• Un monde formidable

    Le président émirati d’Interpol visé par une plainte en Autriche pour « #torture » | Euronews
    https://fr.euronews.com/2023/11/27/le-president-emirati-dinterpol-vise-par-une-plainte-en-autriche-pour-to

    Une plainte pour « torture » et « détention arbitraire » a été déposée en Autriche contre le président émirati d’Interpol, Ahmed Nasser al-Raisi, attendu à Vienne pour l’assemblée générale de l’organisation internationale de #police, a annoncé l’avocat de deux Britanniques.

  • #Pakistan: detenzioni e deportazioni contro i rifugiati afghani

    In corso un’altra catastrofe umanitaria, molte persone a rischio di persecuzione in Afghanistan

    Dal 1° ottobre quasi 400mila persone afgane, di cui circa 220.000 in queste settimane di novembre, hanno abbandonato il Pakistan, in quella che appare sempre più come una pulizia etnica operata contro una minoranza. I numeri sono quelli forniti da UNHCR 1, dopo che il 17 settembre, il governo pakistano ha annunciato che tutte le persone “irregolari” avrebbero dovuto lasciare volontariamente il Paese entro il 1° novembre, pena la deportazione.
    La maggior parte delle persone rientrate e in Afghanistan sono donne e bambini: 1 bambino su quattro è sotto i cinque anni e oltre il 60% dei minori ha meno di 17 anni 2.

    E’ emerso, ultimamente, che le persone afghane senza documenti che lasciano il Pakistan per andare in altri paesi devono pagare una tassa di 830 dollari (760 euro).

    Amnesty International ha denunciato detenzioni di massa in centri di espulsione e che le persone prive di documenti sono state avviate alla deportazione senza che ai loro familiari fosse fornita alcuna informazione sul luogo in cui sono state portate e sulla data della deportazione. L’Ong ha dichiarato che il governo del Pakistan deve interrompere immediatamente le detenzioni, le deportazioni e le vessazioni diffuse nei confronti delle persone afghane.

    Dall’inizio di ottobre, inoltre, Amnesty ha raccolto informazioni relative agli sgomberi: diversi katchi abadis (insediamenti informali) che ospitano rifugiati afghani sono stati demoliti dalla Capital Development Authority (CDA) di Islamabad, le baracche sono state distrutte con i beni ancora al loro interno.

    In tutto il Pakistan, ha illustrato il governo, sono stati istituiti 49 centri di detenzione (chiamati anche centri di “detenzione” o di “transito”). «Questi centri di deportazione – ha affermato Amnesty – non sono stati costruiti in base a una legge specifica e funzionano parallelamente al sistema legale». L’associazione ha verificato che in almeno 7 centri di detenzione non viene esteso alcun diritto legale ai detenuti, come il diritto a un avvocato o alla comunicazione con i familiari. Sono centri che violano il diritto alla libertà e a un giusto processo. Inoltre, nessuna informazione viene resa pubblica, rendendo difficile per le famiglie rintracciare i propri cari. Amnesty ha confermato il livello di segretezza a tal punto che nessun giornalista ha avuto accesso a questi centri.

    Secondo quanto riporta Save the Children, molte famiglie deportate in Afghanistan non hanno un posto dove vivere, né soldi per il cibo, e sono ospitate in rifugi di fortuna, in una situazione disperata e in continuo peggioramento. Molte persone accusano gravi infezioni respiratorie, probabilmente dovute alla prolungata esposizione alle tempeste di polvere, ai centri chiusi e fumosi, al contagio dovuto alla vicinanza di altre persone malate e al freddo estremo, dato che molte famiglie hanno viaggiato verso l’Afghanistan in camion aperti e sovraffollati. Sono, inoltre, ad altissimo rischio di contrarre gravi malattie, che si stanno diffondendo rapidamente, tra cui la dissenteria acuta, altamente contagiosa e pericolosa.

    Una catastrofe umanitaria

    «Migliaia di rifugiati afghani vengono usati come pedine politiche per essere rispediti nell’Afghanistan controllato dai talebani, dove la loro vita e la loro integrità fisica potrebbero essere a rischio, nel contesto di una intensificata repressione dei diritti umani e di una catastrofe umanitaria in corso. Nessuno dovrebbe essere sottoposto a deportazioni forzate di massa e il Pakistan farebbe bene a ricordare i suoi obblighi legali internazionali, compreso il principio di non respingimento», ha dichiarato Livia Saccardi, vice direttrice regionale di Amnesty International per l’Asia meridionale.

    Il valico di frontiera di Torkham con l’Afghanistan è diventato un grande campo profughi a cielo aperto e le condizioni sono drammatiche. Le organizzazioni umanitarie presenti in loco per fornire assistenza hanno raccolto diverse testimonianze. «La folla a Torkham è opprimente, non è un luogo per bambini e donne. Di notte fa freddo e i bambini non hanno vestiti caldi. Ci sono anche pochi servizi igienici e l’acqua potabile è scarsa. Abbiamo bisogno di almeno un rifugio adeguato», ha raccontato una ragazza di 20 anni.

    «Le condizioni di salute dei bambini non sono buone, la maggior parte ha dolori allo stomaco. A causa della mancanza di acqua pulita e di strutture igieniche adeguate, non possono lavarsi le mani in modo corretto. Non ci sono servizi igienici puliti e questi bambini non ricevono pasti regolari e adeguati» ha dichiarato una dottoressa di Save the Children. «Se rimarranno qui per un periodo più lungo o se la situazione persisterà e il clima diventerà più freddo, ci saranno molti rischi per la salute dei bambini. Di notte la temperatura scende parecchio ed è difficile garantire il benessere dei più piccoli all’interno delle tende. Questo può influire negativamente sulla salute del bambino e della madre. È urgente distribuire vestiti caldi ai bambini e beni necessari, come assorbenti e biancheria intima per le giovani donne e altri articoli essenziali per ridurre i rischi per la salute di donne e bambini».

    «Il Pakistan deve adempiere agli obblighi previsti dalla legge internazionale sui diritti umani per garantire la sicurezza e il benessere dei rifugiati afghani all’interno dei suoi confini e fermare immediatamente le deportazioni per evitare un’ulteriore escalation di questa crisi. Il governo, insieme all’UNHCR, deve accelerare la registrazione dei richiedenti che cercano rifugio in Pakistan, in particolare le donne e le ragazze, i giornalisti e coloro che appartengono a comunità etniche e minoritarie, poiché corrono rischi maggiori. Se il governo pakistano non interrompe immediatamente le deportazioni, negherà a migliaia di afghani a rischio, soprattutto donne e ragazze, l’accesso alla sicurezza, all’istruzione e ai mezzi di sussistenza», ha affermato Livia Saccardi.

    Come si vive nell’Afghanistan con i talebani al potere lo denuncia CISDA, il Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane, che ha pubblicato un dossier “I diritti negati delle donne afghane” che racconta la vita quotidiana delle donne afghane e ripercorre la storia del Paese fino ai giorni nostri.

    «L’Afghanistan è un Paese allo stremo, stretto nella morsa dei talebani e alla mercé degli interessi geopolitici ed economici di diversi paesi. Se per tutta la popolazione afghana vivere è una sfida quotidiana, per le donne è un’impresa impervia», ha scritto CISDA che con questa pubblicazione ha voluto ripercorre le tappe principali della storia afghana, cercando di capire chi sono i talebani di oggi e realizzando approfondimenti tematici per comprendere qual è la situazione attuale del paese. E soprattutto ha voluto dar voce alle donne afghane raccogliendo le loro storie.

    https://www.meltingpot.org/2023/11/pakistan-detenzioni-e-deportazioni-contro-i-rifugiati-afghani
    #réfugiés_afghans #déportations #renvois #asile #migrations #réfugiés #Torkham #camps_de_réfugiés #centres_d'expulsion #détention_de_masse #rétention #détention #katchi_abadis #Capital_Development_Authority (#CDA)

  • Crimes sexuels de guerre : une histoire de la #violence

    Israël a récemment annoncé l’ouverture d’une enquête sur de possibles #crimes_sexuels commis par le #Hamas. Le viol comme arme de guerre est aussi mis en avant dans le cadre de la guerre en Ukraine. L’invasion russe peut-elle servir de modèle pour comprendre les mécanismes de ces #violences ?

    Avec

    - #Sofi_Oksanen Écrivaine
    - #Céline_Bardet Juriste et enquêtrice criminelle internationale, fondatrice et directrice de l’ONG « We are Not Weapons of War »

    Israël a récemment ouvert une enquête sur d’éventuels crimes sexuels perpétrés par le Hamas. Parallèlement, l’utilisation du viol comme arme de guerre a été évoquée dans le contexte du conflit en Ukraine. Peut-on utiliser l’invasion russe comme un modèle pour comprendre les mécanismes de ces violences ?
    Le viol, arme de guerre traditionnelle des Russes ?

    Par son histoire familiale et ses origines estoniennes, l’écrivaine finlandaise Sofi Oksanen a vécu entre l’URSS et la Finlande et a grandi avec des récits de guerre lors de l’occupation soviétique des États baltes. Ces thèmes sont aujourd’hui centraux dans ses écrits. Selon elle, « dans la stratégie de guerre russe, il y a toujours eu des violences sexuelles. L’invasion en Ukraine est une sinistre répétition de la guerre telle que l’ont toujours menée des Russes. Et pourquoi n’ont-ils jamais cessé ? Car on ne leur a jamais demandé de le faire. »

    Les crimes sexuels font partie intégrante de la manière dont les Russes font la guerre. Elle déclare même dans son dernier ouvrage La guerre de Poutine contre les femmes que des soldats russes demandent la permission à leur famille pour commettre des viols : « ils sont adoubés et encouragés à commettre des crimes sexuels et des pillages. » Céline Bardet, juriste et enquêtrice internationale, insiste-t-elle sur la nécessité de documenter et de punir ces féminicides pour ce qu’ils sont. Elle dresse un parallèle avec la guerre en Syrie : « les femmes se déplaçaient par peur d’être violées. Quand on viole des hommes, on veut aussi les féminiser et les réduire à néant. »

    Comment mener une enquête sur les violences sexuelles en temps de guerre ?

    « J’ai créé depuis longtemps un site qui publie des rapports sur la situation. J’ai voulu écrire ces livres, car je voulais rendre accessible, faire comme une sorte de guide pour permettre de comprendre les crimes de guerre et comment les documenter. Sur les sites, il est difficile de relier les point entre eux pour comprendre la manière dont la Russie mène ses guerres. Elle conquiert et s’étend de la même manière. Il faut reconnaître ce schéma pour mieux le combattre. », explique Sofi Oksanen.

    Une opération hybride se déroule actuellement à la frontière entre la Finlande et la Russie : « la Russie nous envoie des réfugiés à la frontière. Cela s’était déjà produit en 2015, en Biélorussie également. Loukachenko a beaucoup recouru à ce moyen de pression. La Finlande a alors fermé sa frontière ». La Russie est également accusée de déportation d’enfants en Ukraine : « ces violences sont documentées. Concernant l’acte d’accusation émis par la CPI, beaucoup de gens en Ukraine y travaillent, mais avec des zones occupées, le travail de la justice prend plus de temps », déclare Céline Bardet.

    Concernant les violences effectuées contre des femmes par le Hamas le 7 octobre, Céline Bardet émet néanmoins des réserves sur la potentielle qualification de « féminicide de masse » : « les éléments ne sont pas suffisants pour parler de féminicide de masse. Pour le considérer ainsi, il faut prouver une intention particulière de commettre des violences contre des femmes, car elles sont des femmes. Pour le moment, le féminicide n’est d’ailleurs pas une définition pour le droit international ».

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/france-culture-va-plus-loin-l-invite-e-des-matins/crimes-sexuels-de-guerre-une-histoire-de-la-violence-3840815
    #crimes_sexuels #viols_comme_arme_de_guerre #viols #guerre #viol_de_guerre #Bosnie #Bosnie-Herzégovine #Rwanda #génocide #outil_génocidaire #Libye #hommes #Ukraine #humiliation #pouvoir #armée_russe #torture #impunité #patriarcat #déshumanisation #nettoyage_ethnique #violence_de_masse #violences_sexuelles_dans_la_guerre #systématisation #féminicide #féminicides_de_masse #intentionnalité

    #podcast #audio

    Citations :
    Sofi Oksanen (min 30’54) : « Ce qui m’a poussée à écrire ce livre c’est que, vous savez, les #procès, ça coûte très cher, et ce qui m’inquiète c’est que certains crimes sexuels vont être marginalisés et ne sont pas jugés comme ils le devraient. Ils ne vont pas être jugés comme étant des crimes assez importants pour faire l’objet de poursuites particulières. Or, si on ne les juge pas, ces crimes, l’avenir des femmes et des enfants ne sera qu’assombri ».
    Céline Bardet (min 32’08) : « La justice c’est quoi ? C’est la poursuite au pénal, mais c’est aussi de parler de ces crimes, c’est aussi de donner la parole à ces survivantes et ces survivants si ils et elles veulent la prendre. C’est documenter ça et c’est mémoriser tout cela. Il faut qu’on sache ce qui se passe, il faut qu’on parle pour qu’en tant que société on comprenne l’origine de ces violences et qu’on essaie de mieux les prévenir. Tout ça se sont des éléments qui font partie de la justice. La justice ce n’est pas que un tribunal pénal qui poursuit quelqu’un. C’est énormément d’autres choses. »
    Sofi Oksanen (min 33’00) : « Je suis complètement d’accord avec Céline, il faut élargir la vision qu’on a de la justice. C’est bien d’en parler à la radio, d’en parler partout. Il faudrait peut-être organiser des journées de commémoration ou ériger un #monument même si certaines personnes trouveraient bizarre d’avoir un monument de #commémoration pour les victimes des violences sexuelles. »

    ping @_kg_

    • Deux fois dans le même fleuve. La guerre de Poutine contre les femmes
      de #Sofi_Oksanen

      Le 22 mars 2023, l’Académie suédoise a organisé une conférence sur les facteurs menaçant la liberté d’expression et la démocratie. Les intervenants étaient entre autres Arundhati Roy, Timothy Snyder et Sofi Oksanen, dont le discours s’intitulait La guerre de Poutine contre les femmes.
      Ce discours a suscité un si grand intérêt dans le public que Sofi Oksanen a décidé de publier un essai sur ce sujet, pour approfondir son analyse tout en abordant d’autres thèmes.
      L’idée dévelopée par Sofi Oksanen est la suivante : la Russie ressort sa vieille feuille de route en Ukraine – comme l’impératrice Catherine la Grande en Crimée en 1783, et comme l’URSS et Staline par la suite, à plus grand échelle et en versant encore plus de sang. La Russie n’a jamais tourné le dos à son passé impérialiste. Au contraire, le Kremlin s’est efforcé de diaboliser ses adversaires, s’appuyant ensuite sur cette propagande pour utiliser la violence sexuelle dans le cadre de la guerre et pour déshumaniser les victimes de crimes contre les droits de l’homme. Dans la Russie de Poutine, l’égalité est en déclin. La Russie réduit les femmes au silence, utilise le viol comme une arme et humilie ses victimes dans les médias en les menaçant publiquement de représailles.
      Un essai coup de poing par l’une des grandes autrices européennes contemporaines.

      https://www.editions-stock.fr/livre/deux-fois-dans-le-meme-fleuve-9782234096455
      #livre #Russie #femmes

    • #We_are_NOT_Weapons_of_War

      We are NOT Weapons of War (#WWoW) est une organisation non-gouvernementale française, enregistrée sous le statut Loi 1901. Basée à Paris, elle se consacre à la lutte contre les violences sexuelles liées aux conflits au niveau mondial. Fondée en 2014 par la juriste internationale Céline Bardet, WWoW propose une réponse globale, holistique et efficace à l’usage endémique du viol dans les environnements fragiles via des approches juridiques innovantes et créatives. WWoW travaille depuis plus de 5 ans à un plaidoyer mondial autour des violences sexuelles liées aux conflits et des crimes internationaux.

      L’ONG française We are NOT Weapons of War développe depuis plusieurs années la web-application BackUp, à vocation mondiale. BackUp est un outil de signalement et d’identification des victimes et de collecte, sauvegarde et analyse d’informations concernant les violences sexuelles perpétrées dans le cadre des conflits armés. Il donne une voix aux victimes, et contribue au recueil d’informations pouvant constituer des éléments de preuves légales.

      https://www.notaweaponofwar.org

      #justice #justice_pénale

  • Los estibadores de Barcelona deciden “no permitir la actividad” de barcos que envíen armas a Palestina e Israel

    Los estibadores del puerto de Barcelona han decidido “no permitir la actividad de barcos que contengan material bélico”. Así lo han explicado en un comunicado que se ha hecho público tras una asamblea del comité de empresa.

    La Organización de #Estibadores_Portuarios_de_Barcelona (#OEPB), el sindicato mayoritario entre los 1.200 estibadores barceloneses, apunta que han tomado esta decisión para “proteger a la población civil, sea del territorio que sea”.

    Con todo, los trabajadores aseguran un “rechazo absoluto a cualquier forma de violencia” y ven como una “obligación y un compromiso” defender “con vehemencia” la Declaración Universal de los Derechos Humanos. Unos derechos, dicen, que están siendo “violados” en Ucrania, Israel o en el territorio palestino.

    De esta manera, los trabajadores se comprometen a no cargar, descargar ni facilitar las tareas de cualquier buque que contenga armas. Ahora bien, los estibadores no tienen “capacidad para saber de facto que hay en los contenedores”, han afirmado a este diario.

    Los trabajadores se ponen en manos de ONG y entidades de ayuda humanitaria que sí puedan tener conocimiento sobre envíos de armas desde el puerto barcelonés. En esta línea, recuerdan el boicot que ya llevaron a cabo en 2011 en el marco de la guerra de Libia, durante la cual colaboraron con diversas entidades para entorpecer el envío de material bélico y, a su vez, se facilitó el envió de agua y alimentos.

    A pesar de que el Gobierno ha asegurado que no prevé exportar a Israel armas letales que se puedan usar en Gaza, los estibadores son conscientes de que, sólo en 2023, España ha comprado material militar a Israel por valor de 300 millones de euros, unido a otros 700 millones comprometidos en adquisición de armamento para los próximos años.

    Los trabajadores insisten en que con este comunicado no se están posicionado políticamente en el conflicto, simplemente abogan por el alto al fuego y la distribución de ayuda humanitaria. “No es un comunicado político, sólo queremos que se agoten todas las vías de diálogo antes de usar la violencia”.

    Este argumento fue el mismo que estos trabajadores portuarios usaron para negarse a dar servicio a los cruceros en los que la Policía Nacional se alojó durante los días previos al 1 de Octubre. En aquella ocasión también aseguraron que tomaban la decisión “en defensa de los derechos civiles”.

    Con este gesto, los estibadores se suman a otros colectivos de trabajadores portuarios, como los belgas, que también han anunciado que no permitirán el envío de material militar a Israel o Palestina. La del boicot es una estrategia que no es nueva: estibadores de diversos lugares del mundo ya la han llevado a cabo en momentos crudos del conflicto durante los últimos años. Por ejemplo durante el conflicto en la Franja de Gaza de 2008 y 2009, estibadores de Italia, Sudáfrica y Estados Unidos ya se negaron a a manipular cargamentos provenientes de Israel.

    https://www.eldiario.es/catalunya/estibadores-barcelona-deciden-no-permitir-actividad-barcos-envien-armas-pal
    #Barcelone #résistance #armes #armement #Israël #Palestine

    • Espagne : les #dockers du #port de Barcelone refusent de charger les #navires transportant des armes à destination d’Israël

      - « Aucune cause ne justifie la mort de civils », déclare le syndicat des dockers OEPB dans un #communiqué

      Les dockers du port espagnol de Barcelone ont annoncé qu’ils refuseraient de charger ou de décharger des navires transportant des armes à destination d’Israël, à la lumière des attaques de ce pays contre Gaza.

      « En tant que collectif de travailleurs, nous avons l’obligation et l’engagement de respecter et de défendre avec véhémence la Déclaration universelle des droits de l’homme », a déclaré l’OEPB, le seul syndicat représentant quelque 1 200 dockers du port, dans un communiqué.

      « C’est pourquoi nous avons décidé en assemblée de ne pas autoriser les navires contenant du matériel de guerre à opérer dans notre port, dans le seul but de protéger toute population civile », a ajouté le communiqué, notant qu’"aucune cause ne justifie la mort de civils".

      L’OEPB appelle à un cessez-le-feu immédiat et à un règlement pacifique des conflits en cours dans le monde, et notamment du conflit israélo-palestinien.

      Les Nations unies devraient abandonner leur position de complicité, due à l’inaction ou à leur renoncement dans l’exercice de leurs fonctions, a ajouté le communiqué.

      Israël mène, depuis un mois, une offensive aérienne et terrestre contre la Bande de Gaza, à la suite de l’attaque transfrontalière menée par le mouvement de résistance palestinien Hamas le 7 octobre dernier.

