• Le coût du travail humain reste généralement inférieur à celui de l’IA, d’après le MIT FashionNetwork.com ( Bloomberg )

    Pour le moment, employer des humains reste plus économique que de recourir à l’intelligence artificielle pour la majorité des emplois. C’est en tout cas ce qu’affirme une étude menée par le Massachusetts Institute of Technology, alors que bon nombre de secteurs se sentent menacés par les progrès faits par l’IA.

    Il s’agit de l’une des premières études approfondies réalisées à ce sujet. Les chercheurs ont établi des modèles économiques permettant de calculer l’attractivité de l’automatisation de diverses tâches aux États-Unis, en se concentrant sur des postes “digitalisables“, comme l’enseignement ou l’intermédiation immobilière.

    Source : https://fr.fashionnetwork.com/news/premiumContent,1597548.html

    #ia #intelligence_artificielle #algorithme #surveillance #ai #google #technologie #facebook #technologisme #travail #biométrie #bigdata #coût #MIT

  • Day 118 Update: “Dozens Killed, Hundreds Injured, As Army Continued To Bomb Gaza”
    Feb 2, 2024| - IMEMC News
    https://imemc.org/article/day-118-update-dozens-killed-hundreds-injured-as-army-continued-to-bomb-gaza

    (...) Omar Abu Taha, a Palestinian doctor in Rafah told Al-Jazeera that the Israeli army handed the Palestinians 100 corpses, severely mutilated and missing body parts, or just severed body parts in body bags, and added the doctors and teams documented the corpses, including taking pictures and DNA samples for future analysis, before burying them in a mass grave.

    Abu Taha stated that the massive destruction, the targeting of medical facilities, the severe shortages of medical supplies and functioning medical centers make lab tests and analysis impossible. (...)

    #trafic_d'organes ?

  • « (…) maman croit qu’avec ses excès d’alcool, papa se libère de ses cauchemars, mais quels cauchemars ?, c’est la question que nous avions posée, Nomi et moi, un soir de Saint-Sylvestre où papa avait bu presque jusqu’à en perdre conscience. Mais quelle histoire ?, maman a hésité comme si nous avions posé une de ces questions embarrassantes que posent les enfants : Derrière le soleil, il y a quoi ? Pourquoi n’avons-nous pas de rivière dans notre jardin ? Les communistes ont détruit sa vie, a répondu maman avec une intonation que nous ne lui avions encore jamais entendues, mais votre père vous racontera lui-même un jour, quand vous serez grandes. Grandes, c’est quand ? Un jour, quand le moment sera venu, dans quelques années, quand vous pourrez mieux comprendre tout ça. »
    #communisme #tabou #traumatisme #silence #violence #mémoire #yougoslavie #répression #enfance #famille

    Pigeon vole p. 23

  • « Du Traubi ! Nomi et moi nous écrions en chœur, nos mains lavées, installées à la table de Mamika sur laquelle les bouteilles nous attendent sur un plateau en plastique, du Traubi ! C’est le nom de cette boisson magique de notre pays, mince flacon vert sans étiquette sur lequel resplendissent les lettres blanches, Mamika qui a acheté toute une réserve de limonade Traubi, c’est rien que pour vous ! dit-elle, et bien sûr, nous sommes Nomi et moi, des gosses de l’Ouest, pourries gâtées et nous moquons des gens de l’Est qui s’échinent à imiter le Coca-Cola sans réussir à concocter autre chose qu’une espèce de breuvage d’un vilain marron appelé Apa Cola (Apa Cola, quel nom débile ! ), mais le Traubi, nous aimons, nous l’aimons tant que nous aurions envie d’en rapporter quelques bouteilles à la maison, en Suisse, pour montrer à nos copines que chez nous, dans notre pays, il y a quelque chose qui est vraiment incroyablement bon – jusqu’à présent nous ne l’avons pas encore fait. »
    #traubi #nourriture #boisson #yougoslavie #voïvodine #souvenir #enfance #nostalgie

    Pigeon vole p. 133

  • Così l’Italia ha svuotato il diritto alla trasparenza sulle frontiere

    Il Consiglio di Stato ha ribadito la inaccessibilità “assoluta” degli atti che riguardano genericamente la “gestione delle frontiere e dell’immigrazione”. Intanto le forniture milionarie del governo a Libia, Tunisia ed Egitto continuano.

    L’Italia fa un gigantesco e preoccupante passo indietro in tema di trasparenza sulle frontiere e di controllo democratico dell’esercizio del potere esecutivo. Su parte delle nostre forniture milionarie alla Libia, anche di natura militare, per bloccare le persone rischia infatti di calare un velo nero. A fine 2023 il Consiglio di Stato ha pronunciato una sentenza che riconosce come non illegittima la “assoluta” inaccessibilità di quegli atti della Pubblica amministrazione che ricadono genericamente nel settore di interesse della “gestione delle frontiere e dell’immigrazione”, svuotando così di fatto l’istituto dell’accesso civico generalizzato che è a disposizione di tutti i cittadini (e non solo dei giornalisti). Non è un passaggio banale dal momento che la conoscenza dei documenti, dei dati e delle informazioni amministrative consente, o meglio, dovrebbe consentire la partecipazione alla vita di una comunità, la vicinanza tra governanti e governati, il consapevole processo di responsabilizzazione della classe politica e dirigente del Paese. Ma la teoria traballa. E ne siamo testimoni.

    Breve riepilogo dei fatti. Il 21 ottobre 2021 l’Agenzia industrie difesa (Aid) -ente di diritto pubblico controllato dal ministero della Difesa- stipula un “Accordo di collaborazione” con la Direzione centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere in seno al ministero dell’Interno. Fu il Viminale -allora guidato dalla prefetta Luciana Lamorgese, che come capo di gabinetto ebbe l’attuale ministro, Matteo Piantedosi- a rivolgersi all’Agenzia, chiedendole “la disponibilità a fornire collaborazione per iniziative a favore dei Paesi non appartenenti all’Unione europea finalizzate al rafforzamento delle capacità nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione e in materia di ricerca e soccorso in mare”. L’accordo dell’ottobre di tre anni fa riguardava una cooperazione “da attuarsi anche tramite la fornitura di mezzi e materiali” per dare impulso alla seconda fase del progetto “Support to integrated border and migration management in Libya”.

    Il Sibmmil è legato finanziariamente al Fondo fiduciario per l’Africa, istituito dalla Commissione europea a fine 2015 al dichiarato scopo di “affrontare le cause profonde dell’instabilità, degli spostamenti forzati e della migrazione irregolare e per contribuire a una migliore gestione della migrazione”. La prima “fase” del progetto è dotata di un budget di 46,3 milioni di euro, la seconda, quella al centro dell’accordo tra Aid e ministero dell’Interno, di 15 milioni. A beneficiare di queste forniture (navi, formazione, equipaggiamenti, tecnologie), come abbiamo ricostruito in questi anni, sono state soprattutto le milizie costiere libiche, che si sono rese responsabili di gravissime violazioni dei diritti umani. Nel 2022, pochi mesi dopo la stipula dell’accordo, abbiamo inoltrato come Altreconomia un’istanza di accesso civico alla Aid -allora guidata dall’ex senatore Nicola Latorre, sostituito dal dicembre scorso dall’accademica Fiammetta Salmoni- per avere la copia del testo e degli allegati.

    La richiesta fu negata richiamando a mo’ di “sostegno normativo” un decreto del ministero dell’Interno datato 16 marzo 2022 (ancora a guida Lamorgese). L’oggetto di quel provvedimento era l’aggiornamento della “Disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso ai documenti amministrativi”. Un’apparente formalità. Il Viminale, però, agì di sostanza, includendo tra i documenti ritenuti “inaccessibili per motivi attinenti alla sicurezza, alla difesa nazionale ed alle relazioni internazionali” anche quelli “relativi agli accordi intergovernativi di cooperazione e alle intese tecniche stipulati per la realizzazione di programmi militari di sviluppo, di approvvigionamento e/o supporto comune o di programmi per la collaborazione internazionale di polizia, nonché quelli relativi ad intese tecnico-operative per la cooperazione internazionale di polizia inclusa la gestione delle frontiere e dell’immigrazione”.

    Il 16 gennaio 2023 Roma e Ankara hanno firmato un memorandum per “procedure operative standard” per il distacco in Italia di “esperti della polizia nazionale turca”

    Non solo. In quel decreto si schermava poi un altro soggetto sensibile: Frontex. Vengono infatti classificati come inaccessibili anche i “documenti relativi alla cooperazione con l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (appunto Frontex, ndr), per la sorveglianza delle frontiere esterne dell’Unione europea coincidenti con quelle italiane e che non siano già sottratti all’accesso dall’applicazione di classifiche di riservatezza Ue”. Così come le “relazioni, rapporti ed ogni altro documento relativo a problemi concernenti le zone di confine […] la cui conoscenza possa pregiudicare la sicurezza, la difesa nazionale o le relazioni internazionali”.

    È per questo motivo che lo definimmo il “decreto che azzera la trasparenza sulle frontiere”, promuovendo di lì a poco un ricorso al Tar -grazie agli avvocati Giulia Crescini, Nicola Datena, Salvatore Fachile e Ginevra Maccarone dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e membri del progetto Sciabaca&Oruka- contro i ministeri dell’Interno, della Difesa, della Pubblicazione amministrazione, oltreché l’Agenzia industrie difesa (Aid), proprio per vedere riconosciuto il diritto all’accesso civico generalizzato. In primo grado, però, il Tar del Lazio ci ha dato torto.

    Ed eccoci arrivati al Consiglio di Stato, il cui pronunciamento, pubblicato a metà novembre 2023, ha ritenuto infondato il nostro appello, riconoscendo come “fonte di un divieto assoluto all’accesso civico generalizzato”, non sorretto perciò da alcuna motivazione, proprio quel decreto ministeriale firmato Luciana Lamorgese del marzo 2022. “All’ampliamento della platea dei soggetti che possono avvalersi dell’accesso civico generalizzato corrisponde un maggior rigore normativo nella previsione delle eccezioni poste a tutela dei contro-interessi pubblici e privati”, hanno scritto i giudici della quarta sezione.

    I legali che ci hanno accompagnato in questo percorso non la pensano allo stesso modo. “Il Consiglio di Stato ha affermato che il decreto ministeriale del 16 marzo 2022, una fonte secondaria, non legislativa, adottata in attuazione della disciplina del diverso istituto dell’accesso documentale, abbia introdotto nell’ordinamento un limite assoluto all’accesso civico, che può essere invocato dalla Pubblica amministrazione senza che questa sia tenuta a fornire alcuna motivazione in merito alla sua ricorrenza.

    Si tratta di un’evidente elusione del dettato normativo, che prevede in materia una riserva assoluta di legge”, osservano le avvocate Crescini e Maccarone. Che aggiungono: “I giudici hanno respinto anche la censura relativa all’assoluta genericità del limite introdotto con il decreto ministeriale, che non individua precisamente le categorie di atti sottratti all’accesso, ma al contrario solo il settore di interesse, cioè la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, essendo idoneo a ricomprendere qualunque tipologia di atto, documento o dato, di fatto svuotando di contenuto l’istituto”. Questa sentenza del Consiglio di Stato rischia di rappresentare un precedente preoccupante. “L’accesso civico è uno strumento moderno che avrebbe potuto garantire la trasparenza degli atti della Pubblica amministrazione secondo canoni condivisibili che rispecchiano le esigenze che si sono cristallizzate in tutta Europa nel corso degli ultimi anni -riflettono le avvocate-. Tuttavia con questa interpretazione l’istituto viene totalmente svuotato di significato, costringendoci a fare un passo indietro di notevole importanza in tema di trasparenza, che è chiamata ad assicurare l’effettivo andamento democratico di un ordinamento giuridico”.

    I mezzi guardacoste che l’Italia si appresta a cedere quest’anno alla Guardia nazionale del ministero dell’Interno tunisino sono sei

    Le forniture italiane per ostacolare i transiti, intanto, continuano. Negli ultimi mesi la Direzione centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere del Viminale -retta da Claudio Galzerano, già a capo di Europol- ha ripreso con forza a bandire gare o pubblicare, a cose fatte, affidamenti diretti. Anche per trasferte o distacchi in Italia di “ufficiali” libici, tunisini, ivoriani o “esperti della polizia nazionale turca”. La delegazione della Libyan coast guard and port security, ad esempio, è stata portata dal 15 al 18 gennaio di quest’anno alla base navale della Guardia di Finanza a Capo Miseno (NA) per una “visita tecnica”. Nei mesi prima altre “autorità libiche” erano state formate alle basi di Gaeta (LT) o Capo Miseno. Gli ufficiali della Costa d’Avorio sono stati in missione dal 30 ottobre scorso al 20 gennaio 2024 “in materia di rimpatri”. Sono stati portati nei punti caldi di Lampedusa e Ventimiglia.

    Al dicembre 2023 risale invece la firma dell’accordo tra la Direzione centrale e il Comando generale della Gdf per la fornitura di navi, assistenza, manutenzione, supporto tecnico-logistico a beneficio di Libia, Tunisia ed Egitto. Obiettivo: il “rafforzamento delle capacità nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione e in materia di ricerca e soccorso in mare”. Proprio alla Guardia nazionale del ministero dell’Interno di Tunisi finiranno sei guardacoste litoranei della classe “G.L. 1.400”, con servizi annessi del tipo “consulenza, assistenza e tutoraggio”, per un valore di 4,8 milioni di euro (i soldi li mette il Viminale, i mezzi e la competenza la Guardia di Finanza). Navi ma anche carburante. A inizio gennaio di quest’anno il direttore Galzerano, dietro presunta richiesta di non ben precisate “autorità tunisine”, ha approvato la spesa di “nove milioni di euro circa” (testualmente) per “il pagamento del carburante delle unità navali impegnate nella lotta all’immigrazione clandestina e nelle operazioni di ricerca e di soccorso” nelle acque tunisine. Dove hanno recuperato le risorse? Da un fondo ministeriale dedicato a “misure volte alla prevenzione e al contrasto della criminalità e al potenziamento della sicurezza nelle strutture aeroportuali e nelle principali stazioni ferroviarie anche attraverso imprescindibili misure di cooperazione internazionale”. Chissà quale sarà la prossima fermata.

    https://altreconomia.it/cosi-litalia-ha-svuotato-il-diritto-alla-trasparenza-sulle-frontiere
    #Tunisie #Egypte #transparence #Agenzia_industrie_difesa (#Aid) #Support_to_integrated_border_and_migration_management_in_Libya (#Sibmmil) #Fonds_fiduciaire_pour_l'Afrique #gardes-côtes_libyens #Frontex

  • Trattenuti e trattamenti. Esistenze e spazi nella nemesi del diritto
    https://www.meltingpot.org/2024/02/trattenuti-e-trattamenti-esistenze-e-spazi-nella-nemesi-del-diritto

    Il nostro tempo è caratterizzato da movimenti migratori globali rappresentati e trattati come una minaccia all’identità e alla sicurezza dagli ordinamenti nazionali e sovranazionali. La risposta delle politiche migratorie “occidentali” impone di trattenere tali movimenti a ogni costo, disegnando così il naufragio delle ipocrisie democratiche fondate su narrazioni accettabili. Esse sembrano suggerire che sarebbe possibile accogliere separando, destinando esistenze umane a nuovi “campi”, confinando in istituzioni liminali che sorgono sulle frontiere delle eccezioni non eccezionali.Trattenuti e trattamenti chiede di unirsi a un viaggio, in luoghi, spazi e città, così come all’incontro con umani, spesso invisibili ai più. Propone, inoltre, (...)

    #Notizie #Arti_e_cultura #CPR,_Hotspot,_CPA #Italia #Narrativa_e_Saggistica #Trattenimento_-_detenzione

  • Reprendre en main #logement et #foncier dans les métropoles : retour sur une expérience rennaise
    https://metropolitiques.eu/Reprendre-en-main-logement-et-foncier-dans-les-metropoles-retour-sur

    De nombreuses métropoles cherchent à résoudre la difficile équation entre production de logement et #transition_écologique. Jonathan Morice esquisse quelques pistes à partir de la situation rennaise, à l’heure où le gouvernement propose que les #intercommunalités soient « autorités organisatrices de l’habitat ». Comme beaucoup de métropoles en France, #Rennes est confrontée à une forme d’injonction contradictoire. Entre la hausse de la population, l’attractivité et la dynamique interne d’un territoire jeune, #Terrains

    / Rennes, #métropole, logement, foncier, #concertation, #habitants, transition écologique, (...)

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_morice.pdf

  • Une vraie #souveraineté_alimentaire pour la #France

    Le mercredi 6 décembre 2023, la FNSEA sortait du bureau d’Elisabeth Borne en déclarant fièrement que l’État abandonnait son projet de taxer l’usage des pesticides et des retenues d’eau. Cela vient conclure une séquence historique. Le 16 novembre déjà, l’Europe reconduisait l’autorisation du glyphosate pour 10 ans. Et, six jours plus tard, abandonnait aussi l’objectif de réduction de 50 % de l’usage des pesticides à l’horizon 2030.

