• Il Consiglio d’Europa chiede all’Italia di garantire più protezione alle vittime di tratta

      «Infine il Greta bacchetta il governo italiano su diversi aspetti relativi alla nuova normativa sui richiedenti asilo. “Temiamo che le misure restrittive adottate dall’Italia favoriscano un clima di criminalizzazione dei migranti, con il risultato che molte potenziali vittime della tratta non denunciano i loro casi per paura di detenzione e deportazione”, scrivono gli esperti. Sottolineando la preoccupazione rispetto al “rischio di aumento del numero di richiedenti asilo nei centri di detenzione amministrativa” previsto dagli ultimi provvedimenti normativi che aumenterebbe la possibilità anche per le vittime di tratta non ancora identificate di essere recluse. Un rischio riscontrato anche per il Protocollo sottoscritto con l’Albania per gli impatti che avrà “sull’individuazione e la protezione delle persone vulnerabili salvate in mare”.

      Sul punto, nelle risposte inviate al Greta l’8 febbraio 2024, il governo italiano sottolinea che il protocollo siglato con la controparte albanese “non si applicherà alle persone vulnerabili, incluse le vittime di tratta”. Resta il punto della difficoltà di identificazione fatta subito dopo il soccorso, spesso in condizioni precarie dopo una lunga e faticosa traversata.»

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  • Il Consiglio d’Europa chiede all’Italia di garantire più protezione alle vittime di tratta

    Nel rapporto del Gruppo di esperti sulla lotta alla tratta di esseri umani (Greta) si chiede alle autorità di aumentare le indagini e le condanne, assicurare strumenti efficaci di risarcimento per le vittime e concentrarsi maggiormente sullo sfruttamento lavorativo. Oltre allo stop del memorandum Italia-Libia. Su cui il governo tira dritto.

    Più attenzione alla tratta per sfruttamento lavorativo, maggiori risarcimenti e indennizzi per le vittime e la necessità di aumentare il numero di trafficanti di esseri umani assicurati alla giustizia. Ma anche lo stop del memorandum Italia-Libia e la fine della criminalizzazione dei cosiddetti “scafisti”.

    Sono queste le principali criticità su cui il Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sulla lotta alla tratta di esseri umani (Greta) a fine febbraio ha chiesto al governo italiano di intervenire per assicurare l’applicazione delle normative europee e una tutela efficace per le vittime di tratta degli esseri umani. “Ogni anno in Italia ne vengono individuate tra le 2.100 e le 3.800 -si legge nel report finale pubblicato il 23 febbraio-. Queste cifre non riflettono la reale portata del fenomeno a causa dei persistenti limiti nelle procedure per identificare le vittime, nonché di un basso tasso di autodenuncia da parte delle stesse che temono di essere punite o deportate verso i Paesi di origine”. Una scarsa individuazione dei casi di tratta che riguarderebbe soprattutto alcuni settori “ad alto rischio” come “l’agricoltura, il tessile, i servizi domestici, l’edilizia, il settore alberghiero e la ristorazione”.

    L’oggetto del terzo monitoraggio di attuazione obblighi degli Stati stabiliti dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani era proprio l’accesso alla giustizia per le vittime. Dal 13 al 17 febbraio 2023, il gruppo di esperti si è recato in Italia incontrando decine di rappresentanti istituzionali e di organizzazioni della società civile. La prima bozza del report adottata nel giugno 2023 è stata poi condivisa con il governo italiano che a ottobre ha inviato le sue risposte prima della pubblicazione finale del rapporto. Quello in cui il Greta, pur sottolineando “alcuni sviluppi positivi” dall’ultima valutazione svolta in Italia nel 2019, esprime “preoccupazione su diverse questioni”.

    Il risarcimento per le vittime della tratta è una di queste. Spesso “reso impossibile dalla mancanza di beni o proprietà degli autori del reato in Italia” ma anche perché “i meccanismi di cooperazione internazionale sono raramente utilizzati per identificare e sequestrare i beni degli stessi all’estero”. Non solo. Il sistema di indennizzo per le vittime -nel caso in cui, appunto, chi ha commesso il reato non abbia disponibilità economica- non funziona. “Serve renderlo effettivamente accessibile e aumentare il suo importo massimo di 1.500 euro”. Come ricostruito anche da Altreconomia, da quando è stato istituito questo strumento solo in un caso la vittima ha avuto accesso al fondo.

    Il Greta rileva poi una “diminuzione del numero di indagini, azioni penali e di condanne” osservando in generale una applicazione ristretta di tratta di esseri umani collegandola “all’esistenza di un elemento transnazionale, al coinvolgimento di un’organizzazione criminale e all’assenza del consenso della vittima”. Tutti elementi non previsti dalla normativa europea e italiana. Così come “desta preoccupazione l’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari, in particolare della fase investigativa”.

    Il gruppo di esperti sottolinea poi la persistenza di segnalazioni di presunte vittime di tratta “perseguite e condannate per attività illecite commesse durante la tratta, come il traffico di droga, il possesso di un documento d’identità falso o l’ingresso irregolare”. Un problema che spesso porta la persona in carcere e non nei progetti di accoglienza specializzati. Che in Italia aumentano. Il Greta accoglie infatti con favore “l’aumento dei fondi messi a disposizione per l’assistenza alle vittime e la disponibilità di un maggior numero di posti per le vittime di tratta, anche per uomini e transgender” sottolineando però la necessità di prevedere un “finanziamento più sostenibile”. In questo momento i bandi per i progetti pubblicati dal Dipartimento per le pari opportunità, hanno una durata tra i 17 e i 18 mesi.

    C’è poi la difficoltà nell’accesso all’assistenza legale gratuita che dovrebbe essere garantita alle vittime che invece, spesso, si trovano obbligate a dimostrare di non avere beni di proprietà non solo in Italia ma anche nei loro Paesi d’origine per poter accedere alle forme di consulenza legale gratuita. Problematico è anche l’accesso all’assistenza sanitaria. “I professionisti del Sistema sanitario nazionale -scrive il Greta- non sono formati per assistere le vittime di tratta con gravi traumi e mancano mediatori culturali formati per partecipare alla fornitura di assistenza psicologica”.

    Come detto, il focus degli esperti riguarda la tratta per sfruttamento lavorativo. Su cui l’Italia ha adottato diverse misure di protezione per le vittime ma che però restano insufficienti. “Lo sfruttamento del lavoro continua a essere profondamente radicato in alcuni settori che dipendono fortemente dalla manodopera migrante” ed è necessario “garantire risorse che risorse sufficienti siano messe a disposizione degli ispettori del lavoro, rafforzando il monitoraggio dei settori a rischio e garantendo che le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori migranti soddisfare i requisiti previsti dalla normativa al fine di prevenire abusi”.

    Infine il Greta bacchetta il governo italiano su diversi aspetti relativi alla nuova normativa sui richiedenti asilo. “Temiamo che le misure restrittive adottate dall’Italia favoriscano un clima di criminalizzazione dei migranti, con il risultato che molte potenziali vittime della tratta non denunciano i loro casi per paura di detenzione e deportazione”, scrivono gli esperti. Sottolineando la preoccupazione rispetto al “rischio di aumento del numero di richiedenti asilo nei centri di detenzione amministrativa” previsto dagli ultimi provvedimenti normativi che aumenterebbe la possibilità anche per le vittime di tratta non ancora identificate di essere recluse. Un rischio riscontrato anche per il Protocollo sottoscritto con l’Albania per gli impatti che avrà “sull’individuazione e la protezione delle persone vulnerabili salvate in mare”.

    Sul punto, nelle risposte inviate al Greta l’8 febbraio 2024, il governo italiano sottolinea che il protocollo siglato con la controparte albanese “non si applicherà alle persone vulnerabili, incluse le vittime di tratta”. Resta il punto della difficoltà di identificazione fatta subito dopo il soccorso, spesso in condizioni precarie dopo una lunga e faticosa traversata.

    Ma nelle dieci pagine di osservazioni inviate da parte dell’Italia, salta all’occhio la puntualizzazione rispetto alla richiesta del Greta di sospendere il memorandum d’intesa tra Italia e Libia che fa sì che “un numero crescente di migranti salvati o intercettati nel Mediterraneo vengano rimpatriati in Libia dove rischiano -scrivono gli esperti- di subire gravi violazioni dei diritti umani, tra cui la schiavitù, il lavoro forzato e lo sfruttamento sessuale”. Nella risposta, infatti, il governo sottolinea che ha scelto di cooperare con le autorità libiche “con l’obiettivo di ridurre i morti in mare, nel pieno rispetto dei diritti umani” e che la collaborazione “permette di combattere più efficacemente le reti di trafficanti di esseri umani e di coloro che contrabbandano i migranti”. Con il rispetto dei diritti umani, del diritti umanitario e internazionale che è “sempre stata una priorità”. Evidentemente non rispettata. Ma c’è un dettaglio in più.

    Quel contrasto al traffico di migranti alla base anche del memorandum con la Libia, sbandierato a più riprese dall’esecutivo italiano (“Andremo a cercare gli ‘scafisti’ lungo tutto il globo terracqueo”, disse la premier Giorgia Meloni a inizio marzo 2023) viene messo in discussione nel rapporto. Dopo aver sottolineato la diminuzione delle indagini sui trafficanti di esseri umani, il Greta scrive che i “capitani” delle navi che arrivano in Italia “potrebbero essere stati costretti tramite minacce, violenza fisica e abuso di una posizione di vulnerabilità nel partecipare all’attività criminali”. Indicatori che li farebbero ricadere nella “categoria” delle vittime di tratta. “Nessuno, però, è stato considerato come tale”, osservano gli esperti. Si scioglie come neve al sole la retorica sulla “guerra” ai trafficanti. I pezzi grossi restano, nel frattempo, impuniti.

    https://altreconomia.it/il-consiglio-deuropa-chiede-allitalia-di-garantire-piu-protezione-alle-

    #traite_d'êtres_humains #Italie #protection #Conseil_de_l'Europe #exploitation #Greta #rapport #agriculture #industrie_textile #hôtelerie #bâtiment #BTS #services_domestiques #restauration #indemnisation #accès_à_la_santé #criminalisation_de_la_migration #Albanie

  • Le tante sofferenze della fuga: le donne ucraine a rischio tratta e sfruttamento sessuale
    https://www.meltingpot.org/2023/11/le-tante-sofferenze-della-fuga-le-donne-ucraine-a-rischio-tratta-e-sfrut

    Dall’inizio della guerra in Ucraina, sono aumentati vertiginosamente i casi di adescamento segnalati lungo le rotte migratorie e sui social network. Per le donne ucraine il rischio di tratta passa soprattutto da chi offre loro trasporto e alloggio gratuito. Vika ha 21 anni. Nel caos che segue lo scoppio del conflitto in Ucraina, sale sull’auto di uno sconosciuto che le offre un passaggio verso il nord della Slovacchia. Accetta, non ha altra scelta. L’uomo le promette un lavoro ben pagato e un alloggio sicuro. Qualche giorno dopo, però, senza nessuna spiegazione, viene accompagnata nel sud della Slovacchia, a lavorare (...)

  • « Le #viol, passage presque inévitable de la migration » : à Marseille, huit femmes témoignent

    Lundi 18 septembre, la revue scientifique internationale « The Lancet » publie une enquête de santé publique inédite menée sur 273 demandeuses d’asile à Marseille, corrélant la migration et la violence sexuelle dont elles sont victimes. « Le Monde » a recueilli les histoires de huit femmes qui ont participé à l’étude.

    Au milieu de la conversation, Aissata tressaille. Adama, elle, manque plusieurs fois de faire tomber son bébé de 2 mois, gros poupon emmailloté dans un body blanc, qu’elle allaite le regard absent. Les yeux de Perry se brouillent : elle a vu trop de #violence. Ceux de Fanta sont devenus vitreux : elle est là, mais plus vraiment là. Grace regrette sa sécheresse oculaire, elle aimerait tant pleurer et hurler, peut-être la croirait-on et l’aiderait-on davantage, mais elle ne sait pas où ses larmes sont parties. Nadia sourit en montrant les cicatrices des brûlures de cigarettes qui constellent sa poitrine, comme pour s’excuser de cette vie qui l’a fait s’échouer ici. Stella porte ses lunettes de soleil à l’intérieur, et explose de rire en racontant qu’elle a été vendue quatre fois.

