé que ces bases « légendaires » faisaient désormais partie du #patrimoine américain. Et martelé que son gouvernement n’étudierait « même pas » la possibilité de les renommer.

    « Respectez notre armée ! », a-t-il conclu.

    Mardi, le ministre de la Défense s’était de son côté dit, par la voix d’une porte-parole, « ouvert à une discussion sur le sujet ».

    Une statue de généraux sudistes est enlevée à Dallas (Texas) en septembre 2017

    Dans ses messages, le président américain cite en particulier #Fort_Bragg en #Caroline_du_Nord.

    Cette base, la plus grande du pays, porte le nom d’un ancien général de l’armée sécessionniste, #Braxton_Bragg, qui est surtout connu pour avoir perdu la grande #bataille_de_Chattanooga en 1863.

    Une base de #Géorgie honore #Henry_Benning, un général esclavagiste convaincu, qui avait plaidé pour la création d’une « #Slavocratie_sudiste ».

    Il existe aussi un #Fort_Lee, du nom du commandant en chef de l’armée sudiste #Robert_Lee, situé à une trentaine de kilomètres de #Richmond, capitale des Etats confédérés pendant la guerre.

    Le Pentagone avait déjà envisagé de renommer ces bases en 2015, après la fusillade de Charleston, en Caroline du Sud, où un jeune suprémaciste blanc avait tué neuf fidèles noirs dans une église. Mais l’armée de Terre avait finalement choisi de conserver les noms actuels.

    Preuve que ce débat récurrent est bien revenu au premier plan, la présidente de la Chambre des représentants Nancy Pelosi a appelé mercredi soir au retrait des 11 statues du Capitole représentant des soldats et des responsables confédérés.

    « Ces statues célèbrent la #haine, pas notre patrimoine », a-t-elle estimé.

    Défendant les tweets présidentiels, Kayleigh McEnany, porte-parole de la Maison Blanche, a estimé que changer le nom de ces bases serait insultant pour tous les soldats américains qui y ont été stationnés.

    Et argué qu’il s’agissait d’une pente glissante, évoquant par exemple le retrait temporaire du film « Autant en emporte le vent », de la plateforme de streaming HBO Max.

    Le long-métrage, qui présente une version romantique du Sud et une vision très édulcorée de l’#esclavage, est considéré par nombre d’universitaires comme l’instrument d’une forme de #révisionnisme_sudiste.

    « Jusqu’où faut-il aller ? », s’est-elle interrogée.

    « George Washington, Thomas Jefferson et James Madison doivent-ils être effacés de l’Histoire » ? a-t-elle poursuivi, dans une allusion au fait que ces présidents possédaient des esclaves.

    En 2017, M. Trump avait déjà tenu le même raisonnement pour défendre le maintien des statues de généraux sudistes.

    Mais la mise sur le même plan d’hommes qui ont joué un rôle central dans la création du pays et de ceux qui ont mené la « #sécession » contre celui-ci au nom de la défense de l’esclavage avait suscité de vives critiques.

    Près d’un siècle sépare la déclaration d’indépendance qui a fondé les Etats-Unis d’Amérique, le 4 juillet 1776, et la Guerre de Sécession.

    Cette dernière, qui a déchiré la nation de 1861 à 1865, a fait quelque 620.000 morts, soit un bilan bien plus lourd pour les Etats-Unis que les deux guerres mondiales réunies.

    https://www.courrierinternational.com/depeche/trump-refuse-de-rebaptiser-les-bases-militaires-honorant-des-
    #USA #Etats-Unis
    #toponymie #toponymie_politique

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  • Des manifestants #BlackLivesMatter ont fait tomber une statue d’Edward #Colston se trouvant à #Bristol depuis 1895. L’homme était un négrier. Elle avait été érigée car il avait aidé au développement de la ville au XVeme siècle.

    La statue a ensuite été jetée dans un canal.


    https://twitter.com/Conflits_FR/status/1269677215400288262

    #monument #statue #GB #Angleterre #Edward_Colston #Colston #Bristol #toponymie #toponymie_politique #BLM #Black_Lives_Matter #esclavage #traite #traite_négrière
    ping @neotoponymie @reka

    • Protesters rally in #Oxford for removal of #Cecil_Rhodes statue

      University campaigners and #Black_Lives_Matter protesters block road outside Oriel College.

      More than a thousand protesters have gathered outside Oxford University to demand the removal of a statue of the Victorian imperialist Cecil Rhodes.

      Blocking the road outside Oriel College, the Rhodes Must Fall campaign said Black Lives Matter (BLM) protests across the UK, which included the dramatic toppling of a statue of the slave trader Edward Colston in Bristol, had reignited their campaign.

      Riot police stood on the roof of the college building while the crowd below the Rhodes statue listened to speeches, including the announcement of a BLM protest in Oxford on Friday. The demonstration ended peacefully with people leaving their signs on the outside of the building, while there were cheers as a police officer briefly took a knee in the crowd.

      In 2016, hundreds of Oxford students campaigned for the removal of a likeness of the controversial 19th-century figure – who supported apartheid-style measures in southern Africa – from the wall of the college. The campaign also called for the university curriculum to be changed to reflect diversity of thought beyond the western canon.

      The university said then that the statue would stay, with modifications that “draw attention to this history [and] do justice to the complexity of the debate”. It had been warned that it could lose about £100m in gifts should the statue be taken down, but it insisted financial implications were not the primary motive behind its decision.
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      In a statement released on Tuesday, Oriel College said it “abhors racism and discrimination in all its forms” and that it would “continue to debate and discuss the issues raised by the presence on our site of examples of contested heritage relating to Cecil Rhodes”.

      The campaign to remove the statue was supported this week by the Liberal Democrat MP Layla Moran and the leader of the local council.

      Femi Nylander, an organiser for Rhodes Must Fall, welcomed the support from the council, Moran and the thousands who signed the petition to remove the Rhodes statue.

      He said: “It’s good to see public consciousness is changing. We are seeing a paradigm shift. You can see that everywhere.” He added that he hoped the protest would result in a resurgence of the Rhodes Must Fall movement in Oxford.

      Simukai Chigudu, an associate professor of African politics at the University of Oxford, said the phrase “black lives matter” resonated because of “a history of white supremacy that has denigrated, exploited and subjugated black lives”.

      He added that Rhodes Must Fall, which he joined in 2015, had been started by student activists in South Africa who were “tired of colonial iconography, tired of white supremacy in our curriculums, tired of the crisis of representation of black and other minority ethnic people in our institutions”.

      A PhD student, Ndjodi Ndeunyema, 30, said: “We reject this narrative that Cecil Rhodes is a complicated character. No, he is a genocidaire, he is someone who planned an assault [on] Africa and he is not worthy of exaltation, he does not deserve to be on a high street looking down on us. That history will never be erased, it’s a lived reality for people in southern Africa, but it needs to be contextualised, it needs to be accurately represented and not glorified in the way it is today.”

      He said the protest went further than calling for the removal of the statue, it was also about meaningful equality “for the black community, given the moment we are in, but also people of colour and people on the social and economic fringes of any society”. He called for justice for the Windrush generation, describing the scandal as a “substantive policy manifestation of anti-blackness”.

      There was a significant police presence before the protest, with police vans and officers on horses.

      A PhD student who did not want to be named said: “We are here today as students, community members and community-based organisations who believe in democracies, who believe in the valuation of all lives equally and who believe in the removal of colonial iconographies that we must all inhabit.

      “We’re here to say to the University of Oxford, Oriel College and other colleges in Oxford that still demonstrate in support of the values we disagree with, that it is time to take a stand. If you are truly anti-racist and pro-good race relations and inclusion of black and ethnic minority students then today is the day to put your money where your mouth is.”

      Kate Whitington, the Oriel College junior common room president, said: “Oriel College must not be blind to its legacy of colonialism and racism in association with Cecil Rhodes. Despite claims that clear historical context about the Cecil Rhodes statue would be provided in order to acknowledge and educate our students on the imperialist past, the subject remains taboo and Oriel’s continuing silence equal to complicity in the perpetuation of white privilege and supremacy.”

      https://www.theguardian.com/world/2020/jun/09/protesters-rally-in-oxford-for-removal-of-cecil-rhodes-statue?CMP=Share

      #UK

    • Edward Colston statue replaced by sculpture of Black Lives Matter protester Jen Reid

      Exclusive: Artist #Marc_Quinn leads secret mission to install resin-and-steel figure of #Jen_Reid at site of toppled Bristol slave trader.

      The statue of slave trader Edward Colston was replaced in Bristol on Wednesday morning – with a sculpture of one of the protesters whose anger brought him down.

      The figure of Jen Reid, who was photographed standing on the plinth with her fist raised after the 17th-century merchant was toppled by Black Lives Matter demonstrators last month, was erected at dawn by a team directed by the artist Marc Quinn.

      The ambush sculpture is likely to reignite the debate over public statuary in the UK that began with the toppling of the Colston figure five weeks ago. On Wednesday morning police said they had had no complaints and it was “a matter for Bristol city council”.

