• NEL GIORNO IN CUI IL MONDO CHIEDE LA FINE DELLA GUERRA IN UCRAINA, MIMMO LUCANO DIVENTA CITTADINO ONORARIO DI MARSIGLIA

    Caro Mimmo,
    che questo giorno e questa onorificenza ti portino un po’ di serenità e che il tuo Paese sappia riconoscere finalmente i tuoi meriti, la tua umanità e i suoi errori.
    Nemo propheta in patria!
    Con affetto e gratitudine da noi tutti che ti conosciamo e ti sentiamo come un fratello.

    #Marseille #toponymie_politique #migrations #asile #accueil #réfugiés #Riace #honneur #Mimmo_Lucano #Domenico_Lucano #Citoyen_d'honneur #citoyenneté_d'honneur #noms_de_rue

    #place_Riace #toponymie_politique #toponymie_migrante :

    « Place Riace. Village italien symbole mondial d’une utopie réaliste : l’hospitalité »

    #utopie_réaliste #hospitalité

    • Marseille honore Mimmo Lucano, l’ancien maire accueillant d’un village de Calabre poursuivi par l’extrême droite italienne

      L’ancien maire de Riace avait décidé de repeupler son village calabrais grâce aux migrants. Cela lui a valu les foudres de l’extrême droite italienne. Poursuivi en justice, il risque entre dix et treize ans de prison.

      Domenico Lucano dit Mimmo Lucano est l’ancien maire de Riace en Calabre. Cet ancien militant des droits de l’homme, s’est fait connaitre par ses prises de positions favorables à l’accueil des migrants.

      Mimmo Lucano avait redonné vie à son village grâce aux « extracomunitari »

      Ce sympathisant communiste avait notamment favorisé leur implantation à Riace afin de redonner vie au village. En 2018, il avait en effet accueilli 600 extracomunitari comme on dit en Italie, qui étaient venus revivifier cette bourgade de 2000 habitants. Le village avait été frappé depuis plus d’un siècle par l’exode de sa population vers les villes industrielles du nord de la péninsule. Avec l’arrivée de ces nouveaux habitants, Riace avait connu un certain renouveau avec la restauration de maisons, la réouverture de commerces et même de l’école du village, mais en 2018, Mimmo Lucano s’était vu couper les aides économiques du Centre d’accueil extraordinaire (CAS) au moment de l’arrivée au pouvoir de Matteo Salvini.

      Son engagement lui a causé de nombreux problèmes

      Pour protester contre ces coupes financières, Mimmo Lucano avait entamé une grève de la faim. Le 1er octobre 2018, il avait même été accusé d’aide à l’immigration clandestine et arrêté. Il a également été poursuivi sous prétexte d’irrégularités dans l’attribution de financements pour le ramassage des ordures à Riace et l’organisation de mariages blancs entre les habitants du village et des migrants. Cela lui a valu une interdiction de séjour dans son propre village de 11 mois. En septembre 2021, il a même été condamné à 13 ans de prison pour avoir organisé des mariages blancs pour des femmes déboutées du droit d’asile et pour avoir attribué des marchés sans appel d’offres à des coopératives liées aux migrants.

      « J’assume d’être sorti de la légalité, mais la légalité et la justice sont deux choses différentes. La légalité est l’instrument du pouvoir et le pouvoir peut-être injuste », déclarait alors Domenico Lucano.

      Le 26 octobre s’est ouvert son procès en appel. Il risque entre dix et treize ans de prison.

      Marseille honore l’ancien maire de Riace

      Hier, la ville de Marseille a honoré l’ancien maire de Riace. L’italien a été fait citoyen d’honneur de la ville et le maire socialiste de Marseille, Benoit Payan lui a remis une médaille.

      L’eurodéputé EELV, Damien Careme qui a assisté à l’évènement a exprimé sur Twitter sa « solidarité avec celui qui est menacé en justice par l’extrême droite italienne qui lui fait un procès politique ».

      Un rassemblement a également été organisé en son honneur, au Musée de l’histoire de la ville de Marseille. Le coordinateur des actions du PEROU, Sébastien Thierry, en a profité pour déclamer un discours.

      Selon lui, « L’hospitalité vive est le seul projet politique viable pour ce 21e siècle ». « Nous savons combien les bouleversements climatiques s’annoncent extraordinaires ». Nous savons combien les mouvements migratoires seront colossaux durant ce siècle, et ce particulièrement dans le bassin méditerranéen ».

      S’adressant à Mimmo Lucano, M. Thierry ajouta : « Nous savons donc que tout ce qui s’oppose à cela, que tout ce qui s’oppose à ce que tu as bâti, que tout ce qui s’oppose aux navires sauvant des vies en Méditerranée, que tout ce qui s’oppose à une Europe massivement accueillante, s’oppose en vérité au seul avenir respirable qui soit ». « Ce ne sont pas des politiques qui te font face, ce sont des cadavres. »

      https://veridik.fr/2022/11/06/marseille-honore-mimmo-lucano-lancien-maire-accueillant-dun-village-de-calab

  • Da #Melilla a #Beni_Mellal: dove sono finiti i respinti tra Spagna e Marocco

    Dopo le brutali violenze al confine con l’enclave spagnola di fine giugno, più di 200 persone sono state allontanate con la forza nel Sud del Marocco, in una zona impreparata alla loro assistenza. Ecco come ha risposto il territorio

    Le immagini dei violenti respingimenti dei migranti avvenuti il 24 giugno scorso da parte delle forze dell’ordine marocchine e spagnole alla frontiera con l’enclave spagnola di Melilla sono rimbalzate su tutte le testate europee. Quei 37 morti e le centinaia di feriti hanno suscitato sgomento e sdegno in tutta la comunità internazionale e diverse riflessioni su come ripensare alla gestione delle migrazioni ai confini dell’Unione europea. Mentre i riflettori erano puntati sul filo spinato dell’ingresso di Barrio Chino, file e file di autobus carichi di migranti partivano da Nador, dieci chilometri a Est di Melilla, e si snodavano lungo le diverse routes nationales del Marocco verso destinazioni il più possibile lontane.

    A 678 chilometri più a Sud, nel cuore della catena montuosa del Medio Atlante la città di Beni Mellal da un giorno all’altro si è trovata ad ospitare un flusso senza precedenti di migranti. Circa 210 persone si sono riparate nei pressi della stazione degli autobus, luogo di elezione dei senzatetto della zona. L’erba dei giardini di Boulevard Mohamed VI a fare da letto e i rami degli alberi a fare ombra dal sole cocente per proteggersi dai 45 gradi tipici della stagione estiva. Beni Mellal è il capoluogo di Beni Mellal-Khenifra, una regione grande come la Sicilia e la Valle d’Aosta messe insieme. A vocazione agricola e con un’intensa attività di estrazione di fosfati, è storicamente sempre stata considerata un’area di emigrazione di cittadini marocchini verso il Nord Italia, specie in Piemonte e Lombardia. Negli ultimi 15 anni però l’area è soggetta alla migrazione di ritorno e circolare. Altro fenomeno che la caratterizza è quello del transito dei migranti provenienti dai Paesi dell’Africa subsahariana che tentano di raggiungere l’Europa. Tuttavia, a causa della pandemia da Covid-19 e del rafforzamento dei controlli alle frontiere di Ceuta e Melilla, per alcuni, soprattutto ivoriani e ciadiani, il transito si è tramutato in uno stanziamento. Si tratta perlopiù di migranti in situazione “irregolare” che vivono in strada o in edifici in costruzione, mendicando agli incroci. L’intersezione tra boulevard Hassan II e boulevard Mohamed VI è stata ribattezzata dagli operatori delle Ong “la rotonda dei migranti”.

    La richiesta d’asilo è valutata prima dall’Unhcr e poi, in caso di esito positivo, da un ufficio del governo marocchino. Nel 2020 sono state riconosciute 847 “carte del rifugiato”

    In Marocco non esiste una legge che regoli il diritto alla protezione internazionale, nonostante dal dicembre 2014 sia in vigore la Strategia nazionale di immigrazione e asilo che ha come obiettivo quello di facilitare l’accesso ai servizi, all’educazione, alla salute e all’alloggio per gli stranieri presenti sul territorio nazionale. Non essendoci un sistema di asilo consolidato nel Regno, è l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) che affianca il governo marocchino prendendo in carico ed esaminando le richieste di protezione internazionale. In caso di esito positivo rilascia un documento che attesta lo status di rifugiato, ma che non regolarizza la posizione sul territorio. Con tale documento è possibile rivolgersi al Bureau des réfugiés et des apatrides (Bra), istituzione dipendente dal governo marocchino, che riesamina la documentazione e in seconda battuta può confermare o rigettare lo status. Nel primo caso, il beneficiario ottiene una “carta del rifugiato” con la quale successivamente è possibile richiedere un titolo di soggiorno e quindi regolarizzare la propria presenza. Nel rapporto di bilancio del 2020 sulla politica di immigrazione e asilo si parla di 847 persone con lo stato di rifugiato riconosciute dal Bra. Le statistiche aggiornate al 31 luglio scorso raccontano di una popolazione di 18.985 persone prese in carico da Unhcr di cui 9.277 richiedenti asilo e 9.708 con un primo esito positivo.

    Dal 25 al 30 giugno 2022, sono stati oltre 40 gli accompagnamenti delle Ong locali al pronto soccorso di Beni Mellal per fratture e ferite al cranio, agli arti e alla schiena

    A fine giugno le Organizzazioni non governative internazionali e le associazioni di Beni Mellal che si occupano di sviluppo, improvvisamente si sono trovate a gestire centinaia di persone, molte delle quali gravemente ferite, senza aver una particolare esperienza nella gestione dell’emergenza. La nazionalità più presente quella dei sudanesi, seguiti da ciadiani, etiopi, nigeriani e nigerini. Età media 23 anni. Nessuna donna. Per comunicare gli operatori internazionali si sono affidati all’intermediazione dei ciadiani che parlando sia francese sia arabo hanno fatto da traduttori per le altre nazionalità arabofone.

    A fare da capofila nella gestione dei primi soccorsi è Progettomondo, un tempo Mlal, Ong veronese attiva in Marocco e in particolare nella regione da circa 20 anni, specializzata in migrazione e sviluppo. La sede, situata nel quartiere di Hay Ghita, si è trasformata nella base operativa di coordinamento della società civile. Hanno unito le forze l’Ong italiana Cefa, partner storico di Progettomondo in Marocco specializzato in accompagnamento dei migranti, la Chiesa cattolica di Beni Mellal che si è offerta di pagare i medicinali e l’operazione per un giovane con il ginocchio in frantumi, l’associazione Cardev sempre disponibile per le attività con i migranti, la Mezzaluna Rossa che ha offerto i propri locali per fare le medicazioni e l’associazione Maroc solidarité médico sociale (MS2), attiva tra Rabat e Oujda, le cui operatrici si sono spostate eccezionalmente a Beni Mellal per mettere a disposizione risorse e competenze nell’accompagnamento medico. Costante la partecipazione degli operatori di Unhcr, attore non presente nella regione ma che proprio il giorno degli episodi di Melilla stava tenendo una formazione alle associazioni locali sul diritto all’asilo. “Nonostante l’area non sia specializzata nell’ emergenza, i vari attori avevano già in atto delle attività di assistenza” spiega Rachid Hsine, senior protection associate a Unhcr.

    “Soprattutto per i sudanesi, che non hanno una rete in Marocco, non c’è interesse a restare. Dati i maggiori controlli a Nord, molti si muovono verso le Isole Canarie” – Hsine

    La comunicazione, secondo Fabrizia Gandolfi, rappresentante Paese di Progettomondo in Marocco è stata la chiave di volta: “Le relazioni e la fiducia delle autorità locali e di sicurezza ci hanno permesso di portare gli aiuti. Per settimane, sono state condotte una decina di distribuzioni di viveri a beneficio di centinaia di persone con il benestare della Prefettura che collabora con Progettomondo da anni. I contatti continui con la Delegazione regionale della salute hanno facilitato l’accesso ai poliambulatori, laddove insorgesse reticenza nell’accogliere migranti irregolari. Anche le precedenti formazioni erogate al personale sanitario sull’accoglienza dei migranti nel corso dei nostri progetti hanno facilitato la ricezione”.

    Solo dal 25 al 30 giugno di quest’anno, sono stati oltre 40 gli accompagnamenti delle Ong locali al pronto soccorso di Beni Mellal per fratture e ferite al cranio, agli arti e alla schiena. Aimée Lokake, agente di terreno dell’Ong Cefa applaude lo staff medico locale: “I primi soccorsi sono stati garantiti a decine di migranti alla volta, nonostante l’arrivo inaspettato e la diffidenza nell’accogliere persone protagoniste di atti di violenza, come riportato dei media locali”. Emblematico della collaborazione tra i diversi attori il caso di Ahmed, sudanese di 22 anni arrivato a Beni Mellal con un piede in cancrena a causa delle medicazioni frettolose e sommarie ricevute all’ospedale di Nador subito dopo gli scontri. La prima diagnosi all’ospedale di Beni Mellal aveva dato un esito nefasto: amputazione. Tuttavia, società civile e istituzioni si sono mobilitate per dare una speranza al giovane. La Delegazione regionale della salute ha fatto da intermediario con medici e assistenti sociali, Progettomondo e Cefa hanno vegliato il ragazzo in ospedale, Unhcr, MS2 e l’Association de planification familiale di Rabat hanno tenuto i contatti con l’ospedale della capitale per verificare la possibilità di trasferimento, infine Progettomondo ha assicurato la presenza di un’ambulanza privata per il trasporto e Cefa si è fatta carico delle cure. A Rabat la diagnosi è stata più clemente, il piede è stato salvato e il giovane è stato inserito nei registri di Unhcr per richiedere la protezione internazionale.

    Sono 360 i milioni di euro versati dall’Ue al Marocco negli ultimi otto anni per la gestione del fenomeno migratorio. Di questi, il 75% (270 milioni) sono stati stanziati per “proteggere” le frontiere europee. Nell’agosto 2022 è trapelata la notizia di un ulteriore finanziamento di 500 milioni di euro che lascia presagire che episodi simili a quelli di Melilla potrebbero ripetersi

    Uno dei problemi emersi è stato quello della presa in carico: “Purtroppo sono le Ong e le associazioni che devono pagare i costi delle cure accessorie. Una volta ricevute quelle di base, i migranti finiscono in strada con conseguenti problemi di igiene. Le organizzazioni si sono trovate a mobilitare fondi straordinari per trovare alloggi consoni” racconta Hsine. Secondo i dati rilasciati da Progettomondo, alla fine di agosto il numero di migranti è sceso a 100. Alcuni hanno preso la volta di Melilla, altri si sono spostati a Casablanca e a Rabat, alcuni sono riusciti ad arrivare in Spagna prendendo il mare da Sud-Ovest. “Soprattutto per i sudanesi, che non hanno una presenza comunitaria in Marocco, non vi è alcun interesse a restare. Dato il rafforzamento dei controlli alle frontiere a Nord del Paese, molti tentano di arrivare alle Isole Canarie attraverso Laayoune (città a circa 30 chilometri dalla costa, ndr)” evidenzia Hsine. Ad agosto la notizia trapelata da fonti comunitarie di un prossimo finanziamento di 500 milioni di euro da parte dell’Unione europea al Marocco per la gestione delle migrazioni lascia presagire che episodi simili a quelli di Melilla potrebbero ripetersi, dato che negli ultimi otto anni 270 su 360 milioni di euro ricevuti sono stati allocati alla protezione delle frontiere.

