• Il Consiglio d’Europa chiede all’Italia di garantire più protezione alle vittime di tratta

    Nel rapporto del Gruppo di esperti sulla lotta alla tratta di esseri umani (Greta) si chiede alle autorità di aumentare le indagini e le condanne, assicurare strumenti efficaci di risarcimento per le vittime e concentrarsi maggiormente sullo sfruttamento lavorativo. Oltre allo stop del memorandum Italia-Libia. Su cui il governo tira dritto.

    Più attenzione alla tratta per sfruttamento lavorativo, maggiori risarcimenti e indennizzi per le vittime e la necessità di aumentare il numero di trafficanti di esseri umani assicurati alla giustizia. Ma anche lo stop del memorandum Italia-Libia e la fine della criminalizzazione dei cosiddetti “scafisti”.

    Sono queste le principali criticità su cui il Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sulla lotta alla tratta di esseri umani (Greta) a fine febbraio ha chiesto al governo italiano di intervenire per assicurare l’applicazione delle normative europee e una tutela efficace per le vittime di tratta degli esseri umani. “Ogni anno in Italia ne vengono individuate tra le 2.100 e le 3.800 -si legge nel report finale pubblicato il 23 febbraio-. Queste cifre non riflettono la reale portata del fenomeno a causa dei persistenti limiti nelle procedure per identificare le vittime, nonché di un basso tasso di autodenuncia da parte delle stesse che temono di essere punite o deportate verso i Paesi di origine”. Una scarsa individuazione dei casi di tratta che riguarderebbe soprattutto alcuni settori “ad alto rischio” come “l’agricoltura, il tessile, i servizi domestici, l’edilizia, il settore alberghiero e la ristorazione”.

    L’oggetto del terzo monitoraggio di attuazione obblighi degli Stati stabiliti dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani era proprio l’accesso alla giustizia per le vittime. Dal 13 al 17 febbraio 2023, il gruppo di esperti si è recato in Italia incontrando decine di rappresentanti istituzionali e di organizzazioni della società civile. La prima bozza del report adottata nel giugno 2023 è stata poi condivisa con il governo italiano che a ottobre ha inviato le sue risposte prima della pubblicazione finale del rapporto. Quello in cui il Greta, pur sottolineando “alcuni sviluppi positivi” dall’ultima valutazione svolta in Italia nel 2019, esprime “preoccupazione su diverse questioni”.

    Il risarcimento per le vittime della tratta è una di queste. Spesso “reso impossibile dalla mancanza di beni o proprietà degli autori del reato in Italia” ma anche perché “i meccanismi di cooperazione internazionale sono raramente utilizzati per identificare e sequestrare i beni degli stessi all’estero”. Non solo. Il sistema di indennizzo per le vittime -nel caso in cui, appunto, chi ha commesso il reato non abbia disponibilità economica- non funziona. “Serve renderlo effettivamente accessibile e aumentare il suo importo massimo di 1.500 euro”. Come ricostruito anche da Altreconomia, da quando è stato istituito questo strumento solo in un caso la vittima ha avuto accesso al fondo.

    Il Greta rileva poi una “diminuzione del numero di indagini, azioni penali e di condanne” osservando in generale una applicazione ristretta di tratta di esseri umani collegandola “all’esistenza di un elemento transnazionale, al coinvolgimento di un’organizzazione criminale e all’assenza del consenso della vittima”. Tutti elementi non previsti dalla normativa europea e italiana. Così come “desta preoccupazione l’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari, in particolare della fase investigativa”.

    Il gruppo di esperti sottolinea poi la persistenza di segnalazioni di presunte vittime di tratta “perseguite e condannate per attività illecite commesse durante la tratta, come il traffico di droga, il possesso di un documento d’identità falso o l’ingresso irregolare”. Un problema che spesso porta la persona in carcere e non nei progetti di accoglienza specializzati. Che in Italia aumentano. Il Greta accoglie infatti con favore “l’aumento dei fondi messi a disposizione per l’assistenza alle vittime e la disponibilità di un maggior numero di posti per le vittime di tratta, anche per uomini e transgender” sottolineando però la necessità di prevedere un “finanziamento più sostenibile”. In questo momento i bandi per i progetti pubblicati dal Dipartimento per le pari opportunità, hanno una durata tra i 17 e i 18 mesi.

    C’è poi la difficoltà nell’accesso all’assistenza legale gratuita che dovrebbe essere garantita alle vittime che invece, spesso, si trovano obbligate a dimostrare di non avere beni di proprietà non solo in Italia ma anche nei loro Paesi d’origine per poter accedere alle forme di consulenza legale gratuita. Problematico è anche l’accesso all’assistenza sanitaria. “I professionisti del Sistema sanitario nazionale -scrive il Greta- non sono formati per assistere le vittime di tratta con gravi traumi e mancano mediatori culturali formati per partecipare alla fornitura di assistenza psicologica”.

    Come detto, il focus degli esperti riguarda la tratta per sfruttamento lavorativo. Su cui l’Italia ha adottato diverse misure di protezione per le vittime ma che però restano insufficienti. “Lo sfruttamento del lavoro continua a essere profondamente radicato in alcuni settori che dipendono fortemente dalla manodopera migrante” ed è necessario “garantire risorse che risorse sufficienti siano messe a disposizione degli ispettori del lavoro, rafforzando il monitoraggio dei settori a rischio e garantendo che le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori migranti soddisfare i requisiti previsti dalla normativa al fine di prevenire abusi”.

    Infine il Greta bacchetta il governo italiano su diversi aspetti relativi alla nuova normativa sui richiedenti asilo. “Temiamo che le misure restrittive adottate dall’Italia favoriscano un clima di criminalizzazione dei migranti, con il risultato che molte potenziali vittime della tratta non denunciano i loro casi per paura di detenzione e deportazione”, scrivono gli esperti. Sottolineando la preoccupazione rispetto al “rischio di aumento del numero di richiedenti asilo nei centri di detenzione amministrativa” previsto dagli ultimi provvedimenti normativi che aumenterebbe la possibilità anche per le vittime di tratta non ancora identificate di essere recluse. Un rischio riscontrato anche per il Protocollo sottoscritto con l’Albania per gli impatti che avrà “sull’individuazione e la protezione delle persone vulnerabili salvate in mare”.

    Sul punto, nelle risposte inviate al Greta l’8 febbraio 2024, il governo italiano sottolinea che il protocollo siglato con la controparte albanese “non si applicherà alle persone vulnerabili, incluse le vittime di tratta”. Resta il punto della difficoltà di identificazione fatta subito dopo il soccorso, spesso in condizioni precarie dopo una lunga e faticosa traversata.

    Ma nelle dieci pagine di osservazioni inviate da parte dell’Italia, salta all’occhio la puntualizzazione rispetto alla richiesta del Greta di sospendere il memorandum d’intesa tra Italia e Libia che fa sì che “un numero crescente di migranti salvati o intercettati nel Mediterraneo vengano rimpatriati in Libia dove rischiano -scrivono gli esperti- di subire gravi violazioni dei diritti umani, tra cui la schiavitù, il lavoro forzato e lo sfruttamento sessuale”. Nella risposta, infatti, il governo sottolinea che ha scelto di cooperare con le autorità libiche “con l’obiettivo di ridurre i morti in mare, nel pieno rispetto dei diritti umani” e che la collaborazione “permette di combattere più efficacemente le reti di trafficanti di esseri umani e di coloro che contrabbandano i migranti”. Con il rispetto dei diritti umani, del diritti umanitario e internazionale che è “sempre stata una priorità”. Evidentemente non rispettata. Ma c’è un dettaglio in più.

    Quel contrasto al traffico di migranti alla base anche del memorandum con la Libia, sbandierato a più riprese dall’esecutivo italiano (“Andremo a cercare gli ‘scafisti’ lungo tutto il globo terracqueo”, disse la premier Giorgia Meloni a inizio marzo 2023) viene messo in discussione nel rapporto. Dopo aver sottolineato la diminuzione delle indagini sui trafficanti di esseri umani, il Greta scrive che i “capitani” delle navi che arrivano in Italia “potrebbero essere stati costretti tramite minacce, violenza fisica e abuso di una posizione di vulnerabilità nel partecipare all’attività criminali”. Indicatori che li farebbero ricadere nella “categoria” delle vittime di tratta. “Nessuno, però, è stato considerato come tale”, osservano gli esperti. Si scioglie come neve al sole la retorica sulla “guerra” ai trafficanti. I pezzi grossi restano, nel frattempo, impuniti.

    https://altreconomia.it/il-consiglio-deuropa-chiede-allitalia-di-garantire-piu-protezione-alle-

    #traite_d'êtres_humains #Italie #protection #Conseil_de_l'Europe #exploitation #Greta #rapport #agriculture #industrie_textile #hôtelerie #bâtiment #BTS #services_domestiques #restauration #indemnisation #accès_à_la_santé #criminalisation_de_la_migration #Albanie

    • La construction des prix à la SNCF, une socio-histoire de la tarification. De la #péréquation au yield management (1938-2012)

      Cet article analyse les conditions de production et de légitimation des systèmes de prix des billets de train en France, depuis la création de la SNCF en 1938. Initialement fondé sur le principe d’un tarif kilométrique uniforme, le système historique de péréquation est lentement abandonné au cours des décennies d’après-guerre, au profit d’une tarification indexée sur les coûts marginaux. Au tournant des années 1980-1990, ce paradigme est lui-même remplacé par un dispositif de tarification en temps réel – le yield management – visant à capter le maximum du surplus des consommateurs. Les transformations des modèles tarifaires à la SNCF, qui s’accompagnent d’une redéfinition de la notion éminemment polymorphe de service public ferroviaire, résultent du travail de quelques acteurs de premier plan. Ces « faiseurs de prix », qui mobilisent les instruments de la discipline économique et usent de leur capacité d’influence, agissent dans des contextes (politiques, sociaux, techniques et concurrentiels) particuliers, qui rendent possibles, nécessaires et légitimes les innovations qu’ils proposent.

      https://www.cairn.info/revue-francaise-de-sociologie-2014-1-page-5.htm

      #Jean_Finez

    • Noël : est-ce vraiment moins cher de réserver son train SNCF 3 mois à l’avance ?

      C’est un fait : les tarifs des trajets en train pour la période de Noël ont explosé entre octobre et fin décembre 2023. Nous avons suivi, semaine après semaine, leur évolution. Voici les résultats, parfois surprenants, de notre enquête.

      « Plus on réserve un train à l’avance, plus les prix sont bas. » La phrase de la SNCF semble logique. Mais est-elle vérifiée ? À l’approche des fêtes de Noël, nous avons décidé de nous lancer dans une petite enquête. Numerama a relevé les tarifs d’une vingtaine de trajets en train à travers la France, sur les douze dernières semaines, pour en mesurer l’évolution.

      Nous avions une question principale : est-ce vrai qu’il vaut mieux réserver son billet de train trois mois à l’avance, pour le payer moins cher ? Suivie d’une autre : comment les tarifs évoluent-ils à travers le temps, et à quel rythme les trains deviennent-ils complets ?

      Nous avons choisi arbitrairement dix allers-retours à travers la France. La date est toujours la même, pour simuler un voyage pour les fêtes de fin d’année : un aller le 22 décembre, un retour le 27 décembre. Nous avons choisi un train par jour et suivi l’évolution du tarif des billets chaque semaine, à compter du mercredi 4 octobre, soit la date de l’ouverture des ventes (qui avaient d’ailleurs mis en panne SNCF Connect).
      Prendre ses billets tôt pour Noël permet d’éviter le pire

      Après douze semaines de relevés et une agrégation des données, le premier constat est clair : les tarifs ont énormément augmenté sur cette période. Il est évident que, même s’il y a des exceptions, il reste très intéressant de prendre son billet le plus tôt possible. C’est d’ailleurs ce que la SNCF nous a confirmé, par mail : « Plus on réserve à l’avance, plus les prix sont bas. Le mieux est donc de réserver dès l’ouverture des ventes, ou alors dans les semaines qui suivent. »

      Sur ce graphique, nous avons matérialisé la hausse de tous les trajets confondus. À part une ou deux exceptions (en TER), tous les billets ont augmenté, parfois beaucoup. Certains trajets se sont retrouvés complets très vite — nous les avons matérialisés avec un petit rond barré sur le graphique ci-dessous.

      Les prix peuvent parfois varier du simple au double. Le trajet Nantes-Bordeaux, par exemple, est passé de 58 euros à 136 euros (dernières places en première classe), soit une augmentation de 164 %. Un Strasbourg-Paris a terminé à 153 euros, au lieu de 93 euros il y a trois mois.

      Des hausses de prix jusqu’à 150 %

      Au global, les TGV sont les trains qui subissent les plus grosses hausses à travers le temps, sauf quelques exceptions (Marseille-Nice n’a pas changé d’un iota au fil des 12 semaines, par exemple).

      Sur cette carte réalisée par l’équipe design de Numerama, Adèle Foehrenbacher et Claire Braikeh, on observe quels sont les trajets qui ont subi la plus forte hausse (en rouge foncé), par rapport à ceux qui n’ont pas beaucoup bougé sur 3 mois (en rose).

      Pour les retours de Noël sur la journée du 27 décembre, les trajets les plus onéreux sont les mêmes (Paris-Toulouse, Paris-Strasbourg, Nantes-Bordeaux).

      Certains billets sont moins chers quelques jours avant le départ

      Lorsque nous avons commencé cette enquête, nous nous sommes demandé s’il serait possible qu’un billet devienne moins cher à l’approche de la date du voyage, ce qui est plutôt contre-intuitif. Une occurrence est venue, sur la dernière semaine, être l’exception qui confirme la règle : le trajet Paris-La Rochelle (en jaune ci-dessous) est devenu, au dernier moment, moins cher à l’approche du voyage, par rapport au tarif d’il y a trois mois.

      Autre cas curieux : nous avons constaté au fil des semaines une variation à la baisse sur le trajet Nancy-Grenoble, avec une correspondance. « Ce phénomène est extrêmement rare », nous assure la SNCF. « Nancy-Grenoble n’est pas un train direct. Il se peut que l’un des deux trains se remplissent moins vite et que des petits prix aient été rajoutés à un moment donné », explique-t-on. Le voyage a fini par augmenter de nouveau, pour devenir complet deux semaines avant le départ.

      Le trajet n’est pourtant pas le seul exemple. Prenons le trajet en TER et Train NOMAD Caen-Le Havre. Le 4 octobre, le voyage revenait à 38,4 euros. Surprise ! Dès la semaine suivante, il est tombé à 18 euros, pour rester fixe pendant plusieurs mois. Jusqu’au 13 décembre, où le prix a re-grimpé jusqu’à 48 euros — l’horaire du train de départ ayant été modifié de quelques minutes. Ici, ce n’est pas la SNCF, mais les conseils régionaux qui valident les prix. Par mail, l’établissement régional des lignes normandes nous assure que « la baisse des prix 15 jours après l’ouverture des ventes est impossible ». C’est pourtant le constat que nous avons fait, dès une semaine après l’ouverture.

      Pourquoi de telles hausses ?

      Cela fait plusieurs années que la SNCF a commencé à modifier la manière dont elle décide des tarifs, selon le journaliste spécialisé Gilles Dansart. La compagnie aurait décidé de « faire payer beaucoup plus cher à mesure que l’on s’approche de la date de départ du train », alors qu’auparavant, elle se calquait sur la longueur des kilomètres parcourus pour étalonner ses prix, a-t-il analysé sur France Culture le 21 décembre.

      Contactée, la SNCF nous explique : « Les prix sont les mêmes que pour n’importe quelles dates. Il n’y a pas de prix spécifiques pour Noël. Ce qui fait évoluer les prix, c’est le taux de remplissage et la demande. À Noël les trains se remplissent plus vite et les paliers maximum peuvent être atteints plus rapidement. »

      Ces paliers sont un véritable enjeu, lorsque l’on voit que certains trajets se retrouvent complets très rapidement — le Paris-Toulouse du 22 décembre s’est en effet retrouvé complet, selon nos constats, en à peine une semaine, début octobre.

      En 10 ans, la SNCF a perdu 105 TGV, soit 30 000 sièges, a calculé récemment France 2 dans un reportage. « On n’arrivait plus à remplir les TGV, il y avait des taux d’occupation à moins de 60 % », a expliqué à leur micro Christophe Fanichet, directeur général de SNCF Voyageurs.

      Cette politique de financement de la SNCF ne va pas aller en s’arrangeant pour les voyageurs et voyageuses : l’entreprise a déjà entériné une augmentation du prix des TGV pour 2024, rappelle le Parisien.

      https://www.numerama.com/vroom/1593454-noel-est-ce-vraiment-moins-cher-de-reserver-son-train-3-mois-a-lav

    • Mais on sait que l’investissement sur l’infra était sous dimensionnée autour de 2005, donc voir monter les coûts de péages de l’infra n’a rien d’anormal.
      Nos voisins sont-ils sous le prix réel ? Alors il vont subir un effet boomerang plus tard (effet dette).

  • Un avion transportant plus de 300 Indiens immobilisé dans la Marne pour des « soupçons de traite d’êtres humains » ; deux passagers en garde à vue
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/12/22/un-avion-transportant-plus-de-300-indiens-immobilise-dans-la-marne-pour-des-