    Tous ces détails, ces marques de la #barbarie inscrite dans le #corps des femmes migrantes, le docteur Jérémy Khouani les observe depuis ses études de médecine. Généraliste dans une maison de santé du 3e arrondissement de Marseille – avec 55 % de ses habitants au-dessous du seuil de pauvreté, c’est l’un des endroits les plus pauvres de France –, il soigne les bobos, les angines et les gastros, mais voit surtout le #traumatisme surgir face aux mots « #excision », « #Libye », « #traite » ou « viol ».

    Bouleversé par des consultations qui l’amènent à mesurer la taille de lèvres vaginales post-excision pour l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), à diagnostiquer une arthrose massive à une jeune femme de 30 ans ou à prescrire des antidépresseurs à une autre qui vient de tenter de s’immoler, il a décidé de lutter avec ce qu’il savait faire : « De la science ». « Je n’ai pas envie de hiérarchiser, mais les violences que subissent les femmes demandeuses d’asile, c’est trois fois plus horrible que les hommes. Ils subissent aussi des violences, mais ce n’est pas systémique, ils n’ont pas le vagin mutilé à 6 ans, ou le viol comme passage presque inévitable de la migration. » En Europe, en 2021, les femmes représentent 31 % des demandeurs d’asile.

    Il y a trois ans, avec l’Assistance publique-Hôpitaux de Marseille et la faculté de médecine d’Aix-Marseille, #Jérémy_Khouani a lancé une grande enquête de #santé_publique pour mesurer l’#incidence des violences sexuelles chez les femmes demandeuses d’asile en France. Une étude inédite, publiée ce lundi 18 septembre dans la revue scientifique The Lancet (Regional Health Europe) et menée sur 273 femmes arrivées sur le territoire français, volontaires pour participer et en attente de la réponse des autorités quant à leur statut. La moitié d’entre elles viennent d’Afrique de l’Ouest, le reste du Moyen-Orient, d’Asie ou d’Europe.

    « Un impondérable du #parcours_migratoire »

    Ainsi, 26 % d’entre elles se déclarent victimes de violences sexuelles au cours de leurs douze derniers mois sur le territoire français, et 75 % avant leur entrée en France. Les demandeuses d’asile encourent dix-huit fois plus le risque d’être victimes de viol en France que les Françaises de la population générale ; 40 % d’entre elles ont subi des #mutilations_génitales. « L’étude fait ressortir que la violence sexuelle est un motif de départ, un impondérable du parcours migratoire, et un crime dont on ne les protège pas en France », analyse #Anne_Desrues, sociologue et enquêtrice sur le projet.

    L’absence de logement, de compagnon et les antécédents de violence apparaissent comme des facteurs de risque du viol. « Le débat, ce n’est même pas de savoir si elles ont vocation à rester sur le territoire ou pas, mais, au moins, que pendant tout le temps où leur demande est étudiée, qu’elles ne soient pas violées à nouveau, elles sont assez traumatisées comme ça », pose le médecin généraliste.

    Il faut imaginer ce que c’est de soigner au quotidien de telles blessures, de rassembler 273 récits de la sorte en six mois – ce qui n’est rien par rapport au fait de vivre ces violences. L’expression « #traumatisme_vicariant » qualifie en psychiatrie le traumatisme de seconde ligne, une meurtrissure psychique par contamination, non en étant exposé directement à la violence, mais en la documentant. « Heureusement, j’avais une psychologue pour débriefer les entretiens, évoque Anne Desrues. Moi, ce qui m’a aidée, c’est de savoir que celles qu’on rencontrait étaient aussi des femmes fortes, qui avaient eu le courage de partir, et de comprendre leur migration comme une #résistance à leur condition. » Le docteur Khouani, lui, érige cette étude comme rempart à son sentiment d’impuissance.

    Le Monde, pendant quarante-huit heures, a recueilli les histoires de huit femmes qui ont participé à l’étude. Certaines sont sous obligation de quitter le territoire français (OQTF), risquant l’expulsion. Mais elles voulaient que quelqu’un entende, note et publie tout ce qu’elles ont subi. Dans le cabinet du médecin, sous les néons et le plafond en contreplaqué, elles se sont assises et ont parlé.

    Lundi, 9 heures. Ogechi, surnommée « Perry », 24 ans. Elle regarde partout, sauf son interlocuteur. Elle a une croix autour du cou, une autre pendue à l’oreille, porte sa casquette à l’envers. Elle parle anglais tout bas, en avalant la fin des mots. Elle vient de Lagos, au Nigeria. Jusqu’à son adolescence, ça va à peu près. Un jour, dans la rue, elle rencontre une fille qui lui plaît et l’emmène chez elle. Son père ne supporte pas qu’elle soit lesbienne : il la balance contre le mur, la tabasse, appelle ses oncles. Ils sont maintenant cinq à se déchaîner sur Perry à coups de pied. « Ma bouche saignait, j’avais des bleus partout. »

    Perry s’enfuit, rejoint une copine footballeuse qui veut jouer en Algérie. Elle ne sait pas où aller, sait seulement qu’elle ne peut plus vivre chez elle, à Lagos. L’adolescente, à l’époque, prend la route : Kano, au nord du pays, puis Agadez, au Niger, où un compatriote nigérian, James, l’achète pour 2 000 euros et la fait entrer en Libye. Elle doit appeler sa famille pour rembourser sa dette. « Je n’ai pas de famille ni d’argent, je ne vaux rien », lui répond Perry. Une seule chose a de la valeur : son corps. James prélève ses cheveux, son sang, fait des incantations vaudoues « pour me contrôler ». A 15 ans, elle est prostituée dans un bordel sous le nom de « Blackgate ».

    « Si je meurs, qui va s’en apercevoir ? »

    Son débit est monocorde, mais son récit est vif et transporte dans une grande maison libyenne divisée en « chambres » avec des rideaux. Un lit par box, elles sont sept femmes par pièce. « Des vieilles, des jeunes, des enceintes. » Et les clients ? « Des Africains, des Arabes, des gentils, des violents. » En tout, une cinquantaine de femmes sont exploitées en continu. « J’aurais jamais pensé finir là, je ne pouvais pas imaginer qu’un endroit comme ça existait sur terre », souffle-t-elle.

    Perry passe une grosse année là-bas, jusqu’à ce qu’un des clients la prenne en pitié et la rachète pour l’épouser. Sauf qu’il apprend son #homosexualité et la revend à une femme nigériane, qui lui paye le voyage pour l’Europe pour la « traiter » à nouveau, sur les trottoirs italiens cette fois-ci. A Sabratha, elle monte sur un bateau avec 150 autres personnes. Elle ne souhaite pas rejoindre l’Italie, elle ne veut que fuir la Libye. « Je ne sais pas nager. Je n’avais pas peur, je n’étais pas heureuse, je me demandais seulement comment un bateau, ça marchait sur l’eau. » Sa première image de l’Europe : Lampedusa. « J’ai aimé qu’il y ait de la lumière 24 heures sur 24, alors que chez nous, la nuit, c’est tout noir. »

    Mineure, Perry est transférée dans un foyer à Milan, où « les gens qui travaillent avec James m’ont encore fait travailler ». Elle tape « Quel est le meilleur pays pour les LGBT ? » dans la barre de recherche de Google et s’échappe en France. « Ma vie, c’est entre la vie et la mort, chaque jour tu peux perdre ou tu peux gagner », philosophe-t-elle. Le 4 septembre 2020, elle se souvient bien de la date, elle arrive dans le sud de la France, une région qu’elle n’a pas choisie. Elle suit un cursus de maroquinerie dans un lycée professionnel avec, toujours, « la mafia nigériane » qui la harcèle. « Ils m’ont mis une arme sur la tempe, ils veulent que je me prostitue ou que je vende de la drogue. C’est encore pire parce que je suis lesbienne, ils disent que je suis une abomination, une sorcière… »

    A Marseille, elle fait trois tentatives de suicide, « parce que je suis trop traumatisée, j’arrive plus à vivre, mais Dieu m’a sauvée ». A 24 ans, pour qui Perry existe-t-elle encore ? « Si je meurs, qui va s’en apercevoir ? Je regrette d’avoir quitté le Nigeria, je ne pensais pas expérimenter une vie pareille », termine-t-elle, en s’éloignant dans les rues du 3e arrondissement.

    Lundi, 11 heures. A 32 ans, la jeunesse de Fanta semble s’être dissoute dans son parcours. Elle a des cheveux frisés qui tombent sur son regard sidéré. Elle entre dans le cabinet les bras chargés de sacs en plastique remplis de la lessive et des chaussures qu’elle vient de se procurer pour la rentrée de ses jumeaux en CP, qui a eu lieu le matin même. « Ils se sont réveillés à 5 heures tellement ils étaient excités, raconte-t-elle. C’est normal, on a passé l’été dans la chambre de l’hôtel du 115, on ne pouvait pas trop sortir à cause de mon #OQTF. » Fanta vient de Faranah, en Guinée-Conakry, où elle est tombée accidentellement enceinte de ses enfants. « Quand il l’a su, mon père, qui a lui même trois femmes, m’a tapée pendant trois jours et reniée. »

    Elle accouche, mais ne peut revenir vivre dans sa famille qu’à condition d’abandonner ses bébés de la honte. Elle refuse, bricole les premières années avec eux. Trop pauvre, trop seule, elle confie ses enfants à sa cousine et souhaite aller en Europe pour gagner plus d’argent. Mali, Niger, Libye. La prison en Libye lui laisse une vilaine cicatrice à la jambe. En 2021, elle atteint Bari, en Italie, puis prend la direction de la France. Pourquoi Marseille ? « Parce que le train s’arrêtait là. »

    Sexe contre logement

    A la gare Saint-Charles, elle dort par terre pendant trois jours, puis rejoint un squat dans le quartier des Réformés. Là-bas, « un homme blanc est venu me voir et m’a dit qu’il savait que je n’avais pas de papiers, et que si on ne faisait pas l’amour, il me dénonçait à la police ». Elle est violée une première fois. Trois jours plus tard, il revient avec deux autres personnes, avec les mêmes menaces. Elle hurle, pleure beaucoup. Ils finissent par partir. « Appeler la police ? Mais pour quoi faire ? La police va m’arrêter moi », s’étonne-t-elle devant notre question.

    En novembre 2022, le navire de sauvetage Ocean-Viking débarque ses passagers sur le port de Toulon. A l’intérieur, sa cousine et ses jumeaux. « Elle est venue avec eux sans me prévenir, j’ai pleuré pendant une semaine. » Depuis, la famille vit dans des hôtels sociaux, a souvent faim, ne sort pas, mais « la France, ça va, je veux bien aller n’importe où du moment que j’ai de la place ». Parfois, elle poursuit les passants qu’elle entend parler sa langue d’origine dans la rue, « juste pour avoir un ami ». « La migration, ça fait exploser la violence », conclut-elle, heureuse que ses enfants mangent à la cantine de l’école ce midi.

    Lundi, 15 heures. « C’est elle qui m’a donné l’idée de l’étude », s’exclame le docteur Khouani en nous présentant Aissata. « Oui, il faut parler », répond la femme de 31 ans. Elle s’assoit, décidée, et déroule un récit délivré de nombreuses fois devant de nombreux officiels français. Aissata passe son enfance en Guinée. En 1998, sa mère meurt et elle est excisée. « C’était très douloureux, je suis vraiment obligée de reraconter ça ? » C’est sa « marâtre » qui prend le relais et qui la « torture ». Elle devient la petite bonne de la maison de son père, est gavée puis privée de nourriture, tondue, tabassée, de la harissa étalée sur ses parties intimes. A 16 ans, elle est mariée de force à un cousin de 35 ans qui l’emmène au Gabon.