    “La situazione dei migranti bloccati in Marocco non può essere considerata un’emergenza ma una crisi strutturale alimentata dalle politiche europee” – Gandolfi

    Uno dei nodi è l’utilizzo di questi fondi, considerando che le organizzazioni internazionali stimano che tra le 60 e le 80mila persone all’anno transitino irregolarmente sul territorio marocchino e solo nel 2020 sono stati 40mila i tentativi di ingressi e di uscita bloccati dalle autorità: “Le alternative sono diverse: approccio securitario, adattamento dei programmi alle popolazioni in movimento, intervento umanitario, integrazione oppure intervento nei Paesi di origine”, spiega Hsine. Secondo Gandolfi, la ricetta per far fronte a nuovi flussi massicci è andare oltre la risposta emergenziale: “Dal momento che la situazione delle persone migranti presenti irregolarmente e bloccate in Marocco non può essere considerata un’emergenza ma una crisi strutturale alimentata dalle politiche europee, è necessario creare dei tavoli di coordinamento permanenti tra società civile e collettività territoriali dove elaborare risposte condivise e responsabilizzare le istituzioni sul loro ruolo di governance”. Nel frattempo gli autobus continuano a partire dal Nord verso il Sud del Paese carichi di giovani che prima o poi ritenteranno di passare il confine, sperando di essere tra i fortunati a valicare il muro di quella che ormai sembra sempre di più somigliare a una fortezza.

    https://altreconomia.it/da-melilla-a-beni-mellal-dove-sono-finiti-i-respinti-tra-spagna-e-maroc

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    #toponymie_politique:

    L’intersezione tra boulevard Hassan II e boulevard Mohamed VI è stata ribattezzata dagli operatori delle Ong “la rotonda dei migranti”.

    #toponymie_migrante

    #Maroc #expulsions #renvois #déportation #migrerrance #Atlas_marocain #montagne #migrations #asile #réfugiés #Bureau des_réfugiés_et_des_apatrides (#Bra) #Progettomondo #Cefa #Mlal #Cardev #société_civile #HCR

  • L’#Université_de_Genève va renommer le bâtiment #Carl_Vogt

    L’Université de Genève (UNIGE) va changer le nom de son bâtiment Uni Carl Vogt. Cette décision révélée jeudi par Radio Lac est motivée « par un certain nombre de thèses sur la hiérarchie des races et l’infériorité du sexe féminin » défendue par ce naturaliste du 19e siècle.

    La dénomination Carl Vogt sera d’abord remplacée par la mention « Université de Genève », précise jeudi l’UNIGE, revenant sur l’information de Radio Lac. Un nouveau nom sera ensuite choisi au terme d’un processus global et participatif.

    Le buste de Carl Vogt, qui a par ailleurs joué un rôle déterminant dans la modernisation de l’UNIGE, fera aussi l’objet d’une réflexion en vue d’une contextualisation. Des discussions seront menées avec la Ville de Genève étant donné que cette statue se trouve sur le domaine public.

    La Municipalité avait lancé une étude sur ce sujet suite à la mort de l’Afro-américain George Floyd, asphyxié sous le genou d’un policier en 2020. En réaction, des statues de personnages historiques accusés de racisme et d’esclavagisme avaient été déboulonnées aux Etats-Unis et dans le monde. A Neuchâtel, la statue de David de Pury avait été maculée de peinture rouge.

    https://www.rts.ch/info/regions/geneve/13426388-l-universite-de-geneve-va-renommer-le-batiment-carl-vogt.html
    #toponymie #toponymie_politique #université

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  • #Marseille, le nom des rues en débat : quelle place accorder dans l’#espace_public au #passé_colonial et à ses suites ?

    Les personnages honorés dans l’espace public sont des repères pour les citoyens. A Marseille, des rues et des écoles portent les noms des colonisateurs Bugeaud ou Cavaignac. L’association Ancrages, qui travaille sur l’histoire de la ville et sa diversité, a élaboré une liste de 315 noms dont les parcours pourraient être rappelés dans l’espace public. L’écrivain Claude Mckay, originaire de la Jamaïque, et la militante de l’indépendance algérienne puis de l’antiracisme à Marseille, Baya Jurquet-Bouhoune, en font partie. Cette association a fait des proposition de cartels pour accompagner les statues à la gloire de la colonisation qui se trouvent à la Gare Saint-Charles. Le Collectif pour une mémoire apaisée appelle à débaptiser les lieux portant les noms de Bugeaud et de Cavaignac pour leur donner les noms de Gisèle Halimi et de Maurice Audin. Par ailleurs, après un quart de siècle de refus de l’ancienne municipalité, une avenue au nom d’Ibrahim Ali, tué en 1995, à 17 ans, par des colleurs d’affiches du FN, a été enfin officiellement inaugurée.

    Depuis plus de vingt ans, l’association Ancrages participe à éclairer le portrait d’habitants et de militants issus de la diversité à Marseille. Samia Chabani, directrice d’Ancrages, a participé au conseil scientifique composé d’historiens et de sociologues, présidé par l’historien Pascal Blanchard, qui a rendu le 12 février 2021 une liste de 315 noms issus de la diversité dont les parcours actuellement invisibilisés pourraient être inscrits par les élus dans l’espace public. Dans l’attente que ce recueil soit rendu public, Ancrages a mis en lumière deux figures emblématiques qui croisent l’histoire de Marseille ainsi que la manière dont certains acteurs associatifs se font aujourd’hui passeurs de mémoire : le collectif Claude McKay d’Armando Coxe pour Claude Mckay, le Maitron et le MRAP Marseille pour Baya Jurquet-Bouhoune. Une belle occasion de rebaptiser les rues de Marseille, dans le respect des demandes citoyennes des marseillais et en lien avec les propositions des acteurs associatifs locaux : Etats généraux de la culture, Comité Mam’Ega, Made in Bassens, Le Groupe Marat, Promemo.

    Claude McKay
    (Paroisse de Clarendon 1889 – Chicago 1948)

    « Né dans un petit village de montagne (Sunny Ville) de la province de Clarendon, en Jamaïque, Claude Mac Kay est le onzième et dernier enfant d’une famille de pauvres cultivateurs. Élevé dans une région profondément marquée par une tradition de résistance des Nègres marrons de l’époque esclavagiste, il s’enracine avec fierté dans une nature exaltante. Conseillé par un ami anglais, Walter Jekyll, à l’écoute de la tradition orale de l’île, il écrit très jeune des poèmes en créole jamaïcain. Il travaille dix mois à Kingston, la capitale, où il se heurte au colonialisme et au racisme. Fuyant la ville, il retourne dans ses montagnes de Clarendon et, en 1912, publie successivement Songs of Jamaica et Constab Ballads, ses deux premiers recueils de poésies. L’attribution d’une bourse lui permet la même année de se rendre aux États-Unis pour étudier l’agronomie à Tuskegee Institute (Alabama) puis au Kansas State College. Deux ans plus tard il abandonne ses études et se lance dans une existence vagabonde orientée vers la création poétique et une prise de conscience des problèmes politiques.

    Entre 1919 et 1934 il voyage en Europe, se rend aux Pays-Bas et en Belgique, séjourne à Londres pendant plus d’un an et publie des poèmes. Tandis qu’un troisième recueil de poésies, Spring in New Hampshire, est édité à Londres en 1920, c’est à New York que paraît Harlem Shadows. Claude Mac Kay assiste à Moscou au IVe congrès du Parti communiste de l’Union soviétique en 1922, il visite Petrograd et Kronstadt où ses poèmes sont lus avec succès. Il se rend en Allemagne et en France, où il résidera à Paris et dans le Midi pendant plusieurs années. Il termine son périple en Espagne et au Maroc, de 1929 à 1934.

    C’est en France qu’il écrit ses deux premiers romans, Home to Harlem (1928) et surtout Banjo (1929), qui influencera de manière décisive la génération des jeunes Nègres tels que Léopold Sédar Senghor, Aimé Césaire, Léon Gontran Damas, Joseph Zobel et Sembene Ousmane. De retour à Harlem (New York), il publie son autobiographie, en 1937, A Long Way from Home ainsi qu’un recueil d’essais politiques et spirituels, Harlem Negro Metropolis (1940). Un recueil de nouvelles, Gingertown (1932) et son troisième roman, Banana Bottom (1933), renouent avec son passé et son amour des traditions paysannes et de la terre jamaïcaines. Une anthologie de ses poèmes préparée en partie par lui-même jusqu’à sa mort, survenue en 1948, est parue en 1953 : Selected Poems. »

    Cette notice a été rédigée par Oruno D. Lara, professeur d’histoire, directeur du Centre de recherches Caraïbes-Amériques pour le site Universalis.

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    Baya Jurquet-Bouhoune
    (Alger 1920 – Marseille 2007)

    « À sa naissance, Baya Bouhoune reçoit la pleine citoyenneté française par filiation et sera donc électrice au premier collège après 1947 ; son père, Boudjema Bouhoune, originaire de la région de Sidi-Aïch en Kabylie, avait « bénéficié » de cette citoyenneté qui le met en dehors du statut de français musulman, comme blessé de guerre sur le front en France lors de la guerre de 1914-1918. Ce qui n’empêche pas l’ordre coutumier de régner dans la famille ; Baya est retirée de l’école française à onze ans et mariée à quatorze ans à un cousin devenant Baya Allaouchiche. Comme militante communiste, Baya sera connue en Algérie sous ce nom de femme mariée, devenue responsable de l’Union des femmes. C’est dans l’action militante que Baya Bouhoune s’est faite elle-même, parlant couramment et prenant la parole en français, en arabe ou en kabyle.

    Pour le PCA clandestin, elle sert en 1941-1942 d’agent de liaison avec les députés et responsables du PCF emprisonnés à Maison-Carrée (El Harrach) ; elle s’affirme ensuite dans les actions de soutien aux alliés dans la mobilisation finale antifasciste contre l’Italie et l’Allemagne, qui concourt à la libération de la France. Le patriotisme de la Résistance française est repris à son compte en Algérie par le Parti communiste algérien (PCA) qui élargit le mouvement de jeunes par les Jeunesses démocratiques, et s’emploie à constituer un mouvement de femmes « sans distinction d’origine » par l’Union des femmes en Algérie qui fait partie de la Fédération démocratique des femmes, d’obédience communiste internationale. Baya Allaouchiche appartient à la cellule communiste de La Redoute (El Mouradia), quartier du dessus d’Alger, qui est aussi celle de celui qui prend le nom d’Henri Alleg* qui se consacre au mouvement des Jeunesses et de sa femme Gilberte Salem*.

    Promue par le PCA parmi les responsables de l’Union des femmes, Baya Allaouchiche est déléguée en 1948 au Congrès de la Fédération internationale démocratique des femmes à Budapest ; elle devient en 1949, secrétaire générale de l’Union des femmes d’Algérie et entre au Comité central du PCA au Ve congrès tenu à Oran du 26 au 29 mai 1949. En décembre 1949, elle part en Chine en délégation et séjournera quelques mois, rencontrant Mao Ze Dong, Chou En Laï et le maréchal Chuh Teh ; elle assiste en effet au Congrès des femmes d’Asie à Pékin en tant qu’observatrice aux côtés de Jeannette Vermesch-Thorez et de Marie-Paule Vaillant-Couturier qui représentent l’Union des femmes françaises. En décembre 1952, elle est la porte-parole de la délégation algérienne au congrès international du Mouvement de la paix qui se tient à Vienne (Autriche).

    En septembre 1954, elle va au nom de l’Union des femmes, conduire la campagne de secours aux sinistrés du tremblement de terre d’Orléansville (Chlef). Nous sommes à la veille de l’insurrection du 1er novembre ; par de là les positions contraires ou précautionneuses du PCA, elle est sensible à l’entrée dans la lutte de libération nationale. Au nom de l’Union des femmes, mais par une initiative indépendante du PCA, elle organise des manifestations de protestation et de solidarité avec les détenus, devant la prison Barberousse (Serkadji) d’Alger en 1955 et au début de 1956.

    Pour la maintenir tête d’affiche de l’Union des femmes, le PCA la désigne toujours comme Baya Allaouchiche ; celle-ci demeure à la maison de son mari légal qui est son cousin bien que celui-ci ait pris une seconde épouse. Ce que tait le PCA ; plus encore, il impose le secret sur la liaison, depuis leur rencontre dans l’action des Jeunesses démocratiques dans les quartiers du haut d’Alger, entre Baya et le jeune militant Henri Maillot* qui va détourner le 4 avril 1956, un camion d’armes pour les mettre à la disposition des Combattants de la Libération, groupe armé que tente de constituer le PCA. Baya et Henri Maillot* sont partisans de l’engagement dans la lutte d’indépendance. Ce secret ne sera levé qu’après la mort de Baya en 2007, selon la promesse respectée par Jacques Jurquet* après leurs cinquante années de vie commune à Marseille.

    Contactée par le FLN dès 1955, Baya Allaouchiche devient plus que suspecte. Après deux perquisitions, elle est arrêtée dans la nuit du 31 mai au 1er juin 1956 ; elle fait partie de la première vague importante d’arrestations conduites au titre des « pouvoirs spéciaux » appliqués en Algérie après le vote d’approbation des députés du PCF. Deux femmes sont prises dans cette rafle nocturne : Lisette Vincent* et Baya Allaouchiche ; leur qualité de citoyennes françaises leur vaut d’échapper à l’internement et d’être expulsées.

    Remise en liberté à Marseille, Baya Allaouchiche peut faire venir ses deux enfants. Elle reprend contact avec le FLN et participe aux actions de lutte contre la guerre et pour l’indépendance de l’Algérie, ce qui lui vaut des rapports difficiles avec les dirigeants et militants communistes les plus suivistes du PCF qui s’en tiennent à parler de paix en Algérie et à privilégier le patronage du Mouvement de la paix. Elle est d’autant plus suspectée qu’elle vit à partir de 1959 avec Jacques Jurquet* (elle deviendra légalement Baya Jurquet en 1978), militant communiste réputé maoïste puisqu’il soutient les luttes de libération à commencer par la lutte algérienne.

    Après l’indépendance de l’Algérie, Baya Bouhoune milite au MRAP dans les Bouches-du-Rhône ; dans les années 1970, elle préside ce mouvement antiraciste dans le département et fait partie du Bureau national. C’est à ce titre de l’action contre le racisme, sous la pression amicale de ceux qui connaissent son itinéraire militant en Algérie et en France, qu’elle est faite chevalier de l’Ordre du mérite ; cette décoration lui est remise par Me Gisèle Halimi*, avocate de la cause des femmes algériennes dans la guerre de libération.