    Un avion transportant plus de 300 Indiens immobilisé dans la Marne pour des « soupçons de traite d’êtres humains » ; deux passagers en garde à vue
    Par Julia Pascual (avec AFP)
    Un avion devant relier les Emirats arabes unis au Nicaragua et transportant 303 passagers indiens est immobilisé depuis jeudi à l’aéroport de Vatry (Marne) en raison de « soupçons de traite d’êtres humains », ont annoncé vendredi 22 décembre la préfecture de la Marne et le parquet de Paris, qui a ouvert une enquête. Vendredi soir, deux passagers étaient entendus sous le régime de la garde à vue, a annoncé le parquet de Paris.
    L’immobilisation de l’appareil fait suite à « un signalement anonyme » selon lequel cet avion « transportait des passagers indiens (…) susceptibles d’être victimes de traite des êtres humains », a fait savoir le parquet à l’Agence France-Presse (AFP). Cet A340, de la compagnie roumaine Legend Airlines, « devait réaliser une escale technique » à Vatry, a ajouté la préfecture de la Marne. Selon une source proche du dossier, qui précise que l’avion s’est arrêté pour une recharge en carburant, les passagers indiens pourraient avoir voulu se rendre en Amérique centrale afin de tenter ensuite d’entrer illégalement aux Etats-Unis ou au Canada.
    La Juridiction nationale de lutte contre la criminalité organisée (Junalco) « a repris l’enquête pour vérifier si des éléments viendraient corroborer le soupçon de traite des êtres humains en bande organisée, crime faisant encourir vingt ans de réclusion criminelle et 3 millions d’euros d’amende », ajoute le parquet. D’après une source policière consultée par Le Monde, le contrôle aurait permis d’identifier deux voyageurs en possession de l’ensemble des passeports et d’une somme importante d’argent. « L’enquête le dira, mais peut-être qu’il ne s’agit pas d’une filière criminelle, mais simplement d’un projet groupé d’immigration illégale aux Etats-Unis formé par des Indiens qui travaillaient aux Emirats, avance prudemment cette source. Dans ce cas, les deux personnes qui détenaient les passeports étaient simplement chargées de payer les visas à l’arrivée à Managua. »
    Les auditions devraient se poursuivre jusqu’à vendredi soir au moins, selon une source proche du dossier. « La direction nationale de la police aux frontières [notamment l’Oltim (Office de lutte contre le trafic illicite de migrants)], la gendarmerie des transports aériens et la brigade de recherche de Vitry-le-François ont été cosaisies et procèdent aux auditions et vérifications des conditions et objectifs de transport des passagers », explique également le parquet.
    Depuis plusieurs années, des personnes migrantes qui ont pour destination l’Amérique du Nord s’organisent afin de parvenir légalement et par voie aérienne jusqu’en Amérique centrale – où elles bénéficient de facilités de visas –, avant de gagner les Etats-Unis par voie terrestre et de façon illégale. Ces filières transitent parfois par des aéroports internationaux en Europe.
    C’était le cas par exemple début 2021 quand des Indiens en provenance des Emirats transitaient par l’aéroport de Roissy avant de gagner l’Amérique centrale. Une route entravée par les autorités françaises qui ont imposé le 27 avril 2021 une obligation de visa de transit aéroportuaire pour les ressortissants indiens. Plus récemment, le 7 décembre, un visa de transit aéroportuaire obligatoire a aussi été instauré par Paris à l’égard des ressortissants ouzbeks, pour dissuader des flux qui avaient également comme destination l’Amérique centrale puis, de façon irrégulière, les Etats-Unis. Le cas du vol retenu à Vatry est différent, dans le sens où l’avion ne faisait qu’une escale technique dans le petit aérodrome de la Marne. Ses occupants n’avaient donc pas besoin de présenter un visa de transit. « La compagnie estime qu’elle n’a rien à se reprocher, n’a commis aucune infraction et se tient à disposition des autorités françaises », a assuré à l’AFP Liliana Bakayoko, qui se présente comme l’avocate de Legend Airlines. La compagnie aérienne compte « se porter partie civile si des poursuites sont initiées par le ministère public, ou porter plainte » dans le cas contraire, a-t-elle ajouté.Par deux arrêtés successifs publiés jeudi soir et vendredi matin, le préfet de la Marne a étendu temporairement la zone d’attente des étrangers au hall d’accueil de l’aéroport. Les passagers y disposent, selon la préfecture, de « lits individuels », après avoir dans un premier temps été maintenus dans l’avion, où ils ont pu « se restaurer ». « L’équipe de l’ambassade a obtenu l’accès consulaire. Nous étudions la situation et veillons au bien-être des passagers », a dit l’ambassade d’Inde en France sur X.Plusieurs scénarios pour la suite des événements sont possibles : si l’enquête ne permet pas d’étayer les soupçons de traite d’êtres humains, il n’est pas impossible que l’avion reprenne son itinéraire jusqu’à Managua où les autorités nicaraguayennes décideront si elles admettent sur leur territoire les passagers. S’ils sont refusés, ils devront être réacheminés jusqu’à leur lieu de provenance, c’est-à-dire les Emirats. La compagnie pourrait aussi réacheminer les voyageurs vers les Emirats. Mais, si elle n’a enfreint aucune règle, rien ne l’y oblige. La France peut aussi décider de réacheminer les 303 Indiens aux Emirats en affrétant elle-même un avion. Quoi qu’il en soit, s’ils ne repartent pas rapidement, les voyageurs retenus pourraient être finalement admis sur le territoire français. En effet, la loi prévoit que, placés en zone d’attente internationale, ils doivent être présentés devant un juge des libertés et de la détention dans les quatre jours. Ce dernier peut les libérer s’il n’y a pas de perspective de réacheminement. En outre, le passage devant le juge de plus de 300 personnes en quatre jours ne sera pas sans poser des difficultés pratiques pour le tribunal local.
    Un cas de figure similaire s’était présenté à Toulon après que le navire humanitaire Ocean Viking avait accosté en novembre 2022 avec à son bord 234 migrants secourus en Méditerranée. Ils avaient été placés dans une zone d’attente internationale créée ad hoc. Saturé, le tribunal de Toulon n’avait pas pu tenir des audiences dans les délais impartis et les personnes avaient donc été libérées et admises sur le territoire. Si tel était le cas pour les Indiens à Vatry, ces derniers se verraient alors remettre un visa de régularisation de huit jours et admis dans un pays auquel ils ne se destinaient pas à l’origine. L’aéroport de Vatry, petit aérodrome situé à une vingtaine de kilomètres de Châlons-en-Champagne et à 150 kilomètres à l’est de Paris, a accueilli 62 000 passagers en 2022, essentiellement via des compagnies low-cost, selon l’Union des aéroports français. Il explique sur son site Internet proposer des vols réguliers vers Marrakech et Porto et, plus ponctuellement, vers Faro, Madère et la Jordanie. L’opération « a contraint les autorités à dérouter le vol Marrakech-Vatry de 9 h 40 de la compagnie Ryanair » prévu vendredi, selon la préfecture. Julia Pascual (avec AFP)

    #Covid-19#migrant#migrant#france#emiratsarabes unis#nicaragua#inde#traite#visas#transitaeroportuaire

  • Le tante sofferenze della fuga: le donne ucraine a rischio tratta e sfruttamento sessuale
    https://www.meltingpot.org/2023/11/le-tante-sofferenze-della-fuga-le-donne-ucraine-a-rischio-tratta-e-sfrut

    Dall’inizio della guerra in Ucraina, sono aumentati vertiginosamente i casi di adescamento segnalati lungo le rotte migratorie e sui social network. Per le donne ucraine il rischio di tratta passa soprattutto da chi offre loro trasporto e alloggio gratuito. Vika ha 21 anni. Nel caos che segue lo scoppio del conflitto in Ucraina, sale sull’auto di uno sconosciuto che le offre un passaggio verso il nord della Slovacchia. Accetta, non ha altra scelta. L’uomo le promette un lavoro ben pagato e un alloggio sicuro. Qualche giorno dopo, però, senza nessuna spiegazione, viene accompagnata nel sud della Slovacchia, a lavorare (...)

  • « Le #viol, passage presque inévitable de la migration » : à Marseille, huit femmes témoignent

    Lundi 18 septembre, la revue scientifique internationale « The Lancet » publie une enquête de santé publique inédite menée sur 273 demandeuses d’asile à Marseille, corrélant la migration et la violence sexuelle dont elles sont victimes. « Le Monde » a recueilli les histoires de huit femmes qui ont participé à l’étude.

    Au milieu de la conversation, Aissata tressaille. Adama, elle, manque plusieurs fois de faire tomber son bébé de 2 mois, gros poupon emmailloté dans un body blanc, qu’elle allaite le regard absent. Les yeux de Perry se brouillent : elle a vu trop de #violence. Ceux de Fanta sont devenus vitreux : elle est là, mais plus vraiment là. Grace regrette sa sécheresse oculaire, elle aimerait tant pleurer et hurler, peut-être la croirait-on et l’aiderait-on davantage, mais elle ne sait pas où ses larmes sont parties. Nadia sourit en montrant les cicatrices des brûlures de cigarettes qui constellent sa poitrine, comme pour s’excuser de cette vie qui l’a fait s’échouer ici. Stella porte ses lunettes de soleil à l’intérieur, et explose de rire en racontant qu’elle a été vendue quatre fois.

    Tous ces détails, ces marques de la #barbarie inscrite dans le #corps des femmes migrantes, le docteur Jérémy Khouani les observe depuis ses études de médecine. Généraliste dans une maison de santé du 3e arrondissement de Marseille – avec 55 % de ses habitants au-dessous du seuil de pauvreté, c’est l’un des endroits les plus pauvres de France –, il soigne les bobos, les angines et les gastros, mais voit surtout le #traumatisme surgir face aux mots « #excision », « #Libye », « #traite » ou « viol ».

    Bouleversé par des consultations qui l’amènent à mesurer la taille de lèvres vaginales post-excision pour l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), à diagnostiquer une arthrose massive à une jeune femme de 30 ans ou à prescrire des antidépresseurs à une autre qui vient de tenter de s’immoler, il a décidé de lutter avec ce qu’il savait faire : « De la science ». « Je n’ai pas envie de hiérarchiser, mais les violences que subissent les femmes demandeuses d’asile, c’est trois fois plus horrible que les hommes. Ils subissent aussi des violences, mais ce n’est pas systémique, ils n’ont pas le vagin mutilé à 6 ans, ou le viol comme passage presque inévitable de la migration. » En Europe, en 2021, les femmes représentent 31 % des demandeurs d’asile.

    Il y a trois ans, avec l’Assistance publique-Hôpitaux de Marseille et la faculté de médecine d’Aix-Marseille, #Jérémy_Khouani a lancé une grande enquête de #santé_publique pour mesurer l’#incidence des violences sexuelles chez les femmes demandeuses d’asile en France. Une étude inédite, publiée ce lundi 18 septembre dans la revue scientifique The Lancet (Regional Health Europe) et menée sur 273 femmes arrivées sur le territoire français, volontaires pour participer et en attente de la réponse des autorités quant à leur statut. La moitié d’entre elles viennent d’Afrique de l’Ouest, le reste du Moyen-Orient, d’Asie ou d’Europe.

    « Un impondérable du #parcours_migratoire »

    Ainsi, 26 % d’entre elles se déclarent victimes de violences sexuelles au cours de leurs douze derniers mois sur le territoire français, et 75 % avant leur entrée en France. Les demandeuses d’asile encourent dix-huit fois plus le risque d’être victimes de viol en France que les Françaises de la population générale ; 40 % d’entre elles ont subi des #mutilations_génitales. « L’étude fait ressortir que la violence sexuelle est un motif de départ, un impondérable du parcours migratoire, et un crime dont on ne les protège pas en France », analyse #Anne_Desrues, sociologue et enquêtrice sur le projet.

    L’absence de logement, de compagnon et les antécédents de violence apparaissent comme des facteurs de risque du viol. « Le débat, ce n’est même pas de savoir si elles ont vocation à rester sur le territoire ou pas, mais, au moins, que pendant tout le temps où leur demande est étudiée, qu’elles ne soient pas violées à nouveau, elles sont assez traumatisées comme ça », pose le médecin généraliste.

    Il faut imaginer ce que c’est de soigner au quotidien de telles blessures, de rassembler 273 récits de la sorte en six mois – ce qui n’est rien par rapport au fait de vivre ces violences. L’expression « #traumatisme_vicariant » qualifie en psychiatrie le traumatisme de seconde ligne, une meurtrissure psychique par contamination, non en étant exposé directement à la violence, mais en la documentant. « Heureusement, j’avais une psychologue pour débriefer les entretiens, évoque Anne Desrues. Moi, ce qui m’a aidée, c’est de savoir que celles qu’on rencontrait étaient aussi des femmes fortes, qui avaient eu le courage de partir, et de comprendre leur migration comme une #résistance à leur condition. » Le docteur Khouani, lui, érige cette étude comme rempart à son sentiment d’impuissance.

    Le Monde, pendant quarante-huit heures, a recueilli les histoires de huit femmes qui ont participé à l’étude. Certaines sont sous obligation de quitter le territoire français (OQTF), risquant l’expulsion. Mais elles voulaient que quelqu’un entende, note et publie tout ce qu’elles ont subi. Dans le cabinet du médecin, sous les néons et le plafond en contreplaqué, elles se sont assises et ont parlé.

    Lundi, 9 heures. Ogechi, surnommée « Perry », 24 ans. Elle regarde partout, sauf son interlocuteur. Elle a une croix autour du cou, une autre pendue à l’oreille, porte sa casquette à l’envers. Elle parle anglais tout bas, en avalant la fin des mots. Elle vient de Lagos, au Nigeria. Jusqu’à son adolescence, ça va à peu près. Un jour, dans la rue, elle rencontre une fille qui lui plaît et l’emmène chez elle. Son père ne supporte pas qu’elle soit lesbienne : il la balance contre le mur, la tabasse, appelle ses oncles. Ils sont maintenant cinq à se déchaîner sur Perry à coups de pied. « Ma bouche saignait, j’avais des bleus partout. »

    Perry s’enfuit, rejoint une copine footballeuse qui veut jouer en Algérie. Elle ne sait pas où aller, sait seulement qu’elle ne peut plus vivre chez elle, à Lagos. L’adolescente, à l’époque, prend la route : Kano, au nord du pays, puis Agadez, au Niger, où un compatriote nigérian, James, l’achète pour 2 000 euros et la fait entrer en Libye. Elle doit appeler sa famille pour rembourser sa dette. « Je n’ai pas de famille ni d’argent, je ne vaux rien », lui répond Perry. Une seule chose a de la valeur : son corps. James prélève ses cheveux, son sang, fait des incantations vaudoues « pour me contrôler ». A 15 ans, elle est prostituée dans un bordel sous le nom de « Blackgate ».

    « Si je meurs, qui va s’en apercevoir ? »

    Son débit est monocorde, mais son récit est vif et transporte dans une grande maison libyenne divisée en « chambres » avec des rideaux. Un lit par box, elles sont sept femmes par pièce. « Des vieilles, des jeunes, des enceintes. » Et les clients ? « Des Africains, des Arabes, des gentils, des violents. » En tout, une cinquantaine de femmes sont exploitées en continu. « J’aurais jamais pensé finir là, je ne pouvais pas imaginer qu’un endroit comme ça existait sur terre », souffle-t-elle.

    Perry passe une grosse année là-bas, jusqu’à ce qu’un des clients la prenne en pitié et la rachète pour l’épouser. Sauf qu’il apprend son #homosexualité et la revend à une femme nigériane, qui lui paye le voyage pour l’Europe pour la « traiter » à nouveau, sur les trottoirs italiens cette fois-ci. A Sabratha, elle monte sur un bateau avec 150 autres personnes. Elle ne souhaite pas rejoindre l’Italie, elle ne veut que fuir la Libye. « Je ne sais pas nager. Je n’avais pas peur, je n’étais pas heureuse, je me demandais seulement comment un bateau, ça marchait sur l’eau. » Sa première image de l’Europe : Lampedusa. « J’ai aimé qu’il y ait de la lumière 24 heures sur 24, alors que chez nous, la nuit, c’est tout noir. »

    Mineure, Perry est transférée dans un foyer à Milan, où « les gens qui travaillent avec James m’ont encore fait travailler ». Elle tape « Quel est le meilleur pays pour les LGBT ? » dans la barre de recherche de Google et s’échappe en France. « Ma vie, c’est entre la vie et la mort, chaque jour tu peux perdre ou tu peux gagner », philosophe-t-elle. Le 4 septembre 2020, elle se souvient bien de la date, elle arrive dans le sud de la France, une région qu’elle n’a pas choisie. Elle suit un cursus de maroquinerie dans un lycée professionnel avec, toujours, « la mafia nigériane » qui la harcèle. « Ils m’ont mis une arme sur la tempe, ils veulent que je me prostitue ou que je vende de la drogue. C’est encore pire parce que je suis lesbienne, ils disent que je suis une abomination, une sorcière… »

    A Marseille, elle fait trois tentatives de suicide, « parce que je suis trop traumatisée, j’arrive plus à vivre, mais Dieu m’a sauvée ». A 24 ans, pour qui Perry existe-t-elle encore ? « Si je meurs, qui va s’en apercevoir ? Je regrette d’avoir quitté le Nigeria, je ne pensais pas expérimenter une vie pareille », termine-t-elle, en s’éloignant dans les rues du 3e arrondissement.

    Lundi, 11 heures. A 32 ans, la jeunesse de Fanta semble s’être dissoute dans son parcours. Elle a des cheveux frisés qui tombent sur son regard sidéré. Elle entre dans le cabinet les bras chargés de sacs en plastique remplis de la lessive et des chaussures qu’elle vient de se procurer pour la rentrée de ses jumeaux en CP, qui a eu lieu le matin même. « Ils se sont réveillés à 5 heures tellement ils étaient excités, raconte-t-elle. C’est normal, on a passé l’été dans la chambre de l’hôtel du 115, on ne pouvait pas trop sortir à cause de mon #OQTF. » Fanta vient de Faranah, en Guinée-Conakry, où elle est tombée accidentellement enceinte de ses enfants. « Quand il l’a su, mon père, qui a lui même trois femmes, m’a tapée pendant trois jours et reniée. »

    Elle accouche, mais ne peut revenir vivre dans sa famille qu’à condition d’abandonner ses bébés de la honte. Elle refuse, bricole les premières années avec eux. Trop pauvre, trop seule, elle confie ses enfants à sa cousine et souhaite aller en Europe pour gagner plus d’argent. Mali, Niger, Libye. La prison en Libye lui laisse une vilaine cicatrice à la jambe. En 2021, elle atteint Bari, en Italie, puis prend la direction de la France. Pourquoi Marseille ? « Parce que le train s’arrêtait là. »

    Sexe contre logement

    A la gare Saint-Charles, elle dort par terre pendant trois jours, puis rejoint un squat dans le quartier des Réformés. Là-bas, « un homme blanc est venu me voir et m’a dit qu’il savait que je n’avais pas de papiers, et que si on ne faisait pas l’amour, il me dénonçait à la police ». Elle est violée une première fois. Trois jours plus tard, il revient avec deux autres personnes, avec les mêmes menaces. Elle hurle, pleure beaucoup. Ils finissent par partir. « Appeler la police ? Mais pour quoi faire ? La police va m’arrêter moi », s’étonne-t-elle devant notre question.

    En novembre 2022, le navire de sauvetage Ocean-Viking débarque ses passagers sur le port de Toulon. A l’intérieur, sa cousine et ses jumeaux. « Elle est venue avec eux sans me prévenir, j’ai pleuré pendant une semaine. » Depuis, la famille vit dans des hôtels sociaux, a souvent faim, ne sort pas, mais « la France, ça va, je veux bien aller n’importe où du moment que j’ai de la place ». Parfois, elle poursuit les passants qu’elle entend parler sa langue d’origine dans la rue, « juste pour avoir un ami ». « La migration, ça fait exploser la violence », conclut-elle, heureuse que ses enfants mangent à la cantine de l’école ce midi.

    Lundi, 15 heures. « C’est elle qui m’a donné l’idée de l’étude », s’exclame le docteur Khouani en nous présentant Aissata. « Oui, il faut parler », répond la femme de 31 ans. Elle s’assoit, décidée, et déroule un récit délivré de nombreuses fois devant de nombreux officiels français. Aissata passe son enfance en Guinée. En 1998, sa mère meurt et elle est excisée. « C’était très douloureux, je suis vraiment obligée de reraconter ça ? » C’est sa « marâtre » qui prend le relais et qui la « torture ». Elle devient la petite bonne de la maison de son père, est gavée puis privée de nourriture, tondue, tabassée, de la harissa étalée sur ses parties intimes. A 16 ans, elle est mariée de force à un cousin de 35 ans qui l’emmène au Gabon.

    « Comme je lui ai dit que je ne voulais pas l’épouser, son travail, c’était de me violer. J’empilais les culottes et les pantalons les uns sur les autres pour pas qu’il puisse le faire, mais il arrachait tout. » Trois enfants naissent des viols, que son époux violente aussi. Elle s’interpose, il la frappe tellement qu’elle perd connaissance et se réveille à l’hôpital. « Là-bas, je leur ai dit que ce n’était pas des bandits qui m’avaient fait ça, mais mon mari. » Sur son téléphone, elle fait défiler les photos de bleus qu’elle avait envoyées par mail à son fils – « Comme ça, si je mourais, il aurait su quelle personne était son père. »

    Un soignant lui suggère de s’enfuir, mais où ? « Je ne connais pas le Gabon et on ne peut pas quitter le mariage. » Une connaissance va l’aider à sortir du pays. Elle vend tout l’or hérité de sa mère, 400 grammes, et le 29 décembre 2018, elle prend l’avion à l’aéroport de Libreville. « J’avais tellement peur, mon cœur battait si fort qu’il allait sortir de mon corps. » Elle vit l’atterrissage à Roissy - Charles-de-Gaulle comme un accouchement d’elle-même, une nouvelle naissance en France. A Paris, il fait froid, la famille arrive à Marseille, passe de centres d’accueil humides en hôtels avec cafards du 115.

    Sans cesse, les hommes la sollicitent. Propositions de sexe contre logement ou contre de l’argent : « Les hommes, quand tu n’as pas de papiers, ils veulent toujours en profiter. Je pourrais donner mon corps pour mes enfants, le faire avec dix hommes pour les nourrir, mais pour l’instant j’y ai échappé. » Au début de l’année, l’OQTF est tombée. Les enfants ne dorment plus, elle a arrêté de soutenir leurs devoirs. « La France trouve que j’ai pas assez souffert, c’est ça ? », s’énerve celle que ses amies surnomment « la guerrière ».