    « Comme je lui ai dit que je ne voulais pas l’épouser, son travail, c’était de me violer. J’empilais les culottes et les pantalons les uns sur les autres pour pas qu’il puisse le faire, mais il arrachait tout. » Trois enfants naissent des viols, que son époux violente aussi. Elle s’interpose, il la frappe tellement qu’elle perd connaissance et se réveille à l’hôpital. « Là-bas, je leur ai dit que ce n’était pas des bandits qui m’avaient fait ça, mais mon mari. » Sur son téléphone, elle fait défiler les photos de bleus qu’elle avait envoyées par mail à son fils – « Comme ça, si je mourais, il aurait su quelle personne était son père. »

    Un soignant lui suggère de s’enfuir, mais où ? « Je ne connais pas le Gabon et on ne peut pas quitter le mariage. » Une connaissance va l’aider à sortir du pays. Elle vend tout l’or hérité de sa mère, 400 grammes, et le 29 décembre 2018, elle prend l’avion à l’aéroport de Libreville. « J’avais tellement peur, mon cœur battait si fort qu’il allait sortir de mon corps. » Elle vit l’atterrissage à Roissy - Charles-de-Gaulle comme un accouchement d’elle-même, une nouvelle naissance en France. A Paris, il fait froid, la famille arrive à Marseille, passe de centres d’accueil humides en hôtels avec cafards du 115.

    Sans cesse, les hommes la sollicitent. Propositions de sexe contre logement ou contre de l’argent : « Les hommes, quand tu n’as pas de papiers, ils veulent toujours en profiter. Je pourrais donner mon corps pour mes enfants, le faire avec dix hommes pour les nourrir, mais pour l’instant j’y ai échappé. » Au début de l’année, l’OQTF est tombée. Les enfants ne dorment plus, elle a arrêté de soutenir leurs devoirs. « La France trouve que j’ai pas assez souffert, c’est ça ? », s’énerve celle que ses amies surnomment « la guerrière ».

    « Je suis une femme de seconde main maintenant »

    Lundi, 17 heures. Nadia a le visage rond, entouré d’un voile noir, les yeux ourlés de la même couleur. Une immense tendresse se dégage d’elle. Le docteur Khouani nous a prévenues, il faut faire attention – elle sort à peine de l’hôpital psychiatrique. Il y a quelques semaines, dans le foyer où elle passe ses journées toute seule, elle a pris un briquet, a commencé à faire flamber ses vêtements : elle a essayé de s’immoler. Quand il l’a appris, le médecin a craqué, il s’en voulait, il voyait bien son désespoir tout avaler et la tentative de suicide arriver.

    Pourtant, Nadia a fait une petite heure de route pour témoigner. Elle a grandi au Pakistan. Elle y a fait des études de finance, mais en 2018 son père la marie de force à un Pakistanais qui vit à Marseille. Le mariage est prononcé en ligne. Nadia prend l’avion et débarque en France avec un visa de touriste. A Marseille, elle se rend compte que son compagnon ne pourra pas la régulariser : il est déjà marié. Elle n’a pas de papiers et devient son « esclave », subit des violences épouvantables. Son décolleté est marqué de plusieurs cicatrices rondes : des brûlures de cigarettes.

    Nadia apparaît sur les écrans radars des autorités françaises un jour où elle marche dans la rue. Il y a une grande tache rouge sur sa robe. Elle saigne tellement qu’une passante l’alerte : « Madame, madame, vous saignez, il faut appeler les secours. » Elle est évacuée aux urgences. « Forced anal sex », explique-t-elle, avec son éternel rictus désolé. Nadia accepte de porter plainte contre son mari. La police débarque chez eux, l’arrête, mais il la menace d’envoyer les photos dénudées qu’il a prises d’elle au Pakistan. Elle retire sa plainte, revient au domicile.

    Les violences reprennent. Elle s’échappe à nouveau, est placée dans un foyer. Depuis qu’elle a témoigné auprès de la police française, la propre famille de Nadia ne lui répond plus au téléphone. Une nuit, elle s’est réveillée et a tenté de gratter au couteau ses brûlures de cigarettes. « Je suis prête à donner un rein pour avoir mes papiers. Je pense qu’on devrait en donner aux femmes victimes de violence, c’est une bonne raison. Moi, je veux juste étudier et travailler, et si je suis renvoyée au Pakistan ils vont à nouveau me marier à un homme encore pire : je suis une femme de seconde main maintenant. »

    « Je dois avoir une vie meilleure »

    Mardi, 11 heures. Médiatrice sociale du cabinet médical, Elsa Erb est une sorte d’assistante pour vies fracassées. Dans la salle d’attente ce matin, il y a une femme mauritanienne et un gros bébé de 2 mois. « C’est ma chouchoute », sourit-elle. Les deux femmes sont proches : l’une a accompagné l’autre à la maternité, « sinon elle aurait été toute seule pour accoucher ». Excision dans l’enfance, puis à 18 ans, en Mauritanie, mariage forcé à son cousin de 50 ans. Viols, coups, cicatrices sur tout le corps. Deux garçons naissent. « Je ne pouvais pas rester toute ma vie avec quelqu’un qui me fait autant de mal. » Adama laisse ses deux enfants, « propriété du père », et prend l’avion pour l’Europe.

    A Marseille, elle rencontre un autre demandeur d’asile. Elle tombe enceinte dans des circonstances troubles, veut avorter mais l’homme à l’origine de sa grossesse la menace : c’est « péché » de faire ça, elle sera encore plus « maudite ». Depuis, elle semble trimballer son bébé comme un gros paquet embarrassant. Elsa Erb vient souvent la voir dans son foyer et lui apporte des boîtes de sardines. Elle s’inquiète car Adama s’isole, ne mange pas, passe des heures le regard dans le vide, un peu sourde aux pleurs et aux vomissements du petit. « Je n’y arrive pas. Avec mes enfants là-bas et celui ici, je me sens coupée en deux », se justifie-t-elle.

    Mardi, 14 heures. A chaque atrocité racontée, Stella rit. Elle vient du Biafra, au Nigeria. Ses parents sont tués par des miliciens quand elle a 13 ans. Elle est envoyée au Bénin auprès d’un proche qui la viole. Puis elle tombe dans la #traite : elle est transférée en Libye. « J’ai été vendue quatre fois, s’amuse-t-elle. En Libye, vous pouvez mourir tous les jours, plus personne ne sait que vous existez. » Elle passe en Italie, où elle est encore exploitée.

    Puis la France, Marseille et ses squats. Elle décrit des hommes blancs qui débarquent armés, font tous les étages et violent les migrantes. La police ? Stella explose de rire. « Quel pouvoir est-ce que j’ai ? Si je raconte ça à la police française, les agresseurs me tueront. C’est simple : vous êtes une femme migrante, vous êtes une esclave sexuelle. »

    Avec une place dans un foyer et six mois de #titre_de_séjour en tant que victime de traite, elle est contente : « Quand on a sa maison, on est moins violée. » Des étoiles sont tatouées sur son cou. « Je dois avoir une vie meilleure. Mon nom signifie “étoile”, je dois briller », promet-elle. Le docteur Khouani tient à nous montrer une phrase issue du compte rendu d’une radio de ses jambes : « Lésions arthrosiques inhabituelles pour son jeune âge. » « Il est très probable qu’elle ait subi tellement de violences qu’elle a l’arthrose d’une femme de 65 ans. » Stella a 33 ans.

    Déboutés par l’Ofpra

    Mardi, 16 heures. Grace entre avec sa poussette, dans laquelle s’ébroue une petite fille de 7 mois, son quatrième enfant. Nigériane, la jeune femme a le port altier et parle très bien anglais. « J’ai été très trafiquée », commence-t-elle. Après son bac, elle est recrutée pour être serveuse en Russie. C’est en réalité un réseau de #proxénétisme qui l’emmène jusqu’en Sibérie, d’où elle finit par être expulsée. De retour au Nigeria, elle veut poursuivre ses études à la fac à Tripoli, en Libye.

    A la frontière, elle est vendue, prostituée, violée. Elle tombe enceinte, s’échappe en Europe pour « fuir, pas parce que je voulais particulièrement y aller ». Arrivée en Italie, on lui propose d’avorter de son enfant du viol. Elle choisit de le garder, même si neuf ans après, elle ne sait toujours pas comment son premier fils a été conçu. En Italie, elle se marie avec un autre Nigérian. Ils ont quatre enfants scolarisés en France, mais pas de papiers. L’Ofpra les a déboutés : « Ils trouvent que j’ai les yeux secs, que je délivre mon histoire de manière trop détachée », comprend-elle.

    Mardi, 18 heures. Abby se présente dans le cabinet médical avec sa fille de 12 ans. Elles sont originaires de Sierra Leone. Abby a été excisée : elle se remémore le couteau, les saignements, souffre toujours vingt-cinq ans après. « Ils ont tout rasé, c’est lisse comme ça », décrit-elle en caressant la paume de sa main.

    Sa fille a aussi été mutilée, un jour où sa mère n’était pas à la maison pour la protéger. « Mais pour Aminata, ce n’est pas propre. » Alors, quand la mère et la fille ont déposé leur demande d’asile à l’Ofpra, le docteur Khouani s’est retrouvé à faire un acte qui l’énerve encore. « J’ai dû pratiquer un examen gynécologique sur une préado pour mesurer la quantité de ses lèvres qui avait survécu à son excision. Si tout était effectivement rasé, elles étaient déboutées, car il n’y avait plus rien à protéger. » Les deux femmes ont obtenu des titres de séjour. Abby travaille comme femme de ménage en maison de retraite. Aminata commence sa 5e, fait du basket et veut devenir médecin, comme le docteur Khouani.

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/09/18/le-viol-passage-presque-inevitable-de-la-migration-a-marseille-huit-femmes-r

    #VSS #violences_sexuelles #migrations #femmes #femmes_migrantes #témoignage #asile #réfugiés #viols #abus_sexuels #mariage_forcé #prostitution #néo-esclavage #esclavage_sexuels #traite_d'êtres_humains #chantage

  • Au #col_du_Portillon, entre la #France et l’#Espagne, la #frontière de l’absurde

    L’ordre est tombé d’en haut. Fin 2020, Emmanuel Macron annonce la fermeture d’une quinzaine de points de passage entre la France et l’Espagne. Du jour au lendemain, le quotidien des habitants des #Pyrénées est bouleversé.

    C’est une histoire minuscule. Un #col_routier fermé aux confins des Pyrénées françaises des mois durant sans que personne n’y comprenne rien. Ni les Français ni les Espagnols des villages alentour, pas même les élus et les forces de l’ordre chargés de faire respecter cette fermeture. L’histoire de cette « mauvaise décision », qui a compliqué la vie de milliers de personnes pendant treize mois, débute à l’automne 2020.

    Les journaux gardent en mémoire la visite d’Emmanuel Macron au Perthus, le poste-frontière des Pyrénées-Orientales, département devenu depuis quelques années la voie privilégiée des migrants venus du Maroc, d’Algérie et d’Afrique subsaharienne. Sous un grand soleil, inhabituel un 5 novembre, le président de la République, un masque noir sur le visage, avait alors annoncé une fermeture temporaire des frontières françaises d’une ampleur jamais connue depuis la création de l’espace Schengen, en 1985 : une quinzaine de points de passage, situés tout le long des 650 kilomètres de frontière entre la France et l’Espagne, seraient désormais barrés.

    L’objectif officiel, selon les autorités, étant « d’intensifier très fortement les contrôles aux frontières » pour « lutter contre la menace terroriste, la lutte contre les trafics et la contrebande (drogue, cigarettes, alcools…) mais aussi contre l’immigration clandestine ». Aux préfets concernés de s’organiser. Ils ont eu deux mois.

    Une mesure « ubuesque »

    6 janvier 2021. Loin du Perthus, à quelque 300 kilomètres de là, il est 20 heures lorsque les premières automobiles sont refoulées au col du Portillon, l’un des points de passage concernés par cette mesure. Ce jour-là, il n’y a pourtant pas plus de neige que d’habitude. La frontière est fermée jusqu’à nouvel ordre, annoncent les gendarmes. Lutte contre le terrorisme. Les refoulés sont dubitatifs. Et inquiets. La dernière fois qu’on les a rembarrés comme ça, c’était au lendemain de l’attaque de Charlie Hebdo, quand, comme partout, les contrôles aux frontières avaient été renforcés. Ça aurait recommencé ? A la radio et à la télévision, on ne parle pourtant que de l’assaut du Capitole, à Washington, par des centaines de trumpistes survoltés, pas d’une attaque en France.