      Marvin Rees, the city’s mayor, issued a statement saying that “the future of the plinth and what is installed on it must be decided by the people of Bristol”. He said the sculpture was “the work and decision of a London-based artist,” and added: “It was not requested and permission was not given for it to be installed.”

      But he stopped short of saying that the council would act to remove it.

      Arriving in two lorries before 5am, a team of 10 people worked quickly to install the figure of Reid, who said she had been secretly working with Quinn on the idea for weeks. It came as a complete surprise to the authorities, who are yet to announce their plans for the location.

      A cardboard placard reading “black lives still matter” was placed at the bottom of the plinth.

      Shortly after the vehicles drove away, Reid stood in front of the statue with her fist in the air. “It’s just incredible,” she said. “That’s pretty fucking ballsy, that it is.”

      After meticulous planning to ensure the statue could be erected quickly enough to have it in place before officials arrived, the vehicles left the scene about 15 minutes after they got there. “I just knew it was going to happen,” said Reid. “They were so efficient.”

      The most powerful moment of the morning, she said later, was “watching children stand next to it and raising their fists. Black children and white children, together.”

      Quinn said that the installation had gone well. “It went exactly the opposite of how it imagined, because I imagined it being stopped,” he said. “It almost feels like it’s been there forever. It gets under the skin before you understand what it is, which I think is how you make people think about things, how you pose the question a different way and renew the conversation.”

      By late morning the only council presence had been a roadsweeper, whose driver stopped to take a picture before continuing on his shift.

      “It is incredible seeing it,” said Jen Reid’s daughter, Leila Reid, arriving and gazing up at the statue a little later. “It’s surreal. From the kneecap to the shape of her hands - it’s just her.” She said she had struggled to keep the secret since her mother told her. “She’s proud to represent a movement, and if there’s a better way to do that I can’t think of it.”

      Reid, a stylist, attended the march with her husband, who one of the group that rolled the statue of Colston to the river after it was pulled down. She said that to stand for the BLM movement was “massive”, but “it would be just as big if it was someone else representing the same thing.”

      Quinn – whose best known works include his “blood head” self-portrait Self and a sculpture of an artist that temporarily occupied the fourth plinth in Trafalgar Square, Alison Lapper Pregnant – said he viewed it as a duty for prominent white artists to amplify other voices.

      “Jen created the sculpture when she stood on the plinth and raised her arm in the air,” said Quinn. “Now we’re crystallising it.”

      In the weeks since the Colston statue was removed, although ideas including a Banksy proposal and calls for a statue of civil rights campaigner Paul Stephenson have been floated, and a mannequin of the notorious paedophile Jimmy Savile was briefly installed before falling off, no permanent decision on the future of the Colston site has been reached.

      The new black resin and steel figure – entitled A Surge of Power (Jen Reid) 2020 – was transported from Quinn’s studio on Tuesday and stored overnight nearby. It was put in place using a hydraulic crane truck parked next to the plinth.

      The team carried out the same surveys and health and safety checks it would have gone through on a more conventional work, Quinn said, adding that it would be “extremely difficult to move”. But he added: “This is not a permanent artwork.”

      Reid said it had been difficult to keep the secret from friends and family. “When friends say ‘I’ll see you later,’ I think … yeah, you will!”

      On whether there was an issue with a white artist being behind the work, Reid said: “It’s not even a question. If we have allies, it doesn’t matter what colour they are. He has done something to represent BLM, and to keep the conversation going.”

      A placard was briefly placed on the plinth reading “Marc Quinn loves money, not blacks” before it was removed by another member of the public to applause.

      Others were broadly positive in their response. “It’s a really great addition to the centre of Bristol,” said Bobby Loyal, an engineer. “I just hope no one tries to rip this down. The statue before was offensive to a lot of people, I don’t think this is. I think the council should leave it in place.”

      Sanna Bertilsson, who was cycling past, did a double take as she saw the figure and stopped to look. “I didn’t know they were replacing it,” she said. “It’s absolutely beautiful.” Told that it had been put up without permission, she said: “I’d better get a picture before they take it down.”

      The author Bernardine Evaristo tweeted that “some people will find this image of black empowerment offensive/outrageous/threatening” but that she thought it was “wonderful”.

      https://www.theguardian.com/world/2020/jul/15/edward-colston-statue-replaced-by-sculpture-of-black-lives-matter-prote

  • Thinking of statues of racists reminds me of Namibia. Let’s talk about the Reiterdenkmal (Equestrian Monument) or Südwester Reiter (South West Rider) that used to be up in #Windhoek.
    The statue went up on January 27, 1912 on the 53rd birthday of #Kaiser_Wilhelm_II, the last Kaiser and the leader who oversaw Germany’s colonial run in Africa and the Pacific, including the settlement of German South West Africa.
    The monument honors the German soldiers and civilians who died during the 1904-07 Herero Wars, the —and I can’t stress this enough — genocidal military campaign waged against the Herero & Nama. This is what the inscription on the monument said:


    Considering statue-making as a propaganda tool, historian Andres Vogt wrote in The Namibian “the representation of persons in the form of an equestrian monument was a privilege reserved for highest nobility like emperors, kings and princes only.”
    https://www.namibian.com.na/44210/archive-read/To-move-or-not-to-move---On-the-relocation-of
    We don’t have to reach far to understand the level of insult that is invading people’s land AND THEN monumentalizing your conquest. German historian Joachim Zeller (his work is good) wrote in the same paper that it was “an unequivocal monument of victory.”
    https://www.namibian.com.na/49115/archive-read/The-German-Rider---An-Apolitical-Soldiers-Memorial
    After some years of protest, the monument was removed from its plinth on Christmas day 2013. It now sits inside Alta Feste, the fortress-cum-museum that used to be the HQ of the imperial German army.

    I mention Andres Vogt because after the removal he was very angry: saying that the Namibian government was being “insensitive” about the country’s heritage.
    https://www.namibian.com.na/index.php?id=118130&page=archive-read

    “Heritage” does a lot of heavy lifting, and when it comes to public monuments it is almost always invoked by those who are fearful about symbols of conquest (which is why neo-Confederates make me laugh, y’all lost lol) + colonial domination disappearing from public memory.
    But those monuments will never disappear anywhere people are living in the eternal shadow of the material violences they represent. Public space is a contested arena for memory: those monuments seek to represent the eternality of European violence and the people are saying no.
    Tear them all down, reconceptualize the multivalence + evolution of things like “history” and “heritage,” and if you’re being precious about the monuments perhaps consider why idolatrous statues to white supremacy are sacred to you lol
    Currently, folks in Namibia are fighting to take down this statue in Henties Bay. A few days ago, Lebbeus Hashikutuva started an online petition for its removal. It went up 42 years ago, during apartheid (it’s only 12 years older than the state itself)
    https://neweralive.na/amp/gallows-make-mockery-of-black-pain-petition-seeks-to-remove-offensive-lan

    A good piece about the noose within the context of the genocide; Hashikutuva also describes how it functions as a racial warning, that it isn’t at all just a reminder to keep the beach clean.
    https://www.guernicamag.com/will-mcgrath-the-noose-in-hentiesbaai

    “Seeing comes before words. The child looks and recognizes before it can speak.”

    We are, with statues and in all places, fighting a war over memory and knowledge and recognition; white supremacy cannot win.

    #mémoire #statues #toponymie_politique #Namibie #colonialisme #colonisation #monument #Allemagne #monument #racisme #espace_public

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  • Confederate Monuments Are Now Coming Down All Over the South

    Over the last twelve hours, three statues associated with the Confederacy have been removed as protesters continue to demonstrate against police brutality and racial inequality.

    As residents in more than 40 cities have taken to the streets over the last week to engage in both peaceful and destructive protests over the police killing of George Floyd, some have turned their focus on one particular historical wound: Confederate monuments.

    Monday evening, in three Southern states—Florida, Alabama, and Virginia—protesters toppled graffiti-covered statues celebrating the former Confederate government that fought to uphold the institution of slavery, as crowds cheered.

    “With the recent death of many of those across this nation, we say enough is enough. We are done dying, and we’re done being reminded,” William Barnes, president of the Birmingham Urban League, said in a statement calling for an Alabama monument’s removal. “We’re done being reminded of the atrocities against African Americans.”


    https://twitter.com/DrewWilderTV/status/1267797698222096389?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E12

    On Monday night, a statue of Confederate General Robert E. Lee was toppled from its pedestal in front of his namesake high school in Montgomery, Alabama. As the figure fell, a small crowd cheered and honked before briefly singing: “Hey, he-ey, goodbye.”

    The Montgomery Police Department said multiple people had been arrested in the incident, which occurred on a state holiday commemorating President of the Confederate States Jefferson Davis, but declined to provide any additional details. The Monday holiday is one of three in Alabama that celebrate the Confederacy.

    “The statue was damaged and there are suspects in custody. Charges are pending,” Montgomery Police Captain Saba Coleman said.