    En 1979 sous le nom d’auteur de Bediya Bachir, les Éditions du Centenaire contrôlées par le Parti communiste marxiste-léniniste de France (PCMLF « pro-chinois »), ont publié son roman composé en 1957-1958 à Marseille, L’Oued en crue, que les éditions dépendantes du PCF avaient écarté de publication à l’époque de la guerre ; Laurent Casanova*, secrétaire de Maurice Thorez et originaire d’Algérie, à qui l’ouvrage avait été adressé, avait répondu que ce n’était pas possible car le PCF soutenait alors la publication du livre de l’écrivain attitré du parti, André Stil, évoquant l’Algérie en guerre et intitulé Le dernier quart d’heure pour parodier la formule du socialiste français, le Ministre-résidant en Algérie, Robert Lacoste. Le roman a été réédité en 1994 par les Éditions Sakina Ballouz à Genève sous le vrai nom d’auteur : Baya Jurquet-Bouhoune. Celle-ci, après une opération difficile de fracture du fémur, est morte dans son sommeil le 7 juillet 2007. »

    Cette notice « Bouhoune Baya plus connue en Algérie sous le nom Allaouchiche Baya », [Dictionnaire Algérie], a été rédigée par René Gallissot, version mise en ligne le 30 décembre 2013, dernière modification le 26 novembre 2020. Le Maitron est le nom d’usage d’un ensemble de dictionnaires biographiques du mouvement ouvrier dirigé par l’historien Claude Pennetier.

    https://histoirecoloniale.net/Marseille-le-nom-des-rues-en-debat-quelle-place-accorder-dans-l-e

    #noms_de_rues #toponymie #toponymie_politique #colonial #colonialisme #décolonial #mémoire #histoire

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  • Le guide du #Marseille colonial

    Ce livre explore Marseille, ses rues, ses places et ses monuments et recense les traces et les empreintes de l’histoire coloniale et esclavagiste de la ville. Au cours de ce périple, le guide nous fait croiser les militaires, les hommes politiques, les armateurs, les scientifiques et les artistes qui ont participé au système de domination coloniale. Il nous emmène également à la rencontre des personnes ayant résisté et œuvré contre le colonialisme.
    Nous visiterons en sa compagnie les expositions coloniales, les institutions de la santé coloniale et, de manière plus contemporaine, ce guide nous rappellera les crimes racistes, qui prolongent la politique de domination et d’oppression.

    Les Marseillais·es, qui ne veulent plus marcher, habiter, étudier dans des rues et des lieux portant le nom des acteurs de la déshumanisation, n’ont plus qu’à suivre le guide…

    https://www.syllepse.net/guide-du-marseille-colonial-_r_21_i_909.html

    #décolonial #France #livre #guide #toponymie #toponymie_politique #noms_de_rue #mémoire #histoire
    #TRUST #master_TRUST

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    • Guide du #Bordeaux colonial et de la métropole bordelaise

      Bordeaux s’est développé en jouant un rôle essentiel dans la constitution de l’Empire français.
      Ce livre s’intéresse à l’histoire de la ville à travers les noms de rues, voies et autres lieux choisis pour honorer ceux qui ont contribué à la construction de la France coloniale.
      Ce n’est pas, le plus souvent, en tant que négriers, ­esclavagistes, sabreurs, administrateurs coloniaux, théoriciens du racisme que beaucoup de personnalités ont été honorées. Elles l’ont été pour d’autres raisons mais elles ont été clairement engagées dans le système colonial.
      Bien des bienfaiteurs de la ville ont fait ruisseler un peu de leur fortune accumulée par la production et le négoce des produits coloniaux issus de l’esclavage et du travail forcé. Bien des militaires et des hommes politiques honorés ont contribué à leur ouvrir et à protéger leurs marchés. Bien des universitaires ont apporté la caution scientifique justifiant la domination.
      Ce guide n’ignore pas les quelques anticolonialistes à qui une place a tout de même été faite dans la ville. Il visite quelques lieux de mémoire et propose quelques coups de projecteur sur des aspects peu enseignés de l’histoire coloniale.
      Que ce guide permette de voir la magnificence de la ville sous un autre jour. Qu’il invite à d’autres promenades. Qu’il contribue à décoloniser les imaginaires.

      C’est un produit de haute nécessité dans la lutte contre toutes les formes de racisme.

      https://www.syllepse.net/guide-du-bordeaux-colonial-_r_25_i_822.html

    • Guide du #Soissons colonial

      L’ouvrage se présente comme un dictionnaire des rues de Soissons, qui aborde la biographie des­ ­personnages ­choisis par les élus municipaux sous l’angle de leur rapport avec le colonialisme : des massacreurs, des théoriciens du colonialisme, des politiques mêlés à la colonisation. Et, à côté, quelques antiracistes et quelques anticolonialistes.
      À Soissons, l’étude des noms de rues révèle des strates d’histoire, autant de couches et de sédiments mémoriels semblables aux couches sédimentaires superposées, qui ­constituent­ les plateaux et les replats du Soissonnais. Chaque génération ajoute les noms de ses « héros » du moment et cela ­aboutit à une stratification réactionnaire, raciste, sexiste, mêlant des noms dus à l’histoire locale à ces « gloires » discutables du récit républicain, au temps de l’empire colonial.
      Mais la ville a changé ! Les horreurs du colonialisme ne recueillent plus l’assentiment presque général, comme au temps où les Soissonnais·es prenaient le train pour aller visiter les « zoos humains » de ­l’Exposition coloniale.
      Notre ville appartient à tout le monde et pas à une clique de nostalgiques de généraux et de maréchaux colonialistes.

      Oui, le général Mangin, le « libérateur de Soissons » en 1918, était un massacreur, théoricien de l’utilisation des troupes coloniales, la « force noire », pour mener une guerre où les colonisé·es, sans droits, n’avaient rien à gagner.

      https://www.syllepse.net/guide-du-soissons-colonial-_r_25_i_847.html

    • Guide du #Paris colonial et des #banlieues

      Rues, boulevards, avenues et places, sans oublier collèges, lycées, statues et monuments parisiens, sont autant de témoins de l’histoire et de la légende du colonialisme français.
      Alors qu’aux États-Unis, poussées par les manifestant-es, les statues des généraux esclavagistes s’apprêtent à quitter les rues pour gagner les musées, ce guide invite à une flânerie bien particulière sur le bitume parisien.
      Sur les quelque 5 000 artères et places parisiennes, elles sont plus de 200 à « parler colonial ». Qui se cachent derrière ces noms, pour la plupart inconnus de nos contemporains ? C’est ce que révèle ce livre, attentif au fait que ces rues ont été baptisées ainsi pour faire la leçon au peuple de Paris et lui inculquer une certaine mémoire historique.
      On n’y retrouve pas uniquement les officiers ayant fait leurs classes « aux colonies ». Il y a aussi des « explorateurs » – souvent officiers de marine en « mission » –, des bâtisseurs, des ministres et des députés. On croise également des littérateurs, des savants, des industriels, des banquiers, des « aventuriers ».
      Laissons-nous guider, par exemple, dans le 12e arrondissement. Le regard se porte inévitablement sur le bâtiment de la Cité de l’histoire de l’immigration, l’ancien Musée des colonies construit en 1931 pour l’Exposition coloniale qui fut l’occasion d’honorer les agents du colonialisme et d’humilier ses victimes.
      Les alentours portent la marque de l’Empire colonial : rues et voies ont reçu le nom de ces « héros coloniaux » qui ont conquis à la pointe de l’épée des territoires immenses.
      Les alentours de l’École militaire sont également un lieu de mémoire très particulier, très « imprégné » de la culture coloniale.
      Dans le 16e, nous avons une avenue Bugeaud : Maréchal de France, gouverneur de l’Algérie, il pratique la terre brûlée et les « enfumades ». Il recommande d’incendier les villages, de détruire les récoltes et les troupeaux, « d’empêcher les Arabes de semer, de récolter, de pâturer ». Il faut, ordonne-t-il, « allez tous les ans leur brûler leurs récoltes », ou les « exterminer jusqu’au dernier ». S’ils se réfugient dans leurs cavernes, « fumez-les à outrance comme des renards ».
      Un peu partout, dispersées dans la capitale, on traverse des rues et des avenues dont les noms qui, tout en ayant l’apparence de la neutralité d’un guide touristique, sont autant de points de la cartographie coloniale : rues de Constantine, de Kabylie, de Tahiti, du Tonkin, du Dahomey, de Pondichéry, de la Guadeloupe… Toutes célèbrent des conquêtes et des rapines coloniales que rappellent la nomenclature des rues de Paris.
      Classés par arrondissement, les notices fournissent des éléments biographiques sur les personnages concernés, particulièrement sur leurs états de service dans les colonies. Des itinéraires de promenade sont proposés qui nous emmènent au travers des plaques bleues de nos rues en Guadeloupe et en Haïti, en Afrique, au Sahara, au Maroc, en Tunisie, en Algérie, en Nouvelle-Calédonie, en Indochine, à Tahiti, etc.

      Un livre qui se veut un outil pour un mouvement de décolonisation des cartographies des villes et qui propose un voyage (presque) immobile dans la mémoire coloniale de Paris.

      https://www.syllepse.net/guide-du-paris-colonial-et-des-banlieues-_r_25_i_719.html

    • « Les statues, le nom des rues, ne sont pas innocents » : un guide pour décoloniser l’espace public

      Que faire des innombrables noms de rue, statues et monuments qui glorifient toujours le colonialisme à travers la France ? À Marseille, un livre-inventaire entre en résonance avec des revendications mémorielles. Reportage.

      C’est une rue discrète, perchée sur une colline résidentielle cossue du sud de Marseille. Elle s’appelle impasse des Colonies. Au milieu de cette succession de maisons verdoyantes avec vue sur mer, une villa aux tuiles ocre porte un nom évocateur, L’oubli.

      L’oubli, c’est justement ce contre quoi s’élèvent les onze auteurs et autrices du Guide du Marseille colonial, paru le 1er septembre dernier aux éditions Syllepse [1]. Pendant deux ans, ces militants associatifs ont passé la ville au peigne fin, arpenté les rues et fouillé les archives. Ils ont cherché les traces du passé colonial de ce port qui fut, entre le XIXe et le XXe siècle, la capitale maritime de l’empire français.

      Le résultat : 232 pages d’inventaire des noms de rues, statues, monuments et autres bâtiments en lien avec la colonisation. « Notre volonté, c’est de mettre en lumière la face ténébreuse de l’histoire, qui est souvent cachée, en tout cas pas sue de tous, décrit Nora Mekmouche, qui a coordonné l’équipe de rédaction. Ce livre est un outil pédagogique et politique. »

      Un monument en hommage à une répression coloniale

      Un jour d’octobre, c’est en haut de la Canebière que deux autres des autrices et auteurs du guide, Zohra Boukenouche et Daniel Garnier, nous donnent rendez-vous pour une « promenade coloniale ». Première étape : le monument des Mobiles. Érigé à l’origine pour rendre hommage à des soldats de la guerre franco-prussienne de 1870-1871, le site sert parfois de lieu de commémoration officielle des deux guerres mondiales.

      À plusieurs reprises ces dernières années, préfet et maire ont déposé des gerbes de fleurs à ses pieds. Sur l’une de ses faces, le monument rend pourtant aussi hommage à un régiment ayant participé à la répression de l’« insurrection arabe de la province de Constantine » en 1871 et 1872. Une révolte matée dans le sang, avec confiscations massives de terres et déportations vers la Nouvelle-Calédonie.

      En descendant la Canebière, on traverse ensuite le square Léon-Blum. L’ancien président du Conseil figure à l’inventaire. L’homme a déclaré fermement repousser, dans une intervention à la Chambre des députés en 1925 (alors qu’il était député SFIO) le « colonialisme de guerre qui s’installe par la guerre et par l’occupation ». Mais dans la même prise de parole, le futur leader du Front populaire disait : « Nous admettons qu’il peut y avoir non seulement un droit, mais un devoir de ce qu’on appelle les races supérieures […] d’attirer à elles les races qui ne sont pas parvenues au même degré de culture et de civilisation. »
      « Ce sont des choix politiques, on doit les interroger »

      Puis on passe devant le lycée Adolphe-Thiers, le « massacreur de la Commune de Paris », qui a aussi soutenu la colonisation de l’Algérie. Devant le commissariat de Noailles, une plaque historique déposée par la mairie vante le souvenir d’un luxueux hôtel construit pour le compte du « négociant Victor Régis ». Nulle part il n’est précisé que cet armateur a construit sa fortune sur les côtes béninoises où « il trafiquait avec des marchands d’esclaves », indique Daniel Garnier.

      « L’idée, c’est de montrer que le nom des rues, des collèges, les statues qui trônent au coin des rues ne sont pas innocents. Ce sont des choix politiques, idéologiques, qui ont été faits par les dominants, donc on doit évidemment les interroger », explique Patrick Silberstein, éditeur chez Syllepse qui, avant le Guide du Marseille colonial, avait déjà publié le même type de guide au sujet de Paris et ses banlieues (2018), Bordeaux et Soissons (2020), en attendant Rouen (janvier 2023).

      « Moi j’habite en Seine-Saint-Denis, à Aubervilliers, qui est une ville d’immigration de tout temps, et aujourd’hui notamment d’Afrique subsaharienne, poursuit-il. À deux pas de chez moi, il y a un collège Colbert. Colbert, c’est un des idéologues de la domination blanche… ». Ministre de Louis XIV, Jean-Baptiste Colbert (1619-1683) a participé à la rédaction du Code noir. Ce texte juridique réglementant le statut des esclaves dans les colonies sucrières faisait d’eux des « biens meubles » pouvant être vendus comme des objets.

      Chez Syllepse, l’inspiration de lancer ces guides anticoloniaux est venue du sud des États-Unis, où un vaste mouvement antiraciste lutte pour le déboulonnage des statues des généraux confédérés. Et en France ? Faut-il changer les noms de rue, fondre les statues glorifiant le colonialisme ?
      À Bruxelles, vers un mémorial aux victimes de la colonisation ?

      En Belgique, un groupe de travail missionné par la Région Bruxelles-Capitale a récemment planché sur « la transformation de l’espace public colonial existant en un espace public décolonial véritablement inclusif ». Parmi ses propositions, rendues publiques en février, on trouve l’attribution de « noms de femmes et/ou de personnes de couleur liées à la colonisation belge » aux voies publiques portant actuellement le nom de figures coloniales. Le groupe d’experts a aussi proposé d’ériger un mémorial aux victimes de la colonisation à Bruxelles en lieu et place de la statue équestre du roi colon Léopold II.

      En France, l’État est beaucoup plus timide. Quand, entre 2020 et 2021, le gouvernement a fait travailler un conseil scientifique sur le projet « Portraits de France », il ne s’agissait que d’établir une liste de 318 personnalités issues des anciennes colonies ou de l’immigration dans laquelle les mairies pourront piocher si elles souhaitent diversifier les noms de leurs rues et bâtiments publics.

      Dans le Guide du Marseille colonial, l’équipe de rédaction ne prend pas ouvertement position pour telle ou telle solution de décolonisation de l’espace public. Mais elle relaye les différentes mobilisations et doléances allant dans ce sens.
      L’école Bugeaud débaptisée

      À Marseille, quelques voix demandent à ce qu’on donne le nom d’Aimé Césaire à l’actuelle rue Colbert. Mais c’est surtout sur les rues Bugeaud et Cavaignac que les énergies militantes se sont concentrées.

      Ces deux voies adjacentes sont situées dans le quartier populaire de la Belle-de-Mai. Pendant la conquête de l’Algérie, les généraux Thomas Bugeaud et Eugène Cavaignac ont développé la technique des « enfumades » : asphyxier par la fumée des tribus entières dans les grottes où elles s’étaient réfugiées. « C’est notamment pour ça que le fait de leur rendre hommage aujourd’hui encore pose vraiment problème », juge Valérie Manteau, écrivaine et membre d’un collectif mobilisé depuis 2019 pour le changement du nom de ces rues. En vain. Tractage, affichage, consultation des habitants, rien n’y a fait.

      Seule réussite : en mai 2021, l’école de la rue Bugeaud, qui portait également le nom du maréchal, a été débaptisée par la nouvelle majorité municipale issue d’une alliance des gauches. L’établissement répond désormais au nom d’Ahmed Litim, un tirailleur algérien décédé pendant les combats de la libération de Marseille, en août 1944. Mais pour les rues, rien de nouveau.
      « Il est temps de clôturer l’exposition coloniale »

      En 2020 à Paris, devant l’Assemblée nationale, la statue de Colbert a été affublée d’un tag « Négrophobie d’État ». La même année à Marseille, les statues représentant les colonies d’Asie et d’Afrique au pied de la gare Saint-Charles ont été maculées de peinture rouge. Le 8 mars dernier, une manifestation féministe s’y est arrêtée pour dénoncer leur caractère tant sexiste que raciste.