      Le ministère palestinien de la Santé a déclaré, mardi, que le bilan des victimes de l’intensification des attaques israéliennes sur la Bande de Gaza depuis le 7 octobre s’élevait à 10 328 morts.

      Quelque 4 237 enfants et 2 719 femmes figurent parmi les victimes de l’agression israélienne, a précisé le porte-parole du ministère, Ashraf al-Qudra, lors d’une conférence de presse.

      Plus de 25 956 autres personnes ont été blessées à la suite des attaques des forces israéliennes sur Gaza, a-t-il ajouté.

      Le nombre de morts israéliens s’élève quant à lui à près de 1 600, selon les chiffres officiels.

      Outre le grand nombre de victimes et les déplacements massifs, les approvisionnements en produits essentiels viennent à manquer pour les 2,3 millions d’habitants de la Bande de Gaza, en raison du siège israélien, qui s’ajoute au blocus imposé par Israël à l’enclave côtière palestinienne.

      https://www.aa.com.tr/fr/monde/espagne-les-dockers-du-port-de-barcelone-refusent-de-charger-les-navires-transportant-des-armes-%C3%A0-destination-disra%C3%ABl/3046909

    • #Genova, Barcellona, #Sidney. I lavoratori portuali si rifiutano di caricare le navi con le armi per Israele

      Diverse organizzazioni di lavoratori portuali hanno indetto mobilitazioni e iniziative per protestare contro i bombardamenti della striscia di #Gaza. Venerdì prossimo a Genova si svolgerà il presidio indetto dai portuali del capoluogo ligure. La mobilitazione raccoglie l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. I lavoratori dello scalo genovese si rifiutano di gestire l’imbarco di carichi di armi diretti in Israele (e non solo). Un’iniziativa simile è in atto nel porto di Sidney, in Australia, dove si protesta contro l’attracco di una nave della compagnia israeliana #Zim. All’appello dei colleghi palestinesi hanno aderito ieri anche i lavoratori dello scalo di Barcellona, annunciando che impediranno “le attività delle navi che portano materiale bellico”. Come lavoratori, si legge nel comunicato degli spagnoli, “difendiamo con veemenza la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo“, aggiungendo che “nessuna causa giustifica il sacrificio dei civili”. In Belgio a rifiutarsi di caricare armi sono da alcune settimane gli addetti aeroportuali che nel comunicato spiegano “caricare e scaricare ordigni bellici contribuisce all’uccisione di innocenti“. Solidarietà con i lavoratori palestinesi è arrivata inoltre dal sindacato francese Cgt, così come è molto attivo il coordinamento dei sindacati greci #Pame.

      Negli Stati Uniti, nei pressi di Seattle, sono invece stati un centinaio di attivisti a bloccare il porto di #Tacoma, mossi dal sospetto che la #Cape_Orlando, nave statunitense alla fonda, trasportasse munizioni ed armamenti per Israele. La nave era già stata fermata alcuni giorni prima nello scalo di #Oakland, nella baia di San Francisco. Iniziative di questo genere si stanno moltiplicando. Nei giorni scorsi gli attivisti avevano bloccato tutte le entrate di un impianto della statunitense #Boeing destinato alla fabbricazione di armamenti nei pressi di St Louis. Manifestazioni si sono svolte alla sede londinese di #Leonardo, gruppo italiano che ad Israele fornisce gli elicotteri Apache. Il 26 ottobre scorso un centinaio di persone avevano invece bloccato l’accesso alla filiale britannica dell’azienda di armi israeliana #Elbit_Systems.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/11/07/genova-barcellona-sidney-i-lavoratori-portuali-si-rifiutano-di-caricare-le-navi-con-le-armi-per-israele/7345757
      #Gênes

    • La logistica di guerra

      Venerdì 10 novembre i lavoratori del porto di Genova hanno lanciato un blocco della logistica di guerra. I porti sono uno snodo fondamentale della circolazione delle armi impiegate in ogni dove.
      A Genova è stato osservato un carico di pannelli per pagode militari che verrà destinato ad una delle navi della compagnia saudita Bahri.
      Dal terminal dei traghetti nelle scorse settimane sono stati caricati camion militari dell’Iveco destinati alla Tunisia, con ogni probabilità destinati alla repressione dei migranti.
      Le organizzazioni operaie palestinesi hanno fatto appello alla solidarietà internazionalista, alla lotta degli sfruttati contro tutti i padroni a partire da quelli direttamente coinvolti nel conflitto.
      Nel porto di Genova opera una compagnia merci, l’israeliana ZIM, che il 10 novembre gli antimilitaristi puntano a bloccare.
      Inceppare il meccanismo è un obiettivo concreto che salda l’opposizione alla guerra con la lotta alla produzione e circolazione delle armi.
      L’appuntamento per il presidio/picchetto è alle 6 del mattino al varco San Benigno.
      Ne abbiamo parlato con Christian, un lavoratore del porto dell’assemblea contro la guerra e la repressione.

      https://www.rivoluzioneanarchica.it/genova-fermare-la-logistica-di-guerra
      #logistique

    • Porti bloccati contro l’invio di armi a Israele

      Genova, Barcellona, #Oackland, #Tacoma, Sidney. I lavoratori portuali si rifiutano di caricare le navi con le armi per Israele

      L’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele” è stato raccolto dai sindacati in diversi paesi.

      Diverse organizzazioni di lavoratori portuali hanno indetto mobilitazioni e iniziative per protestare contro i bombardamenti della striscia di Gaza. Venerdì prossimo a Genova si svolgerà il presidio indetto dai portuali del capoluogo ligure. La mobilitazione raccoglie l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. I lavoratori dello scalo genovese si rifiutano di gestire l’imbarco di carichi di armi diretti in Israele (e non solo).

      “Mentre da quasi due anni in Ucraina si combatte una guerra fra blocchi di paesi capitalisti, mentre lo stato d’Israele massacra i palestinesi, mentre la guerra nucleare è dietro l’angolo, il Porto di Genova continua a caratterizzarsi come snodo della logistica di guerra: imbarchi di camion militari diretti alla Tunisia per il contrasto dei flussi migratori, passaggio di navi della ZIM, principale compagnia navale israeliana, nuovi materiali militari per l’aeronautica Saudita pronti per la prossima Bahri. Questo è quello che sta dietro ai varchi del porto di Genova. Basta traffici di armi in porto. Solidarietà internazionalista agli oppressi/e palestinesi. Il nemico è in casa nostra. Guerra alla Guerra” si legge nel comunicato che invita alla partecipazione.

      Anche i lavoratori del porto australiano di Sidney, stanno protestando contro l’attracco di una nave della compagnia israeliana Zim. All’appello dei sindacati palestinesi. E’ di ieri la dichiarazione della Organización de Estibadores Portuarios di Barcellona (OEPB) i cui aderenti si rifiuteranno di caricare armi destinate al conflitto israelo-palestinese dal porto catalano. E’ la risposta all’appello lanciato dai sindacati palestinesi per fermare «i crimini di guerra di Israele» sin dall’inizio dell’invasione di Gaza

      In Belgio già da alcune settimane a rifiutarsi di caricare armi sono i lavoratori aeroportuali che nel comunicato spiegano “caricare e scaricare ordigni bellici contribuisce all’uccisione di innocenti“. Solidarietà con i lavoratori palestinesi è arrivata inoltre dal sindacato francese Cgt, così dal sindacato greco Pame che il 2 novembre ha bloccato l’aeroporto di Atene per protesta contro i bombardamenti israeliani.

      Negli Stati Uniti, nei pressi di Seattle, sono invece stati un centinaio di attivisti a bloccare il porto di Tacoma, mossi dal sospetto che la Cape Orlando, nave statunitense alla fonda, trasportasse munizioni ed armamenti per Israele. La nave era già stata fermata alcuni giorni prima nello scalo di Oakland, nella baia di San Francisco. Iniziative di questo genere si stanno moltiplicando. Nei giorni scorsi gli attivisti avevano bloccato tutte le entrate di un impianto della statunitense Boeing destinato alla fabbricazione di armamenti nei pressi di St Louis.

      Manifestazioni si sono svolte alla sede londinese di Leonardo, gruppo italiano che ad Israele fornisce gli elicotteri Apache. Il 26 ottobre scorso un centinaio di persone avevano invece bloccato l’accesso alla filiale britannica dell’azienda di armi israeliana Elbit Systems.

      Di fronte al genocidio dei palestinesi in corso a Gaza, in tutto il mondo sta montando un’ondata di indignazione che chiede il boicottaggio degli apparati militari ed economici di Israele, con un movimento che somiglia molto a quello che portò alla fine del regime di apartheid in Sudafrica.

      A livello internazionale da anni è attiva in tal senso la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) verso Israele che le autorità di Tel Aviv temono moltissimo e contro cui hanno creato un apposito dipartimento, lanciando una contro campagna di criminalizzazione del Bds in vari paesi europei e negli USA. Un tentativo evidentemente destinato a fallire.

      https://www.osservatoriorepressione.info/porti-bloccati-linvio-armi-israele

    • Genova: In centinaia bloccano il porto contro l’invio di armi a Israele

      E’ iniziato all’alba, presso il porto di Genova, il presidio per impedire il passaggio della nave della #ZIM, carica di armamenti e diretta a Israele.

      Dal varco San Benigno già centinaia le persone solidali con il popolo palestinese, tra lavoratori del porto, studenti, cittadini e realtà che vanno dal sindacalismo di base alle associazioni pacifiste e che si sono ritrovati questa mattina uniti sotto gli slogan “la guerra comincia da qui” “fermiamo le navi della morte”. Oltre al varco della ZIM bloccato anche il varco dei traghetti.

      Oltre al varco della ZIM, la principale compagnia logistica di Israele, è stato bloccato anche il varco dei traghetti.

      Il cielo di Genova si è anche illuminato di rosso (clicca qui per il video: https://www.facebook.com/watch/?v=348645561154990) con una serie di torce, a simulare quello che, tutti i giorni, accade a Gaza con l’occupazione militare israeliana: “i popoli in rivolta – dicono camalli e solidali – scrivono la storia”.

      «Sono cinque anni che facciano una serie di blocchi, scioperi, presidi, azioni anche con la comunità europea per contrastare i traffici. Principalmente contro la compagnia Bahri. Nel 2019 siamo riusciti a evitare che una nave dell’azienda saudita caricasse dal porto di Genova armi che sarebbero state utilizzate in Yemen», spiega Josè Nivoi, sindacalista dell’Usb dopo essere stato per 16 anni un lavoratore del porto: «Nella nostra chat abbiamo condiviso anche un piccolo manuale, scritto insieme all’osservatorio Weapon Watch, su come identificare i container che contengono armi. Perché ci sono degli obblighi internazionali, ad esempio, che costringono le compagnie ad applicare una serie di adesivi utili per quando i vigili del fuoco devono intervenire in caso di incendio. Che rendono riconoscibili i carichi. Mentre in altre navi le armi sono facilmente individuabili, visibili ad occhio nudo».

      Nel 2021 il Collettivo autonomo dei lavoratori portuali di Genova, insieme quelli di Napoli e Livorno ha anche cercato di bloccare una nave israeliana che stava trasportando missili italiani a Tel Aviv: «Non siamo riusciti a fermarla perché abbiamo saputo troppo tardi, dalle carte d’imbarco, che cosa trasportava. Ma da quel momento sono iniziate le nostre operazioni in solidarietà con il popolo palestinese. E abbiamo deciso di accogliere l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. Rifiutando di gestire l’imbarco di carichi di armi. Non vogliamo essere complici della guerra».
      A convocare l’iniziativa l’Assemblea contro la guerra e la repressione. “Mentre da quasi due anni in Ucraina si combatte una guerra fra blocchi di paesi capitalisti, mentre lo stato d’Israele massacra i palestinesi, mentre la guerra nucleare è dietro l’angolo, il Porto di Genova continua a caratterizzarsi come snodo della logistica di guerra: imbarchi di camion militari diretti alla Tunisia per il contrasto dei flussi migratori, passaggio di navi della ZIM, principale compagnia navale israeliana, nuovi materiali militari per l’aeronautica Saudita pronti per la prossima Bahri. Questo è quello che sta dietro ai varchi del porto di Genova. Basta traffici di armi in porto. Solidarietà internazionalista agli oppressi/e palestinesi. Il nemico è in casa nostra. Guerra alla Guerra” si legge nel comunicato che invitava alla partecipazione.
      L’iniziativa di oggi raccoglie l’invito dei sindacati palestinesi, che nei giorni scorsi avevano diffuso un appello nel quale chiedono ai lavoratori delle industrie coinvolte di rifiutarsi di costruire armi destinate ad Israele, di rifiutarsi di trasportare armi ad Israele, di passare mozioni e risoluzioni al proprio interno volte a questi obiettivi, di agire contro le aziende complicitamente coinvolte nell’implementare il brutale ed illegale assedio messo in atto da Israele, in particolare se hanno contratti con la vostra istituzione, di mettere pressione sui governi per fermare tutti i commerci militari ed in armi con Israele, e nel caso degli Stati Uniti, per interrompere il proprio sostegno economico diretto.a lottare e a opporci con tutta la nostra forza a questa guerra, boicottandola praticamente con i mezzi che abbiamo a disposizione e quindi chiediamo a tutte e tutti di partecipare al presidio.

      Il collegamento dal porto di Genova con Rosangela della redazione di Radio Onda d’Urto e le interviste ai manifestanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Rosangela-da-Genova.mp3

      Le interviste ai partecipanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/interviste-Rosangela-due.mp3



      Il blocco del molo è poi diventato corteo fino alla sede della compagnia israeliana ZIM dove si è verificato un fitto lancio di uova piene di vernice rossa. La cronaca di Rosangela della Redazione di Radio Onda d’Urto: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Rosi-da-sede-Zim-Genova.mp3

      Ancora interviste ai partecipanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/interviste-Rosangela-tre.mp3

      Corrispondenza conclusiva con un bilancio dell’iniziativa di Riccardo del Collettivo autonomo lavoratori portuali: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Corrispondenza-conclusiva-di-Riccardo-Calp-Genova.mp3

      https://www.osservatoriorepressione.info/genova-centinaia-bloccano-porto-linvio-armi-israele
      #camalli

    • Shutting Down the Port of Tacoma

      Since October 7, the Israeli military has killed over 10,000 people in Palestine, almost half of whom were children. In response, people around the world have mobilized in solidarity. Many are seeking ways to proceed from demanding a ceasefire to using direct action to hinder the United States government from channeling arms to Israel. Despite the cold weather on Monday, November 6, several hundred people showed up at the Port of Tacoma in Washington State to block access to a shipping vessel that was scheduled to deliver equipment to the Israeli military.

      In the following text, participants review the history of port blockades in the Puget Sound, share their experience at the protest, and seek to offer inspiration for continued transoceanic solidarity.
      Escalating Resistance

      On Thursday, November 2, demonstrators protesting the bombing and invasion of Gaza blocked a freeway in Durham, North Carolina and shut down 30th Street Station in Philadelphia. Early on Friday, November 3, at the Port of Oakland in California, demonstrators managed to board the United States Ready Reserve Fleet’s MV Cape Orlando, which was scheduled to depart for Tacoma to pick up military equipment bound for Israel. The Cape Orlando is owned by the Department of Transportation, directed by the Department of Defense, and managed and crewed by commercial mariners. After an hours-long standoff, the Coast Guard finally managed to get the protesters off the boat.

      Afterwards, word spread that there would be another protest when the boat arrived in Tacoma. The event was announced by a coalition of national organizations and their local chapters: Falastiniyat (a Palestinian diaspora feminist collective), Samidoun (a national Palestinian prisoner support network), and the Arab Resource & Organizing Center, which had also participated in organizing the protest in Oakland.

      The mobilization in Tacoma was originally scheduled for 2:30 pm on Sunday, November 5, but the organizers changed the time due to updated information about the ship’s arrival, calling for people to show up at 5 am on Monday. Despite fears that the last-minute change would undercut momentum, several hundred demonstrators turned out that morning. The blockade itself consisted of a continual picket at multiple points, bolstered by quite a few drivers who were willing to risk the authorities impounding their cars.

      All of the workers that the ILWU deployed for the day shift were blocked from loading the ship. Stopping the port workers from loading it was widely understood as the goal of the blockade; unfortunately, however, this did not prevent the military cargo from reaching the ship. Acting as scabs, the United States military stepped in to load it, apparently having been snuck into the port on Coast Guard vessels.

      Now that the fog of war is lifting, we can review the events of the day in detail.

      Drawing on Decades of Port Blockades

      The Pacific Northwest has a long history of port shutdowns.

      In 1984, port workers in the International Longshore and Warehouse Union (ILWU) coordinated with anti-Apartheid activists and refused to unload cargo ships from South Africa. Between 2006 and 2009, the Port Militarization Resistance movement repeatedly blockaded the ports of Olympia and Tacoma to protest against the occupation of Iraq and Afghanistan. In 2011 and 2012, participants in Occupy/Decolonize Seattle organized in solidarity with port workers in the ILWU in Longview and shut down the Port of Seattle, among other ports.

      In 2014, demonstrators blockaded the Port of Tacoma using the slogan Block the Boat, singing “Our ports will be blocked to Israel’s ships until Gaza’s ports are free.” One of the participants was the mother of Rachel Corrie, a student who was murdered in Gaza by the Israeli military in 2002 while attempting to prevent them from demolishing the homes of Palestinian families. In 2015, an activist chained herself to a support ship for Royal Dutch Shell’s exploratory oil drilling plans, using the slogan Shell No. In 2021, Block the Boat protesters delayed the unloading of the Israeli-operated ZIM San Diego ship for weeks. The Arab Resource & Organizing Center played a part in organizing the Block the Boat protests.

      Today, the Port of Tacoma appears to be the preferred loading point for military equipment in the region—perhaps because the Port Militarization Resistance successfully shut down logistics at the Port of Olympia, while Tacoma police were able to use enough violent force to keep the Port of Tacoma open for military shipments to Iraq and Afghanistan. The various port blockades fostered years of organizing between ILWU workers, marginalized migrant truck workers, environmentalists, and anti-war activists. New tactics of kayaktivism emerged out of anti-extractivism struggles in Seattle, where seafaring affinity groups were able to outmaneuver both the Coast Guard and the environmental nonprofit organizations that wanted to keep things symbolic. On one occasion, a kayaking group managed to run a Shell vessel aground without being apprehended. Some participants brought reinforced banners to the demonstration on Monday, November 6, 2023, because they remembered how police used force to clear away less-equipped demonstrators during the “Block the Boat” picket at the Port of Seattle in 2021.

      Over the years, these port blockades have inspired other innovations in the genre. In November 2017, demonstrators blockaded the railroad tracks that pass through Olympia.1 At a time when Indigenous water protector and land defense struggles were escalating and locals wanted to act in solidarity, blockading the port seemed prohibitively challenging, so they chose a section of railroad tracks via which fracking proppants were sent to the port. This occupation was arguably more defensible and effective than a port blockade would have been, lasting well over a week. It may indicate a future field for experimentation.
      Gathering at the Port

      The Port of Tacoma and the nearby ICE detention center are located in an industrial area that also houses a police academy. They are only accessible through narrow choke points; in the past, police have taken advantage of these to target and harass protesters. The preceding action at the Port of Oakland took place in a more urban terrain; as protesters prepared for the ship to dock in Tacoma, concerns grew about the various possibilities for repression. Veterans of the Port Militarization Resistance and other logistically-minded individuals compiled lists of considerations to take into account when carrying out an action at this particular port.

      On Monday morning, people showed up with positive energy and reinforced banners. Hundreds of people coordinated to bring in supplies and additional waves of picketers. The plan was to establish a picket line at every of the three entrances into Pier 7. As it turned out, the police preemptively blocked the entrances, sitting in their vehicles behind the Port fence. Demonstrators marched in circles, chanting, while others gathered material with which to create impromptu barricades.

      Other anarchists remained at a distance, standing by to do jail support and advising the participants on security precautions. Others set up at the nearby casino, investigating and squashing rumors in the growing signal groups and helping to link people to the information or communication loops they needed. Whether autonomously or in conversation with the organizers, all of them did their best to contribute to the unfolding action.

      The demonstration successfully accomplished what some had thought might be impossible, preventing the ILWU workers from loading the military shipment. Unexpectedly, this was not enough. Even seasoned longshoremen were surprised that the military could be brought in to act as scabs by loading the ship.

      Could we have focused instead on blocking the equipment from reaching the port in the first place? According to publicly available shift screens, the cargo that was eventually loaded onto the ship had already arrived at the port before the action’s originally planned 2:30 pm start time on November 5. Considering that Sunday afternoon was arguably the earliest that anyone could mobilize a mass action on such short notice, it is not surprising that the idea of blocking the cargo was abandoned in favor of blocking the ILWU workers. Of course, if the information that military supplies were entering the port had circulated earlier, something else might have been possible.