    « Ça n’a l’air de rien, mais, deux fois cinquante minutes au lieu de deux fois quinze minutes, ça vous change une journée. » Michel, retraité

    Comme il n’existe pas trente-six manières de matérialiser une frontière, Etienne Guyot, le préfet de la région Occitanie et de la Haute-Garonne, a fait installer de gros plots en béton armé et autant d’agents de la police aux frontières (PAF) en travers de cette route qui permet de relier Bagnères-de-Luchon à la ville espagnole de Bossòst, située dans le val d’Aran. Au bout de quelques jours, parce que les plots étaient trop espacés, les agents ont fait ajouter des tas de gravier et de terre pour éviter le passage des motos et des vélos. Mais les deux-roues ont aimé gravir les petits cailloux. De gros rochers sont donc venus compléter l’installation.

    Ce chantier à 1 280 mètres d’altitude, au milieu d’une route perdue des Pyrénées, n’a pas intéressé grand monde. Quelques entrefilets dans la presse locale – et encore, relégués dans les dernières pages – pour un non-événement dans un endroit qui ne dit rien à personne, sauf aux mordus du Tour de France (magnifique victoire de Raymond Poulidor au Portillon en 1964) et aux habitants du coin.

    Cette décision – l’une de celles qui se traduisent dans les enquêtes d’opinion par une défiance vis-à-vis des dirigeants – a été vécue comme « ubuesque », « injuste », « imposée par des Parisiens qui ne connaissent pas le terrain ». Elle a achevé d’excéder une région déjà énervée par un confinement jugé excessif en milieu rural et, avant cela, par une taxe carbone mal vécue dans un territoire où la voiture est indispensable.

    « Le carburant ça finit par chiffrer »

    Si la fermeture du col n’a engendré aucune conséquence tragique, elle a sérieusement entamé des activités sociales et économiques déjà fragilisées après le Covid-19. Prenez Michel, retraité paisible à Bagnères-de-Luchon, habitué à faire ses courses trois fois par semaine à Bossòst, côté espagnol. Un petit quart d’heure sépare les deux villes si l’on emprunte le col du Portillon, avec une distance d’à peine 17 kilomètres. Mais, depuis janvier 2021, il faut faire le tour et franchir le pont du Roi. Soit un détour de 42 kilomètres. « Ça n’a l’air de rien, concède le septuagénaire. Mais, deux fois cinquante minutes au lieu de deux fois quinze minutes, ça vous change une journée. Et le carburant, ça finit par chiffrer. »

    Dans ce coin, le Pays Comminges, qui s’étend depuis les coteaux de Gascogne jusqu’à la frontière espagnole, la frontière n’existait pas. « Pas dans les têtes, en tout cas », assure Pierre Médevielle. Bien que le sénateur indépendant de la Haute-Garonne boive de l’eau plate à l’heure du déjeuner, il correspond en tout point à l’idée que l’on se fait d’un élu de la Ve République du siècle dernier. Il donne rendez-vous dans un restaurant qui sert du canard, il a 62 ans, un look gentleman-farmer de circonstance (un week-end en circonscription), une passion pour la chasse et la pêche, une fidélité de longue date pour les partis centristes et une connaissance encyclopédique de l’histoire de sa région.

    Le Comminges, c’est plus de 77 000 habitants, une densité de 36 habitants au kilomètre carré, un déclin démographique inquiétant, une vallée difficile à développer, un accès routier complexe… Une véritable petite diagonale du vide dans le Sud-Ouest. « Juste après le Covid, la fermeture du Portillon a été vécue comme une sanction, explique le sénateur. Elle a bouleversé le quotidien de nombreux frontaliers. »

    Des questions laissées sans réponse

    Les Aranais vont et viennent dans les hôpitaux et les cabinets médicaux de Toulouse et de Saint-Gaudens – un accord de coopération sanitaire lie les deux pays –, et leurs enfants sont parfois scolarisés dans les écoles et le collège de Luchon. Les Français considèrent, eux, le val d’Aran comme un grand supermarché low cost planté au milieu d’une nature superbe. Ils achètent, à Bossòst – des alcools, des cigarettes et des produits bon marché conditionnés dans d’immenses contenants (céréales, pâte à tartiner, shampoing, jus d’orange…). Le samedi matin, les Espagnols, eux, se fournissent en fromage et en chocolat côté français, dans le gigantesque Leclerc d’Estancarbon. D’un côté comme de l’autre, on parle l’occitan, qu’on appelle gascon en France et aranais en Espagne.

    Pierre Médevielle a fait comme il a pu. Il a posé des questions dans l’Hémicycle. Il a adressé des courriers au ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin. Il a beaucoup discuté avec celui qui est alors le secrétaire d’Etat chargé de la ruralité, Joël Giraud, et avec son homologue espagnol, Francés Boya Alós, chargé du défi démographique (l’autre nom de la ruralité). Ils ont tous trois fait état des pétitions citoyennes et des motions votées par les élus des communes concernées, suppliant Gérald Darmanin de revenir sur une décision « incompréhensible ».

    Eric Azemar, le maire de Bagnères-de-Luchon, estime, lui, les conséquences « catastrophiques » pour sa ville, notamment pour la station thermale, déjà éprouvée par la pandémie : « De 11 000 curistes, nous sommes passés à 3 000 en 2020 et à peine à 5 000 en 2021. » Il a appris la fermeture de la frontière le matin même du 6 janvier 2021. En recevant l’arrêté préfectoral. « Point. » Point ? « Point. » En treize mois, aucun de ces élus n’est parvenu à arracher un courriel ou la moindre invitation à une petite réunion de crise à la préfecture. Rien. Le silence.

    Contourner l’obstacle

    « Le mépris », déplore Patrice Armengol, le Français sur qui cette décision a le plus pesé. Il vit à Bagnères-de-Luchon et travaille exactement au niveau du Portillon mais côté espagnol. A 2 kilomètres près, il n’était pas concerné par cette affaire, mais, voilà, son parc animalier, l’Aran Park – km 6 puerto del Portillón –, est, comme son nom et son adresse l’indiquent, installé dans le val d’Aran. Val d’Aran, Catalogne, Espagne. Il a cru devenir fou, il est devenu obsessionnel. « Leur barrage était mal fichu mais aussi illégal, commente-t-il. Là, vous voyez, le panneau ? Le barrage était à 1 kilomètre de la frontière française. »

    C’est exact. Appuyé contre son 4 × 4, il fait défiler les photos du barrage, prises au fil des mois. Lui est allé travailler tous les jours en franchissant le col : il roulait en voiture jusqu’au barrage, déchargeait les kilos de viande et de fruits secs périmés achetés pour ses bêtes dans les supermarchés français, franchissait le barrage à pied et chargeait le tout dans une autre voiture garée de l’autre côté des plots. Le soir, il laissait une voiture côté espagnol et repartait dans celle qui l’attendait côté français. « Ils m’ont laissé faire, heureusement », dit-il.

    Il a trouvé héroïques les habitants qui, autour du col de Banyuls, dans les Pyrénées-Orientales, ont régulièrement déplacé les blocs de pierre avec toujours le même message : « Les Albères ne sont pas une frontière. » Le geste ne manquait pas de panache, mais lui-même ne s’y serait pas risqué : « Une violation des frontières, c’est grave. Je n’avais pas envie d’aller en prison pour ça. » Patrice Armengol s’est donc contenté de limiter les dégâts. S’il a perdu près d’un tiers de ses visiteurs, il a pu maintenir le salaire de ses trois employés espagnols à plein temps.

    La fin du calvaire mais pas du mystère

    Gemma Segura, 32 ans, s’occupe des visites scolaires dans le parc et, pour défendre l’ouverture du col, elle a rejoint l’association des commerçants de Bossòst, où elle vit. Fille d’un boucher à la retraite et d’une enseignante d’aranais, elle est née à Saint-Gaudens comme beaucoup de frontaliers espagnols. « Je suis toujours allée chez le médecin à Saint-Gaudens et mes grands-mères consultent des cardiologues français. Nos banques sont françaises. Nos familles vivent des deux côtés de la frontière. Et, quand je jouais au foot, je participais à la Coupe du Comminges, en France. »

    « Les gens s’interrogent et on ne sait pas quoi répondre. On applique les décisions prises en haut. » Un agent chargé de surveiller la zone

    Après des études de sciences de l’environnement à Barcelone, elle a préféré revenir ici, dans ce coin, certes un peu enclavé, mais si beau. Certains parlent aujourd’hui de quitter Bossòst, leurs commerces ayant été vides pendant des mois. Mais le « miracle » s’est enfin produit le 1er février 2022, et, cette fois, l’information a fait la « une » de La Dépêche du Midi : « Le col du Portillon est enfin ouvert. »

    De nouveau, personne n’a compris. La possibilité d’une ouverture avait été rejetée par le premier ministre Jean Castex lui-même à peine un mois plus tôt lors d’un déplacement à Madrid. Perplexité du maire de Bagnères-de-Luchon : « Pourquoi maintenant ? Il y a sans doute une raison logique, le ministre ne fait pas ça pour s’amuser. » Même les agents chargés de surveiller la zone sont surpris : « Pourquoi avoir fermé ? C’était mystérieux, mais on l’a fait. Et, maintenant, on ouvre, mais on doit intensifier les contrôles. Les gens s’interrogent et on ne sait pas quoi répondre. On applique les décisions prises en haut. »

    « En haut », au ministère de l’intérieur et à la préfecture, on est peu disert sur le sujet. Le service de presse de la préfecture nous a envoyé, sans empressement, ces explications parcimonieuses : « Depuis quelques mois, la police aux frontières a constaté une recrudescence de passeurs au cours de différentes opérations menées sur les points de passage autorisés. (…) Les dispositifs de contrôle sur la frontière ont permis de nombreuses interpellations de passeurs (quatorze en 2021 et un en 2022). »

    Une voie migratoire sous surveillance

    Ces chiffres sont autant d’histoires qui atterrissent sur le bureau du procureur de Saint-Gaudens, Christophe Amunzateguy. Le tribunal, comme les rues de la ville, est désert ce 31 janvier. Il est 18 heures et Christophe Amunzateguy, qui assure la permanence, est parfaitement seul. Comme tout le monde ici, les décisions de la préfecture le prennent de court. On ne l’informe de rien, jamais. Il pointe du doigt le journal ouvert sur son bureau. « Je l’apprends par La Dépêche. La préfecture ne m’en a pas informé. »

    Il parle de l’ouverture du col du Portillon. Il lit à voix haute que le préfet promet des renforts. « Eh bien, très bonne nouvelle, mais, s’il y a des renforts, il y aura une multiplication des interpellations et, s’il y a des interpellations, c’est pour qui ? Pour moi. » Dans cette juridiction, l’une des plus petites de France, ils ne sont que deux procureurs et six magistrats du siège. Après avoir connu les parquets turbulents de Nancy et de Lille – il a suivi l’affaire du Carlton –, Christophe Amunzateguy se sent « dépaysé » dans ce « bout du monde ». « C’est une expérience, résume-t-il. Ici, on fait tout, tout seul. »

    « C’est ça, aussi, l’histoire du Comminges, une communauté de destins d’un côté et de l’autre de la frontière » Jacques Simon

    C’est au mois de septembre 2021, soit neuf mois après la fermeture du col du Portillon, que la « vague » d’arrivée de migrants s’est amplifiée. La police de l’air et des frontières l’a alerté à la mi-août : des clandestins arriveraient par le point de passage du pont du Roi. Ce mois-là, les interpellations se sont succédé : quatorze d’un coup.