    Comment en est-on arrivé là ? La question a été récemment posée dans un rapport de l’Assemblée nationale. En plus du #lobbying habituel de la #FNSEA et de l’état de crise permanent dans laquelle vivent les agriculteurs et qui rend toute #réforme explosive, la question de la souveraineté alimentaire – qui correspond au droit d’un pays à développer ses capacités productives pour assurer la sécurité alimentaire des populations – a joué un rôle clé dans cette dynamique.

    La souveraineté alimentaire est ainsi devenue, depuis la crise du Covid et la guerre en Ukraine, l’argument d’autorité permettant de poursuivre des pratiques qui génèrent des catastrophes écologiques et humaines majeures. Il existe pourtant d’autres voies.

    Le mythe de la dépendance aux #importations

    De quelle souveraineté alimentaire parle-t-on ? Les derniers chiffres de FranceAgrimer montrent que notre « #dépendance aux importations » – comme aiment à le répéter les défenseurs d’un modèle intensif – est de 75 % pour le blé dur, 26 % pour les pommes de terre, 37 % pour les fruits tempérés ou 26 % pour les porcs.

    Mais ce que l’on passe sous silence, c’est que le taux d’#autoapprovisionnement – soit le rapport entre la production et la consommation françaises – est de 148 % pour le blé dur, 113 % pour les pommes de terre, 82 % pour les fruits tempérés et 103 % pour le porc. Le problème de souveraineté alimentaire n’en est pas un. Le vrai problème, c’est qu’on exporte ce que l’on produit, y compris ce dont on a besoin. Cherchez l’erreur.

    D’autres arguments viennent encore se greffer à celui de la souveraineté, dans un monde d’#interdépendances : la #France serait le « grenier à blé de l’Europe », il faudrait « nourrir les pays du Sud », la France serait « une puissance exportatrice », etc.

    Au-delà de l’hypocrisie de certaines de ces affirmations – en effet, les #exportations des surplus européens subventionnés ont détruit tout un tissu productif, en Afrique de l’Ouest notamment – il ne s’agit pas là d’enjeux liés à la souveraineté alimentaire, mais d’enjeux stratégiques et politiques liés à la #compétitivité de certains produits agricoles français sur les marchés internationaux.

    Comprendre : la France est la 6e puissance exportatrice de #produits_agricoles et agroalimentaires au monde et elle entend bien le rester.

    Voir la #productivité de façon multifonctionnelle

    S’il ne faut évidemment pas renoncer aux objectifs de #productivité_alimentaire nationaux, ces derniers gagneraient à être redéfinis. Car comment évoquer la souveraineté alimentaire sans parler des besoins en #eau pour produire les aliments, de la dépendance aux #énergies_fossiles générée par les #intrants de synthèse, de l’épuisement de la #fertilité des #sols lié à la #monoculture_intensive ou encore des effets du #réchauffement_climatique ?

    Comment évoquer la souveraineté alimentaire sans parler des enjeux fonciers, de l’évolution du #travail_agricole (25 % des #agriculteurs sont en passe de partir à la retraite), du #gaspillage_alimentaire – qui avoisine les 30 % tout de même – des #besoins_nutritionnels et des #habitudes_alimentaires de la population ?

    La #productivité_alimentaire doit dorénavant se conjuguer avec d’autres formes de productivité tout aussi essentielles à notre pays :

    – la capacité de #rétention_d’eau dans les sols,

    – le renouvellement des #pollinisateurs,

    – le maintien des capacités épuratoires des milieux pour conserver une #eau_potable,

    – le renouvellement de la #fertilité_des_sols,

    – la régulation des espèces nuisibles aux cultures,

    – ou encore la séquestration du carbone dans les sols.

    Or, il est scientifiquement reconnu que les indicateurs de productivité relatifs à ces services baissent depuis plusieurs décennies. Pourtant, ce sont bien ces services qui permettront de garantir une véritable souveraineté alimentaire future.

    La #diversification pour maintenir des rendements élevés

    Une revue de littérature scientifique parue en 2020, compilant plus de 5000 études menées partout dans le monde, montrait que seules des stratégies de diversification des #pratiques_agricoles permettent de répondre à ces objectifs de #performance_plurielle pour l’agriculture, tout en maintenant des #rendements élevés.

    Les ingrédients de cette diversification sont connus :

    – augmentation de la #rotation_des_cultures et des #amendements_organiques,

    – renoncement aux #pesticides_de_synthèse et promotion de l’#agriculture_biologique à grande échelle,

    - réduction du #labour,

    - diversification des #semences et recours aux #variétés_rustiques,

    - ou encore restauration des #haies et des #talus pour limiter le ruissellement de l’#eau_de_pluie.

    Dans 63 % des cas étudiés par ces chercheurs, ces stratégies de diversification ont permis non seulement d’augmenter les #services_écosystémiques qui garantissent la souveraineté alimentaire à long terme, mais aussi les #rendements_agricoles qui permettent de garantir la souveraineté alimentaire à court terme.

    Les sérieux atouts de l’agriculture biologique

    Parmi les pratiques de diversification qui ont fait leurs preuves à grande échelle en France, on retrouve l’agriculture biologique. Se convertir au bio, ce n’est pas simplement abandonner les intrants de synthèse.

    C’est aussi recourir à des rotations de cultures impliquant des #légumineuses fixatrices d’azote dans le sol, utiliser des semences rustiques plus résilientes face aux #parasites, des amendements organiques qui nécessitent des couplages culture-élevage, et enfin parier sur la restauration d’un #paysage qui devient un allié dans la lutte contre les #aléas_naturels. La diversification fait ainsi partie de l’ADN des agriculteurs #bio.

    C’est une question de #réalisme_économique. Les exploitations bio consomment en France deux fois moins de #fertilisant et de #carburant par hectare que les exploitants conventionnels, ce qui les rend moins vulnérables à l’évolution du #prix du #pétrole. En clair, l’agriculture biologique pourrait être la garante de la future souveraineté alimentaire française, alors qu’elle est justement souvent présentée comme une menace pour cette dernière du fait de rendements plus faibles à court terme.

    Au regard des éléments mentionnés plus haut, il s’agit évidemment d’un #faux_procès. Nous sommes autosuffisants et nous avons les réserves foncières qui permettraient de déployer le bio à grande échelle en France, puisque nous sommes passé de 72 % du territoire dédié aux activités agricoles en 1950 à 50 % en 2020. Une petite partie de ces surfaces a été artificialisée tandis que la majorité a tout simplement évolué en friche, à hauteur de 1000 km2 par an en moyenne.

    Par ailleurs, le différentiel de rendement entre le bio et le #conventionnel se réduit après quelques années seulement : de 25 % en moyenne (toutes cultures confondues) au moment de la conversion, il descend à 15 % ensuite. La raison en est l’apprentissage et l’innovation dont font preuve ces agriculteurs qui doivent en permanence s’adapter aux variabilités naturelles. Et des progrès sont encore à attendre, si l’on songe que l’agriculture bio n’a pas bénéficié des 50 dernières années de recherche en #agronomie dédiées aux pratiques conventionnelles.

    Relever le niveau de vie des agriculteurs sans éroder le #pouvoir_d’achat des consommateurs

    Mais a-t-on les moyens d’opérer une telle transition sans réduire le pouvoir d’achat des Français ? Pour répondre à cette question, il faut tout d’abord évoquer le #revenu des #agriculteurs. Il est notoirement faible. Les agriculteurs travaillent beaucoup et vivent mal de leur métier.

    Or, on oublie souvent de le mentionner, mais le surcoût des produits bio est aussi lié au fait que les consommateurs souhaitent mieux rémunérer les agriculteurs : hors subventions, les revenus des agriculteurs bio sont entre 22 % et 35 % plus élevés que pour les agriculteurs conventionnels.

    Ainsi, le consommateur bio consent à payer plus parce que le bio est meilleur pour l’environnement dans son ensemble (eau, air, sol, biodiversité), mais aussi pour que les paysans puissent mieux vivre de leur métier en France sans mettre en danger leur santé.

    Par ailleurs, si le consommateur paie plus cher les produits bio c’est aussi parce qu’il valorise le #travail_agricole en France. Ainsi la production d’aliments bio nécessite plus de #main-d’oeuvre (16 % du total du travail agricole pour 10 % des surfaces) et est très majoritairement localisée en France (71 % de ce qui est consommé en bio est produit en France).

    Cette question du #travail est centrale. Moins de chimie, c’est plus de travail des communautés humaines, animales et végétales. C’est aussi plus d’incertitudes, ce qui n’est évidemment pas simple à appréhender pour un exploitant.

    Mais il faut rappeler que le discours sur le pouvoir d’achat des français, soi-disant garanti par le modèle hyper-productiviste de l’agriculture française, vise surtout à conforter les rentes de situations des acteurs dominants du secteur agricole. Car les coûts sanitaires et environnementaux de ce modèle sont payés par le contribuable.

    Rien que le #traitement_de_l’eau, lié aux pollutions agricoles, pour la rendre potable, coûte entre 500 millions d’euros et 1 milliard d’euros par an à l’État. Or, ce que le consommateur ne paie pas au supermarché, le citoyen le paie avec ses #impôts. Le rapport parlementaire évoqué plus haut ne dit pas autre chose : la socialisation des coûts et la privatisation des bénéfices liés aux #pesticides ne sont plus tolérables.

    Le bio, impensé de la politique agricole française

    Une évidence s’impose alors : il semblerait logique que l’État appuie massivement cette filière en vue de réduire les coûts pour les exploitants bio et ainsi le prix pour les consommateurs de produits bio. En effet, cette filière offre des garanties en matière de souveraineté alimentaire à court et long terme, permet de protéger l’eau et la #santé des Français, est créatrice d’emplois en France. Il n’en est pourtant rien, bien au contraire.

    L’État a promu le label #Haute_valeur_environnementale (#HVE), dont l’intérêt est très limité, comme révélé par l’Office français de la biodiversité (OFB). L’enjeu semble surtout être de permettre aux agriculteurs conventionnels de toucher les aides associés au plan de relance et à la nouvelle #PAC, au risque de créer une #concurrence_déloyale vis-à-vis des agriculteurs bio, d’autant plus que les #aides_publiques au maintien de l’agriculture biologique ont été supprimées en 2023.

    La décision récente de l’État de retirer son projet de #taxe sur l’usage des pesticides créé aussi, de facto, un avantage comparatif pour le conventionnel vis-à-vis du bio. Enfin, rappelons que la Commission européenne a pointé à plusieurs reprises que la France était le seul pays européen à donner moins de subventions par unité de travail agricole aux céréaliers bio qu’aux conventionnels.

    Ainsi, un céréalier bio français reçoit un tiers de subventions en moins par unité de travail agricole qu’un céréalier conventionnel, alors qu’en Allemagne ou en Autriche, il recevrait 50 % de #subventions supplémentaires. En France, l’État renonce aux taxes sur les pesticides tout en maintenant des #charges_sociales élevées sur le travail agricole, alors que c’est évidemment l’inverse dont aurait besoin la #transition_agroécologique.

    Que peuvent faire les citoyens au regard de ce constat déprimant ? Consommer des produits bio malgré tout, et trouver des moyens de les payer moins cher, grâce par exemple à la #vente_directe et à des dispositifs tels que les #AMAP qui permettent de réduire le coût du transport, de la transformation et de la distribution tout autant que le gâchis alimentaire, les variabilités de la production étant amorties par la variabilité du contenu du panier.

    Les agriculteurs engagés pour la #transition_écologique, de leur côté, peuvent réduire les risques associés aux variabilités naturelles et économiques en créant de nouvelles formes d’exploitations coopératives combinant plusieurs activités complémentaires : élevage, culture, transformation, conditionnement et distribution peuvent être organisés collectivement pour mutualiser les coûts et les bénéfices, mais aussi se réapproprier une part significative de la #chaîne_de_valeur laissée aujourd’hui au monde de l’agro-industrie et de la grande distribution.

    Il ne s’agit pas d’une #utopie. De nombreux acteurs essaient de faire émerger, malgré les résistances institutionnelles, ces nouvelles pratiques permettant de garantir la souveraineté alimentaire de la France à long terme.

    https://theconversation.com/une-vraie-souverainete-alimentaire-pour-la-france-220560
    #foncier #industrie_agro-alimentaire #alimentation #collectivisation
    #à_lire #ressources_pédagogiques

  • Christophe Bex : « Le gouvernement est incapable de répondre aux problèmes des agriculteurs »
    https://lvsl.fr/christophe-bex-le-gouvernement-est-incapable-de-repondre-aux-problemes-des-agri

    L’agriculture fait face au même dilemme que l’industrie avant elle : que veut-on produire, où, et dans quelles conditions sociales et environnementales ? Soit on se focalise sur quelques secteurs exportateurs et on importe tout le reste, avec un coût humain et environnemental considérable, soit on relocalise, on réindustrialise, on répond aux besoins français en priorité, avec les savoir-faire des travailleurs. Pour l’instant, c’est la première option qui est choisie. En Lorraine par exemple, lorsque la sidérurgie a été liquidée avec l’aide des socialistes au pouvoir, on a remplacé les hauts-fourneaux par un parc d’attractions, le Schtroumpfland, en espérant redynamiser le secteur.

    #agroindustrie #capitalisme_des_flux #paysannerie #agriculteurs #travail #rémunérations #appauvrissement

  • Des milliers d’Indiens postulent pour travailler en Israël
    https://www.lemonde.fr/international/article/2024/01/30/des-milliers-d-indiens-postulent-pour-travailler-en-israel_6213904_3210.html

    Des milliers d’Indiens postulent pour travailler en Israël
    Par Carole Dieterich (New Delhi, correspondance)
    Après avoir parfois parcouru des centaines de kilomètres, des milliers d’Indiens, âgés de 21 à 45 ans, ont fait la queue des heures durant dans le froid devant les centres de recrutement installés du 17 au 21 janvier à Rohtak, dans l’Haryana, à la frontière de la capitale, New Delhi, puis du 21 au 30 janvier à Lucknow, dans l’Uttar Pradesh, dans l’espoir de décrocher un emploi en Israël, qui fait face à une pénurie de main-d’œuvre depuis les attaques menées par le Hamas, le 7 octobre 2023.
    Le 1er janvier, Gurmeet Kashyap, un maçon d’à peine 25 ans, a répondu à une annonce publiée sur un site du gouvernement de l’Haryana pour un emploi de plâtrier en Israël. Face à l’offre alléchante, le travailleur journalier n’a pas hésité. « Que pouvons-nous faire ? La sécurité n’existe pas quand vous gagnez à peine de quoi acheter du pain et de l’eau. Notre sécurité est entre les mains de Dieu », lance Gurmeet Kashyap, qui a passé des entretiens lors du premier cycle de recrutement, organisé dans l’enceinte d’une université de Rohtak. Les salaires proposés par les recruteurs israéliens dépassent les 1 500 euros mensuels. C’est plus de dix fois ce que Gurmeet Kashyap peut espérer gagner en Inde – une centaine d’euros les bons mois, dit-il.
    L’Inde, qui se targue d’être la cinquième puissance économique mondiale devant le Royaume-Uni, est marquée par un chômage chronique. Des millions de personnes ne parviennent pas à trouver d’emploi stable à temps plein. Près de 22 % des salariés indiens sont des travailleurs occasionnels, dont le revenu mensuel moyen n’atteint même pas les 90 euros. Les jeunes, qui sont des millions à arriver chaque année sur le marché de l’emploi, souffrent particulièrement de ce fléau. Selon le rapport sur l’emploi de l’université Azim Premji, à Bangalore, le chômage touche 15 % des diplômes universitaires de tous les âges et environ 42 % des diplômes de moins de 25 ans. « Il n’y a pas d’emploi en Inde, j’ai postulé alors même que je n’ai aucune qualification dans la construction », admet Abhishek, un jeune de 24 ans, titulaire d’une licence.
    Israël pour sa part manque cruellement de travailleurs dans le secteur du bâtiment, quasiment au point mort. Depuis le début de la guerre, de nombreux travailleurs étrangers ont fui Israël, qui a également retiré leur permis de travail à plus de 100 000 Palestiniens. « Nous avons perdu 82 000 travailleurs dans le secteur de la construction, la plupart venaient d’Europe de l’Est ou encore de Chine et vivaient en Israël depuis des années », indique Shay Pauzner, directeur général adjoint de l’Association des constructeurs d’Israël, qui participe actuellement au recrutement de 20 000 personnes en Inde, sous l’égide de New Delhi et de Tel-Aviv. Avant le début du conflit, en mai 2023, les deux pays avaient signé un accord pour permettre à 40 000 Indiens d’être employés dans les secteurs de la construction mais aussi des soins infirmiers. Quelque 18 000 Indiens travailleraient déjà en Israël.
    Cette vague de recrutement pour des postes de menuisiers, de maçons ou encore de plâtriers et d’électriciens a débuté fin décembre et s’est poursuivie jusqu’au 30 janvier. Les candidats, qui doivent posséder des connaissances de base en anglais, sont également soumis à un test de compétences en conditions réelles. Environ 7 000 Indiens ont déjà été embauchés et l’Association des constructeurs d’Israël espère pouvoir commencer à les faire venir sous peu, au rythme de 1 000 par semaine. « La difficulté est que peu de vols commerciaux desservent actuellement Israël et il va falloir que nous trouvions une solution pour y remédier », indique Shay Pauzner, qui aimerait recruter encore davantage en Inde. Plusieurs milliers d’ouvriers seront également engagés au Sri Lanka mais aussi en Ouzbékistan.
    Le gouvernement indien, qui s’est rapproché d’Israël ces dernières années, avait assuré dès le mois de novembre 2023 qu’il ne s’agissait pas de remplacer les travailleurs palestiniens. Plusieurs syndicats de gauche indiens se sont néanmoins indignés du recrutement de leurs compatriotes par Israël. Le Centre of Indian Trade Unions a accusé le gouvernement indien de fournir de la main-d’œuvre bon marché à Israël et appelé les travailleurs indiens à ne pas devenir des proies en postulant à des emplois en Israël, une « zone déchirée par un conflit » et dont « le gouvernement prive de leur emploi des milliers de Palestiniens travaillant en Israël ». New Delhi a assuré que l’Inde s’engageait à garantir la sécurité et la protection de ses travailleurs migrants et a fait valoir que le droit du travail en Israël était robuste. « Le gouvernement israélien a interrompu les constructions dans les zones dangereuses », abonde Shay Pauzner, affirmant que ces nouveaux travailleurs n’avaient rien à craindre pour leur sécurité. « Avec un salaire à plus de 1 500 euros, j’ai tout naturellement postulé », fait valoir Sunil Kumar, un maçon de 33 ans qui a passé un entretien à la fin du mois de janvier. « Nous voulons tous une vie décente, pouvoir envoyer nos enfants à l’école et manger à notre faim », conclut-il, dans l’attente d’une réponse de ses recruteurs.