      The organizers chose the approach of blocking the workers in spite of the tension it was bound to cause with the ILWU Local 23. Our contacts in the ILWU describe the Local 23 president as a Zionist; most workers in Local 23 were supposedly against the action, despite respecting the picket.2 The president allegedly went so far as to suggest bringing in ILWU workers on boats, a plan that the military apparently rejected.

      There were rumors that a flotilla of kayaks was organizing to impede the Orlando’s departure the following morning. In the end, a canoe piloted by members of the Puyallup, Nisqually, and other Coast Salish peoples and accompanied by a few kayakers blocked the ship’s path for a short time on November 6, but nothing materialized for November 7.

      This intervention is an important reminder of the ethical and strategic necessity of working with Indigenous groups who know the land and water and preserve a living memory of struggle against colonial violence that includes repeatedly outmaneuvering the United States military.

      The ship departed, but one Stryker Armored Personnel Carrier that was scheduled for work according the ILWU shift screens was not loaded, presumably due to the picket. Given the military work-crew’s inexperience in loading shipping containers, it’s unclear how much of the shipment was completely loaded in the time allotted for the ship, as ports hold to a strict schedule in order not to disrupt capital’s global supply chains.
      Evaluation

      The main organizers received feedback in the course of the protest and adapted their strategy as the situation changed, shifting their communication to articulate what they were trying to do and explaining their choices rather than simply appealing to their authority as an organization or as Palestinians. Nonetheless, some participants have expressed displeasure about how things unfolded. It was difficult to get comprehensive information about what was going on, and this hindered people from making their own decisions and acting autonomously. Some anarchists who were on the ground report that the vessel was still being loaded when the organizers called off the event; others question the choice not to reveal the fact that the military was loading the equipment while the demonstration still had numbers and momentum.

      It is hard to determine to what extent organizers intentionally withheld information. We believe that it is important to offer constructive feedback and principled criticism while resisting the temptation to make assumptions about others’ intentions (or, at worst, to engage in snitch-jacketing, which can undermine efforts to respond to actual infiltration and security breaches in the movement and often contributes to misdiagnosing the problems in play).

      Cooperating with the authorities—especially at the expense of other radicals—is always unacceptable. This is a staple of events dominated by authoritarian organizations. Fortunately, nothing of this kind appears to have occurred during the blockade on November 6. Those on either side of this debate should be careful to resist knee-jerk reactions and to avoid projecting bad intentions onto imagined all-white “adventurists” or repressive “peace police.”

      In that spirit, we will spell out our concern. The organizers simultaneously announced that the weapons had been loaded onto the ship, and at the same time, declared victory. This fosters room for suspicion that the original intention had been to “block the boat” symbolically without actually hampering the weapons shipment, in order to create the impression of achieving a “movement win” without any substantive impact. Such empty victories can deflate movements and momentum, sowing distrust in the hundreds of people who showed up on short notice with the intention of stopping weapons from reaching Israel. It might be better to acknowledge failure, admitting that despite our best efforts, the authorities succeeded in their goal, and affirming that we have to step up our efforts if we want to save lives in Gaza. We need organizers to be honest with us so we know what we are up against.

      It’s important to highlight that ultimately it was the military that loaded the ship, not the ILWU. This move was unprecedented, just like the military spying on demonstrators during the Port Militarization Resistance. But it should not have been unexpected. From now on, we should bear in mind that the military is prepared to intervene directly in the logistics of capitalism.

      This also highlights a weakness in the strategy of blocking a ship by means of a picket line and blockading the streets around the terminal. To have actually stopped the ship, a much more disruptive action would have been called for, potentially including storming the terminal itself and risking police violence and arrests. This isn’t to say that storming the port would have been practical, nor to argue that there is never any reason to blockade the terminal in the way that we did. Rather, the point is that the mechanics of war-capitalism are more pervasive and adaptable than the strategies that people employed to block it in Oakland and Tacoma. Any form of escalation will require more militancy and risk tolerance.

      At the same time, we should be honest about our capabilities, our limits, and the challenges we face. Although many people were prepared to engage in a picket, storming a secured facility involves different considerations and material preparation, and demands a cool-headed assessment of benefits versus consequences. We should not simply blame the organizers for the fact that it did not happen. A powerful enough movement cannot be held back, not even by its leaders.

      Considering that the United States military outmaneuvered the picket strategy—and in view of the grave stakes of what is occurring Palestine—”Why not storm the port?” might be a good starting point for future strategizing. Yet from this point forward, the port is only going to become more and more secure. Another approach would be to pan back from the port, looking for points of intervention outside it. In this regard, the rail blockade in Olympia in 2017 might offer a promising example.

      Likewise, while we should explore ways to resolve differences when we have to work together, we can also look for ways to share information and coordinate while organizing autonomously. We might not be able to reach consensus about what strategy to use, but we can explore where we agree and diverge, acquire and circulate intelligence, and try many different strategies at once.

      The logic and logistics of the ruling order are intertwined all the world over. Israeli weapons helped Azerbaijan invade the Armenian enclave of Nagorno-Karabakh in September. The technologies of surveillance, occupation, and repression, refined from besieging Gaza and fragmenting the West Bank, are deployed along the deadly southern border of the United States. The FBI calls Israeli tech firms when they need to hack into someone’s phone. Everything is connected, from the ports on the Salish Sea to the eastern coast of the Mediterranean.

      Here’s to mutiny in the belly of the empire. If not us, then who? If not now, then when?

      https://pugetsoundanarchists.org/shutting-down-the-port-of-tacoma

    • Des #syndicats du monde entier tentent d’empêcher les livraisons d’armes vers Israël

      #Liège, Gênes, Barcelone, #Melbourne, #Oakland, #Toronto et peut-être bientôt différents ports français… Depuis le début du bombardement de Gaza, des syndicats ont tenté de bloquer des livraisons d’armes vers Israël, rappelant la tradition de lutte internationaliste du syndicalisme. Des initiatives insuffisantes pour entraver l’armement du pays, mais qui ont le mérite de mettre les États exportateurs d’armes face à leurs responsabilités.

      Peut-on compter sur la solidarité internationaliste des syndicats pour mettre fin à l’attaque de Gaza ? C’est en tout cas ce que veut croire la coordination syndicale Workers in Palestine. Composée de dizaines de syndicats palestiniens rassemblant travailleurs agricoles, pharmaciens ou encore enseignants, elle a lancé un appel aux travailleurs du monde entier afin d’entraver l’acheminement de matériel militaire vers Israël.

      « Nous lançons cet appel alors que nous constatons des tentatives visant à interdire et à réduire au silence toute forme de solidarité avec le peuple palestinien. Nous vous demandons de vous exprimer et d’agir face à l’injustice, comme les syndicats l’ont fait historiquement », écrivait-elle le 16 octobre. Dans la foulée, elle appelait à deux journées d’actions internationales les 9 et 10 novembre pour empêcher les livraisons d’armes.

      Tradition de lutte anti-impérialiste du syndicalisme

      En rappelant la tradition internationaliste du syndicalisme, Workers in Palestine inscrit son appel dans l’histoire des luttes syndicales contre les guerres impérialistes et coloniales. Une tradition qui n’est pas étrangère aux syndicats Français. Ainsi, en 1949, une grève organisée par les dockers de la CGT sur le port de Marseille permettait de bloquer plusieurs bateaux destinés à acheminer des armes vers l’Indochine, alors en pleine guerre de décolonisation. Et ce mode d’action n’a pas été oublié depuis. En 2019, les dockers du port de Gênes se sont mis en grève afin de ne pas avoir à charger un navire soupçonné de transporter des armes (françaises) vers l’Arabie Saoudite. « On a aussi fait des actions pendant la guerre en Irak », se remémore Didier Lebbe, secrétaire permanent de la CNE, un des syndicats belge qui a récemment refusé de transporter des armes vers Israël.

      Qu’ils répondent consciemment à l’appel de Workers in Palestine ou non, des syndicats et des collectifs citoyens ont organisé des actions sur des lieux stratégiques du commerce d’armes depuis le début des bombardements sur Gaza. Des blocages et des manifestations ont eu lieu sur les ports de Tacoma aux Etat-unis, ou encore à Melbourne, en Australie ou à Toronto au Canada. A Barcelone, des dockers ont déclaré vouloir refuser de charger ou de décharger tout matériel militaire en lien avec les bombardements à Gaza. Nous avons choisi de nous attarder sur quatre de ces initiatives.

      A Gênes, les dockers visent une entreprise de matériel militaire

      « De 2019 à aujourd’hui, nous avons bloqué presque deux fois par an les navires transportant des armes vers des zones de guerre comme le Yémen, le Kurdistan, l’Afrique et Gaza », explique Josè Nivoi, docker génois et syndicaliste à l’Unions Sindicale di Base (USB). C’est dans la continuité de ces actions qu’il s’est mobilisé avec ses collègues et son syndicat, à l’appel de Workers in Palestine. Vendredi 10 novembre, près de 400 personnes ont manifesté devant le port de Gênes pour protester contre l’envoi d’armes en Israël. Les dockers ont ensuite marché vers les locaux de Zim integrated Shipping Service, une entreprise israélienne de transport de marchandises et de matériel militaire.

      Après l’attaque du Hamas le 7 octobre, cette dernière a proposé son aide à Israël afin d’y acheminer du matériel. « Nous avons des camarades qui surveillent les navires et peuvent voir s’il y a des armes à bord », glisse le docker. Il ajoute que cette action s’inscrit dans la tradition, encore très forte à Gênes, des mobilisation anti-fasciste et anti-impérialsites : « Nous avons toujours été solidaires des peuples qui luttent pour l’autodétermination, et la question palestinienne fait partie de ces luttes. Nous sommes des travailleurs internationalistes et c’est pourquoi nous voulons nous battre pour essayer de changer les choses », explique le docker.

      En Angleterre, une usine d’armes bloquée temporairement

      Le même jour, près de 400 syndicalistes ont bloqué l’usine d’armes de l’entreprise BAE, à Rochester en Angleterre. L’usine d’arme fabrique notamment des « systèmes d’interception actif » pour les jet F35, « utilisés actuellement par Israël pour bombarder Gaza », écrivent les syndicats organisateurs de cette mobilisation. Art, culture, éducation, santé, sept organisations syndicales se sont retrouvées sous le mot d’ordre « Travailleurs pour une Palestine libre », répondant également à l’appel des syndicats palestiniens du 16 octobre.

      « L’industrie d’armement britannique, subventionnée par de l’argent public, est impliquée dans les massacres de Palestiniens. Nous sommes ici aujourd’hui pour perturber la machine de guerre israélienne et prendre position contre la complicité de notre gouvernement et nous exhortons les travailleurs de tout le Royaume-Uni à prendre des mesures similaires sur leurs lieux de travail et dans leurs communautés », explique une professeur qui manifestait vendredi à Dorchester.

      En Belgique les syndicats de l’aviation refusent de charger des armes vers Israël

      Si les avions de passagers ne relient plus Israël et la Belgique depuis l’attaque du Hamas, des avions cargos continuent de transporter des armes vers l’État hébreu, selon des syndicats. « On constate même une augmentation des vols cargo depuis Liège vers Tel Aviv », confie Christian Delcourt, porte-parole de l’aéroport de Liège, à la presse belge. Un phénomène qui n’a pas échappé aux travailleurs de ces sites. « Dans le courant du mois d’octobre, des manutentionnaires nous ont informés qu’ils chargeaient des armes dans des avions civils commerciaux. D’habitude, ces cargaisons doivent être transportées par des avions militaires. Mais quoi qu’il en soit, il n’était pas question pour eux de participer à une guerre, particulièrement quand on sait que des civils sont massacrés », explique Didier Lebbe, secrétaire permanent de la CNE. Le syndicat chrétien, majoritaire dans ces aéroports, prend alors contact avec trois autres syndicats du secteur pour rédiger un communiqué commun. « Alors qu’un génocide est en cours en Palestine, les travailleurs des différents aéroports de Belgique voient des armes partir vers des zones de guerre », écrivent-ils fin octobre. L’initiative fait en partie mouche : « parmi les deux compagnies aériennes qui effectuent ces livraisons, l’une d’elle les a arrêtées. L’autre, c’est une compagnie israélienne », soutient Didier Lebbe.

      En France, les dockers s’organisent

      En France, si aucun syndicat n’a pour l’instant appelé à des actions sur les lieux de travail, la fédération CGT Ports et docks pourrait bientôt rejoindre le mouvement international. La semaine prochaine, au port du Pirée à Athènes,12 organisations syndicales de dockers et portuaires européennes, membres de l’EDC (European Dockworkers Council )doivent se réunir pour une assemblée générale. « Au niveau français, on va pousser pour obtenir une journée d’arrêt de travail dans tous les ports européens pour manifester notre volonté d’un processus de paix, et dénoncer tous les conflits armés », affirme Tony Hautbois, secrétaire général de la fédération CGT Ports et docks. La possibilité d’un boycott des syndicats sur le transport d’armes vers Israël sera aussi en débat, il pourrait déboucher sur une position commune entre ces syndicats, qui regroupent 20 000 dockers à travers l’Europe.

      D’autres syndicats français ont également mis en avant la nécessité d’une action sur l’outil de travail pour empêcher les livraisons d’armes vers Israël. La fédération Sud-Rail a ainsi appelé à s’exprimer dans la rue « mais aussi avec les méthodes de la lutte des classes, comme la grève ». Sur le réseau social X (ex-Twitter), l’union locale CGT de Guingamp a relayé l’appel de Workers in Palestine.

      Des actions symboliques qui ne pèsent pas réellement sur le conflit…

      Pourtant, même si les initiatives syndicales essaiment, elles ne suffisent pas à entraver la capacité d’armement d’Israël. « Même si la vente de matériel militaire était bloquée en France, cela ne pèserait pas beaucoup. On estime que notre pays vend environ 20 millions d’euros de composants militaires par an à Israël. C’est incomparable avec ce que l’on vend aux Emirats arabes unis, par exemple », explique Patrice Bouveret, cofondateur de l’Observatoire des armements, centre d’étude antimilitariste basé à Lyon. A cela s’ajoutent les ventes de biens dits « à double usage », des composants qui peuvent servir pour produire du matériel militaire, ou non. « Mais il s’agit de matériel d’une telle précision qu’il est bien souvent utilisé uniquement pour les armes », commente Patrice Bouveret. Ces biens représentent une somme évaluée à 34 millions par le ministère de l’économie dans un rapport (voir tableau p. 38) remis aux parlementaires en juin 2023.

      « Le principal fournisseur d’armes à Israël, ce sont les États-Unis : près de 4 milliards d’euros de vente d’armes. Les américains entreposent également des stocks d’armes en Israël dans laquelle cette dernière peut puiser. Enfin, comme Israël a des capacités de production, elle peut importer des composants moins chers, qu’elle pourra elle-même transformer », continue Patrice Bouveret.

      …mais qui mettent les États face à leurs responsabilités

      Ces actions ont toutefois le mérite de poser la question de la responsabilité des États producteurs ou exportateurs d’armes dans les bombardements israéliens sur la bande de Gaza et sa population. Alors que 10 000 personnes sont mortes sous les bombes israéliennes, dont 4000 enfants, les termes « nettoyage ethnique », « génocide », ou « crimes de guerre » commencent à se faire entendre dans les plus hautes instances internationales. « La punition collective infligée par Israël aux civils palestiniens est également un crime de guerre, tout comme l’évacuation forcée illégale de civils », a déclaré Volker Türk, Haut Commissaire des Nations unies pour les réfugiés, le 8 novembre.

      Les accords et traités internationaux sont très clairs sur l’implication de pays tiers dans la commission de crimes de guerre, notamment par le biais de la vente d’armes. Le traité sur le commerce des armes (TCA), interdit tout transfert d’armes qui pourrait être employé dans le cadre de crimes de guerre. Amnesty international a déjà alerté sur l’implication de la France dans la vente d’armes à l’Arabie Saoudite, accusée de bombarder sans distinction la population civile au Yémen, où elle mène une guerre contre les rebelles Houthis, depuis huit ans.

      Quant à savoir si les bombardement israéliens constituent un crime de guerre ou un génocide, c’est à la cour pénale Internationale d’en décider. Une plainte pour « génocide » a déjà été déposée par une centaines de palestiniens, tandis que la France enquête déjà sur de possibles « crimes de guerre » du Hamas. Reporter sans Frontière a aussi déposé une plainte pour « crimes de guerres » après la mort de journalistes palestiniens et israéliens. Enfin, l’ONU enquête actuellement en Israël et en Palestine sur de possibles crimes de guerres, en lien avec l’attaque du Hamas le 7 octobre, ou les bombardements israéliens sur la bande de Gaza depuis un mois.

      https://rapportsdeforce.fr/linternationale/des-syndicats-du-monde-entier-tentent-dempecher-les-livraisons-darme

  • Opposez-vous à Chat Control !
    https://framablog.org/2023/10/25/opposez-vous-a-chat-control

    Sur ce blog, nous transposons régulièrement différents points de vue concernant les luttes pour les #Libertés_numériques. Dans ce domaine, on constate souvent que les mouvements sociaux (solidariste, durabilistes, préfiguratifs, etc.) ne prennent que trop rarement en compte les implications … Lire la suite­­

    #Enjeux_du_numérique

    • Comme si l’intention d’interdire ou de fragiliser le #chiffrement n’était pas déjà assez grave, il y a encore pas mal d’autres choses qui nous inquiètent sérieusement avec Chat Control. Ainsi, l’introduction de systèmes de #blocage_réseau4 est également en discussion. Plus grave encore, l’obligation de vérifier l’âge et donc de s’identifier en ligne. Cela aussi fait explicitement partie du projet. Il s’agira de faire en sorte que l’accès à certains sites web, l’accès aux contenus limités selon l’âge, l’utilisation et le téléchargement de certaines applications comme Messenger, ne soient possibles qu’avec une #identification, par exemple avec une carte d’identité électronique ou une #identité_numérique.

      Voici l’accomplissement du vieux rêve de tou·tes les Ministres de l’Intérieur et autres autoritaires du même acabit. L’obligation d’utiliser des vrais noms sur Internet et la « neutralisation » des #VPN5, #TOR et autres services favorisant l’#anonymat figurent depuis longtemps sur leurs listes de vœux. Et ne négligeons pas non plus la joie des grands groupes de pouvoir à l’avenir identifier clairement les utilisateur·ices. L’UE se met volontiers à leur service6. Tout comme le gouvernement allemand, Nancy Faser en tête, qui se distingue par ailleurs avec une politique populiste et autoritaire de droite.

      #internet #libertés_numériques #libertés_politiques #libertés #messageries #communications_chiffrées #signal #telegram #Europe #chat_control #surveillance #surveillance_de_masse #auto-défense_numérique

  • Condamnez-vous le Hamas ? Un Palestinien répond

    « Je condamne ma propre naissance de m’avoir fait naître Palestinien, alors que selon bien des gens la Palestine n’existe pas ». Je souhaite diffuser cet admirable texte d’#Abdel_Fattah_Abu_Srour, en réponse à l’injonction à condamner le #Hamas, après le le 7 octobre.

    –—

    Condamnez-vous le Hamas ? Je me condamne

    Abdel Fattah Abu Srour, directeur du centre Al Rowwad dans le camp de réfugiés d’Aida (près de Bethléem)

    Chers amis,

    J’aimerais remercier tous ceux qui m’ont contacté pour m’assurer de leur solidarité et s’enquérir de moi, de ma famille, de ma communauté et de mon peuple. Je suis infiniment reconnaissant envers ceux qui nous soutiennent dans ces temps si difficiles.

    Les journalistes des medias, les interviewers des télés viennent à nous, pointant le doigt vers nous et nous posant sans cesse la même question : condamnez-vous le terrorisme palestinien ? Condamnez-vous le Hamas ?

    Répondons

    Je me condamne vraiment moi-même, je condamne toute mon existence

    Je condamne ma propre naissance dans un camp de réfugiés dans mon propre pays. Comment est-ce que j’ose être un réfugié et vous charger de remettre en question votre humanité ?

    Je condamne ma propre naissance de m’avoir fait naître Palestinien, alors que selon bien des gens la Palestine n’existe pas

    Je condamne mes parents, qui furent déracinés de leurs villages détruits et me donnèrent naissance dans un camp de réfugiés

    Je condamne toute ma vie, avoir grandi, obtenu une éducation, avoir eu des espoirs et des rêves de devenir un grand biologiste, un grand chercheur qui sauverait des vies…, d’être un peintre extraordinaire, un merveilleux photographe, un écrivain talentueux qui inspirerait le monde entier… Rien de ce que j’ai fait ne m’a fait devenir célèbre

    Je me condamne pour clamer et continuer à clamer que je suis un être humain, que je défend mon humanité et ma dignité ainsi que celles des autres… On dirait que je ne suis qu’un animal humain, ou encore moins… que je suis un extraterrestre imaginant qu’il a une place sur cette terre. Comment est-ce que j’ose même penser que je suis un être humain tout comme vous ?