    Sur les quatre derniers mois de 2021, neuf passeurs algériens ont été condamnés à des peines de prison ferme en Haute-Garonne. Et seize passeurs ont été jugés à Saint-Gaudens en 2021. Le profil ? « Des personnes de nationalité algérienne, explique le procureur. Par pur opportunisme, elles prennent en charge des personnes en situation irrégulière et leur font passer la frontière contre 200 à 600 euros, dans leur voiture ou dans une voiture de location. »

    Une délinquance d’opportunité

    Au début de l’année 2022, ça a recommencé. Le 4 janvier, à 10 h 40, alors qu’ils contrôlaient une Golf à Melles – la routine –, les agents de la PAF ont aperçu un Scénic tenter une manœuvre de demi-tour avant que quatre passagers n’en descendent précipitamment et se mettent à courir. Tentative désespérée et totalement vaine : tous ont été arrêtés en un rien de temps. Le chauffeur de la Golf a été embarqué aussitôt que les agents se sont aperçus qu’il était le propriétaire officiel du Scénic. Tous ont été conduits au tribunal de Saint-Gaudens, où le procureur a pu reconstituer leur parcours.

    Arrivés d’Algérie quelques jours plus tôt, les trois passagers à l’arrière du Scénic tentaient de gagner Toulouse. Un premier passeur, payé 200 euros, les a d’abord conduits à Alicante où le chauffeur de la Golf les a contactés par téléphone. Chargé de les conduire à la gare de Toulouse contre 200 euros par personne, il a roulé toute la nuit avant de crever. Un de ses « amis » est venu de France (en Scénic) pour réparer la voiture et les « aider » à poursuivre le voyage, qui s’est donc terminé à Melles.

    Concernant les conducteurs du Scénic et de la Golf, la conclusion est la même que pour l’écrasante majorité des dossiers de 2021 : « Ils sont en free-lance. » Dans le vocabulaire de la justice, ça s’appelle de la « délinquance d’opportunité ». Les passeurs n’appartiennent pas à des réseaux ; ils arrondissent leurs fins de mois.

    Les passeurs du 4 janvier ont été condamnés à quatre et six mois d’emprisonnement et incarcérés à la maison d’arrêt de Seysses (Haute-Garonne). L’un des deux a écopé de cinq ans d’interdiction du territoire français et leurs deux véhicules ont été saisis. Le procureur assume cet usage de la « manière forte » : garde à vue systématique, comparution immédiate, saisie des véhicules (« ils sont sans valeur, ce sont des poubelles »), confiscation du numéraire trouvé sur les passeurs (« je ne prends pas l’argent sur les personnes transportées »). Il précise ne pas en faire une question de politique migratoire mais prendre au sérieux la question de la traite des êtres humains : « On ne se fait pas d’argent sur le malheur des autres. »

    La frontière, terre de fantasme

    Christophe Amunzateguy se souvient du 19 janvier 2021. Il était dans son bureau, seul comme d’habitude, quand il a reçu un coup de fil de la gendarmerie lui signalant qu’une bande d’activistes habillés en bleu et circulant à bord de trois pick-up a déroulé une banderole sur une zone EDF située dans le col du Portillon. Sur les réseaux sociaux, il apprend qu’il s’agit de militants de Génération identitaire, un mouvement d’ultra-droite, tout à fait au courant, eux, contrairement au reste du pays, que le col du Portillon a été bloqué.

    Le procureur découvre, quelques jours plus tard, une vidéo de l’opération commentée par Thaïs d’Escufon, la porte-parole du groupuscule, affirmant qu’il est « scandaleux qu’un migrant puisse traverser la frontière ». Elle a été condamnée au mois de septembre 2021 à deux mois d’emprisonnement avec sursis pour les « injures publiques » proférées dans cette vidéo.

    Que la frontière soit depuis toujours un espace naturel de trafics et de contrebande n’est un secret pour personne. Pourquoi fermer maintenant ? En vérité, explique le procureur, c’est du côté des Pyrénées-Orientales qu’il faut chercher la réponse. En 2021, 13 000 personnes venues du Maghreb et d’Afrique subsaharienne ont été interpellées au sud de Perpignan, à Cerbère. Un chiffre « record » qui a entraîné l’intensification des contrôles. Les passeurs ont donc choisi d’emprunter des voies moins surveillées. Le bouche-à-oreille a fait du point de passage du pont du Roi une entrée possible.

    Le procureur est formel : le phénomène est contenu. Quant au fantasme des migrants qui franchissent les montagnes à pied, cela lui paraît improbable. L’hiver, c’est impraticable ; aux beaux jours, il faut être un alpiniste chevronné et bien connaître le coin. Un peu plus loin, du côté du Pas de la Case, deux passeurs de tabac sont morts en montagne : l’un, algérien, de froid, en 2018, et l’autre, camerounais, après une chute, en 2020.

    La route de la liberté

    Ces chemins, désormais surveillés et fermés, ont longtemps été synonymes de liberté. C’est par là qu’ont fui les milliers de réfugiés espagnols lors de la Retirada, en 1939, après la guerre civile. Par là aussi que, dans l’autre sens, beaucoup ont pu échapper aux nazis au début des années 1940. La mémoire de cette histoire est ravivée par ceux qui l’ont vécue et par leurs descendants qui se regroupent en associations depuis une vingtaine d’années.

    « Sur cette chaîne pyrénéenne, on évalue à 39 000 personnes les personnes qui fuyaient le nazisme », explique Jacques Simon, fondateur et président des Chemins de la liberté par le Comminges et le val d’Aran, créée en mars 2018. Son grand projet est de labelliser la nationale 125, depuis le rond-point de la Croix-du-Bazert, à Gourdan-Polignan, jusqu’au pont du Roi, pour en faire une « route de la liberté » comme il existe une route des vins, une route de la ligne Maginot et une Voie sacrée.

    L’un des récits de traversée que raconte souvent Jacques Simon est celui qui concerne seize compagnons partis clandestinement de la gare de Saléchan la nuit du 25 octobre 1943. En pleine montée du pic du Burat, les passeurs se perdent et les trois femmes du groupe, dont une enfant, peinent. « Leurs chaussures n’étaient pas adaptées et elles portaient des bas en rayonne. C’est une matière qui brûle au contact de la neige, explique Jacques Simon, qui a recueilli les souvenirs des derniers témoins. Elles ont fini pieds nus. » Le groupe est arrivé en Espagne et tous ont survécu.

    « On ne sera jamais riches, mais on a du temps. Pour être en famille, pour retaper notre baraque, pour faire des conserves. » Philippe Petriccione

    Parmi eux, Paul Mifsud, 97 ans, l’un des deux résistants commingeois toujours en vie. Le second, Jean Baqué, 101 ans, avait 19 ans quand il s’est engagé dans la Résistance. Arrêté par la milice en novembre 1943, il parvient à s’échapper des sous-sols de l’hôtel Family, le siège de la Gestapo à Tarbes. Dans sa fuite, il prend une balle dans les reins, ce qui ne l’empêche pas d’enfourcher un vélo pour se réfugier chez un républicain espagnol. « Il m’a caché dans le grenier à foin et a fait venir un docteur. »

    En décembre 2021, Jean Baqué est retourné sur les lieux, à Vic-en-Bigorre. Il est tombé sur le propriétaire actuel, qui lui a raconté que l’Espagnol, Louis Otin, avait été fusillé en 1944 par la milice. « Je ne l’avais jamais su. » Jean Baqué a organisé quelques jours plus tard une cérémonie en sa mémoire dans le bois de Caixon, là où l’homme a été assassiné. « C’est ça, aussi, l’histoire du Comminges, une communauté de destins d’un côté et de l’autre de la frontière », résume Jacques Simon.

    L’ivresse des sommets

    Ces chemins, Philippe Petriccione les connaît comme sa poche et il accepte de nous guider. A l’approche du col du Portillon, en apercevant depuis son 4 × 4 quatre agents de la PAF occupés à contrôler des véhicules, le guide de haute montagne raconte un souvenir qui date du lendemain de l’attentat contre Charlie Hebdo, en janvier 2015. C’était ici même : « Les Mossos d’Esquadra [la force de police de la communauté autonome de Catalogne] ont débarqué. Ils ne sont pas toujours très tendres. Ils ont toqué à la vitre de ma bagnole avec le canon de leur fusil. J’avais envie de leur dire : “C’est bon, moi, je vais faire du ski, les gars.” »

    Le 4 × 4 s’engage sur un chemin. Les stalactites le long des rochers enchantent les passagers, le gel sous les roues, moins. Philippe arrête la voiture. « On y va à pied. » En réalité, « on y va » à raquettes. Après quelques kilomètres, la vue spectaculaire lui redonne le sourire. C’est pour cela qu’il est venu vivre à la montagne. Né à Paris dans le 18e arrondissement, il a vécu ici et là avant de s’installer il y a une dizaine d’années à Luchon avec sa femme et leurs enfants. « On ne sera jamais riches, mais on a du temps. Pour être en famille, pour retaper notre baraque, pour faire des conserves. »

    On se tient face à un vallon enneigé dont les pentes raides dévalent dans un cirque de verdure. Le guide tend le bras vers le côté gauche. Il montre une brèche recouverte de glace : le port de Vénasque, à 2 444 mètres d’altitude (« col » se dit « port » dans les Pyrénées) : « Il est devenu célèbre sous Napoléon, qui a eu une idée de stratège. Il s’est dit : “Je vais faire passer mon armée par là.” Il a tracé un chemin pour passer avec les chevaux et les canons. » On distingue la limite géographique appelée le carrefour des Trois-Provinces. A gauche, la Catalogne. A droite, l’Aragon et, face à nous, la Haute-Garonne. Il y a huit ports, soit autant de passages possibles pour traverser le massif. « L’histoire dit que 5 000 personnes sont passées en quarante-huit heures en avril 1938… »

    Philippe connaît par cœur cet épisode, puisqu’il a l’habitude de le raconter aux touristes et aux collégiens qui viennent parfois depuis Toulouse découvrir « en vrai » ces chemins. Il fait comme aujourd’hui. Il tend le bras et montre au loin les pentes raides de ce paysage de la Maladeta et la vue sur l’Aneto, le plus haut sommet du massif. Un rectangle sombre perce l’étendue blanche. En approchant, on distingue une borne en béton, « F356E » : c’est la frontière. F pour France, E pour Espagne. Ces bornes, il y en a 602 tout le long de la frontière. Le tracé, qui date de la fin du XIXe siècle, part de la borne numéro 1, sur les bords de la Bidassoa, et va jusqu’au pied du cap Cerbère, en Méditerranée, explique le guide. Allongé sur la neige, il répète qu’ici c’est une montagne particulière. « Il n’y a jamais personne. »

    https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2022/04/29/au-col-du-portillon-entre-la-france-et-l-espagne-la-frontiere-de-l-absurde_6

    #montagne #frontières #fermeture #points_de_passage #contrôles_frontaliers #terrorisme #lutte_contre_le_terrorisme #Bagnères-de-Luchon #Bossòst #val_d'Aran #plots #PAF #gravier #terre #rochers #Pays_Comminges #gascon #aranais #migrations #asile #réfugiés #pont_du_Roi #délinquance_d’opportunité #passeurs #politique_migratoire #traite_d'êtres_humains #génération_identitaire #Thaïs_d’Escufon #Cerbère #parcours_migratoires #routes_migratoires #Pas_de_la_Case #histoire

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  • Filière avicole : « Il y avait tous les piliers d’un cas de traite des êtres humains » – Libération
    https://www.liberation.fr/societe/filiere-avicole-il-y-avait-tous-les-piliers-dun-cas-de-traite-des-etres-humains-20210811_YEAZQE3CO5HXVMVNUYF6FBB2TM/?redirected=1

    Maillon méconnu de la filière avicole, le ramassage de volaille est un travail harassant, souvent effectué par des travailleurs étrangers, voire sans papiers. En Bretagne, plusieurs entreprises sont dans le viseur de l’inspection du travail, et l’une d’elles fait l’objet de poursuites pour « traite des êtres humains ».