    #Covid-19#migrant#migration#israel#gaza#inde#travailleurmigrant#economie#securite#pauvrete

  • „So sehr hatte sich Sarajevo als Synonym für das ehemalige Jugoslawien eingebrannt, dass auch ein Sänger aus Havanna dieser Kraft zum Opfer fiel. Später sangen und tanzten die Menschen. Niemand war der Fauxpas wichtig genug erschienen, um die unmittelbare Freud an einem solchen, auch hier endlich möglich gewordenen Konzert zu betrüben. (...) Zum ersten Mal wari ich stolz auf meine Kroaten, da fühlte ich eine grosse Nähe, eine Liebe sogar, der ich gerne ein Zeuge bin und in der ich mich zu Hause fühle.
    Lassen wir Fahnen Fahnen sein.
    Seien wir Menschen.
    Kroaten ware wir an diesem Abend vor allem dadurch, dass wir selbstverständlich in Frieden, sangen und tanzten, das suns etwas Schönes verband und es uns dort zusammen al seine Stimme gab. Das ist für mich Zugehörigkeit. Gemeinsamkeit. Nicht das Gegen-die-Fahne-Sein ist mir das Zeichen dieses Abends. Es ist vielmehr das Dafür, das Für-das-Singen-sein.“
    #yougonostalgie #post-yougoslave #communauté #transnational #identité #national

    Sterne erben p. 84-85

  • « Jetzt erst begreiff ich, dass ich offiziell eine Kroatin bin, die in europäischen Städten noch immer allen möglichen Jugoslawen hinterhergeht, um ihre Stimmen zu hören und ihre dazugehörigen Wörter wie weitgereiste Vögel zu erspähen, die mehr oder weniger unversehrt überlebt haben, ganz gleich, ob in Paris, Lissabon, Frankfurt oder Berlin. Und auch begriff ich, wie absurd es eigentlich ist, ein Passbesitzer zu sein, etwas so Ausseres sein zu müssen und es zu werden, weil man hier auf dieser Erde ein Jemand ist, wenn man sich irgendeiner ausgedachten Grenze als Einheit von Gesicht und Name ausweisen kann. »
    #porte-parole #diaspora #yougonostalgie #yougoslavie #communauté #nous #post-yougoslave #transnational #frontière #identité #national #diaspora

    Sterne erben p. 72

  • L’#Europe et la fabrique de l’étranger

    Les discours sur l’ « #européanité » illustrent la prégnance d’une conception identitaire de la construction de l’Union, de ses #frontières, et de ceux qu’elle entend assimiler ou, au contraire, exclure au nom de la protection de ses #valeurs particulières.

    Longtemps absente de la vie démocratique de l’#Union_européenne (#UE), la question identitaire s’y est durablement installée depuis les années 2000. Si la volonté d’affirmer officiellement ce que « nous, Européens » sommes authentiquement n’est pas nouvelle, elle concernait jusqu’alors surtout – à l’instar de la Déclaration sur l’identité européenne de 1973 – les relations extérieures et la place de la « Communauté européenne » au sein du système international. À présent, elle renvoie à une quête d’« Européanité » (« Europeanness »), c’est-à-dire la recherche et la manifestation des #trait_identitaires (héritages, valeurs, mœurs, etc.) tenus, à tort ou à raison, pour caractéristiques de ce que signifie être « Européens ». Cette quête est largement tournée vers l’intérieur : elle concerne le rapport de « nous, Européens » à « nous-mêmes » ainsi que le rapport de « nous » aux « autres », ces étrangers et étrangères qui viennent et s’installent « chez nous ».

    C’est sous cet aspect identitaire qu’est le plus fréquemment et vivement discuté ce que l’on nomme la « #crise_des_réfugiés » et la « #crise_migratoire »

    L’enjeu qui ferait de l’#accueil des exilés et de l’#intégration des migrants une « #crise » concerne, en effet, l’attitude que les Européens devraient adopter à l’égard de celles et ceux qui leur sont « #étrangers » à double titre : en tant qu’individus ne disposant pas de la #citoyenneté de l’Union, mais également en tant que personnes vues comme les dépositaires d’une #altérité_identitaire les situant à l’extérieur du « #nous » – au moins à leur arrivée.

    D’un point de vue politique, le traitement que l’Union européenne réserve aux étrangères et étrangers se donne à voir dans le vaste ensemble de #discours, #décisions et #dispositifs régissant l’#accès_au_territoire, l’accueil et le #séjour de ces derniers, en particulier les accords communautaires et agences européennes dévolus à « une gestion efficace des flux migratoires » ainsi que les #politiques_publiques en matière d’immigration, d’intégration et de #naturalisation qui restent du ressort de ses États membres.

    Fortement guidées par des considérations identitaires dont la logique est de différencier entre « nous » et « eux », de telles politiques soulèvent une interrogation sur leurs dynamiques d’exclusion des « #autres » ; cependant, elles sont aussi à examiner au regard de l’#homogénéisation induite, en retour, sur le « nous ». C’est ce double questionnement que je propose de mener ici.

    En quête d’« Européanité » : affirmer la frontière entre « nous » et « eux »

    La question de savoir s’il est souhaitable et nécessaire que les contours de l’UE en tant que #communauté_politique soient tracés suivant des #lignes_identitaires donne lieu à une opposition philosophique très tranchée entre les partisans d’une défense sans faille de « l’#identité_européenne » et ceux qui plaident, à l’inverse, pour une « #indéfinition » résolue de l’Europe. Loin d’être purement théorique, cette opposition se rejoue sur le plan politique, sous une forme tout aussi dichotomique, dans le débat sur le traitement des étrangers.

    Les enjeux pratiques soulevés par la volonté de définir et sécuriser « notre » commune « Européanité » ont été au cœur de la controverse publique qu’a suscitée, en septembre 2019, l’annonce faite par #Ursula_von_der_Leyen de la nomination d’un commissaire à la « #Protection_du_mode_de_vie_européen », mission requalifiée – face aux critiques – en « #Promotion_de_notre_mode_de_vie_européen ». Dans ce portefeuille, on trouve plusieurs finalités d’action publique dont l’association même n’a pas manqué de soulever de vives inquiétudes, en dépit de la requalification opérée : à l’affirmation publique d’un « #mode_de_vie » spécifiquement « nôtre », lui-même corrélé à la défense de « l’#État_de_droit », « de l’#égalité, de la #tolérance et de la #justice_sociale », se trouvent conjoints la gestion de « #frontières_solides », de l’asile et la migration ainsi que la #sécurité, le tout placé sous l’objectif explicite de « protéger nos citoyens et nos valeurs ».

    Politiquement, cette « priorité » pour la période 2019-2024 s’inscrit dans la droite ligne des appels déjà anciens à doter l’Union d’un « supplément d’âme
     » ou à lui « donner sa chair » pour qu’elle advienne enfin en tant que « #communauté_de_valeurs ». De tels appels à un surcroît de substance spirituelle et morale à l’appui d’un projet européen qui se devrait d’être à la fois « politique et culturel » visaient et visent encore à répondre à certains problèmes pendants de la construction européenne, depuis le déficit de #légitimité_démocratique de l’UE, si discuté lors de la séquence constitutionnelle de 2005, jusqu’au défaut de stabilité culminant dans la crainte d’une désintégration européenne, rendue tangible en 2020 par le Brexit.

    Précisément, c’est de la #crise_existentielle de l’Europe que s’autorisent les positions intellectuelles qui, poussant la quête d’« Européanité » bien au-delà des objectifs politiques évoqués ci-dessus, la déclinent dans un registre résolument civilisationnel et défensif. Le geste philosophique consiste, en l’espèce, à appliquer à l’UE une approche « communautarienne », c’est-à-dire à faire entièrement reposer l’UE, comme ensemble de règles, de normes et d’institutions juridiques et politiques, sur une « #communauté_morale » façonnée par des visions du bien et du monde spécifiques à un groupe culturel. Une fois complétée par une rhétorique de « l’#enracinement » desdites « #valeurs_européennes » dans un patrimoine historique (et religieux) particulier, la promotion de « notre mode de vie européen » peut dès lors être orientée vers l’éloge de ce qui « nous » singularise à l’égard d’« autres », de « ces mérites qui nous distinguent » et que nous devons être fiers d’avoir diffusés au monde entier.

    À travers l’affirmation de « notre » commune « Européanité », ce n’est pas seulement la reconnaissance de « l’#exception_européenne » qui est recherchée ; à suivre celles et ceux qui portent cette entreprise, le but n’est autre que la survie. Selon #Chantal_Delsol, « il en va de l’existence même de l’Europe qui, si elle n’ose pas s’identifier ni nommer ses caractères, finit par se diluer dans le rien. » Par cette #identification européenne, des frontières sont tracées. Superposant Europe historique et Europe politique, Alain Besançon les énonce ainsi : « l’Europe s’arrête là où elle s’arrêtait au XVIIe siècle, c’est-à-dire quand elle rencontre une autre civilisation, un régime d’une autre nature et une religion qui ne veut pas d’elle. »

    Cette façon de délimiter un « #nous_européen » est à l’exact opposé de la conception de la frontière présente chez les partisans d’une « indéfinition » et d’une « désappropriation » de l’Europe. De ce côté-ci de l’échiquier philosophique, l’enjeu est au contraire de penser « un au-delà de l’identité ou de l’identification de l’Europe », étant entendu que le seul « crédit » que l’on puisse « encore accorder » à l’Europe serait « celui de désigner un espace de circulation symbolique excédant l’ordre de l’identification subjective et, plus encore, celui de la #crispation_identitaire ». Au lieu de chercher à « circonscri[re] l’identité en traçant une frontière stricte entre “ce qui est européen” et “ce qui ne l’est pas, ne peut pas l’être ou ne doit pas l’être” », il s’agit, comme le propose #Marc_Crépon, de valoriser la « #composition » avec les « #altérités » internes et externes. Animé par cette « #multiplicité_d’Europes », le principe, thématisé par #Etienne_Balibar, d’une « Europe comme #Borderland », où les frontières se superposent et se déplacent sans cesse, est d’aller vers ce qui est au-delà d’elle-même, vers ce qui l’excède toujours.

    Tout autre est néanmoins la dynamique impulsée, depuis une vingtaine d’années, par les politiques européennes d’#asile et d’immigration.

    La gouvernance européenne des étrangers : l’intégration conditionnée par les « valeurs communes »

    La question du traitement public des étrangers connaît, sur le plan des politiques publiques mises en œuvre par les États membres de l’UE, une forme d’européanisation. Celle-ci est discutée dans les recherches en sciences sociales sous le nom de « #tournant_civique ». Le terme de « tournant » renvoie au fait qu’à partir des années 2000, plusieurs pays européens, dont certains étaient considérés comme observant jusque-là une approche plus ou moins multiculturaliste (tels que le Royaume-Uni ou les Pays-Bas), ont développé des politiques de plus en plus « robustes » en ce qui concerne la sélection des personnes autorisées à séjourner durablement sur leur territoire et à intégrer la communauté nationale, notamment par voie de naturalisation. Quant au qualificatif de « civique », il marque le fait que soient ajoutés aux #conditions_matérielles (ressources, logement, etc.) des critères de sélection des « désirables » – et, donc, de détection des « indésirables » – qui étendent les exigences relatives à une « #bonne_citoyenneté » aux conduites et valeurs personnelles. Moyennant son #intervention_morale, voire disciplinaire, l’État se borne à inculquer à l’étranger les traits de caractère propices à la réussite de son intégration, charge à lui de démontrer qu’il conforme ses convictions et comportements, y compris dans sa vie privée, aux « valeurs » de la société d’accueil. Cette approche, centrée sur un critère de #compatibilité_identitaire, fait peser la responsabilité de l’#inclusion (ou de l’#exclusion) sur les personnes étrangères, et non sur les institutions publiques : si elles échouent à leur assimilation « éthique » au terme de leur « #parcours_d’intégration », et a fortiori si elles s’y refusent, alors elles sont considérées comme se plaçant elles-mêmes en situation d’être exclues.

    Les termes de « tournant » comme de « civique » sont à complexifier : le premier car, pour certains pays comme la France, les dispositifs en question manifestent peu de nouveauté, et certainement pas une rupture, par rapport aux politiques antérieures, et le second parce que le caractère « civique » de ces mesures et dispositifs d’intégration est nettement moins évident que leur orientation morale et culturelle, en un mot, identitaire.

    En l’occurrence, c’est bien plutôt la notion d’intégration « éthique », telle que la définit #Jürgen_Habermas, qui s’avère ici pertinente pour qualifier ces politiques : « éthique » est, selon lui, une conception de l’intégration fondée sur la stabilisation d’un consensus d’arrière-plan sur des « valeurs » morales et culturelles ainsi que sur le maintien, sinon la sécurisation, de l’identité et du mode de vie majoritaires qui en sont issus. Cette conception se distingue de l’intégration « politique » qui est fondée sur l’observance par toutes et tous des normes juridico-politiques et des principes constitutionnels de l’État de droit démocratique. Tandis que l’intégration « éthique » requiert des étrangers qu’ils adhèrent aux « valeurs » particulières du groupe majoritaire, l’intégration « politique » leur demande de se conformer aux lois et d’observer les règles de la participation et de la délibération démocratiques.

    Or, les politiques d’immigration, d’intégration et de naturalisation actuellement développées en Europe sont bel et bien sous-tendues par cette conception « éthique » de l’intégration. Elles conditionnent l’accès au « nous » à l’adhésion à un socle de « valeurs » officiellement déclarées comme étant déjà « communes ». Pour reprendre un exemple français, cette approche ressort de la manière dont sont conçus et mis en œuvre les « #contrats_d’intégration » (depuis le #Contrat_d’accueil_et_d’intégration rendu obligatoire en 2006 jusqu’à l’actuel #Contrat_d’intégration_républicaine) qui scellent l’engagement de l’étranger souhaitant s’installer durablement en France à faire siennes les « #valeurs_de_la_République » et à les « respecter » à travers ses agissements. On retrouve la même approche s’agissant de la naturalisation, la « #condition_d’assimilation » propre à cette politique donnant lieu à des pratiques administratives d’enquête et de vérification quant à la profondeur et la sincérité de l’adhésion des étrangers auxdites « valeurs communes », la #laïcité et l’#égalité_femmes-hommes étant les deux « valeurs » systématiquement mises en avant. L’étude de ces pratiques, notamment les « #entretiens_d’assimilation », et de la jurisprudence en la matière montre qu’elles ciblent tout particulièrement les personnes de religion et/ou de culture musulmanes – ou perçues comme telles – en tant qu’elles sont d’emblée associées à des « valeurs » non seulement différentes, mais opposées aux « nôtres ».

    Portées par un discours d’affrontement entre « systèmes de valeurs » qui n’est pas sans rappeler le « #choc_des_civilisations » thématisé par #Samuel_Huntington, ces politiques, censées « intégrer », concourent pourtant à radicaliser l’altérité « éthique » de l’étranger ou de l’étrangère : elles construisent la figure d’un « autre » appartenant – ou suspecté d’appartenir – à un système de « valeurs » qui s’écarterait à tel point du « nôtre » que son inclusion dans le « nous » réclamerait, de notre part, une vigilance spéciale pour préserver notre #identité_collective et, de sa part, une mise en conformité de son #identité_personnelle avec « nos valeurs », telles qu’elles s’incarneraient dans « notre mode de vie ».