    Je me condamne pour croire que les valeurs et les droits humains nous incluent, nous les extraterrestres… Comment est-ce que j’ose même penser que nous faisons partie de ces valeurs ?

    Je me condamne pour croire au droit international et aux résolutions de l’ONU et à toutes ces déclarations qui disent que : les peuples sous occupation ont le droit légitime de résister par TOUS LES MOYENS. Comment est-ce que j’ose considérer que nous sommes occupés, même par une entité illégale qui est représentée comme l’unique démocratie du Moyen Orient.

    Je vous demande pardon

    Je me condamne pour parler de cette occupation comme d’une entité. Je lis que ce qui définit un état est d’avoir : une constitution, des frontières définies, et une nationalité. Et puisque ce que vous appelez État d’Israël ne possède pas jusqu’à aujourd’hui de constitution, ni de frontières définies, et bien qu’ ils aient voté la loi de Nationalité c’est un pays uniquement pour les Juifs…

    Mais apparemment vous pouvez vous proclamer État sans aucun de ces critères. Pardonnez s’il vous plaît mon ignorance…

    Que puis-je dire… je suis si ignorant…

    Je croyais qu’une victime de viol avait le droit de se défendre. Mais il semble que je me sois trompé… je n’ai pas compris que l’on doive féliciter le violeur et condamner la victime si ou elle oses résister… que il ou elle prend plaisir au viol et en redemande…

    Je croyais qu’être solidaire avec les opprimés était une attitude juste. Erreur encore car je ne devrais jamais m’identifier aux autres peuples opprimés. Il n’y a qu’une entité opprimée au monde et aucune autre.

    Je devrais féliciter les Israéliens pour opprimer les soi-disant Palestiniens… et leur apprendre qui ils sont et quelle est leur valeur aux yeux de la communauté internationale. Que leurs vies sont égales à zéro.

    Alors

    Monde !

    Je suis vraiment désolé

    Je ne me suis pas rendu compte que j’étais induit en erreur et mal informé

    Devrais-je m’excuser ?

    Je m’excuse profondément

    Monde !

    Toutes mes excuses

    Mes parents m’ont toujours dit que je devais soutenir les opprimés et empêcher les oppresseurs de continuer leur oppression

    Je m’excuse

    On m’a dit que je devais soutenir les méchants Sud-Africains noirs contre le gentil système d’apartheid blanc censé les humaniser

    Je m’excuse

    On m’a dit que je devais soutenir les sauvages Amérindiens contre ces merveilleux colonisateurs blancs arrivés pour les civiliser et les débarrasser du fardeau de leurs terres et de leurs propriétés

    On m’a dit de soutenir les Aborigènes retardés d’Australie contre ces extraordinaires colonisateurs britanniques civilisateurs blancs qui vinrent les instruire

    Je m’excuse

    On m’a dit de soutenir les terroristes vietnamiens contre les très civilisés colonisateurs… Français ou Américains qui savaient comment exploiter les pays colonisés et domestiquer leurs habitants.

    Je m’excuse

    On m’a dit de soutenir les Indiens en Inde, les Irlandais, les Ecossais

    les Sud-Américains

    les Cubains,

    Les Espagnols et les Italiens contre les dictatures et les fascistes

    Les Allemands et les Européens contre les nazis

    Les Arabes contre les colonisations française et britanniques

    Les Palestiniens contre l’occupation britannique et sioniste

    On m’a même dit de soutenir les Ukrainiens contre les Russes

    Mes parents m’ont même parlé des pauvres juifs qui arrivèrent en Palestine dans les années 1900..

    Et dans ce temps-là on avait pitié d’eux et on les aidait avec de la nourriture et plus encore…

    Je m’excuse

    On m’a dit de soutenir la résistance de l’opprimé contre l’oppresseur

    Je ne savais rien du droit international et des droits de l’homme

    Je ne savais pas que tout ceci était faux et que c’est juste un mensonge qui convient à certains et pas à d’autres

    Donc

    Monde,

    Laisse-moi me condamner et m’excuser encore et encore…

    Je me condamne pour être ce que je suis

    Je m’excuse d’être Palestinien… D’être né dans un pays que mes parents appellent Palestine…

    Je m’excuse d’être né dans un camp de réfugiés… Dans mon propre pays. Et de n’avoir pu oublier les villages de mes parents qui furent détruits en octobre 1948

    Je m’excuse de n’avoir ni cheveux blonds ni yeux bleus… Bien que certains de mes cousins aient des cheveux blonds et des yeux bleus ou verts

    Je m’excuse de toujours m’identifier comme Palestinien alors qu’on me dénie cette nationalité

    Je m’excuse d’encore appeler mon pays du nom de Palestine bien qu’il ait été émietté en morceaux disjoints… et je ne peux toujours pas l’oublier

    Je m’excuse de pas pouvoir oublier que je suis encore un réfugié dans mon propre pays

    De ne pas avoir jeté la vieille clé rouillée de la maison de mes parents dans leur village détruit

    Je condamne la revendication obstinée de mon droit à revenir aux villages détruits de mes parents

    Comment est-ce que j’ose faire ça ? Comment tous ces Palestiniens obstinés osent-ils revendiquer leur droit au retour ? Nous sommes si aveugles que nous ne pouvons même pas voir les faits sur le terrain après les 75 années d’existence de la seule démocratie du moyen orient

    Je condamne mes parents qui m’ont élevé selon « Celui qui est consumé par la haine perd son humanité »

    Comment n’ont-ils pas osé m’enseigner la haine ?

    Je condamne tout acte de résistance contre l’injustice et l’oppression, l’occupation. Comment osent les opprimés défier les oppresseurs ?

    Je condamne chaque victime de viol ayant résisté au violeur. Ne peux-tu pas simplement ouvrir les jambes et l’accepter ? Comment oses-tu refuser le plaisir du viol ?

    Je condamne les assassinats de tout système terroriste. Les oppresseurs devraient avoir carte blanche pour continuer leur oppression sans avoir à en rendre compte.

    Je condamne ces Palestiniens et leurs supporters… Pourquoi ne peuvent-ils pas juste se taire et accepter que cette occupation illégale est le seul super pouvoir de la région et que lui résister est un acte raciste.

    Je m’excuse réellement auprès de vous tous de ne pas avoir été capable de coexister avec l’oppression… et de n’avoir pas été capable d’accepter de prendre plaisir à la torture, à l’oppression et à l’humiliation. Certains y prennent plaisir… Pourquoi pas moi ?

    Je m’excuse de ne pas accepter l’exil de mon frère, l’emprisonnement de mes frères, de mes cousins, neveux, voisins, et tant d’autres… Je ne m’étais pas rendu compte que c’était pour leur bien, et qu’ils étaient mieux en prison ou en exil que dehors au soleil…

    Je m’excuse de ma stupidité. Je n’ai pas compris vos droits de l’homme et votre droit international. Je pensais que j’étais comme vous autres, et non pas un animal humain. Je m’excuse de mon ignorance… Je ne comprends même pas comment on peut être un animal humain. Je pensais qu’il y avait des êtres humains, et des animaux, bien que certains de ces animaux soient plus humains que les soi-disant humains…

    je m’excuse, je me suis trompé…

    J’ai vu comment vous souteniez des résistances comme l’Ukraine et acclamiez ces combattants pour la liberté. Et combien héroïques étaient ces enfants entraînés pour résister aux Russes et qui pensaient que c’était normal. Je suis vraiment stupide et je m’excuse de ma stupidité. Je devrais aussi condamner la résistance ukrainienne.

    Je le promets, je fêterais l’apartheid, je célébrerais la violations des valeurs et des droits humains.

    Je louerai tous les oppresseurs et les dictateurs

    Je devrais louer tous les violeurs pour qu’ils continuent leurs viols

    Je devrais louer tous les menteurs et les manipulateurs pour leur distorsions des faits et de la vérité

    Je suis vraiment désolé d’avoir tant échoué… Vraiment désolé de n’avoir pas su comment coexister avec ces doubles critères. Comment coexister avec l’occupation, l’oppression, la déshumanisation et en être heureux ?

    Avez-vous un entraînement spécial ? J’aimerais vous rejoindre. Ou plutôt vous pourriez me rejoindre, porter ma peau et me montrer comment je peux être le gentil animal que vous pourriez domestiquer ?

    Ou devrais-je simplement dire, non merci …

    Je ne peux jamais accepter vos ordres et votre chantage

    Je ne peux jamais accepter que les opprimés s’habituent à l’oppression et coexistent avec l’oppresseur tant que l’oppression durera

    Nous n’oublierons pas… Nous nous souviendrons

    Nous n’oublierons pas le silence, l’hypocrisie, les ordres et le chantage

    Nous n’oublierons pas ceux qui ont élevé la voix et se sont levés pour ce qui est juste

    Nous n’oublierons rien

    Vous pouvez continuer à nous pousser au désespoir et nous continuerons à faire épanouir l’espoir

    Vous pouvez continuer à promouvoir la mort… Nous continuerons à promouvoir la vie

    Vous continuerez à faire le pire… Nous continuerons à faire le meilleur

    https://blogs.mediapart.fr/dominique-natanson/blog/221023/condamnez-vous-le-hamas-un-palestinien-repond
    #condamnation #réponse #7_octobre_2023 #Palestine #Israël #humanité #dignité #excuses #résistance #réfugiés_palestiniens #torture #oppression #humiliation #droit_international #animal_humain #animaux #viol #coexistence #oppression #silence #hypocrisie #chantage #désespoir #espoir #à_lire

  • #Judith_Butler : Condamner la #violence

    « Je condamne les violences commises par le #Hamas, je les condamne sans la moindre réserve. Le Hamas a commis un #massacre terrifiant et révoltant », écrit Judith Butler avant d’ajouter qu’« il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute #condamnation nécessite un refus de comprendre, de #peur que cette #compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre #capacité_de_jugement ».

    Les questions qui ont le plus besoin d’un #débat_public, celles qui doivent être discutées dans la plus grande urgence, sont des questions qui sont difficiles à aborder dans les cadres existants. Et même si l’on souhaite aller directement au cœur du sujet, on se heurte à un cadre qui fait qu’il est presque impossible de dire ce que l’on a à dire. Je veux parler ici de la violence, de la violence présente, et de l’histoire de la violence, sous toutes ses formes. Mais si l’on veut documenter la violence, ce qui veut dire comprendre les #tueries et les #bombardements massifs commis par le Hamas en Israël, et qui s’inscrivent dans cette histoire, alors on est accusé de « #relativisme » ou de « #contextualisation ». On nous demande de condamner ou d’approuver, et cela se comprend, mais est-ce bien là tout ce qui, éthiquement, est exigé de nous ? Je condamne les violences commises par le Hamas, je les condamne sans la moindre réserve. Le Hamas a commis un massacre terrifiant et révoltant. Telle a été et est encore ma réaction première. Mais elle n’a pas été la seule.

    Dans l’immédiateté de l’événement, on veut savoir de quel « côté » sont les gens, et clairement, la seule réaction possible à de pareilles tueries est une condamnation sans équivoque. Mais pourquoi se fait-il que nous ayons parfois le sentiment que se demander si nous utilisons les bons mots ou comprenons bien la situation historique fait nécessairement obstacle à une #condamnation_morale absolue ? Est-ce vraiment relativiser que se demander ce que nous condamnons précisément, quelle portée cette condamnation doit avoir, et comment décrire au mieux la ou les formations politiques auxquelles nous nous opposons ?

    Il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute condamnation nécessite un refus de comprendre, de peur que cette compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre capacité de jugement. Mais que faire s’il est moralement impératif d’étendre notre condamnation à des #crimes tout aussi atroces, qui ne se limitent pas à ceux mis en avant et répétés par les médias ? Quand et où doit commencer et s’arrêter notre acte de condamnation ? N’avons-nous pas besoin d’une évaluation critique et informée de la situation pour accompagner notre condamnation politique et morale, sans avoir à craindre que s’informer et comprendre nous transforme, aux yeux des autres, en complices immoraux de crimes atroces ?

    Certains groupes se servent de l’histoire de la violence israélienne dans la région pour disculper le Hamas, mais ils utilisent une forme corrompue de raisonnement moral pour y parvenir. Soyons clairs. Les violences commises par #Israël contre les Palestiniens sont massives : bombardements incessants, assassinats de personnes de tous âges chez eux et dans les rues, torture dans les prisons israéliennes, techniques d’affamement à #Gaza, expropriation radicale et continue des terres et des logements. Et ces violences, sous toutes leurs formes, sont commises sur un peuple qui est soumis à un #régime_colonial et à l’#apartheid, et qui, privé d’État, est apatride.

    Mais quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard (Harvard Palestine Solidarity Groups) publient une déclaration disant que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques mortelles du Hamas contre des cibles israéliennes, ils font une erreur et sont dans l’erreur. Ils ont tort d’attribuer de cette façon la #responsabilité, et rien ne saurait disculper le Hamas des tueries atroces qu’ils ont perpétrées. En revanche, ils ont certainement raison de rappeler l’histoire des violences : « de la #dépossession systématique des terres aux frappes aériennes de routine, des #détentions_arbitraires aux #checkpoints militaires, des séparations familiales forcées aux #assassinats ciblés, les Palestiniens sont forcés de vivre dans un #état_de_mort, à la fois lente et subite. » Tout cela est exact et doit être dit, mais cela ne signifie pas que les violences du Hamas ne soient que l’autre nom des violences d’Israël.

    Il est vrai que nous devons nous efforcer de comprendre les raisons de la formation de groupes comme le Hamas, à la lumière des promesses rompues d’Oslo et de cet « état de mort, à la fois lente et subite » qui décrit bien l’existence des millions de Palestiniens vivant sous #occupation, et qui se caractérise par une #surveillance constante, la #menace d’une détention sans procès, ou une intensification du #siège de #Gaza pour priver ses habitants d’#eau, de #nourriture et de #médicaments. Mais ces références à l’#histoire des Palestiniens ne sauraient justifier moralement ou politiquement leurs actes. Si l’on nous demandait de comprendre la violence palestinienne comme une continuation de la violence israélienne, ainsi que le demandent les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard, alors il n’y aurait qu’une seule source de #culpabilité_morale, et même les actes de violence commis par les Palestiniens ne seraient pas vraiment les leurs. Ce n’est pas rendre compte de l’autonomie d’action des Palestiniens.

    La nécessité de séparer la compréhension de la violence omniprésente et permanente de l’État israélien de toute justification de la violence est absolument cruciale si nous voulons comprendre quels peuvent être les autres moyens de renverser le #système_colonial, mettre fin aux #arrestations_arbitraires et à la #torture dans les prisons israéliennes, et arrêter le siège de Gaza, où l’eau et la nourriture sont rationnés par l’État-nation qui contrôle ses frontières. Autrement dit, la question de savoir quel monde est encore possible pour tous les habitants de la région dépend des moyens dont il sera mis fin au système colonial et au pouvoir des colons. Hamas a répondu de façon atroce et terrifiante à cette question, mais il y a bien d’autres façons d’y répondre.

    Si, en revanche, il nous est interdit de parler de « l’#occupation », comme dans une sorte de Denkverbot allemand, si nous ne pouvons pas même poser le débat sur la question de savoir si le joug militaire israélien sur la région relève du #colonialisme ou de l’#apartheid_racial, alors nous ne pouvons espérer comprendre ni le passé, ni le présent, ni l’avenir. Et beaucoup de gens qui regardent le carnage dans les médias sont totalement désespérés. Or une des raisons de ce #désespoir est précisément qu’ils regardent les #médias, et vivent dans le monde sensationnel et immédiat de l’#indignation_morale absolue. Il faut du temps pour une autre #morale_politique, il faut de la patience et du courage pour apprendre et nommer les choses, et nous avons besoin de tout cela pour que notre condamnation puisse être accompagnée d’une vision proprement morale.

    Je m’oppose aux violences que le Hamas a commises, et ne leur trouve aucune excuse. Quand je dis cela, je prends une position morale et politique claire. Je n’équivoque pas lorsque je réfléchis sur ce que cette condamnation implique et présuppose. Quiconque me rejoint dans cette position se demande peut-être si la condamnation morale doit reposer sur une compréhension de ce qui est condamné. On pourrait répondre que non, que je n’ai rien besoin de connaître du Hamas ou de la Palestine pour savoir que ce qu’ils ont fait est mal et pour le condamner. Et si l’on s’arrête là, si l’on se contente des représentations fournies par les médias, sans jamais se demander si elles sont réellement utiles et exactes, et si le cadre utilisé permet à toutes les histoires d’être racontées, alors on se résout à une certaine ignorance et l’on fait confiance aux cadres existants. Après tout, nous sommes tous très occupés, et nous n’avons pas tous le temps d’être des historiens ou des sociologues. C’est une manière possible de vivre et de penser, et beaucoup de gens bien-intentionnés vivent effectivement ainsi, mais à quel prix ?

    Que nous faudrait-il dire et faire, en revanche, si notre morale et notre politique ne s’arrêtaient pas à l’acte de condamnation ? Si nous continuions, malgré tout, de nous intéresser à la question de savoir quelles sont les formes de vie qui pourraient libérer la région de violences comme celles-ci ? Et si, en plus de condamner les crimes gratuits, nous voulions créer un futur dans lequel ce genre de violences n’aurait plus cours ? C’est une aspiration normative qui va bien au-delà de la condamnation momentanée. Pour y parvenir, il nous faut absolument connaître l’histoire de la situation : l’histoire de la formation du Hamas comme groupe militant, dans l’abattement total, après Oslo, pour tous les habitants de Gaza à qui les promesses de gouvernement autonome n’ont jamais été honorées ; l’histoire de la formation des autres groupes palestiniens, de leurs tactiques et de leurs objectifs ; l’histoire enfin du peuple palestinien lui-même, de ses aspirations à la liberté et au #droit_à_l’autodétermination, de son désir de se libérer du régime colonial et de la violence militaire et carcérale permanente. Alors, si le Hamas était dissous ou s’il était remplacé par des groupes non-violents aspirant à la #cohabitation, nous pourrions prendre part à la lutte pour une Palestine libre.

    Quant à ceux dont les préoccupations morales se limitent à la seule condamnation, comprendre la situation n’est pas un objectif. Leur indignation morale est à la fois présentiste et anti-intellectuelle. Et pourtant, l’indignation peut aussi amener quelqu’un à ouvrir des livres d’histoire pour essayer de comprendre comment un événement comme celui-ci a pu arriver, et si les conditions pourraient changer de telle sorte qu’un avenir de violence ne soit pas le seul avenir possible. Jamais la « contextualisation » ne devrait être considérée comme une activité moralement problématique, même s’il y a des formes de contextualisation qui sont utilisées pour excuser ou disculper. Est-il possible de distinguer ces deux formes de contextualisation ? Ce n’est pas parce que certains pensent que contextualiser des violences atroces ne sert qu’à occulter la violence ou, pire encore, à la rationaliser que nous devrions nous soumettre à l’idée que toute forme de contextualisation est toujours une forme de #relativisme_moral.

    Quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard disent que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques du Hamas, ils souscrivent à une conception inacceptable de la responsabilité morale. Il semble que pour comprendre comment s’est produit un événement, et ce qu’il signifie, il nous faille apprendre l’histoire. Cela veut dire qu’il nous incombe tout à la fois d’élargir la perspective au-delà de la terrible fascination du moment et, sans jamais nier l’horreur, de ne pas laisser l’#horreur présente représenter toute l’horreur qu’il y a à représenter, et nous efforcer de savoir, de comprendre et de nous opposer.

    Or les médias d’aujourd’hui, pour la plupart d’entre eux, ne racontent pas les horreurs que vivent les Palestiniens depuis des décennies, les bombardements, les tueries, les attaques et les arrestations arbitraires. Et si les horreurs des derniers jours ont pour les médias une importance morale plus grande que les horreurs des soixante-dix dernières années, alors la réaction morale du moment menace d’empêcher et d’occulter toute compréhension des #injustices_radicales endurées depuis si longtemps par la Palestine occupée et déplacée de force.

    Certains craignent, à juste titre, que toute contextualisation des actes violents commis par le Hamas soit utilisée pour disculper le Hamas, ou que la contextualisation détourne l’attention des horreurs perpétrées. Mais si c’est l’horreur elle-même qui nous amenait à contextualiser ? Où commence cette horreur et où finit-elle ? Si les médias parlent aujourd’hui de « guerre » entre le Hamas et Israël, c’est donc qu’ils proposent un cadre pour comprendre la situation. Ils ont, ainsi, compris la situation à l’avance. Si Gaza est comprise comme étant sous occupation, ou si l’on parle à son sujet de « prison à ciel ouvert », alors c’est une autre interprétation qui est proposée. Cela ressemble à une description, mais le langage contraint ou facilite ce que nous pouvons dire, comment nous pouvons décrire, et ce qui peut être connu.