    In Birmingham, demonstrators attempted to take down a Confederate Soldiers and Sailors monument on Sunday evening—a 115-year-old statue that has been at the center of a legal fight between the city and the state attorney general’s office.

    “It used to be a sore. It’s cancer. It’s eating away at the community,” Jefferson County Commissioner Sheila Tyson said Monday during a press conference demanding its removal, adding that it represented hundreds of years of torment. “We cannot grow, we cannot expand with this monster wings over us, choking us, and it’s got to leave.”

    While protesters were unsuccessful in toppling the 52-foot-tall statue, some residents tore down the monument of Charles Linn, one of Birmingham’s founders and a former Confederate Navy officer, that was also in the park. Two other statues on either side of the Confederate memorial—the Spirit of the American Doughboy and the memorial to Spanish American War Veterans—were also defaced with graffiti.

    At around 9 p.m. on Monday, Birmingham Mayor Randall Woodfin stepped in to finish the job protesters started, vowing to remove the Confederate Soldiers and Sailors monument that has stood in Linn Park since 1905.

    “In order to prevent more civil unrest, it is very imperative that we remove this statue,” Woodfin told the Birmingham News. As of Monday evening, demolition crews had already started to dismantle the monument.

    In Florida, a bust of Lee that sat on a pedestal in downtown Fort Myers was removed at the request of Sons of Confederate Veterans, according to the Orlando Sentinel. On Monday evening, protesters were seen surrounding the pedestal—that did not include the bust of the Civil War general—during a protest for Floyd.

    The United Daughters of the Confederacy also took preemptive measures in Alexandria, Virginia, on Tuesday morning, removing the Appomattox statue that has stood in the middle of Old Town since 1889. The bronze statue, which commemorated Confederate soldiers from the area, has been relocated to an undisclosed location amid the ongoing protests and the statue’s pillar will also be removed to avoid any damage.

    “Alexandria, like all great cities, is constantly changing and evolving,” Alexandria Mayor Justin Wilson said on Twitter Tuesday.

    Wilson later told Washingtonian magazine the city has been in discussions with the United Daughters of the Confederacy for some time about removing the statue, but decided to accelerate the process on Monday evening to “ensure there was no drama about it. We did not want to see a repeat of Charlottesville or anything else.”

    The United Daughters of the Confederacy did not immediately return The Daily Beast’s request for comment.

    The push toward eradicating old tributes to the Confederacy has sped up over the last week in several other states. In Richmond, a Robert E. Lee memorial was covered in graffiti Saturday night—as was a Stonewall Jackson statue. Several miles away, the headquarters of the United Daughters of the Confederacy was similarly vandalized with the phrases “police are creepy” and fuck racists” before it was set on fire, according to the Richmond Times-Dispatch.

    The Confederate Defenders statue in Charleston, South Carolina, was also spray painted, the Post and Courier reported. And in North Carolina, a crowd set fire to the Market House in Fayetteville. The National Historic Landmark constructed in 1832 was used as a town hall and a slave market.


    https://twitter.com/DavisABC11/status/1266890829060345862?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E12

    The protests raging across the nation all center around George Floyd, who died May 25 after Minneapolis police officer Derek Chauvin pressed his knee to the 46-year-old’s neck for more than eight minutes.

    While the county autopsy reports that Floyd died of cardiac arrest and had underlying health issues, an independent report commissioned by his family states that the 46-year-old was in good health and died of strangulation from pressure to his back and neck.

    After a national outcry, the four officers involved in the incident were fired and Chauvin was charged with third-degree murder and second-degree manslaughter. Protesters are now demanding the other three officers be charged for what some are calling a “legalized lynching.”

    https://www.thedailybeast.com/confederate-monuments-are-coming-down-all-over-the-south-as-george-fl

    #monuments #mémoire #colonialisme #colonisation #USA #Etats-Unis #statue #BlackLivesMatter #black_lives_matter #histoire #confédération #destruction #résistance #George_Floyd #Floride #Alabama #Virginia #Robert_Lee #Jefferson_Davis #Charles_Linn #Birmingham #Montgomery #Spirit_of_the_American_Doughboy #Spanish_American_War_Veterans #Confederate_Soldiers_and_Sailors_monument #Linn_Park #Fort_Myers #Appomattox_statue #Richmond #Stonewall_Jackson #graffiti #Confederate_Defenders_statue #toponymie #toponymie_politique #Charleston #Fayetteville #National_Historic_Landmark

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  • Glasgow has internalised it’s role in the slave trade. A thread.


    Despite the fact black people make up less than 1% of the overall Scottish population, Glasgow being a major city should rise and re-name these streets. It should not forever internalise such a disgusting time in history.
    Also, Jamaica and Tobago street are right next to these streets.
    Please forgive the spelling mistakes. I don’t double check what I’ve written when I’m so emotionally invested.

    https://twitter.com/lulijta/status/1266908244276121601

    #Glasgow #Ecosse #toponymie #toponymie_politique #noms_de_rue #colonialisme #colonisation #esclavage #histoire

    voir aussi:
    https://seenthis.net/messages/810253

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    • Glasgow ’slaver’ streets renamed by anti-racist campaigners
      https://i.guim.co.uk/img/media/ff15c21a4f319e8eb43361a89f1249f76eff7fac/0_3_3500_2100/master/3500.jpg?width=620&quality=85&auto=format&fit=max&s=13301034d846ef339e7165

      Anti-racism campaigners have renamed streets in the centre of Glasgow that have links to the slave trade.

      In several streets, signs with a black background and white font have appeared alongside the originals, as activists replace the names of tobacco lords and slave trade ownerswith those of black activists, slaves and people killed by police officers.

      Cochrane Street – named after Andrew Cochrane, an 18th-century tobacco lord – has been retitled Sheku Bayoh Street.

      Sheku Bayoh died in 2015 in police custody in Scotland aged 32 after he was restrained by officers responding to a call in Kirkcaldy.

      His sister – who is a nurse – said her family would have attended planned demonstrations in Scotland this weekend but the danger of spreading coronavirus is “still too great”.

      Buchanan Street, named after a slave owner, was renamed George Floyd Street, however the sign has now been removed.

      Rosa Parks Street has been suggested as an alternative for Wilson Street – after the American civil rights activist.

      Floyd, an African-American, died after a white police officer knelt on his knee in Minneapolis on 25 May. His death has sparked days of protest around the world.

      The Glasgow street name changes come after more than 11,500 people signed a petition to rename streets named after slave owners.

      The petition states: “I think it’s important to take these tobacco lords off the pedestal they seemingly stand on and instead recognise other Scottish activists who are deserving of such esteem.”

      https://www.theguardian.com/us-news/2020/jun/06/glasgow-slaver-streets-renamed-by-anti-racist-campaigners?CMP=Share_iOS

    • Glasgow apologises for role in slave trade, saying its ‘tentacles’ are in every corner of city

      Report commissioned by city council says blood of enslaved people is ‘built into the very bones’ of the metropolis

      Glasgow authorities have apologised for the city’s role in the Atlantic slave trade, saying the “tentacles” of money from the practice reached every corner of Scotland’s biggest metropolis.

      The apology comes as Britain increasingly reckons with the legacy of its colonial past in the wake of global Black Lives Matter anti-racism protests.

      It follows the release of an academic study Glasgow city council commissioned about the city’s connections to the trade in human beings.

      “Follow the Atlantic slavery money trail and its tentacles reach into every corner of Glasgow,” council leader Susan Aitken told colleagues at a meeting on Thursday.

      “It’s clear what this report tells is that the blood of trafficked and enslaved African people, their children and their children’s children is built into the very bones of this city.”

      One of the report’s main findings was that 40 out of 79 lord provosts or mayors from Glasgow were connected to the Atlantic slave trade between 1636 and 1834.

      Some sat in office while owning enslaved people.

      At least 11 buildings in Glasgow are connected to individuals who were involved with the trade, while eight implicated individuals have monuments or other memorials to them in the city.

      A total of 62 Glasgow streets are named after slave owners who built their fortunes on tobacco plantations.

      These include Buchanan Street and Glassford Street, named after the “tobacco lords” Andrew Buchanan and John Glassford.

      James Watt, whose improvements to the steam engine drove the Industrial Revolution, was personally involved in trafficking a black child for sale to a family in north-east Scotland, the report said.

      “It can no longer be ignored and the amendment that I am moving today asks us to do three things: to acknowledge, apologise and to act,” Aitken said.

      Glasgow council’s chief executive, Annemarie O’Donnell, said the city acknowledged that black, Asian and minority ethnic citizens wished the council to “recognise the historic legacy of chattel slavery based on the exploitation of enslaved Africans”.

      The report, by the University of Glasgow academic Stephen Mullen, who has written extensively on the city’s links to slavery, was “a step towards healing the anger and frustration” felt by these citizens, she added.

      https://www.theguardian.com/uk-news/2022/apr/01/glasgow-apologises-for-role-in-slave-trade-saying-its-tentacles-are-in-
      #excuses

    • Glasgow Slavery #Audit

      We commissioned this report to determine the historic connections and modern legacies derived from the Atlantic slave trade.