    Exclusion des « autres » et homogénéisation du « nous » : les risques d’une « #Europe_des_valeurs »

    Le recours aux « valeurs communes », pour définir les « autres » et les conditions de leur entrée dans le « nous », n’est pas spécifique aux politiques migratoires des États nationaux. L’UE, dont on a vu qu’elle tenait à s’affirmer en tant que « communauté morale », a substitué en 2009 au terme de « #principes » celui de « valeurs ». Dès lors, le respect de la dignité humaine et des droits de l’homme, la liberté, la démocratie, l’égalité, l’État de droit sont érigés en « valeurs » sur lesquelles « l’Union est fondée » (art. 2 du Traité sur l’Union européenne) et revêtent un caractère obligatoire pour tout État souhaitant devenir et rester membre de l’UE (art. 49 sur les conditions d’adhésion et art. 7 sur les sanctions).

    Reste-t-on ici dans le périmètre d’une « intégration politique », au sens où la définit Habermas, ou franchit-on le cap d’une « intégration éthique » qui donnerait au projet de l’UE – celui d’une intégration toujours plus étroite entre les États, les peuples et les citoyens européens, selon la formule des traités – une portée résolument identitaire, en en faisant un instrument pour sauvegarder la « #civilisation_européenne » face à d’« autres » qui la menaceraient ? La seconde hypothèse n’a certes rien de problématique aux yeux des partisans de la quête d’« Européanité », pour qui le projet européen n’a de sens que s’il est tout entier tourné vers la défense de la « substance » identitaire de la « civilisation européenne ».

    En revanche, le passage à une « intégration éthique », tel que le suggère l’exhortation à s’en remettre à une « Europe des valeurs » plutôt que des droits ou de la citoyenneté, comporte des risques importants pour celles et ceux qui souhaitent maintenir l’Union dans le giron d’une « intégration politique », fondée sur le respect prioritaire des principes démocratiques, de l’État de droit et des libertés fondamentales. D’où également les craintes que concourt à attiser l’association explicite des « valeurs de l’Union » à un « mode de vie » à préserver de ses « autres éthiques ». Deux risques principaux semblent, à cet égard, devoir être mentionnés.

    En premier lieu, le risque d’exclusion des « autres » est intensifié par la généralisation de politiques imposant un critère de #compatibilité_identitaire à celles et ceux que leur altérité « éthique », réelle ou supposée, concourt à placer à l’extérieur d’une « communauté de valeurs » enracinée dans des traditions particulières, notamment religieuses. Fondé sur ces bases identitaires, le traitement des étrangers en Europe manifesterait, selon #Etienne_Tassin, l’autocontradiction d’une Union se prévalant « de la raison philosophique, de l’esprit d’universalité, de la culture humaniste, du règne des droits de l’homme, du souci pour le monde dans l’ouverture aux autres », mais échouant lamentablement à son « test cosmopolitique et démocratique ». Loin de représenter un simple « dommage collatéral » des politiques migratoires de l’UE, les processus d’exclusion touchant les étrangers constitueraient, d’après lui, « leur centre ». Même position de la part d’Étienne Balibar qui n’hésite pas à dénoncer le « statut d’#apartheid » affectant « l’immigration “extracommunautaire” », signifiant par là l’« isolement postcolonial des populations “autochtones” et des populations “allogènes” » ainsi que la construction d’une catégorie d’« étrangers plus qu’étrangers » traités comme « radicalement “autres”, dissemblables et inassimilables ».

    Le second risque que fait courir la valorisation d’un « nous » européen désireux de préserver son intégrité « éthique », touche au respect du #pluralisme. Si l’exclusion des « autres » entre assez clairement en tension avec les « valeurs » proclamées par l’Union, les tendances à l’homogénéisation résultant de l’affirmation d’un consensus fort sur des valeurs déclarées comme étant « toujours déjà » communes aux Européens ne sont pas moins susceptibles de contredire le sens – à la fois la signification et l’orientation – du projet européen. Pris au sérieux, le respect du pluralisme implique que soit tolérée et même reconnue une diversité légitime de « valeurs », de visions du bien et du monde, dans les limites fixées par l’égale liberté et les droits fondamentaux. Ce « fait du pluralisme raisonnable », avec les désaccords « éthiques » incontournables qui l’animent, est le « résultat normal » d’un exercice du pouvoir respectant les libertés individuelles. Avec son insistance sur le partage de convictions morales s’incarnant dans un mode de vie culturel, « l’Europe des valeurs » risque de produire une « substantialisation rampante » du « nous » européen, et d’entériner « la prédominance d’une culture majoritaire qui abuse d’un pouvoir de définition historiquement acquis pour définir à elle seule, selon ses propres critères, ce qui doit être considéré comme la culture politique obligatoire de la société pluraliste ».

    Soumis aux attentes de reproduction d’une identité aux frontières « éthiques », le projet européen est, en fin de compte, dévié de sa trajectoire, en ce qui concerne aussi bien l’inclusion des « autres » que la possibilité d’un « nous » qui puisse s’unir « dans la diversité ».

    https://laviedesidees.fr/L-Europe-et-la-fabrique-de-l-etranger
    #identité #altérité #intégration_éthique #intégration_politique #religion #islam

    • Politique de l’exclusion

      Notion aussi usitée que contestée, souvent réduite à sa dimension socio-économique, l’exclusion occupe pourtant une place centrale dans l’histoire de la politique moderne. Les universitaires réunis autour de cette question abordent la dimension constituante de l’exclusion en faisant dialoguer leurs disciplines (droit, histoire, science politique, sociologie). Remontant à la naissance de la citoyenneté moderne, leurs analyses retracent l’invention de l’espace civique, avec ses frontières, ses marges et ses zones d’exclusion, jusqu’à l’élaboration actuelle d’un corpus de valeurs européennes, et l’émergence de nouvelles mobilisations contre les injustices redessinant les frontières du politique.

      Tout en discutant des usages du concept d’exclusion en tenant compte des apports critiques, ce livre explore la manière dont la notion éclaire les dilemmes et les complexités contemporaines du rapport à l’autre. Il entend ainsi dévoiler l’envers de l’ordre civique, en révélant la permanence d’une gouvernementalité par l’exclusion.

      https://www.puf.com/politique-de-lexclusion

      #livre

  • „Ich halte diese Bahn für nicht mehr reparabel.“
    https://www.nachdenkseiten.de/?p=110219

    Les système des chemins de fer allemand est kaputt au point où personne ne peut le réparer. Les raisons principales de la catastrophe sont la privatisation et la gestion par des managers incapables.

    Les conséquence de cette situation sont l’impossibilité de remplacer le transport en camion par le train et la nécessité de prendre la voiture pour se déplacer.

    29.1.2024 von Ralf Wurzbacher - Mit einem fast sechs Tage dauernden Arbeitskampf haben die Lokführer den Zugverkehr in Deutschland weitestgehend lahmgelegt. Politik und Medien sehen in der Gewerkschaft GDL den Hauptschuldigen in der Auseinandersetzung, beklagen Maßlosigkeit und mangelnde Rücksichtnahme auf die Kunden. „Vollstes Verständnis“ für die Streikenden hat dagegen Arno Luik. Im Interview mit den NachDenkDeiten lässt der Journalist und Bestsellerautor kein gutes Haar am Staatskonzern mit einer Führungsriege aus „Azubis“, die sich „durchgeknallte“ Boni dafür genehmigten, einen einst „perfekt funktionierenden“ Betrieb vor die Wand gefahren zu haben. Sein Verdikt: „Diese Bahn ist eine Zumutung.“ Mit ihm sprach Ralf Wurzbacher.

    Ralf Wurzbacher: Seit Dienstag vorangegangener Woche wurde die Deutsche Bahn (DB) in einem Arbeitskampf historischer Dimension bestreikt und alle motzten – bevorzugt gegen die „starrköpfigen“ Lokführer. Gegen wen motzen Sie?

    Arno Luik: Ich motze nicht, ich staune. Ich staune über das, was in diesem Land alles möglich ist in Sachen Bahn. Da klebt diese Bahn als Zeichen ihrer angeblichen Umweltliebe grüne Streifen auf ihre ICE-Züge und verkündet: „Wir sind eine Öko-Bahn. Wir tun was fürs Klima.“ Doch gleichzeitig beteiligt sich dieser Staatskonzern über eine Bahn-Tochter in Mexiko an dem so gigantischen wie verwerflichen Bahnprojekt „Tren Maya“, ein Touristenzug, der auf über 1.500 Kilometern Länge durch malerische Landschaften führt – auch quer durch Regenwälder. Massenweise müssen für diesen Zug, von dem die Einheimischen nichts haben, diese für das Ökosystem so wichtigen Regenwälder abgeholzt werden. Dort lebende Nachfahren der Maya kämpfen gegen diesen Bau, indigene Völker fürchten, dass der Zug das sensible Ökosystem gefährdet, ihre Lebensgrundlagen zerstört und sie dazu zwingt, ihre Heimat zu verlassen. Geht’s noch?

    Diese Bahn, die hierzulande nicht in der Lage ist, ihre Strecken zeitgemäß zu elektrifizieren, vermeldet voller Stolz, dass sie „das größte Bahnprojekt in der Geschichte Ägyptens und mit 2.000 Streckenkilometern sechstgrößte Hochgeschwindigkeitsnetz der Welt übernehmen“ wird. Was soll dieser Auslandseinsatz? Angesichts des erbärmlichen Zustands der Bahn hierzulande? Hier sind gerade mal 61 Prozent der Strecken elektrifiziert – eine Schande für dieses Industrieland. Diese Bahn ist eine Zumutung. Und ich staune, mit welch buddhistischer Geduld die Bürger das alles hinnehmen: diese Verspätungen, diese Zugausfälle, diese strukturelle Unzuverlässigkeit, den offensichtlichen Zerfall eines so wichtigen Verkehrsmittels, diese Unfreundlichkeit gegenüber den Kunden. Und so unfreundlich benimmt sich die Bahnspitze auch nach innen, man sieht es nun beim aktuellen Lokführerstreik. Ziemlich ungehobelt agiert da die Staatsbahn.

    Ungehobelt?

    Es ist ein Unding, einen Tarifvertrag mit einer Laufzeit von 32 Monaten durchsetzen zu wollen. Die Bahn ist zu 100 Prozent im Staatsbesitz. Ich finde, ein Staatsbetrieb sollte ein Vorbild sein, was sein Verhalten gegenüber seinen Mitarbeitern betrifft. Doch das Bahn-Management agiert frech: Die Zeiten sind überaus unsicher, ökonomische Verwerfungen jederzeit möglich, ein Anhalten der Rekordinflation nicht unwahrscheinlich. Und in einer solchen Situation den Beschäftigten einen Tarifvertrag über zweieinhalb Jahre anzubieten – das ist eine Provokation.

    Lange Laufzeiten liegen im Trend …

    Das mag sein. Aber ist dieser Trend gut für die abhängig Beschäftigten? Nochmals: Die Bahn ist ein hundertprozentiges Staatsunternehmen, daraus erwächst eine besondere Verantwortung. Nun möchte die GDL den Einstieg in die 35-Stunden-Woche. Die gibt es bei der IG-Metall schon seit drei Jahrzehnten, für viele Betriebe ist dieses Modell längst das Normalste der Welt. Und genauso müsste es für einen Staatskonzern sein, der von uns Bürgern jedes Jahr viele Milliarden Euro an Steuergeldern bekommt. Wer zufrieden ist, streikt nicht. Streik ist Notwehr.

    Dabei geht es bei dem Konflikt gar nicht um eine flächendeckende, sondern um eine Arbeitszeitverkürzung für Schichtarbeiter. Trotzdem wollte die Bahn-Führung – bis zur am Wochenende signalisierten Verhandlungsbereitschaft – über zwei Monate lang gar nicht über die GDL-Forderung reden.

    So haben damals auch die Metallarbeitgeber geblockt, um dann nach sieben Wochen Streik einzulenken. Diese Bahn könnte natürlich die GDL-Forderung erfüllen. Wenn man ins Ausland schaut, nach Österreich, Luxemburg, in die Schweiz, zeigt sich, dass das Verhältnis zwischen der jeweiligen Bahnführung und den Angestellten gut funktioniert. Die dortigen Bahnmitarbeiter werden auch besser entlohnt, sie haben ordentliche Arbeitszeiten, nach Schichtdiensten geregelte Ruhezeiten. Warum geht das nicht in Deutschland?

    Ja, warum eigentlich nicht?

    Ich kenne Lokomotivführer, die im Jahr 400 bis 600 Überstunden anhäufen. Unfassbar. Ein normales Familienleben ist da kaum mehr möglich. Der Krankenstand bei der Bahn ist sehr hoch, der Schichtdienst sehr anstrengend. Mein vollstes Verständnis dafür, dass die Lokführer um bessere Bedingungen kämpfen. Es gibt ja auch noch einen Grund, weshalb die Streikbereitschaft so groß ist. Das speist sich aus einem tief sitzenden Gefühl der Ungerechtigkeit. Die Bahn-Mitarbeiter sehen die absurd hohen Gehälter ihrer Vorstände, die völlig durchgeknallten und nicht zu rechtfertigenden Boni – allein neun Millionen Euro für die neun DB-Vorstandsmitglieder. Boni für was? Und warum?

    Diese Bahn-Chefs haben aus einer mal hervorragend funktionierenden Bahn ein marodes Unternehmen geschaffen. Ein Unternehmen, das – kein Witz, die Wahrheit – die Finanzen des Staatshaushalts gefährdet. Diese Bahn ist mit 35 Milliarden Euro in den Miesen! Faktisch pleite. Und in einer solchen Situation Bahnchef Richard Lutz zu seinem überaus üppigen Grundgehalt, dreimal so hoch wie das des Bundeskanzlers, einen Bonus von zwei Millionen Euro zu spendieren – das lässt sich niemandem vermitteln.

    Dieses Absahnen schafft Staatsverdrossenheit, eine gefährliche Stimmung gegen „die da oben“. Es schafft Frust und Empörung bei den Bahn-Mitarbeitern, die diesen zerfallenden Laden am Laufen halten. Gestresste Mitarbeiter, die wegen Verspätungen, Zugausfällen die Aggressionen der Kunden ertragen müssen – und das zu Löhnen, für die ihre Chefs sich nicht aus ihren Sesseln erheben würden.

    Dabei geht es auch anders. Die Bahntarifrunde betrifft neben der DB rund 60 weitere öffentliche und private Eisenbahnunternehmen und in knapp 20 Fällen wurde bereits ein Abschluss erzielt.

    Und jedes Mal hat die Gegenseite einem schrittweisen Einstieg in die 35-Stunden-Woche zugestimmt. GDL-Chef Claus Weselsky wird ja jetzt häufig als der böse Bube dargestellt. Er ist aber – zumal CDU-Mitglied – kein Klassenkämpfer. Das sieht man auch daran, dass er diese Verträge mit vielen privaten Bahnunternehmern ratzfatz abgeschlossen hat. Da gab es faire Angebote, ordentliche Lohnerhöhungen und Erholungszeiten wurden vereinbart. Aber die Deutsche Bahn sperrt sich gegenüber diesen Selbstverständlichkeiten. Warum? Will sie einer etwas aufmüpfigen Gewerkschaft eine Lektion zu erteilen? Will die Bahn-Spitze bloß noch mit der kuschelzahmen Gewerkschaft EVG verhandeln?

    Allmählich schleift sich so ein Tenor in die Debatte ein: Streikrecht und Tarifautonomie sind ja schön und gut. Aber irgendwo muss auch mal Schluss sein. Wie klingt das in Ihren Ohren?

    Das ist bei jedem größeren Streik so. Friedrich Merz, Chef der BlackRock-CDU, spricht von einem „Streik-Exzess“ und will Gesetzesänderungen. Seine MdB-Kollegin Gitta Connemann fordert Verschärfungen, um solche Tarifkämpfe prinzipiell zu verhindern – alles Anschläge auf das Streikrecht, die Tarifautonomie. Ich habe die Sorge, dass gerade in den Zeiten der sogenannten „Zeitenwende“ bis vor Kurzem Undenkbares nun möglich wird: eben die Einschränkung des Streikrechts. Wobei, das muss gesagt werden, das deutsche Streikrecht ohnehin ein ziemlich schwächliches ist im internationalen Vergleich.

    Sie sagen es: Politische Streiks, das vielleicht schärfste Schwert gegen die Obrigkeit, sind verboten. Anderswo, etwa in Frankreich, gibt es Generalstreiks in Serie, auch und gerade seit der „Zeitenwende“.

    Ich will jetzt nicht zu düster werden und vielleicht gehe ich etwas zu weit, aber ich setze meine Gedanken mal in einen größeren Kontext: Bisher lautete die Prämisse unseres Staates nach der Erfahrung zweier Weltkriege: „Nie wieder Krieg!“ Dieses Glaubensbekenntnis ist entsorgt. Plötzlich spricht der deutsche Verteidigungsminister davon, kriegstüchtig zu werden. Plötzlich sagt der EU-Industriekommissar Thierry Breton, ein wichtiger Stratege: „Wir müssen in den Modus der Kriegswirtschaft wechseln.“ Kriegsertüchtigung. Kriegswirtschaft. Gedanken und Sätze, die es vor Kurzem nicht gab. Man müsse sich gegen einen Angriff Russlands gegen die EU wappnen, heißt es. Wer solche Gedankenspiele anstellt, der denkt sicherlich auch darüber nach, ob Streiks bei der kritischen Infrastruktur noch sein dürfen.