      Dans les années 1980 déjà, l’historien Philippe Joutard montrait à quel point ces statues sont problématiques [2] : « Le voyageur qui arrive à la gare Saint-Charles et descend son escalier monumental passe entre deux femmes assises chacune à la proue d’un navire.

      À droite, c’est l’allégorie de Marseille, colonie grecque ; à gauche, celle de Marseille, porte de l’Orient ; en contrebas, deux autres femmes couchées avec leurs enfants représentent les colonies d’Afrique et d’Asie. La leçon est claire : la cité phocéenne domine les territoires des deux grands continents ; le fantasme est plus évident encore : les “femmes-colonies” sont offertes, nues, presque liées, colliers autour du cou, bracelets aux bras et aux chevilles, et leurs filles elles-mêmes semblent à la disposition du conquérant ! »

      Que faire de ces statues ? Les détruire ? Les mettre au musée ? L’association Ancrages, qui travaille sur les mémoires des migrations, propose a minima d’y adjoindre des panneaux. Ceux-ci permettraient d’expliquer le contexte de production de ces sculptures, commandées pour l’exposition coloniale marseillaise de 1922. On y préciserait que ces images des populations asiatiques et africaines sont insultantes « pour les femmes et hommes d’aujourd’hui ».

      Dans une pétition diffusée sur le site Change, un collectif de féministes décoloniales va plus loin, demandant le retrait pur et simple de ces œuvres : « Ces statues artistico-historiques sont plus que des témoins passifs d’une l’époque révolue. L’histoire est un choix politique. Maintenir ces statues en place, les reblanchir, effacer très vite les graffitis anticoloniaux, c’est faire chaque jour un choix, celui de creuser encore les fractures entre celles et ceux qui font exister Marseille. » Et de conclure : « 1922-2022 : il est temps de clôturer l’exposition coloniale. 100 ans, ça suffit ! »

      https://basta.media/les-statues-le-nom-des-rues-ne-sont-pas-innocents-un-guide-pour-decoloniser

      via @odilon

  • Jack Chirac Street

    via @reka (mais il y a longtemps :-)) qui a lui-même reçu de Benjamen Barthe, avec ce commentaire : Chirac héros des Palestiniens après le « you want me to go back to my plane »

    Autour de cette citation :
    What do you want ? Me to go back to my plane and go back to France ?

    « What do you want ? Me to go back to my plane and go back to France ? » (« Qu’est-ce que vous voulez ? Que, moi, je retourne dans mon avion et que je rentre en France ? ») est l’extrait d’une apostrophe prononcée, en anglais, par Jacques Chirac, président de la République française, à des membres de la sécurité israëlienne, lors d’un voyage officiel à Jérusalem, le #22_octobre_1996.

    https://fr.wikipedia.org/wiki/What_do_you_want%3F_Me_to_go_back_to_my_plane_and_go_back_to_France%3F

    #toponymie #toponymie_politique #Ramallah #Palestine #Israël #noms_de_rue #Jack_Chirac #Chirac #Jacques_Chirac

  • "L’estate di qualche anno dopo la chiamaro «L’estate delle lamiere» per via di un bracciante del Sud morto assassinato proprio mentre cercava di recuperarne alcune, di lamiere, e costruirsi qualcosa che assomigliasse a una casa. #Soumaila_Sacko, si chiamava. Ora a lui e a tutti gli altri hanno dedicato in nomi di vie, piazze o parchetti fatiscenti; i caduti di una guerra assurda e incredibile"

    in : Espérance H. Ripanti, “Lamiere”, in Igiaba Scego (a cura di), Future, il domani narrato dalle voci di oggi , effequ, 2019, p.200.

    #toponymie #toponymie_politique #migrations #caporalato #toponymie_migrante

    –-> ceci dit, j’ai pas trouvé sur la toile des rues dédiées à cette personne, ouvrier agricole assassiné en Italie :
    https://www.etui.org/fr/themes/sante-et-securite-conditions-de-travail/hesamag/cancer-et-travail-sortir-de-l-invisibilite/soumalia-sacko-visage-d-une-autre-europe

  • Sur la #place_Taksim, une citation...

    « Aujourd’hui interminablement en travaux (personne ne comprend bien pour quoi faire, et tout le monde s’en fout), j’ai l’impression qu’elle appartient davantage aux pigeons qu’à nos souvenirs. Il y avait des tentes partout, de part et d’autre dune allée baptisée #Hrant-Dink, du nom d’un journaliste arménien assassiné quelques années auparavant, adopté comme figure tutélaire par les manifestants qui occupaient la place pour empêcher la destruction d’un des rares espaces verts de la ville »

    source: Valérie Manteau, Le sillon , Le Tripode, 2018, pp.16-17


    https://le-tripode.net/livre/valerie-manteau/meteore/le-sillon
    (j’en recommande la lecture, by the way)

    #toponymie #toponymie_politique #Turquie #Hrant-Dink

  • « Aujourd’hui, des favelas, comme un cancer, rongent la colline de la rive gauche. Faute d’espace, les Bosniaques ne savent plus où se mettre. Du côté croate, la mégalomanie ultranationaliste est de mise. Appuyés par des politiciens rusés, les nouveaux arrivants qui affluent des villages avoisinants ont rebaptisé les rues de noms dont ils ne connaissent même pas l’origine ’rue du roi Tvrtko’, ’boulevard de la reine Catherine’, ’rue de la princesse Svjetlana’. Je demande aux passants de m’expliquer qui étaient ce roi Tvrtko, cette reine Catherine, cette princesse Svjetlana. Personne ne le sait. ’Ce qui compte, me dit l’un d’eux, c’est que les nouvelles rues portent le nom des nôtres.’ Il fallait remplacer les anciens noms, ceux des partisans yougoslaves - qu’ils fussent serbes, bosniaques ou croates. Il fallait effacer la mémoire de ceux qui ont combattu le fascisme, puisque ce dernier venait de ressusciter. Ce n’est même plus une honte de donner aux rues les noms de généraux qui ont combattu aux côté des nazis, parce qu’enfin, disent certains des nouveaux venus, il s’agit de célébrer notre histoire.
    Ailleurs, si quelqu’un osait nommer un boulevard en hommage à un nazi ou à un collabo, l’Europe civilisée serait scandalisée et chercherait les coupables. Mais dans les Balkans, c’est normal. Sur l’autre rive de la Neretva, l’artère principale de Mostar-Est porte le nom de Josip Broz Tito. Les Bosniaques, et surtout les Mostarci , sont toujours nostalgiques du passé yougoslave, quand tout le monde vivait ensemble. Mais Mostar est aujourd’hui une ville déchirée. »

    in #Maya_Ombasic, _#Mostargia_ , Flammarion, 2016, p.184


    https://editions.flammarion.com/mostarghia/9782081399938

    #toponymie #toponymie_politique #Mostar #guerre #guerre_des_Balkans #ex-Yougoslavie #livre #citation

    ping @cede

  • Le #mont_Pétain, à cheval entre l’#Alberta et la #Colombie-Britannique, a été débaptisé

    En 2016, Geoffrey Taylor, aujourd’hui décédé, a demandé aux gouvernements albertain et britanno-colombien de débaptiser le mont #Pétain, car il ne voulait plus qu’il porte le nom du maréchal Philippe Pétain, qui s’est rangé aux côtés du régime nazi durant la Seconde Guerre mondiale.

    L’Alberta avait accepté sa requête, mais la décision de la province voisine se faisait attendre. Après son décès, il y a deux ans, son fils, Duncan Taylor, a repris la démarche. « Je crois qu’il aurait été contrarié que cela ait pris autant de temps, mais je crois aussi qu’il aurait été soulagé que ce soit enfin terminé », dit Duncan Taylor.

    La montagne portait le nom de mont Pétain depuis 1919, en l’honneur de Philippe Pétain, une façon de reconnaître sa participation à la victoire de la bataille de Verdun en 1916.

    C’est le nom d’une bataille importante qui opposait les troupes françaises aux troupes allemandes durant la Première Guerre mondiale.

    Pétain : la collaboration avec les nazis

    Durant la Seconde Guerre mondiale, le maréchal Pétain capitule, signe l’armistice en 1940 et prend la tête du régime de Vichy.

    Il collabore alors avec l’Allemagne nazie, en permettant notamment l’instauration de lois antisémites et la déportation de juifs, dans le camp d’internement de Drancy, devenu camp de transit vers les camps d’extermination, dont celui d’Auschwitz.

    ""Aucun acte héroïque réalisé pendant la Première Guerre mondiale ne peut compenser ces gestes", estime Duncan Taylor.

    L’organisation juive B’nai Brith a aussi demandé un changement de nom

    Un sentiment que partage Marvin Rotrand, directeur de la Ligue des droits de la personne à B’nai Brith. En 2021, il a demandé au nom de l’organisation juive de débaptiser le mont Pétain, mais aussi le glacier et un ruisseau.

    « Il a fait déporter 76 000 Juifs dans les camps de la mort à Auschwitz et ailleurs. Son régime a aussi brimé tous les droits des Français en faveur des Allemands pour les aider contre les alliés incluant le Canada. Donc j’étais très surpris de voir son nom paraître pas seulement une fois, mais trois fois », dit Monsieur Rotrand.

    Dans un communiqué de presse, B’nai Brith explique que d’autres groupes ont appuyé les demandes de changement de nom, dont l’Association canadienne des guides de montagne.

    Il faut maintenant trouver un nouveau nom à la montagne nichée entre deux parcs provinciaux, le parc Peter Lougheed, en Alberta, et le parc Elk Lakes, en Colombie-Britannique.

    B’nai Brith suggère celui de Michael De Vries, du Irish Regiment of Canada. Il a été tué au combat en Italie le 25 mai 1944.

    Marvin Rotrand a aussi demandé le changement de nom du mont Bedaux et du passage Bedaux dans le nord de la Colombie-Britannique. En 1944, il s’est donné la mort dans une prison de la Floride, où il était détenu pour trahison. Il s’était, lui aussi, rangé du côté des nazis durant la guerre.

    Après la Seconde Guerre mondiale, Philippe Pétain a été condamné à mort pour haute trahison. En raison de son âge, sa sentence a été commuée en prison à vie. Il est mort en 1951.

    https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/1896050/nazisme-seconde-guerre-mondial-vichy-rocheuse
    #débaptisation #toponymie #toponymie_politique #montagne #Canada

  • #Palermo : An Urban Walk Against Colonialism by Wu Ming 2

    On Saturday 20 October from 9.00 am onwards, #Wu_Ming_2 presents the performance complementary to the work Viva Menilicchi! (2018), commissioned by Manifesta 12 for The Planetary Garden and realised in collaboration with the Palermo-based collective #Fare_Ala.

    Wu Ming 2, one of the members of the collective of writers and activists Wu Ming, will lead a walk through the city, during which various voices will combine to recount forgotten stories of slavery and colonialism. In fact, many places in the city of Palermo are linked to the period of Italian colonialism (1869 – 1945) and its legacy. The performance will unfold as a walk to all these places in Palermo linked to the Italian colonialist past, and will coalesce into possible actions and thoughts of resistance.

    On Friday 19 October from 8.00 pm at Teatro Garibaldi di Palermo, there will be an evening of screening and talks with director Alessandra Ferrini and researchers Francesca Di Pasquale and Chiara Giubilaro, ‘Negotiating Amnesia. Pasts and presents of Italian coloniality’, to explore strategies of memory, and negation, of a chapter in Italian history still spreading its effects on contemporaneity.

    Furthermore, Sunday, October 21, from 5.00 pm to 7.00 pm, at Teatro Garibaldi di Palermo, Wu Ming 2 will present images and documents related to the walk of the day before, thus giving life to a debate with the public on the ideas and topics of Viva Menilicchi!

    Programme and itinerary of the urban walk:

    The complete itinerary of the walk covers 16 km distance (available here:Â map.org), split into two sessions, morning (9 km, route blue in the map) and afternoon (7 km, red route), with a lunch break of about one hour.
    The meeting point for both sessions is Teatro Garibaldi di Palermo (Via Teatro Garibaldi, 46-56): in the morning the group will meet at 8.30 am and will start walking at 9.00 am; in the afternoon the group will meet at 2.30 pm and will start walking at 3.00 pm.

    The walk will end at 8.30 pm at Palazzo Chiaramonte-Steri, where Wu Ming 2 will read the essay We Refugees by Hannah Arendt. Following, at Palazzo Chiaramonte-Steri there will be the concert Fratres / Jesus’ Blood (Jerusa Barros voice + GliArchiEnsemble). Both the reading and the concert are organised by the Festival delle Letterature Migranti.

    We advise participants to bring water, picnic lunch, and a raincoat.

    The walk is free and open to everyone.Â

    A StoryMap of the walk with texts and images of some of the stops is available here.

    For those who wish to join the performance along the path, below an approximate schedule with some of the stops, indicated also on the map:Â map.org:

    Time 10.00 am, Oratorio Santa Chiara (Stop 3)
    Time 11.15 am, Intersection Cortile Barcellona / Via Juvara (Stop 6)
    Time 12.15 pm, Ex-Ospedale Psichiatrico – Entrance Via Pindemonte (Stop 9)

    Time 1.15 pm, Via E. Basile 22 (Stop 10)
    Time 4.30 pm, Piazza V. Bottego (Stop 18)
    Time 5.45 pm, Fountain in via Generale. V. Magliocco (Stop 22)
    Time 7.15 pm, La Cala / Lungomare delle Migrazioni, in front of S.Maria della Catena (Stop 26)

    Full list of the stops:

    MORNING

    Teatro Garibaldi di Palermo
    Via Pola
    Piazza Santi Quaranta
    Piazza Casa Professa
    Oratorio Santa Chiara
    Teatro Montevergini
    Tribunale / Nuova Pretura
    Cortile Barcellona / Via Juvara
    Via Orazio Antinori
    Via Re Tancredi / Via Imperatrice Costanza
    Ex – Ospedale Psichiatrico – Ingresso Pindemonte
    Via Ernesto Basile 22 – Nureddine Adnane
    Via Fiume / Via Maqueda – Yussupha Susso
    Teatro Garibaldi

    AFTERNOON

    Teatro Garibaldi di Palermo
    Facoltà di Giurisprudenza
    Palazzo Pretorio
    Piazza Bologni
    Quattro canti
    Galleria delle Vittorie
    Piazza Bottego
    Piazzetta Due Palme
    Casa del Mutilato
    Via Tripoli / Via Rodi
    Via Gen. V. Magliocco
    Piazza Castelnuovo
    Genio del Porto
    Piazza XIII Vittime
    Lungomare delle Migrazioni / La Cala
    Palchetto della Musica / Foro Italico
    Palazzo Chiaramonte-Steri

    http://m12.manifesta.org/vivamenilicchiwalk/index.html

    #colonialisme_italien #Italie #Italie_coloniale #traces_coloniales #toponymie #toponymie_coloniale #toponymie_politique #balade_décoloniale #urban_walk #balade_uraine

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  • Una mappa per ricordare i crimini del colonialismo italiano

    Il 19 febbraio saranno passati 84 anni dal massacro di Addis Abeba, tra i tanti crimini del colonialismo italiano, uno dei più disgustosi e spietati, perché commesso lontano dai campi di battaglia, senza nemmeno l’alibi di una guerra in corso.