    « Je suis une femme de seconde main maintenant »

    Lundi, 17 heures. Nadia a le visage rond, entouré d’un voile noir, les yeux ourlés de la même couleur. Une immense tendresse se dégage d’elle. Le docteur Khouani nous a prévenues, il faut faire attention – elle sort à peine de l’hôpital psychiatrique. Il y a quelques semaines, dans le foyer où elle passe ses journées toute seule, elle a pris un briquet, a commencé à faire flamber ses vêtements : elle a essayé de s’immoler. Quand il l’a appris, le médecin a craqué, il s’en voulait, il voyait bien son désespoir tout avaler et la tentative de suicide arriver.

    Pourtant, Nadia a fait une petite heure de route pour témoigner. Elle a grandi au Pakistan. Elle y a fait des études de finance, mais en 2018 son père la marie de force à un Pakistanais qui vit à Marseille. Le mariage est prononcé en ligne. Nadia prend l’avion et débarque en France avec un visa de touriste. A Marseille, elle se rend compte que son compagnon ne pourra pas la régulariser : il est déjà marié. Elle n’a pas de papiers et devient son « esclave », subit des violences épouvantables. Son décolleté est marqué de plusieurs cicatrices rondes : des brûlures de cigarettes.

    Nadia apparaît sur les écrans radars des autorités françaises un jour où elle marche dans la rue. Il y a une grande tache rouge sur sa robe. Elle saigne tellement qu’une passante l’alerte : « Madame, madame, vous saignez, il faut appeler les secours. » Elle est évacuée aux urgences. « Forced anal sex », explique-t-elle, avec son éternel rictus désolé. Nadia accepte de porter plainte contre son mari. La police débarque chez eux, l’arrête, mais il la menace d’envoyer les photos dénudées qu’il a prises d’elle au Pakistan. Elle retire sa plainte, revient au domicile.

    Les violences reprennent. Elle s’échappe à nouveau, est placée dans un foyer. Depuis qu’elle a témoigné auprès de la police française, la propre famille de Nadia ne lui répond plus au téléphone. Une nuit, elle s’est réveillée et a tenté de gratter au couteau ses brûlures de cigarettes. « Je suis prête à donner un rein pour avoir mes papiers. Je pense qu’on devrait en donner aux femmes victimes de violence, c’est une bonne raison. Moi, je veux juste étudier et travailler, et si je suis renvoyée au Pakistan ils vont à nouveau me marier à un homme encore pire : je suis une femme de seconde main maintenant. »

    « Je dois avoir une vie meilleure »

    Mardi, 11 heures. Médiatrice sociale du cabinet médical, Elsa Erb est une sorte d’assistante pour vies fracassées. Dans la salle d’attente ce matin, il y a une femme mauritanienne et un gros bébé de 2 mois. « C’est ma chouchoute », sourit-elle. Les deux femmes sont proches : l’une a accompagné l’autre à la maternité, « sinon elle aurait été toute seule pour accoucher ». Excision dans l’enfance, puis à 18 ans, en Mauritanie, mariage forcé à son cousin de 50 ans. Viols, coups, cicatrices sur tout le corps. Deux garçons naissent. « Je ne pouvais pas rester toute ma vie avec quelqu’un qui me fait autant de mal. » Adama laisse ses deux enfants, « propriété du père », et prend l’avion pour l’Europe.

    A Marseille, elle rencontre un autre demandeur d’asile. Elle tombe enceinte dans des circonstances troubles, veut avorter mais l’homme à l’origine de sa grossesse la menace : c’est « péché » de faire ça, elle sera encore plus « maudite ». Depuis, elle semble trimballer son bébé comme un gros paquet embarrassant. Elsa Erb vient souvent la voir dans son foyer et lui apporte des boîtes de sardines. Elle s’inquiète car Adama s’isole, ne mange pas, passe des heures le regard dans le vide, un peu sourde aux pleurs et aux vomissements du petit. « Je n’y arrive pas. Avec mes enfants là-bas et celui ici, je me sens coupée en deux », se justifie-t-elle.

    Mardi, 14 heures. A chaque atrocité racontée, Stella rit. Elle vient du Biafra, au Nigeria. Ses parents sont tués par des miliciens quand elle a 13 ans. Elle est envoyée au Bénin auprès d’un proche qui la viole. Puis elle tombe dans la #traite : elle est transférée en Libye. « J’ai été vendue quatre fois, s’amuse-t-elle. En Libye, vous pouvez mourir tous les jours, plus personne ne sait que vous existez. » Elle passe en Italie, où elle est encore exploitée.

    Puis la France, Marseille et ses squats. Elle décrit des hommes blancs qui débarquent armés, font tous les étages et violent les migrantes. La police ? Stella explose de rire. « Quel pouvoir est-ce que j’ai ? Si je raconte ça à la police française, les agresseurs me tueront. C’est simple : vous êtes une femme migrante, vous êtes une esclave sexuelle. »

    Avec une place dans un foyer et six mois de #titre_de_séjour en tant que victime de traite, elle est contente : « Quand on a sa maison, on est moins violée. » Des étoiles sont tatouées sur son cou. « Je dois avoir une vie meilleure. Mon nom signifie “étoile”, je dois briller », promet-elle. Le docteur Khouani tient à nous montrer une phrase issue du compte rendu d’une radio de ses jambes : « Lésions arthrosiques inhabituelles pour son jeune âge. » « Il est très probable qu’elle ait subi tellement de violences qu’elle a l’arthrose d’une femme de 65 ans. » Stella a 33 ans.

    Déboutés par l’Ofpra

    Mardi, 16 heures. Grace entre avec sa poussette, dans laquelle s’ébroue une petite fille de 7 mois, son quatrième enfant. Nigériane, la jeune femme a le port altier et parle très bien anglais. « J’ai été très trafiquée », commence-t-elle. Après son bac, elle est recrutée pour être serveuse en Russie. C’est en réalité un réseau de #proxénétisme qui l’emmène jusqu’en Sibérie, d’où elle finit par être expulsée. De retour au Nigeria, elle veut poursuivre ses études à la fac à Tripoli, en Libye.

    A la frontière, elle est vendue, prostituée, violée. Elle tombe enceinte, s’échappe en Europe pour « fuir, pas parce que je voulais particulièrement y aller ». Arrivée en Italie, on lui propose d’avorter de son enfant du viol. Elle choisit de le garder, même si neuf ans après, elle ne sait toujours pas comment son premier fils a été conçu. En Italie, elle se marie avec un autre Nigérian. Ils ont quatre enfants scolarisés en France, mais pas de papiers. L’Ofpra les a déboutés : « Ils trouvent que j’ai les yeux secs, que je délivre mon histoire de manière trop détachée », comprend-elle.

    Mardi, 18 heures. Abby se présente dans le cabinet médical avec sa fille de 12 ans. Elles sont originaires de Sierra Leone. Abby a été excisée : elle se remémore le couteau, les saignements, souffre toujours vingt-cinq ans après. « Ils ont tout rasé, c’est lisse comme ça », décrit-elle en caressant la paume de sa main.

    Sa fille a aussi été mutilée, un jour où sa mère n’était pas à la maison pour la protéger. « Mais pour Aminata, ce n’est pas propre. » Alors, quand la mère et la fille ont déposé leur demande d’asile à l’Ofpra, le docteur Khouani s’est retrouvé à faire un acte qui l’énerve encore. « J’ai dû pratiquer un examen gynécologique sur une préado pour mesurer la quantité de ses lèvres qui avait survécu à son excision. Si tout était effectivement rasé, elles étaient déboutées, car il n’y avait plus rien à protéger. » Les deux femmes ont obtenu des titres de séjour. Abby travaille comme femme de ménage en maison de retraite. Aminata commence sa 5e, fait du basket et veut devenir médecin, comme le docteur Khouani.

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/09/18/le-viol-passage-presque-inevitable-de-la-migration-a-marseille-huit-femmes-r

    #VSS #violences_sexuelles #migrations #femmes #femmes_migrantes #témoignage #asile #réfugiés #viols #abus_sexuels #mariage_forcé #prostitution #néo-esclavage #esclavage_sexuels #traite_d'êtres_humains #chantage

  • #Racisme_anti-noirs dans le monde arabe : le difficile dévoilement d’un #tabou

    Le 1er juillet, #Fati_Dasso et sa fille Marie, respectivement âgées de 30 ans et de 6 ans, sont retrouvées mortes, la tête enfouie dans le sable à la frontière entre la Tunisie et la Libye. Comme des milliers de migrants venus de l’Afrique subsaharienne, elles ont été raflées, puis abandonnées dans le désert. Ce drame est survenu dans le cadre d’une campagne massive d’arrestation et d’expulsion de migrants menée par la Tunisie de Kaïs Saïed depuis le début de l’été. Interpellés et battus par les forces de police à Sfax, les migrants subsahariens sont relâchés dans le désert situé entre la Tunisie et la Libye où une morte lente et douloureuse les attend.

    L’épisode n’est malheureusement pas un fait divers isolé ni tout à fait nouveau dans la région. Le drame de cet été a focalisé l’attention sur la #Tunisie mais la question semble concerner tout le #Maghreb et même une bonne partie du monde arabe. Ainsi, en mars dernier, l’ONG Médecins sans frontières (MSF) dénonçait l’abandon de milliers de migrants subsahariens par l’Algérie à la frontière nigéro-algérienne dans des conditions « sans précédents ». En 2017 déjà, la chaîne américaine CNN révélait dans un documentaire l’existence de trafics de migrants subsahariens en Libye, non loin de la capitale Tripoli.

    Ces #violences envers les migrants s’accompagnent du déferlement d’une #parole_raciste à leur encontre, prononcée parfois jusqu’au sommet de l’Etat. Dans un discours récent, donné en février 2023, le président tunisien #Kaïs_Saïed a assimilé la présence migratoire à « une volonté de faire de la Tunisie seulement un pays d’Afrique et non pas un membre du monde arabe et islamique ». Mais ce #racisme ne concerne pas que les personnes exilées. Maha Abdelhamid, chercheuse associée au Centre arabe de recherches et d’études politiques de Paris (Carep) et cofondatrice du collectif Voix des femmes tunisiennes noires (VFTN), explique que « les #noirs sont une minorité dans les pays arabes et subissent chaque jour le racisme verbal, institutionnel, social et économique. Ils subissent un #rejet fort de leur part ». La faute, selon elle, à une #mémoire_historique encore trop peu documentée et à des #constructions_identitaires figées par le #nationalisme.

    « L’organisation économique est en partie héritière de la structure esclavagiste »

    Le maintien d’un système de #discrimination envers les personnes noires semble aller de pair avec une forme de gêne autour de la question de la #traite transsaharienne – qui concerne principalement, mais pas exclusivement des personnes d’origine subsaharienne – pratiquée du VIIe siècle jusqu’à la fin du XIXe siècle au Maghreb et au Moyen-Orient : « Parler de l’esclavage consiste à reconnaître que l’organisation économique actuelle est en partie héritière de la #structure_esclavagiste », argumente Shreya Parikh, doctorante en sociologie à Sciences-Po Paris qui travaille sur les processus de #racialisation en #Afrique_du_Nord. Elle prend ces femmes et ces hommes principalement noirs exploités dans le milieu travail agricole à #Sfax ou aux environs de #Tataouine.

    Sur le plan universitaire, des productions scientifiques autour de la #traite_arabe ont émergé ces dix dernières années, non sans difficultés. Salah Trabelsi, professeur des universités en histoire et civilisation du monde arabe et musulman à l’université de Lyon-2 évoque un colloque qu’il a coorganisé en 2009 à Tozeur et notamment consacré à l’esclavage dans le monde arabo-musulman : « Nous avons dû changer le titre en les “Interactions culturelles entre le Maghreb et l’Afrique subsaharienne” pour le faire financer », dit-il en souriant.

    A la fin de ce même colloque, aucun des intervenants – hormis l’auteur Edouard Glissant, l’historien Abdelhamid Larguèche et le professeur Trabelsi – n’ont accepté de signer une charte signalant une volonté de faire figurer l’#histoire de l’esclavage dans les #manuels_scolaires tunisiens. « L’histoire de l’esclavage n’apparaît pas dans les manuels scolaires. Dans le secondaire, il n’est pas encore possible d’aborder des faits historiques avec un positionnement critique. Ce déficit intellectuel est, en tous les cas, aggravé par un aveuglement politique et moral, reléguant les noirs au rang de citoyens de seconde zone », poursuit Salah Trabelsi.

    Les productions scientifiques ou littéraires – encore timides sur le sujet – doivent aussi faire face à des problèmes de diffusion : « Il existe un grand nombre de productions contemporaines, de romans notamment comme “l’Océan des Britanniques” [non traduit en français] de Fareed Ramadanparu à Beyrouth en 2018, qui parlent de ces questions. Bien sûr, cela touche un public restreint car tout le monde ne lit pas des romans ou des essais tirés de thèses universitaires », note M’hamed Oualdi, professeur des universités à Sciences-Po Paris et spécialiste de l’histoire du Maghreb.

    Cette éclosion difficile de la #mémoire de l’esclavage s’explique également par une vision apologétique de la traite arabe dont la #violence est minorée : « Pour se donner bonne conscience, certains vont parler “d’esclavage familial et intégrateur”, qui serait différent de la #traite_transatlantique. C’est un #déni d’histoire. Les sources nous apprennent que l’une des plus grandes révoltes de l’histoire de l’esclavage a eu lieu dans le sud de l’Irak au IXe siècle. Elle a duré un an et s’est soldée par la mort de 50 000 de personnes à deux millions de personnes. Elles travaillaient dans les marécages du sud de Bassora pour dégager le sel et revivifier les terres pour qu’elles deviennent des domaines pour l’aristocratie musulmane. On ne peut pas dire que ce n’est pas un esclavage de travail », rapporte Salah Trabelsi.

    Années 2010 : un tournant dans l’appréhension des inégalités sociales et raciales

    Par ailleurs, le tabou se maintient également par une pression religieuse : « Parlez de l’esclavage dans le monde arabe, on vous opposera l’islam, comme si l’esclavage était un fait religieux et non un phénomène social qui a perduré dans le monde arabe durant plus de quatorze siècles », explique Salah Trabelsi, avant de rappeler que la traite arabo-musulmane s’est principalement déroulée dans les régions du Moyen-Orient, de l’Afrique du Nord et de l’Afrique de l’Est. Evoquer l’esclavage qui s’est déroulé sur ces terres peut être perçu comme une remise en question du rôle de l’#islam en tant que rempart contre l’esclavage.

    Cette mémoire apparaît comme secondaire d’autant plus que les discours portant sur la nécessité de construire une #unité_arabe sont depuis les années 60 considérés comme indispensables afin de lutter contre la présence coloniale et forger une #identité politique et sociale fortes : « Les régimes nationalistes dans le monde arabe n’ont pas accepté et n’acceptent pas les divergences autour des questions identitaires car ces mêmes dissensions ont été utilisées par le régime colonial pour créer des oppositions par exemple entre arabophones et berbérophones. Depuis, toute division paraît dangereuse », explique M’hamed Ouldi. La #pensée_panarabe vient alors imposer l’idée d’une #identité_arabe forcément musulmane, invisible et imperméable à toutes reconnaissances d’une #altérité et de revendication identitaires.

    Bien qu’en marge du débat, le racisme anti-noirs n’est pourtant pas totalement ignoré. Les années 2010, grâce aux printemps arabes, ont constitué un tournant dans l’appréhension des inégalités sociales et raciales : « En Tunisie, certains ont vécu la révolution comme une opportunité pour rompre avec la #tunisianité – une identité homogène imposée par l’Etat qui n’avait laissé aucune place à ceux qui étaient minorisés », rapporte Shreya Parikh. En 2018, la Tunisie adoptait une loi inédite, la première dans le monde arabe, pénalisant la #discrimination_raciale. L’#Algérie adoptera en 2020 un dispositif législatif similaire.

    Depuis, les débats et les contestations sont principalement concentrés sur les réseaux sociaux et portés par une jeune génération : la #chasse_aux_migrants en Algérie où le meurtre en 2013 d’un Sénégalais au Maroc ont donné lieu à de vives indignations. En juin 2020, la vidéo de l’actrice et réalisatrice palestinienne noire Maryam Abou Khaled dénonçant les #discriminations_raciales dans la région, avait dépassé le million de vues.

    Au Maghreb, l’augmentation du nombre de #migrants_subsahariens ces dernières années semble avoir provoqué un effet ambivalent entre déferlement de la parole raciste – accusant les exilés d’accroître les difficultés économiques du pays – tout en permettant de lancer une discussion autour du racisme latent dans cette région du monde. Mehdi Alioua, professeur de sociologie à Sciences-Po Rabat, assume lui « une révolution épistémique » sur ces questions : « En Tunisie ou au Maroc, des débats télévisés portent sur le racisme. Dans le même temps, on constate également un backlash avec des discours réactionnaires, racistes et figés sur l’identité. C’est deux pas en avant et deux pas en arrière. »

    https://www.liberation.fr/idees-et-debats/racisme-anti-noirs-dans-le-monde-arabe-le-difficile-devoilement-dun-tabou

    #identité #esclavage

    ping @_kg_

  • #Rapatriement de migrants : le #Maroc et le #Sénégal se veulent exemplaires

    Ce mercredi 23 août, 325 Sénégalais renvoyés du Maroc rentrent dans leur pays d’origine. Alors que les réfugiés vivent de plus en plus de drames, Rabat et Dakar assurent que ce retour s’est opéré dans les meilleures conditions possibles.

    Après un périple d’une vingtaine d’heures en bus en provenance de Dakhla, dans le sud du Maroc, 325 migrants sénégalais arriveront à Rosso, ville du nord de leur pays d’origine, en ce matin du 23 août. Ces candidats au passage en Espagne ont été repêchés par la Marine royale marocaine au large des îles Canaries au début du mois d’août.

    Ce n’est pas la première opération de rapatriement de la saison. Le 27 juillet déjà, Annette Seck, ministre chargée des Sénégalais de l’extérieur, avait remercié le Maroc de lui avoir envoyé 400 de ses compatriotes et, le 10 août, 283 autres migrants avaient également fait le voyage. À chaque fois, ce retour n’a été possible qu’avec la #coopération des autorités locales. Le Sénégal n’est d’ailleurs pas le seul pays d’Afrique subsaharienne avec qui le Maroc collabore en la matière. En septembre et en octobre 2020, le #Mali et la #Guinée avaient participé à l’#identification de leurs ressortissants afin d’aider à leur rapatriement par voie aérienne.

    Depuis 2005, le royaume mène ce type de campagnes en coopération avec l’#Organisation_internationale_pour_les_migrations (#OIM). Différentes associations et ONG critiquent la manière dont procèdent les autorités marocaines, estimant qu’il s’agit d’#expulsions_arbitraires, qui ne respectent pas de cadre légal. En 2018 déjà, le ministre marocain des Affaires étrangères, Nasser Bourita, avait répondu à ces critiques : « Ce que vous appelez des “#éloignements” sont faits selon les normes. » Selon le gouvernement, la ligne est claire et constante : ces déplacements sont destinés à briser les circuits mafieux de #traite_d’êtres_humains cherchant à gagner l’Europe. « Les ambassades des pays africains sont impliquées dans le processus d’identification. »

    « #Cadre_légal »

    En 2018, des migrants déplacés d’une ville à l’autre car les « conditions de vie [y étaient] meilleures », selon les autorités locales, avaient fait l’objet de procédures de retour dans leur pays d’origine. Et ce, en lien avec les ambassades concernées et l’OIM. Le Conseil national des droits de l’Homme (CNDH) estimait alors que ces déplacements respectaient le « cadre légal », selon son président, Driss El Yazami, qui avait précisé que le CNDH s’assurait que les personnes vulnérables étaient protégées.