    Weil das die Kriegsertüchtigung hemmen könnte?

    Ja. Vielleicht werden die Bahn-Mitarbeiter plötzlich wieder zu Beamten, die dürfen ja nicht streiken. Bei dem Tempo, wie diese sogenannte Zeitenwende ehedem eherne Grundsätze über den Haufen wirft, kann einem schummerig werden.

    Zurück zum Bahntarifkonflikt …

    Es heißt ja, der Streik dauert zu lang und richtet großen volkswirtschaftlichen Schaden an. Da muss ich ein wenig lachen. Wenn es heute mal, was im Winter passieren kann, ein wenig schneit, dann stellt die Bahn häufig den Verkehr ein, hängt ganze Bundesländer vom Verkehr ab. Neulich gab es Schnee in Bayern, in München, fast ganz Bayern fuhren zwei Tage lang keine Züge mehr – ein teurer Witz für die Volkswirtschaft.

    In der Schweiz, in Österreich, in Norwegen, Finnland und Schweden schneit es viel mehr und da brausen die Züge ohne Probleme durch den Schnee. So war das auch mal in Deutschland. „Alle reden vom Wetter. Wir nicht“, hieß es bei der Bahn. Aber inzwischen ist die Bahn so runtergekommen, so runtergerockt, dass sie nicht in der Lage ist, ein bisschen Schnee wegzuräumen. Früher wurde geschippt, wurden die Weichen freigeschaufelt. Die Züge fuhren. Auf jedem Bahnhof, und es gab sehr viele, war man auf den Winter vorbereitet. Bahn-interner Spott heute: „Die einzigen Schneebesen, die es bei der Bahn noch gibt, sind die Schneebesen in den ICE-Bistros.“

    Die Bistros sind auch nicht selten „out of order“, wie die Toiletten, die Anschlussanzeigen und und und …

    Noch ein Wort zu diesem ideologischen Kampfsatz: „Die GDL verursacht volkswirtschaftlichen Schaden in Milliardenhöhe.“ Was macht die Bahn-Spitze? Sie sperrt monatelang die wichtigsten Bahnstrecken im Land. Vollsperrung. Etwa die Hauptverkehrsachse in Europa zwischen Frankfurt und Mannheim, fünf Monate lang, um die nicht instandgehaltene Strecke zu sanieren. Die Strecke zwischen Berlin und Hamburg wird ebenfalls monatelang gesperrt. Überdies fallen bei der Bahn jährlich Zehntausende von Zügen komplett aus, 2018 waren es 140.000 – ein immenser ökonomischer Schaden. Bahnalltag in Deutschland. Dagegen ist ein Sechs-Tage-Streik fast ein Witz.

    Das Sperren von Strecken – ist das in anderen Ländern nicht undenkbar?

    Was die Deutsche Bahn da anstellt, ist weltweit einmalig. Seit Züge fahren, repariert man „unterm laufenden Rad“. Der Kunde merkt meist nichts davon. Aber heute agiert die Bahn völlig unfähig und rücksichtslos. Was die Bahn mit ihrer sogenannten Generalsanierung treibt, ist der größte anzunehmende Unfug, schlimmer noch: Dieser GAU ist ein Umerziehungsprogramm. Er macht frustrierte Bahnkunden zu Autofahrern.

    Warum eigentlich freut sich die Bahn-Führung nicht über den GDL-Streik? Schließlich kann sie den üblichen Stillstand eine ganze Woche lang anderen in die Schuhe schieben …

    Der Notfahrplan, der für die Streiktage gilt, funktioniert wahrscheinlich besser als der Regelfahrplan. Warum? Jetzt ist das kaputtgesparte Bahnnetz mal für ein paar Tage nicht überlastet. Man muss sich vorstellen: 1994 betrug die Netzlänge über 40.000 Kilometer, heute sind es noch 33.000 Kilometer – ein Rückbau von rund 20 Prozent. Wären die Autobahnen um 20 Prozent zurückgebaut worden, es würde das totale Chaos herrschen. Und dieses Chaos haben wir nun bei der Bahn.

    Im Titel Ihres Bestsellers „Schaden in der Oberleitung“ schreiben Sie vom „geplanten Desaster der Deutschen Bahn“. Das klingt nach Verschwörungstheorie. Wer sind die Planer und wozu der Plan?

    Wir leben in einem absolut verrückten Autoland. In Österreich, der Schweiz, Italien funktionieren die Bahnen. Warum nicht in Deutschland? Ist eine schlechte Bahn ein Zufall, ein Betriebsunfall? Ich glaube nicht. Seit den frühen 1990er-Jahren kamen an die DB-Spitze Manager, die bei Amtsantritt keine Ahnung vom hochkomplexen System Bahn hatten: Heinz Dürr – Autoindustrie; Hartmut Mehdorn – Auto- und Luftfahrtindustrie; Rüdiger Grube – Autoindustrie. Das waren Bahn-Azubis, alles überbezahlte Azubis.

    Sie haben Volksvermögen verschleudert, sie haben das fast Nichtmachbare geschafft: Aus einer perfekt funktionierenden Bahn einen maroden Laden zu schaffen, der Milliarden verschlingt, aber seinen Kunden immer weniger bietet. Die Deutsche Bahn war mal ein weltweites Vorbild in Sachen Zugfahren, selbst die Schweizer staunten, was für eine tolle Bahn die Deutschen hatten. Zu Recht hieß es: „Pünktlich wie die Eisenbahn.“ Heute heißt es: „Schaden in der Oberleitung“, „Störung im Betriebsablauf“ – Worte, die früher kein Bundesbürger kannte.

    Und jetzt haben die Eidgenossen Züge aus Deutschland quasi ausgesperrt, weil sie die eng getakteten Fahrpläne durcheinanderbringen …

    Die Schweizer haben keine Lust, sich ihre perfekten Fahrpläne durch die notorisch unfähige Deutsche Bahn kaputtmachen zu lassen. Es ist wirklich tragisch: Die Bahn wurde in rund 30 Jahren, seit der Bahn-Reform, als das Unternehmen sexy für die Börse gemacht werden sollte und zur Aktiengesellschaft wurde, nachhaltig ruiniert. Ich halte diese Bahn für nicht mehr reparabel. Es ist sehr einfach, etwas zu zerstören, aber viel schwerer ist es, das Zerstörte zu reparieren.

    Es fehlt heute an allem: an Gleisen, an Land für Gleise, an Loks, an Personal, aber vor allem fehlt es an Know-how. Beispielhaft dafür der Vorstand der Deutschen Bahn. Keiner der Damen und Herren dort hat das Bahnhandwerk von der Pike auf gelernt. Es heißt ja nun oft: Lutz sei ein Bahner, er sei lange bei der Bahn. Das stimmt. Aber er war Finanzkontrolleur. Und er hat all die zerstörerischen Sparprogramme seiner Chefs mitgetragen und exekutiert.

    Aber wird jetzt nicht endlich alles besser? Seit Jahresanfang wirkt unter dem DB-Dach die neue Netzgesellschaft InfraGO, die per Kraftakt und mit viel öffentlichem Geld unter dem Label Gemeinwohlorientierung das marode Schienennetz in Schuss bringen will. Wie weit reicht Ihre Zuversicht, dass das hinhaut?

    Augenwischerei. Es geht weiter wie bisher. „Gemeinwohlorientiert“ besagt gar nichts, der juristisch belastbare Begriff wäre „gemeinnützig“. Ich fürchte, diese InfraGO wird ein Einstieg in die Zerschlagung und Privatisierung der Bahn sein. Vor einiger Zeit, nach dem gescheiterten Börsengang, sagte Bahn-Chef Lutz, der Börsengang sei nur verschoben, nicht aufgehoben. Das lässt nichts Gutes ahnen.

    Nun wurden der Bahn von der Politik ja viele Milliarden Euro versprochen. Nur: Es gibt eine unsägliche Geschichte der Versprechungen in Sachen Bahn. Aber nichts davon wurde je eingelöst, im Gegenteil. Und noch etwas: Im Koalitionsvertrag umfasst das Thema Bahn gerade mal eine Seite – angefüllt mit den üblichen Versprechungen, den lästigen Plattitüden. So richtig wichtig scheint den Regierenden die Bahn, diese angeblich so wichtige Waffe für die ökologische Verkehrswende, nicht zu sein.

    Das neueste Versprechen, auf kurze Sicht 43 Milliarden Euro zu investieren, ist auch schon wieder hin, weil in Teilen vom Haushaltsloch der Ampel geschluckt. Ihr Urteil?

    Selbst wenn es das Geld gäbe, würde es doch nur in wahnwitzigen Betonprojekten wie Stuttgart 21, Untertunnelung von Frankfurt oder ICE-Rennstrecken verbaut. Alles, was über 230 Kilometer schnell fährt, ist unökologisch. Viele der Neubaustrecken führen durch unglaublich lange Tunnel mit einer desaströsen Ökobilanz. Ein gebauter Tunnelkilometer setzt so viel CO2 frei wie 26.000 Pkw mit einer Jahresleistung von 13.000 Kilometern.

    Gibt es überhaupt etwas, was Ihnen in puncto Bahn noch Hoffnung macht?

    Wenig. Besserung wäre nur möglich, würde man die komplette DB-Führung entlassen und durch Bahnfachleute ersetzen, die das Handwerk gelernt haben und es beherrschen. Wird Bahn-Chef Lutz entlassen? Man kann nicht davon ausgehen, dass jene, die das Desaster angerichtet haben, die Retter sein können. Man macht ja einen Brandstifter nicht zum Feuerwehrkommandanten. Nochmals: Von den neun Bahn-Vorständen ist kein Einziger ein gelernter Eisenbahner. Wenn der FC Bayern München einen Mittelstürmer sucht, würde er einen Basketballspieler holen? Ich glaube nicht. Aber so agiert die Politik bei der Bahn – seit viel zu vielen Jahren.

    Zur Person: Der Journalist und Autor Arno Luik, Jahrgang 1955, gilt als einer der profiliertesten Kritiker der Deutschen Bahn (DB) und der bahnpolitisch Verantwortlichen. Sein 2019 erschienenes und 2021 aktualisiertes Buch „Schaden in der Oberleitung. Das geplante Desaster der Deutschen Bahn“ stand wochenlang auf den Bestsellerlisten. Für seine Enthüllungen zum Bahnprojekt Stuttgart 21 hatte er 2010 den „Leuchtturm für besondere publizistische Leistungen“ des Netzwerks Recherche erhalten. Geschätzt ist Luik für seine geistreichen Interviews mit Prominenten aus Politik und Gesellschaft. Eine Sammlung der besten Gespräche mit dem Titel „Als die Mauer fiel, war ich in der Sauna.“ war 2022 im Westend Verlag erschienen.

    #Allemagne #trains #chemins_de_fer #privatisation #infrastructure

  • Assurance-chômage : les scénarios du gouvernement pour un nouveau saccage, Cécile Hautefeuille

    L’exécutif étudie des pistes de réduction des droits au chômage, parmi lesquelles une baisse supplémentaire de 20 % de la durée d’indemnisation et un durcissement des règles concernant les seniors. Mediapart a eu accès aux chiffrages établis par la Dares, l’institut statistique du ministère du travail.

    Plusieurs scénarios pour un très mauvais film. Dans le droit fil des déclarations d’Emmanuel Macron sur un nouveau durcissement des règles d’#assurance-chômage lors de sa conférence de presse du 16 janvier, le ministère du #travail a demandé à la Dares (Direction de l’animation de la recherche, des études et des statistiques), son institut statistique, de plancher sur différentes pistes de réduction des droits et vient d’en recevoir les résultats détaillés.

    Selon ces documents que Mediapart s’est procurés, l’hypothèse d’une nouvelle baisse de la #durée_d’indemnisation a été explorée, un an tout juste après une première diminution de 25 %. La seconde salve ferait mal : 20 % de moins pour toutes et tous. La durée maximale d’indemnisation passerait alors de 18 mois à 14,4 mois pour les moins de 53 ans, de 22,5 mois à 18 mois pour les 53-54 ans et de 27 mois à 21,6 mois pour les 55 ans et plus. Comparée à la durée initiale, avant la réforme de février 2023, la baisse totale serait… de 40 %.

    Et ce n’est pas tout. En pleine négociation sur le #chômage des #seniors avec les partenaires sociaux, le ministère a demandé à la Dares de travailler sur des scénarios visant à réduire, voire à supprimer totalement, les règles plus favorables dont les 53 ans et plus bénéficient en termes de durée et de maintien de droits jusqu’à la #retraite

    Sollicité par Mediapart sur ces chiffrages, le ministère du travail, désormais piloté par Catherine Vautrin, n’a pas souhaité commenter.
    S’ils ne sont, pour l’heure, que des documents de travail, ces chiffrages donnent un sérieux aperçu des hypothèses envisagées par l’exécutif. Emmanuel Macron a exposé sa volonté en conférence de presse, puis à Davos devant les puissants de l’économie mondiale : il veut un « acte II » de la réforme du marché du travail. Il veut des règles plus sévères. Il veut un taux de chômage à 5 %.

    Sitôt exigé, sitôt exploré. Le ministère du travail détient désormais le détail des plans possibles. De belles économies en vue mais un désastre pour les #chômeurs et les #chômeuses. Sans que les effets concrets s’annoncent très positifs en termes de baisse du chômage : la Dares n’anticipe que quelques dizaines de milliers d’emplois gagnés si ces mesures entraient en vigueur.

    Fin de droits et bascules au RSA

    Selon les calculs de la Dares, une nouvelle baisse de durée d’indemnisation « précipitera la fin de droit de 400 000 allocataires supplémentaires sur une année, conduisant ainsi à 100 000 bascules supplémentaires au #RSA ou à l’#ASS [allocation de solidarité spécifique − ndlr] ». La note transmise au ministère le rappelle : la réforme de 2023 réduit déjà « la durée consommée de 1,6 million d’allocataires sur un an qui sont ainsi concernés par une fin de droit plus précoce, parmi lesquels un quart, soit 400 000, basculent au RSA ou à l’ASS sur l’année ».

    Si l’exécutif taille encore dans la durée de versement des allocations, cela devrait dégager 3 milliards d’euros d’économies par an. Les coupes dans le modèle social générées par les #réformes de l’assurance-chômage de 2021 et 2023 sont, elles, déjà chiffrées : près de 7 milliards d’euros à l’horizon 2027, dont 4,5 milliards pour la seule baisse de 25 % de la durée. Une saignée.

    Les « effets emploi » attendus − autrement dit les retours à l’emploi espérés − sont également mesurés : 40 000 selon la Dares.
    Supprimer la filière “seniors” engendrerait chaque mois 6 800 fins de droits supplémentaires (82 000 sur une année).

    Les scénarios concernant les seniors ne sont guère plus réjouissants. Trois pistes sont étudiées par la Dares. La première consiste à décaler de deux ans les « bornes d’âge » qui permettent de percevoir des allocations plus longtemps. Actuellement, ce régime d’exception commence à 53 ans. Il passerait donc à 55 ans, jetant 32 000 personnes supplémentaires par an en fin de droits.

    La deuxième piste prévoit, en plus de ce décalage de deux ans, de supprimer « la tranche intermédiaire » qui concerne actuellement les 53-54 ans. Dans ce cas, seul·es les 57 ans et plus auraient droit à une durée plus longue. Le dernier scénario, brutal, consiste à supprimer purement et simplement « la filière senior ». Selon les règles actuelles, la durée de versement maximum passerait donc à 18 mois, quel que soit l’âge. Et même à 14,4 mois si l’exécutif décide d’appliquer la baisse de 20 % et d’infliger une double peine aux seniors.

    « Supprimer la filière “seniors” engendrerait chaque mois 6 800 fins de droits supplémentaires (82 000 sur une année) pour un montant total d’économies à terme de 880 millions d’euros par an », estime la Dares. Deux mille trois cents personnes basculeraient ensuite, chaque mois, au RSA ou à l’ASS quand d’autres n’auraient… plus rien du tout. Car actuellement, souligne la Dares, chez les 55 ans et plus qui atteignent leur fin de droits, près de la moitié (46 %) ne perçoivent aucune allocation dans les six mois qui suivent. Un tiers perçoivent le RSA et l’ASS quand seul·es 21 % arrivent à recharger des droits.

    Ici, les « effets emploi » attendus seraient de « 22 000 emplois supplémentaires en cas de suppression de la “filière seniors” » contre 2 000 en cas de « simple » rehaussement de deux ans des bornes d’âge. La Dares alerte toutefois dans sa note sur « la littérature économique [qui] met en évidence un effet assez significatif de la réduction de la durée d’indemnisation sur la qualité de l’emploi repris pour les seniors ».

    Supprimer le maintien de droits jusqu’à la retraite ?