      The core of this study is focused on individuals, who were residents of Glasgow and elsewhere, involved with Atlantic slavery between c.1603 and 1838. Some of these individuals shaped today’s city, whilst others are memorialised in civic space.

      https://www.glasgow.gov.uk/index.aspx?articleid=29117
      #rapport

  • #Dzyunashogh : ricordi infranti dell’Azerbaijan

    I villaggi di #Dzyunashough, in Armenia e #Kerkenj, in Arzebaijan, sono stati protagonisti alla fine degli anni ’80 di un drammatico scambio di popolazioni, in fuga da violenza e persecuzioni. Un reportage.

    La strada per Dzyunashogh è lunga e difficile. I ricordi degli abitanti di questo villaggio remoto, incastonato tra le montagne dell’Armenia e della Georgia, sono come queste strade tortuose.

    Trent’anni fa, quando Dzyunashogh era popolata da azerbaijani, il villaggio veniva chiamato Qizil Shafaq o «Alba Rossa». Ma con l’acuirsi delle tensioni tra Armenia e Azerbaijan nella regione di Nagorno Karabakh, verso la fine degli anni ’80, gli abitanti del villaggio scelsero di scambiare le loro case con quelle di armeni che vivevano nel villaggio di Kerkenj, in Arzebaijan, distante circa 540 chilometri.

    È a seguito del massacro degli armeni nella città di Sumgayit, in Arzebaijan, nel febbraio del 1988, che si diffuse l’idea di abbandonare il paese, racconta un ex abitante di Kerkenj.

    «Un giorno, mentre stavamo lavorando, un azerbaijano arrivò e disse che dovevamo lasciare il villaggio», spiega il 63enne Sashik Vardanyan. «Non potevamo crederci. Tutto è iniziato dopo Sumgayit».

    L’obiettivo era quello di tenere unito il villaggio. Un comitato informale iniziò quindi a cercare dei luoghi disponibili in Armenia, dove stabilire la comunità. Si sperava nella Valle dell’Ararat, una ricca pianura agricola situata ai piedi del Monte Ararat, un simbolo culturale per gli armeni. Ma quei villaggi erano già stati occupati da altri armeni sfollati dalla capitale dell’Azerbaijan, Baku.

    Rimaneva disponibile Qizil Shafaq (Dzyunashogh), situata circa 52 chilometri a nord di Vanadzor, terza città dell’Armenia. Come gli abitanti di Kerkenj, anche gli abitanti di Dzyunashogh, azerbaijani, avevano lo stesso desiderio, vivere uniti e in pace.

    A tutte le 250 famiglie di Kerkenj il comitato propose delle abitazioni in villaggi armeni, ricorda la moglie di Vardanyan, Sonia, 58 anni. In seguito ogni famiglia andò a Qizil Shafaq per parlare direttamente con gli abitanti azerbaijani.

    Per entrambi la priorità era assicurarsi la protezione dei cimiteri. Mostrare rispetto per i defunti è una questione di profonda importanza e di onore. Un impegno di responsabilità collettiva preso dai due villaggi, basato sulla fiducia reciproca.

    «Fino ad oggi ci siamo presi cura dei cimiteri e abbiamo spiegato ai nostri figli che anche loro dovrebbero farlo», racconta Sashik Vardanyan.

    Ora un cimitero di abitanti armeni sorge accanto a un cimitero azero abbandonato.

    Lo scambio degli abitanti avvenne in modo pacifico, tra il maggio e l’agosto del 1989. Governo e partito comunista in carica non svolsero nessun ruolo in questo scambio e non espressero nessun interesse al riguardo, spiega un abitante.

    Con poche automobili, lo scambio non fu una questione semplice. Spesso gli abitanti azerbaijani arrivavano a Kerkenj con la stessa macchina presa in prestito che aveva portato gli abitanti di Kerkenj in Armenia, raccontano alcuni abitanti.

    Nel caso della famiglia di Sonia Vardanyan, un giovane di Kerkenj che già si era trasferito in Armenia ha fatto ritorno in Arzebaijan, «ed è con lui alle 2 del mattino che abbiamo lasciato il villaggio», dice. L’ora è stata scelta per motivi di sicurezza. Lo stesso vale per il percorso, invece di attraversare il confine amministrativo azerbaijano con l’Armenia, i migranti viaggiavano a nord verso la Georgia, passando per la regione azerbaijana occidentale di Qazakh e poi a sud verso il nuovo villaggio.

    «Siamo stati gli ultimi a lasciare il villaggio (Kerkenj) e le cose erano già peggiorate», dice Vardanyan. «Non riuscivamo a trovare un’automobile e i nostri bagagli erano già pronti».

    Quando gli abitanti di Kerkenj si trasferirono a Qizil Shafaq il nome del villaggio venne cambiato. Non è chiaro il motivo della scelta di Dzyunashogh.

    I pareri in merito al trasferimento erano divergenti. Il clima sulle montagne dell’Armenia del nord era più rigido rispetto a quello di Karkenj. In Armenia erano bestiame, patate e grano - piuttosto che l’uva - le principali fonti di guadagno.

    Sonia Vardanyan ricorda che quando gli abitanti di Kerkenj arrivarono dall’Azerbaijan trovarono i terreni già coltivati, con patate orzo e grano.

    «Ci siamo dati da fare e chiunque sapesse mungere una mucca lo faceva. Io lavoravo nelle stalle d’inverno e portavo al pascolo il bestiame d’estate, sulle montagne».

    Oggi, le 27 famiglie che ancora vivono qui vendono latte per guadagnare. Solo otto di queste sono originarie di Kerkenj.

    Ma a Dzyunashogh il tempo sembra essersi fermato all’epoca dello scambio. La maggior parte delle case sono in rovina o abbandonate.

    I migranti armeni provenienti da Baku «non sapevano fare nulla, erano ex abitanti di città», racconta Sonia. «Quindi le persone iniziarono ad andarsene dal villaggio, una ad una. Sono andati tutti in Russia». Restarsene qui significava affrontare grandi difficoltà. Nessun trasporto pubblico, nessuna fornitura di gas.

    «C’era il servizio di autobus ma non c’è più,» spiega Sonia. «C’era un negozio dove compravamo il pane, chiuso. Tutto è stato privatizzato e spezzettato».

    I nativi di Kerkenj ora vedono Dzyunashogh come casa loro, ma nutrono ancora nostalgia per il villaggio che hanno lasciato.

    A parte quelle portate dai giornalisti che visitano entrambi i villaggi, raccontano di non aver modo di ricevere notizie da Kerkenj.

    «Abbiamo vissuto fianco a fianco per così tanti anni!» esclama Sonia pensando ai suoi ex colleghi e vicini azerbaijani.

    Ricorda i «veri» matrimoni armeni che ogni fine settimana portavano a Kerkenj persone provenienti da ogni parte delle aree vicine. «Il cantante e il batterista erano del nostro paese, il fisarmonicista e il clarinettista di un villaggio armeno vicino. Diventarono amici e ogni settimana suonavano nel nostro villaggio. Ci riunivamo con i vicini e ci divertivamo molto».

    Sashik Vardanyan ricorda la terra. «Kerkenj significa ’più duro della pietra’ nel dialetto armeno che parlano gli abitanti del villaggio, i cui avi provenivano perlopiù dalla città iraniana di Khoy,» spiega Sashik. «Ma non si trovava nemmeno una pietra là. Tutt’intorno c’erano terra nera, vigneti e acqua dalle sorgenti...».

    Tra gli abitanti resta accesa la speranza che un giorno, in qualche modo, vedranno di nuovo il luogo in cui hanno vissuto in Arzebaijan. Per ora rimangono solo i ricordi a legarli a quello che hanno lasciato.

    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Azerbaijan/Dzyunashogh-ricordi-infranti-dell-Azerbaijan-189760
    #Arménie #Azerbaïdjan #migrations_forcées #échange_de_populations #Qizil_Shafaq #Nagorno_Karabakh #Sumgayit #massacre #cimetière #toponymie #toponymie_politique #montagne #mémoire #toponymie_migrante

    –---

    L’original en anglais :
    Dzyunashogh : Broken Memories of Azerbaijan

    https://www.chai-khana.org/en/story/670/dzyunashogh-broken-memories-of-azerbaijan
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    #photographie

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  • When Memory is Confined : Politics of Commemoration on #Avenida_26, Bogotá

    After more than five decades of conflict, the Colombian capital, Bogotá, is undergoing processes not just of regeneration, but also of commemoration. The decision to create spaces of memory along one particular road in the city, Avenida 26, has highlighted the stark differences between neighborhoods on either side of its congested lanes—and runs the risk of reinforcing existing segregation.