    Oui, la langue peut décrire, mais elle n’acquiert le pouvoir de le faire que si elle se conforme aux limites qui sont imposées à ce qui est dicible. S’il est décidé que nous n’avons pas besoin de savoir combien d’enfants et d’adolescents palestiniens ont été tués en Cisjordanie et à Gaza cette année ou pendant toutes les années de l’occupation, que ces informations ne sont pas importantes pour comprendre ou qualifier les attaques contre Israël, et les assassinats d’Israéliens, alors il est décidé que nous ne voulons pas connaître l’histoire des violences, du #deuil et de l’indignation telle qu’est vécue par les Palestiniens.

    Une amie israélienne, qui se qualifie elle-même d’« antisioniste », écrit en ligne qu’elle est terrifiée pour sa famille et pour ses amis, et qu’elle a perdu des proches. Et nous devrions tous être de tout cœur avec elle, comme je le suis bien évidemment. Cela est terrible. Sans équivoque. Et pourtant, il n’est pas un moment où sa propre expérience de l’horreur et de la perte de proches ou d’amis est imaginé comme pouvant être ce qu’une Palestinienne éprouve ou a éprouvé de son côté après des années de bombardement, d’incarcération et de violence militaire. Je suis moi aussi une Juive, qui vit avec un #traumatisme_transgénérationnel à la suite des atrocités commises contre des personnes comme moi. Mais ces atrocités ont aussi été commises contre des personnes qui ne sont pas comme moi. Je n’ai pas besoin de m’identifier à tel visage ou à tel nom pour nommer les atrocités que je vois. Ou du moins je m’efforce de ne pas le faire.

    Mais le problème, au bout du compte, n’est pas seulement une absence d’#empathie. Car l’empathie prend généralement forme dans un cadre qui permette qu’une identification se fasse, ou une traduction entre l’expérience d’autrui et ma propre expérience. Et si le cadre dominant considère que certaines vies sont plus dignes d’être pleurées que d’autres, alors il s’ensuit que certaines pertes seront plus terribles que d’autres. La question de savoir quelles vies méritent d’être pleurées fait partie intégrante de la question de savoir quelles sont les vies qui sont dignes d’avoir une valeur. Et c’est ici que le #racisme entre en jeu de façon décisive. Car si les Palestiniens sont des « #animaux », comme le répète Netanyahu, et si les Israéliens représentent désormais « le peuple juif », comme le répète Biden (englobant la diaspora juive dans Israël, comme le réclament les réactionnaires), alors les seules personnes dignes d’être pleurées, les seules qui sont éligibles au deuil, sont les Israéliens, car la scène de « guerre » est désormais une scène qui oppose les Juifs aux animaux qui veulent les tuer.

    Ce n’est certainement pas la première fois qu’un groupe de personnes qui veulent se libérer du joug de la #colonisation sont représentées comme des animaux par le colonisateur. Les Israéliens sont-ils des « animaux » quand ils tuent ? Ce cadre raciste de la violence contemporaine rappelle l’opposition coloniale entre les « civilisés » et les « animaux », qui doivent être écrasés ou détruits pour sauvegarder la « civilisation ». Et lorsque nous rappelons l’existence de ce cadre au moment d’affirmer notre condamnation morale, nous nous trouvons impliqué dans la dénonciation d’une forme de racisme qui va bien au-delà de l’énonciation de la structure de la vie quotidienne en Palestine. Et pour cela, une #réparation_radicale est certainement plus que nécessaire.

    Si nous pensons qu’une condamnation morale doive être un acte clair et ponctuel, sans référence à aucun contexte ni aucun savoir, alors nous acceptons inévitablement les termes dans lesquels se fait cette condamnation, la scène sur laquelle les alternatives sont orchestrées. Et dans ce contexte récent qui nous intéresse, accepter ce cadre, c’est reprendre les formes de #racisme_colonial qui font précisément partie du problème structurel à résoudre, de l’#injustice intolérable à surmonter. Nous ne pouvons donc pas refuser l’histoire de l’injustice au nom d’une certitude morale, car nous risquerions alors de commettre d’autres injustices encore, et notre certitude finirait par s’affaisser sur un fondement de moins en moins solide. Pourquoi ne pouvons-nous pas condamner des actes moralement haïssables sans perdre notre capacité de penser, de connaître et de juger ? Nous pouvons certainement faire tout cela, et nous le devons.

    Les actes de violence auxquels nous assistons via les médias sont horribles. Et dans ce moment où toute notre attention est accaparée par ces médias, les violences que nous voyons sont les seules que nous connaissions. Je le répète : nous avons le droit de déplorer ces violences et d’exprimer notre horreur. Cela fait des jours que j’ai mal au ventre à essayer d’écrire sans trouver le sommeil, et tous les gens que je connais vivent dans la peur de ce que va faire demain la machine militaire israélienne, si le #discours_génocidaire de #Netanyahu va se matérialiser par une option nucléaire ou par d’autres tueries de masse de Palestiniens. Je me demande moi-même si nous pouvons pleurer, sans réserve aucune, pour les vies perdues à Tel-Aviv comme pour les vies perdues à Gaza, sans se laisser entraîner dans des débats sur le relativisme et sur les #fausses_équivalences. Peut-être les limites élargies du deuil peuvent-elles contribuer à un idéal d’#égalité substantiel, qui reconnaisse l’égale pleurabilité de toutes les vies, et qui nous porte à protester que ces vies n’auraient pas dû être perdues, qui méritaient de vivre encore et d’être reconnues, à part égale, comme vies.

    Comment pouvons-nous même imaginer la forme future de l’égalité des vivants sans savoir, comme l’a documenté le Bureau de la coordination des affaires humanitaires des Nations unies, que les militaires et les colons israéliens ont tué au minimum 3 752 civils palestiniens depuis 2008 à Gaza et en Cisjordanie, y compris à Jérusalem-Est. Où et quand le monde a-t-il pleuré ces morts ? Et dans les seuls bombardements et attaques d’octobre, 140 enfants palestiniens ont déjà été tués. Beaucoup d’autres trouveront la mort au cours des actions militaires de « #représailles » contre le Hamas dans les jours et les semaines qui viennent.

    Ce n’est pas remettre en cause nos positions morales que de prendre le temps d’apprendre l’histoire de la #violence_coloniale et d’examiner le langage, les récits et les cadres qui servent aujourd’hui à rapporter et expliquer – et interpréter a priori – ce qui se passe dans cette région. Il s’agit là d’un #savoir_critique, mais qui n’a absolument pas pour but de rationaliser les violences existences ou d’en autoriser d’autres. Son but est d’apporter une compréhension plus exacte de la situation que celle proposée par le cadre incontesté du seul moment présent. Peut-être d’autres positions d’#opposition_morale viendront-elles s’ajouter à celles que nous avons déjà acceptées, y compris l’opposition à la violence militaire et policière qui imprègne et sature la vie des Palestiniens dans la région, leur droit à faire le deuil, à connaître et exprimer leur indignation et leur solidarité, à trouver leur propre chemin vers un avenir de liberté ?

    Personnellement, je défends une politique de #non-violence, sachant qu’elle ne peut constituer un principe absolu, qui trouve à s’appliquer en toutes circonstances. Je soutiens que les #luttes_de_libération qui pratiquent la non-violence contribuent à créer le monde non-violent dans lequel nous désirons tous vivre. Je déplore sans équivoque la violence, et en même temps, comme tant d’autres personnes littéralement stupéfiées devant leur télévision, je veux contribuer à imaginer et à lutter pour la justice et pour l’égalité dans la région, une justice et une égalité qui entraîneraient la fin de l’occupation israélienne et la disparition de groupes comme le Hamas, et qui permettrait l’épanouissement de nouvelles formes de justice et de #liberté_politique.

    Sans justice et sans égalité, sans la fin des violences perpétrées par un État, Israël, qui est fondé sur la violence, aucun futur ne peut être imaginé, aucun avenir de #paix_véritable – et je parle ici de paix véritable, pas de la « #paix » qui n’est qu’un euphémisme pour la #normalisation, laquelle signifie maintenir en place les structures de l’injustice, de l’inégalité et du racisme. Un pareil futur ne pourra cependant pas advenir si nous ne sommes pas libres de nommer, de décrire et de nous opposer à toutes les violences, y compris celles de l’État israélien, sous toutes ses formes, et de le faire sans avoir à craindre la censure, la criminalisation ou l’accusation fallacieuse d’antisémitisme.

    Le monde que je désire est un monde qui s’oppose à la normalisation du régime colonial israélien et qui soutient la liberté et l’autodétermination des Palestiniens, un monde qui réaliserait le désir profond de tous les habitants de ces terres de vivre ensemble dans la liberté, la non-violence, la justice et l’égalité. Cet #espoir semble certainement, pour beaucoup, impossible ou naïf. Et pourtant, il faut que certains d’entre nous s’accrochent farouchement à cet espoir, et refusent de croire que les structures qui existent aujourd’hui existeront toujours. Et pour cela, nous avons besoin de nos poètes, de nos rêveurs, de nos fous indomptés, de tous ceux qui savent comment se mobiliser.

    https://aoc.media/opinion/2023/10/12/condamner-la-violence

    ici aussi : https://seenthis.net/messages/1021216

    #à_lire #7_octobre_2023 #génocide

    • Palestinian Lives Matter Too: Jewish Scholar Judith Butler Condemns Israel’s “Genocide” in Gaza

      We speak with philosopher Judith Butler, one of dozens of Jewish American writers and artists who signed an open letter to President Biden calling for an immediate ceasefire in Gaza. “We should all be standing up and objecting and calling for an end to genocide,” says Butler of the Israeli assault. “Until Palestine is free … we will continue to see violence. We will continue to see this structural violence producing this kind of resistance.” Butler is the author of numerous books, including The Force of Nonviolence: An Ethico-Political Bind and Parting Ways: Jewishness and the Critique of Zionism. They are on the advisory board of Jewish Voice for Peace.

      https://www.youtube.com/watch?v=CAbzV40T6yk

  • No Trace Project
    http://i4pd4zpyhrojnyx5l3d2siauy4almteocqow4bp2lqxyocrfy6prycad.onion

    Comment ne pas se faire répérer. C’est une collection de cas de surveillance clandestines par des institutions d’état. Assez intéressant mais dangereusement incomplet.

    No trace, no case. A collection of tools to help anarchists and other rebels understand the capabilities of their enemies, undermine surveillance efforts, and ultimately act without getting caught.

    On n’y trouve pas grand chose sur la surveillance algorithmique et les acteurs privés. Les informations sur leurs manières de fonctionner n’y existent pas et le politique n’est que façade et prétexte. Pour arriver à une estimation des risques et prendre des mesures de protection efficaces dans la vraie vie cette collection est intéressante mais peu utile.

    Je vois deux raisons d’être pour un tel projet. D’abord il peut sensibiliser ceux qui croient encore au père noël. Puis il informe les agents des institutions de surveillance sur l’idée que se font les prétendus anars de leurs adversaires.

    Enfin il y a une troisième raison pour consulter cette collection : Toi, auteur de pièces de théâtre, bd ou romans, ce site est pour toi. Tu y trouveras des tas d’éléments qui t’aideront à créer une ambiance paranoiaque pour impressionner ta clientèle.

    #anarchistes #services_secrets #surveillance #clandestinité #attentats #mythologie #torproject

  • The State of #Chihuahua Is Building a 20-Story Tower in #Ciudad_Juarez to Surveil 13 Cities–and Texas Will Also Be Watching

    Chihuahua state officials and a notorious Mexican security contractor broke ground last summer on the #Torre_Centinela (Sentinel Tower), an ominous, 20-story high-rise in downtown Ciudad Juarez that will serve as the central node of a new AI-enhanced surveillance regime. With tentacles reaching into 13 Mexican cities and a data pipeline that will channel intelligence all the way to Austin, Texas, the monstrous project will be unlike anything seen before along the U.S.-Mexico border.

    And that’s saying a lot, considering the last 30-plus years of surging technology on the U.S side of the border.

    The Torre Centinela will stand in a former parking lot next to the city’s famous bullring, a mere half-mile south of where migrants and asylum seekers have camped and protested at the Paso del Norte International Bridge leading to El Paso. But its reach goes much further: the Torre Centinela is just one piece of the Plataforma Centinela (Sentinel Platform), an aggressive new technology strategy developed by Chihuahua’s Secretaria de Seguridad Pública Estatal (Secretary of State Public Security or SSPE) in collaboration with the company Seguritech.

    With its sprawling infrastructure, the Plataforma Centinela will create an atmosphere of surveillance and data-streams blanketing the entire region. The plan calls for nearly every cutting-edge technology system marketed at law enforcement: 10,000 surveillance cameras, face recognition, automated license plate recognition, real-time crime analytics, a fleet of mobile surveillance vehicles, drone teams and counter-drone teams, and more.

    If the project comes together as advertised in the Avengers-style trailer that SSPE released to influence public opinion, law enforcement personnel on site will be surrounded by wall-to-wall monitors (140 meters of screens per floor), while 2,000 officers in the field will be able to access live intelligence through handheld tablets.

    https://www.youtube.com/watch?v=NKPuur6s4qg

    Texas law enforcement will also have “eyes on this side of the border” via the Plataforma Centinela, Chihuahua Governor Maru Campos publicly stated last year. Texas Governor Greg Abbott signed a memorandum of understanding confirming the partnership.

    Plataforma Centinela will transform public life and threaten human rights in the borderlands in ways that aren’t easy to assess. Regional newspapers and local advocates–especially Norte Digital and Frente Político Ciudadano para la Defensa de los Derechos Humanos (FPCDDH)—have raised significant concerns about the project, pointing to a low likelihood of success and high potential for waste and abuse.

    “It is a myopic approach to security; the full emphasis is placed on situational prevention, while the social causes of crime and violence are not addressed,” FPCDDH member and analyst Victor M. Quintana tells EFF, noting that the Plataforma Centinela’s budget is significantly higher than what the state devotes to social services. “There are no strategies for the prevention of addiction, neither for rebuilding the fabric of society nor attending to dropouts from school or young people at risk, which are social causes of insecurity.”

    Instead of providing access to unfiltered information about the project, the State of Chihuahua has launched a public relations blitz. In addition to press conferences and the highly-produced cinematic trailer, SSPE recently hosted a “Pabellón Centinel” (Sentinel Pavillion), a family-friendly carnival where the public was invited to check out a camera wall and drones, while children played with paintball guns, drove a toy ATV patrol vehicle around a model city, and colored in illustrations of a data center operator.

    Behind that smoke screen, state officials are doing almost everything they can to control the narrative around the project and avoid public scrutiny.

    According to news reports, the SSPE and the Secretaría de Hacienda (Finance Secretary) have simultaneously deemed most information about the project as classified and left dozens of public records requests unanswered. The Chihuahua State Congress also rejected a proposal to formally declassify the documents and stymied other oversight measures, including a proposed audit. Meanwhile, EFF has submitted public records requests to several Texas agencies and all have claimed they have no records related to the Plataforma Centinela.

    This is all the more troubling considering the relationship between the state and Seguritech, a company whose business practices in 22 other jurisdictions have been called into question by public officials.

    What we can be sure of is that the Plataforma Centinela project may serve as proof of concept of the kind of panopticon surveillance governments can get away with in both North America and Latin America.
    What Is the Plataforma Centinela?

    High-tech surveillance centers are not a new phenomenon on the Mexican side of the border. These facilities tend to use “C” distinctions to explain their functions and purposes. EFF has mapped out dozens of these in the six Mexican border states.

    https://www.eff.org/files/2023/09/14/c-centers_map.png
    https://www.google.com/maps/d/viewer?mid=1W73dMXnuXvPl5cSRGfi1x-BQAEivJH4&ll=25.210543464111723%2C-105.379

    They include:

    - C4 (Centro de Comunicación, Cómputo, Control y Comando) (Center for Communications, Calculation, Control, and Command),
    - C5 (Centro de Coordinación Integral, de Control, Comando, Comunicación y Cómputo del Estado) (Center for Integral Coordination for Control, Command, Communications, and State Calculation),
    - C5i (Centro de Control, Comando, Comunicación, Cómputo, Coordinación e Inteligencia) (Center for Control, Command, Communication, Calculation, Coordination and Intelligence).

    Typically, these centers focus as a cross between a 911 call center and a real-time crime center, with operators handling emergency calls, analyzing crime data, and controlling a network of surveillance cameras via a wall bank of monitors. In some cases, the Cs may be presented in different order or stand for slightly different words. For example, some C5s might alternately stand for “Centros de Comando, Control, Comunicación, Cómputo y Calidad” (Centers for Command, Control, Communication, Computation and Quality). These facilities also exist in other parts of Mexico. The number of Cs often indicate scale and responsibilities, but more often than not, it seems to be a political or marketing designation.

    The Plataforma Centinela however, goes far beyond the scope of previous projects and in fact will be known as the first C7 (Centro de Comando, Cómputo, Control, Coordinación, Contacto Ciudadano, Calidad, Comunicaciones e Inteligencia Artificial) (Center for Command, Calculation, Control, Coordination, Citizen Contact, Quality, Communications and Artificial Intelligence). The Torre Centinela in Ciudad Juarez will serve as the nerve center, with more than a dozen sub-centers throughout the state.

    According to statistics that Gov. Campos disclosed as part of negotiations with Texas and news reports, the Plataforma Centinela will include:

    - 1,791 automated license plate readers. These are cameras that photograph vehicles and their license plates, then upload that data along with the time and location where the vehicles were seen to a massive searchable database. Law enforcement can also create lists of license plates to track specific vehicles and receive alerts when those vehicles are seen.
    - 4,800 fixed cameras. These are your run-of-the-mill cameras, positioned to permanently surveil a particular location from one angle.
    - 3,065 pan-tilt-zoom (PTZ) cameras. These are more sophisticated cameras. While they are affixed to a specific location, such as a street light or a telephone pole, these cameras can be controlled remotely. An operator can swivel the camera around 360-degrees and zoom in on subjects.
    - 2,000 tablets. Officers in the field will be issued handheld devices for accessing data directly from the Plataforma Centinela.
    - 102 security arches. This is a common form of surveillance in Mexico, but not the United States. These are structures built over highways and roads to capture data on passing vehicles and their passengers.
    - 74 drones (Unmanned Aerial Vehicles/UAVs). While the Chihuahua government has not disclosed what surveillance payload will be attached to these drones, it is common for law enforcement drones to deploy video, infrared, and thermal imaging technology.
    - 40 mobile video surveillance trailers. While details on these systems are scant, it is likely these are camera towers that can be towed to and parked at targeted locations.
    - 15 anti-drone systems. These systems are designed to intercept and disable drones operated by criminal organizations.
    - Face recognition. The project calls for the application of “biometric filters” to be applied to camera feeds “to assist in the capture of cartel leaders,” and the collection of migrant biometrics. Such a system would require scanning the faces of the general public.
    - Artificial intelligence. So far, the administration has thrown around the term AI without fully explaining how it will be used. However, typically law enforcement agencies have used this technology to “predict” where crime might occur, identify individuals mostly likely to be connected to crime, and to surface potential connections between suspects that would not have been obvious to a human observer. However, all these technologies have a propensity for making errors or exacerbating existing bias.

    As of May, 60% of the Plataforma Centinela camera network had been installed, with an expected completion date of December, according to Norte Digital. However, the cameras were already being used in criminal investigations.

    All combined, this technology amounts to an unprecedented expansion of the surveillance state in Latin America, as SSPE brags in its promotional material. The threat to privacy may also be unprecedented: creating cities where people can no longer move freely in their communities without being watched, scanned, and tagged.

    But that’s assuming the system functions as advertised—and based on the main contractor’s history, that’s anything but guaranteed.
    Who Is Seguritech?

    The Plataforma Centinela project is being built by the megacorporation Seguritech, which has signed deals with more than a dozen government entities throughout Mexico. As of 2018, the company received no-bid contracts in at least 10 Mexican states and cities, which means it was able to sidestep the accountability process that requires companies to compete for projects.

    And when it comes to the Plataforma Centinela, the company isn’t simply a contractor: It will actually have ownership over the project, the Torre Centinela, and all its related assets, including cameras and drones, until August 2027.

    That’s what SSPE Secretary Gilberto Loya Chávez told the news organization Norte Digital, but the terms of the agreement between Seguritech and Chihuahua’s administration are not public. The SSPE’s Transparency Committee decided to classify the information “concerning the procedures for the acquisition of supplies, goods, and technology necessary for the development, implementation, and operation of the Platforma Centinela” for five years.

    In spite of the opacity shrouding the project, journalists have surfaced some information about the investment plan. According to statements from government officials, the Plataforma Centinela will cost 4.2 billion pesos, with Chihuahua’s administration paying regular installments to the company every three months (Chihuahua’s governor had previously said that these would be yearly payments in the amount of 700 million to 1 billion pesos per year). According to news reports, when the payments are completed in 2027, the ownership of the platform’s assets and infrastructure are expected to pass from Seguritech to the state of Chihuahua.