    Si trattò di un’immane rappresaglia, scattata in seguito all’attentato fallito contro il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani. Esercito e camicie nere si riversarono in strada, non tanto per stanare e arrestare i due responsabili, quanto per terrorizzare e colpire in maniera indiscriminata i nuovi sudditi dell’Italia imperiale, colpevoli di essersi ribellati agli invasori. Oltre ai militi e ai fascisti organizzati, si lanciarono entusiasti nella caccia al nero anche operai, burocrati e impiegati coloniali. Prigionieri e semplici passanti – colpevoli soltanto di essere africani – vennero uccisi a bastonate, a badilate, oppure pugnalati, fucilati, impiccati, investiti con automezzi, bruciati vivi nelle loro case.

    Il 22 febbraio 1937, Graziani spedì a Mussolini un telegramma eloquente: “In questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni con l’ordine di far passare per le armi chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state di conseguenza passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti tucul”.

    In breve, la strage debordò dal cerchio di fuoco che gli aerei italiani avevano stretto intorno ad Addis Abeba. Raggiunse i villaggi, le case sparse, i luoghi di culto. Centinaia di persone furono arrestate e morirono nei campi di detenzione di Danane, in Somalia, e Nocra, in Eritrea, dove Graziani ordinò che avessero minime quantità d’acqua e di cibo. Il clero copto fu identificato come un pericoloso sobillatore di ribelli e dopo la classica indagine dove il colpevole è stabilito in anticipo, a maggio Graziani spedì il generale Maletti ad annientare il villaggio conventuale di Debre Libanos, la comunità monastica più importante del paese. Le esecuzioni ufficiali ammontarono a 449. Lo storico Ian Campbell considera invece plausibile l’uccisione di circa duemila persone, compresi centinaia di minorenni, sia laici sia religiosi. Almeno il doppio ne sarebbero morte, secondo Angelo Del Boca, per le strade di Addis Abeba, mentre per Campbell sarebbero state 19mila e per le autorità etiopi – come denunciarono nel dopoguerra – 30mila.

    Una proposta di legge dimenticata
    Da allora, il 19 febbraio è un giorno di lutto per l’Etiopia, ma in Italia scorre via come una giornata qualsiasi, e le grida di quegli spettri restano sepolte sotto decenni di oblio e di svilimento.

    Unica eccezione: il 23 ottobre 2006 un piccolo gruppo di deputati ha presentato alla camera una proposta di legge per istituire un “Giorno della memoria in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana”. La data prescelta era proprio il 19 febbraio.

    Si sa che gli anniversari rischiano di trasformarsi in cerimonie vuote, liturgie sempre uguali a sé stesse, dove la verità che si vorrebbe rammentare, a forza di ripeterla con le medesime formule, finisce per suonare noiosa, banale e in certi casi addirittura sospetta. D’altra parte, se sono colti come un’opportunità, e non come un obbligo, possono costituire un banco di prova per mantenere attiva la memoria, trovando parole e segni che la rinnovino, che permettano al futuro di interrogarla.

    Come ci ha insegnato in questi anni il movimento transfemminista Non una di meno, dedicare una giornata, l’8 marzo, a riflettere, manifestare e confrontarsi su un determinato tema, non significa mettersi l’anima in pace, fare un compitino, e poi dimenticarsene per altri dodici mesi. Le scadenze riflettono l’umore dei corpi che le riempiono. Sono stanche se chi le anima è affaticato, battagliere se è combattivo, e per questo hanno sempre anche lo scopo di tastare il polso a una comunità.

    Rilettura radicale e azioni di guerriglia
    Diversi segnali sembrano suggerire che i tempi sono finalmente maturi per sincronizzare gesti e pensieri su una rilettura radicale del colonialismo italiano.

    Al di là di convegni, progetti artistici e ricerche accademiche, è l’interesse degli abitanti per la “topografia coloniale” che li circonda a segnare un cambio di passo – influenzato dalle proteste di Black lives matter negli Stati Uniti – che porta il tema fuori dalle aule, fuori dai libri, dove la storia si fa materia, e le contraddizioni sono incise sulla pelle dei territori.

    Proprio nell’estate del 2020, non appena le restrizioni dovute alla pandemia hanno concesso una tregua, si è assistito a un proliferare di iniziative, su e giù per l’Italia.

    In giugno, a Roma, la rete Restiamo umani è intervenuta in via dell’Amba Aradam e di fronte alla futura stazione Amba Aradam/Ipponio sulla linea C della metropolitana.

    Le targhe stradali sono state modificate per diventare via George Floyd e Bilal Ben Messaud, mentre lungo le barriere che delimitano il cantiere della nuova fermata sono comparsi grandi manifesti con scritto: “Nessuna stazione abbia il nome dell’oppressione”. Da quest’azione di “guerriglia odonomastica” è nata la proposta di intitolare la stazione della metro al partigiano italo-somalo Giorgio Marincola.

    Pochi giorni dopo, a Padova, un nutrito gruppo di associazioni ha guidato una camminata per le vie del quartiere Palestro, svelando l’origine dei nomi coloniali e mettendoli in discussione con letture e cartelli. Una sceneggiatura molto simile a quella dei trekking urbani che il collettivo Resistenze in Cirenaica organizza a Bologna dal 2015, o al Grande rituale ambulante “Viva Menilicchi!”, celebrato a Palermo nell’ottobre 2018, e alla visita guidata nella Firenze imperiale che ha inaugurato, in quello stesso anno, il progetto Postcolonial Italy.

    Sempre nell’estate 2020, a Milano, il centro sociale Cantiere ha lanciato una chiamata alle arti, con il motto “Decolonize the city!”: un progetto durante il quale, tra lezioni all’aperto e street art, è stata inaugurata una statua di Thomas Sankara all’interno dei giardini Indro Montanelli, quelli del monumento al celebre giornalista, sanzionato l’anno prima con una cascata di vernice rosa per aver sempre giustificato con affettata nonchalance il suo matrimonio combinato con una ragazzina dodicenne durante la guerra d’Etiopia.

    A Bergamo, nel settembre 2020, alcuni cartelli sono stati appesi a diverse targhe stradali, per ricordare che il fascismo e il colonialismo furono anche violenza di genere, proponendo dediche alternative a donne che contribuirono, in diversi campi, al progresso dell’umanità. Alla riapertura delle scuole, gli Arbegnuoc Urbani di Reggio Emilia hanno contestato insieme agli studenti il nome del polo scolastico Makallé, che si trova nella strada omonima, per l’occasione ribattezzata via Sylvester Agyemang, alunno di quell’istituto travolto lì vicino da un autobus. Infine, a metà ottobre, si sono svolti a Torino i Romane worq days, in onore della principessa etiope, figlia dell’imperatore Hailé Selassié, deportata in Italia nel 1937 e morta tre anni dopo nel capoluogo piemontese.

    Tutte queste iniziative ci dicono che il 2021 potrebbe essere l’anno giusto per istituire dal basso quella giornata di memoria che il parlamento non è riuscito ad approvare. Se una questione ci sta a cuore, non abbiamo bisogno di una legge per ricordarla.

    Fantasmi che non vogliamo vedere
    Quale che sia il giorno prescelto, le diverse iniziative andrebbero a formare un rituale di massa, con il risultato di evocare fantasmi. Le nostre città ne sono piene, eppure non li notiamo, non capiamo cosa dicono, leggiamo i loro nomi e non li riconosciamo, calpestiamo le loro tracce e le gambe non tremano, ne vediamo gli effetti e li attribuiamo ad altre cause, ne saccheggiamo l’eredità e non sappiamo nemmeno chi ce l’abbia lasciata, seguiamo i loro passi e ci illudiamo di percorrere nuovi sentieri.

    Monumenti, lapidi, targhe stradali, edifici: migliaia e migliaia di luoghi, su e giù per l’Italia, ci parlano invano del passato coloniale, come fotografie scattate in un tempo remoto e di cui abbiamo perduto le didascalie. Oppure ci ripetono, con la fissità della pietra, che fu un’impresa eroica, coraggiosa, patriottica, piena di fulgidi esempi dell’italico valore, per i quali ci viene chiesto di provare ammirazione.

    Come il regno d’Italia, fin dai primi anni dopo l’unità, si è plasmato occupando terre e aggredendo popoli, in barba agli ideali dell’indipendenza, così si sono “fatti gl’italiani” anche a suon di razzismo e stereotipi imperiali, e si è modellato il paesaggio urbano perché rispecchiasse le loro avventure coloniali, virili e da civilizzatori di antico lignaggio. Uno specchio che è rimasto lì, anche quando si è smesso di interrogarlo, per paura di quelle stesse risposte che un tempo ci facevano gongolare. Meglio non sapere per quale motivo quel quartiere si chiama Neghelli, o cosa fosse “l’assedio economico” di cui parla quella targa sulla facciata del municipio, o perché dietro un monumento ai partigiani fa capolino il bassorilievo di un’antilope.

    Meglio silenziare, edulcorare, censurare. Togliere le didascalie, ma lasciare le foto: in fondo il nonno era venuto così bene! Ti somiglia pure! Ma chi è quella ragazza, a petto nudo, che lo abbraccia controvoglia? E quel mucchio di cadaveri, sul quale pianta fiero il tacco dello stivale? Cadaveri? Quali cadaveri? Quelle sono zolle, zolle di terra! Non lo sai che il nonno è andato laggiù per lavorare, per coltivare, per trasformare il deserto in un giardino?

    Altri colonialismi
    Il testo della proposta di legge parla di cinquecentomila vittime africane nelle colonie del regno d’Italia, ovvero Libia, Somalia, Etiopia ed Eritrea. Possiamo star certi che furono molte di più, e d’altra parte, non è nemmeno corretto limitare l’impatto del colonialismo italiano alle sole terre d’Africa. L’Albania fu un “protettorato italiano”, con un governo fantoccio, occupato e soggiogato con le armi, un anno prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale. Le isole dell’Egeo furono un “possedimento d’Oltremare”, sottile differenza che interessa giusto ai filatelisti. Gli ebrei di Rodi e di Kos presero la cittadinanza italiana, ma nel 1938, con la proclamazione delle leggi razziali, furono cacciati dalle scuole e dagli uffici pubblici, vennero schedati nei registri civili, i loro beni furono inventariati e in parte espropriati, quindi venne chiuso il collegio rabbinico della città.

    Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, l’isola fu occupata dai nazisti. Le autorità fasciste della repubblica sociale Italiana, loro alleate, consegnarono ai tedeschi gli elenchi degli ebrei rodioti, che vennero rastrellati e deportati in Germania. Sono 1.815 i nomi accertati di ebrei residenti sull’isola che morirono nei campi di sterminio, 178 quelli rimasti in vita.

    Possiamo lasciare agli storici il compito di stabilire se fu “colonialismo” l’occupazione della Dalmazia nel 1941, quella di Fiume da parte dei legionari di D’Annunzio, o la minuscola concessione italiana nel porto cinese di Tianjin, oggi trasformata in un’attrazione turistica e commerciale, la New italian style town. Di certo il nostro colonialismo non s’è limitato all’Africa e i suoi crimini vanno ben oltre la strage di Addis Abeba del 19 febbraio. Quella, tuttavia, è l’unico delitto di così vaste proporzioni che si possa collegare a un giorno preciso. La deportazione degli abitanti del Jabal al Akhdar, in Cirenaica, per togliere supporto alla resistenza libica e far spazio a coloni italiani, provocò almeno quarantamila morti, tra quelli che crollarono durante la marcia nel deserto e quelli che morirono nei campi di concentramento sulla costa: è chiaro però che tutto questo avvenne nel corso di settimane e mesi, così come settimane durarono i bombardamenti con armi chimiche, durante l’invasione fascista dell’Etiopia, mentre l’Eritrea – la cosiddetta colonia primogenita – conobbe cinquant’anni di razzismo e violenza.

    Volendo scegliere una singola data, il 19 febbraio sembra in effetti la più adatta, considerando che la comunità etiope la commemora già tutti gli anni. In Etiopia, la data sul calendario è conosciuta come Yekatit 12 e con quel nome è intitolata una piazza della capitale. Nella nostra, di capitale, ci sono invece strade dedicate a Reginaldo Giuliani, Antonio Locatelli e Alfredo De Luca, che in Etiopia portarono morte e distruzione, inquadrati nell’esercito e nell’aviazione fascista. Qualche decina di chilometri più a est, ad Affile, sempre in provincia di Roma, sopravvive alla rabbia di molti l’ignobile mausoleo dedicato a Graziani, che del massacro di Addis Abeba fu il principale responsabile.

    Un inventario
    Non si potrà fare memoria, il 19 febbraio, dei crimini del colonialismo italiano, senza porsi il problema di come trattare certi nomi, lapidi, targhe, monumenti, edifici che ancora affollano il territorio italiano.

    Un primo passo per provare a maneggiare quest’eredità ingombrante sarebbe quello di farne un inventario, censire i luoghi, sistemarli su una mappa. È quel che ho cominciato a fare da qualche mese, nei ritagli di tempo. In principio, volevo solo localizzare le lapidi ancora esistenti – ma in molti casi riutilizzate – che il regime fascista fece posare in tutti i municipi d’Italia, il 18 novembre 1936, un anno dopo l’entrata in vigore delle sanzioni economiche contro il regno d’Italia decise dalla Società delle nazioni per condannare l’invasione dell’Etiopia.

    Ben presto, mi sono ritrovato a segnare molti altri posti, e da un paio di settimane, attraverso il blog Giap e con l’aiuto del collettivo Resistenze in Cirenaica, stiamo raccogliendo segnalazioni da tutta Italia. La mappa è ancora agli inizi, ma l’affollarsi di tanti segnaposti dà già l’impressione di una mostruosa eruzione cutanea. Una specie di allergia.

    Anticolonizzare
    La questione di come trattare le tracce che la storia lascia nel paesaggio non è certo nuova, né originale, ma si ripresenta ogni volta in maniera diversa, perché diverse sono le esigenze che la portano in superficie. Oggi è chiaro che le vestigia del colonialismo italiano provocano irritazioni e piaghe nel tessuto delle città, perché la guerra contro i migranti uccide uomini e donne i cui avi furono sterminati dai nostri. Nella strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 ci furono 366 morti accertati e 20 dispersi, molti dei quali erano eritrei, partiti da Misurata, in Libia, e naufragati nel 78° anniversario dell’invasione dell’Etiopia da parte del regno d’Italia.

    Due anni dopo, sempre a Bergamo, la fontana dedicata ad Antonio Locatelli, fiero sterminatore di etiopi con armi chimiche, si riempiva d’acqua rosso sangue e uno striscione lo chiamava assassino. Il sindaco Giorgio Gori, manco a dirlo, dichiarò che l’illustre concittadino fascista era una figura “controversa”, ma definì “maleducati” gli autori del gesto.

    Non è raro che azioni come questa siano etichettate come vandalismi, anche quando non si verificano reali danni all’arredo urbano, ma a disturbare è l’idea stessa che questo venga modificato, salvo poi accettare che enormi cartelloni pubblicitari cambino il volto di una piazza per mesi e mesi.

    L’oppressione non finisce quando la vittima se la scuote di dosso, ma quando la ripudia anche il carnefice

    Si declina in termini di decoro quello che invece è un problema di potere: se a casa mia posso cambiare l’arredamento come mi pare, chi decide l’aspetto dello spazio comune? In teoria, le amministrazioni comunali si riempiono la bocca di processi partecipati, ma nella pratica quel che ne risulta è sempre molto simile a un piano prestabilito. Le commissioni toponomastiche delle città, per esempio, tendono a escludere che si possano cambiare i nomi delle vie: troppo complicato, troppi indirizzi da modificare, troppa gente da mettere d’accordo, ci sono questioni più importanti.