    En réponse, l’Association marocaine des droits humains (AMDH) avait dénoncé des #déplacements_forcés. Dans son rapport publié le 3 août dernier, cette dernière n’a pas changé de position et continue à pointer du doigt les mouvements forcés des migrants de la région du nord « vers des zones reculées à l’intérieur ou dans le sud du Maroc, ou encore vers la frontière maroco-algérienne ».

    Contacté par Jeune Afrique, Babou Sène, consul général du Sénégal à Dakhla, s’est montré plus précis sur la manière dont les opérations de rapatriement se déroulent : « Il s’agit d’un dispositif bien huilé. Les migrants qui ont besoin de soins sont transportés à l’hôpital, et leur prise en charge est assurée par le Maroc, tandis que le Sénégal paye les médicaments, les analyses nécessaires, et prend en charge l’alimentation des malades. Les autres [déplacés] sont accueillis dans un centre d’accueil et d’hébergement, en attendant de rentrer au pays. »

    Au préalable, les consulats respectifs des pays d’origine procèdent à l’identification des migrants. « Une fois cette étape terminée, j’alerte nos ambassadeurs à Rabat et à Nouakchott afin qu’ils informent les autorités marocaines de la présence de tel nombre de Sénégalais, et de la nécessité de prendre des dispositions pour leur gestion ici et leur retour au pays. » Le rapatriement peut également se faire par transport terrestre, et dans ce cas, une autorisation de transit est délivrée par le gouvernement mauritanien. Le consulat délivre les #sauf-conduits à l’ensemble des Sénégalais. La partie marocaine s’occupe du volet « transport » en mettant à disposition des bus jusqu’à #Rosso ainsi que d’autres villes du Sénégal.

    La route des Canaries est privilégiée

    Le consul tient à préciser que « tous les Sénégalais concernés par les récentes opérations de rapatriement ont été repêchés et secourus par la Marine royale marocaine, après s’être échoués au large des côtes africaines ». En effet, la traversée de l’océan vers les îles Canaries – une voie dangereuse, avec des courants forts – se termine souvent à Dakhla ou Laâyoune pour les migrants subsahariens.

    Face aux situations de plus en plus critiques dans lesquelles se retrouvent les réfugiés optant pour la Tunisie ou la Libye, la route des Canaries semble être privilégiée. Mi-avril, le Premier ministre espagnol, Pedro Sanchez, s’était félicité de la diminution du nombre de passages par les Canaries mais, fin juillet, Annette Seck a reconnu devant la presse sénégalaise la recrudescence du phénomène. « Selon les statistiques, en 2022, 404 compatriotes ont été rapatriés depuis Dakhla, avait-elle alors indiqué. Entre avril et juillet 2023, quinze pirogues ont été arraisonnées dans les eaux territoriales marocaines, avec 1535 personnes à leur bord, dont 1237 passagers d’origine sénégalaise. »

    Entre le 1er janvier 2021 et octobre 2022, 4 747 migrants parvenus dans le royaume sont rentrés dans leur pays d’origine via le programme de retour volontaire de l’OIM. En 2022, ils étaient 2 457, majoritairement ivoiriens, guinéens et sénégalais, selon l’organisation. Pour justifier leur décision, 61 % ont souligné qu’ils manquaient des ressources financières nécessaires pour rester au Maroc.

    https://www.jeuneafrique.com/1475165/politique/rapatriement-de-migrants-le-maroc-et-le-senegal-se-veulent-exemplaires

    #renvois #expulsions #IOM #migrations #asile #réfugiés

    ping @_kg_

  • "Le coup d’État fasciste en Allemagne" (24 mars 1933)

    Thèses du courant trotskyste majoritaire dans la prison de Verkhnéouralsk (publiées dans Le Bolchevik-léniniste n° 2, 1933)

    Un texte fondamental paru dans Les Cahiers de Verkhnéouralsk (Les bons caractères, pp. 163-206, 2021).

    https://les-passages.ghost.io/le-coup-detat1-fasciste-en-allemagne-le-bolchevik-leniniste-ndeg-

    1 – Le coup d’État contre-révolutionnaire qui a lieu en Allemagne, la contre-révolution de mars, est un événement de la plus haute importance historique… […]
    2 – La #crise_économique_mondiale a profondément ébranlé les fondements de la société capitaliste. Même un Léviathan impérialiste comme les États-Unis tressaille sous ses coups… […]
    3 – Les impérialismes français, britannique, américain n’avaient qu’un seul moyen de préserver l’équilibre interne de Weimar et de Versailles en Allemagne et en Europe : annuler ou reporter la dette de l’Allemagne et lui consentir de nouveaux crédits… […]
    4 – Ce qui créait les conditions d’une montée impétueuse du fascisme dans les esprits, c’était donc l’impasse économique dans laquelle la situation du capitalisme d’après-guerre avait conduit l’Allemagne, la crise économique profonde et le système de #Versailles, dans un contexte de faiblesse de l’avant-garde prolétarienne… […]
    5 – En fin de compte, la contre-révolution de mars signifie la liquidation des vestiges de la révolution du 9 novembre [1918] et du système de Weimar. Mais cela signifie-t-il aussi en même temps le retour au pouvoir des forces sociales et politiques qui gouvernaient l’Allemagne avant la révolution de Novembre, autrement dit une restauration au sens propre et concret ? […]
    6 – La victoire du fascisme allemand marque la fin de l’ère du pacifisme démocratique d’après-guerre et porte un coup dur, peut-être fatal, à la démocratie bourgeoise en tant que forme de domination bourgeoise la plus répandue dans les pays clés du capitalisme… […]
    7 – La contre-révolution de mars se fonde sur le croisement et l’imbrication des facteurs objectifs suivants… […]
    8 – Le fascisme allemand ne « s’implante » pas dans la #république_de_Weimar, il ne se dissout pas en elle, ne s’adapte pas « au cadre et aux formes de la #démocratie_bourgeoise », il les démolit et les envoie au rebut par un coup d’État réalisé en alliance avec les junkers du parti « national », que dirige le président de la République… […]
    9 – Les forces motrices de la contre-révolution de mars sont les cercles les plus réactionnaires et les plus chauvins du capitalisme monopoliste en Allemagne, de l’#impérialisme_allemand qui, à travers son parti fasciste, a transformé en un soutien social la petite bourgeoisie et les travailleurs déclassés… […]
    10 – Il est difficile de déterminer avec précision l’équilibre actuel des forces de classe en Allemagne. Le #coup_d’État est toujours en cours et le rapport des forces change donc d’heure en heure. Une chose est certaine : c’est une classe ouvrière désorientée et divisée qui, avant le coup d’État et depuis, s’est trouvée confrontée et continue de l’être au front uni et consolidé de la réaction… […]
    11 – La fin de l’Allemagne de #Weimar et l’effondrement de l’équilibre européen signifient la mort de la #social-démocratie allemande et le début de la fin pour le réformisme… […]
    12 – Au fil des ans, l’#opposition léniniste a observé avec inquiétude comment se développaient les événements en Allemagne, expliquant constamment l’ampleur qu’ils prenaient et leur très grande importance historique. Elle a constamment et sans relâche signalé quel danger, pour l’ensemble du #mouvement_ouvrier mondial, mûrissait en Allemagne sous la forme du fascisme… […]
    13 – La facilité avec laquelle la #contre-révolution a accompli son coup d’État, la bureaucratie de l’IC l’expliquera, demain bien sûr, par la « passivité » du prolétariat « qui n’a pas voulu accepter » le combat, et non par le fait que ni le Komintern ni la direction du #KPD (sans même parler de la IIe Internationale et du #SPD) n’ont aucunement préparé le prolétariat à résister, n’ont pas opposé de résistance au coup d’État et n’ont pas appelé la classe ouvrière à le faire…
    14 – Même nous, #bolcheviks-léninistes de Russie, avons sous-estimé toute la profondeur de la #dégénérescence de la direction du #Komintern et des partis communistes des principaux pays capitalistes… […]
    15 – La #bureaucratie_stalinienne a fait des avances à Hitler pendant trois ans, le considérant comme le futur maître de l’Allemagne. Par toutes ses actions et celles du Komintern, elle l’a aidé à aller au pouvoir. Elle a mis le pied de #Hitler à l’étrier, comme elle l’avait fait autrefois pour #Tchang_Kaï-chek… […]
    16 – La victoire du fascisme donne-t-elle un répit supplémentaire au capitalisme ? Bien que notre époque soit et reste celle des révolutions prolétariennes, bien que la victoire du fascisme exacerbe à l’extrême les contradictions de classes et interétatiques, la victoire de Hitler n’en renforce pas moins temporairement la domination politique de la bourgeoisie, repoussant quelque peu les dates de la révolution prolétarienne… […]
    17 – Comment, hors d’#Allemagne, y a-t-il le plus de chances que se réorganisent les forces résultant du coup d’État fasciste ?.. […]
    18 – Par ses trahisons en chaîne, le stalinisme a affaibli et désorganisé le prolétariat mondial, dont le soutien a préservé jusqu’à maintenant les vestiges du système d’Octobre… […]
    19 – La victoire du fascisme allemand non seulement ne signifie pas une stabilisation du capitalisme, mais elle porte au contraire toutes ses contradictions à un nouveau niveau, plus élevé… […]
    21 – Le #réformisme s’est épanoui sur la base de la démocratie bourgeoise. La crise de cette dernière a été une crise de la social-démocratie… […]
    22 – Le fascisme se renforce au pouvoir et devient de plus en plus fort d’heure en heure. La #terreur des gardes blancs a déjà commencé… […]
    23 – Le #fascisme est un méandre de l’histoire, une anicroche historique dans la progression générale de la #lutte_de_classe et de la #révolution_prolétarienne mondiale. Mais notre tâche n’est pas de rassurer les masses… […]

    #nazisme #stalinisme #trotskysme #trotskisme #trotsky #militants_trotskystes #isolateur #prison #Sibérie #Verkhnéouralsk #traité_de_versailles

  • Royaume-Uni : l’Église anglicane s’excuse pour ses liens passés avec l’#esclavage
    https://www.rfi.fr/fr/europe/20230111-royaume-uni-l-%C3%A9glise-anglicane-s-excuse-pour-ses-liens-pass%C3%A9s

    Le chef spirituel de l’Église anglicane s’est excusé, après la publication d’un rapport selon lequel « la dotation des Commissaires de l’#Église avait des liens historiques » avec la #traite_transatlantique des esclaves.

    À l’origine, les Commissaires de l’Église d’Angleterre était destiné à aider les membres du #clergé les plus pauvres. Or on apprend que ce fonds avait reçu des dons de la part de marchand d’esclaves, et investi des « montants importants » dans la South Sea Company, qui faisait le commerce des esclaves africains.

  • La naissance du racisme

    Pour LSD, Stéphane Bonnefoi questionne les #origines du racisme et la notion de #race, depuis l’antiquité jusqu’au XIXe siècle, au gré de quatre épisodes historiques.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/serie-la-naissance-du-racisme

    –—

    Les 4 épisodes :

    Épisode 1/4 : L’héritage grec en question

    #Aristote et l’esclave « par nature », #Hippocrate et sa #théorie_climatique… Les penseurs grecs ont souvent été convoqués pour justifier l’esclavage et l’infériorité de certains peuples, à l’époque moderne mais aussi plus tôt, au cours de la #traite_arabo-musulmane

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/lsd-la-serie-documentaire/l-heritage-grec-en-question-5278625

    Épisode 2/4 : L’#exclusion par la pureté de #sang

    Après avoir converti juifs et musulmans, les rois catholiques de la péninsule ibérique vont imposer aux « conversos » de nouveaux statuts, discriminatoires : La #pureté_de_sang (Limpieza de sangre).

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/lsd-la-serie-documentaire/l-exclusion-par-la-purete-de-sang-8270617

    Épisode 3/4 : Dans l’ombre des Lumières, la construction de la race

    En pleine expansion de la #traite transatlantique au XVIIIe siècle, la #racialisation de l’esclavage se met en place dans les colonies européennes aux Amériques. Une frontière se forme entre le « nègre » et le blanc...

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/lsd-la-serie-documentaire/dans-l-ombre-des-lumieres-la-construction-de-la-race-3173051

    Épisode 4/4 : La république des #zoos_humains

    Au XIXe et jusqu’au milieu du XXe siècle, les zoos humains vont mettre en scène l’infériorité des peuples colonisés, tant en Europe qu’au Japon ou aux Etats-Unis. Et permettre ainsi une large diffusion de ce que nous nommons, depuis le début du XXe siècle, le racisme.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/lsd-la-serie-documentaire/la-republique-des-zoos-humains-2354253

    #podcast #racisme #esclavage #Antiquité #histoire #Lumières #colonisation #colonialisme #domination #taxonomie #préjugés #système_de_domination #égalité #esclavage_colonial #couleur_de_peau #statut_social #esclavage_moderne #héritage #mythe

    ping @_kg_ @cede

  • Canada Now Willing to Punish Crimes Committed on the Moon
    https://gizmodo.com/canada-crimes-committed-on-the-moon-1848859299

    More than 50 years ago, Apollo astronauts left 96 bags of their own waste on the surface of the Moon. But they didn’t exactly fear getting hit with a fine for littering, as space—the Moon included—has been a largely lawless region. Canadian law makers are hoping to change that.

    Canada amended its criminal code on Thursday to allow for the prosecution of crimes committed by Canadian astronauts during trips to the Moon or on the lunar surface itself. Foreign astronauts who threaten the life or security of a Canadian astronaut can also be punished by Canadian law, according to broadcaster CBC.

    Canada’s criminal code had already included crimes committed by its astronauts aboard the International Space Station as punishable by law. But the recent amendment now accounts for the Canadian Space Agency’s participation in the upcoming Artemis program, through which NASA intends on sending people back to the Moon’s surface later this decade, and possibly as early as 2025.

    The Artemis 2 mission, in which a crewed Orion capsule will travel to the Moon and back without landing, will include a Canadian astronaut. Canada is also contributing a robotic arm to the Lunar Gateway, a planned outpost in orbit around the Moon. The European Space Agency, as well as Japan’s Aerospace Exploration Agency, are also taking part in the Artemis program.

    As these international collaborations take shape in the midst of an evolving industry, it has become more crucial to reconsider the laws currently in place when it comes to governing space. As it stands, space is loosely governed by the Outer Space Treaty of 1967, which was penned in light of the space race between the U.S. and the Soviet Union. The treaty hasn’t been updated since, and article six of the Outer Space Treaty states that nations will supervise the activities of their citizens in space.

    #Espace #Communs #Loi #Traité_espace

  • Au #col_du_Portillon, entre la #France et l’#Espagne, la #frontière de l’absurde

    L’ordre est tombé d’en haut. Fin 2020, Emmanuel Macron annonce la fermeture d’une quinzaine de points de passage entre la France et l’Espagne. Du jour au lendemain, le quotidien des habitants des #Pyrénées est bouleversé.

    C’est une histoire minuscule. Un #col_routier fermé aux confins des Pyrénées françaises des mois durant sans que personne n’y comprenne rien. Ni les Français ni les Espagnols des villages alentour, pas même les élus et les forces de l’ordre chargés de faire respecter cette fermeture. L’histoire de cette « mauvaise décision », qui a compliqué la vie de milliers de personnes pendant treize mois, débute à l’automne 2020.

    Les journaux gardent en mémoire la visite d’Emmanuel Macron au Perthus, le poste-frontière des Pyrénées-Orientales, département devenu depuis quelques années la voie privilégiée des migrants venus du Maroc, d’Algérie et d’Afrique subsaharienne. Sous un grand soleil, inhabituel un 5 novembre, le président de la République, un masque noir sur le visage, avait alors annoncé une fermeture temporaire des frontières françaises d’une ampleur jamais connue depuis la création de l’espace Schengen, en 1985 : une quinzaine de points de passage, situés tout le long des 650 kilomètres de frontière entre la France et l’Espagne, seraient désormais barrés.

    L’objectif officiel, selon les autorités, étant « d’intensifier très fortement les contrôles aux frontières » pour « lutter contre la menace terroriste, la lutte contre les trafics et la contrebande (drogue, cigarettes, alcools…) mais aussi contre l’immigration clandestine ». Aux préfets concernés de s’organiser. Ils ont eu deux mois.

    Une mesure « ubuesque »

    6 janvier 2021. Loin du Perthus, à quelque 300 kilomètres de là, il est 20 heures lorsque les premières automobiles sont refoulées au col du Portillon, l’un des points de passage concernés par cette mesure. Ce jour-là, il n’y a pourtant pas plus de neige que d’habitude. La frontière est fermée jusqu’à nouvel ordre, annoncent les gendarmes. Lutte contre le terrorisme. Les refoulés sont dubitatifs. Et inquiets. La dernière fois qu’on les a rembarrés comme ça, c’était au lendemain de l’attaque de Charlie Hebdo, quand, comme partout, les contrôles aux frontières avaient été renforcés. Ça aurait recommencé ? A la radio et à la télévision, on ne parle pourtant que de l’assaut du Capitole, à Washington, par des centaines de trumpistes survoltés, pas d’une attaque en France.

    « Ça n’a l’air de rien, mais, deux fois cinquante minutes au lieu de deux fois quinze minutes, ça vous change une journée. » Michel, retraité

    Comme il n’existe pas trente-six manières de matérialiser une frontière, Etienne Guyot, le préfet de la région Occitanie et de la Haute-Garonne, a fait installer de gros plots en béton armé et autant d’agents de la police aux frontières (PAF) en travers de cette route qui permet de relier Bagnères-de-Luchon à la ville espagnole de Bossòst, située dans le val d’Aran. Au bout de quelques jours, parce que les plots étaient trop espacés, les agents ont fait ajouter des tas de gravier et de terre pour éviter le passage des motos et des vélos. Mais les deux-roues ont aimé gravir les petits cailloux. De gros rochers sont donc venus compléter l’installation.

    Ce chantier à 1 280 mètres d’altitude, au milieu d’une route perdue des Pyrénées, n’a pas intéressé grand monde. Quelques entrefilets dans la presse locale – et encore, relégués dans les dernières pages – pour un non-événement dans un endroit qui ne dit rien à personne, sauf aux mordus du Tour de France (magnifique victoire de Raymond Poulidor au Portillon en 1964) et aux habitants du coin.

    Cette décision – l’une de celles qui se traduisent dans les enquêtes d’opinion par une défiance vis-à-vis des dirigeants – a été vécue comme « ubuesque », « injuste », « imposée par des Parisiens qui ne connaissent pas le terrain ». Elle a achevé d’excéder une région déjà énervée par un confinement jugé excessif en milieu rural et, avant cela, par une taxe carbone mal vécue dans un territoire où la voiture est indispensable.

    « Le carburant ça finit par chiffrer »

    Si la fermeture du col n’a engendré aucune conséquence tragique, elle a sérieusement entamé des activités sociales et économiques déjà fragilisées après le Covid-19. Prenez Michel, retraité paisible à Bagnères-de-Luchon, habitué à faire ses courses trois fois par semaine à Bossòst, côté espagnol. Un petit quart d’heure sépare les deux villes si l’on emprunte le col du Portillon, avec une distance d’à peine 17 kilomètres. Mais, depuis janvier 2021, il faut faire le tour et franchir le pont du Roi. Soit un détour de 42 kilomètres. « Ça n’a l’air de rien, concède le septuagénaire. Mais, deux fois cinquante minutes au lieu de deux fois quinze minutes, ça vous change une journée. Et le carburant, ça finit par chiffrer. »

    Dans ce coin, le Pays Comminges, qui s’étend depuis les coteaux de Gascogne jusqu’à la frontière espagnole, la frontière n’existait pas. « Pas dans les têtes, en tout cas », assure Pierre Médevielle. Bien que le sénateur indépendant de la Haute-Garonne boive de l’eau plate à l’heure du déjeuner, il correspond en tout point à l’idée que l’on se fait d’un élu de la Ve République du siècle dernier. Il donne rendez-vous dans un restaurant qui sert du canard, il a 62 ans, un look gentleman-farmer de circonstance (un week-end en circonscription), une passion pour la chasse et la pêche, une fidélité de longue date pour les partis centristes et une connaissance encyclopédique de l’histoire de sa région.