    Bogotá, Colombia, is a socially divided city in a post-conflict country marked by clashing spatial and cultural cleavages. Over the last 20 years, institutional investments have concentrated on the renewal of the city center in order to boost Bogotá’s image. At the same time, the end of the Colombian conflict has led to the proliferation of a politics of memory in the city. The politics of memory, driven by the pedagogical imperative of “never again” (Bilbija and Payne 2011), expose the difficult task of imagining spaces as contemplative and as sites of reconciliation through their portrayal of past events in the conflict (Jelin 2002).

    The street known as Avenida 26 (Figure 1)—at the center of my four-months-long fieldwork—is a key space for analysis of the city’s regeneration programs and politics of memory. The case of Avenida 26 demonstrates the tensions between urban development and memory-making. It reveals how institution-led production of “spaces of memory” (Huyssen 2003), as cultural spaces dedicated to commemoration and remembrance, also play a crucial role in the process of gentrification and the exclusionary dynamics in the city. Sites of national memory on Avenida 26 reflect strategic plans to build a protective barrier from urban violence and conflicts for the city’s middle class while at the same time further marginalizing low-income residents. These are the same residents who are often most directly touched by the conflict and for whom the politics of memory are officially dedicated.

    Segregated memory, between two Avenidas

    “That [a museum] is like for kids who are studying […], it’s not for everyone, for example, for me […] why should I go to a museum, what for? All these museums, what for? […] For me, my museums are my flowers,” said Catalina, a flower seller, in a half-sarcastic, half-bitter tone. [1]

    Catalina is referring to the future National Museum of Memory of Colombia, which is slated to open in 2021 as a space for reflection over the Colombian conflict. [2] The museum will be built on Avenida 26, where Catalina’s flower stand is located. As she speaks, her voice almost fades into the roar of traffic. The street is one of Bogotá’s main thoroughfares. It is nearly 14 kilometers (8.7 miles) long and as wide as a highway. It is one of the most congested streets in the city (Figure 2).

    Avenida 26 is central to Bogotá’s politics of memory. In 2012, the Center for Memory, Peace and Reconciliation, or CMPyR (Centro de Memoria, Paz y Reconciliación; Figure 3), opened next to the city’s central cemetery, where florists and candle sellers have their stands. Public art on the street [3] portrays the Colombian conflict. In 2014, the municipality renamed the section of Avenida 26 that hosts these cultural initiatives Eje de la Paz y la Memoria, or “Axis of Peace and Memory.” In 2016, a new park, Parque del Renacimiento (“Park of the Rebirth”), was opened.

    As a highly congested major thoroughfare, Avenida 26 does not correspond to conventional spaces of memory. Many institutional representatives define it as an empty space or a “blank slate.”

    “It’s like a corridor: when you cross it in some way you are inhabiting a place that is not a place where one would stop to contemplate […] that is to say it is a non-place,” a member of IDARTES (a body which promotes public art initiatives on the streets of Bogotá) said.

    The imaginary of Avenida 26 as a non-place among public officials reveals their uncomfortable awareness that Avenida 26 is an extremely segregated—and at times violent—place. The renamed section of the avenue—the “Eje de la Paz y la Memoria”—divides two very distinct neighborhoods: the middle-income neighborhood of Teusaquillo on one side, and the deprived and extremely precarious neighborhood of Santa Fe on the other. It would seem that the urban violence that characterizes the avenue would make it unsuitable for commemorative practices, yet officials have focused significant public resources in creating cultural institutions of public memory along this route.

    “The side that is in Teusaquillo is cool, I have friends working with screen printing, who have a cultural center, there is the graffiti […]. In front of the cemetery [on the Santa Fe side], it’s very ugly, people steal and at night there are many homeless people […], I really prefer not to be there,” said Santiago, a skater and graffiti artist, capturing the geographical imagination of the street as a divided space.

    In this context, the siting of the CMPyR and the future Museum of Memory, as well as ancillary museum initiatives, on Avenida 26 is not unintentional or strictly about memory. They represent selective investments on one side of the street in the middle-class neighborhood of Teusaquillo, and not on the Santa Fe side. The siting of these projects on Avenida 26 is not due to the relevance of this place for commemorative purposes, but instead acts as a revitalization strategy that encloses the more economically viable neighborhood through cultural projects as a means of shielding this neighborhood from the poverty and urban violence on the other side of Avenida 26. A member of the current CMPyR administration mentioned this selective use of the street when sharing his unease over being located to what he perceives as the “wrong” side of the street: “We work looking at that side [pointing to the Teusaquillo side], or we go to the mayor’s office, but we don’t go over there [the Santa Fe side]. […] One is always between two parallel worlds. Let’s say that, among ourselves, we know that on the other [Santa Fe] side there is the jungle.”

    In this scenario, Avenida 26 acts as a true frontier between two neighborhoods that memory professionals deem to be incompatible. Indeed, cultural actors and memory professionals seem to identify two different Avenidas: one apt to welcome initiatives and spaces of memory; the other inaccessible due to urban violence.
    Enclosed spaces, incompatible languages

    The consequences of this enclosure are detrimental to the low-income communities on the Santa Fe side of the street. Gates and security guards around the CMPyR contribute to a significant securitization of this area. Candle and flower sellers on the Santa Fe side, who work informally, face increased policing, disrupting their business and limiting their ability to develop a regular clientele.

    The marginalization and exclusion of these residents is even more evident symbolically. Interviewees on the Santa Fe side of the street are mostly uninformed of the activities of politics of memory—for example, they often confuse the CMPyR with a monument. They are also limited by a linguistic barrier. For example, memory, a common word in public art projects (Figure 4) and part of the title of the CMPyR—is an unfamiliar concept to many of these residents. The vocabulary employed by memory professionals reinforces a social and symbolic barrier among actors sharing the same space. This, in turn, contributes to the general indifference of many people in Santa Fe toward spaces of memory, and often results in explicit opposition to politics of memory on the street.

    A kiosk owner near the Parque del Renacimiento expressed her rejection of the politics of memory through her concerns about the present and her children’s future, “I’m not interested in who is buried there, why he died, why it’s called memory […] I want my children to be well, [I want to know] what time my daughter gets home, because if she is late then what happened to her? […] How can I be interested in this bullshit?”

    Avenida 26 is not a blank slate. It is a “lived space” made of uses and practices that politics of memory dismiss (Lefebvre 1974; de Certeau 1990). These regeneration plans ignore residents’ use of space and relation to memory by relying on cultural tools and a language that excludes them from participation. Avenida 26 highlights the necessity to think of spaces of memory as urban spaces whose function extends beyond their commemorative role (Till 2012). This case demonstrates how the appropriation or rejection of spaces of memory is dependent on urban dynamics—social inequalities, spatial segregation, and access to resources—influencing both the appropriation of spaces of memory and the possibility that a sense of belonging among local actors may flourish (Palermo and Ponzini 2014).

    Finally, the role played by the imperative of “never again” in gentrification and displacement is far from being an exclusively Colombian phenomenon. Across the globe, cities are increasingly taking a stance over episodes of the past at a national scale and publicly displaying it for collective engagement (as in post-apartheid Johannesburg, or in post-9/11 New York, among others). Academic and policymaking literature needs to deepen our understanding of the intricacy of these dynamics and the problematic cultural undertakings in such processes. If remembering is indeed a right as well as a duty, “walking down memory lane” should represent an exercise of citizenship and not the rationalization of social and spatial segregation.

    https://www.metropolitiques.eu/When-Memory-is-Confined-Politics-of-Commemoration-on-Avenida-26-Bogo

    #mémoire #Bogotá #Colombie #commémoration #mémoriel #divided_city #villes #géographie_urbaine #ségrégation #post-conflict #réconciliation #never_again #plus_jamais_ça #violence_urbaine #National_Museum_of_Memory_of_Colombia (CMPyR) #musée #contested_city #guerre_civile #non-lieu #Teusaquillo #Santa_Fe #violence_urbaine #art #frontières_urbaines #fractures_urbaines #gentrification #citoyenneté

    –---

    Toponymie :

    In 2014, the municipality renamed the section of Avenida 26 that hosts these cultural initiatives #Eje_de_la_Paz_y_la_Memoria, or “Axis of Peace and Memory.” In 2016, a new park, #Parque_del_Renacimiento (“Park of the Rebirth”), was opened.

    #toponymie_politique

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  • Il Comune di #Bologna rimuove la targa in memoria di Lorenzo «Orso» Orsetti

    Il 7 novembre 2019 pubblicavamo il comunicato (https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/11/lorenzo-orsetti-in-cirenaica) col quale il «collettivo di collettivi» Resistenze in Cirenaica rivendicava l’intitolazione dal basso di un giardino pubblico ancora senza nome al compagno Lorenzo Orsetti detto «Orso», nome di battaglia «#Tekosher», caduto in Siria nella lotta contro l’ISIS.

    Oggi, 31 gennaio 2020, la targa è stata rimossa. Ora il giardino ha un altro nome, un nome «con tutti i crismi» burocratici e amministrativi.