    La dernière piste explorée par l’institut statistique à la demande du ministère concerne enfin le maintien de droits jusqu’à la retraite. Ce dispositif « permet actuellement aux allocataires de 62 ans ou plus de bénéficier d’un maintien dans leur indemnisation chômage au-delà de leur fin de droits et jusqu’à l’âge de la retraite à taux plein, sous réserve notamment d’avoir été indemnisés au moins durant un an ».

    Deux scénarios de réforme sont sur la table. Un report de deux ans de l’âge d’entrée dans le dispositif, de 62 à 64 ans. Et sa suppression. Cette dernière « concernerait 20 000 allocataires et réduirait les dépenses d’assurance-chômage de 342 millions d’euros à terme », précise la Dares, qui ajoute que « ces chiffrages ne prennent pas en compte les éventuelles réformes de la filière seniors ». En cas de double, voire de triple peine pour les seniors, les économies seraient donc bien plus larges. Et les droits des seniors, réduits à peau de chagrin.

    Ces chiffrages commandés par l’exécutif ne sont pas une surprise. Le gouvernement martèle, depuis des mois, qu’il souhaite réduire la durée d’indemnisation des 53 ans et plus. Le député Renaissance #Marc_Ferracci, artisan de la première réforme de l’assurance-chômage, en a remis une couche lundi 29 janvier dans Les Échos, plaidant pour une réforme profonde du chômage des seniors et formulant des propositions qui ressemblent à s’y méprendre aux chiffrages réalisés courant janvier par la Dares. Le député y concède que « le sujet le moins consensuel » est celui de la suppression de la « filière senior ».

    Des indices, depuis fin 2022

    L’idée de baisser, encore, la durée d’indemnisation de l’ensemble des demandeuses et demandeurs d’emploi n’est pas nouvelle non plus. La loi « portant mesures d’urgence relatives au fonctionnement du marché du travail en vue du plein emploi » votée fin 2022 a ouvert la voie à la modulation des allocations-chômage, selon la santé économique du pays. C’est pour cette raison que les droits ont baissé en février 2023. La conjoncture étant jugée « favorable », un coefficient (de 0,75, soit 25 % de baisse) a été appliqué sur le calcul de la durée des droits.
    Dès l’adoption de la loi, l’exécutif a pavé le chemin d’indices démontrant sa volonté d’aller plus loin. Un projet de décret avait fait hurler les partenaires sociaux car il prévoyait, sans concertation aucune, de baisser de 40 % la durée d’indemnisation si le taux de chômage passait sous la barre des 6 %. Ce passage avait finalement été retiré, mais Mediapart l’avait pressenti : l’idée n’allait pas finir aux oubliettes. Preuve en est que c’est bien sur un coefficient réduit de 0,75 à 0,6 que la Dares vient de plancher.

    Seule nuance, et de taille, avec le projet de décret : le taux de chômage est loin de 6 %. Il a même sensiblement augmenté de 0,2 point au troisième trimestre à 7,4 %. Les derniers chiffres du chômage, portant sur le nombre d’inscrits à #France_Travail (ex-Pôle emploi) affichent également une hausse de 1 % pour les catégories A,B et C au quatrième trimestre 2023. Signe, selon la CGT dans un récent communiqué, que les réformes successives des droits des chômeurs et des chômeuses ne fonctionnent pas et que le gouvernement, en continuant ses assauts, « veut encore amplifier une politique pourtant en échec ».

    Ce mardi après-midi, Gabriel Attal précisera peut-être, lors de son discours de politique générale au Parlement, les mesures qui seront intégrées à « l’acte II » de la réforme. Tous les chiffres sont désormais sur la table, l’exécutif n’a plus qu’à choisir le scénario. Quel qu’il soit, on connaît déjà l’issue : ça finit mal pour les chômeuses et les chômeurs.

    https://www.mediapart.fr/journal/economie-et-social/300124/les-scenarios-du-gouvernement-pour-un-nouveau-saccage

    #Droit_au_chômage #tirer_sur_l'ambulance

    • Attal annonce la suppression de l’allocation de solidarité spécifique (#ASS) touchée par + de 300 000 chômeurs exclus de l’assurance chômage. C’est une baisse ou une coupure de revenu, car les critères de la familialisation sont plus durs au RSA qu’à l’ASS, et un temps de chômage qui comme le chômage non indemnisé (majorité des chômeurs) ne vaudra plus aucun trimestre pour la retraite.

      N’oublions pas un gros mot en voie d’obsolescence programmée : #solidarité

      edit : la suppression de l’ASS va représenter une grosse économie en matière de revenu des chômeurs. environ 50 balles pour ceux qui rentrent dans les clous du RSA, et un nombre qui devrait être important d’ex AsS dont lea conjoint.e dispose d’un SIMC mensuel qui elleux n’auront rien.

    • Évolution et paupérisation d’une partie des Français
      https://www.senat.fr/rap/r20-830/r20-830.html

      Selon les données fournies par la Dares, la durée moyenne d’un CDD était de 46 jours en 2017 contre 113 jours en 2001. La moitié des CDD duraient moins de 5 jours en 2017 alors que la durée médiane était de 22 jours en 2001. En 2017, près d’un tiers des CDD ne duraient qu’une journée.

      ARE rabotée ad libitum, RSA conditionné, Prime d’activité (où est le mérite, réside le steack, ou le plat de quinoa aux légumes, comme vous voudrez), voilà le triptyque qui s’impose aux chômeurs en activité à temps réduit. Et c’est à cette catégorie là qu’entre 53 et 67 ans et plus (en fonction de la précarité d’emploi antérieure), les chômeurs doivent appartenir.

      edit

      au quatrième trimestre 2023, en France métropolitaine, le nombre de personnes inscrites à France Travail et tenues de rechercher un emploi (catégories A, B, C) s’établit à 5 129 600. Parmi elles, 2 824 400 personnes sont sans emploi (catégorie A) et 2 305 200 exercent une activité réduite (catégories B, C).

      https://statistiques.pole-emploi.org/stmt/publication#:~:text=Chômage%20et%20demandeurs%20d%27emploi.

      #chômeurs_en_activité_à_temps_réduit

    • Comme tant d’autres, nous prendrons leurs emplois à temps partiel payés au SMIC horaire. Ça permet à bien des précaires de survivre et d’esquiver le contrôle, et ça permettra à beaucoup de pensionnés à faible retraite d’échapper au 15h qu’ils n’auront de toutes façons pas les moyens de généraliser.
      Ce qui arrive avec l’inaptitude totale au travail (pathologies ou âge) est une autre question, dont la réponse se lira du côté des évolutions de l’AAH et de l’ASPA.

      #minima_sociaux #travail #précaires #précarisation

    • Fin de l’allocation de solidarité spécifique : vers une « fragilisation » des chômeurs de longue durée
      https://www.lemonde.fr/politique/article/2024/02/01/fin-de-l-allocation-de-solidarite-specifique-vers-une-fragilisation-des-chom


      Gabriel Attal, le jour de sa déclaration de politique générale, à l’Assemblée nationale, le 30 janvier 2024. JULIEN MUGUET POUR « LE MONDE »

      La réforme de l’allocation de solidarité spécifique, source d’économie, serait préjudiciable à de nombreux allocataires. Les associations dénoncent le projet du gouvernement.
      Par Bertrand Bissuel

      Derrière l’opération de vases communicants, il y a un risque de casse sociale. Dans sa déclaration de politique générale prononcée, mardi 30 janvier, à l’Assemblée nationale, le premier ministre, Gabriel Attal, a annoncé la suppression de l’allocation de solidarité spécifique (#ASS) et « sa bascule » vers le revenu de solidarité active (#RSA). Ce scénario, envisagé à plusieurs reprises au cours des trente-cinq dernières années, avait, jusqu’à présent, été écarté car il était susceptible de pénaliser de nombreuses personnes en situation de très grande vulnérabilité. Il devient aujourd’hui réalité, suscitant une vive colère à gauche, parmi les syndicats et les associations de lutte contre l’exclusion.

      Créée en 1984, l’ASS est une prestation accordée, sous certaines conditions, aux demandeurs d’emploi ayant épuisé leurs droits à l’#assurance-chômage. Pour la percevoir, il faut avoir des ressources faibles, qui n’excèdent pas un seuil donné (près de 1 272 euros par mois pour un individu seul, au 1er avril 2023). Le montant mensuel de l’allocation peut aller jusqu’à 552 euros. Dans un cas sur deux, la somme est versée à des personnes qui sont à la recherche d’un poste depuis au moins cinq ans. Ce sont des seniors, le plus souvent, 58 % des bénéficiaires ayant au moins cinquante ans . En août 2023, elle était attribuée à quelque 261 000 femmes et hommes (contre quelque 530 000 en 1996). Chargé de la financer, l’Etat a prévu un budget de 1,65 milliard d’euros pour l’exercice 2024 .
      Mardi, M. Attal a justifié son choix de mettre fin à l’ASS en faisant valoir que cette aide « permet, sans travailler, de valider des trimestres de #retraite ». Or, a ajouté le locataire de Matignon, « la retraite doit être le fruit du #travail » . D’où la décision d’éteindre le dispositif ciblé sur les #chômeurs de très longue durée. « Chercher un modèle social plus efficace et moins coûteux, ce n’est pas un gros mot mais un impératif », a-t-il complété. Son discours obéit donc à des considérations morales et au souci de dégager des économies. Il recèle aussi l’idée sous-jacente que, en basculant vers le RSA, les publics concernés intégreront un système qui vient d’être réformé (instauration de quinze à vingt heures d’activité hebdomadaire pour les #allocataires, accompagnement renforcé dans le but de reprendre pied dans le monde du travail, etc.).

      « Economies » substantielles

      Le problème, c’est que les règles encadrant l’ASS ne sont pas identiques à celles applicables au RSA, les premières s’avérant souvent plus favorables aux individus que les secondes. Ainsi, le plafond de revenus à ne pas dépasser pour pouvoir prétendre à une aide est plus élevé pour l’ASS que pour le RSA, si bien que le nombre potentiel de bénéficiaires est plus important dans le premier cas. De plus, les ressources prises en compte et les modalités de calcul peuvent se révéler plus avantageuses, s’agissant de l’ASS. Autrement dit, la disparition de cette prestation pourrait être préjudiciable à un certain nombre de personnes. Combien ? Sollicité, le ministère du travail, de la santé et des solidarités n’a, à ce stade, pas livré de données.

      Fin 2017, dans une note confidentielle que Le Monde a pu consulter, France Stratégie, un organisme d’expertises rattaché à Matignon, avait présenté des « scénarios d’évolution du régime de solidarité chômage ». L’un d’eux tentait d’apprécier l’impact d’une « suppression sèche de l’ASS » : « 70 % des allocataires actuels seraient perdants (…), avec une [réduction] moyenne de niveau de vie de 8 % », en faisant l’hypothèse que tous les individus ayant droit au RSA et à la #prime_d’activité les réclament – ce qui n’est pas le cas, à l’heure actuelle. « La part des perdants passerait à 75 % (…), avec une baisse moyenne de niveau de vie de 16 % », si l’on retenait un « taux de recours » au RSA et à la prime d’activité équivalent « à celui estimé aujourd’hui ». En outre, l’extinction de l’ASS conduirait à des « économies » substantielles dans nos régimes de pension, puisque cette prestation octroie des trimestres de cotisation au titre de la retraite. Dans un rapport sur les #minima sociaux rendu en avril 2016, Christophe Sirugue, alors député de Saône-et-Loire, était parvenu à des constats similaires. Ses chiffrages et ceux de France Stratégie, réalisés il y a plusieurs années, nécessitent d’être actualisés, mais ils mettent en lumière les effets négatifs qui pourraient se produire, après l’annonce de mardi.

      C’est pourquoi Christophe Robert, délégué général de la Fondation Abbé Pierre, se dit « choqué » face à la déclaration du premier ministre. « Elle fragilise des personnes déjà fragiles », renchérit Marie-Aleth Grard, présidente d’ATD Quart Monde. Pour elle, c’est un « signe grave, qui montre que, lorsque vous êtes #précaire, on vous enfonce encore plus dans la précarité ».

      Le nombre d’allocataires de l’ASS n’a cessé de baisser alors que cette allocation a pu concerner 450 000 allocataires.
      Le journaliste spécialisé réussi à ne pas parler du caractère non individuel des deux prestations.

      ASS : Contre-attaque, Figaro, Michaël Zemmour
      https://seenthis.net/messages/1039298
      https://seenthis.net/messages/1039300
      https://seenthis.net/messages/1039331

    • La réforme de l’assurance-chômage de 2019 a d’abord affecté les jeunes et les précaires
      https://www.lemonde.fr/politique/article/2024/02/27/assurance-chomage-la-reforme-de-2019-a-d-abord-affecte-les-jeunes-et-les-pre

      Alors qu’un nouveau tour de vis pour les chômeurs est sérieusement envisagé par le gouvernement, le comité d’évaluation des mesures prises en 2019 a rendu son rapport intermédiaire, mitigé, mardi 27 février.
      Par Thibaud Métais

      Pendant que le gouvernement prépare l’opinion à une nouvelle réforme de l’assurance-chômage, les effets des précédentes commencent à être mieux connus. La direction de l’animation de la recherche, des études et des statistiques, rattachée au ministère du travail, a publié, mardi 27 février, un rapport intermédiaire réalisé par son comité d’évaluation de la #réforme de l’#assurance-chômage lancée en 2019 et qui avait durci les règles d’indemnisation des demandeurs d’emploi.
      La publication de ces travaux intervient au moment où un nouveau tour de vis pour les chômeurs – ce serait le cinquième depuis 2017 – est dans les cartons de l’exécutif. Dans Le Journal du dimanche du 25 février, le premier ministre, Gabriel Attal, a annoncé que la durée d’indemnisation « peut encore » être réduite et qu’il est également possible d’« accentuer la dégressivité des allocations ». Si les arbitrages ne sont pas arrêtés, le locataire de Matignon a confirmé sa détermination sur RTL, mardi 27 février. « Travailler doit toujours rapporter toujours plus que ne pas travailler , a affirmé le chef du gouvernement, qui souhaite qu’on « rouvre le chantier » de l’assurance-chômage pour avoir « un #modèle_social qui incite davantage à l’activité ».

      https://seenthis.net/messages/1043484

      La volonté du gouvernement de durcir une nouvelle fois les règles d’indemnisation vise à répondre au retournement du marché de l’#emploi observé ces derniers temps. Alors que le président de la République, Emmanuel Macron, avait fait du #plein-emploi – autour de 5 % de chômage – l’objectif majeur de son second quinquennat, la possibilité de tenir cette promesse s’envole.
      Après plusieurs années de baisse continue du chômage, celui-ci est en hausse depuis plusieurs mois, passant de 7,1 % fin 2022 à 7,5 % sur le dernier trimestre de 2023. La dernière réforme de l’assurance-chômage mise en place en février 2023 et qui a réduit de 25 % la durée d’indemnisation avait pourtant comme objectif de rendre les règles plus incitatives lorsque la conjoncture est favorable et plus protectrice lorsque la situation se dégrade.

      Baisse du nombre d’ouvertures de droits
      Les changements se succèdent si rapidement que de nouvelles règles sont mises en place, sans même que les effets des précédentes soient connus. Le rapport publié mardi répond en partie à cette carence. Ces travaux s’intéressent aux conséquences de la réforme de l’assurance-chômage décidée en 2019 et mise en œuvre par étapes jusqu’à fin 2021, notamment en raison de la crise sanitaire. Les différents décrets pris par le gouvernement ont eu pour conséquence de durcir les conditions d’indemnisation.
      Les conditions d’accès au système sont devenues plus exigeantes puisque les demandeurs d’emploi doivent désormais travailler pendant six mois sur vingt-quatre (contre quatre sur vingt-huit auparavant) pour ouvrir des droits. Cette réforme a également modifié le mode de calcul du montant de l’indemnisation (et mis en place la dégressivité de l’allocation à partir du septième mois pour les chômeurs de moins de 57 ans qui avaient un salaire égal ou supérieur à 4 700 euros brut par mois). Enfin, du côté des entreprises, elle instaure le bonus-malus, qui module le taux de cotisations en fonction du nombre de salariés dont elles se sont séparées, pour réduire le recours aux contrats courts.

      Les résultats montrent une baisse significative (17 %) du nombre d’ouvertures de droits entre 2019 et 2022. « La baisse des entrées au chômage peut aussi être due à la dynamique du marché du travail à ce moment-là », nuance toutefois le président du comité d’évaluation, Rafael Lalive, faisant référence aux nombreuses créations d’emplois qui ont suivi la crise sanitaire. La diminution s’avère plus marquée chez les jeunes et les plus précaires : − 24 % pour les moins de 25 ans, – 25 % pour ceux ayant terminé un CDD et – 35 % après un contrat d’intérim.

      Retour à l’emploi peu durable

      L’allongement de la durée de travail nécessaire à l’ouverture de droits de quatre à six mois peut également priver des salariés de l’accès à l’assurance-chômage. « Cette perte de revenu peut les amener à accepter plus systématiquement les offres d’emploi qui leur sont proposées, au détriment de la qualité de l’emploi retrouvé », estiment les auteurs du rapport. L’étude souligne cependant l’effet positif et significatif de la mesure sur la probabilité de retrouver un emploi. Mais pour les plus de 25 ans, l’effet porte uniquement sur un retour à l’emploi peu durable (CDD inférieur à deux mois ou mission d’intérim).