    Le Comminges, c’est plus de 77 000 habitants, une densité de 36 habitants au kilomètre carré, un déclin démographique inquiétant, une vallée difficile à développer, un accès routier complexe… Une véritable petite diagonale du vide dans le Sud-Ouest. « Juste après le Covid, la fermeture du Portillon a été vécue comme une sanction, explique le sénateur. Elle a bouleversé le quotidien de nombreux frontaliers. »

    Des questions laissées sans réponse

    Les Aranais vont et viennent dans les hôpitaux et les cabinets médicaux de Toulouse et de Saint-Gaudens – un accord de coopération sanitaire lie les deux pays –, et leurs enfants sont parfois scolarisés dans les écoles et le collège de Luchon. Les Français considèrent, eux, le val d’Aran comme un grand supermarché low cost planté au milieu d’une nature superbe. Ils achètent, à Bossòst – des alcools, des cigarettes et des produits bon marché conditionnés dans d’immenses contenants (céréales, pâte à tartiner, shampoing, jus d’orange…). Le samedi matin, les Espagnols, eux, se fournissent en fromage et en chocolat côté français, dans le gigantesque Leclerc d’Estancarbon. D’un côté comme de l’autre, on parle l’occitan, qu’on appelle gascon en France et aranais en Espagne.

    Pierre Médevielle a fait comme il a pu. Il a posé des questions dans l’Hémicycle. Il a adressé des courriers au ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin. Il a beaucoup discuté avec celui qui est alors le secrétaire d’Etat chargé de la ruralité, Joël Giraud, et avec son homologue espagnol, Francés Boya Alós, chargé du défi démographique (l’autre nom de la ruralité). Ils ont tous trois fait état des pétitions citoyennes et des motions votées par les élus des communes concernées, suppliant Gérald Darmanin de revenir sur une décision « incompréhensible ».

    Eric Azemar, le maire de Bagnères-de-Luchon, estime, lui, les conséquences « catastrophiques » pour sa ville, notamment pour la station thermale, déjà éprouvée par la pandémie : « De 11 000 curistes, nous sommes passés à 3 000 en 2020 et à peine à 5 000 en 2021. » Il a appris la fermeture de la frontière le matin même du 6 janvier 2021. En recevant l’arrêté préfectoral. « Point. » Point ? « Point. » En treize mois, aucun de ces élus n’est parvenu à arracher un courriel ou la moindre invitation à une petite réunion de crise à la préfecture. Rien. Le silence.

    Contourner l’obstacle

    « Le mépris », déplore Patrice Armengol, le Français sur qui cette décision a le plus pesé. Il vit à Bagnères-de-Luchon et travaille exactement au niveau du Portillon mais côté espagnol. A 2 kilomètres près, il n’était pas concerné par cette affaire, mais, voilà, son parc animalier, l’Aran Park – km 6 puerto del Portillón –, est, comme son nom et son adresse l’indiquent, installé dans le val d’Aran. Val d’Aran, Catalogne, Espagne. Il a cru devenir fou, il est devenu obsessionnel. « Leur barrage était mal fichu mais aussi illégal, commente-t-il. Là, vous voyez, le panneau ? Le barrage était à 1 kilomètre de la frontière française. »

    C’est exact. Appuyé contre son 4 × 4, il fait défiler les photos du barrage, prises au fil des mois. Lui est allé travailler tous les jours en franchissant le col : il roulait en voiture jusqu’au barrage, déchargeait les kilos de viande et de fruits secs périmés achetés pour ses bêtes dans les supermarchés français, franchissait le barrage à pied et chargeait le tout dans une autre voiture garée de l’autre côté des plots. Le soir, il laissait une voiture côté espagnol et repartait dans celle qui l’attendait côté français. « Ils m’ont laissé faire, heureusement », dit-il.

    Il a trouvé héroïques les habitants qui, autour du col de Banyuls, dans les Pyrénées-Orientales, ont régulièrement déplacé les blocs de pierre avec toujours le même message : « Les Albères ne sont pas une frontière. » Le geste ne manquait pas de panache, mais lui-même ne s’y serait pas risqué : « Une violation des frontières, c’est grave. Je n’avais pas envie d’aller en prison pour ça. » Patrice Armengol s’est donc contenté de limiter les dégâts. S’il a perdu près d’un tiers de ses visiteurs, il a pu maintenir le salaire de ses trois employés espagnols à plein temps.

    La fin du calvaire mais pas du mystère

    Gemma Segura, 32 ans, s’occupe des visites scolaires dans le parc et, pour défendre l’ouverture du col, elle a rejoint l’association des commerçants de Bossòst, où elle vit. Fille d’un boucher à la retraite et d’une enseignante d’aranais, elle est née à Saint-Gaudens comme beaucoup de frontaliers espagnols. « Je suis toujours allée chez le médecin à Saint-Gaudens et mes grands-mères consultent des cardiologues français. Nos banques sont françaises. Nos familles vivent des deux côtés de la frontière. Et, quand je jouais au foot, je participais à la Coupe du Comminges, en France. »

    « Les gens s’interrogent et on ne sait pas quoi répondre. On applique les décisions prises en haut. » Un agent chargé de surveiller la zone

    Après des études de sciences de l’environnement à Barcelone, elle a préféré revenir ici, dans ce coin, certes un peu enclavé, mais si beau. Certains parlent aujourd’hui de quitter Bossòst, leurs commerces ayant été vides pendant des mois. Mais le « miracle » s’est enfin produit le 1er février 2022, et, cette fois, l’information a fait la « une » de La Dépêche du Midi : « Le col du Portillon est enfin ouvert. »

    De nouveau, personne n’a compris. La possibilité d’une ouverture avait été rejetée par le premier ministre Jean Castex lui-même à peine un mois plus tôt lors d’un déplacement à Madrid. Perplexité du maire de Bagnères-de-Luchon : « Pourquoi maintenant ? Il y a sans doute une raison logique, le ministre ne fait pas ça pour s’amuser. » Même les agents chargés de surveiller la zone sont surpris : « Pourquoi avoir fermé ? C’était mystérieux, mais on l’a fait. Et, maintenant, on ouvre, mais on doit intensifier les contrôles. Les gens s’interrogent et on ne sait pas quoi répondre. On applique les décisions prises en haut. »

    « En haut », au ministère de l’intérieur et à la préfecture, on est peu disert sur le sujet. Le service de presse de la préfecture nous a envoyé, sans empressement, ces explications parcimonieuses : « Depuis quelques mois, la police aux frontières a constaté une recrudescence de passeurs au cours de différentes opérations menées sur les points de passage autorisés. (…) Les dispositifs de contrôle sur la frontière ont permis de nombreuses interpellations de passeurs (quatorze en 2021 et un en 2022). »

    Une voie migratoire sous surveillance

    Ces chiffres sont autant d’histoires qui atterrissent sur le bureau du procureur de Saint-Gaudens, Christophe Amunzateguy. Le tribunal, comme les rues de la ville, est désert ce 31 janvier. Il est 18 heures et Christophe Amunzateguy, qui assure la permanence, est parfaitement seul. Comme tout le monde ici, les décisions de la préfecture le prennent de court. On ne l’informe de rien, jamais. Il pointe du doigt le journal ouvert sur son bureau. « Je l’apprends par La Dépêche. La préfecture ne m’en a pas informé. »

    Il parle de l’ouverture du col du Portillon. Il lit à voix haute que le préfet promet des renforts. « Eh bien, très bonne nouvelle, mais, s’il y a des renforts, il y aura une multiplication des interpellations et, s’il y a des interpellations, c’est pour qui ? Pour moi. » Dans cette juridiction, l’une des plus petites de France, ils ne sont que deux procureurs et six magistrats du siège. Après avoir connu les parquets turbulents de Nancy et de Lille – il a suivi l’affaire du Carlton –, Christophe Amunzateguy se sent « dépaysé » dans ce « bout du monde ». « C’est une expérience, résume-t-il. Ici, on fait tout, tout seul. »

    « C’est ça, aussi, l’histoire du Comminges, une communauté de destins d’un côté et de l’autre de la frontière » Jacques Simon

    C’est au mois de septembre 2021, soit neuf mois après la fermeture du col du Portillon, que la « vague » d’arrivée de migrants s’est amplifiée. La police de l’air et des frontières l’a alerté à la mi-août : des clandestins arriveraient par le point de passage du pont du Roi. Ce mois-là, les interpellations se sont succédé : quatorze d’un coup.

    Sur les quatre derniers mois de 2021, neuf passeurs algériens ont été condamnés à des peines de prison ferme en Haute-Garonne. Et seize passeurs ont été jugés à Saint-Gaudens en 2021. Le profil ? « Des personnes de nationalité algérienne, explique le procureur. Par pur opportunisme, elles prennent en charge des personnes en situation irrégulière et leur font passer la frontière contre 200 à 600 euros, dans leur voiture ou dans une voiture de location. »

    Une délinquance d’opportunité

    Au début de l’année 2022, ça a recommencé. Le 4 janvier, à 10 h 40, alors qu’ils contrôlaient une Golf à Melles – la routine –, les agents de la PAF ont aperçu un Scénic tenter une manœuvre de demi-tour avant que quatre passagers n’en descendent précipitamment et se mettent à courir. Tentative désespérée et totalement vaine : tous ont été arrêtés en un rien de temps. Le chauffeur de la Golf a été embarqué aussitôt que les agents se sont aperçus qu’il était le propriétaire officiel du Scénic. Tous ont été conduits au tribunal de Saint-Gaudens, où le procureur a pu reconstituer leur parcours.

    Arrivés d’Algérie quelques jours plus tôt, les trois passagers à l’arrière du Scénic tentaient de gagner Toulouse. Un premier passeur, payé 200 euros, les a d’abord conduits à Alicante où le chauffeur de la Golf les a contactés par téléphone. Chargé de les conduire à la gare de Toulouse contre 200 euros par personne, il a roulé toute la nuit avant de crever. Un de ses « amis » est venu de France (en Scénic) pour réparer la voiture et les « aider » à poursuivre le voyage, qui s’est donc terminé à Melles.

    Concernant les conducteurs du Scénic et de la Golf, la conclusion est la même que pour l’écrasante majorité des dossiers de 2021 : « Ils sont en free-lance. » Dans le vocabulaire de la justice, ça s’appelle de la « délinquance d’opportunité ». Les passeurs n’appartiennent pas à des réseaux ; ils arrondissent leurs fins de mois.

    Les passeurs du 4 janvier ont été condamnés à quatre et six mois d’emprisonnement et incarcérés à la maison d’arrêt de Seysses (Haute-Garonne). L’un des deux a écopé de cinq ans d’interdiction du territoire français et leurs deux véhicules ont été saisis. Le procureur assume cet usage de la « manière forte » : garde à vue systématique, comparution immédiate, saisie des véhicules (« ils sont sans valeur, ce sont des poubelles »), confiscation du numéraire trouvé sur les passeurs (« je ne prends pas l’argent sur les personnes transportées »). Il précise ne pas en faire une question de politique migratoire mais prendre au sérieux la question de la traite des êtres humains : « On ne se fait pas d’argent sur le malheur des autres. »

    La frontière, terre de fantasme

    Christophe Amunzateguy se souvient du 19 janvier 2021. Il était dans son bureau, seul comme d’habitude, quand il a reçu un coup de fil de la gendarmerie lui signalant qu’une bande d’activistes habillés en bleu et circulant à bord de trois pick-up a déroulé une banderole sur une zone EDF située dans le col du Portillon. Sur les réseaux sociaux, il apprend qu’il s’agit de militants de Génération identitaire, un mouvement d’ultra-droite, tout à fait au courant, eux, contrairement au reste du pays, que le col du Portillon a été bloqué.

    Le procureur découvre, quelques jours plus tard, une vidéo de l’opération commentée par Thaïs d’Escufon, la porte-parole du groupuscule, affirmant qu’il est « scandaleux qu’un migrant puisse traverser la frontière ». Elle a été condamnée au mois de septembre 2021 à deux mois d’emprisonnement avec sursis pour les « injures publiques » proférées dans cette vidéo.

    Que la frontière soit depuis toujours un espace naturel de trafics et de contrebande n’est un secret pour personne. Pourquoi fermer maintenant ? En vérité, explique le procureur, c’est du côté des Pyrénées-Orientales qu’il faut chercher la réponse. En 2021, 13 000 personnes venues du Maghreb et d’Afrique subsaharienne ont été interpellées au sud de Perpignan, à Cerbère. Un chiffre « record » qui a entraîné l’intensification des contrôles. Les passeurs ont donc choisi d’emprunter des voies moins surveillées. Le bouche-à-oreille a fait du point de passage du pont du Roi une entrée possible.

    Le procureur est formel : le phénomène est contenu. Quant au fantasme des migrants qui franchissent les montagnes à pied, cela lui paraît improbable. L’hiver, c’est impraticable ; aux beaux jours, il faut être un alpiniste chevronné et bien connaître le coin. Un peu plus loin, du côté du Pas de la Case, deux passeurs de tabac sont morts en montagne : l’un, algérien, de froid, en 2018, et l’autre, camerounais, après une chute, en 2020.

    La route de la liberté

    Ces chemins, désormais surveillés et fermés, ont longtemps été synonymes de liberté. C’est par là qu’ont fui les milliers de réfugiés espagnols lors de la Retirada, en 1939, après la guerre civile. Par là aussi que, dans l’autre sens, beaucoup ont pu échapper aux nazis au début des années 1940. La mémoire de cette histoire est ravivée par ceux qui l’ont vécue et par leurs descendants qui se regroupent en associations depuis une vingtaine d’années.

    « Sur cette chaîne pyrénéenne, on évalue à 39 000 personnes les personnes qui fuyaient le nazisme », explique Jacques Simon, fondateur et président des Chemins de la liberté par le Comminges et le val d’Aran, créée en mars 2018. Son grand projet est de labelliser la nationale 125, depuis le rond-point de la Croix-du-Bazert, à Gourdan-Polignan, jusqu’au pont du Roi, pour en faire une « route de la liberté » comme il existe une route des vins, une route de la ligne Maginot et une Voie sacrée.

    L’un des récits de traversée que raconte souvent Jacques Simon est celui qui concerne seize compagnons partis clandestinement de la gare de Saléchan la nuit du 25 octobre 1943. En pleine montée du pic du Burat, les passeurs se perdent et les trois femmes du groupe, dont une enfant, peinent. « Leurs chaussures n’étaient pas adaptées et elles portaient des bas en rayonne. C’est une matière qui brûle au contact de la neige, explique Jacques Simon, qui a recueilli les souvenirs des derniers témoins. Elles ont fini pieds nus. » Le groupe est arrivé en Espagne et tous ont survécu.

    « On ne sera jamais riches, mais on a du temps. Pour être en famille, pour retaper notre baraque, pour faire des conserves. » Philippe Petriccione

    Parmi eux, Paul Mifsud, 97 ans, l’un des deux résistants commingeois toujours en vie. Le second, Jean Baqué, 101 ans, avait 19 ans quand il s’est engagé dans la Résistance. Arrêté par la milice en novembre 1943, il parvient à s’échapper des sous-sols de l’hôtel Family, le siège de la Gestapo à Tarbes. Dans sa fuite, il prend une balle dans les reins, ce qui ne l’empêche pas d’enfourcher un vélo pour se réfugier chez un républicain espagnol. « Il m’a caché dans le grenier à foin et a fait venir un docteur. »

    En décembre 2021, Jean Baqué est retourné sur les lieux, à Vic-en-Bigorre. Il est tombé sur le propriétaire actuel, qui lui a raconté que l’Espagnol, Louis Otin, avait été fusillé en 1944 par la milice. « Je ne l’avais jamais su. » Jean Baqué a organisé quelques jours plus tard une cérémonie en sa mémoire dans le bois de Caixon, là où l’homme a été assassiné. « C’est ça, aussi, l’histoire du Comminges, une communauté de destins d’un côté et de l’autre de la frontière », résume Jacques Simon.

    L’ivresse des sommets

    Ces chemins, Philippe Petriccione les connaît comme sa poche et il accepte de nous guider. A l’approche du col du Portillon, en apercevant depuis son 4 × 4 quatre agents de la PAF occupés à contrôler des véhicules, le guide de haute montagne raconte un souvenir qui date du lendemain de l’attentat contre Charlie Hebdo, en janvier 2015. C’était ici même : « Les Mossos d’Esquadra [la force de police de la communauté autonome de Catalogne] ont débarqué. Ils ne sont pas toujours très tendres. Ils ont toqué à la vitre de ma bagnole avec le canon de leur fusil. J’avais envie de leur dire : “C’est bon, moi, je vais faire du ski, les gars.” »

    Le 4 × 4 s’engage sur un chemin. Les stalactites le long des rochers enchantent les passagers, le gel sous les roues, moins. Philippe arrête la voiture. « On y va à pied. » En réalité, « on y va » à raquettes. Après quelques kilomètres, la vue spectaculaire lui redonne le sourire. C’est pour cela qu’il est venu vivre à la montagne. Né à Paris dans le 18e arrondissement, il a vécu ici et là avant de s’installer il y a une dizaine d’années à Luchon avec sa femme et leurs enfants. « On ne sera jamais riches, mais on a du temps. Pour être en famille, pour retaper notre baraque, pour faire des conserves. »

    On se tient face à un vallon enneigé dont les pentes raides dévalent dans un cirque de verdure. Le guide tend le bras vers le côté gauche. Il montre une brèche recouverte de glace : le port de Vénasque, à 2 444 mètres d’altitude (« col » se dit « port » dans les Pyrénées) : « Il est devenu célèbre sous Napoléon, qui a eu une idée de stratège. Il s’est dit : “Je vais faire passer mon armée par là.” Il a tracé un chemin pour passer avec les chevaux et les canons. » On distingue la limite géographique appelée le carrefour des Trois-Provinces. A gauche, la Catalogne. A droite, l’Aragon et, face à nous, la Haute-Garonne. Il y a huit ports, soit autant de passages possibles pour traverser le massif. « L’histoire dit que 5 000 personnes sont passées en quarante-huit heures en avril 1938… »

    Philippe connaît par cœur cet épisode, puisqu’il a l’habitude de le raconter aux touristes et aux collégiens qui viennent parfois depuis Toulouse découvrir « en vrai » ces chemins. Il fait comme aujourd’hui. Il tend le bras et montre au loin les pentes raides de ce paysage de la Maladeta et la vue sur l’Aneto, le plus haut sommet du massif. Un rectangle sombre perce l’étendue blanche. En approchant, on distingue une borne en béton, « F356E » : c’est la frontière. F pour France, E pour Espagne. Ces bornes, il y en a 602 tout le long de la frontière. Le tracé, qui date de la fin du XIXe siècle, part de la borne numéro 1, sur les bords de la Bidassoa, et va jusqu’au pied du cap Cerbère, en Méditerranée, explique le guide. Allongé sur la neige, il répète qu’ici c’est une montagne particulière. « Il n’y a jamais personne. »

    https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2022/04/29/au-col-du-portillon-entre-la-france-et-l-espagne-la-frontiere-de-l-absurde_6

    #montagne #frontières #fermeture #points_de_passage #contrôles_frontaliers #terrorisme #lutte_contre_le_terrorisme #Bagnères-de-Luchon #Bossòst #val_d'Aran #plots #PAF #gravier #terre #rochers #Pays_Comminges #gascon #aranais #migrations #asile #réfugiés #pont_du_Roi #délinquance_d’opportunité #passeurs #politique_migratoire #traite_d'êtres_humains #génération_identitaire #Thaïs_d’Escufon #Cerbère #parcours_migratoires #routes_migratoires #Pas_de_la_Case #histoire

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  • L’#Espagne et le #Maroc renouvellent leur #coopération en matière de #sécurité en liant #crime_organisé et immigration « irrégulière »

    L’accord de coopération en matière de sécurité et de lutte contre la criminalité, élaboré entre les deux pays en février 2019, entrera en vigueur le 30 avril 2022

    Nouvelle étape dans les relations bilatérales maroco-espagnoles sur le dos des exilé.e.s

    Cet accord, basé sur le #Traité_d’amitié, de #bon_voisinage et de coopération entre le Royaume d’Espagne et le Royaume du Maroc, signé à Rabat le 4 juillet 1991, représente une nouvelle étape dans les relations bilatérales entre les deux pays.