    La targa in memoria di Orso sarebbe potuta rimanere, perché no? Tanti luoghi delle nostre città hanno un nome ufficioso e uno ufficiale, coesistenti e mai confusi l’uno con l’altro. Tantopiù che parliamo di un giardino pubblico, senza numeri civici, dove non poteva sorgere alcun equivoco o disguido. E invece no, il nome di Orso lo si è voluto rimuovere ed è stato rimosso, senza alcuna remora.

    RIC ha appena pubblicato sul proprio blog alcune considerazioni sull’episodio: https://resistenzeincirenaica.com/2020/01/31/odomen-omen



    https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/01/rimossa-targa-ilorenzo-orsetti
    #Bologne #toponymie #Lorenzo_Orsetti #mémoire #plaque_commémorative #Italie #toponymie_politique

    #partisans #ISIS #Etat_islamique #nouveaux_partisans #Syrie

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    • Un nuovo partigiano in Cirenaica: RIC intitola un giardino pubblico a Lorenzo Orsetti

      La sera del 7 novembre 2019 Resistenze In Cirenaica ha reso omaggio al combattente internazionalista Lorenzo Orsetti, caduto in Siria il 18 marzo 2019. Abbiamo dato il suo nome a un giardino ancora privo di intitolazione all’inizio di via Sante Vincenzi. Ora si chiama Giardino Lorenzo Orsetti detto Orso – Partigiano (1986 – 2019).

      Nel rione Cirenaica di Bologna la maggior parte delle vie porta nomi di partigiani caduti per la Liberazione; anche Lorenzo è stato un partigiano ed è così che lo ricordiamo, tra le combattenti e i combattenti di tutte le liberazioni.

      “Orso” stava dando il proprio contributo alla lotta contro l’ISIS e alla rivoluzione del confederalismo democratico, un esempio di società laica, antisessista e antifascista in pieno Medio Oriente.

      In diverse città – Roma, Torino, Palermo, Firenze… – piazze e parchi portano già il nome di questo nostro compagno.

      Dal 2014 Resistenze In Cirenaica lavora per fare dell’intero rione un grande luogo di memoria, raccontando le storie di resistenza al colonialismo e al fascismo incastonate nei nomi delle vie e nel nome stesso del quartiere; organizzando trekking urbani e performance; realizzando murales e curando libri autoprodotti. L’azione che ha tenuto a battesimo il progetto RIC è stata l’intitolazione dal basso al ferroviere anarchico Lorenzo Giusti del giardino pubblico di via Barontini.

      Durante un trekking urbano abbiamo anche reintitolato via Libia alla partigiana Vinka Kitarovic e via De Amicis alla partigiana Tolmina Guazzaloca.

      Le nostre azioni hanno ispirato le ignote che l’8 marzo scorso hanno ribattezzato la piazzetta degli Umarells «piazzetta delle Partigiane», così come molte altre performance nel resto d’Italia.

      Quella di ieri sera non era dunque la prima azione di guerriglia odonomastica e non sarà l’ultima.

      In Siria del Nord si continua a combattere e morire e dopo l’invasione turca la situazione si è fatta ancora più grave. In questi anni migliaia di persone provenienti da tutta la Siria e da tutto il mondo sono cadute per difendere la rivoluzione del Rojava. Questo cartello non è solo per Orso ma per tutte e tutti loro.

      Della situazione in Siria si parlerà questa sera al Vag61 di via Paolo Fabbri 110.

      Alle 19:30 ci sarà una cena a sostegno della Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia Onlus.
      Alle 21 si svolgerà l’incontro con il regista Luigi D’Alife, autore del documentario Binxet – Sotto il confine, per un aggiornamento sulla situazione della Siria del Nord.
      A seguire, la proiezione del documentario Radio Kobani di Reber Dosky.

      https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/11/lorenzo-orsetti-in-cirenaica

  • Sicilia, il dramma del petrolchimico siracusano

    A nord di #Siracusa l’inquinamento industriale si insinua da decenni nel suolo e nelle falde acquifere, si diffonde nell’aria e contamina il mare. Si teme una deflagrazione di tumori, già da anni in eccesso, e una propagazione di inquinanti nel Mediterraneo. Viaggio nel labirinto di una storia dai risvolti inquietanti. Un giallo siciliano di cui si rischia di parlare molto nel 2020.

    Fabbriche, ciminiere e cisterne di greggio si estendono a macchia d’olio. Il polo petrolchimico a nord di Siracusa è una spina nel fianco dell’Italia. E del Mediterraneo. Venti chilometri di costa, un territorio e una baia imbottiti di sostanze contaminanti e nocive. Dall’insediamento negli anni cinquanta della prima raffineria, la zona è oggi stravolta dall’inquinamento e il governo costretto a correre ai ripari. Nello scorso novembre il ministro dell’ambiente Sergio Costa si è precipitato sul territorio: «Per far sì che si avvii, finalmente, il processo di bonifica». La fretta governativa è percepita come il segnale di una catastrofe.

    A gennaio, senza perdere tempo, è stata istituita una «direzione nazionale delle bonifiche». Per risolvere «una situazione inchiodata da troppi anni», spiega Costa. Subito dopo, a febbraio, una commissione ministeriale dava il via ai sopralluoghi nelle fabbriche. «Per valutare le emissioni in acqua e in aria» e dare speranza alla popolazione, che da decenni convive con tre impianti di raffinazione, due stabilimenti chimici, tre centrali elettriche, un cementificio e due aziende di gas. Quattro centri urbani sono i più esposti all’inquinamento: Augusta, Melilli, Priolo e Siracusa, circa 180 000 abitanti, di cui 7000 dipendono dall’attività industriale.
    Disillusioni e tradimenti

    A volte nell’aria i miasmi tossici sono da capogiro. Su questi è intervenuto un anno fa il procuratore aggiunto Fabio Scavone, inchiodando le fabbriche petrolchimiche a seguito di due anni di inchiesta. «Superavano i limiti di emissioni inquinanti nell’atmosfera», conferma allargando le braccia. Nel suo ufficio della procura di Siracusa avverte: «Ci sarà un processo». Si rischia di parlare molto nel 2020 del petrolchimico siracusano.

    Troppi anni di disillusioni e tradimenti insegnano però a non coltivare grandi speranze. In questo periodo convulso affiorano alla mente spettacolari capovolgimenti, a cominciare dall’archiviazione negli anni 2000 dell’inchiesta «Mare Rosso» sullo sversamento di mercurio da EniChem nella baia di Augusta. Più tardi si scoprì che il procuratore incaricato dell’inchiesta intratteneva uno «strettissimo rapporto di amicizia» con l’avvocato dell’azienda.

    Negli anni 2010 arriva una nuova amara delusione, questa volta sul fronte delle bonifiche, «attese da tempo e mai eseguite», sottolinea Cinzia Di Modica, leader del movimento Stop Veleni. L’attivista rammenta con stizza gli interventi promessi dall’ex ministra forzista dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, i finanziamenti predisposti e i progetti in partenza. «Ma tutto svanì come per incanto».

    Perfino il più battagliero degli agitatori locali, don Palmiro Prisutto, arciprete di Augusta, non si spiega come possano esser spariti i 550 milioni di euro messi a disposizione per le bonifiche.

    Il parroco si è allora incaricato di tenere la luce puntata sugli effetti dell’inquinamento. Da sei anni, ogni 28 del mese, legge durante l’omelia i nomi delle vittime di tumore: sono un migliaio in questo scorcio del 2020. Intitolata «Piazza Martiri del cancro», la lista è composta «con il contributo dei fedeli che mi segnalano i decessi avvenuti in famiglia», ci racconta nella penombra della sua chiesa. "Ognuno di noi conta almeno una vittima tra i parenti

    Nelle statistiche, quelle ufficiali, la cittadina di Augusta rassegna i più alti tassi di «incidenza tumorale», ovvero l’apparizione di nuovi casi. Seguono, in un macabro ordine, Priolo, Siracusa e Melilli. In tanti chiamano ormai questi luoghi il «quadrilatero della morte». Si muore «in eccesso» di carcinoma ai polmoni e al colon, denuncia nel giugno 2019 un rapporto del ministero della Salute. A sorpresa si registra anche l’apparizione negli uomini di tumori al seno.

    Rischi dentro e fuori

    «La tendenza nazionale va invece verso una diminuzione di casi e di mortalità», osserva Anselmo Madeddu, direttore del Registro dei tumori della provincia di Siracusa. Nella sua sede, l’esperto ci svela un dato preoccupante: ad Augusta, Priolo e Melilli, dove si registrano 20% di tumori in più rispetto al resto della provincia, donne e uomini sono colpiti in misura quasi uguale. «Un’incidenza ubiquitaria», la definisce il direttore. È come se l’impatto dei contaminanti sulla salute avesse ormai uguale esito dentro e fuori dagli stabilimenti. Un risultato sorprendente già osservato in uno studio del 2013 «su lavoratori della stessa fabbrica, esposti esattamente agli stessi fattori prodottivi e quindi di rischio», spiega il direttore. «I lavoratori residenti nel quadrilatero mostravano un’incidenza tumorale doppia rispetto ai colleghi pendolari, che abitavano altrove».