    Chi invece organizza queste azioni topografiche, usa spesso il verbo “decolonizzare”, per suggerire l’idea che le nazioni europee devono liberarsi dal colonialismo, così come se ne sono liberate le loro ex colonie, in quel processo storico chiamato appunto decolonizzazione. L’oppressione non finisce quando la vittima se la scuote di dosso, ma quando la ripudia anche il carnefice. Questo è sacrosanto, eppure quando leggo che bisogna “decolonizzare le nostre città”, mi viene sempre in mente il caffè decaffeinato: l’espresso ti piace, però ti fa male. Allora gli togli la componente tossica e continui a berlo, come se niente fosse. Derattizzi un quartiere, metti le esche per i topi, et voila, sparito il problema.

    Intendo dire che in un certo senso i nostri spazi urbani sono già fin troppo de-colonizzati: entri al bar Dogali, strappi una bustina di zucchero che ha stampata sopra una faccia africana, butti giù un deca, leggi il titolo sui migranti somali partiti da Zuwara, ti lamenti perché “un negro” vuole rifilarti un accendino e tutto l’ambaradan che si porta dietro, saluti il ras del quartiere, quindi corri al lavoro, lungo via Bottego, sotto il palazzo con quella scritta in latino, “Tu regere imperio populos…”. E in tutto questo, del colonialismo e dei suoi crimini, non hai sentito nemmeno l’odore.

    Forse allora bisognerebbe impegnarsi per “anticolonizzare” il nostro paesaggio, il senso che diamo ai luoghi nell’atto di abitarli ogni giorno: introdurre anticorpi, invece di limitarsi a rimuovere il virus. Nel 1949 a Bologna gli odonimi coloniali del rione Cirenaica furono sostituiti con nomi di partigiani: ne restò solo uno, via Libia. Ora non si tratta di togliere anche quello, ma di aggiungerci un adesivo: “Nazione africana, luogo di crimini del colonialismo italiano”, e di raccontare come mai la giunta comunista decise che una delle vecchie intitolazioni doveva restare. Il che non significa fare lo stesso con il nome di Italo Balbo, nelle ventuno vie d’Italia che si chiamano così, inserendo giusto una targa esplicativa con il suo curriculum di violenze. Significa che il problema non si risolve cambiando un’intitolazione. La sfida è politica, estetica, storica e creativa, quindi avvincente.

    A chi strilla che “il passato non si cancella”, bisogna ribattere che un nome, un monumento o una targa, se stanno in strada non sono il passato, bensì il presente. E se ci restano, sono pure il futuro.

    Decidere cosa consegnare all’avvenire, e in che modo riuscirci, è sempre una questione politica, dunque materia di conflitto. Come ogni mossa che facciamo sul territorio, un passo dopo l’altro.

    https://www.internazionale.it/opinione/wu-ming-2/2021/02/15/mappa-colonialismo-italiano

    #visualisation #cartographie #carte_interactive #crowsourcing #colonialisme_italien #Italie #Italie_coloniale #traces_coloniales #toponymie #toponymie_coloniale #toponymie_politique

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  • Will The Reckoning Over Racist Names Include These Prisons?

    Many prisons, especially in the South, are named after racist officials and former plantations.

    Not long after an #Alabama lawyer named #John_Darrington began buying up land in Southeast #Texas, he sent enslaved people to work the soil. They harvested cotton and sugarcane, reaping profits for their absentee owner until he sold the place in 1848.

    More than a century and a half later, men—mostly Black and brown—are still forced to work in the fields. They still harvest cotton. They still don’t get paid. And they still face punishment if they refuse to work.

    They are prisoners at the #Darrington Unit, one of Texas’s 104 prisons. And not the only one in the South named after slaveholders.

    While the killing of George Floyd has galvanized support for tearing down statues, renaming sports teams and otherwise removing markers of a (more) racist past, the renewed push for change hasn’t really touched the nation’s prison system. But some say it should. Across the country, dozens of prisons take their names from racists, Confederates, plantations, segregationists, and owners of slaves.

    “Symbols of hate encourage hate, so it has been time to remove the celebration of figures whose fame is predicated on the pain and torture of Black people,” said DeRay McKesson, a civil rights activist and podcast host.

    Some candidates for new names might be prisons on former plantations. In #Arkansas, the #Cummins Unit—now home to the state’s death chamber—was once known as the #Cummins_plantation (though it’s not clear if the namesake owned slaves). In North Carolina, Caledonia Correctional Institution is on the site of #Caledonia_Plantation, so named as a nostalgic homage to the Roman word for Scotland. Over the years, the land changed hands and eventually the state bought that and other nearby parcels.

    “But the state opted to actually keep that name in what I would say is a kind of intentional choice,” said Elijah Gaddis, an assistant professor of history at Auburn University. “It’s so damning.”

    Among several state prison systems contacted by The Marshall Project, only North Carolina’s said it’s in the early stages of historical research to see what name changes might be appropriate. Spokesman John Bull said the department is “sensitive to the cultural legacy issues sweeping the country,” but its priority now is responding to the COVID pandemic.

    Two of the most infamous and brutal plantations-turned-prisons are #Angola in #Louisiana and #Parchman in #Mississippi—but those are their colloquial names; neither prison formally bears the name of the plantation that preceded it. Officially, they’re called Louisiana State Penitentiary and the Mississippi State Penitentiary.

    In some parts of the South, many prisons are former plantations. Unlike Darrington or Cummins, the vast majority at least bothered to change the name—but that isn’t always much of an improvement.

    In Texas, for example, most of the state’s lock-ups are named after ex-prison officials and erstwhile state politicians, a group that predictably includes problematic figures. Arguably one of the worst is Thomas J. Goree, the former slave owner and Confederate captain who became one of the first superintendents of the state’s penitentiaries in the 1870s, when prison meant torture in stocks and dark cells.

    “Goree was a central figure in the convict leasing system that killed thousands of people and he presided over the formal segregation of the prison system,” said Robert Perkinson, a University of Hawaii associate professor who studies crime and punishment. “Even though he thought of himself as a kind of benevolent master, he doesn’t age well at all.”

    In his book “Texas Tough,” Perkinson describes some of the horrors of the convict leasing practices of Goree’s era. Because the plantation owners and corporations that rented prisoners did not own them, they had no incentive to keep them alive. If you killed an enslaved person, it was a financial loss; if you killed a leased convict, the state would just replace him. For decades, Texas prison laborers were routinely whipped and beaten, and the leasing system in Goree’s day sparked several scandals, including one involving torture so terrible it was known as the “Mineola Horror.” Goree defended the system: “There are, of course, many men in the penitentiary who will not be managed by kindness.” Plus, he explained, prisoners in the South needed to be treated differently because they were different from those in the north: “There, the majority of men are white.”

    The present-day Goree Unit is in Huntsville, an hour’s drive north of Houston, but his family’s former plantation in Lovelady—about 20 miles further north—has been turned into another prison: The Eastham Unit, named for the later landowners who used it for convict leasing.

    James E. #Ferguson—namesake of the notoriously violent Ferguson Unit, also near Huntsville—was a governor in the 1910s who was also an anti-Semite and at one point told the Texas Rangers he would use his pardoning power if any of them were ever charged with murder for their bloody campaigns against Mexicans, according to Monica Muñoz Martinez, historian and author of “The Injustice Never Leaves You.”

    Ferguson got forced out of office early when he was indicted and then impeached. Afterward, he was replaced by William P. Hobby, a staunch segregationist who opposed labor rights and once defended the beating of an NAACP official visiting the state to discuss anti-lynching legislation.

    #Hobby, too, has a prison named after him.

    “In public he tried to condemn lynchings, but then when you look at his role in suppressing anti-lynching organizing he was trying to suppress those efforts,” Martinez said of Hobby. “It’s horrific to name a prison after a person like him. It’s an act of intimidation and it’s a reminder that the state is proud of that racist tradition.”

    Northwest of Abilene, the Daniel Unit takes its name from #Price_Daniel, a mid-20th-century governor who opposed integration, like most Texas politicians of the era. As attorney general he fought desegregating the University of Texas Law School, and later he signed the Southern Manifesto condemning the Supreme Court’s decision in Brown v. Board of Education.

    The namesakes of the #Billy_Moore Unit and the frequently-sued Wallace Pack Unit were a pair of prison officials—a major and a warden—who died in 1981 while trying to murder a Black prisoner. According to Michael Berryhill, a Texas Southern University journalism professor who wrote a book on the case, it was such a clear case of self-defense that three Texas juries decided to let the prisoner off.

    “They should not have prisons named after them,” Berryhill said. He called it “a stain” on the Texas prison system’s reputation.

    In Alabama, the #Draper Correctional Center is named after #Hamp_Draper, a state prison director who also served as an interim leader—or “imperial representative”—in the #Ku_Klux_Klan, as former University of Alabama professor Glenn Feldman noted in his 1999 book on the state’s Klan history. The prison closed for a time in 2018 then re-opened earlier this year as a quarantine site for new intakes.

    In New York City, the scandal-prone #Rikers Island jail is one of a few that’s actually generated calls for a name change, based on the namesake family’s ties to slavery. One member of the Dutch immigrant clan, #Richard_Riker, served as a criminal court judge in the early 1800s and was known as part of the “#Kidnapping_Club” because he so often abused the Fugitive Slave Act to send free Blacks into slavery.

    To be sure, most prisons are not named for plantations, slave owners or other sundry racists and bigots—at least not directly. Most states name their prisons geographically, using cardinal directions or nearby cities.

    But some of those geographic names can be problematic. In Florida, Jackson Correctional Institution shares a name with its home county. But Jackson County is named after the nation’s seventh president, #Andrew_Jackson, who was a slave owner obsessed with removing Native people to make room for more plantations. Less than an hour to the south, #Calhoun Correctional Institution also bears the name of its county, which is in turn named after John C. Calhoun—Jackson’s rabidly pro-slavery vice president. The same is true of Georgia’s Calhoun State Prison.

    Also in #Georgia, Lee State Prison is in Lee County, which is named in honor of #Henry_Lee_III, the patriarch of a slave-owning family and the father of Robert E. Lee. A little further northeast, Lee County in South Carolina—home to violence-plagued Lee Correctional Institution—is named after the Confederate general himself.

    In #Arkansas, the namesake of #Forrest City—home to two eponymous federal prisons—is #Nathan_Bedford_Forrest, a Grand Wizard in the Ku Klux Klan who also controlled leased convicts in the entire state of Mississippi at one point.

    To many experts, the idea of changing prison names feels a bit like putting lipstick on a pig: No matter what you call it, a prison is still a prison. It still holds people who are not free. They are still disproportionately Black and brown.

    “If you are talking about the inhumanity, the daily violence these prisons perform, then who these prisons are named after is useful in understanding that,” Martinez said. “But what would it do to name it after somebody inspiring? It’s still a symbol of oppression.”

    But to Anthony Graves, a Texas man who spent 12 years on death row after he was wrongfully convicted of capital murder, the racist names are a “slap in the face of the justice system itself.” New names could be a powerful signal of new priorities.

    “At the end of the day the mentality in these prisons is still, ‘This is my plantation and you are my slaves,’” he said. “To change that we have to start somewhere and maybe if we change the name we can start to change the culture.”

    https://www.themarshallproject.org/2020/07/29/will-the-reckoning-over-racist-names-include-these-prisons

    #prisons #USA #Etats-Unis #toponymie #toponymie_politique #esclavage #Thomas_Goree #Goree #James_Ferguson #William_Hobby #John_Calhoun

  • COLONIALISMO. In Libia la strategia italiana della “terra bruciata”

    Non appena l’impiego operativo dell’aereo come fattore preponderante di superiorità nei conflitti venne teorizzato da #Giulio_Douhet nel 1909, gli italiani divennero i primi a livello mondiale ad utilizzare questa arma bellica durante la Guerra italo-turca della #Campagna_di_Libia.

    ll 1º novembre 1911 il sottotenente #Giulio_Gavotti eseguì da un velivolo in volo il primo bombardamento aereo della storia, volando a bassa quota su un accampamento turco ad #Ain_Zara e lanciando tre bombe a mano.

    Pochi anni dopo entrarono in servizio nuovi aerei, tecnicamente più capaci di svolgere il ruolo offensivo al quale erano stati predisposti e le azioni assunsero l’aspetto di un’inarrestabile escalation militare.

    Tra il mese di aprile e l’agosto del 1917 furono eseguite contro le oasi di Zanzour e Zavia, un centinaio di azioni con il lancio di 1.270 chilogrammi di liquido incendiario e 3.600 chili di bombe.

    Dal 1924 al 1926 gli aerei ebbero l’ordine di alzarsi in volo per bombardare tutto ciò che si muoveva nelle oasi non controllate dalle truppe italiane.

    Dal novembre 1929 alle ultime azioni del maggio 1930, l’aviazione in Cirenaica eseguì, secondo fonti ufficiali, ben 1.605 ore di volo bellico lanciando 43.500 tonnellate di bombe e sparando diecimila colpi di mitragliatrice.

    La strategia aerea e la politica della terra bruciata, spinse migliaia di uomini, donne e bambini terrorizzati a lasciare la Libia, chi verso la Tunisia e l’Algeria, chi in direzione del Ciad o dell’Egitto e i bombardamenti diventarono sempre più violenti, scientifici e sperimentali.

    Cirenaica pacificata, uno dei libri con i quali il generale Graziani volle giustificare la sua azione repressiva e rispondere alle accuse di genocidio, c’è un breve capitolo sul bombardamento di Taizerbo, una delle roccaforti della resistenza anti italiana capeggiata dall’imam Omar el Mukhtar, avvenuto il 31 luglio 1930, sei mesi dopo l’esortazione di Pietro Badoglio all’uso dell’iprite: “Per rappresaglia, ed in considerazione che Taizerbo era diventata la vera base di partenza dei nuclei razziatori il comando di aviazione fu incaricato di riconoscere l’oasi e – se del caso – bombardarla. Dopo un tentativo effettuato il giorno 30 -non riuscito, per quanto gli aeroplani fossero già in vista di Taizerbo, a causa di irregolare funzionamento del motore di un apparecchio, la ricognizione venne eseguita il giorno successivo e brillantemente portata a termine. Quattro apparecchi Ro, al comando del ten.col. Lordi, partirono da Giacolo alle ore 4.30 rientrando alla base alle ore 10.00 dopo aver raggiunto l’obiettivo e constatato la presenza di molte persone nonché un agglomerato di tende. Fu effettuato il bombardamento con circa una tonnellata di esplosivo e vennero eseguite fotografie della zona. Un indigeno, facente parte di un nucleo di razziatori, catturato pochi giorni dopo il bombardamento, asserì che le perdite subite dalla popolazione erano state sensibili, e più grande ancora il panico”.

    Vincenzo Lioy, nel suo libro sul ruolo dell’aviazione in Libia (Gloria senza allori, Associazione Culturale Aeronautica), ha aggiunto un’agghiacciante rapporto firmato dal tenente colonnello dell’Aeronautica Roberto Lordi, comandante dell’aviazione della Cirenaica (rapporto che Graziani inviò al Ministero delle colonie il 17 agosto) nel quale si apprende che i quattro apparecchi Ro erano armati con 24 bombe da 21 chili ad iprite, 12 bombe da 12 chili e da 320 bombe da 2 chili, e che “(…) in una specie di vasta conca s’incontra il gruppo delle oasi di Taizerbo. Le palme, che non sono molto numerose, sono sparpagliate su una vasta zona cespugliosa. Dove le palme sono più fitte si trovano poche casette. In prossimità di queste, piccoli giardini verdi, che in tutta la zona sono abbastanza numerosi; il che fa supporre che le oasi siano abitate da numerosa gente. Fra i vari piccoli agglomerati di case vengono avvistate una decina di tende molto più grandi delle normali e in prossimità di queste numerose persone. Poco bestiame in tutta la conca. II bombardamento venne eseguito in fila indiana passando sull’oasi di Giululat e di el Uadi e poscia sulle tende, con risultato visibilmente efficace”.