    Après des mois de brouille sur fond de crise diplomatique, [1] les deux pays renouent en renforçant leurs politiques de #sécurisation_des_frontières, dans la lignée des politiques migratoires européennes, qui criminalisent chaque fois davantage le processus migratoire. L’Espagne quant à elle continue d’externaliser sa frontière Sud en étroite collaboration avec son voisin marocain, consolidant ainsi un espace de violation des droits.

    Ce n’est pas la première fois que l’immigration dite irrégulière est associée à la criminalité organisée. L’effet d’aubaine des attentats dans le monde de ces dernières années (2001, 2015, 2016) a permis de légitimer le renforcement de la #lutte_contre_le_terrorisme et la criminalité transfrontalière, et de l’associer aux contrôles aux frontières extérieures de l’UE.

    Un accord à la formulation ambigüe et peu précise

    L’article 1.2 est particulièrement inquiétant, car il assimile les "#actions_criminelles" (point f) à la "traite des êtres humains et à l’#immigration_irrégulière", sans préciser que le séjour irrégulier ne peut valoir, dans les pays européens, une sanction pénale [2].

    De plus, à la différence de la traite des êtres humains [3], la migration ne constitue pas un crime et ces deux notions ne devraient pas être associées dans le texte. Par ailleurs, le fait que le rôle des trafiquants ou de groupes organisés qui tirent profit de la migration « irrégulière » ou qui la favorisent ne soit pas clarifié ouvre la voie à différentes interprétations biaisées, ne permettant pas de garantir le respect des droits humains aux frontières.
    Tout aussi préoccupant est l’article 2 (point a) en ce qu’il intègre l’identification et la recherche des personnes disparues dans un processus de lutte contre la criminalité, alors même que ces dernières ne devraient être mentionnées que dans des conventions de sauvetage.

    Migreurop et Euromed Droits dénoncent le contenu de l’accord entre l’Espagne et le Maroc sur la coopération en matière de sécurité et de lutte contre la criminalité qui ancre les migrations dans une logique sécuritaire, ne pouvant qu’engendrer d’énièmes violations des droits aux frontières.

    https://migreurop.org/article3099.html?lang_article=fr

    #migrations #asile #réfugiés #frontières #contrôles_frontaliers #accord #accord_bilatéral #externalisation_des_frontières

  • Exterminez toutes ces brutes (1/4). La troublante conviction de l’ignorance

    Dans une puissante méditation en images, Raoul Peck montre comment, du génocide des Indiens d’Amérique à la Shoah, l’impérialisme, le colonialisme et le suprémacisme blanc constituent un impensé toujours agissant dans l’histoire de l’Occident.

    « Civilisation, colonisation, extermination » : trois mots qui, selon Raoul Peck, « résument toute l’histoire de l’humanité ». Celui-ci revient sur l’origine coloniale des États-Unis d’Amérique pour montrer comment la notion inventée de race s’est institutionnalisée, puis incarnée dans la volonté nazie d’exterminer les Juifs d’Europe. Le même esprit prédateur et meurtrier a présidé au pillage de ce que l’on nommera un temps « tiers-monde ».

    Déshumanisation
    Avec ce voyage non chronologique dans le temps, raconté par sa propre voix, à laquelle il mêle celles des trois auteurs amis qui l’ont inspiré (l’Américaine Roxanne Dunbar-Ortiz, le Suédois Sven Lindqvist et Michel-Rolph Trouillot, haïtien comme lui), Raoul Peck revisite de manière radicale l’histoire de l’Occident à l’aune du suprémacisme blanc. Tissant avec une grande liberté de bouleversantes archives photo et vidéo avec ses propres images familiales, des extraits de sa filmographie mais aussi des séquences de fiction (incarnées notamment par l’acteur américain Josh Hartnett) ou encore d’animation, il fait apparaître un fil rouge occulté de prédation, de massacre et de racisme dont il analyse la récurrence, l’opposant aux valeurs humanistes et démocratiques dont l’Europe et les États-Unis se réclament. « Exterminez toutes ces brutes », phrase prononcée par un personnage du récit de Joseph Conrad Au cœur des ténèbres, et que Sven Lindqvist a choisie comme titre d’un essai, résume selon Raoul Peck ce qui relie dans un même mouvement historique l’esclavage, le génocide des Indiens d’Amérique, le colonialisme et la Shoah : déshumaniser l’autre pour le déposséder et l’anéantir. De l’Europe à l’Amérique, de l’Asie à l’Afrique, du XVIe siècle aux tribuns xénophobes de notre présent, il déconstruit ainsi la fabrication et les silences d’une histoire écrite par les vainqueurs pour confronter chacun de nous aux impensés de sa propre vision du passé.

    https://www.arte.tv/fr/videos/095727-001-A/exterminez-toutes-ces-brutes-1-4

    #film #documentaire #film_documentaire #peuples_autochtones #récit #contre-récit #récit_historique #histoire #Séminoles #extrême_droite #suprémacisme_blanc #racisme #Grand_Remplacement #invasion #colonialisme #puissance_coloniale #extermination #Tsenacommacah #confédération_Powhatan #Eglise #inquisition #pureté_du_sang #sang #esclavage #génocide #colonialisme_de_peuplement #violence #terre #caoutchouc #pillage

    –-> déjà signalé plusieurs fois sur seenthis (notamment ici : https://seenthis.net/messages/945988), je remets ici avec des mots-clé en plus

  • https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/300122/trente-ans-apres-une-exposition-pionniere-nantes-revisite-son-passe-negrie

    Trente ans après une exposition pionnière, Nantes revisite son passé négrier

    Dans l’enceinte du château des ducs de Bretagne, une exposition didactique apporte de nouveaux éclairages sur les collections de la ville, premier port négrier de France. En replaçant l’essor de la traite nantaise dans le temps long, et à l’échelle de non pas trois, mais quatre continents.

    Ludovic Lamant, 30 janvier 2022

    Nantes (Loire-Atlantique).– Les deux tableaux, acquis par le musée d’histoire de la ville de Nantes en 2015, forment un diptyque. Dans un intérieur cossu, les époux Deurbroucq exhibent leur fortune dans une pose figée, chacun flanqué d’un domestique noir.

    « L’Abîme », exposition consacrée à la traite négrière visible jusqu’en juin au château des ducs de Bretagne, ne s’intéresse pas tant à l’histoire des deux époux. Leur biographie est bien documentée, et depuis longtemps : lui, d’origine flamande, a pris part à sa première campagne de traite en 1734 ; elle appartient à une famille de commerçants allemands qui exportent vers l’Europe du Nord des produits venus des colonies.

    Le mystère qui émane de ce double portait réalisé en 1753 provient des deux figures de l’arrière-plan, deux domestiques noirs. La jeune femme, en particulier, dont on perçoit le collier d’esclave, serti de quelques pierres précieuses, a le regard perdu, impossible à saisir.

    Dans la ville de Nantes, 4 712 personnes réduites à l’esclavage ont été déclarées entre 1692 et 1792. Elles étaient sans doute bien plus nombreuses à travailler, selon des statuts variés, dans ce qui était alors le premier port négrier de France.

    Les travaux préalables à l’exposition n’ont pas permis d’établir l’identité précise de cette servante. Mais la salle où les toiles sont présentées contient une dizaine de biographies de ces esclaves nantais, dont le nom, celui que leur avaient imposé leurs maîtres, a été retrouvé.

    « Même si son identité n’est pas encore connue, cette femme témoigne, par sa présence, des conditions de vie de ces gens-là. C’est une manière de renverser nos collections : prendre l’objet et le regarder là où il n’était pas prévu, à l’origine, que le regard se porte », avance Krystel Gualdé, directrice scientifique du musée d’histoire de Nantes et responsable de cette exposition, aussi didactique que recommandée en ces temps politiques agités.

    À la fois aux habitué·es du musée nantais, qui reconnaîtront des pièces emblématiques exposées sous un nouvel angle, et aux néophytes qui découvriront, cartes animées et archives à l’appui, l’une des boucles les plus sinistres de l’histoire française qui continue de hanter le pays aujourd’hui.

    Avec « L’Abîme », Nantes poursuit un travail ancien d’exploration de son passé de port négrier. Une manifestation pionnière, « Les Anneaux de la mémoire », avait déjà été montée entre les murs du château dès 1992. Le musée lui-même avait rouvert en 2007, consacrant plusieurs de ses salles permanentes au commerce d’esclaves et à l’enrichissement de la ville au XVIIIe siècle grâce à la traite. En 2012 enfin, Nantes a inauguré un mémorial de l’abolition, posé sur les quais de Loire, une première en France parmi les anciens ports négriers.

    Nantes fut le premier port négrier français avec 43 % des navires de la traite partis depuis la France.

    Ce chantier mémoriel est le résultat de l’activisme d’associations locales dès les années 1980, d’un personnel politique plutôt bien disposé sur ces questions, à commencer par l’ancien premier ministre socialiste Jean-Marc Ayrault, qui fut longtemps maire de la ville (1989-2012), mais aussi d’une donation qui a considérablement enrichi les collections publiques nantaises : celle du musée des Salorges.

    Celle-ci a été constituée au début du XXe siècle par deux frères qui avaient fait fortune dans l’industrie de la conserve. Ils rassemblèrent des pièces qui appartenaient directement aux descendants des grandes familles d’armateurs nantais et qui arrivèrent au « château » en 1955.

    Nantes fut le premier port négrier français avec 43 % des navires de la traite partis depuis la France (1,3 million d’esclaves déportés à l’initiative des ports français, sur un total estimé entre 13 et 17 millions de personnes). L’exposition inscrit le phénomène dans un temps long, de l’exploration des côtes africaines par les Occidentaux dès le XVe siècle (une série de sublimes gravures de 1686 documente l’approche des côtes africaines par la mer, depuis les navires européens) jusqu’à 2022 (avec une réflexion, bienvenue mais un peu attendue, sur la persistance de certaines formes d’esclavage comme de préjugés racistes).

    Mais elle prend pour référence un laps de temps relativement bref pour la traite nantaise en tant que telle, la faisant débuter en 1707 avec l’échec de l’expédition de L’Hercule (et même si la première expédition organisée depuis Nantes, répertoriée par les historiens, remonte à 1657, sous l’impulsion des frères Libault).

    Si la « vocation négrière » de Nantes est plutôt tardive, comparée à celle d’autres ports d’Europe, tout bascule en 1733, lorsque Lorient obtient le monopole des ventes de la Compagnie des Indes orientales : le port nantais décide alors de se spécialiser dans la traite.

    Un commerce « quadrangulaire, avec l’Asie »

    À celles et ceux qui redoutent parfois qu’il n’y ait rien à voir, au-delà d’insipides carnets de comptes de navires négriers, dans une exposition sur la traite, l’exposition nantaise apporte un cinglant démenti : elle regorge d’objets étranges et ambigus, dont les experts n’ont parfois pas encore déterminé la fonction exacte (même si l’on n’y trouve pas d’objets ayant appartenu à des esclaves, prouesse qu’avait réalisée l’exposition sur l’esclavage qui s’est tenue l’été 2020 à Amsterdam).

    On se contentera d’évoquer ici en vrac un énigmatique anneau de traite en ivoire qui pourrait avoir été offert par un capitaine de navire négrier venu de Liverpool à un intermédiaire africain, en remerciement de sa loyauté, un effroyable coffre renfermant les instruments de chirurgiens de la marine embarqués à bord des navires (dont des outils pour marquer la peau des captifs et captives du sceau de leur propriétaire), ou encore un éventail célébrant la première abolition, celle de 1794, reproduisant les paroles d’une chanson engagée de l’époque, La Liberté des nègres.

    D’autres objets exposés – les cauris, ces coquillages venus des îles Maldives (récemment popularisés par Beyoncé), ou encore ces tissus à motifs importés du continent indien (puis réalisés depuis Nantes, prenant le nom d’« indiennes ») – illustrent l’importance jouée par l’Asie dans la traite : « Nous avons voulu montrer qu’il s’agit bien d’un commerce non pas triangulaire [entre l’Europe, l’Afrique et les Amériques – ndlr] mais quadrangulaire, avec l’Asie, d’où l’on faisait venir des monnaies d’échange contre les esclaves », explique Krystel Gualdé.

    Pour le reste, les habitué·es du musée nantais ne seront pas dépaysé·es. À l’exception de trois prêts, l’exposition s’est construite uniquement sur les collections municipales (dont une bonne partie, tout de même, provient des réserves, peu montrées jusqu’alors, à quoi s’ajoutent quelques acquisitions récentes).

    On retrouve une édition de l’incontournable Code noir (qui fixe la condition de l’homme noir réduit en esclavage, pour le dire vite, entre l’homme libre et le bien meuble), ou encore les deux aquarelles de la Marie-Séraphique, qui ont fait la réputation internationale des collections nantaises. La Marie-Séraphique, ce navire négrier parti de Nantes, qui réalisa quatre expéditions de 1769 à 1774, déporta environ 1 300 personnes vers Saint-Domingue, l’actuel Haïti.

    Petit événement, l’exposition révèle pour la première fois l’existence d’une autre aquarelle, détenue par un collectionneur privé, malheureusement pas prêtée mais reproduite en toute fin de catalogue : on y voit deux images, l’une montrant des esclaves mangeant sur le pont de la Marie-Séraphique dans d’énormes gamelles, l’autre une scène de ventes d’hommes en terres africaines.

    Comme c’est déjà le cas dans les collections permanentes du musée, l’exposition prend un soin infini à dresser l’inventaire des grandes familles nantaises qui firent fortune dans la traite, des premiers explorateurs aux armateurs. Sur une carte qui répertorie les plantations agricoles d’une région de Saint-Domingue, le cartel va jusqu’à préciser les deux terrains qui appartenaient à des Nantais…

    À ce jeu-là, on signale une lettre stupéfiante, datée de 1819 : un armateur de la région y explique qu’il compte bien poursuivre ses activités dans l’illégalité, malgré l’abolition de 1794, et se félicite même des perspectives de bénéfices supérieurs… L’écriture de cet armateur en train de commettre un crime contre l’humanité est fine, régulière et glaçante.

    Fidèles à ce souci d’actualiser les connaissances comme les manières de raconter cette histoire indicible, Krystel Gualdé et ses équipes ont aussi fait le choix d’utiliser majoritairement l’expression de « personnes mises en esclavage » plutôt que d’« esclaves », à l’instar des musées anglo-saxons qui parlent d’« enslaved people » plutôt que de « slaves », dans le but de ne pas réduire la personne au seul statut d’esclave, qu’elle n’a jamais désiré.

    Un parti pris que les musées français qui évoquent la traite sont encore loin d’avoir tous adopté : « Pourquoi s’interdire de réinterroger ces mots ?, se justifie Krystel Gualdé. Il est nécessaire de construire une vision commune sur cette histoire, d’ouvrir d’autres possibles. Et cela ne pourra pas se faire en s’accrochant, tout seul, à tel ou tel terme. »

    Si Nantes, avec cette nouvelle exposition, continue à faire sa part, ce chantier reste encore ouvert dans de nombreuses autres villes françaises, de Marseille à Bayonne, de La Rochelle à Bordeaux. « L’Abîme » prouve en tout cas, une nouvelle fois, l’urgence d’ouvrir un musée national consacré, tout ou en partie, à la traite négrière organisée depuis la France.

    Sur ce sujet, Jean-Marc Ayrault, désormais à la tête de la Fondation pour la mémoire de l’esclavage, s’était montré prudent sur le calendrier, dans un entretien à Mediapart en 2020 : « Je suis convaincu qu’à terme, la France se dotera d’un lieu où l’on ne parlera pas que de la traite et de l’esclavage, mais aussi de la période coloniale, et du travail forcé : tout cela forme un tout. » Le fait que le ministère de la culture n’ait pas jugé bon de reconnaître « d’intérêt national » cette exposition nantaise sur la traite n’invite pas à l’optimisme.

    L’exposition est visible à Nantes jusqu’au 19 juin 2022. Les informations pratiques sont ici. Un catalogue rédigé par Krystel Gualdé a été publié (éditions du musée d’histoire de Nantes, 29,95 euros).

    Ludovic Lamant

    #Mémoiresclavage #misenesclavage #muséepostcol

  • Musée d’art et d’histoire de #Neuchâtel
    –-> Recherches passé colonial

    Dans un souci d’intégrer les acquis de la recherche et de stimuler la réflexion face aux enjeux contemporains liés au #passé_colonial de la Suisse, le #MahN entend mettre à disposition du public des sources et des indications bibliographiques sur l’implication de Neuchâtelois dans la #traite_négrière et l’#esclavage.

    https://www.mahn.ch/fr/expositions/recherches-passe-colonial-1

    –-

    #Séminaire UNINE sur la statue de #David_de_Pury, 7 décembre 2020

    https://www.youtube.com/watch?v=JhSZz3pbIHU


    #de_Pury #monument #mémoire #statue


    –-

    #mémoire de bachelor :
    Déboulonner David de Pury. Une analyse des revendications et des résistances autour du retrait d’un #monument sur la #Place_Pury

    https://www.mahn.ch/fileadmin/mahn/EXPOSITIONS/EXPOSITIONS_ACTUELLES/Recherches_passe_colonial/TEXTES/MemoireMasterUNiNEDaviddePury2021.pdf

    #Suisse #histoire #histoire_coloniale #décolonial

    –-

    ajouté à la métaliste sur le #colonialisme_suisse :
    https://seenthis.net/messages/868109

    • En tête-à-tête avec David de Pury

      Inaugurées hier à Neuchâtel, des œuvres d’art contemporain sont censées porter ombrage à David de Pury. La Ville a choisi cette option plutôt que celle du déboulonnage.

      On dirait à première vue un nain de jardin coulé dans du béton par le collectif chaux-de-fonnier Plonk & Replonk. Mais à y regarder de plus près, c’est bien l’ancien bienfaiteur de Neuchâtel David de Pury, dont la fortune a été érigée au XVIIIe siècle grâce au commerce triangulaire, qui a été légèrement renversé de son piédestal. Du moins symboliquement.

      L’artiste genevois et afro-descendant #Mathias_Pfund a en effet irrévérencieusement bétonné un modèle miniature de cette statue, qu’il a ensuite renversée à 180 degrés pour les besoins d’un art critique et éclairant sur le passé. Choisie par le jury, son œuvre présentée hier à Neuchâtel est cependant nettement moins imposante que l’originale. Elle va pourtant tenter bientôt de dialoguer avec l’auguste statue qui trône sur la place du même nom depuis 1855. Baptisée A scratch on the nose (Une éraflure sur le nez), sa sculpture a été vernie hier par les autorités municipales sur le Péristyle de l’Hôtel de Ville dans le cadre de la semaine d’actions contre le racisme à Neuchâtel. Là aussi tout un symbole.

      Contenter les pétitionnaires

      Par ce type d’actions, l’exécutif veut entretenir son tête-à-tête avec David de Pury en livrant des contrepoids qu’il juge pertinents pour que l’histoire encombrante de la ville continue d’être questionnée. Un geste aussi à l’adresse d’une partie des pétitionnaires qui, au cours de l’été 2020, ont demandé que l’on déboulonne la statue du commerçant dans le sillage d’autres opérations de ce genre menées à travers le monde. Mais au lieu de céder au tabula rasa, la Ville de Neuchâtel a finalement choisi l’option des #marques_mémorielles.