    È arrivata oggi la conferma, conclude Madeddu, che il rischio di ammalarsi di cancro si sta pericolosamente trasferendo dai soli impianti alla totalità del territorio. Il direttore fa cogliere la gravità della situazione usando un paradosso: «Se con un colpo di bacchetta magica cancellassimo tutte le industrie, avremmo le stesse incidenze tumorali, poiché noi oggi stiamo osservando i risultati delle esposizioni di trenta o quarant’anni fa».

    Per l’esperto le bonifiche devono essere «immediate», per evitare una deflagrazione delle malattie di cancro. Lo ha capito il ministro dell’ambiente Costa, scegliendo di confrontarsi con un «disastro gigantesco», valuta Pippo Giaquinta, responsabile della sezione Legambiente di Priolo. Nei decenni la contaminazione «si è insinuata dappertutto», nel suolo e nelle falde acquifere, si è diffusa nell’aria ed ha avvelenato il mare.
    Una montagna di sedimenti nocivi

    Ma è nella rada di Augusta che oggi si concentra l’attenzione governativa. «Già nel primo metro, indica Sergio Costa, troviamo mercurio, idrocarburi pesanti, esaclorobenzene, diossine e furani». L’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale ha censito più di tredici milioni di metri cubi di sedimenti nocivi. Dimensioni che equivalgono alla somma di quattrocento palazzi di ventiquattro piani ciascuno! Un gigantesco impasto tossico che fa crescere i timori di una propagazione nel Mediterraneo.

    Per il mercurio il dato ufficiale è di 500 tonnellate sversate nel mare, dal 1959 al 1980, dall’ex Montedison, poi EniChem. Una quantità accertata dalla Procura di Siracusa. È probabile che nei decenni successivi circa altre 250 tonnellate abbiano raggiunto i fondali. Fa allora impallidire il parallelo con la catastrofe della baia giapponese di Minamata, negli anni settanta. La biologa marina Mara Nicotra tuona: «Nella rada di Augusta si parla di quantità ben superiori alle 400 tonnellate sversate nel mare del Giappone, che provocarono all’epoca circa duemila vittime». Al disastro umano e ambientale di Minamata l’Onu ha dedicato una Convenzione sul mercurio.

    La preoccupazione riguarda anche il consumo di pesce. Concentrazioni da record di mercurio sono state rilevate nei capelli delle donne in stato di gravidanza che si nutrivano di specie ittiche locali. Nel 2006 la Syndial, ex EniChem, decise di risarcire più di cento famiglie con bambini malformati con 11 milioni di euro in totale. Destò scalpore all’epoca l’esborso spontaneo della somma. Nessun tribunale aveva pertanto emesso una sentenza di risarcimento.

    Lo scandalo delle malformazioni da mercurio non è però bastato a bloccare la minaccia. Malgrado il divieto di pesca, lo scorso 6 marzo, nel porto di Augusta, la polizia marittima ha scoperto una rete clandestina di circa 350 metri. «L’ennesima», sottolinea la Capitaneria di Porto. La pesca di frodo non si arresta, e non si sa dove finisce il pesce contaminato.

    L’impressione è che gli atti inquinanti e lesivi della salute sfuggano al controllo. «A Priolo, nel 2018, una centralina accanto ad un asilo pubblico ha registrato per ben due volte sforamenti di emissioni di arsenico, ma si è saputo solo a distanza di un anno», sbuffa Giorgio Pasqua, deputato del Movimento 5 Stelle al parlamento regionale siciliano. In un bar della suggestiva marina di Ortigia, patrimonio dell’Unesco a pochi chilometri dal petrolchimico, ci racconta la sua odissea legislativa per ottenere «un sistema integrato con sensori e centraline per il monitoraggio ambientale». Dopo una lunga battaglia il dispositivo, in vigore da aprile, «permetterà infine di reagire in poche ore, e di capire subito quale impianto industriale è all’origine delle emissioni nocive». Fino ad oggi, lamenta il deputato, la verità è che «abbiamo tenuto un occhio chiuso, se non tutti e due» sull’inquinamento atmosferico.
    Le grandi fabbriche si difendono

    Soltanto negli ultimi mesi la giustizia e la politica hanno inviato chiari segnali di contrasto. A novembre il ministro Costa non ha nemmeno concesso una visita di cortesia al presidente di Confindustria Siracusa. Diego Bivona usa parole forti, «il territorio è diventato inospitale», e denuncia il «clima luddista» che si sarebbe insinuato, secondo lui, nella politica, un fenomeno «che esercita pressioni nei confronti anche della magistratura».

    Lo sfogo del portavoce del petrolchimico avviene a microfoni aperti nella sede dell’organizzazione. Avverte che le industrie hanno fin qui «mostrato una grande resilienza», ma «potrebbero un giorno andarsene con danni importanti in termini di impiego». L’avvertimento è chiaro, a forza di tirare la corda si spezza. Fa notare che «l’Eni e le altre aziende non investono più nel territorio da dieci anni, se non per adeguamento a normative ambientali» e che, nel 2013, «il gruppo italiano Erg ha venduto la sua raffineria» alla multinazionale russa Lukoil. Il cambio della guardia con le aziende italiane è stato ultimato nel 2018, quando il gigante algerino Sonatrach è subentrato a Esso Italia.

    Il presidente di Confindustria Siracusa si dice anche stupito dalla «cecità di chi guarda esclusivamente alle grandi fabbriche e non vede l’inquinamento generato dalla molteplici attività che si svolgono nel territorio». Sottolinea che nelle parcelle private occupate dall’industria «è stato realizzato il 68% delle bonifiche». Pure l’adeguamento degli impianti dichiara il presidente, «è in avanzato stato di completamento» riguardo alle prescrizioni del ministero dell’Ambiente, mentre «non sono accettabili» i limiti previsti nel recente Piano regionale della qualità dell’aria, su cui è pendente un ricorso, «in quanto si basa su dati di emissioni obsoleti».

    «Le fabbriche si oppongono a tutto», deplora il sindaco di Augusta Cettina Di Pietro, una delle figure politiche in prima linea nella lotta contro l’inquinamento. Lo scorso anno la pentastellata si è allineata sulle posizioni del presidente di centrodestra della Regione Sicilia, Nello Musumeci, in contrasto con Confindustria sul tema dell’inquinamento atmosferico. «Ma è una battaglia impari». Nel suo ufficio, dove il sole di marzo fatica a crearsi uno spiraglio, la prima cittadina si mostra lucida sull’esito della lotta: «Il territorio non è ancora pronto a fronteggiare il fenomeno, gli enti e le municipalità sono sprovvisti di personale qualificato». Lo squilibrio balza agli occhi nei tavoli di discussione: «Spesso ci ritroviamo in tre, io, un assessore e un consulente; dall’altra parte, un esercito di avvocati ed esperti».

    Al potere politico e giudiziario incombe oggi il compito di spezzare lo stato di paralisi in cui da anni sprofonda il territorio. «Fin qui non ci è riuscito nessuno», ricorda però Pippo Giaquinta, storico attivista di Legambiente a Priolo. «Capiremo nei prossimi mesi se si continuerà a scrivere un nuovo capitolo di questo interminabile dramma, o se riusciremo a mettere un punto finale».

    https://www.tvsvizzera.it/tvs/inquinamento_sicilia--il-dramma-del-petrolchimico-siracusano/45639136

    –-> Reportage de #Fabio_Lo_Verso et @albertocampiphoto (@wereport)

    #cancer #pétrochimie #industrie_pétrochimique #pollution #Sicile #Italie #pollution_industrielle #Méditerranée #raffinerie #Augusta, #Melilli #Priolo #Siracusa #Mare_Rosso #mercure #EniChem #Stop_Veleni #don_Palmiro_Prisutto #Palmiro_Prisutto #Piazza_Martiri_del_cancro #toponymie #toponymie_politique #décès #morts #quadrilatero_della_morte #rada_di_Augusta #métaux_lourds #Montedison #Minamata #Syndial #malformations #pêche #poissons #pollution_des_eaux #pollution_des_sols #pollution_atmosphérique #pollution_de_l'air #Erg #Lukoil #Sonatrach #Esso_Italia

    –-> quantité de mercure déversée dans la mer :

    Per il mercurio il dato ufficiale è di 500 tonnellate sversate nel mare, dal 1959 al 1980, dall’ex Montedison, poi EniChem. Una quantità accertata dalla Procura di Siracusa. È probabile che nei decenni successivi circa altre 250 tonnellate abbiano raggiunto i fondali.