    The Plataforma Centinela project marks a new pinnacle in Seguritech’s trajectory as a Mexican security contractor. Founded in 1995 as a small business selling neighborhood alarms, SeguriTech Privada S.A de C.V. became a highly profitable brand, and currently operates in five areas: security, defense, telecommunications, aeronautics, and construction. According to Zeta Tijuana, Seguritech also secures contracts through its affiliated companies, including Comunicación Segura (focused on telecommunications and security) and Picorp S.A. de C.V. (focused on architecture and construction, including prisons and detention centers). Zeta also identified another SecuriTech company, Tres10 de C.V., as the contractor named in various C5i projects.

    Thorough reporting by Mexican outlets such as Proceso, Zeta Tijuana, Norte Digital, and Zona Free paint an unsettling picture of Seguritech’s activities over the years.

    Former President Felipe Calderón’s war on drug trafficking, initiated during his 2006-2012 term, marked an important turning point for surveillance in Mexico. As Proceso reported, Seguritech began to secure major government contracts beginning in 2007, receiving its first billion-peso deal in 2011 with Sinaloa’s state government. In 2013, avoiding the bidding process, the company secured a 6-billion peso contract assigned by Eruviel Ávila, then governor of the state of México (or Edomex, not to be confused with the country of Mexico). During Enrique Peña Nieto’s years as Edomex’s governor, and especially later, as Mexico’s president, Seguritech secured its status among Mexico’s top technology contractors.

    According to Zeta Tijuana, during the six years that Peña Nieto served as president (2012-2018), the company monopolized contracts for the country’s main surveillance and intelligence projects, specifically the C5i centers. As Zeta Tijuana writes:

    “More than 10 C5i units were opened or began construction during Peña Nieto’s six-year term. Federal entities committed budgets in the millions, amid opacity, violating parliamentary processes and administrative requirements. The purchase of obsolete technological equipment was authorized at an overpriced rate, hiding information under the pretext of protecting national security.”

    Zeta Tijuana further cites records from the Mexican Institute of Industrial Property showing that Seguritech registered the term “C5i” as its own brand, an apparent attempt to make it more difficult for other surveillance contractors to provide services under that name to the government.

    Despite promises from government officials that these huge investments in surveillance would improve public safety, the country’s number of violent deaths increased during Peña Nieto’s term in office.

    “What is most shocking is how ineffective Seguritech’s system is,” says Quintana, the spokesperson for FPCDDH. By his analysis, Quintana says, “In five out of six states where Seguritech entered into contracts and provided security services, the annual crime rate shot up in proportions ranging from 11% to 85%.”

    Seguritech has also been criticized for inflated prices, technical failures, and deploying obsolete equipment. According to Norte Digital, only 17% of surveillance cameras were working by the end of the company’s contract with Sinaloa’s state government. Proceso notes the rise of complaints about the malfunctioning of cameras in Cuauhtémoc Delegation (a borough of Mexico City) in 2016. Zeta Tijuana reported on the disproportionate amount the company charged for installing 200 obsolete 2-megapixel cameras in 2018.

    Seguritech’s track record led to formal complaints and judicial cases against the company. The company has responded to this negative attention by hiring services to take down and censor critical stories about its activities published online, according to investigative reports published as part of the Global Investigative Journalism Network’s Forbidden Stories project.

    Yet, none of this information dissuaded Chihuahua’s governor, Maru Campos, from closing a new no-bid contract with Seguritech to develop the Plataforma Centinela project.
    A Cross-Border Collaboration

    The Plataforma Centinela project presents a troubling escalation in cross-border partnerships between states, one that cuts out each nation’s respective federal governments. In April 2022, the states of Texas and Chihuahua signed a memorandum of understanding to collaborate on reducing “cartels’ human trafficking and smuggling of deadly fentanyl and other drugs” and to “stop the flow of migrants from over 100 countries who illegally enter Texas through Chihuahua.”

    https://www.eff.org/files/2023/09/14/a_new_border_model.png

    While much of the agreement centers around cargo at the points of entry, the document also specifically calls out the various technologies that make up the Plataforma Centinela. In attachments to the agreement, Gov. Campos promises Chihuahua is “willing to share that information with Texas State authorities and commercial partners directly.”

    During a press conference announcing the MOU, Gov. Abbot declared, “Governor Campos has provided me with the best border security plan that I have seen from any governor from Mexico.” He held up a three-page outline and a slide, which were also provided to the public, but also referenced the existence of “a much more extensive detailed memo that explains in nuance” all the aspects of the program.

    Abbott went on to read out a summary of Plataforma Centinela, adding, “This is a demonstration of commitment from a strong governor who is working collaboratively with the state of Texas.”

    Then Campos, in response to a reporter’s question, added: “We are talking about sharing information and intelligence among states, which means the state of Texas will have eyes on this side of the border.” She added that the data collected through the Plataforma Centinela will be analyzed by both the states of Chihuahua and Texas.

    Abbott provided an example of one way the collaboration will work: “We will identify hotspots where there will be an increase in the number of migrants showing up because it’s a location chosen by cartels to try to put people across the border at that particular location. The Chihuahua officials will work in collaboration with the Texas Department of Public Safety, where DPS has identified that hotspot and the Chihuahua side will work from a law enforcement side to disrupt that hotspot.”

    In order to learn more about the scope of the project, EFF sent public records requests to several Texas agencies, including the Governor’s Office, the Texas Department of Public Safety, the Texas Attorney General’s Office, the El Paso County Sheriff, and the El Paso Police Department. Not one of the agencies produced records related to the Plataforma Centinela project.

    Meanwhile, Texas is further beefing up its efforts to use technology at the border, including by enacting new laws that formally allow the Texas National Guard and State Guard to deploy drones at the border and authorize the governor to enter compacts with other states to share intelligence and resource to build “a comprehensive technological surveillance system” on state land to deter illegal activity at the border. In addition to the MOU with Chihuahua, Abbott also signed similar agreements with the states of Nuevo León and Coahuila in 2022.
    Two Sides, One Border

    The Plataforma Centinela has enormous potential to violate the rights of one of the largest cross-border populations along the U.S.-Mexico border. But while law enforcement officials are eager to collaborate and traffic data back and forth, advocacy efforts around surveillance too often are confined to their respective sides.

    The Spanish-language press in Mexico has devoted significant resources to investigating the Plataforma Centinela and raising the alarm over its lack of transparency and accountability, as well as its potential for corruption. Yet, the project has received virtually no attention or scrutiny in the United States.

    Fighting back against surveillance of cross-border communities requires cross-border efforts. EFF supports the efforts of advocacy groups in Ciudad Juarez and other regions of Chihuahua to expose the mistakes the Chihuahua government is making with the Plataforma Centinela and call out its mammoth surveillance approach for failing to address the root social issues. We also salute the efforts by local journalists to hold the government accountable. However, U.S-based journalists, activists, and policymakers—many of whom have done an excellent job surfacing criticism of Customs and Border Protection’s so-called virtual wall—must also turn their attention to the massive surveillance that is building up on the Mexican side.

    In reality, there really is no Mexican surveillance and U.S. surveillance. It’s one massive surveillance monster that, ironically, in the name of border enforcement, recognizes no borders itself.

    https://www.eff.org/deeplinks/2023/09/state-chihuahua-building-20-story-tower-ciudad-juarez-surveil-13-cities-and-sta
    #surveillance #tour #surveillance_de_masse #cartographie #visualisation #intelligence_artificielle #AI #IA #frontières #contrôles_frontaliers #technologie #Plataforma_Centinela #données #reconnaissance_faciale #caméras_de_surveillance #drones #Seguritech #complexe_militaro-industriel #Mexique

  • Six policiers violents en roue libre au tribunal - POLITIS
    https://www.politis.fr/articles/2023/05/pantin-six-policiers-btc-quatre-chemins-violents-en-roue-libre-juges-a-bobig

    Que dire de ceux qui témoignent avoir été emmenés au poste et tabassés dans les geôles, des membres cassés, des hématomes, des dents perdues, des humiliations, des dizaines de jours d’ITT accumulés. Dans le commissariat de Pantin, « les salles de fouilles sont remplies de sang jusqu’au plafond, témoigne un gardien de la paix devant l’IGPN. Les violences s’effectuent sur le banc des vérifications mais aussi en salle de fouille. C’est tout le temps la BTC Quatre-Chemins qui frappe les interpellés. Ils les traînent jusqu’en salle de fouille et après, on les entend hurler. »

    Seine-Saint-Denis : cinq policiers condamnés jusqu’à [tadadam] un an ferme pour violences, faux PV…
    https://www.liberation.fr/societe/police-justice/seine-saint-denis-jusqua-un-an-ferme-pour-cinq-policiers-pour-violences-f

    #police #torture #justice

    • Et #impunité :
      (Politis)

      Les policiers risquent jusqu’à dix ans de prison.

      (Libé)

      Le gardien de la paix Raphaël I., qui a depuis quitté la police pour se reconvertir dans l’informatique, a écopé de la peine la plus lourde. Trois ans de prison dont deux avec sursis pour de multiples violences au cours d’interpellations.
      À l’encontre du chef de la brigade Christian M., le tribunal a prononcé une peine de 18 mois de prison dont dix assortis d’un sursis simple pour avoir fracassé à la matraque la main d’un jeune dealer dans une pièce du commissariat.
      Quant au gardien de la paix Yazid B., qui avait décrit à la barre leur unité comme « des jeunes flicards qui en voulaient », il a été condamné à 12 mois de prison dont six avec sursis pour des coups non-justifiés portés à des interpellés en plusieurs occasions.
      Julien S., surnommé L’Electricien pour sa propension à utiliser le pistolet à impulsion électrique, a écopé de huit mois avec sursis pour des coups et jets de gaz lacrymogène.
      Le dernier, Damien P., dont le parquet avait demandé la relaxe faute de preuves suffisantes selon lui, a été condamné à six mois de prison avec sursis pour des violences.

      « Si les peines peuvent paraître importantes, le tribunal a eu à juger des personnes qui détiennent une parcelle de l’autorité publique, qui sont garantes de la liberté et la sécurité des citoyens et un pilier de la démocratie et de la République », a justifié la présidente du tribunal Dominique Pittilloni en conclusion de son délibéré.

      Donc, en détenant une parcelle d’autorité, tu as toutes les chances d’être partiellement puni.

  • Petit manuel de torture à l’usage des femmes-soldats, Coco Fusco
    http://www.lesprairiesordinaires.com/petit-manuel-de-torture-agrave-lusage-des-femmes-soldats.html

    Un musulman détenu à Abou Ghraïb ou à Guantanamo. Une femme-soldat mettant son zèle militaire et sa féminité au service de la Guerre contre le Terrorisme. Des manuels de l’armée sur la coercition du prisonnier, et des consignes implicites sur les « tactiques sexuelles » qu’on peut employer. Tels sont les éléments de l’interrogatoire en tant que dispositif politique. Après ceux qui firent scandale en 2004, où des violences sexuelles furent exercées par des femmes, l’artiste Coco Fusco a suivi une formation militaire à l’interrogatoire, dépouillé les archives de l’armée et du FBI, et navigué dans le vertige de forums et d’images consacrés à des actes de #torture sexuelle. Ce qu’elle en ressort nous confronte non seulement à « l’état d’exception » américain et au rapport des femmes au pouvoir, mais aussi à l’énigme de la domination. Cheminant de Susan Sontag à Virginia Woolf, Coco Fusco réenvisage la question de la guerre en deça et au-delà de la différence sexuelle.

    Un extrait de la préface :
    Les guerres que nous n’avons pas vues, Claire Fontaine

    Ce que cette étrangeté libératrice a en commun avec celle de la Société des Marginales de Virginia Woolf est d’être à la fois le moyen et la fin de la lutte, d’être à partir du moment même où elle est déclarée un espace de liberté et d’amélioration des relations et du réel. Ce refus du joug de l’exploitation libère à la fois le patron et l’ouvrier, l’homme et la femme : « Plus jamais vous ne seriez – promet Woolf à l’homme qui vivrait dans la société où les femmes sont libres et respectées – le visiteur du samedi, l’albatros rejeté par la société, l’homme implorant la sympathie telle une drogue, l’esclave du travail aplati, suppliant d’être regonflé1-. » Mais c’est uniquement en prenant pour leviers l’absence de droits et de reconnaissance qu’une telle révolution copernicienne pourrait s’accomplir, et jamais par le passage de l’exploité du côté de l’exploiteur. Dans la situation de domination que nous vivons à présent, les #femmes, en tant que sujets potentiellement porteurs de pratiques de liberté, sont absentes ou presque de la scène politique. Le gouvernement Sarkozy a été exemplaire dans son usage médiatique de femmes issues de minorités ethniques pour mettre en œuvre des politiques plus dures que celles de ses prédécesseurs. Cela n’enlève rien à l’actualité et à l’intelligence de la proposition de Virginia Woolf, qui est – au contraire – celle de s’abstenir de rallier le pire, d’y rester si résolument étrangères que notre « étrangeté » finira par contaminer les autres, et de déplacer ainsi l’idéal discutable de la chasteté corporelle sur le plan de la chasteté professionnelle ; gagner sa vie pour être indépendantes, mais faire chaque travail comme l’étrangère qui se doit de rendre la cité du monde habitable : aller au travail comme on fait la grève, faire du travail une forme active de grève.

    Dans sa conférence « Notre avenir féministe », Coco Fusco tombe dans un sarcasme dont il est facile de repérer les motifs, mais qui enlève, d’après nous, de la force à son argumentaire. En tant qu’artiste femme et militante qui travaille à partir des contradictions les plus criantes de la société contemporaine, jusqu’à les expérimenter sur sa propre peau en participant à un cours pour devenir chargé d’interrogatoire, Fusco n’a pas besoin, nous semble-t-il, de ressortir les analogies somme toute banales entre guerre et business, guerre et marché de l’art. Les arguments qu’elle pourrait déployer contre l’hostilité manifeste des institutions à l’encontre des valeurs féministes promulguées par certaines œuvres pourraient être à la fois moins résignés et plus mordants.
    Rappeler au public du monde de l’art des évidences telles que « la paix fait sourdement la guerre » et « il n’y a pas de sujet neutre », ou qu’en tant qu’artiste, commissaire d’exposition ou collectionneur, nous ne sommes pas à l’abri du conflit, que nous vivons dans un état d’exception devenu la règle, que nous avons chacun et chacune des ennemis, que nous faisons tous partie d’une race, d’un sexe, d’une classe et que les espaces pour suspendre ces déterminations oppressantes sont à construire tous les jours et à protéger de toutes nos forces – voilà qui serait sans doute plus difficile mais plus approprié. Le vrai problème du #féminisme, c’est à la fois la racine de notre liberté et les circonstances dans lesquelles nous pouvons l’exercer. Si l’appareil juridique qui excluait les femmes jusqu’à hier se met désormais à les protéger tout en gardant son édifice inchangé, le scepticisme est bien l’attitude à afficher vis-à- vis d’un tel « progrès ».

    #livre #violence

  • Introduction to New Cobalt Project - Punta Corna, Northern Italy (2018)

    Dans la vidéo ont explique le nouveau projet de #Alta_zinc, là aussi, comme pour le projet de #Gorno, ils peuvent s’appuyer sur des plans et des galeries déjà existantes, comme ils l’expliquent dans la vidéo.

    Le « grand moment » de la production dans la région « l’âge du cobalt » : 1753 à 1833.

    –-> selon ce site web, l’activité minière a bien débuté en 1753 mais s’est arrêtée en 1848 :

    Cobalt mines opened near Punta Corna-#Torre_di_Ovarda and #Bessanet Mt, and active between 1753 and 1848. The ore extracted was used for the glass industry and it was exported especially to Germany. Mined for iron, and locally for silver, in the middle ages (13th–15th centuries).

    https://www.mindat.org/loc-31111.html

    #Fabio_Granitzio rencontre des personnes qui connaissent l’histoire des activités minières au Musée d’archéologie et minéralogie de #Usseglio :

    #Domenico_Bertino, curateur du musée, explique que le matériaux, déjà « préparé » était exporté pour la majeure partie, en #Allemagne, pour la production de colorant.


    A cette époque Usseglio avait 2500 habitants alors que maintenant (2018 donc) il y en a 180.

    https://vimeo.com/263713276


    #Altamin #vidéo #Alta_zinc
    #mines #extractivisme #Italie #Alpes #montagne #Altamin #Energia_Minerals
    #Punta_Corna #Usseglio #histoire

    –—

    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

  • 🛑 TORTURE ET MEURTRE EN ALGÉRIE : 60 ANS APRÈS, L’IMPUNITÉ DE JEAN-MARIE LE PEN... - Contre Attaque

    🛑 « JE N’AI RIEN À CACHER. J’AI TORTURÉ PARCE QU’IL FALLAIT LE FAIRE ». CE SONT LES MOTS DE JEAN-MARIE LE PEN EN 1962, DANS LE JOURNAL COMBAT...

    Oui, Le Pen, fondateur du Front National et père de la double finaliste des dernières élections présidentielles est un tortionnaire. Il est coupable de crimes contre l’humanité au sens du droit international. De nombreux témoignages confirment que le parrain de l’extrême droite française a bien commis des actes de torture et de barbarie ignobles, jusqu’au meurtre, sur des personnes algériennes en 1957 lors de la Guerre d’Algérie (...)

    ⚡️ #Algérie #GuerreAlgérie #colonialisme #nationalisme #barbarie #torture #meurtre #jeanmarielepen #extrêmedroite #impunité

    ⏩ Lire l’article complet...
    ▶️ https://contre-attaque.net/2023/07/30/torture-et-meurtre-en-algerie-60-ans-apres-limpunite-de-jean-marie-l

  • Le Pen en Algérie : lutter contre l’oubli, Fabrice Riceputi
    https://www.mediapart.fr/journal/dossier/culture-et-idees/le-pen-en-algerie-lutter-contre-l-oubli


    Massu décore Le Pen

    Jean-Marie Le Pen, fondateur du Front national devenu Rassemblement national, a d’abord revendiqué d’avoir pratiqué la torture avant de faire volte-face. Alors qu’un certain négationnisme se fait jour, Mediapart revient sur les trois mois du lieutenant d’extrême droite à Alger, en 1957, et rassemble des témoignages jusque-là épars.

    #France #1957 #extrême_droite #Guerre_d'Algérie #Pleins-pouvoirs #disparitions_forcées #tortures #histoire

  • 🛑 Depuis trente ans, des familles réclament la vérité sur les disparitions forcées en Turquie - Basta !

    Dans les années 1980 et 1990, des centaines de personnes ont été enlevées en Turquie, au cours du conflit qui a opposé le PKK et les forces armées. Depuis, leurs familles manifestent chaque samedi pour demander justice malgré les interdictions.

    #Turquie #Kurdistan #répression #torture #disparitions #DroitsHumains #solidarité

    ⏩ Lire l’article complet…
    ▶️ https://basta.media/depuis-trente-ans-des-familles-reclament-la-verite-sur-les-disparitions-for

  • Pourquoi le père d’Internet s’alarme de ce qui se passe en France - LPM vs Vinton Cerf – Numerama
    https://www.numerama.com/politique/1428864-pourquoi-le-pere-dinternet-salarme-de-ce-qui-se-passe-en-france.ht

    Le loi de programmation militaire contient un volet cyber qui offre des pouvoirs importants à l’agence nationale chargée de la cyberdéfense. Elle doit avoir des capacités de filtrage et de blocage en cas de risque pour la sécurité du pays. Cependant, les orientations techniques font controverse.
    […]
    Les trois articles qui préoccupent ces spécialistes du réseau entendent donc offrir à l’Agence nationale de la sécurité des systèmes d’information (Anssi) de nouveaux pouvoirs. Et c’est ce nouveau régime que ces experts craignent, car ils anticipent des effets néfastes sur le système DNS, la navigation sur le web, la mise en place d’une surveillance sans mandat et des risques de sécurité.

    Dans leur courrier, les douze signataires estiment même que ce que prévoit le projet de loi « pose de graves risques pour la sécurité d’Internet et la liberté d’expression au niveau mondial ». Or, estiment-ils, ces prérogatives « n’apporteront que peu de solutions aux cyber risques […], tout en créant ou en exacerbant par inadvertance d’autres sources de risque. »
    […]
    De fait, la LPM entraîne l’élargissement du champ du blocage par une autorité administrative, en l’occurrence l’Anssi, en sautant la case du juge judiciaire. C’est l’un des griefs des signataires à l’égard de la LPM, soulignant la dérive, ne serait-ce que symbolique, que cela entraîne : si une démocratie se permet cela, alors pourquoi un régime autoritaire ne pourrait pas faire de même ?