      Le rapport met par ailleurs en lumière les possibles effets opposés sur le retour à l’emploi induits par la modification du calcul de l’allocation. « D’une part, la baisse du montant des allocations pourrait accélérer le retour à l’emploi ; d’autre part, l’allongement de la durée d’indemnisation [induite par la modification du mode de calcul] pourrait retarder ce retour », écrivent les auteurs. Quant aux entreprises, 18 000 d’entre elles ont été concernées par le mécanisme du bonus-malus, ce qui représente 6 % des sociétés des sept secteurs concernés par la mesure. 36 % d’entreprises sont en malus et 64 % en bonus.
      Il faut désormais attendre la fin de l’année pour que le comité d’évaluation rende ses travaux définitifs et pour connaître dans les détails les conséquences de la réforme de 2019 sur les comportements des demandeurs d’emploi. Même si, d’ici là, ils seront probablement soumis à de nouvelles règles d’indemnisation encore plus strictes.

  • Nuove norme sull’immigrazione in Germania
    https://www.meltingpot.org/2024/01/nuove-norme-sullimmigrazione-in-germania

    Lo scorso 19 gennaio il Parlamento tedesco ha approvato una nuova legge in materia di immigrazione con l’obiettivo dichiarato di attrarre più manodopera qualificata nel Paese e, allo stesso tempo, inasprire le norme che regolano l’accoglienza dei richiedenti asilo e facilitarne l’espulsione in caso di rigetto della domanda. Saranno quindi abbassati da otto a cinque gli anni di residenza continuativa necessari a richiedere la cittadinanza tedesca, con possibilità di un’ulteriore riduzione a tre anni in casi particolari, e aumenteranno le possibilità di mantenere la doppia cittadinanza, circostanza fino ad ora poco frequente nell’ordinamento tedesco. Allo stesso tempo, sono state (...)

  • Traversées de la Manche : plus de 1 000 migrants arrivés en 15 jours au Royaume-Uni - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/54840/traversees-de-la-manche--plus-de-1-000-migrants-arrives-en-15-jours-au

    Actualités : Traversées de la Manche : plus de 1 000 migrants arrivés en 15 jours au Royaume-Uni
    Par La rédaction Publié le : 29/01/2024
    Entre le 15 et le 29 janvier, plus de 1 000 exilés ont traversé la Manche depuis la France pour rejoindre les côtes anglaises. Après une période d’accalmie, les départs ont donc repris. Les traversées restent meurtrières : quatre migrants ont trouvé la mort dans la nuit du 13 au 14 janvier. L’eau était à neuf degrés.
    Après 25 jours sans arrivées, Londres a renoué le 13 janvier avec les débarquements de canots de migrants sur ses côtes. En 15 jours, 1 057 exilés ont traversé la Manche. Dans le détail, 358 personnes ont par exemple été recensées pour la journée du 17 janvier, 139 pour le 14 janvier et 276 pour le 28 janvier, selon les chiffres communiqués par le Home Office.
    Les départs ont donc repris malgré le froid et la température de l’eau qui n’excède pas 10 degrés. La police française se déploie sur tout le littoral pour empêcher les canots de se mettre à l’eau. Les autorités ont ainsi empêché mercredi 17 janvier le départ en mer d’une centaine d’exilés, dont des enfants. Ils s’apprêtaient à partir depuis la plage de Sangatte. Cette arrestation est intervenue quatre jours après un naufrage dramatique survenu au large de Wimereux, à quelques kilomètres de Sangatte. Dans la nuit du samedi 13 au dimanche 14 janvier, cinq personnes sont mortes noyées alors qu’elles tentaient de rejoindre une embarcation en partance pour le Royaume-Uni. Deux adolescents syriens de 14 et 16 ans figurent parmi les victimes.
    Depuis des années, la France et le Royaume-Uni multiplient les mesures pour empêcher les traversées de la Manche. En mars 2023, les deux États ont signé un énième accord pour le déploiement de patrouilles supplémentaires côté français notamment. Coût du dispositif pour Londres : près de 500 millions d’euros.
    Le Royaume-Uni s’était même félicité en début d’année d’avoir récolté les fruits de ses lourds investissements dans la militarisation de sa frontière maritime. Le nombre de personnes atteignant le littoral anglais a baissé d’un tiers en 2023. Londres a enregistré 29 437 arrivées de migrants en « small boat » cette année-là, contre 45 000 en 2022.
    Un facteur important permet d’explique cette baisse : l’accord signé entre Londres et l’Albanie en décembre 2022 pour lutter contre l’immigration clandestine. De nombreux Albanais traversent la Manche : en 2022, près d’un tiers des 45 000 arrivées sur le sol anglais concernaient des Albanais partis de France, souvent des hommes majeurs seuls. A l’été 2022, les Albanais ont même représenté jusqu’à 50 % des passagers de « small boats ».

    #Covid-19#migrant#migration#france#grandebretagne#smallboat#militarisatiion#manche#traversee#mortalite#sante

  • Mayotte : des barrages de collectifs citoyens contre l’insécurité et l’immigration
    https://www.lemonde.fr/politique/article/2024/01/29/mayotte-des-barrages-de-collectifs-citoyens-contre-l-insecurite-et-l-immigra

    Mayotte : des barrages de collectifs citoyens contre l’insécurité et l’immigration
    Par Nathalie Guibert et Jérôme Talpin (Saint-Denis (La Réunion), correspondant)
    Le préfet Thierry Suquet a peut-être annoncé un peu prématurément, samedi 27 janvier, le « rétablissement de la liberté d’aller et venir » à Mayotte, après la levée par les forces de l’ordre des barrages qui ont entravé la circulation de l’île durant la semaine. Celle-ci a vu se multiplier des blocages de collectifs de citoyens excédés par l’insécurité et l’immigration, tandis que des bandes de quartiers barraient d’autres axes à l’occasion d’affrontements intervillages, une pratique devenue courante.
    Lundi 29 janvier, de nouveau, des routes ont été barrées dans plusieurs localités. Alors que la crise de l’eau commence tout juste à se résorber grâce à la saison des pluies, le département de l’océan Indien connaît un énième accès de fièvre.Plusieurs collèges sont restés fermés à l’issue du week-end, pour des raisons diverses. Notamment celui de Koungou, attaqué mercredi dernier par des bandes venues y régler leurs différends à coups de machettes et de pierres. Des heurts ont encore eu lieu aux abords de l’établissement ce lundi, et le recteur, qui s’est rendu sur place, a été la cible d’un caillassage sur son trajet, a rapporté la chaîne La 1ère.
    Dans la soirée de dimanche, c’est la brigade de gendarmerie de Sada qui a subi l’assaut d’une cinquantaine de jeunes hommes. « Ils ont jeté des pierres et des cocktails Molotov sur la caserne sans faire de dégâts majeurs. Avec l’arrivée de renforts, le calme est revenu vers 23 heures », a indiqué le commandement de la gendarmerie. Le Groupe d’intervention de la gendarmerie nationale a de son côté été déployé à Mramadoudou. Une sorte de routine, même si la gendarmerie dit devoir désormais gérer des « profils de délinquants » classiques ciblant les forces de l’ordre.
    S’ajoutant à ces affrontements réguliers, de nouvelles tensions ont éclaté quand des collectifs de citoyens, minoritaires mais très visibles sur l’île, s’en sont pris au campement de migrants installé autour du stade de Cavani à Mamoudzou. Quelque 500 Africains venus de République démocratique du Congo, du Burundi, du Rwanda et de Somalie, s’y sont installés dans des abris précaires depuis le mois de mai, une partie d’entre eux ont un statut de demandeurs d’asile. Leur nombre croissant aurait agi auprès d’eux comme un élément déclencheur.
    « Les autorités nous expliquent qu’ils sont protégés par le droit d’asile mais nous ne pouvons le comprendre dans nos conditions de vie actuelles », alerte Haoussi Boinahedja, syndicaliste présent sur un barrage constitué de branchages et de carcasses de voitures, sur la RN3, à Chirongui. « L’immigration illégale déstabilise et étouffe ce petit territoire qui est le plus pauvre de France. J’entends la colère des gens. Je crains le pire. » Selon lui, l’Etat doit mettre fin au « titre de séjour territorialisé » qui contraint les immigrés détenteurs à rester à Mayotte.
    Avec les « mamans » de son Collectif des citoyens de Mayotte 2018, Safina Soula organise, elle, un sit-in depuis le 6 décembre devant le service des étrangers de la préfecture, entravant le traitement des dossiers. « Ce camp, c’est la goutte d’eau qui a fait déborder le vase, proteste-t-elle. Il y a l’immigration clandestine venue des Comores voisines et maintenant c’est l’Afrique qui voit Mayotte comme un sas d’entrée en France et en Europe. » Quant à la lutte contre l’insécurité : « Nous avons demandé l’état d’urgence. Rien. Mayotte va exploser. » L’opération Wuambushu, déployée par le ministère de l’intérieur d’avril à août 2023 sur les deux fronts de l’immigration illégale et de l’insécurité, n’aura apporté qu’un court répit.
    Les barrages sont tenus par des pères et des mères de famille, assure Safina Soula. « Ce ne sont pas des fous mais des agents hospitaliers, des pompiers, des chauffeurs de transports scolaires qui n’en peuvent plus de se faire caillasser tous les jours, juge-t-elle. Le confinement à Mayotte ne s’est pas arrêté en 2020. La population est cloîtrée en fonction de l’humeur des délinquants. Le soir, tout le monde essaie de rentrer avant 18 heures pour être en sécurité et a peur pour ses enfants ».
    La préfecture a commencé à démanteler le camp du stade de Cavani le 25 janvier. Le vendredi 26, les « mamans » du collectif ont été délogées de l’entrée principale de la préfecture. Mais elles y sont revenues lundi matin, tandis que les barrages des collectifs réapparaissaient. « Il existe un deux poids deux mesures par rapport à l’attitude du gouvernement avec les agriculteurs, souligne Mme Soula. Nous vivons un manque de considération. »La situation met en danger toute la population, s’est alarmé le directeur de l’hôpital, Jean-Mathieu Defour, sur La 1ère. « La mobilité des soignants est gravement entravée. Cette situation exceptionnelle conduit le centre hospitalier de Mayotte à fonctionner avec moins de 50 % de son personnel. »
    « Anarchie à Mayotte », a dénoncé pour sa part dans un tweet la députée (Libertés, indépendants, outre-mer et territoires) Estelle Youssouffa. La parlementaire accuse le préfet Thierry Suquet de se montrer plus ferme vis-à-vis des Mahorais des collectifs qu’envers les fauteurs de troubles des quartiers. Le haut fonctionnaire, sur le départ, a défendu le bilan de l’Etat dans un long courrier adressé à l’association des maires de Mayotte le 26 janvier.
    « Depuis maintenant deux ans, le gouvernement a fortement augmenté les moyens humains et matériels dédiés à la sécurité et à la lutte contre l’immigration clandestine », assure le préfet. Et de citer les escadrons de gendarmerie, pérennisé (pour un d’entre eux) ou envoyés en renfort (deux), le détachement de dix agents du Raid, l’arrivée de drones, la création d’une brigade de gendarmerie effective début 2024, ou « l’affectation de 200 à 300 policiers et gendarmes dédiés à la sécurisation du transport scolaire chaque jour ». Depuis novembre, indique-t-il encore, « plus de 50 délinquants impliqués dans des troubles à l’ordre public et des faits de violence ont été interpellés et les deux tiers condamnés à des peines de prison ». Et les communes ont reçu 1,8 million d’euros de dotations en équipements de sécurité. Le préfet vante un « résultat historique », quant aux interceptions de migrants illégaux venus des Comores par la mer : « En 2023 ce sont plus de 660 kwassas [barques] transportant près de 8660 personnes qui ont été interceptés », soit plus des trois quarts d’entre eux, affirme-t-il. Mais quelque 23 000 étrangers arrivent et repartent de Mayotte chaque année, des chiffres stables en dépit des promesses de durcissement du ministère de l’intérieur.

    #Covid-19#migrant#migration#frannce#mayotte#crise#kwassas#traversee#comores#migrationirreguliere#campement#securite#sante

  • Vivre et lutter dans un monde toxique. #Violence_environnementale et #santé à l’âge du #pétrole

    Pour en finir avec les success stories pétrolières, voici une histoire des territoires sacrifiés à la transformation des #hydrocarbures. Elle éclaire, à partir de sources nouvelles, les #dégâts et les #luttes pour la santé au XXe siècle, du #Japon au #Canada, parmi les travailleurs et travailleuses des enclaves industrielles italiennes (#Tarento, #Sardaigne, #Sicile), auprès des pêcheurs et des paysans des « #Trente_Ravageuses » (la zone de #Fos / l’étang de# Berre, le bassin gazier de #Lacq), ou encore au sein des Premières Nations américaines et des minorités frappées par les #inégalités_environnementales en #Louisiane.
    Ces différents espaces nous racontent une histoire commune : celle de populations délégitimées, dont les plaintes sont systématiquement disqualifiées, car perçues comme non scientifiques. Cependant, elles sont parvenues à mobiliser et à produire des savoirs pour contester les stratégies entrepreneuriales menaçant leurs #lieux_de_vie. Ce livre expose ainsi la #tension_sociale qui règne entre défense des #milieux_de_vie et #profits économiques, entre santé et #emploi, entre logiques de subsistance et logiques de #pétrolisation.
    Un ouvrage d’une saisissante actualité à l’heure de la désindustrialisation des #territoires_pétroliers, des #conflits sur la #décarbonation des sociétés contemporaines, et alors que le désastre de #Lubrizol a réactivé les interrogations sur les effets sanitaires des dérivés pétroliers.

    https://www.seuil.com/ouvrage/vivre-et-lutter-dans-un-monde-toxique-collectif/9782021516081

    #peuples_autochtones #pollution #toxicité #livre

    • Ces territoires sacrifiés au pétrole

      La société du pétrole sur laquelle s’est bâtie notre prospérité ne s’est pas faite sans sacrifices. Gwenola Le Naour et Renaud Bécot, co-directeurs d’un ouvrage sur ce sujet, lèvent le voile sur les dégâts causés par cette « pétrolisation » du monde, en France et à l’étranger.

      Si le pétrole et ses produits ont permis l’émergence de notre mode de vie actuel, l’activité des raffineries et autres usines de la pétrochimie a abîmé les écosystèmes et les paysages et a des effets de long terme sur la santé humaine. Dans le livre qu’ils ont coordonné, Vivre et lutter dans un monde toxique (Seuil, septembre 2023), Gwénola Le Naour et Renaud Bécot lèvent le voile sur les dégâts causés par cette « pétrolisation » du monde, selon leurs propres mots. Ils ont réuni plusieurs études de cas dans des territoires en France et à l’étranger pour le démontrer. Un constat d’autant plus actuel que la société des hydrocarbures est loin d’être révolue : la consommation de pétrole a atteint un record absolu en 2023, avec plus de 100 millions de barils par jour en moyenne.

      À la base de votre ouvrage, il y a ce que vous appelez « la pétrolisation du monde ». Que recouvre ce terme ?
      Gwenola Le Naour1. Dans les années 1960, s’est développée l’idée que le pétrole était une énergie formidable, rendant possible la fabrication de produits tels que le plastique, les textiles synthétiques, les peintures, les cosmétiques, les pesticides, qui ont révolutionné nos modes de vie et décuplé les rendements agricoles. La pétrolisation désigne cette mutation de nos systèmes énergétiques pendant laquelle les hydrocarbures se sont imposés partout sur la planète et ont littéralement métamorphosé nos territoires physiques et mentaux.

      L’arrivée du pétrole et de ses dérivés nous est le plus souvent présentée comme une épopée, une success story. On a mis de côté la face sombre de cette pétrolisation, avec ses territoires sacrifiés comme Fos-sur-Mer, qui abrite depuis 1965 une immense raffinerie représentant aujourd’hui 10 % de la capacité de raffinage de l’Hexagone, ou Tarente, dans le sud de l’Italie, où se côtoient une raffinerie, une usine pétrochimique, un port commercial, une décharge industrielle et la plus grande aciérie d’Europe.

      Comment des territoires entiers ont-ils pu être ainsi abandonnés au pétrole ?
      Renaud Bécot2. L’industrie du pétrole et des hydrocarbures n’est pas une industrie comme les autres. Les sociétés pétrolières ont été largement accompagnées par les États. Comme pour le nucléaire, l’histoire de l’industrie pétrolière est étroitement liée à l’histoire des stratégies énergétiques des États et à la manière dont ils se représentent leur indépendance énergétique. L’État a soutenu activement ces installations destinées à produire de la croissance et des richesses. Pour autant, ces industries ne se sont pas implantées sans résistance, malgré les discours de « progrès » qui les accompagnaient.