    #paywall

  • La #répression_pénale de la #traite des êtres humains à des fins d’#exploitation du #travail en #Suisse

    Le CSDH identifie des problèmes et formule des recommandations

    La traite des êtres humains reste souvent impunie du fait de l’absence de témoignages des victimes. Il arrive en effet fréquemment que ces dernières ne soient pas en mesure, en raison de leur situation extrêmement précaire, de faire une déclaration juridiquement valable ou qu’elles ne soient plus en Suisse pour le faire. De plus, l’article 182 du code pénal, qui sanctionne la traite, fournit peu d’éléments aidant à appliquer ce concept juridique à une situation concrète. Tels sont les résultats d’une nouvelle étude que le CSDH a réalisée sur le sujet.

    En Suisse, les #condamnations pour traite d’êtres humains à des fins d’exploitation du travail sont rares. Pour connaître les raisons de cette situation, le CSDH avait analysé en 2019, dans une première étude, les jugements prononcés dans ce domaine et les #bases_légales qui le régissent. Il approfondit maintenant ses conclusions dans sa nouvelle étude, «  La répression pénale de la traite des êtres humains à des fins d’exploitation du travail en Suisse  », pour laquelle il a interrogé directement des spécialistes de l’inspection du travail, de la police, des tribunaux et des ministères publics.

    Une procédure trop dépendante du témoignage des victimes

    Il ressort de l’étude que le principal obstacle est l’importance centrale conférée au témoignage des victimes lors de l’administration des preuves durant la procédure pénale. Selon les professionnels interrogés, il est pratiquement impossible d’obtenir une condamnation sans ce témoignage. Les victimes ne sont toutefois souvent pas à même de fournir des déclarations utilisables en tribunal en raison de leur vulnérabilité et de leur vécu traumatisant. De plus, au moment du procès, si celui-ci a finalement lieu, il est fréquent qu’elles ne soient plus en Suisse, soit qu’elles en aient été expulsées, soit qu’elles l’aient quittée de leur propre chef.
    Entre clichés trompeurs et un article de loi très vague

    Des clichés persistants, qui voient par exemple dans les victimes de traite des individus forcément retenus par la contrainte et victimes de violence, constituent une autre difficulté. Une sorte de réaction en chaîne s’enclenche lorsqu’un cas ne correspond pas à ce stéréotype : la police craint qu’il ne soit difficile de rendre la traite des êtres humains plausible aux yeux du ministère public, et ce dernier nourrit la même crainte envers les juges. Les autorités préfèrent alors souvent qualifier les faits d’usure plutôt que de traite, pour augmenter les chances d’aboutir à une condamnation pénale.

    Ces difficultés s’expliquent en grande partie par la formulation vague de la disposition légale applicable, l’article 182 du code pénal suisse (CP), qui fait référence à des traités internationaux peu connus, ou pas systématiquement consultés par les autorités.
    Recommandation  : octroyer des autorisations de séjour, reformuler l’article 182 CP et obliger les autorités à collaborer entre elles

    L’étude se conclut sur plusieurs recommandations à l’intention des pouvoirs exécutifs, législatifs et judiciaires. Outre la sensibilisation des autorités compétentes, il s’agit avant tout d’améliorer la situation des victimes, en particulier en leur délivrant des autorisations de séjour et en les soutenant dans leur collaboration avec les instances de poursuite pénale, afin de les encourager à poursuivre la procédure, comme le prévoient les traités internationaux.

    Les auteures recommandent aussi de modifier l’art. 182 CP et d’adapter ses notions aux instruments internationaux, afin de pouvoir mieux détecter et réprimer les cas de traite d’êtres humains. De plus, pour faciliter l’instruction pénale de cas d’exploitation du travail qui n’entrent pas dans le champ de la définition de la traite d’êtres humains, elles conseillent de créer une nouvelle norme pénale spécifique à cette infraction, indépendante de la traite des êtres humains.

    Enfin, pour améliorer le travail en réseau, l’étude recommande de prévoir dans chaque canton une base légale qui formalise la nécessité de collaborer entre les différentes autorités concernées contre la traite des êtres humains, à des fins notamment d’exploitation du travail.

    https://www.skmr.ch/frz/domaines/migration/publications/exploitation-du-travail-empirique.html?zur=105

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    #Rapport :


    https://www.skmr.ch/cms/upload/pdf/2020/200810_Etude_empirique__exploitation__travail.pdf
    #traite_d'êtres_humains #justice

  • Il Rapporto annuale 2020 del #Centro_Astalli

    Il Centro Astalli presenta il Rapporto annuale 2020: uno strumento per capire attraverso dati e statistiche quali sono le principali nazionalità degli oltre 20mila rifugiati e richiedenti asilo assistiti, di cui 11mila a Roma; quali le difficoltà che incontrano nel percorso per il riconoscimento della protezione e per l’accesso all’accoglienza o a percorsi di integrazione.

    Il quadro che ne emerge rivela quanto oggi sia alto il prezzo da pagare in termini di sicurezza sociale per non aver investito in protezione, accoglienza e integrazione dei migranti. E mostra come le politiche migratorie, restrittive, di chiusura – se non addirittura discriminatorie – che hanno caratterizzato l’ultimo anno, acuiscono precarietà di vita, esclusione e irregolarità, rendendo l’intera società più vulnerabile.

    Il Rapporto annuale 2020 descrive il Centro Astalli come una realtà che, grazie agli oltre 500 volontari che operano nelle sue 7 sedi territoriali (Roma, Catania, Palermo, Grumo Nevano-NA, Vicenza, Trento, Padova), si adegua e si adatta ai mutamenti sociali e legislativi di un Paese che fa fatica a dare la dovuta assistenza a chi, in fuga da guerre e persecuzioni, cerca di giungere in Italia.

    https://centroastalli.it/il-rapporto-annuale-2020-del-centro-astalli
    #Italie #asile #migrations #réfugiés #statistiques #chiffres #rapport #2019 #précarité #précarisation #protection_humanitaire #décret_salvini #decreto_salvini #accueil #femmes #marginalisation #Libye #externalisation #ceux_qui_n'arrivent_pas #arrivées #torture #santé_mentale #mauvais_traitements #traite_d'êtres_humains #permis_de_séjour #accès_aux_soins #siproimi #sprar #CAS #assistance_sociale #vulnérabilité #services_sociaux #intégration

    Synthèse du rapport :
    #pXXXLIEN10LIENXXX

    Rapport :


    https://centroastalli.it/wp-content/uploads/2020/04/astalli_RAPP_2020-completo-x-web.pdf

    ping @isskein @karine4

  • #Laila_Mickelwait : Pornhub – Il est temps de mettre la clé sous la porte
    https://tradfem.wordpress.com/2020/02/09/pornhub-il-est-temps-de-mettre-la-cle-dans-la-porte

    Pornhub engrange chaque année des millions de dollars en revenus de publicité et de frais d’adhésion, au rythme de 42 milliards de visites et 6 millions de vidéos mises en ligne par an. Pourtant, l’entreprise ne possède aucun système pour vérifier réellement l’âge ou le consentement des personnes figurant dans les contenus pornographiques hébergés.

    En fait, tout ce qu’il faut pour afficher de la pornographie en ligne sur Pornhub est une adresse électronique. Il n’est besoin d’aucune pièce d’identité émise par le gouvernement, ni même de leur fameuse coche bleue de vérification qui donne l’impression que tout est correct.

    Je le sais, parce que j’ai essayé.

    Il m’a fallu moins de 10 minutes pour créer un compte d’utilisateur et mettre en ligne sur ce site une bande test vierge, qui a été mise en ligne instantanément. J’aurais pu ensuite devenir « accréditée par Pornhub », en leur envoyant une simple photo de moi tenant un bout de papier portant mon nom d’utilisateur. C’est tout ce que j’avais à faire.

    Il n’est donc pas surprenant que Pornhub ait admis avoir accrédité la jeune fille de 15 ans violée dans 58 vidéos sur leur site. En effet, le compte Twitter officiel de Pornhub a écrit en réponse à cette révélation que la jeune de 15 ans avait été accréditée comme membre. Après avoir rapidement réalisé qu’ils venaient d’admettre avoir été complices de sa traite, le représentant de Pornhub a supprimé ces tweets, mais la preuve de cet aveu existe toujours dans cette réponse et dans d’autres tweets.

    Traduction : #Tradfem
    Version originale : https://www.washingtonexaminer.com/opinion/time-to-shut-pornhub-down
    #pédocriminalité #pornographie #traite_d'êtres_humains

  • #Meghan_Murphy : « Pas un maquereau, un manager » : Le Toronto Star enquête sur la traite sexuelle en Ontario
    https://tradfem.wordpress.com/2020/01/24/%e2%80%89pas-un-maquereau-un-manager%e2%80%89-le-toronto-star-enq

    Matthew Deiaco est accusé de traite de personnes et purge une peine au Centre de détention de Toronto-Est à Scarborough. Il dit à Carville : « Le sexe fait partie de la vie. Je pense que si une femme veut en tirer de l’argent, elle ne devrait pas avoir à aller en prison [et il en est de même pour] quelqu’un qui l’aide. C’est sa vie, c’est son corps. »

    Ce discours vous rappelle quelque chose ?

    « Certaines personnes ne veulent pas d’une relation. Ils veulent juste obtenir ce qu’ils veulent et rentrer chez eux. Sans condition », ajoute-t-il.

    Deiaco continue en disant, « Pourquoi arrêter des clients pour le simple fait d’avoir acheté une femme ? » Attendez un instant : « Acheter une femme ? » Je croyais que les hommes ne parlaient jamais comme ça, que c’était un cliché des abolitionnistes ? Je croyais que les féministes inventaient de toutes pièces ce truc d’une « industrie du sexe qui traite les femmes comme des choses, des marchandises à acheter et à vendre » ? Je me demande quand les défenderesses de l’industrie qui passent leurs journées à hurler contre les féministes vont tourner leur attention vers des hommes comme Deiaco…

    Deiaco explique à la journaliste la facilité de faire en sorte que ces filles tombent amoureuses de lui et répondent à ses exigences. « La plupart de ces filles sont brisées », dit Deiaco. « Tu n’as qu’à répondre à leur demande. »

    Comme je l’ai fait valoir à maintes reprises, la ligne que les partisans pro-prostitution tentent de tracer entre une activité « forcée » et « volontaire », est, au mieux, floue. Ces proxénètes n’ont pas besoin de kidnapper qui que ce soit, ils cherchent des filles vulnérables et leur vendent « un rêve », comme le dit Deiaco. « Il s’agit de trouver leur faille. Pour certaines, c’est la drogue, d’autres ont juste besoin de s’entendre dire ʺJe t’aimeʺ… Savoir que quelqu’un se soucie d’elles les répare. »

    Deiaco est accusé de traite, mais techniquement, les filles qu’il prostitue sont volontaires. Il ne les tient pas en otage, littéralement. Il les encourage simplement à « choisir » et soutient leur « choix ».

    Traduction : #Tradfem
    Version originale : https://www.feministcurrent.com/2015/12/15/not-a-pimp-a-manager-toronto-star-trafficking
    #exploitation_sexuelle #système_prostitutionnel #violences_masculines #pro-sexe #féminisme #abolitionnisme #traite_d'êtres_humains

    • Lien vers

      Beaten, branded, bought and sold | The Toronto Star
      https://projects.thestar.com/human-sex-trafficking-ontario-canada

      It’s easy to make up to $1,000 a day with one girl, Deiaco said. “Sometimes in a month, if you have four women, you could make $70,000.”

      Pimps, Deiaco said, prey on girls who are broken; girls who “need that daddy figure.”

      It begins with the boyfriend stage: romantic dates, the illusion of love and the promise of a future, complete with a house they would own together. Then it’s the grooming, the gifts and the hints about how much money she could make working in the sex trade.

      “You get in there, you find the crack, some just need to hear ‘I love you,’ ” Deiaco said.

      Finally it comes to the “sale,” where a pimp convinces a girl to prostitute herself and give him all her money.

    • Quelques exemples de publicités diffusées par Backpage :

      « Venez jouer avec Chantelle. Moins de tracas qu’une petite amie, moins chère qu’une épouse. Baisez cruellement ou gentiment. Je serai extra-douce avec un soupçon d’épice. »

      Compétition avec les autres femmes pour moins-disant relationnel, violence sexuelle et exotisme (racisme). Super cocktail !