      L’œuvre conçue par Mathias Pfund a été choisie par un jury cornaqué par Pap Ndiaye, lui-même à la tête du Palais de la Porte-Dorée à Paris, qui comprend le Musée d’histoire de l’immigration version française. Il a été secondé dans ses choix par Martin Jakob du Centre d’art de Neuchâtel (CAN), Faysal Mah du Collectif pour la mémoire, Noémie Michel, maître-assistante en science politique à l’université de Genève, Alina Mnatsakanian, coprésidente de Visarte Neuchâtel, et la photographe Namsa Leuba. Trois membres de l’art officiel ont également eu leur mot à dire : l’urbaniste municipal, Fabien Coquillat, le codirecteur du Musée d’ethnographie de Neuchâtel Grégoire Mayor et la conservatrice du département des arts plastiques au Musée d’art et d’histoire, Antonia Nessi.
      Coups de boutoir nécessaires

      Membre du mouvement Solidarités Neuchâtel, François Chédel voit dans cette mise en perspective « un premier pas ainsi qu’une solution pour l’heure satisfaisante ». Du moins en phase avec les réflexions qui entourent le sort de cette statue depuis près de deux ans. Une chose est sûre, l’exécutif n’entend ni rebaptiser la place ni déplacer l’icône du négociant.

      En revanche, l’espace sera revue de fond en comble. Ce qui devrait permettre sans doute aux œuvres sélectionnées, quatre au total, dont celle de Mathias Pfund et celle de l’artiste neuchâtelois #Nathan_Solioz (Ignis fatuus) qui fera appel cet hiver aux âmes des esclaves, de perdurer. « La durée de leur exposition devant la statue est étroitement liée à la question du réaménagement de la place Pury. On peut donc parler de plusieurs années d’exposition, sans être plus précis pour l’instant », ont indiqué au Courrier les autorités municipales.

      Pour François Chédel, les noms qui parsèment l’espace public continuent cependant de nous interroger, à Neuchâtel aussi, sur « nos réalités patriarcales, colonialistes, voire racistes ». Il relève aussi que les actions didactiques menées par la Ville n’auraient sans doute pas été possibles « sans les changements radicaux » exigés voici maintenant près de deux ans par son mouvement ainsi que par d’autres dans la foulée des manifestations Black Lives Matter. Il faut « questionner notre histoire et sa résonance dans l’espace public au travers de nouveaux #récits », a résumé pour sa part récemment le Service cantonal de la cohésion multiculturelle en présentant la Semaine contre le racisme.

      https://lecourrier.ch/2022/03/21/en-tete-a-tete-avec-david-de-pury

    • Place Pury : un hommage raté ?

      Suite à l’inauguration de l’œuvre autour de la statue de Pury, des voix dénoncent une « imposture » et pointent du doigt un hommage aux victimes de l’esclavage « au rabais ».

      La semaine dernière, Neuchâtel inaugurait une oeuvre Great in the Concrete (notre édition du 28 octobre) et une plaque explicative autour de la statue de David de Pury, un négociant qui avait fait fortune avec l’esclavage et légué sa fortune à la ville. Le monument a été au cœur de houleux débats lors du mouvement « Black Lives Matter ». Une pétition demandait en 2020 son retrait (notre édition du 26 juillet 2020).

      Suite à cette polémique, la Ville a lancé une série de mesures pour faire la lumière sur son passé colonial, dont la plaque et l’œuvre.

      Si ces deux initiatives sont présentées par les autorités comme un « #acte_de_mémoire » et un « #hommage » envers les personnes exploitées par le riche baron, le secrétaire général du Carrefour de réflexion et d’action contre le racisme anti-Noirs (CRAN), Kayana Mutombo, se dit très déçu. Il y voit même une #humiliation.

      « Le résultat de ce processus est tout simplement une #imposture », dénonce le politologue. Il déplore les #dimensions de #Great_in_the_Concrete. Il s’agit d’une version #miniature de la statue du bienfaiteur renversée, tête écrasée dans le sol. Le politologue n’était pourtant pas en faveur d’un déboulonnement.

      « J’ai participé aux rencontres initiales, nous avions proposé la création d’un monument bis qui établisse un dialogue entre le monument et les descendants des victimes de l’esclavage. Le résultat est au final une discussion entre de Pury et de Pury. Les voix des victimes et de leurs descendant·es n’y sont pas intégrées. »

      Nommer les victimes de l’esclavage

      Cet ancien chargé du Programme de lutte contre le racisme et la discrimination à l’UNESCO estime que la mémoire des victimes est ainsi minimisée. « Nous avions souligné l’importance de la #proportionnalité entre la statue originale et la nouvelle dans le cadre d’un devoir de mémoire. On rend hommage aux descendant·es aujourd’hui, comme on récompensait les esclaves avec une miche de pain ! »

      Il regrette également que les mots « Noir·es et Afrique » ne figurent pas sur la plaque explicative. « Il faut avoir étudié l’histoire pour comprendre les termes de #commerce_triangulaire et #colonisation. Ne pas nommer les #victimes est l’une des stratégies du racisme anti-Noir·es », déplore Kanyana Mutombo.

      Le collectif pour la mémoire à l’origine de la pétition est plus nuancé. Il estime que « ces mesures ne sont pas suffisantes ni satisfaisantes mais guident sur la voie à emprunter ». Il avance que la Ville de Neuchâtel a pris au sérieux sa demande constituant un groupe de réflexion et en produisant un contenu pédagogique, à défaut d’enlever la statue. Il regrette cependant que le Secrétaire général du CRAN n’ait pas été inclus dans la suite de la réflexion.

      Des moyens dérisoires ?

      D’autres voix déplorent le manque de moyens engagés pour la Ville. Ousmane Dia, artiste plasticien suisse et sénégalais, très enthousiasmé dans le projet a vu ses ardeurs freinées, lorsqu’il a appris que le budget alloué était de 20 000 à 25 000 francs.

      « En tant qu’artiste plasticien afro-descendant, je ne pouvais pas ne pas concourir. Mon projet s’appelle #Dialoguons, il s’agit d’une œuvre monumentale constituée de personnages en acier placés tout autour de de Pury pour l’interpeller. J’ai glissé une lettre dans mon dossier qui mentionne que rien que pour fabriquer l’objet coûte 63 000 francs et que leur budget n’était pas suffisant. »

      Au total, une enveloppe de 66 000 francs a été investie dans le cadre de cet appel à projets artistiques. Quatre projets ont été retenus mais seuls deux verront le jour. Les deux autres n’étaient techniquement pas réalisables. Le projet de #Nathan_Solioz_Ignis_Fatuus, (feu folet), une évocation en lumière des âmes des esclaves morts lors de la traversée forcée de l’Atlantique, sera réalisée au printemps prochain.

      Thomas Facchinetti, conseiller communal en charge de la culture, de l’intégration, de la cohésion sociale et responsable du dossier, précise que le vernissage des deux œuvres primées n’est pas l’unique réponse aux demandes des pétitionnaires.

      « La Ville a pris toute une liste de mesures. Un #parcours_pédagogique sur le passé colonial de la Ville est en cours d’élaboration, une exposition au Musée d’art et d’Histoire aborde ces sujets et des recherches historiques vont être réalisées. Il s’agit d’un engagement très conséquent. »

      Il rappelle que le monument réalisé par le sculpteur #David_d’Angers avait été financé à l’époque par de riches notables, alors que l’initiative actuelle se fait aux frais des contribuables.

      De Pury à Dakar

      Aujourd’hui, #Ousmane_Dia, le candidat déçu se dit surtout choqué par la #taille de l’oeuvre vernie. « J’ai beau retourner le sujet dans tous les sens je n’y vois qu’une interprétation : la statuette nous dit qu’on a tenté de renverser et d’enfoncer de Pury, mais la grande statue répond qu’il s’est relevé encore plus grand.

      Pour Martin Jakob, artiste et curateur au CAN Centre d’art Neuchâtel, membre du jury, le caractère non monumental de l’oeuvre retenue fait tout son sens. « Aucun travail artistique ne permet de panser toutes les plaies. Aujourd’hui, il n’est plus question de réaliser de statues comme à l’époque. D’ailleurs, quel que soit leur taille, ces œuvres d’art finissent par intégrer notre environnement quotidien et s’effacer de notre regard. l’important, c’est le débat qu’elles suscitent. »

      Le collectif pour la mémoire se dit « ravi » par la mise en place de Great in the concrete mais espère qu’un budget pourra être alloué pour concrétiser le projet de Ousmane Dia. « Malgré le fait que la statue soit toujours là et qu’il y aurait encore beaucoup à questionner sur l’acharnement à défendre ce personnage nous souhaitons plutôt se concentrer sur la mémoire de milliers de personnes réduites en esclavage. »

      La saga de Pury n’en est pas à son épilogue. A l’horizon 2028-2029, la place devrait être entièrement requalifiée, la statue pourrait être déplacée et son nom pourrait même être modifié. « Il s’agit d’un projet de plusieurs millions de francs.

      Avec l’enveloppe du pour-cent culturel, un concours artistique sera réalisé, son budget sera bien plus conséquent et permettra d’ériger une œuvre pérenne plus conséquente », précise Thomas Facchinetti. Quant à Ousmane Dia, il envisage de réaliser son projet à Dakar, en reproduisant une statue de David de Pury pour y intégrer son projet Dialoguons.

      https://lecourrier.ch/2022/10/30/place-pury-un-hommage-rate

    • La statue, l’esclavagiste et le #contre-monument contestés

      Fin décembre 2022, à Neuchâtel, une récente installation d’art contemporain, conçue comme réponse à la statue de l’esclavagiste David de Pury contestée en 2020 par des militants se revendiquant de « Black Lives Matter », a été à son tour maculée de peinture. Ce dispositif didactique et conceptuel déployé dans l’espace public, qui compte parmi les premiers adoptés en Europe pour réparer symboliquement les mémoires citoyennes blessées, est un contre-monument ironique, temporaire et anti-monumental.

      https://aoc.media/analyse/2023/02/07/la-statue-lesclavagiste-et-le-contre-monument-contestes

      et sur seenthis : https://seenthis.net/messages/989775

  • Derrière le débat sur le « wokisme », les trois mutations du racisme : biologique, culturel, systémique

    Après avoir postulé, depuis l’esclavage, l’inégalité des races, le racisme insiste, après 1945, sur l’impossible coexistence culturelle. Plus controversée est la notion, apparue dans les années 2000, de racisme « structurel ».

    C’est un mystérieux néologisme qui désigne un ennemi aussi terrifiant qu’insaisissable : le « wokisme », ce mouvement venu des Etats-Unis, suscite depuis des mois des croisades enflammées. Pour le ministre de l’éducation nationale, Jean-Michel Blanquer, ce mot renvoie à une idéologie obscurantiste qui, en imposant une police de la pensée digne de George Orwell, ouvre la voie au totalitarisme. Le réquisitoire est sans doute un peu exagéré : le wokisme n’est ni un corpus idéologique structuré ni un courant de pensée homogène, mais, plus modestement, une attitude consistant à être attentif (« awake ») aux injustices subies par les minorités.

    Si l’expression apparaît dans l’argot afro-américain dans les années 1960, si elle est présente, en 1965, dans un discours prononcé par Martin Luther King (1929-1968), si elle est aujourd’hui revendiquée par le mouvement américain Black Lives Matter, elle reste très largement méconnue des Français : selon un sondage IFOP réalisé en février 2021, 86 % d’entre eux n’ont jamais entendu parler de la « pensée woke » et 94 % ignorent ce qu’elle signifie. En France, le wokisme est « un épouvantail plus qu’une réalité sociale ou idéologique » , résume l’historien Pap Ndiaye, directeur général du Palais de la Porte Dorée (l’établissement public qui comprend le Musée national de l’histoirede l’immigration et l’Aquarium tropical de Paris).

    Les controverses françaises sur le « wokisme » ont beau reposer sur des à-peu-près et des chimères, elles ont cependant un mérite : démontrer que le mot « racisme » ne veut pas dire la même chose pour tout le monde. Pour les militants « woke », la statue d’un ardent défenseur de l’esclavage ou le « blackface » festif d’un homme blanc signent la survivance subtile mais réelle d’une hiérarchie raciale héritée de la traite négrière et de la colonisation. Pour leurs adversaires, cet exercice scrupuleux de vigilance antiraciste mène tout droit à la tyrannie des minorités, voire à un « racisme inversé .

    XVIe siècle : la racialisation du monde

    Si le racisme des uns ressemble si peu au racisme des autres, c’est parce que ce mot affiche une simplicité trompeuse et ce depuis sa naissance, à la fin du XIXe siècle. Popularisé en 1892 sous la plume du pamphlétaire antisémite Gaston Méry, le terme « racisme » désigne, dans le roman Jean Révolte, non pas une condamnable hiérarchie entre les hommes, mais une enviable « patrie naturelle fondée sur la communauté d’origine », souligne l’historien Grégoire Kauffmann. Pour le héros, qui « refuse d’admettre qu’un Juif ou qu’un nègre puisse devenir son concitoyen », le racisme est une forme élevée et respectable de patriotisme. Si l’origine du mot « racisme » est ambiguë, son sens l’est tout autant. « Ce terme est polysémique » , prévient Abdellali Hajjat, auteur des Frontières de l’ « identité nationale » (La Découverte, 2012). « Il est hautement problématique », renchérit l’historien des idées Pierre-André Taguieff dans son Dictionnaire historique et critique du racisme (PUF, 2013) . Parce que le racisme se nourrit des préjugés de son époque, parce qu’il épouse la circulation des hommes et des idées, parce qu’il s’adapte à l’état de la science, il se conjugue toujours au pluriel.

    Depuis le XVIIIe siècle, le racisme français a ainsi, selon Pierre-André Taguieff, affiché deux visages : le racisme « biologique et inégalitaire » de l’esclavage et de la colonisation, qui postulait l’existence d’une hiérarchie irréductible entre les races, et le « néoracisme différentialiste et culturel » de l’après-guerre, qui fait de certaines communautés, non pas des races inférieures, mais des groupes inassimilables. Depuis les années 2000, beaucoup y ajoutent un troisième : le racisme « systémique » engendré, jour après jour, par le fonctionnement routinier et discriminatoire des institutions.

    En déportant 12,5 millions d’Africains vers les Amériques, l’esclavage atlantique inaugure, au XVIe siècle, l’ère de la racialisation du monde, et façonne du même coup la matrice du racisme biologique et inégalitaire qui survivra, en France, jusqu’à la seconde guerre mondiale. Avec la traite négrière, la « race » devient le pilier d’un ordre social fondé sur des traits phénotypiques comme la couleur de la peau. « Aux XVIIe et XVIIIe siècles, les Européens théorisent l’infériorité supposée de certains peuples, souligne Pap Ndiaye. L’esclavage n’invente pas les préjugés sur les Noirs mais il les structure dans une pensée systémique de la hiérarchie raciale qui légitime la chosification des êtres humains. »

    Pendant que les naturalistes du XVIIIe siècle répertorient méthodiquement les plantes et les animaux, les savants classent les races humaines en leur attribuant des carac téristiques physiques, intellectuelles et morales immuables. Dans la hiérarchie culturelle de la perception du beau et du sublime élaborée par Kant (1724-1804), les Germains, les Anglais et les Français figurent au sommet : relégués en bas de l’échelle, les Noirs doivent se contenter du « goût des sornettes . « L’humanité atteint la plus grande perfection dans la race des Blancs, écrit Kant. Les Indiens jaunes ont déjà moins de talent. Les Nègres sont situés bien plus bas. »

    A la fin du XVIIIe siècle, l’obsession de la hiérarchie raciale est telle que le colon créole Moreau de Saint-Méry, député de la Martinique à l’Assemblée constituante et grand défenseur de l’esclavage, élabore une classification méticuleuse des hommes en fonction de leur couleur de peau. S’il estime que les Blancs incarnent l’ « aristocratie de l’épiderme » , il recense 128 combinaisons de métissage noir-blanc qu’il regroupe dans neuf catégories soigneusement hiérarchisées : le sacatra, le griffe, le marabout, le mulâtre, le quarteron, le métis, le mamelouk, le quarteronné et le sang-mêlé... Cette racialisation du monde aurait pu s’effacer après l’abolition de l’esclavage, en 1848, mais la colonisation, qui voit la France conquérir l’Algérie, en 1830, puis l’Indochine et une partie de l’Afrique, perpétue les hiérarchies raciales construites pendant la traite négrière. Sous la IIIe République, les préjugés sur la supériorité biologique des Blancs sont encore très vivants : c’est en vain, affirme Pierre Larousse dans le Grand Dictionnaire universel du XIXe siècle (1872), que « quelques philanthropes ont essayé de prouver que l’espèce nègre est aussi intelligente que l’espèce blanche .

    La Caution scientifique

    Parce que la colonisation est justifiée, au XIXe siècle, par la « mission civilisatrice » de la France, la pensée raciale, cependant, se transforme. « A la hiérarchie biologique de la traite négrière s’ajoute, au XIXe siècle, une hiérarchie culturelle des civilisations, explique le sociologue Abdellali Hajjat, chargé de cours à l’Université libre de Bruxelles . Parmi les " indigènes " , la IIIe République distingue l’Arabe musulman, fourbe mais civilisé, du bon sauvage noir, proche de l’animal. Aux yeux des colonisateurs, le monde musulman, qui a une histoire commune avec l’Europe, est une civilisation, même si elle est menaçante, alors que le monde subsaharien est situé, lui, hors de la civilisation. »

    Dans un siècle marqué par les fulgurants progrès de la science, cette « raciologie républicaine », selon le mot de l’historienne Carole Reynaud-Paligot, se nourrit de discours savants. Les anthropologues comparent les anatomies, jaugent les boîtes crâniennes, mesurent les angles faciaux. « Au XIXe siècle, la pensée raciale se pare d’une caution scientifique, poursuit Abdellali Hajjat. Les nouvelles disciplines comme l’anthropologie, l’ethnologie ou la philologie élaborent des discours qui justifient l’inégalité des races. Les savoirs, dans toute leur diversité, consolident et légitiment la pensée raciale de la IIIe République. »

    A la fin du XIXe siècle, l’anthropologie physique devient ainsi l’un des viviers du racisme « scientifique . Dans le Dictionnaire encyclopédique des sciences médicales, Paul Broca, fondateur, en 1859, de la Société d’anthropologie de Paris, distingue ainsi les races « éminemment perfectibles, qui ont eu le privilège d’enfanter de grandes civilisations », de celles qui ont « résisté à toutes les tentatives qu’on a pu faire pour les arracher à la vie sauvage » . « Jamais un peuple à la peau noire, aux cheveux laineux et au visage prognathe, n’a pu s’élever spontanément jusqu’à la civilisation » , écrit-il.

    Pendant la IIIe République, cette hiérarchie des races et des civilisations est profondément ancrée dans les esprits, y compris dans ceux des Républicains. « Il faut dire ouvertement, affirme Jules Ferry en 1885, que les races supérieures ont un droit sur les races inférieures » , celui de les « civiliser » . Pendant que les écoliers apprennent dans Le Tour de la France par deux enfants (1877) que la « race » blanche est la « plus parfaite » de toutes, leurs parents découvrent, dans les « villages nègres » des expositions universelles, des Africains parqués comme des animaux qui tressent des nattes et cisèlent des bracelets.