      Des luttes ont donc eu lieu dès l’installation de ces complexes ?
      G. L. N. Dès le début, les populations locales, mais aussi certains élus, ont compris l’impact que ces complexes gigantesques allaient avoir sur leur environnement. Ces mobilisations ont échoué à Fos-sur-Mer ou au sud de Lyon, où l’installation de la raffinerie de Feyzin et de tout le complexe pétrochimique (le fameux « couloir de la chimie ») a fait disparaître les bras morts du Rhône et des terres agricoles... Quelques-unes ont cependant abouti : un autre projet de raffinerie, envisagé un temps dans le Beaujolais, a dû être abandonné. Il est en revanche plus difficile de lutter une fois que ces complexes sont installés, car l’implantation de ce type d’infrastructures est presque irréversible : le coût d’une dépollution en cas de fermeture est gigantesque et sans garantie de résultat

      Les habitants qui vivent à côté de ces installations finissent ainsi par s’en accommoder… En partie parce qu’ils n’ont pas d’autre choix, et aussi parce que les industriels se sont efforcés dès les années 1960-1970 et jusqu’à aujourd’hui de se conduire en « bons voisins ». Ils négocient leur présence en finançant par exemple des infrastructures culturelles et/ou sportives. Sans oublier l’éternel dilemme entre les emplois apportés par ces industries et les nuisances qu’elles génèrent. Dans le livre, nous avons qualifié ces arrangements à l’échelle des districts pétrochimiques de « compromis fordistes territorialisés ».

      Que recouvre ce terme de compromis ?
      R. B. En échange de l’accaparement de terres par l’industrie et du cortège de nuisances qui l’accompagne, les collectivités locales obtiennent des contreparties qui correspondent à une redistribution partielle des bénéfices de l’industrie. Cette redistribution peut être régulière (via la taxe professionnelle versée aux communes jusqu’en 2010, notamment), ou exceptionnelle, après un accident par exemple. Ainsi, en 1989, après une pollution spectaculaire qui marque les habitants vivant près de Lubrizol en Normandie, l’entreprise a versé 100 000 francs à la municipalité du Petit-Quevilly pour qu’elle plante quatre-vingts arbres dans la ville...

      Mais ce type de compromis a également été très favorable aux industries en leur offrant par exemple des allégements fiscaux de long terme, comme en Sicile près de Syracuse où se situe l’un des plus grands sites chimiques et pétrochimiques qui emploie plus de 7 000 personnes, voire une totale exonération fiscale comme en Louisiane, sur les rives du Mississippi. Des années 1950 aux années 1980, pas moins de 5 000 entreprises sur le sol américain – majoritairement pétrochimiques, pétrolières, métallurgiques ainsi que des sociétés gazières – ont demandé à bénéficier de ces exonérations, parmi lesquelles les sociétés les plus rentables du pays telles que DuPont, Shell Oil ou Exxon...

      Ces pratiques, qui se sont développées surtout lors des phases d’expansion de la pétrochimie, rendent plus difficile le retrait de ces industries polluantes. Les territoires continuent de penser qu’ils en tirent un bénéfice, même si cela est de moins en moins vrai.

      On entend souvent dire, concernant l’industrie pétrolière comme le nucléaire d’ailleurs, que les accidents sont rares et qu’on ne peut les utiliser pour remettre en cause toute une industrie… Est-ce vraiment le cas ?
      G. L. N. On se souvient des accidents de type explosions comme celle de la raffinerie de Feyzin, qui fit 18 morts en 1966, ou celle d’un stock de nitrates d’ammonium de l’usine d’engrais AZF à Toulouse en 2001, qui provoqua la mort de 31 personnes – car ils sont rares. Mais si l’on globalise sur toute la chaîne des hydrocarbures, les incidents et les accidents – y compris graves ou mortels pour les salariés – sont en réalité fréquents, même si on en entend rarement parler au-delà de la presse locale (fuites, explosions, incendies…). Sans oublier le cortège des nuisances liées au fonctionnement quotidien de ces industries, telles que la pollution de l’air ou de l’eau, et leurs conséquences sur la santé.

      Pour qualifier les méfaits des industries pétrochimiques, sur la santé notamment, vous parlez de « violence lente ». Pouvez-vous expliquer le choix de cette expression ?
      G. L. N. Cette expression, créée par l’auteur nord-américain Rob Nixon, caractérise une violence graduelle, disséminée dans le temps, caractéristique de l’économie fossile. Cette violence est également inégalitaire car elle touche prioritairement des populations déjà vulnérables : je pense notamment aux populations noires américaines de Louisiane dont les générations précédentes étaient esclaves dans les plantations…

      Au-delà de cet exemple particulièrement frappant, il est fréquent que ces industries s’installent près de zones populaires ou touchées par la précarité. On a tendance à dire que nous respirons tous le même air pollué, or ce n’est pas vrai. Certains respirent un air plus pollué que d’autres. Et ceux qui habitent sur les territoires dévolus aux hydrocarbures ont une qualité de vie bien inférieure à ceux qui sont épargnés par la présence de ces industries.

      Depuis quand la nocivité de ces industries est-elle documentée ?
      G. L. N. Longtemps, les seules mesures de toxicité dont on a disposé étaient produites par les industriels eux-mêmes, sur la base des seuils fixés par la réglementation. Pourtant, de l’aveu même de ceux qui la pratiquent, la toxicologie est une science très imparfaite : les effets cocktails ne sont pas recherchés par la toxicologie réglementaire, pas plus que ceux des expositions répétées à faibles doses sur le temps long. De plus, fixer des seuils est à double tranchant : on peut invoquer les analyses toxicologiques pour protéger les populations, l’environnement, ou les utiliser pour continuer à produire et à exposer les gens, les animaux, la nature à ces matières dangereuses. Ainsi, ces seuils peuvent être alternativement présentés comme des seuils de toxicité, ou comme des seuils de tolérance… Ce faisant, la toxicologie produit de l’imperceptibilité.

      R. B. Des études alternatives ont cependant commencé à émerger, avec des méthodologies originales. Au Canada, sur les territoires des Premières Nations en Ontario, au Saskatchewan précisément, une étude participative a été menée au cours de la décennie 2010 grâce à un partenariat inédit entre un collectif de journalistes d’investigation et un groupe de chercheurs. En distribuant très largement des kits de mesure, peu coûteux et faciles d’utilisation, elle a permis de démontrer que les populations étaient exposées aux sulfures d’hydrogène, un gaz toxique qui pénètre par les voies respiratoires. Grâce à cette démarche participative, des changements de règlementation et une meilleure surveillance des pollutions ont été obtenus. Il s’agit d’une réelle victoire qui change la vie des gens, même si l’industrie n’a pas été déplacée.

      Qu’en est-il des effets sur la santé de tous ces polluants ? Sont-ils documentés ?
      G. L. N. En France, les seuls travaux menés à ce jour l’ont été autour du gisement de gaz naturel de Lacq, exploité de 1957 à 2013 dans les Pyrénées. Une première étude, conduite en 2002 par l’université, concluait à un surrisque de cancer. Deux autres études ont été lancées plus récemment : une étude de mortalité dévoilée en 2021, qui montre une plus forte prévalence des décès par cancer, et une étude de morbidité toujours en cours. À Fos-sur-Mer, l’étude « Fos Epseal », conduite entre 2015 et 20223, s’est basée sur les problèmes de santé déclarés par les habitants. Ses résultats révèlent que près des deux-tiers des habitants souffrent d’au moins une maladie chronique – asthme, diabète –, ainsi que d’un syndrome nez-gorge irrités toute l’année qui n’avait jamais été identifié jusque-là.

      R. B. Ce que soulignent les collectifs qui évoquent des problèmes de santé liés à l’industrie pétrochimique – maladies chroniques de la sphère ORL, diabètes, cancers, notamment pédiatriques, etc. –, c’est la difficulté de prouver un lien de corrélation entre ces maladies et telle ou telle exposition toxique.

      L’épidémiologie conventionnelle ne le permet pas, en tout cas, car elle travaille à des échelles larges, sur de grands nombres, et est mal adaptée à un déploiement sur de plus petits territoires. C’est pourquoi les collectifs militants et les scientifiques qui travaillent avec eux doivent faire preuve d’inventivité, en faisant parfois appel aux sciences humaines et sociales, avec des sociologues qui vont recueillir des témoignages et trajectoires d’exposition, des historiens qui vont documenter l’histoire des lieux de production…

      Cela suppose aussi la mise au point de technologies, d’outils qui permettent de mesurer comment et quand les gens sont exposés. Cela nécessite enfin une coopération de longue haleine entre chercheurs de plusieurs disciplines, militants et populations. Car l’objectif est d’établir de nouveaux protocoles pour mieux documenter les atteintes à la santé et à l’environnement avec la participation active de celles et ceux qui vivent ces expositions dans leurs chairs.

      https://lejournal.cnrs.fr/articles/ces-territoires-sacrifies-au-petrole

  • Deutsche Bahn sucht Admin für Windows 3.11 for Workgroups
    https://www.heise.de/news/Deutsche-Bahn-sucht-Admin-fuer-Windows-3-11-for-Workgroups-9611543.html

    Depuis les années 1990 il faut renouveler tous les deux ans ses compétences en matière de systèmes informatiques si on veut trouver des jobs. Les services de la Deutsche Bahn sont moins exigeants. On y trouve toujours des postes avec ses connaissances d’il y a 30 ans.

    29.1.2024 von Dirk Knop - Eine Stellenanzeige der Deutschen Bahn wirkt auf den ersten Blick wie ein irrlaufender Wiedergänger aus der Vergangenheit. Darin suchte das Unternehmen nach Administratoren für Windows 3.11. Das Betriebssystem Windows 3.11 wird in wenigen Tagen 30 Jahre alt, es erschien im Februar 1994. Windows for Workgroups 3.11 erschien ein Quartal früher und tauchte in der Stellenanzeige ebenfalls auf. „Tauchte“, weil etwa gegen 11:30 Uhr am heutigen Montag die Stellenanzeige aus nicht näher erläuterten Gründen vom Netz genommen wurde, auch in anderen Job-Portalen, wo sie geschaltet war. Eine Anfrage von heise online zu den Details der Stellenanzeige bei Gulp blieb bisher unbeantwortet.


    Stellenanzeige für Windows-3.11-Admin

    Die Bahn sucht nach Administratoren für Windows 3.11. (Bild: Screenshot / dmk / gulp.de)

    Windows 3.11 for Workgroups ergibt deshalb Sinn, da die Stelle als „Remote“ ausgeschrieben war. Daher sollte ein TCP-IP-Stack für Fernwartung vorhanden sein. Das Aufgabenspektrum, das die Bahn sich vorstellte, umfasste die Aktualisierung von Treibern sowie die Pflege des Altsystems. Bewerber sollen Kenntnisse in Windows 3.11 haben, präziser in den „Legacy-Betriebssystemen und Windows-Managern (insbesondere MS DOS und Windows for Workgroups)“.
    Bahn: unglückliche Stellenbeschreibung

    Die Stellenbeschreibung war etwas unglücklich formuliert. Möglicherweise kam eine KI zur Ausformulierung zum Einsatz, was ebenfalls auf die Aktualität der Meldung deutet. Das könnte auch der Grund für den Rückzug der Ausschreibung sein.

    „Das Ergebnis Ihrer Arbeit ist eine hochwertige Display-Software, deren Schnittstellen zur Fahrzeugsteuerung bzw. Fahrzeugleittechnik reibungslos funktionieren“, forderte die Bahn. Das Anzeigesystem in den Führerständen von Hochgeschwindigkeits- und Regionalzügen zeige dem Fahrer die wichtigsten technischen Daten in Echtzeit an, erklärte das Unternehmen weiter. Das gewünschte Ergebnis lässt sich bei genauer Betrachtung eigentlich nur sicherstellen, wenn man gegebenenfalls selbst Hand an den Programmcode anlegt.

    Allerdings sagte die Aufgabenbeschreibung lediglich, dass die Administratoren „Treiber aktualisieren“ sollen. Auch das könnte schwer sein: Anbieter „normaler“ Produkte bieten keine Treiber für ein derart altes System mehr an. Selbst programmieren wäre auch da eine Lösung. Womöglich hat die Bahn aber entsprechende Wartungsverträge mit Hardware-Anbietern von damals, die die Software-Pflege auf viele Jahrzehnte sichern. Explizit erläuterte die Stellenanzeige das jedoch nicht. Es war auch nicht ersichtlich, welche Pflege die Altsysteme benötigen würden. Beim Auswerten von Daten könnten temporäre Dateien anfallen, sodass Systemreinigungen und Defragmentierungen alter Festplatten noch sinnvoll sein könnten. Auch hier blieb die Stellenbeschreibung oberflächlich.

    Gerne sollten Bewerber jedoch bereits Kenntnisse von Systemen der Deutschen Bahn wie Sibas (Siemens Bahn Automatisierungs System) haben, auch seien „Kenntnisse mit bildgebenden Systemen oder im Bahnbereich von Vorteil“.

    Systeme sind bei der Bahn oft viele Jahrzehnte im Einsatz, was mit modernen und gewohnten Produkt-Lebenszyklen nicht viel gemein hat. Neue Entwicklungen für die Bahn haben auch langen Vorlauf. Erst 2015 wurde die ICE-Flotte etwa mit einer Sitzplatzreservierung ausgestattet, die per DFÜ die Informationen ausliefert. Bis dahin war es üblich, die Daten auf Disketten zu liefern.

    Wer Windows 3.11 for Workgroups noch einmal anfassen möchte, muss dafür keine alte Hardware entstauben oder erst Installationsmedien suchen. Das Internet Archiv stellt eine im Browser lauffähige Version für die Zeitreise zurück nach 1993 bereit.

    #Allemagne #chemins_de_fer #Deutsche_Bahn #Microsoft #Windows #travail #wtf

  • Maternités pirates
    https://infokiosques.net/spip.php?article2060

    « Ce fanzine à pour intention de partager la croyance qu’on n’a pas besoin d’être un couple hétéro pour tomber enceinte. J’y présente les différentes options artisanales pour tomber enceinte.Par artisanale, j’entends sans avoir recours au parcours PMA #Médicalisé et légal. Il n’a pas pour but de débattre des raisons pour lesquelles certaines personnes, seules ou à plusieurs, se lancent dans ce processus.Il est évolutif et pourra être rectifié et enrichi par vos réflexions et témoignages que je vous invite à envoyer à maternitespirates@tutanota.com. » M

    / #Corps,_santé,_antivalidisme, #Guides_pratiques, #Sexualités,_relations_affectives, Transpédégouines, (...)

    #Transpédégouines,_queer
    https://infokiosques.net/IMG/pdf/maternites_pirates-24p-page-par-page.pdf
    https://infokiosques.net/IMG/pdf/maternites_pirates-24p-cahier.pdf

  • Face à la crise du logement, le Canada restreint son accès aux nouveaux immigrants
    https://www.lemonde.fr/international/article/2024/01/29/face-a-la-crise-du-logement-le-canada-restreint-son-acces-aux-nouveaux-immig

    Cette année, le nombre d’étudiants étrangers qui recevront un permis d’études sera de 35 % inférieur à celui de 2023.

    Pour la première fois depuis l’arrivée de Justin Trudeau au pouvoir, en 2015, le gouvernement libéral du Canada vient d’opérer, sinon une volte-face, au moins l’amorce d’un virage quant à sa politique d’immigration. Le 22 janvier, le ministre chargé du dossier, Marc Miller, a annoncé l’instauration d’un « plafond temporaire » de deux ans pour les nouveaux permis d’études accordés aux #étudiants_étrangers : environ 360 000 seront octroyés en 2024, soit une baisse de 35 % par rapport à 2023. Le ministère a déclaré que cette mesure visait « à relâcher la pression sur le logement ».
    Selon Statistique Canada, plus de un million d’étudiants étrangers seraient d’ores et déjà sur le sol canadien. (...)

    Le discours de Justin Trudeau sur l’immigration vitale pour le Canada, et les cibles défendues par son gouvernement – avec 1,5 million de nouveaux arrivants prévus entre 2023 et 2025 et un record établi l’an dernier de 840 000 immigrants accueillis (résidents temporaires compris) – n’avaient jusque-là, jamais soulevé de grand débat national. Les acteurs économiques y voyaient une réponse à la pénurie chronique de #main-d’œuvre dans un pays à la démographie vieillissante ; les partis politiques, conservateurs compris, restaient favorables à la tradition d’accueil d’un pays construit sur les vagues successives d’arrivées de #travailleurs_étrangers, et faisaient preuve de prudence face au poids électoral dans leurs circonscriptions de certaines communautés établies depuis longtemps.
    Mais la poussée inflationniste des deux dernières années, alliée à un manque criant de mises en chantier de nouvelles habitations, a changé la donne : alors qu’une agence fédérale du logement a récemment estimé que, d’ici à la fin de la décennie, le Canada manquerait de 3,5 millions de logements, institutions financières, opposition politique et enfin opinion publique multiplient les mises en garde. Toutes se disent convaincues que le modèle migratoire du gouvernement fédéral est « insoutenable » et contribue dans une forte proportion à la crise vécue par des milliers de familles canadiennes.

    https://justpaste.it/8ub5n

    Avant que le réarmement démographique produise ses effets, on peut se prévaloir de la « crise du logement » (...) pour freiner les grands déplacements qui menacent l’hexagone.

    #Canada #démographie #immigration #logement