      « Diamant à votre service. Je m’assure toujours que vous partiez satisfait. »

      « Je m’appelle Nataly. Je suis ronde, blonde, ouverte d’esprit et enjouée. »

      « Kylie F-K DOLL. Une extraordinaire poupée sexuelle 10/10, délicieuse et bien plus qu’intéressante. »

      « Salut, je m’appelle Cherry. Je suis prête à donner vie à vos fantasmes les plus extrêmes. »

      Pour être clair, voilà pourquoi une disposition du projet de loi C-36 rend illégale la publicité faite par des tiers. Non pas pour sévir contre les quelques femmes « volontaires » qui choisissent de vendre des relations sexuelles, mais pour mettre fin à l’exploitation et pour cibler les trafiquants et les proxénètes.

  • Smuggling, Trafficking, and Extortion: New Conceptual and Policy Challenges on the Libyan Route to Europe

    This paper contributes a conceptual and empirical reflection on the relationship between human smuggling, trafficking and #kidnapping, and extortion in Libya. It is based on qualitative interview data with Eritrean asylum seekers in Italy. Different tribal regimes control separate territories in Libya, which leads to different experiences for migrants depending on which territory they enter, such as Eritreans entering in the southeast #Toubou controlled territory. We put forth that the kidnapping and extortion experienced by Eritreans in Libya is neither trafficking, nor smuggling, but a crime against humanity orchestrated by an organized criminal network. The paper details this argument and discusses the implications.

    https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1111/anti.12579
    #traite_d'êtres_humains #traite #trafic_d'êtres_humains #Libye #asile #migrations #réfugiés #réfugiés_érythréens #extorsion #crime_contre_l'humanité #cartographie #visualisation
    ping @isskein

  • Chèr·es seenthisien·nes (@seenthis),
    je dois avoir un problème avec mes apostrophes, mais je ne sais pas comment résoudre le problème...
    En effet, cela fait plusieurs fois que je remarque que quand je cherche un mot clé qui contient un apostrophe, je ne trouve rien.
    Ce matin, par exemple, je voulais chercher des articles en lien avec la #traite_d'êtres_humains... je tape le mot clé, et voici le résultat :

    Or, je sais que ce tag a été utilisé, et notamment par moi. Quand je cherche juste « #traite », je trouve cela :

    Du coup, si je clique à partir de là sur le tag #traite_d'êtres_humains, je trouve plein de liens :
    https://seenthis.net/tag/traite_d%27%C3%AAtres_humains
    Voici un aperçu :


    Mais si je copie le tag dans le texte et je le colle dans le moteur de recherche, alors je ne trouve rien...
    https://seenthis.net/recherche?recherche=%23traite_d%27%C3%AAtres_humains

    Qui peut m’aider ?
    Est-ce un problème de la configuration de mon ordi (et notamment de mes apostrophes) ou il y a autre chose ?

    #seenthis_bug

    ping @fil

  • Femmes nigérianes prostituées à #Lyon : « payer l’enfer pour rester en enfer »

    Lors du procès d’un vaste réseau de prostitution de femmes Nigérianes qui a pris fin vendredi 15 novembre à Lyon, aucune des dix-sept victimes n’a témoigné à la barre. Mais lors de leurs plaidoiries, les avocats des parties civiles ont levé le voile sur le parcours de vie de ces femmes. Des récits glaçants, qui les mènent de #Benin_City à la traversée de la Libye et de la Méditerranée, jusqu’aux trottoirs de Lyon.

    Pas une n’aura témoigné à la barre, ou dans la presse. Les dix-sept femmes Nigérianes victimes d’un vaste #réseau_de_prostitution ont été les grandes absentes du procès qui s’est ouvert au tribunal correctionnel de Lyon mercredi 6 novembre et qui doit se terminer vendredi.

    « On préfère qu’elles ne soient pas là, pour les protéger », explique à Infomigrants, Anne Portier, avocate d’Équipes d’action contre le #proxénétisme (EACP), l’une des deux associations qui s’est constituée partie civile aux côtés des victimes. L’avocate évoque ainsi « la #peur » de ces jeunes femmes dont certaines ont d’ailleurs retiré leur #plainte et « les risques de pressions » dans une petite communauté « où l’information circule vite ». De fait, 23 des 24 prévenus poursuivis pour aide au séjour irrégulier, proxénétisme aggravé, traite d’êtres humains, association de malfaiteurs et blanchiment d’argent en bande organisée sont, comme les victimes, originaires du Nigéria.

    Les avocats des parties civiles se sont donc succédé, mercredi 13 novembre, pour retracer par fragments la trajectoire de vie de chacune de ces femmes aujourd’hui âgées de 17 à 38 ans et qui tentent de reconstruire leur vie à l’étranger, en région parisienne ou encore en Isère.

    De Benin City à Lyon, le même piège pour toutes

    De prime abord, leurs parcours se ressemblent jusqu’à se confondre : une jeune femme, originaire de Benin City dans l’État nigérian d’Edo, peu éduquée et parfois en rupture avec ses parents, à qui une connaissance fait miroiter le rêve d’une vie meilleure en Europe. S’ensuit, avant le départ, le rite #vaudou du « #juju » au cours duquel la jeune femme s’engage à rembourser une #dette de plusieurs dizaines de milliers d’euros au titre de sa migration. Un montant dont il est difficile de prendre la mesure, 30.000 nairas nigérians équivalant à environ 80 euros.

    Vient ensuite la traversée de la Libye puis de la Méditerranée et l’arrivée en Europe, souvent en Italie, avant le passage en France et « la prise en charge » par une « mama » proxénète (10 des prévenus sont des femmes). La routine infernale s’enclenche alors avec les passes à 10 ou 30 euros dans une camionnette stationnée dans les quartiers lyonnais de Perrache ou Gerland. Au-delà de la dette de 30.000 ou 50.000 euros à rembourser, les femmes prostituées doivent encore payer un loyer de plusieurs centaines d’euros par mois. Tout est d’ailleurs prétexte pour leur facturer davantage, même la clé perdue de leur camionnette. « Payer l’enfer pour rester en enfer », résumera un des avocats des parties civiles.

    Détails de vie terribles

    Au fil des plaidoiries, la singularité des histoires, des parcours et des personnalités apparaît et des détails terribles surgissent. Il y a E. et M., aujourd’hui âgées de 23 ans, et compagnes de voyage et d’infortune dans leur périple jusqu’en France. L’une travaillait dans un salon de coiffure, l’autre rêvait de devenir couturière en Europe lorsqu’on leur propose de quitter le Nigeria. L’espoir tournera vite au cauchemar en Libye lorsque E. sera violée par trois gardiens sous les yeux de M., après s’être interposée pour défendre cette dernière. « Quand on les rencontre aujourd’hui, elles ont une attitude forte. Mais dès que l’on gratte, ça s’effondre », résume leur avocate.

    Il y a E., 17 ans et demi, la plus jeune victime de cette affaire. Son avocat la décrit comme une jeune fille « sous la coupe de la sorcellerie auquel s’ajoute un lien de famille (la jeune fille a été prostituée par sa propre mère NDLR) qui vient sceller un quasi silence ». Et l’avocat d’insister sur le serment quasi sacré qui la liait du fait du ‘juju’ : « Même longtemps après, dans un lieu de confiance, devant des associatifs, elle n’en parlait jamais. Cela dit bien le poids que cela peut représenter ».

    Il y a C. qui a contracté une dette de 70.000 euros, « à 30 euros la passe, cela représente 2.300 passes », relève son avocate. Frappée lorsqu’elle ose s’opposer à son proxénète, sa situation irrégulière la retiendra longtemps de se présenter aux services de police.

    Il y a J., vierge à son arrivée en France, et violée par son proxénète avant d’être prostituée.

    Il y a E. dont l’avocate raconte qu’un de ses clients lui a, un jour, posé un mouchoir sur le nez et qu’elle ne se souvient pas de ce qui s’est passé ensuite. « Elle a été dépossédée de son corps pendant 5 heures », dit l’avocate.

    Il y aussi Cynthia. Son statut dans cette affaire est particulier : à la fois prévenue et victime, elle a témoigné à la barre vendredi dernier. "Cynthia a été un an la prostituée d’Helen (une des « mamas » proxénètes NDLR) et un an son affranchie", a expliqué son avocate. Alors que les écoutes téléphoniques indiquent qu’une fois « affranchie » après avoir honoré sa dette en 14 mois en « travaillant tous les jours », Cynthia a fait venir, à son tour, une jeune Nigériane pour l’exploiter. « Monter en grade », est souvent la seule issue pour ces femmes qui ne parlent pas français, selon les associations de lutte contre la prostitution.

    « Qui est le propriétaire de X ? »

    « On se passe ces femmes comme des objets, on parle d’elles comme de choses », dénoncera une des avocates des parties civiles en appelant à condamner les passeurs. L’avocate d’Équipes d’action contre le proxénétisme (EACP) citera, elle, dans sa plaidoirie les expressions révélatrices utilisée par les proxénètes sur écoute téléphonique : « qui est le propriétaire de X ? », « dans le lot »…

    Alors que des prévenus sont poursuivis pour « traite d’êtres humains », Anne Portier dénoncera dans sa plaidoirie un #esclavage du 21ème siècle où les bateaux pneumatiques traversant la Méditerranée ont remplacé les navires négriers traversant l’Atlantique et où les champs de coton sont désormais des camionnettes où se succèdent les clients.

    Le ministère public a requis dix ans de prison pour les deux chefs du réseau et diverses peines allant de six à dix ans pour les maillons.

    https://www.infomigrants.net/fr/post/20877/femmes-nigerianes-prostituees-a-lyon-payer-l-enfer-pour-rester-en-enfe
    #prostitution #France #migrations #Nigeria #traite_d'êtres_humains #néo-esclavage #exploitation #esclavage_moderne

  • Arbeit ohne Ende, Drohungen, soziale Isolation und das alles für einen Hungerlohn – moderne Sklaven gibt es auch in der Schweiz

    Opfer von Menschenhandel werden in der Schweiz nicht nur als Prostituierte ausgebeutet. Sie arbeiten auch als Gipser, Küchenhilfen oder Pflegende. Doch ihr Leid wird kaum entdeckt.

    Er hauste in der Vorratskammer, kochte und putzte bis zu 14 Stunden am Tag – ein Jahr lang. Dann wurde die Berner Fremdenpolizei per Zufall auf den jungen Chinesen aufmerksam. Er war in die Schweiz gekommen, um an einer Hotelfachschule zu studieren. Dort fing er aber nie an. Stattdessen musste er in einem asiatischen Restaurant arbeiten. Er war völlig isoliert und bekam einen Hungerlohn.

    Moderne Sklaverei nimmt viele Formen an. Bekannt sind vor allem Fälle, bei denen Frauen unter Drohungen in die Schweiz gebracht und zur Prostitution gezwungen werden. Die wenigsten wissen, dass Menschenhandel auch auf dem Bau, in Haushalten oder in Restaurants existiert. «Was, das passiert hier bei uns? Das kann doch nicht sein!» Sätze wie diese bekommt Alexander Ott, der Chef der Berner Fremdenpolizei oft zu hören. Das habe auch damit zu tun, dass falsche Vorstellungen kursierten, wie ein Opfer von Menschenhandel aussehe, sagt er. «Die meisten Leute erwarten eine ausgemergelte Frau mit lauter blauen Flecken.» In Wirklichkeit sieht man den Opfern oft nicht an, was sie durchmachen müssen.
    Kaum Opferberatungen für Männer

    Der Bundesrat bezeichnet den Menschenhandel zwecks Arbeitsausbeutung als «wenig bekanntes und vermutlich unterschätztes Phänomen». Wie viele Opfer es in der Schweiz gibt, ist nicht bekannt. Das Gleiche gilt auch für die Opfer sexueller Ausbeutung, obwohl sie häufiger entdeckt werden. Die kantonalen Opferberatungsstellen und die Fachstelle für Frauenhandel und Frauenmigration (FIZ) haben letztes Jahr zusammen rund 360 Personen im Zusammenhang mit Menschenhandel beraten. Die Dunkelziffer dürfte deutlich höher sein.