    Il faut attendre le début du XXe siècle pour que ce racisme biologique et inégalitaire commence à vaciller. Le déclin s’amorce avec l’affaire Dreyfus (entre 1894 et 1906), qui voit naître les premiers mouvements de défense de l’universalité du genre humain. Mais le coup de grâce intervient au lendemain de la seconde guerre mondiale. « La Shoah disqualifie définitivement le racisme, analyse l’historien Emmanuel Debono. A la Libération, le premier geste de l’Organisation des Nations unies et de l’Unesco [sa branche consacrée à l’éducation], tout juste créées, est de condamner le racisme chimiquement pur qu’est le nazisme. L’antiracisme s’impose, pour la première fois de l’histoire, comme une norme internationale. » En récusant catégoriquement la validité scientifique du concept de « race », en proclamant solennellement l’égale dignité de tous les hommes, les institutions internationales nées à la Libération installent, selon le philosophe Etienne Balibar, un nouveau « paradigme intellectuel » : « l’humanité est une », proclament les documents de l’Unesco des années 1950.Ce discours est si neuf que le pasteur noir américain Jesse Jackson sillonne le sud des Etats-Unis pour le promouvoir. « Une organisation internationale avait fait des recherches et conclu que les Noirs n’étaient pas inférieurs, racontait-il en 2002, dans une interview à un journal aux Etats-Unis. C’était énorme ! »

    Le racisme biologique et inégalitaire de l’avant-guerre ne survit pas à ce nouveau paradigme. Dans la seconde moitié du XXe siècle, les racistes « à l’ancienne » se font de plus en plus rares : les Français qui croient à la supériorité biologique de certaines races représentent aujourd’hui moins de 10 % de la population. « L’Unesco a indéniablement réussi à délégitimer le concept de race » , constate Abdellali Hajjat. L’ « inertie » des catégories raciales bâties pendant l’esclavage et la colonisation est cependant très forte : « Le racisme est un train à grande vitesse, poursuit-il. Même quand on appuie fermement sur le frein, il met du temps à ralentir. »

    La hantise du métissage

    Malgré les déclarations de principe des instances internationales des années 1950, le racisme continue en effet à prospérer, mais le climat de l’après-guerre l’oblige à changer de visage. Au lieu de distinguer et de hiérarchiser les races humaines, comme il le faisait pendant l’esclavage et la colonisation, le racisme , selon Pierre-André Taguieff, adopte dans la seconde moitié du XXe siècle une tonalité « culturelle et différentialiste » : il célèbre désormais le culte des identités parti culières. « Le néoracisme met en avant des différences irréductibles fondées, non plus sur la biologie, mais sur les moeurs » , constate Emmanuel Debono.

    Résolument hostile à l’ouverture des frontières, ce « new racism », selon le mot de l’historien britannique Paul Gilroy, clame haut et fort sa hantise du métissage : ce qui est reproché aux étrangers, résume Pierre-André Taguieff, ce n’est plus leur infériorité biologique, mais le fait « d’être culturellement inassimilables et d’incarner, en tant que corps étranger, une menace de désordre pour le groupe national menace polymorphe de défiguration, de dénaturation, de désinté gration, voire de souillure . « C’est le racisme de l’inégalité des cultures et du chacun chez soi, explique Pap Ndiaye, auteur de La Condition noire. Essai sur une minorité française (Gallimard, 2009). Chacun dans sa culture, chacun sur son territoire. »

    Dans les années 1970, le Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne (Grece) du philosophe Alain de Benoist est le laboratoire théorique de cette doctrine qui finit par irriguer l’extrême droite, puis une grande partie de la droite. Les « grécistes » , observe le politiste Sylvain Crépon, en 2010, dans la revue Raison présente , tournent peu à peu le dos aux théories biologiques racialistes pour défendre la notion « anthropologique » de culture, et prôner, au nom de la pureté, une « étanchéité entre les peuples . Dans une France de plus en plus métissée, le Front national, qui émerge sur la scène politique en 1983, se fait le porte-parole de cette pensée identitaire.

    Face à ce « néoracisme » qui manie avec habileté le vocabulaire des modes de vie, les asso ciations antiracistes « classiques » et « généralistes » comme la Ligue des droits de l’homme, la Ligue internationale contre le racisme et l’antisémitisme ou le Mouvement contre le racisme et pour l’amitié entre les peuples sont vite dépassées. « Leur discours de principe sur l’universalité du genre humain a du mal à penser les différences culturelles, d’autant que ces militants traditionnels sont rarement issus de l’immigration », observe l’historienPap Ndiaye.Il faut attendre les années 1980 pour voir émerger une nouvelle génération d’activistes : l’organisation, en 1983, de la Marche pour l’égalité, puis la création, en 1984, de SOS-Racisme rajeunissent et élargissent le cercle de la mobilisation.

    Dans les années 1980 et 1990, ces nouveaux acteurs de la scène politique analysent le « néoracisme » non comme un système de valeurs collectif hérité de l’esclavage et la colonisation, mais comme l’expression d’une dérive « morale et individuelle », écrivent les chercheurs Fabrice Dhume, Xavier Dunezat, Camille Gourdeau et Aude Rabaud dans Du racisme d’Etat en France ? (Le Bord de l’eau, 2020). Pour SOS-Racisme, les Français hostiles aux immigrés sont des « acteurs déviants, isolés, adhérant à la doctrine raciste et/ou portés par une idéologie violente » , ajoutent les chercheurs. Face à ces errances individuelles, les militants de SOS-Racisme défendent avec conviction les vertus du métissage, de la fraternité et de la tolérance. « Ils estiment que le racisme est le fruit de l’ignorance et de la peur . La loi et l’éducation constituent donc les deux piliers de leur engagement. La loi parce qu’elle permet, depuis la législation Pleven de 1972, de sanctionner les propos racistes, l’éducation parce qu’en luttant contre les préjugés, elle ouvre la voie à un changement des mentalités. », analyse la philosophe Magali Bessone, professeure de philosophie à l’université Paris-I-Panthéon-Sorbonne et autrice de Faire justice de l’irréparable. Esclavage colonial et responsabilités contemporaines (Vrin, 2019).

    « Une matrice idéologique »

    Cette conception du racisme est questionnée à partir des années 2000. Dans un monde qui se mobilise contre les discriminations la directive européenne sur l’égalité de traitement date de 2000, la Haute Autorité de lutte contre les discriminations et pour l’égalité, de 2005 (supprimée en 2011) , l’idée d’un racisme « systémique » émerge peu à peu dans les milieux militants et universitaires. Ses défenseurs ne nient pas que le racisme est souvent adossé à un discours explicite de haine, mais ils estiment qu’il est souvent, voire surtout, un système de pouvoir qui imprègne discrètement, et en silence, le fonctionnement des institutions républicaines.

    Alors que le néoracisme « culturel et différentialiste » émanait d’individus affichant ouvertement une idéologie nativiste, le racisme dit « systémique » se passe de discours d’exclusion : il est, plus banalement et plus massivement, le fruit des pratiques répétitives, souterraines et discrètes de la police, de la justice, de l’entreprise ou de l’école. Comme le savent les jeunes issus de l’immigration, comme le démontrent les enquêtes de sciences sociales, ce racisme « ordinaire », qui n’est ni intentionnel ni systématique, distribue inégalement les places et les richesses.

    Le sociologue Fabien Jobard établit ainsi, dans une étude réalisée en 2007-2008 à Paris, qu’un Maghrébin a 9,9 fois plus de risques de se faire contrôler par la police qu’un Blanc, un Noir 5,2 fois plus. Cinq ans plus tard, les économistes Nicolas Jacquemet et Anthony Edo constatent lors d’un « testing » que malgré un faux CV parfaitement identique, « Pascal Leclerc » obtient deux fois plus d’entretiens d’embauche que « Rachid Benbalit . « En mettant en lumière l’ampleur des discriminations, ces travaux démontrent qu’elles ne peuvent être le fait de quelques brebis galeuses animées de croyances ouvertement racistes », observe Magali Bessone.

    Pour nombre de militants et d’universitaires, ces pratiques insidieuses et silencieuses relèvent d’un racisme « institutionnel », « structurel », voire « d’Etat . Ces mots ne signifient nullement qu’en France, un principe de hiérarchie raciale est inscrit dans le droit, comme il l’était lors de l’apartheid en Afrique du Sud ou du nazisme en Allemagne : ils renvoient plutôt, selon la politiste Nonna Mayer, à un racisme « déguisé ou subtil », qui se manifeste par des contrôles au faciès, des discriminations à l’embauche, voire des « micro-agressions quotidiennes comme des plaisanteries ou des regards, à première vue plus bénignes, mais qui maintiennent les populations racisées à distance, en position d’infériorité » .

    Le « catéchisme » antiraciste

    Les premiers jalons de cette réflexion sur le racisme « systémique » remontent, en France, à l’après-guerre. « Dès 1956, [le psychiatre et essayiste] Frantz Fanon affirme ainsi qu’une société coloniale est une société structurel lement raciste, souligne Magali Bessone. Le racisme n’y est pas, selon lui, le fruit d’une subjectivité déviante mais une norme collective et partagée. En 1972, la sociologue Colette Guillaumin défend, elle aussi, l’idée que le racisme ne renvoie pas au comportement intentionnel de quelques personnes ignorantes ou malveillantes, mais à une matrice idéo logique faite de normes, de pratiques, de catégories et de procédures. »

    Il faut cependant attendre les années 2000 pour que cette analyse, longtemps cantonnée dans un cercle étroit d’intellectuels et de militants, s’impose dans le débat public. « La question des discriminations est propulsée au premier plan en 2004, lors de l’interdiction des signes religieux à l’école, puis en 2005, lors des émeutes urbaines et des polémiques autour de la loi sur les " aspects positifs de la colonisation " , poursuit la philosophe. Les deuxièmes, voire les troisièmes générations de l’immigration postcoloniale, constatent avec amertume que l’injonction à l’intégration est toujours à recommencer : elle est aussi forte pour eux que pour leurs parents, voire leurs grands-parents. »

    C’est dans ce climat que naissent, dans les quartiers populaires, les collectifs de l’anti racisme que l’on qualifie parfois de « politique » - le Parti des indigènes de la République, le Conseil représentatif des associations noires, La Vérité pour Adama. A l’éloge du métissage célébré par SOS-Racisme dans les années 1980 se substitue, dans les années 2000-2020, une dénonciation du racisme systémique fondée sur un nouveau lexique « racisé », « décolonial », « privilège blanc . « Ces militants qui s’intéressent à l’histoire et à la sociologie s’efforcent de conceptualiser la trame du racisme ordinaire , souligne Abdellali Hajjat. Ils estiment que certains gestes apparemment anodins du quotidien constituent des rappels à l’ordre racial. »

    Dans un pays intensément attaché aux principes universalistes, cette conception « structurelle » du racisme est aujourd’hui âprement critiquée. Dans L’Antiracisme devenu fou, le « racisme systémique » et autres fables (Hermann, 2021), Pierre-André Taguieff vilipende l’idée d’un « racisme sans racistes » : parce qu’il est devenu « victimaire » , le « catéchisme » antiraciste d’aujourd’hui a rompu, selon lui, avec la « tradition du combat contre les préjugés raciaux fondée sur l’universalisme des Lumières » . Une conviction partagée par la philosophe Elisabeth Badinter, qui estime que ces combats « identitaires » remettent en cause l’universalisme républicain .

    Cette idée est réfutée par Pap Ndiaye. « L’antiracisme contemporain, dans l’ensemble, ne tourne pas le dos à l’universalisme : il cherche au contraire à l’approfondir en évitant qu’il reste incantatoire, abstrait ou " décharné " , selon le mot d’Aimé Césaire. Les militants d’aujourd’hui sont finalement plus pragmatiques que leurs aînés : alors que les antiracistes de l’après-guerre espéraient, par le redressement moral, extirper le mal de la tête des racistes, les militants d’aujourd’hui veulent, plus simplement, faire reculer une à une les discriminations. » Cette ambition égalitaire n’est pas contraire à l’universalisme, estime l’historien : elle est même au coeur de la promesse républicaine.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2022/01/06/biologique-culturel-systemique-le-racisme-en-trois-mutations_6108458_3232.ht
    #racisme #racisme_biologique #racisme_culturel #racisme_systémique #Jean-Michel_Blanquer #Blanquer #obscurantisme #idéologie #police_de_la_pensée #Martin_Luther_King #Black_Lives_Matter #épouvantail #racisme_inversé #tyrannie_des_minorités #racialisation #Gaston_Méry #préjugés #esclavage #traite #traite_négrière #hiérarchie_raciale #colonisation #hiérarchie_raciale #pensée_raciale #mission_civilisatrice #antiracisme #néoracisme #new_racism #marche_pour_l'égalité #SOS-racisme #histoire #pouvoir #nativisme #racisme_ordinaire #discriminations #testing #racisme_d'Etat #décolonial #privilège_blanc #universalisme #racisme_sans_racistes #universalisme_républicain

    –-> ajouté à ce fil de discussion autour du wokisme :
    https://seenthis.net/messages/933990
    et plus précisément ici :
    https://seenthis.net/messages/933990#message943325

    • à faire débuter l’anti-racisme politique durant les années 2000, ce journal ne fait que propager une arrogante vulgate militante où l’on se complait à confondre le mot dont on se pare et la chose que l’on cherche à (ré)inventer, avec des bonheurs contrastés (l’appel des indigènes de la république est publié en janvier 2005, or le soulèvement de novembre 2005 n’a concerné ses tenants que de loin).

  • La puissance politique du sucre, entre délices et dominations
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/12/24/la-puissance-politique-du-sucre-entre-delices-et-dominations_6107186_3232.ht

    C’est l’un des effets collatéraux de l’épidémie de Covid-19. Entre le début du confinement et la fin du mois de mai 2020, les ventes de sucre ont bondi de 30 % en France, avec une prime au sucre en poudre (+ 56 %) et plus encore au sucre à confiture (+ 80 %). La peur de la pénurie a sans nul doute joué un rôle dans cette ruée. Mais une enquête menée par le Centre des sciences du goût et de l’alimentation, à Dijon, montre aussi que la période a favorisé, notamment chez l’enfant, ce que les auteurs de l’étude appellent le « manger émotionnel ». Dans le huis clos de nos vies confinées, nous avons été nombreux à noyer nos angoisses de fin du monde dans la douceur réconfortante de desserts faits maison.

    Valeur refuge au cœur des crises, ingrédient incontournable des fêtes ou plaisir solitaire et parfois coupable, le sucre raconte, à sa façon, la part intime de l’histoire des hommes et des femmes, de leurs joies et de leurs détresses, de leurs peurs et de leurs espoirs. Il est aussi, aux côtés des céréales, l’un des produits qui, à travers les siècles, décrit le mieux l’histoire des peuples, la violence des empires et la naissance d’une mondialisation dont il est un acteur central.

    Derrière #paywall #sucre #histoire #alimentation

  • Mon pays fabrique des #armes

    Depuis quelques années, les ventes d’armes françaises explosent et notre pays est devenu le troisième exportateur mondial. Pourtant, le grand public sait peu de choses de ce fleuron industriel français, de ses usines, de ses salariés, des régions productrices d’armes et des grandes instances d’État chargées de les vendre.
    Car la France exporte massivement vers le Moyen-Orient. Beaucoup vers l’Arabie Saoudite. Au sein de l’État, qui arbitre lorsqu’il s’agit de vendre à des régimes suspectés de crimes de guerre ? A quoi la realpolitik nous contraint-elle ? Dans le reste de l’Europe, la société civile réagit à cette question. Si les armes sont si cruciales pour l’emploi des Français, si elles participent autant à l’indépendance de notre pays, pourquoi y sont-elles un angle mort du débat public ?

    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/54294_1

    #film #film_documentaire #documentaire
    #France #armement #commerce_d'armes #Dassault #Rafale #François_Hollande #Hollande #Inde #Qatar #Egypte #avions #bombes #munitions #missiles #MBDA #Nexter #Bourges #Avord #industrie_militaire #armée #La_Chapelle_Saint-Oursin #emploi #Jean-Yves_Le_Drian #ministère_de_l'armée #hélicoptère_Caïman #Direction_générale_de_l'armement (DGA) #commission_interministérielle_pour_l'étude_des_exportations_de_matériels_de_guerre (#CIEEMG) #Louis_Gautier #guerres #conflits #Cherbourg #CMN #Arabie_Saoudite #Yémen #crimes_de_guerre #ventes_d'armes #Traité_sur_le_commerce_des_armes (#TCA) #justice #contrat_Donas #Jean-Marc_Ayrault #licence_d'exportation #Jean-Charles_Larsonneur #canons_caesar #hypocrisie #impératif_de_vente #armes_de_surveillance #armes_d'interception #ERCOM #chiffrement #nexa_technologies #AMESYS #torture #complicité_d'actes_de_torture #Libye #al-Sissi #écoutes #Emmanuel_Macron #Macron #secret_défense

  • "La France a débaptisé des noms de collabos, pourquoi pas celles qui portent des noms de #négriers ? "

    En marge des manifestations contre le racisme, après la mort de Georges Floyd, des statues de négriers sont déboulonnées aux États Unis, au Royaume Uni,en Belgique. Et en France, qu’en est–il du passé négrier de certains grands ports de la façade atlantique ? Pourquoi certaines rues n’ont jamais été débaptisées ?

    https://www.franceinter.fr/la-france-a-debaptise-les-rues-portant-le-nom-de-collabos-pourquoi-pas-c

    –-> ça date de 2020, pour archivage

    #toponymie #toponymie_politique #France #débaptisation #noms_de_rue #traite #traite_négrière

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  • Filière avicole : « Il y avait tous les piliers d’un cas de traite des êtres humains » – Libération
    https://www.liberation.fr/societe/filiere-avicole-il-y-avait-tous-les-piliers-dun-cas-de-traite-des-etres-humains-20210811_YEAZQE3CO5HXVMVNUYF6FBB2TM/?redirected=1

    Maillon méconnu de la filière avicole, le ramassage de volaille est un travail harassant, souvent effectué par des travailleurs étrangers, voire sans papiers. En Bretagne, plusieurs entreprises sont dans le viseur de l’inspection du travail, et l’une d’elles fait l’objet de poursuites pour « traite des êtres humains ».

    #paywall

  • Jamaica plans to seek reparations from Britain over slavery

    Jamaica plans to ask Britain for compensation for the Atlantic slave trade in the former British colony, a senior government official said, under a petition that could seek billions of pounds in reparations.

    Jamaica was a centre of the slave trade, with the Spanish, then the British, forcibly transporting Africans to work on plantations of sugar cane, bananas and other crops that created fortunes for many of their owners.

    “We are hoping for reparatory justice in all forms that one would expect if they are to really ensure that we get justice from injustices to repair the damages that our ancestors experienced,” Olivia Grange, Minister of Sports, Youth and Culture, told Reuters in an interview at the weekend.

    “Our African ancestors were forcibly removed from their home and suffered unparalleled atrocities in Africa to carry out forced labour to the benefit of the British Empire,” she added. “Redress is well overdue.”

    An estimated 600,000 Africans were shipped to toil in Jamaica, according to the National Library of Jamaica.

    Seized from Spain by the English in 1655, Jamaica was a British colony until it became independent in 1962. The West Indian country of almost three million people is part of the Commonwealth and the British monarch remains head of state.

    Britain prohibited trade in slaves in its empire in 1807 but did not formally abolish the practice of slavery until 1834.

    To compensate slave owners, the British government took out a 20 million pound loan - a very large sum at the time - and only finished paying off the ensuing interest payments in 2015.

    The reparations petition is based on a private motion by Jamaican lawmaker Mike Henry, who said it was worth some 7.6 billion pounds, a sum he estimated is roughly equivalent in today’s terms to what Britain paid to the slaveholders.

    “I am asking for the same amount of money to be paid to the slaves that was paid to the slave owners,” said Henry, a member of the ruling Jamaica Labour Party.

    “I am doing this because I have fought against this all my life, against chattel slavery which has dehumanized human life.”

    Grange herself declined to give a figure.

    The petition, with approval from Jamaica’s National Council on Reparations, will be filed pending advice from the attorney general and three legal teams, Grange said. The attorney general will then send it to Britain’s Queen Elizabeth, she added.

    The initiative follows growing acknowledgement in some quarters of the role played by slavery in generating wealth in Britain, with businesses and seats of learning pledging financial contributions in compensation.

    They include insurance market Lloyd’s of London, pub owner Greene King and the University of Glasgow.

    The petition also coincides with increasing efforts by some in Jamaica to sever formal ties with the United Kingdom.

    Opposition lawmaker Mikael Phillips in December presented a motion to remove the British monarch as head of state.

    More than 15 million people were shackled into the transatlantic slave trade, according to the United Nations.

    https://www.reuters.com/world/africa/jamaica-plans-seek-reparations-britain-over-slavery-2021-07-12
    #Jamaïque #esclavage #réparation #traite_négrière #justice_réparatrice #pétition

    ping @karine4 @cede