    C’est ce qu’écrivent texto Vinton Cerf et ses pairs : « Le fait qu’une démocratie comme la France ratifie des mesures aussi radicales pourrait créer un précédent troublant qui pourrait inspirer des mesures similaires dans des juridictions démocratiques et non démocratiques — avec des implications mondiales pour la sécurité et la liberté en ligne. »

    • France’s browser-based website blocking proposal will set a disastrous precedent for the open internet - Open Policy & Advocacy
      https://blog.mozilla.org/netpolicy/2023/06/26/france-browser-website-blocking

      In a well-intentioned yet dangerous move to fight online fraud, France is on the verge of forcing browsers to create a dystopian technical capability. Article 3 (para II and III) of the SREN Bill would force browser providers to create the means to mandatorily block websites present on a government provided list. Such a move will overturn decades of established content moderation norms and provide a playbook for authoritarian governments that will easily negate the existence of censorship circumvention tools.

    • Ce genre de bidule créerait de l’insécurité pour les éditeurs de logiciel et leurs représentants en France, et pour les développeurs, s’il s’agit de pur opensource indépendant, et pour les utilisateurs qui tenteraient d’utiliser une version normale du navigateur. Il s’agirait d’une forme de prohibition avec tous les effets adverses habituels dans un tel cas.
      Pour mémoire, en Chine, tu utilises un VPN, tu es repéré, forcément, par le fait que ton trafic est illisible, et la Police vient te voir, forcément, parce que ton trafic illisible est de toute façon relié à ton terminal, qui est forcément relié à ta personne, par ta connexion à Internet.
      Si vraiment nos élites veulent aller dans ce sens, c’est ce qu’il va nous arriver, c’est à dire qu’un navigateur qui laisserait passer une communication vers une ressource interdite pourrait être repéré et signalé et enquêté, et in fine condamné.

    • Donc la #surveillance généralisée vient de marquer un gros point (de la mort-qui-tue). Bordaaayl ! Mais quel #seum infernal !
      A moins que tous·tes les internautes en viennent à se dissimuler derrière une IP « exotique » parce qu’il n’y aura pas assez de « FDO » pour surveiller tout le monde. Un peu comme pour tous ces incendies qui viennent ponctuer les « cent jours d’apaisement ».

    • Lettre d’information de Mozilla reçue aujourd’hui même :

      Bonjour,
      Le gouvernement français prépare une loi qui pourrait menacer la liberté sur Internet.

      Le projet de loi visant à sécuriser et réguler l’espace numérique (SREN) est conçu pour renforcer la sécurité en ligne. Mais ce projet de loi va bien trop loin et comprend un article qui accorderait au gouvernement le pouvoir de censurer ce que vous pouvez ou ne pouvez pas voir en ligne.

      Ce projet de loi obligerait les navigateurs web, comme Firefox de Mozilla, à bloquer au niveau du navigateur des sites web sélectionnés par le gouvernement. Cette mesure créerait un dangereux précédent et servirait de modèle à d’autres gouvernements pour à leur tour transformer les navigateurs en outils de censure gouvernementaux.

      Il est encore possible d’empêcher cela, mais le temps presse. Le gouvernement a présenté le projet de loi devant le Parlement peu avant les vacances d’été et espère l’adopter aussi rapidement et discrètement que possible ; le gouvernement a même engagé la procédure accélérée, le vote devant avoir lieu à l’automne.

      Si nous rendons cela public maintenant et si nous mobilisons suffisamment de citoyen·ne·s françai·se·s, nous pourrions convaincre les parlementaires français d’amender le projet de loi et de protéger les libertés sur Internet. Pouvez-vous ajouter votre nom afin de faire changer ce projet de loi ?

      Signez la pétition maintenant et demandez au gouvernement français de supprimer du projet de loi SREN toute censure au niveau du navigateur. En ajoutant votre nom, vous contribuerez à empêcher les gouvernements d’utiliser des navigateurs comme Firefox de Mozilla comme outils de censure.
      Signer notre pétition →

      Le SREN comprend un certain nombre de bonnes mesures, y compris la mise en œuvre du récent règlement européen que nous avons défendu. Toutefois, l’article 6, qui prévoit le blocage de sites web choisis par le gouvernement au niveau du navigateur, va bien au-delà des mesures prises par l’UE pour sécuriser Internet, qui relèvent du bon sens.

      Le gouvernement affirme que ces mesures sont nécessaires pour lutter contre les arnaques et l’hameçonnage. Mais elles vont trop loin. La proposition du gouvernement n’est rien d’autre qu’une censure d’Internet intégrée aux navigateurs web.

      Mozilla se bat depuis 25 ans pour un Internet libre et sûr. Par le passé, nous avons défendu avec succès la neutralité du Net et combattu les menaces qui pèsent sur l’Internet ouvert qui nous tient à cœur. Ensemble, ajoutons une nouvelle victoire à cette liste et empêchons le gouvernement français de censurer le Web.

      Signez la pétition maintenant et demandez au gouvernement français de supprimer la censure au niveau du navigateur prévue par l’article 6 du projet de loi SREN. Plus il y aura de signataires en France, plus nous aurons de chances de convaincre le gouvernement de supprimer cette disposition.

      Merci de défendre l’Internet ouvert,

      Claire Pershan

      Responsable du plaidoyer pour l’UE
      Mozilla

      https://foundation.mozilla.org/fr/campaigns/sign-our-petition-to-stop-france-from-forcing-browsers-like-mozi

      Contenu de l’article 6 en question :
      https://justpaste.it/abkae
      (parce que sur le site de l’AN, le texte est rendu illisible par un panneau latéral gauche qui affiche le sommaire).

  • #Santé_mentale et migration

    #Marie-Caroline_Saglio-Yatzimirski, directrice adjointe de l’Institut Convergence Migrations, anthropologue et psychologue, explique comment les vécus pré-migratoires (#violences extrêmes, #tortures, #viols, #emprisonnement…), migratoires (séparations, pertes familiales…) et post-migratoires (déracinement, perte identitaire, précarité et stigmatisation, conditions d’accueil…) peuvent détériorer la santé mentale.
    Parmi ces personnes, certaines vivent dans des conditions particulièrement précaires (rue, camps), certaines sont très vulnérables (jeunes mères, mineurs non accompagnés…).

    Les violences sont répétées dans les longs parcours migratoires et les conditions d’accueil ont tendance à dégrader la santé mentale des personnes. En conséquence, il y a une prévalence des troubles stress post-traumatiques et des dépressions chez les migrants.
    Malgré leur besoin de prise en charge, ces personnes rencontrent des difficultés d’accès aux soins.

    #Andréa_Tortelli, psychiatre et chercheuse à l’INSERM, souligne que de nombreuses barrières s’opposent à la prise en charge des migrants : la nécessité d’interprétariat par exemple, l’absence d’adresse stable, des services psychiatriques peu concentrés sur les pathologies des migrants. Quant aux personnes migrantes, la #santé n’est pas prioritaire par rapport aux besoins vitaux de se nourrir, de nourrir les enfants. Ils sont isolés et ont une méconnaissance du système. La #prise_en_charge est surtout un travail de #prévention des facteurs de #détresse : accompagnement social, somatique, et psychiatrique. La prise en charge idéale est globale.
    Ces personnes ont fait de longs parcours et ont déjà fait preuve de facteurs de résilience.

    https://www.youtube.com/watch?v=NYmqTxHRVnA&t=5s

    #migrations #réfugiés #précarité #vulnérabilité

  • Affaire du 8 décembre : le chiffrement des communications assimilé à un comportement terroriste – La Quadrature du Net
    https://www.laquadrature.net/2023/06/05/affaire-du-8-decembre-le-chiffrement-des-communications-assimile-a-un-

    Cet article a été rédigé sur la base d’informations relatives à l’affaire dite du “8 décembre”1 dans laquelle 7 personnes ont été mises en examen pour « association de malfaiteurs terroristes » en décembre 2020. Leur procès est prévu pour octobre 2023. Ce sera le premier procès antiterroriste visant « l’ultragauche » depuis le fiasco de l’affaire Tarnac2.

    L’accusation de terrorisme est rejetée avec force par les inculpé·es. Ces dernier·es dénoncent un procès politique, une instruction à charge et une absence de preuves. Ils et elles pointent en particulier des propos decontextualisés et l’utilisation à charge de faits anodins (pratiques sportives, numériques, lectures et musiques écoutées…)3. De son côté la police reconnaît qu’à la fin de l’instruction – et dix mois de surveillance intensive – aucun « projet précis » n’a été identifié4.

    L’État vient d’être condamné pour le maintien à l’isolement du principal inculpé pendant 16 mois et dont il n’a été libéré qu’après une grève de la faim de 37 jours. Une seconde plainte, en attente de jugement, a été déposée contre les fouilles à nu illégales et répétées qu’une inculpée a subies en détention provisoire5.

    De nombreuses personnalités, médias et collectifs leur ont apporté leur soutien6.

    C’est dans ce contexte que nous avons été alerté du fait que les pratiques numériques des inculpé·es – au premier rang desquelles l’utilisation de messageries chiffrées grand public – sont instrumentalisées comme « preuves » d’une soi-disant « clandestinité » venant révéler l’existence d’un projet terroriste inconnu.

    Nous avons choisi de le dénoncer.

  • « Le bitcoin épouse parfaitement la matrice politique de l’extrême droite » - Numerama
    https://www.numerama.com/tech/1393844-le-bitcoin-epouse-parfaitement-la-matrice-politique-de-lextreme-dr

    Le bitcoin, un outil réactionnaire ?

    Numerama — De quoi parle votre livre ?
    Nastasia Hadjadji — C’est un livre qui retrace l’histoire intellectuelle des cryptos et du bitcoin. Je retrace la matrice politique réactionnaire de l’industrie alors qu’elle se présente étant tournée vers le progrès, vers l’innovation, à grand renfort de marketing et de promesses d’inclusion. Le livre met au jour les soubassements idéologiques d’une industrie qui se trouve au carrefour de la tech, de l’économie et de la politique. Mais sa dimension politique est savamment dissimulée, alors que c’est le lieu d’une bataille idéologique très forte, qui accompagne un mouvement plus général dans le monde de droitisation du capitalisme et des technologies.

  • « Jeudi Noir » - Rapport d’enquête sur la répression sanglante des manifestation du 20 octobre 2022 au Tchad - OMCT-LTDH - Avril 2023
    https://www.omct.org/site-resources/files/Rapport-Tchad-OMCT-LTDH-_-Avril-2023.pdf

    Le 20 octobre 2022, le Tchad s’est réveillé dans un chaos infernal marqué par une répression sans précédent de manifestants pacifiques écrasés par des bombes lacrymogènes et des tirs à balles réelles de la part des forces de sécurité. Ce « Jeudi Noir » restera dans l’histoire comme le jour de la prise de pouvoir effective du général Mahamat Idriss Déby Itno, fils du défunt président, Idriss Déby Itno, grâce à un recours excessif et brutal à la force en dehors des principes démocratiques constitutionnellement consacrés.
    Six mois après la répression sanglante de manifestations au Tchad, l’Organisation Mondiale Contre la Torture (OMCT) et la Ligue Tchadienne des Droits de l’Homme (LTDH) publient un rapport d’enquête qui documente l’usage planifié et disproportionné de la force armée, la traque des opposants, les disparitions forcées et les déportations massives vers des lieux de détention où la torture a été pratiquée. Trois mois d’enquêtes dans la capitale N’Djamena et les villes de Moundou, Mongo, Doba et Koumra, et une cinquantaine de témoignages de rescapés, de familles de victimes et de témoins oculaires, ont permis d’établir que la répression des manifestations du 20 octobre 2022 par les autorités tchadiennes s’est soldée par la mort de 218 personnes, des dizaines de torturés, des centaines de blessés, au moins 40 cas de disparitions et 1300 arrestations.

    #Tchad #Répression #Torture #Manifestations #Disparitions_forcées

  • Comment la #France verrouille son #passé_colonial

    La polémique en France sur la notion de #crime_contre_l'humanité du temps de la #colonisation rappelle les vifs débats causés dans ce même pays il y a plus de dix ans par l’adoption de la loi du 23 février 2005 qui ne retenait que le « rôle positif de la présence française outre-mer ». L’« #affaire_Macron » met en exergue le profond malaise lié au passé colonial de la France, souligne la professeure de droit Sévane Garibian.

    Quoi que l’on pense des propos récents d’#Emmanuel_Macron sur la #colonisation_française, il est utile d’observer leurs effets en recourant à une temporalité plus longue, dépassant le court terme médiatico-politique. La #polémique née il y a quelques jours en France rappelle, en symétrie inversée, les vifs débats causés dans ce même pays il y a plus de dix ans par l’adoption de la loi du 23 février 2005 qui ne retenait que le « #rôle_positif de la présence française outre-mer ». La disposition litigieuse (finalement abrogée par décret en 2006), tout comme les rebondissements et double discours dans ladite « affaire Macron », auront eu pour mérite de mettre en acte le profond #malaise lié au passé colonial de la France.

    Ce trouble s’est régulièrement nourri de résistances dont nous trouvons de multiples traces dans le champ du #droit, grand absent des commentaires de ces derniers jours. Abordons donc cette polémique de biais : par ce qu’elle ne dit pas, par ce qu’elle occulte. Rappelons ainsi que la Cour de cassation française eut l’occasion de produire une jurisprudence relative aux #crimes commis en #Algérie (#affaires_Lakhdar-Toumi_et_Yacoub, 1988) ainsi qu’en #Indochine (#affaire_Boudarel, 1993). Une #jurisprudence méconnue, ou tombée dans l’oubli, qui soulevait pourtant directement la question de la qualification ou non de crime contre l’humanité pour ces actes.

    Les précédents

    Plusieurs historiens ont pu souligner dernièrement la distinction entre les usages juridiques, historiques et moraux du concept de crime contre l’humanité, tout en rappelant que ce dernier ne peut se trouver, aujourd’hui en France, au cœur de #poursuites_pénales visant les #crimes_coloniaux. Quelle est donc l’histoire du droit menant à un tel constat ? Afin de mieux comprendre ce dont il s’agit, il est possible d’ajouter deux distinctions à la première.

    D’abord, une distinction entre le problème de la #qualification de crime contre l’humanité (qui renvoie à la question complexe de la #définition de ce crime en #droit_français), et celui de l’#amnistie prévue, pour les crimes visés, par des lois de 1966 et 1968. Ces deux points fondent les justifications discutables du refus de poursuivre par la #Cour_de_cassation dans les affaires précitées ; mais seul le premier constituait déjà le réel enjeu. En l’état du droit, et contrairement à ce qu’affirmaient alors les juges de cassation, la qualification de crime contre l’humanité aurait en effet pu permettre, au-delà du symbole, de constater une #imprescriptibilité (inexistante en France pour les crimes de guerre) défiant l’amnistie.

    Plus tard, la Cour de cassation admettra d’ailleurs en creux le caractère « inamnistiable » des crimes contre l’humanité, non reconnus en l’espèce, dans l’affaire de la manifestation du 17 octobre 1961, en 2000, puis dans l’#affaire_Aussaresses en 2003 – toutes deux en relation avec les « évènements d’Algérie ». Entre les deux, elle confirmera dans l’#affaire_Ely_Ould_Dah (2002) la poursuite, en France, d’un officier de l’armée mauritanienne pour des faits de #torture et des actes de #barbarie amnistiés dans son propre pays : il semble manifestement plus aisé d’adopter une attitude claire et exigeante à l’encontre de lois d’amnistie étrangères.

    Volonté de verrouillage

    En outre, et c’est là que se niche la seconde distinction, une analyse plus poussée du raisonnement de la Cour dans les affaires Lakhdar-Toumi, Yacoub et Boudarel met en lumière une volonté des juges de verrouiller toute possibilité de traitement des crimes coloniaux. Il importe donc de distinguer ici les questions de droit et les politiques juridiques qui sont à l’œuvre. L’historienne Sylvie Thénault écrivait récemment que « toute #définition_juridique est le résultat d’une construction par des juristes et d’une évolution de la jurisprudence » (Le Monde du 16 février). Or il n’existait à l’époque des affaires précitées que des définitions jurisprudentielles, plus (#affaire_Barbie) ou moins (#affaire_Touvier) larges du crime contre l’humanité en France, lequel ne fera son apparition dans le Code pénal qu’en 1994.

    A y regarder de plus près, on comprend que les juges de cassation rejettent la qualification de crime contre l’humanité pour les crimes coloniaux à plusieurs reprises, en choisissant de s’appuyer exclusivement sur la #jurisprudence_Touvier. Celle-ci limite, à l’inverse de la #jurisprudence_Barbie, la définition du crime contre l’humanité aux crimes nazis commis « pour le compte d’un pays européen de l’Axe ». Si la jurisprudence Touvier permit en son temps d’esquiver habilement le problème de la #responsabilité de la France de Vichy, elle bloquera aussi, par ricochet, toute possibilité de répression des crimes perpétrés par des Français pour le compte de la France, jusqu’en 1994.

    Le verrouillage est efficace. Et le #refoulement créé par cette configuration juridique, souvent ignorée, est à la mesure du trouble que suscitent encore aujourd’hui les faits historiques survenus dans le contexte de la #décolonisation. Plus généralement, l’ensemble illustre les multiples formes d’usages politiques de l’histoire, comme du droit.

    https://www.letemps.ch/opinions/france-verrouille-passe-colonial

    ping @cede @karine4

  • HRW: «Le guardie di frontiera turche torturano e uccidono i siriani»

    Da ottobre 2015 almeno 234 morti e 231 feriti, la maggior parte tentava di attraversare il confine.

    «Le guardie di frontiera turche sparano indiscriminatamente sui civili siriani al confine con la Siria, oltre a torturare e a usare una forza eccessiva contro i richiedenti asilo e i migranti che cercano di entrare in Turchia», ha dichiarato il 27 aprile Human Rights Watch (HRW). «Il governo turco deve indagare e ritenere responsabili le guardie di frontiera di queste gravi violazioni dei diritti umani, comprese le uccisioni illegali, e porre fine all’impunità di cui godono da tempo».

    I ricercatori dell’ONG mettono in luce in questa inchiesta 1 le responsabilità accertate delle guardie di frontiera e la totale impunità di cui godono da parte delle autorità turche. Senza dimenticare che l’Unione europea ha dato un ruolo centrale alla politica di controllo delle migrazioni di Ankara.

    L’11 marzo 2023 – scrive Human Rights Watch – le guardie di frontiera turche hanno picchiato e torturato ferocemente un gruppo di otto siriani che stavano tentando di attraversare irregolarmente la Turchia. Un uomo e un ragazzo sono morti sotto la custodia turca, mentre gli altri sono rimasti gravemente feriti. Sei guardie sono indagate dalle autorità turche per il loro presunto ruolo nell’attacco. Il 13 marzo, una guardia di frontiera turca ha sparato e ucciso un uomo siriano di 59 anni che stava arando il suo terreno in un’area adiacente al confine. Non sono state rese note informazioni sulle indagini relative a questo omicidio.
    HRW ha scritto ai ministri turchi della Giustizia, degli Interni e della Difesa il 20 aprile 2023, chiedendo aggiornamenti su entrambi gli attacchi.

    «I gendarmi e le forze armate turche incaricate del controllo delle frontiere abusano abitualmente e sparano indiscriminatamente sui siriani lungo il confine turco-siriano, con centinaia di morti e feriti registrati negli ultimi anni», ha dichiarato Hugh Williamson, direttore per l’Europa e l’Asia Centrale di HRW. «Le uccisioni arbitrarie di siriani sono particolarmente gravi e fanno parte di un modello di brutalità da parte delle guardie di frontiera turche che il governo non ha saputo arginare o indagare efficacemente».

    Dall’inizio del 2023, l’Osservatorio siriano per i diritti umani ha registrato 11 morti e 20 feriti lungo il confine turco-siriano causati dalle guardie di frontiera turche. Human Rights Watch ha documentato e verificato in modo indipendente due di questi attacchi.

    All’inizio di marzo 2023, l’ONG ha ottenuto dati non esaustivi da un’organizzazione che monitora il conflitto in Siria, che ha documentato 277 singoli “incidenti” tra ottobre 2015 e aprile 2023. Gli osservatori hanno registrato almeno 234 morti e 231 feriti, la maggior parte dei quali si è verificata mentre le vittime tentavano di attraversare il confine. Ventisei attacchi hanno coinvolto bambini, con almeno 20 morti e 15 feriti. Significativo anche questo dato: almeno 6 persone che non stavano tentando di attraversare il confine sono state uccise a colpi di arma da fuoco e altre 6 sono rimaste ferite. L’organizzazione ha chiesto di non essere nominata per timore che il suo lavoro umanitario possa subire ripercussioni dalle autorità turche.

    I confini terrestri della Turchia sono protetti dalle unità di confine dell’esercito delle Forze Armate turche. Le unità di soldati, anch’esse in servizio ai confini, operano sotto l’autorità del comando delle forze terrestri. Ci sono anche stazioni dell’esercito vicino al confine incaricate di svolgere regolari attività di polizia. Nel documentare gli abusi, la maggior parte dei casi registrati riguarda le Forze armate turche, con 28 dei 273 attacchi registrati che coinvolgono le unità di soldati.