    II primo dicembre dello stesso anno il tenente colonnello Lordi inviò a Roma copia delle notizie sugli effetti del bombardamento a gas effettuato quel 31 luglio sulle oasi di Taizerbo “ottenute da interrogatorio di un indigeno ribelle proveniente da Cufra e catturato giorni or sono”.

    È una testimonianza raccapricciante raccolta materialmente dal comandante della Tenenza dei carabinieri reali di el Agheila: “Come da incarico avuto dal signor comandante l’aviazione della Cirenaica, ieri ho interrogato il ribelle Mohammed abu Alì Zueia, di Cufra, circa gli effetti prodotti dal bombardamento a gas effettuato a Taizerbo. II predetto, proveniente da Cufra, arrivò a Taizerbo parecchi giorni dopo il bombardamento, seppe che quali conseguenze immediate vi sono quattro morti. Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. Egli ne vide diversi che presentavano il loro corpo ricoperto di piaghe come provocate da forti bruciature. Riesce a specificare che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoruscita di liquido incolore. Rimaneva così la carne viva priva di pelle, piagata. Riferisce ancora che un indigeno subì la stessa sorte per aver toccato, parecchi giorni dopo il bombardamento, una bomba inesplosa, e rimasero così piagate non solo le sue mani, ma tutte le altre parti del corpo ove le mani infette si posavano”.

    L’uso dell’iprite, che doveva diventare un preciso sistema di massacro della popolazione civile in Etiopia qualche anno più tardi, fu certamente una scelta sia militare che politica così come i bombardamenti dovevano corrispondere a scelte di colonizzazione ben precise e sistematiche di quella che Gaetano Salvemini, quando ebbe inizio l’avventura coloniale italiana in Libia definì “Un’immensa voragine di sabbia”:

    Benito Mussolini volle che fosse il gerarca Italo Balbo ad occuparsene dopo averlo sollevato dall’incarico di Ministro dell’Aeronautica del Regno d’Italia e inviato in qualità di Governatore nel 1934.

    Balbo dichiarò che avrebbe seguito le gloriose orme dei suoi predecessori e avviò una campagna nazionale che voleva portare due milioni di emigranti sulla Quarta Sponda Italiana del Mediterraneo.

    Ne arrivarono soltanto 31mila, ma furono un numero sufficiente da trincerare dietro un muro militare, costruito nel 1931 in Cirenaica, per contrastare la resistenza delle tribù beduine degli indipendentisti libici.

    Quel muro, il muro italiano di Giarabub, è tuttora presente e in funzione come barriera anti-immigrazione: una doppia linea di recinzione metallica lunga 270 chilometri, larga quattro metri, alta tre, visibilmente malandata ma resa insuperabile da chilometri di matasse di filo spinato che si srotolano dalle regioni a ridosso del porto di Bardia, lungo le sterpaglie desolate della Marmarica, fino a perdersi nel Grande Mare di Sabbia del Deserto Libico.

    Questa grande opera venne commissionata alla Società Italiana Costruzioni e Lavori Pubblici di Roma, che la realizzò in sei mesi, dal 15 aprile al 5 settembre 1931, ad un costo complessivo di circa venti milioni di lire, impegnando nella costruzione 2.500 indigeni sorvegliati da 1.200 soldati e carabinieri, lungo un percorso totalmente privo di strade e di risorse idriche.

    Il reticolato di filo spinato è sostenuto da paletti di ferro con base in calcestruzzo, vigilato dai ruderi fatiscenti di tre ridotte e sei ridottini; lungo il suo percorso vennero costruiti tre campi d’aviazione, una linea telefonica, 270 milioni di paletti di ferro e ventimila quintali di cemento.

    Il compito di sorveglianza e controllo è sempre stato garantito dall’innesco di migliaia di mine antiuomo, ma per un certo periodo fu oggetto di ricognizioni aeree audacemente condotte, oltre che dai piloti dell’Aeronautica Militare, anche e direttamente dal loro capo supremo e Maresciallo dell’Aria Italo Balbo a bordo di veivoli derivati dai trimotori Savoia Marchetti da lui impiegati nelle transvolate atlantiche e che divennero caccia bombardieri siluranti chiamati Sparvieri.

    Nei sei anni che Balbo visse e volò in Libia, lo Sparviero abbatté tutti i record e tutti i primati di volo civile, velocità, trasporto, durata, distanza, poi il salto di qualità e da civile divenne aereo militare: nella versione S.79K, l’impiego operativo di questo modello avvenne con l’intervento italiano nella guerra civile spagnola e il 26 aprile 1937, tre S.M.79 dell’Aviazione Legionaria presero parte al bombardamento della cittadina basca di Guernica, un’incursione aerea compiuta in cooperazione con la Legione Condor nazista, che colpì nottetempo la popolazione civile inerme e ispirò il celeberrimo dipinto di denuncia di Pablo Picasso.

    Sette anni prima era alla guida di grandi imprese di voli transatlantici: il primo nel 1930 da Orbetello a Rio de Janeiro; il secondo tre anni dopo, da Orbetello a Chicago. Questa seconda crociera, organizzata per celebrare il decennale della Regia Aeronautica Militare Italiana nell’ambito dell’Esposizione Universale Century of Progress che si tenne a Chicago tra il 1933 e il 1934, lo aveva coperto di gloria.

    Il governatore dell’Illinois e il sindaco della città di Chicago riservarono ai trasvolatori un’accoglienza trionfale: a Balbo venne intitolata una strada, tutt’oggi esistente, e i Sioux presenti all’Esposizione lo nominarono capo indiano, con il nome di Capo Aquila Volante. Il volo di ritorno proseguì per New York, dove il presidente Roosevelt organizzò, in onore agli equipaggi della flotta di 25 idrotransvolanti italiani, una grande street parade.

    Gli esaltatori delle trasvolate atlantiche non mancano di citare ogni tipo di manifestazione organizzata a Chicago in onore del grande pilota, ma omettono sempre di citare lo striscione che pare recitasse “Balbo, don Minzoni ti saluta” e che commemorava l’onore da lui acquisito come pioniere dello squadrismo fascista.

    Là, in Italia, partendo dalle valli del delta padano, aveva visto portare a compimento grandi opere di bonifiche che strapparono alle acque nuove terre da coltivare e nuove forme di diritti sindacali da reprimere grazie all’”esaltazione della violenza come il metodo più rapido e definitivo per raggiungere il fine rivoluzionario” (Italo Balbo, Diario 1922, Mondadori).

    Sempre là, nella bassa provincia Ferrarese, aveva inaugurato la strategia criminale delle esecuzioni mirate come responsabile diretto, morale e politico dei due omicidi premeditati, da lui considerati ’bastonate di stile’, che significavano frattura del cranio, somministrate al sindacalista Natale Gaiba e al sacerdote don Giovanni Minzoni.

    Natale Gaiba venne assassinato per vendicare l’offesa, compiuta quando il sindacalista argentano era assessore del Comune di Argenta, di aver fatto sequestrare l’ammasso di grano del Molino Moretti, imboscato illegalmente per farne salire il prezzo, venisse strappato ai latifondisti agrari e restituito al popolo che lo aveva prodotto coltivando la terra, ridotto alla fame.

    Don Minzoni, parroco di Argenta, venne assassinato dai fascisti locali: Balbo non volle ammettere che fossero stati individuati e arrestati i colpevoli e intervenne in molti modi, anche con la costante presenza in aula, per condizionare lo svolgimento e il risultato sia delle indagini che del processo penale, garantendo l’impunità del crimine.

    Qui, in Libia, Italo Balbo non riuscì a trovare, nemmeno con la forza, l’acqua sufficiente da donare alla terra di quei pochi coloni veneti e della bassa ferrarese che, sotto l’enfasi propagandistica del regime, lo avevano raggiunto, si erano rimboccati le maniche e si erano illusi di rendere verde il deserto “liberato”.

    Fu sempre qui, in Libia, che italo Balbo, per tragica ironia della sorte o per fatale coincidenza, precipitò realmente in una voragine di sabbia e trovò la morte, colpito dal fuoco amico della artiglieria contraerea italiana nei cieli di Tobruk il 28 giugno 1940. Evidentemente mentre lui seguiva le orme dei grandi colonizzatori italiani, qualcos’altro stava seguendo le sue tracce, poiché la responsabilità storica di quanto avvenuto per sbaglio, come tragico errore e incidente di guerra, venne assunta in prima persona da un capo pezzo del 202 Reggimento di Artiglieria, che ammise di aver sparato raffiche di artiglieria contraerea all’indirizzo del trimotore Savoia Marchetti 79 pilotato dal suo comandante supremo nonché concittadino Italo Balbo, essendo significativamente pure lui, Claudio Marzola, 20enne, un ferrarese purosangue.

    I colpi letali partirono da una delle tre mitragliatrici da 20 mm in dotazione a un Incrociatore Corazzato della Marina Regia che permaneva in rada semiaffondato e a scopo difensivo antiaereo, varato con lo stesso nome del santo patrono della città di Ferrara: San Giorgio.

    https://pagineesteri.it/2021/05/27/africa/colonialismo-in-libia-la-strategia-italiana-della-terra-bruciata
    #colonialisme #Italie #terre_brûlée #colonisation #histoire_coloniale #Italie_coloniale #colonialisme_italien #aviation #Zanzour #Zavia #oasis #bombardement #Cirenaica #Graziani #Rodolfo_Graziani #Taizerbo #iprite #Pietro_Badoglio #Badoglio #Roberto_Lordi #Italo_Balbo #fascisme #Giarabub #Balbo #Legione_Condor #violence #Natale_Gaiba #Giovanni_Minzone #don_Minzoni #Claudio_Marzola

    Un mur construit à l’époque coloniale et encore debout aujourd’hui et utilisé comme barrière anti-migrants :

    Quel muro, il muro italiano di Giarabub, è tuttora presente e in funzione come barriera anti-immigrazione: una doppia linea di recinzione metallica lunga 270 chilometri, larga quattro metri, alta tre, visibilmente malandata ma resa insuperabile da chilometri di matasse di filo spinato che si srotolano dalle regioni a ridosso del porto di Bardia, lungo le sterpaglie desolate della Marmarica, fino a perdersi nel Grande Mare di Sabbia del Deserto Libico.
    Questa grande opera venne commissionata alla Società Italiana Costruzioni e Lavori Pubblici di Roma, che la realizzò in sei mesi, dal 15 aprile al 5 settembre 1931, ad un costo complessivo di circa venti milioni di lire, impegnando nella costruzione 2.500 indigeni sorvegliati da 1.200 soldati e carabinieri, lungo un percorso totalmente privo di strade e di risorse idriche.
    Il reticolato di filo spinato è sostenuto da paletti di ferro con base in calcestruzzo, vigilato dai ruderi fatiscenti di tre ridotte e sei ridottini; lungo il suo percorso vennero costruiti tre campi d’aviazione, una linea telefonica, 270 milioni di paletti di ferro e ventimila quintali di cemento.

    #murs #barrières_frontalières

    –-

    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

    • #Balbo street à #Chicago —> une rue est encore dédiée à #Italo_Balbo :

      Nei sei anni che Balbo visse e volò in Libia, lo Sparviero abbatté tutti i record e tutti i primati di volo civile, velocità, trasporto, durata, distanza, poi il salto di qualità e da civile divenne aereo militare: nella versione S.79K, l’impiego operativo di questo modello avvenne con l’intervento italiano nella guerra civile spagnola e il 26 aprile 1937, tre S.M.79 dell’Aviazione Legionaria presero parte al bombardamento della cittadina basca di Guernica, un’incursione aerea compiuta in cooperazione con la Legione Condor nazista, che colpì nottetempo la popolazione civile inerme e ispirò il celeberrimo dipinto di denuncia di Pablo Picasso.

      Sette anni prima era alla guida di grandi imprese di voli transatlantici: il primo nel 1930 da Orbetello a Rio de Janeiro; il secondo tre anni dopo, da Orbetello a Chicago. Questa seconda crociera, organizzata per celebrare il decennale della Regia Aeronautica Militare Italiana nell’ambito dell’Esposizione Universale Century of Progress che si tenne a Chicago tra il 1933 e il 1934, lo aveva coperto di gloria.

      Il governatore dell’Illinois e il sindaco della città di Chicago riservarono ai trasvolatori un’accoglienza trionfale: a Balbo venne intitolata una strada, tutt’oggi esistente, e i Sioux presenti all’Esposizione lo nominarono capo indiano, con il nome di Capo Aquila Volante. Il volo di ritorno proseguì per New York, dove il presidente Roosevelt organizzò, in onore agli equipaggi della flotta di 25 idrotransvolanti italiani, una grande street parade.


      https://www.openstreetmap.org/search?query=balbo%20street%20chicago#map=17/41.87445/-87.62088

      #toponymie #toponymie_politique #toponymie_coloniale

      Et un #monument :
      Balbo Monument

      The Balbo Monument consists of a column that is approximately 2,000 years old dating from between 117 and 38 BC and a contemporary stone base. It was taken from an ancient port town outside of Rome by Benito Mussolini and given to the city of Chicago in 1933 to honor the trans-Atlantic flight led by Italo Balbo to the #Century_of_Progress_Worlds_Fair.


      https://en.wikipedia.org/wiki/Balbo_Monument

      #statue

      ping @cede

    • ‘Free Ukraine Street’ : Russian Embassies Get Pointed New Addresses

      Officials in many European cities are giving streets, squares and intersections in front of Russian missions names with pro-Ukraine themes.

      The unassuming intersection in front of the Russian Embassy in central Oslo didn’t really have a name until Tuesday, when its local council bestowed on it a particularly pointed one: “Ukrainas Plass,” or Ukraine’s Square.

      “We wanted to make a statement that we find Russia’s actions totally unacceptable,” said Tore Walaker, a councilor for Frogner, the neighborhood where the embassy is, which has been the scene of spirited protests since the Russian invasion.

      Russian embassy staff will soon have to pass a sign identifying the area as Ukraine’s Square on their way to work, said Jens Jorgen Lie, the chairman of the Frogner borough council.

      “It’s not helping to stop the war,” he said. “But we do the little we can and must.”

      As Russian embassies have become a focus for protests in Europe and around the world against President Vladimir V. Putin, officials in some European cities are expressing their outrage at the invasion of Ukraine by trying to change street names.

      In the Lithuanian capital, Vilnius, an unnamed street leading to the Russian Embassy was officially named “Ukrainian Heroes Street” on Wednesday, according to the city’s mayor, Remigijus Simasius, who added that mail might not be delivered to the embassy if it did not use the new address. “Everyone who writes a letter to the embassy will have to think about the victims of Russian aggression and the heroes of Ukraine,” he said in a post on Facebook.

      Tirana, the Albanian capital, said it would name a street segment that is home to the Russian Embassy “Free Ukraine.” In Latvia, the Russian Embassy in Riga will now lie on “Ukraine Independence Street,” according to a local deputy mayor. And in Copenhagen, city officials will next week discuss changing the name of the street on which the Russian Embassy sits from “Kristianiagade” to “Ukrainegade.”

      In England, lawmakers have lobbied for the street address of the Russian Embassy in London to be switched to “Zelensky Avenue,” after the Ukrainian president, Volodymyr Zelensky, who vowed in an address to Britain’s House of Commons this week that he would never surrender to Russian forces. “Britain must shame Putin at every possible opportunity,” said Layla Moran, a spokeswoman on foreign affairs for the Liberal Democrats.