  • La ville faite par et pour les #hommes

    Des noms d’hommes sur les plaques à tous les coins de rues. Des #loisirs qui profitent en priorité aux #garçons. Des offres de transport insensibles aux spécificités de genre. Sans oublier la culture du #harcèlement. La ville se décline surtout au #masculin. Plusieurs études récentes le confirment. L’auteur décrit comment la cité renforce les #inégalités entre les femmes et les hommes et en crée de nouvelles, et montre qu’il est possible de la rendre plus égalitaire. L’usage de la ville est mixte, et travailler sur le mieux vivre des femmes, n’est-ce pas travailler pour tous ?

    https://www.belin-editeur.com/la-ville-faite-par-et-pour-les-hommes#anchor1
    #genre #livre #urban_matter #villes #toponymie #toponymie_politique #mixité #femmes #géographie_urbaine

  • Toponymic Contestations Surrounding the Mama Ngina Waterfront Park, Mombasa, Kenya
    https://neotopo.hypotheses.org/2920

    By Melissa Wanjiru-Mwita – Post-Doctoral Fellow at Department of Geography and Environment, University of Geneva. On 20th October, 2019, the annual Mashujaa Day (Heroes’ Day) celebration was held at the recently renovated Mama Ngina Drive,...

    #African_Neotoponymy_Observatory_in_Network #Billets #ExploreNeotopo #Toponobservations

  • #Marielle_Franco

    –-> une présentation de Marielle Franco sur wikiradio (#audio).
    https://www.raiplayradio.it/audio/2019/12/WIKIRADIO---Marielle-Franco-ecfb8a18-984a-4790-ac5a-f188a3ffb1c2.html

    #biographie

    Et dans cette présentation, une partie dédiée à la #toponymie :

    A partir de la minute 17’05 on parle de la toponymie liée à Marielle Franco.
    On parle de l’initiative de Anne Hidalgo de dédier le nom d’un jardin à Marielle Franco (#Paris, #France).
    Et un nom de rue à #Cologne, en #Allemagne (#Köln).
    A #Buenos_Aires (#Argentine), une station de métro.

    Minute 17’20 :
    A #Rio_de_Janeiro, la préfecture lui dédie le #Quarteirão_Cultural :


    Rio de Janeiro dédie aussi une rue à son nom.
    Dans l’audio on explique qu’à ce moment là on est en pleine campagne électorale qui sera gagnée par Bolsonaro.

    Retranscription de l’extrait concernant l’histoire de la plaque mise en son nom, puis vandalisée et reproduite et distribuée en 1000 exemplaires par un anonyme pour être affichée partout à Rio et dans le monde :

    «Marielle diventa il punto cruciale del conflitto. Anche da morta diventa un simbolo e anche un obiettivo di guerra. Con un atto vandalico, i sostenitori di Bolsonaro spezzano in due la placca stradale con il suo nome e la esibiscono come un trofeo alla folla minacciando anche chi la pensa come Marielle di fare la stessa fine. Dopo qualche giorno arriva la risposta e in piazza durante una manifestazione arrivano decine e decine di pacchi che vengono aperti, contengono mille targhe identiche a quella spezzata con la scritta di Marielle. Sono il regalo di un sostenitore anonimo. Monica Beniso le distribuisce alla folla che le tiene a due mani sulla testa a braccia tese. L’impatto è molto impressionante. Le placche con il nome di Marielle Franco occupano tutta la piazza e poi si sparpaglieranno per la città a indicare una nuova geografia. Ora quella placca si può addirittura scaricare da internet e può essere appesa in ogni dove. Qualcuno l’ha persino rifatta all’uncinetto, con gli stessi colori e l’ha inchiodata all’angolo della sua via, nella favela. Politica con cariño, con affetto, questo diceva Marielle Franco.»

    #noms_de_rue #Brésil #toponymie_politique

    ping @isskein

    • Cet événement a déjà été signalé sur le blog @neotoponymie
      Rua Marielle Franco, du Brésil aux villes monde : quand le symbole de la lutte se multiplie et circule

      Le 1er Avril 2019, le Conseil de Paris a voté à l’unanimité le projet de nomination d’une rue en l’honneur de Marielle Franco. Ceci à l’initiative du Réseau Européen pour la Démocratie au Brésil. Il s’agit d’un hommage à la conseillère municipale élue du Parti du socialisme et de la liberté (PSOL), sauvagement assassinée avec son chauffeur Anderson Gomes le 14 Mars 2018 dans le centre de Rio de Janeiro. Marielle était une femme noire, lesbienne et issue de la favela Maré. Avec courage et acharnement, elle menait un combat quotidien pour lutter contre différentes formes de discriminations au Brésil, notamment les violences policières qui continuent d’être exercées massivement à l’encontre des jeunes noir.es des favelas au nom de la “guerre contre la drogue”. Marielle était également sociologue et elle s’était battue à ce titre, et en tant qu’“amie du funk”, pour donner une nouvelle visibilité à cette musique brésilienne. Ce courant musical du funk carioca, développé dans les années 1990 et associé à la jeunesse des favelas, continue d’être fortement marginalisé et décrié par les médias et les pouvoirs publics. Marielle était membre du mouvement Apafunk créé en 2008, suite à la demande d’approbation d’une loi fédérale reconnaissant le funk comme mouvement culturel et musical de caractère populaire, et allant ainsi à l’encontre de la criminalisation du mouvement.

      L’assassinat de Marielle ne représente pas seulement une atteinte à la démocratie, mais également une tentative de faire taire les voix dissidentes qui s’élèvent pour dénoncer avec fermeté les injustices sociales au sein de la scène politique brésilienne, désormais aux mains d’un président d’extrême droite nostalgique de la dictature. Depuis le 14 Mars 2018, des voies se sont élevées, non seulement au Brésil où des manifestations ont rassemblé des milliers de Brésiliens et Brésiliennes dans toutes les grandes villes du pays, mais aussi partout dans le monde, pour que justice soit rendue. Cet hommage et le combat pour obtenir justice se sont matérialisés dans le symbole d’une plaque de rue, du nom de Marielle Franco, apposée devant la chambre des députés à Rio.

      Dans une vidéo postée sur les réseaux sociaux en Octobre dernier, deux députés du parti PSL, parti de l’actuel président, se félicitaient d’avoir retiré et détruit la plaque au nom de Marielle, installée en hommage à celle-ci. Cet acte a suscité la colère de millions de brésiliens et brésiliennes et la riposte a été immédiate. Une cagnotte de plus de deux mille reais s’est constituée en 24 minutes, permettant ainsi la création de mille plaques qui ont été brandies le 14 octobre 2018, lors d’une manifestation intitulée “mille plaques pour Marielle”.

      Cette plaque est rapidement devenue, au Brésil et bien au-delà, un signe de ralliement au souvenir et au combat de Marielle. Différents mouvements en apposent dans les rues de grandes villes, comme ci-dessous à Berlin, ou réclament des nominations officielles comme c’est le cas à Paris, à Buenos Aires et à Lisbonne où ces initiatives ont été relayées officiellement avec des engagements de nominations en 2019.

      Par ailleurs, de très nombreux murals représentent Marielle dans des quartiers centraux comme périphériques au Brésil et parfois ailleurs. La tentative extrêmement violente symboliquement d’éradication de la figure iconique de Marielle, sorte de second assassinat, a amplifié et internationalisé le mouvement pour sa mémoire et son combat qui s’incarne désormais dans sa figure et dans la plaque à sa mémoire infiniment reproduite.

      Si les deux auteurs présumés de l’assassinat ont enfin pu être identifiés un an après le meurtre, la question de savoir qui a commandité cet acte reste en suspens. La lutte continue aussi et surtout sur ce front, et de nombreux.ses Brésilien.nes exigent une réponse, comme en témoigne la circulation du désormais fameux ashtag #Quem matou Marielle ? sur les réseaux sociaux.

      En cette période où le Brésil semble s’enfoncer vers une forme de chaos politique et social, les mouvements de résistance s’organisent et la contestation est bien visible. Le carnaval de mars 2019, et notamment la fameuse école de samba Estação primeira de Mangueira, ont rendu hommage à Marielle, n’en déplaise au président Bolsonaro.
      Membros do Amigos da Onça levantam placas com o nome da vereadora Marielle Franco, assassinada em março do ano passado Foto : Gabriel Paiva / Agência O Globo

      De même, le débat sur les violences policières a été ravivé en février dernier après la mort par étouffement d’un jeune homme noir dans un supermarché, qui a donné lieu au #VidasNegrasImportam (les vies noires comptes).

      Le combat contre les discriminations et pour la justice sociale s’étend donc au-delà du Brésil. La confirmation de l’inauguration prochaine d’une rue au nom de Marielle Franco à Paris marque un moment inédit de commémoration transnationale. C’est également un symbole fort dans un contexte actuel de regain de politiques identitaires et liberticides dans de nombreux pays.

      PS : En avril 2019, une décision aurait été prise pour nommer d’après Marielle Franco un nouveau jardin public suspendu à Paris aux alentours de la gare de l’Est.

      Au cours de l’année 2019 d’autres initiatives sont prises hors du Brésil, notamment à Buenos Aires et à Lisbonne.

      https://neotopo.hypotheses.org/2025