    La Turchia ha accolto circa 3,5 milioni di siriani, ospitando più rifugiati di qualsiasi altro Paese. La Turchia ha concesso a molti di loro lo status di protezione temporanea e ha cercato di fornire loro servizi di base, tra cui assistenza medica e istruzione. Tuttavia, l’accoglienza di un gran numero di siriani da parte della Turchia non la esime dall’obbligo di rispettare i diritti di chi cerca protezione ai suoi confini. Nell’ottobre 2022, HRW ha anche documentato l‘espulsione da parte delle autorità turche di centinaia di siriani da tempo beneficiari di protezione temporanea, molti sono stati costretti a firmare moduli di partenza volontaria.

    Sebbene la Turchia abbia il diritto di proteggere il confine con la Siria, deve farlo nel rispetto del diritto internazionale e in particolare dei suoi obblighi in materia di diritti umani, tra cui il rispetto del diritto alla vita e all’integrità fisica e il divieto assoluto di tortura o di altri trattamenti inumani o degradanti. La Turchia è inoltre tenuta a rispettare il principio di non refoulement, che vieta il ritorno dei richiedenti asilo in territori in cui rischiano persecuzioni, torture o minacce alla vita e alla libertà, e il respingimento alle frontiere senza considerare le loro richieste.

    Dopo il controverso accordo del 2016 con la Turchia, in base al quale l’Unione europea si era impegnata a versare 3 miliardi di euro e a fare concessioni politiche alla Turchia in cambio di un maggiore impegno per frenare i flussi migratori e di rifugiati verso l’Europa, l’UE ha raddoppiato il suo sostegno finanziario per la gestione della migrazione in Turchia, portandolo a 6 miliardi di euro, nonostante gli abusi documentati da parte delle autorità turche nei confronti di rifugiati, migranti e richiedenti asilo. I governi europei e non solo, che forniscono un significativo sostegno finanziario al governo turco per l’assistenza ai rifugiati siriani, dovrebbero esigere un’indagine approfondita ed efficace sulle accuse di abusi, tra cui uccisioni illegali e torture di richiedenti asilo e migranti ai confini della Turchia.

    Il governo turco dovrebbe emanare con urgenza istruzioni standard per tutte le guardie di frontiera, sottolineando che le armi da fuoco devono essere usate solo quando strettamente necessario, come ultima risorsa in risposta a una minaccia per la vita, che nessuno che attraversa o ha attraversato il confine deve essere maltrattato, e che tutte le persone devono avere accesso all’assistenza medica se necessario. L’adozione di una politica di tolleranza zero per le violazioni, attuata attraverso indagini efficaci e sanzioni appropriate, dovrebbe garantire che tutte le guardie di frontiera rispettino scrupolosamente questi obblighi legali fondamentali.

    Secondo l’organizzazione, le autorità turche dovrebbero anche condurre con urgenza una revisione completa della loro politica di sicurezza alle frontiere. Questo dovrebbe essere simile alla revisione delle politiche di polizia e di sicurezza nell’area colpita dai devastanti terremoti, che è in stato di emergenza dal 9 febbraio e dove le forze dell’ordine inviate a sorvegliare la regione hanno picchiato, torturato e maltrattato le persone sospettate di furto e saccheggio.

    «La violenza delle guardie di frontiera turche contro i siriani lungo il confine è un problema di lunga data che è rimasto in gran parte irrisolto», ha dichiarato Williamson. «Il governo turco deve prendere misure urgenti ed efficaci per porre fine alle uccisioni illegali e alle torture di richiedenti asilo e migranti alle sue frontiere, e fornire giustizia per gli abusi del passato».

    Tra l’agosto 2015 e il giugno 2018, la Turchia ha eretto un muro alto 3 metri e ricoperto di filo spinato lungo la maggior parte dei suoi 911 chilometri di confine con la Siria per combattere il contrabbando e gli attraversamenti irregolari della frontiera. Da allora, le guardie di frontiera turche hanno regolarmente bloccato con violenza le persone siriane che cercavano di fuggire dalle ostilità e dalle condizioni disastrose, sparando, picchiando ed espellendo sommariamente verso la Siria. Nel novembre 2015, nell’aprile e maggio 2016, nel febbraio 2018 e nel novembre 2022, HRW ha documentato l’uso della violenza da parte delle guardie di frontiera turche nei confronti di siriani e altri richiedenti asilo, migranti e smugglers al confine con la Siria.

    Tra le 277 violazioni lungo il confine monitorate da un’organizzazione indipendente, le violazioni si sono verificate in 80 località distinte. La maggior parte degli attacchi mortali si è verificata nel governatorato di Idlib (68,38%), la cui maggioranza è sotto il controllo di Hay’et Tahrir al-Sham, una coalizione di gruppi armati islamisti su cui la Turchia ha una certa influenza. Gli altri includono: il governatorato di Al Raqqa con il 12,39% e Al Hasakeh con il 12,39%, entrambi in gran parte controllati dalle Forze Democratiche Siriane (SDF), un gruppo armato a guida curda sostenuto dagli Stati Uniti; e il governatorato di Aleppo con il 6,84%, le cui aree settentrionali sono sotto il controllo della Turchia e dell’Esercito Nazionale Siriano sostenuto dalla Turchia o dalle SDF. Il maggior numero di attacchi con feriti (43,72%) si è verificato nelle aree del governatorato di Aleppo.

    Dei 234 morti e 231 feriti, i dati indicano che 225 sono morti e 177 sono stati feriti dalle guardie di frontiera turche con l’uso di armi, e 9 sono morti e 54 sono stati feriti a causa di aggressioni fisiche per mano delle guardie di frontiera turche.

    I siriani stanno affrontando una delle peggiori crisi economiche e umanitarie dall’inizio del conflitto nel 2011, combattendo contro la crisi del carburante, l’epidemia di colera e la crescente insicurezza alimentare. La Siria nord-occidentale è stata gravemente colpita dai terremoti del 6 febbraio 2023 e dalle recenti inondazioni. Una popolazione di circa quattro milioni di persone, tra cui almeno 2,6 milioni di sfollati, dipende quasi interamente dagli aiuti umanitari.
    Due attacchi recenti

    L’11 marzo, le guardie di frontiera turche hanno intercettato e torturato un gruppo di otto siriani che avevano tentato di entrare in Turchia dalla città siriana di Haram, nel governatorato di Idlib, uccidendo un ragazzo e un uomo. Dopo aver ferito gravemente gli altri, le guardie di frontiera li hanno rimpatriati sommariamente, insieme a uno dei corpi, in Siria entro cinque ore. HRW ha parlato con due dei siriani sopravvissuti, con i familiari di altri due e con un parente del ragazzo ucciso. Gli intervistati hanno detto che tra le 10 e le 15 guardie di frontiera hanno intercettato il gruppo intorno alle ore 20 vicino al villaggio di Harran, nei pressi della città di Reyhanli, in Turchia.

    Uno degli uomini, Zakaria Abou Yahya, 34 anni, ha detto di essere andato in Turchia a causa della difficile situazione economica in Siria:

    «Non abbiamo nulla. Tutto qui [nel nord-ovest della Siria] ha costi esorbitanti. E non si trova lavoro. Sono andato solo per poter lavorare e poter pagare il pane».

    Ha raccontato che le guardie di frontiera li hanno catturati dopo che avevano percorso circa 150 metri oltre il muro di confine, scavalcato utilizzando una scala che avevano portato con sé, e li hanno trasportati in un veicolo in un vicino campo vuoto. Lì, le guardie hanno torturato i siriani, picchiandoli e prendendoli a calci e colpendoli con fucili e manganelli:

    «Mi hanno fatto a pezzi. Ci hanno messo a terra, mi hanno calpestato entrambe le mani… mi hanno anche calpestato i genitali con i loro stivali… e [mi] hanno versato 20 litri di gasolio dalla lattina d’acciaio. Ho iniziato a [scuotere] la testa ma non so, ho ingoiato quello che stavano versando. Ho passato due ore a vomitare».

    Un’altra vittima, Raed Musa, 35 anni, ha raccontato che le guardie hanno messo le loro teste tra i gradini di una scala e hanno iniziato a picchiarli:

    «Ci hanno fatto sdraiare, hanno messo le nostre teste negli spazi della scala e ci hanno bloccato il collo. Erano circa 10-15 persone, quattro comandanti. Non ci hanno fatto domande, ci hanno solo picchiato».

    Un uomo ha raccontato che suo figlio di 17 anni gli ha detto che le guardie di frontiera hanno usato delle pinze per torturarlo. «Lo hanno afferrato e gli hanno tirato la pelle. Un cane non lo avrebbe morso così».

    Abdel Razzak al Qastal, 18 anni, è morto a causa delle percosse, secondo quanto riferito dai testimoni. Tra le 24 e l’1 del mattino del 12 marzo, le guardie turche hanno trasportato cinque uomini, il ragazzo di 17 anni che era stato torturato e il corpo di al-Qastal al valico di Bab al Hawa. Abdo al Sabbah, un altro diciassettenne, è stato lasciato indietro e ciò che gli è accaduto è stato rivelato solo il 16 marzo, quando le autorità turche hanno restituito il suo corpo alla famiglia in Siria. «Se non ci fosse stata l’attenzione dei media, è molto probabile che non avremmo nemmeno recuperato il corpo», ha detto un parente di al Sabbah.

    L’ONG ha esaminato le foto degli uomini e dei ragazzi, compresa l’autopsia del corpo di al Sabbah, che mostra gravi contusioni su braccia, gambe e schiena, compatibili con le percosse descritte dagli intervistati. Musa ha raccontato che all’arrivo al valico è stato immediatamente portato in un ospedale di Idlib. «Prima vomitavo sangue, avevo subito danni ai reni e avevo un’emorragia interna», ha detto. «Sono rimasto in ospedale per quattro giorni e ora ho un piede ingessato, non so per quanto tempo».

    Mazen Alouch, responsabile dei media e delle relazioni pubbliche per la Siria al valico di Bab al Hawa, ha confermato l’attacco a HRW, affermando che quella notte ha visto “segni di tortura, arrossamenti e lividi, oltre a ferite al volto, alla testa e al corpo” delle persone del gruppo.

    Alouch e gli intervistati hanno raccontato che il giorno successivo all’aggressione, le autorità turche hanno convocato quattro delle sei vittime sopravvissute per tornare in Turchia e guardare le foto degli agenti e identificare coloro che li hanno torturati. In seguito sono stati rimpatriati in Siria.

    Il 19 marzo, i media turchi hanno riferito che un tribunale ha posto tre soldati turchi in detenzione preventiva e ha rilasciato altri tre in attesa del completamento di un’indagine penale da parte dell’Ufficio del Procuratore Capo di Reyhanli. Alouch ha detto che ogni giorno ricevono i deportati al valico. «Alcuni vengono picchiati leggermente, altri in modo più grave, altri ancora vengono torturati», ha detto. «Il giorno prima [di questo attacco], abbiamo ricevuto 12 persone che sono state picchiate anche più di questo gruppo, la differenza è che c’era l’attenzione dei media a causa dei due morti [nell’attacco dell’11 marzo]».

    Reporter Without Borders ha riferito che intorno al 15 marzo, un analista politico turco ha presentato una denuncia contro il conduttore di un canale televisivo siriano e il suo direttore, entrambi residenti in Turchia, dopo che il conduttore aveva discusso con l’analista dell’attacco dell’11 marzo e della questione più ampia della violenza delle guardie di frontiera turche contro i rifugiati siriani al confine. Le autorità turche hanno trattenuto il conduttore e il direttore per quasi 48 ore, prima che la denuncia venisse respinta e i due fossero rilasciati.

    Il 13 marzo, una guardia turca che pattugliava il confine a bordo di un veicolo militare ha sparato e ucciso Mohammed Fayzo, 59 anni, che stava lavorando nella sua terra vicino al villaggio di Kherbet El Joz, in Siria. Due parenti hanno raccontato a Human Rights Watch: «La guardia ha estratto la pistola, gli ha sparato e poi lo ha fissato. Pochi secondi dopo, è tornato al suo camion e se n’è andato». Fayzo è stato poi portato in un ospedale di Idlib dove è morto alcune ore dopo.

    I parenti hanno raccontato che la gente del villaggio si è recata al muro di confine e ha protestato per la sua morte, per poi essere avvicinata dagli ufficiali turchi che hanno detto loro che l’accaduto è stato “un incidente isolato” e che riterranno l’assassino responsabile. Non sono state rese pubbliche informazioni sulle indagini.

    Da maggio 2016, gli osservatori hanno registrato 11 attacchi in cui le guardie di frontiera turche hanno sparato contro i civili sul lato siriano del confine che si trovavano vicino alle loro case, che lavoravano nei loro terreni agricoli o che pascolavano il loro bestiame, uccidendo almeno sei persone e ferendone altre sei.

    Dall’aprile 2021, gli osservatori hanno registrato almeno quattro episodi distinti in cui le forze di frontiera turche hanno sparato a bambini siriani che non stavano tentando di attraversare. Le forze turche hanno ferito un adolescente che lavorava in un terreno agricolo nel sottodistretto di Aleppo di Kobani (Ain al Arab) il 16 febbraio 2023; hanno ucciso un bambino che lavorava in un campo nel distretto di Jisr Ash Shugur a Idlib il 30 gennaio 2021. Hanno ferito due bambini che stavano pascolando il loro bestiame vicino al confine in due attacchi distinti nel distretto di Haram a Idlib nel maggio e giugno 2021. Sono stati registrati anche altri due attacchi in cui le guardie di frontiera turche hanno sparato e ucciso due bambini sul lato siriano del confine per motivi sconosciuti.

    https://www.meltingpot.org/2023/05/hrw-le-guardie-di-frontiera-turche-torturano-e-uccidono-i-siriani

    #frontières #asile #migrations #réfugiés #réfugiés_syriens #Turquie #décès #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #Syrie #torture

  • La mafia dei Nebrodi pascola libera tra i fondi Ue
    https://irpimedia.irpi.eu/farmsubsidy-nebrodi-mafia-politica-agricola-ue

    Un processo in Sicilia svela una delle più grandi frodi europee con i fondi Ue per l’agricoltura. Ma le cifre potrebbero essere ancora più grandi. E mostrano la necessità di cambiare i meccanismi di prevenzione Clicca per leggere l’articolo La mafia dei Nebrodi pascola libera tra i fondi Ue pubblicato su IrpiMedia.

  • Migranti, i sindaci delle grandi città contro il governo: «Scelte sbagliate che ledono i diritti: non si cancelli la protezione speciale»

    I sindaci delle maggiori città italiane (di centrosinistra) di nuovo contro il governo Meloni. Oggetto della discussione, ma anche (e soprattutto) di preoccupazione: la gestione dell’immigrazione, in particolare, il sistema di accoglienza e la cancellazione della protezione speciale per i migranti. «Come sindaci, come amministratori, come cittadini che quotidianamente si impegnano nei territori per cercare di garantire le migliori risposte alle criticità che le nostre Comunità esplicitano, siamo molto preoccupati per le proposte in discussione relative alle modifiche all’unico sistema di accoglienza migranti effettivamente pubblico, strutturato, non emergenziale che abbiamo in Italia», si legge in un documento congiunto sul decreto Cutro che porta le firme dei sindaci di #Roma, #Roberto_Gualtieri, di #Milano #Beppe_Sala, di #Napoli #Gaetano_Manfredi, di #Torino #Stefano_Lorusso, di #Bologna, #Matteo_Lepore e di #Firenze, #Dario_Nardella. «La preoccupazione delle città – si legge nel documento – è massima a fronte di emendamenti proposti da alcuni partiti al DL 591 dopo le tante evidenze a cui il nostro ordinamento ha dovuto porre rimedio in questi anni». Secondo il fronte dei sindaci dem, l’esecutivo non deve «ragionare in ottima emergenziale: è sbagliato immaginare l’esclusione dei richiedenti asilo dal Sai, precludendo loro qualunque percorso di integrazione e una reale possibilità di inclusione ed emancipazione nelle nostre comunità».

    «No alla cancellazione della #protezione_speciale»

    Sala, Gualtieri, Manfredi, Lo Russo, Lepore e Nardella non condividono la cancellazione della protezione speciale, confermata anche ieri, sabato 15 aprile, dalla stessa premier Meloni durante il suo viaggio in Etiopia. Per i sindaci delle maggiori città si tratta, infatti, di «una misura presente in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale, mentre circa il 50% dei migranti presenta vulnerabilità ed è in parte significativa costituito da nuclei familiari. Queste scelte, qualora adottate, non potrebbero che procurare infatti una costante lesione dei diritti individuali e innumerevoli difficoltà che le nostre comunità hanno già dovuto affrontare negli anni scorsi, a fronte di un importante aumento di cittadini stranieri condannati appunto all’invisibilità», si legge nel documento congiunto. Tutto questo – scrivono i primi cittadini – «mentre il sistema dei Cas, mai uscito da un assetto emergenziale, è saturo e purtroppo inadeguato ad accogliere già oggi chi proviene dai flussi della rotta mediterranea come da quella balcanica. Insufficiente, sia per numeri sia per le modalità d’accoglienza sia per i servizi di accompagnamento, protezione ed inclusione, assenti. E in questo quadro occorre ripensare anche il sistema di accoglienza dei minori stranieri non accompagnati cui occorre applicare logiche distributive che evitino la concentrazione nelle sole grandi città», prosegue il documento dei sindaci.

    «Le nostre città sono infatti impegnate già oggi, spesso con sforzi oltre i propri limiti e frequentemente oltre le proprie funzioni e competenze, a porre rimedio con risorse proprie alle manchevolezze di un sistema nazionale adeguato. La soppressione della possibilità di costruire un unico sistema di accoglienza pubblico, trasparente e professionale (come il Sai), garantendo percorsi dignitosi e tutelanti anche per le persone richiedenti protezione internazionale, non può comportare la nascita di nuovi grandi centri di accoglienza o detenzione nei nostri territori. La storia degli ultimi vent’anni di accoglienza in Italia dimostra chiaramente come modelli emergenziali, con standard qualitativi minimi e volti al mero “vitto e alloggio” abbiano procurato ferite enormi nelle nostre comunità e non abbiano garantito diritti esigibili alla popolazione rifugiata. E soprattutto abbiano fallito processi di inclusione efficaci e duraturi», prosegue il documento.

    Le proposte

    Dopo questa lunga premessa, i sindaci dem hanno poi avanzato delle proposte sul tema. «1. Sia rinforzata l’unitarietà del Sistema di Accoglienza italiano, valorizzando l’esperienza virtuosa del Sai, ovvero supportando attivamente la rete dei Comuni che quotidianamente affrontano in prima persona le sfide che i movimenti migratori in ingresso sottopongono ai nostri servizi, ai nostri territori e alle nostre comunità. Con un solo obiettivo: garantire percorsi di effettiva inclusione e tutela compatibili con i territori, evitando grandi centri di accoglienza, senza servizi e senza tutele, per tutti», scrivono. «2. Il Sai rimanga accessibile a richiedenti protezione e rifugiati». I primi cittadini chiedono poi che i Cas, ovvero i centri di accoglienza straordinari, vengano trasformati «in hub di prima accoglienza, dedicati alle procedure di identificazione e di screening sanitario per poi procedere a trasferimenti rapidi nel sistema di seconda accoglienza ed inclusione, appunto il Sai».

    Al punto 4, i sei amministratori chiedono inoltre che «vengano ripristinati i criteri di riparto che il Piano nazionale di accoglienza aveva indicato. In assenza di azioni positive mirate o, peggio, con azioni sbagliate, le ricadute saranno infatti l’irregolarità diffusa o lunghi percorsi di ricorsi giudiziari che paralizzeranno le vite di molte persone inabilitandole e rendendole facili prede del lavoro nero, che invece non manca». Infine, «ci auspichiamo – continuano – che ancora una volta l’Italia non si contraddistingua per una regressione relativa al sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati: da troppi anni questo tema necessita di una riforma importante e strutturale, che miri ad un equilibrio nazionale del sistema di accoglienza imprescindibile dal coinvolgimento dei Comuni e dagli obiettivi di inclusione, protezione e con una diffusione omogenea a livello nazionale. Siamo convinti, insieme ad altre voci autorevoli, che dopo circa vent’anni e anche alla luce di alcuni temi di strutturale cambiamento demografico e sociale non si debba continuare a parlare di emergenza e che proprio in questo momento occorra la lungimiranza di aprire una discussione per scegliere una via legale all’immigrazione e alla regolarizzazione degli immigrati già presenti in Italia, anche attraverso il ricorso allo ius scholae, premessa a comunità solidali, capaci di proporre percorsi di vera emancipazione e autonomia alle persone nel pieno interesse del nostro Paese», concludono i sindaci.

    https://www.open.online/2023/04/16/immigrazione-sindaci-grandi-citta-vs-governo-meloni

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