      The borough of Kensington and Chelsea, an affluent area that contains the Russian, Ukrainian and other embassies, said it supported the Ukrainian community, but had not yet received any official applications to change the name of the street.

      “We share the world’s anger at Putin’s assault on Ukraine and are horrified at the plight of the men, women and children caught up in the conflict,” the borough said in a statement, but added: “It is actions rather than symbolism that they desperately need now.”

      The proposals for name changes have been met with largely positive reactions from supporters of Ukraine, though some question the effectiveness of such symbolic moves. Others have said the renaming of streets should be even more extensive.

      In Oslo, Eugenia Khoroltseva, an activist with family in Ukraine and Russia who has demonstrated near what is now Ukraine’s Square since the invasion began, said of the renaming: “I fully support it on behalf of the pro-democratic Russian community living in Norway.”

      In a statement on Wednesday, the Russian Embassy in Oslo said the move would be “regarded as an anti-Russian action, whether by the government or the district authorities. Norwegians should consider this.”

      In Copenhagen, the Russian Embassy noted that its street — Kristianiagade — carried the former name of Norway’s capital, a symbol of “historical bonds and good relationships between Denmark and Norway.”

      “I think the Norwegians will understand,” said Jakob Ellemann-Jensen, a Danish lawmaker who is leading the proposal for renaming the street Ukrainegade. “I think there are many things we should do to help the Ukrainians. There is no action that is too small.”

      The inspiration, he added, came from the naming of a plaza in front the Russian Embassy in Washington after Boris Nemtsov, the Russian opposition leader and outspoken critic of Mr. Putin who was assassinated in 2015. A similar proposal to rename a square outside a Russian consulate was made by a politician last year in the town of Kirkenes, close to the Norwegian-Russian border, but was met with resistance.
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      “This is a war we will never forget and a war that the Russians should never forget,” Mr. Ellemann-Jensen said.

      https://www.nytimes.com/2022/03/10/world/europe/ukraine-russia-war-embassies-street-names.html

    • Guerre en Ukraine : à #Dnipro, des russophones font tout pour ne plus parler russe

      Dans une partie de l’Ukraine, la langue la plus couramment parlée est le russe. Mais pour de nombreux habitants, la guerre ravive un élan patriotique qui passe aussi par une réappropriation de la langue ukrainienne. Illustration à Dnipro, en plein cœur du pays.

      (...)

      Et dans cette guerre linguistique, la ville de Dnipro prend aussi sa part. "Nous avons changé les dénominations d’une trentaine de rues, confirme Mirailo Lysenko, maire adjoint en charge de l’aménagement.

      "La plupart [des rues] ont pris le nom de nos #villes_martyres et d’autres ont pris le nom d’importantes personnalités ukrainiennes, conclut Mirailo Lysenko. Les nouvelles plaques sont en train d’être fabriquées. Dans quelques semaines, le passage Moscovite va ainsi devenir #passage_Azovstal, du nom de cette usine métallurgique symbole de la résistance de #Marioupol.

      https://www.francetvinfo.fr/monde/europe/manifestations-en-ukraine/reportage-guerre-en-ukraine-a-dnipro-des-habitants-font-tout-pour-ne-pl

    • Russia not waging campaign against Ukraine’s culture, says diplomat

      “Russia have not launched a campaign to demolish monuments to prominent Ukrainians or rename streets, bearing their names, and have never done so,” Maria Zakharova stressed

      Russia has never sought to harm Ukraine’s #culture in any way, Russian Foreign Ministry Spokeswoman Maria Zakharova told a news briefing on Friday.

      “Who has ever tried to intentionally damage Ukraine’s cultural heritage, when and in what way?” Zakharova said. “Unlike our neighbors, we have never been prone to such behavior. We have not launched a campaign to demolish monuments to prominent Ukrainians or rename streets, bearing their names, and have never done so.”

      The EU’s accusations against Russia of damaging Ukraine’s cultural heritage cause confusion, Zakharova said. “What are you talking about? Do the people, who level such claims, know anything about our common history, about present-day reality?”

      The EU’s weapons supplies to Ukraine are in conflict with the objective to protect and restore Ukraine’s cultural heritage the bloc has been declaring, the diplomat said.

      “That’s another example of Brussels’ destructive logic: it is prepared to sacrifice basic principles of international humanitarian cooperation and politicize culture, sports, science and youth policy, while pursuing its aims or the aims imposed on it,” Zakharova said.

      https://tass.com/politics/1460203

      #monuments

    • Ανταπόκριση από τη σημερινή δράση για την έμφυλη βία

      Σήμερα το πρωί πραγματοποιήθηκε συμβολική αλλαγή ονομάτων στις πινακίδες κεντρικών οδών της πόλης, από πρωτοβουλία γυναικών.
      Αναπαράγουμε αυτούσιο το κείμενο που μοιράστηκε κατά τη διάρκεια της δράσης.


      θυμόμαστε, εν όψει της 8ης Μαρτίου, ημέρας μνήμης και αγώνα, τις γυναίκες στα υφαντουργεία και τα ραφτάδικα της Νέας Υόρκης, των οποίων οι διεκδικήσεις δέχθηκαν άγρια καταστολή το 1857.

      αλλάζουμε συμβολικά τα ονόματα στις πινακίδες των οδών, σε μια προσπάθεια να τις οικειοποιηθούμε και να καταδείξουμε την καταπίεση που βιώνεται από την κοινωνική εμπειρία του να είσαι γυναίκα ή άτομο που υφίστασαι διακρίσεις λόγω του φύλου ή της σεξουαλικότητάς σου.

      εκτρέπουμε τη ρότα σε μια χώρα γεμάτη δρόμους…

      αφιερωμένους σε -καθιερωμένους στην κοινή συνείδηση ως- “ισχυρούς άνδρες”. Θυμόμαστε γυναίκες που δολοφονήθηκαν λόγω του φύλου τους και άλλες που αντιστάθηκαν στην έμφυλη βία που τους ασκήθηκε. Θυμόμαστε ακόμα, πρόσωπα που θάφτηκαν μέσα στην ιστορία ή δεν μνημονευτήκαν επαρκώς.

      Σε μια κοινωνία που συντηρεί συστηματικά τις έμφυλες διακρίσεις

      ΓΥΝΑΙΚΕΣ ΚΑΚΟΠΟΙΟΥΝΤΑΙ ΚΑΙ ΔΟΛΟΦΟΝΟΥΝΤΑΙ

      από άνδρες συντρόφους, συζύγους, πατεράδες και αφεντικά.

      Μετρώντας τουλάχιστον 17 γυναικοκτονίες μόνο μέσα στο 2021, καθίσταται επίκαιρο και επιτακτικό να μετασχηματίσουμε τις κοινωνικές μας σχέσεις και να εξαλείψουμε κάθε μορφής έμφυλη βία.

      Δεν σιωπούμε μπροστά στις παρενοχλήσεις που βιώνουν οι μανάδες, οι φίλες, οι συναδέλφισσες, οι γειτόνισσες, ΕΜΕΙΣ.
      Σταματάμε να αναπαράγουμε τους έμφυλους ρόλους που καθημερινά μας καταπιέζουν, μας εμποδίζουν να βρούμε τα μεταξύ μας κοινά και διαλύουν τις ζωές μας.

      Με τη δράση αυτή, επιδιώκουμε συμβολικά να καταδείξουμε την καταπίεση που βιώνεται από την κοινωνική εμπειρία του να είσαι γυναίκα ή άτομο που υφίστασαι διακρίσεις λόγω του φύλου ή της σεξουαλικότητάς σου. Ειδικά, όταν η κοινωνική αυτή εμπειρία συνυπάρχει με την υποτίμηση βάσει τάξης, ηλικίας, φυλής ή αναπηρίας οποιασδήποτε μορφής.

      Ο ι δ ρ ό μ ο ι φ τ ι ά χ τ η κ α ν π ρ ο χ ω ρ ώ ν τ α ς

      Είναι διαφορετικοί για εμάς.

      Μάθαμε και τους περπατάμε αλλιώς,

      ξέρουμε τις σκιές τους και τα μάτια μας κοιτάνε πάντα σε αυτές

      και τα κεφάλια μας γυρίζουν πάντα πίσω.

      Τα βήματά μας δεν έχουν την ίδια σιγουριά.

      Τους αλλάζουμε τα ονόματα για να τους οικειοποιηθούμε,

      για να βρούμε και εμάς μέσα σε αυτούς.

      Γ ι α τ ί ο ι δ ρ ό μ ο ι φ τ ι ά χ τ η κ α ν α λ λ ά ζ ο ν τ α ς

      Ο Δ Ο Σ

      ΑΓΝΩΣΤΩΝ ΓΥΝΑΙΚΩΝ
      ΣΟΥΖΑΝ ΙΤΟΝ, ΣΤΟ ΜΑΛΕΜΕ ΧΑΝΙΩΝ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      ΕΠΙΖΗΣΑΣΩΝ ΕΜΦΥΛΗΣ ΒΙΑΣ
      ΓΑΡΥΦΑΛΛΙΑΣ, ΣΤΗ ΦΟΛΕΓΑΝΔΡΟ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      ΕΛΕΝΗΣ ΠΑΠΑΓΙΑΝΝΑΚΗ – « ΗΛΕΚΤΡΑΣ », 17ΧΡΟΝΗ ΧΑΝΙΩΤΙΣΣΑ ΜΑΧΗΤΡΙΑ
      ΣΤΑΥΡΟΥΛΑΣ, ΣΤΟ ΠΑΝΟΡΜΟ ΡΕΘΥΜΝΟΥ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      ΕΙΡΗΝΗΣ ΓΚΙΝΗ ή ΜΙΡΚΑΣ ΓΚΙΝΟΒΑ. ΣΛΑΒΟΜΑΚΕΔΟΝΙΣΣΑ ΔΑΣΚΑΛΑ & ΑΝΤΑΡΤΙΣΣΑ. ΕΚΤΕΛΕΣΤΗΚΕ ΤΟ 1949.
      ΕΛΕΝΗΣ ΤΟΠΑΛΟΥΔΗ, ΣΤΗ ΡΟΔΟ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      ΔΗΜΗΤΡΑΣ ΤΗΣ ΛΕΣΒΟΥ, ΤΡΑΝΣ ΑΤΟΜΟ. ΕΓΚΑΤΑΛΕΙΦΘΗΚΕ ΣΕ ΤΡΟΧΑΙΟ
      ΚΛΕΙΟΥΣ. ΑΤΟΜΟ ΜΕ ΑΝΑΠΗΡΙΑ. ΣΤΟ ΜΑΣΤΑΜΠΑ ΗΡΑΚΛΕΙΟΥ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      ΑΡΓΥΡΩΣ ΠΟΛΥΧΡΟΝΑΚΗ, ΧΑΝΙΩΤΙΣΣΑ ΑΝΤΑΡΤΙΣΣΑ
      ΜΕΤΑΝΑΣΤΡΙΩΝ ΕΡΓΑΤΡΙΩΝ ΓΥΝΑΙΚΩΝ
      ΒΑΣΙΛΙΚΗΣ, ΣΤΑ ΜΕΣΚΛΑ ΧΑΝΙΩΝ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      ΝΕΚΤΑΡΙΑΣ, ΣΤΗΝ ΙΕΡΑΠΕΤΡΑ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      Π.Α 22ΧΡΟΝΗ, ΣΤΗΝ ΚΟΡΙΝΘΟ. Καταδικάστηκε, ενώ βρισκόταν σε αυτοάμυνα απέναντι σε σεξουαλική επίθεση
      ΑΔΑΜΑΝΤΙΑΣ, ΣΤΗ ΝΕΑ ΑΛΙΚΑΡΝΑΣΣΟ ΗΡΑΚΛΕΙΟΥ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      ΚΑΤΕΡΙΝΑΣ, ΣΤΗ ΣΗΤΕΙΑ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      ΑΦΓΑΝΗΣ ΕΓΚΥΟΥ ΠΡΟΣΦΥΓΙΣΣΑΣ, ΣΤΟ ΚΑΡΑ ΤΕΠΕ. Αυτοπυρπολήθηκε διαμαρτυρόμενη για τις συνθήκες κράτησής της.
      ΖΑΚ ΚΩΣΤΟΠΟΥΛΟΥ/ΖΑCKIE ΟΗ. ΑΚΤΙΒΙΣΤΗΣ. ΗΤΑΝ ΔΟΛΟΦΟΝΙΑ
      ΚΑΡΟΛΑΪΝ, ΣΤΑ ΓΛΥΚΑ ΝΕΡΑ, ΗΤΑΝ ΓΥΝΑΙΚΟΚΤΟΝΙΑ
      8ης ΜΑΡΤΙΟΥ 1857, ΑΓΩΝΑΣ ΓΥΝΑΙΚΩΝ ΕΡΓΑΤΡΙΩΝ ΚΛΩΣΤΟΫΦΑΝΤΟΥΡΓΙΑΣ, ΝΕΑ ΥΟΡΚΗ

      Le flyer :

      https://solidaritywithrosanera.wordpress.com/2022/03/05/%ce%b1%ce%bd%cf%84%ce%b1%cf%80%cf%8c%ce%ba%cf%81%c

  • Toponymie, Genève :
    Volte-face au Grand Conseil

    Les parlementaires ont accepté vendredi une #pétition demandant de « cesser d’opposer les hommes et les femmes » pour le baptême des rues.

    (#paywall)

    https://lecourrier.ch/2022/02/27/volte-face-au-grand-conseil
    #toponymie_politique #noms_de_rue #toponymie #toponymie_féministe #féminisme #re-nomination #repabtisation #Suisse #Genève

    –-

    ajouté à ce fil de discussion :
    Les rues genevoises en voie de #féminisation
    https://seenthis.net/messages/787572

  • The slave trader’s statue that divided a city

    Following the murder of George Floyd in 2020, protestors in #Bristol tore down the statue of 17th Century slave trader #Edward_Colston. While some residents of Bristol supported the change, others felt a sentimental attachment to the statue, as Colston’s surname was ’stitched into the city’.

    Statue Wars explores the aftermath of the statue’s removal and how the action thrust the city of Bristol onto the global stage.

    https://www.bbc.com/reel/video/p0bm2slm/the-slave-trader-s-statue-that-divided-a-city

    #statue #esclavage #mémoire #espace_public #décolonial #Colston #toponymie #toponymie_politique

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    via @reka

  • Une citation autour de la toponymie tirée du livre Racée de Rachel Khan :


    « Prenons, par exemple, l’inauguration de la station Rosa-Parks située sur la ligne du RER E, en région Ile-de-France. Pour le choix de ce nom, il y a eu un vote quelque part au sein d’une assemblée. Puis, la préparation d’un discours en hommage à cette figure majeure de la lutte contre la ségrégation raciale aux Etats-Unis. Tout se passe comme si nous n’avions pas de personnalité de ce type dans notre histoire de France. Nous célébrons une femme qui s’est battue pour ne pas être à l’arrière du bus en baptisant de son nom une station où personne n’a envie de descendre. Où est le symbole de la lutte contre la ségrégation si Rosa Parks n’est pas au coeur de Paris ?

    ’C’est une avancée’, m’ont dit les élus. Mais une avancée vers quoi ? Vers qui ?

    Si ce n’est de conforter les haineux victimaires assoiffés d’Amérique »
    (p.76)

    https://www.editions-observatoire.com/content/Rac%C3%A9e

    #toponymie #toponymie_politique #Rosa_Parks #Paris

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