    Opfer von Menschenhandel suchen selten selbst Hilfe. Ohne gezielte Kontrollen durch Polizei und andere Behörden kommen die Fälle daher kaum ans Licht. Während die Polizei im Milieu seit Jahren gezielt nach Opfern sexueller Ausbeutung sucht, hat sie die Arbeitsausbeutung noch zu wenig auf dem Radar. «Wir haben erst vor kurzem angefangen, Schwarzarbeiter auch als potenzielle Opfer von Menschenhandel zu sehen», erklärt Ott.

    Bisher waren die meisten Opfer, die entdeckt wurden, Frauen. Doch nun zeigt sich, dass auch viele Männer ausgebeutet werden. Während es für Frauen die Opferfachstelle FIZ gibt, fehlen Beratungsangebote und Unterbringungsmöglichkeiten für Männer. «Das ist ein Riesenproblem», sagt Ott. Beratungsstellen sind zentral, weil die Opfer ihre Situation zu Beginn oft schlecht einordnen können. Sie brauchen Bedenkzeit, bis sie sich entscheiden, vor Gericht auszusagen. Viele vertrauen den Behörden nicht, manche schämen sich für ihre Situation. Ohne ihre Aussage kommt es jedoch oft zu keinem Urteil gegen die Täter, denn Sachbeweise reichen meist nicht. «Ohne Opferschutz kein Prozess gegen die Täter», fasst Ott zusammen.
    Schläge, kein Lohn und 24 Stunden Bereitschaft

    Die FIZ nimmt vereinzelt auch Männer auf. Doch eigentlich ist ihr Angebot spezifisch auf Frauen ausgerichtet. Die meisten sind Opfer von Menschenhandel zwecks sexueller Ausbeutung. Mittlerweile kommen laut Eva Andonie von der FIZ aber auch immer mehr Fälle von Arbeitsausbeutung ans Licht. Meist handle es sich um Frauen, die in Privathaushalten ausgebeutet werden: «Sie müssen rund um die Uhr verfügbar sein, um sich um Kinder oder ältere Leute zu kümmern oder zu putzen.»

    Das hat auch Elena* erlebt. Die 20-Jährige lebte mit ihrer Tochter in armen Verhältnissen in einem Land in Osteuropa. Ihre Mutter stellte den Kontakt zu einer Familie in der Schweiz her, wo Elena im Haushalt arbeiten und sich um die Kinder kümmern sollte. Ihr wurden nicht nur Kost und Logis, sondern auch viel Geld versprochen. Als sie in der Schweiz ankam, nahm ihr die Familie den Pass ab und zwang sie, fast rund um die Uhr zu arbeiten. Lohn erhielt sie keinen, sie wurde regelmässig geschlagen. Als einem Nachbarn auffiel, dass Elena Spuren von Misshandlungen aufwies, brachte er sie zur Polizei. Diese ermittelte anfangs nur wegen Körperverletzung, verwies Elena aber an die FIZ. In den Gesprächen mit der Fachstelle erzählte die junge Frau, was sie durchmachen musste. Es kam zu einer Gerichtsverhandlung, und das Täterpaar wurde wegen Menschenhandels verurteilt.
    Nicht überall wird Opfern gleich gut geholfen

    Anfang Oktober hat eine Expertengruppe des Europarats die Schweiz in einem Bericht kritisiert. Sie hatte untersucht, wie Menschenhandel hierzulande geahndet wird und welche Möglichkeiten den Opfern geboten werden. Die Experten stellen zwar fest, dass es in den letzten Jahren Fortschritte gab. Trotzdem bemängeln sie, die Schweiz tue noch immer nicht genug, um Opfer zu identifizieren, insbesondere bei der Arbeitsausbeutung. Und es gebe grosse kantonale Unterschiede: Nicht überall werde gleich viel getan, um Betroffenen zu helfen.

    Der Bund setzt derzeit den zweiten Aktionsplan gegen Menschenhandel um. Die Zusammenarbeit verschiedener Stellen wurde intensiviert, medizinisches Personal und Arbeitsinspektoren wurden geschult. Ott und seine Kollegen bei der Fremdenpolizei ziehen mittlerweile immer andere Stellen mit ein, wenn sie einen Betrieb kontrollieren – beispielsweise Arbeitsinspektoren oder die Kantonspolizei. «Jede Behörde achtet auf andere Faktoren. Die müssen wir kombinieren, damit wir Opfer von Menschenhandel identifizieren können.»

    Es kann sein, dass Papiere und Lohn eines Betroffenen auf den ersten Blick stimmen, er aber alles Geld an seinen Arbeitgeber abtreten muss. Das sei nicht leicht zu entdecken. Die Zusammenarbeit sei auch deshalb wichtig, weil das föderale System der Schweiz von den Tätern leicht ausgenutzt werden könne: «Sie gehen einfach in einen anderen Kanton oder wechseln die Branche – so verschwinden sie leicht vom Radar.»
    Opfer aus Osteuropa, Asien oder Südamerika

    2016 hat die Universität Neuenburg in einer ersten Studie untersucht, in welchen Branchen Arbeitsausbeutung häufig vorkommt und woher die Opfer stammen. Dabei stellten die Forscher klare Muster fest: Im Baugewerbe sind fast nur Männer aus Osteuropa oder dem Balkan betroffen. Ähnlich ist es in der Landwirtschaft. In der Gastronomie sind es Frauen und Männer, viele stammen aus Asien. Frauen, die im Haushalt ausgebeutet werden, stammen derweil oft aus Südamerika oder Afrika.

    Gerade im Pflegebereich müsse in Zukunft stärker kontrolliert werden, findet Polizeichef Ott. Das sei jedoch schwierig, weil illegal in Haushalten Arbeitende schwer zu entdecken seien. Wichtig sei es auch, sich nicht nur auf die bekannten Problembranchen zu fokussieren. So gebe es beispielsweise zunehmend Hinweise auf Ausbeutung bei Paketzustellern.

    Hinter Menschenhandel müssen keine internationalen Verbrechernetzwerke stehen. Es gibt auch Einzelpersonen, die Menschen mit Inseraten in die Schweiz locken, um sie auszubeuten. Oft kommen die Täter aus demselben Land wie ihre Opfer. Ott weiss aber auch von einem Fall, in dem ein Schweizer Bauer seinen Saisonarbeitern nur einen Hungerlohn bezahlte. Sie schliefen im Auto neben dem Feld. Die Polizei wurde auf sie aufmerksam, doch ein Prozess kam nicht zustande.
    Manche willigen zuerst ein, für einen Hungerlohn zu schuften

    Viele Opfer haben einen ungesicherten Aufenthaltsstatus und sind in einer prekären finanziellen Situation. Dadurch werden sie vom Ausbeuter abhängig. Andonie und Ott sagen beide, es gebe einen grossen Graubereich. Nicht immer ist klar, ob die Täter oder Täterinnen ihre Opfer gezwungen haben. «Manche Opfer willigen zu Beginn auch ein, für einen schlechten Lohn zu arbeiten, weil sie keine Alternative sehen.» Erst später werde dann psychischer Druck auf sie ausgeübt, womit die Ausbeutung offensichtlich werde. Ott ergänzt, oft hätten die Betroffenen in ihrer Heimat kaum Perspektiven. Da nähmen sie jede noch so schlechte Arbeit an. Gleichzeitig sähen sich gerade Männer oft selbst nicht als Opfer. «Das macht es für die Täter einfacher und für uns umso schwieriger».

    In der Schweiz gibt es nur wenige Verurteilungen wegen Menschenhandels. Oft ist die Beweislage schwierig – gerade, wenn keine sexuelle Ausbeutung vorliegt. Laut einer Studie des Kompetenzzentrums für Menschenrechte, die im Mai erschienen ist, kam es in der Schweiz bisher nur in sechs Fällen zu einer Verurteilung wegen Menschenhandels zwecks Arbeitsausbeutung. Die Autoren kamen zum Schluss, dass die mangelnde juristische Definition des Begriffs «Arbeitsausbeutung» problematisch ist. Dies führe dazu, dass ähnliche Fälle unterschiedlich beurteilt würden.
    Fehlt ein Straftatbestand?

    Runa Meier ist Staatsanwältin in Zürich und spezialisiert auf Menschenhandel. Sie sagt: «Weil es in diesem Bereich bis heute so wenige Urteile gibt, fehlt es an der Rechtsprechung, an der sich die Strafverfolgungsbehörden orientieren könnten.» Derzeit sind bei der Staatsanwaltschaft Zürich mehrere Fälle hängig, in denen einem Verdacht auf Arbeitsausbeutung nachgegangen wird.

    Für ein Urteil wegen Menschenhandels muss man beweisen können, dass der Täter einen Menschen angeworben hat, um dessen Arbeitskraft auszubeuten. «Das ist extrem schwierig», erklärt Meier. Bei der sexuellen Ausbeutung gibt es zusätzlich den Straftatbestand der Förderung der Prostitution. «So kann ein Täter trotzdem bestraft werden, wenn für Menschenhandel die Beweise fehlen», sagt Meier. Bei der Arbeitsausbeutung fehlt eine vergleichbare gesetzliche Regelung. Es kann höchstens auf Wucher plädiert werden. Darum wird derzeit diskutiert, ob ein neuer Tatbestand geschaffen werden soll. Doch selbst damit wären nicht alle Probleme gelöst: «Am Ende sind wir auf die Aussagen des Opfers angewiesen, um eine Verurteilung zu erreichen.» Diese zu bekommen, bleibt die zentrale Herausforderung.

    https://www.nzz.ch/schweiz/menschenhandel-moderne-sklaven-sind-zum-schuften-in-der-schweiz-ld.1516008?mktci

    #esclavage #esclavage_moderne #travail #exploitation #Suisse #impuntié #justice #chiffres #statistiques #migrations #femmes #hommes #traite_d'êtres_humains

    ping @reka

  • UNHCR in Libya Part 1 : From standing #WithRefugees to standing #WithStates ?

    October 3rd is a day upon which the UNHCR “remember and commemorate all the victims of immigration and promote awareness-raising and solidarity initiatives.”

    With that very sentiment in mind, Euronews has undertaken an investigation into the UNHCR’s operation in Libya, where tens of thousands of migrants live in detainment camps, hoping to make it to Europe.

    We uncover the extent of neglect in terms of care that can be found where migrants wait to be processed. We ask why the UN’s humanitarian agency cannot have the required access in Libya when the mother organisation - The United Nations - is working with the Tripoli-based government. We ask why there is a severe lack of transparency surrounding the agency’s operation and we talk to some of the migrants involved in the process and allow them to tell their stories.


    https://www.euronews.com/2019/10/02/unhcr-in-libya-part-1-from-standing-withrefugees-to-standing-withstates
    #Libye #HCR #UNCHR #responsabilité #camps_de_réfugiés #réfugiés #asile #migrations #ONU #nations_unies #transparence #droits_humains #droits_fondamentaux #réinstallation #inefficacité #argent #financement #aide_humanitaire #indépendance

    ping @isskein @karine4 @reka

    • UNHCR in Libya Part 2 : Migrants in detention centres : ’Why does UNHCR want to keep us in prison ?’

      In this, the second part of our four-part investigation into the UNHCR’s operation in Libya, we talk to those migrants actually involved in the registration and detainment process. They tell Euronews their stories.

      Despite increased EU funding to the Libyan coastguard, and an Italian memorandum of understanding with the DCIM (the body responsible for running migrant detention centres) no effective provision has been made by the EU to implement migrants’ human rights and living conditions in Libya.

      The migrant experience in the embattled North African nation is deteriorating. Many people in that position who spoke to Euronews have reported abuses after being thrown into detention centres with the hope of being registered by UNHCR. Testimonies include instances of torture, rape and extortion at the hands of local militias and when this leads to an attempt to cross the Mediterranean sea, reports also detail how they have been intercepted by the Libyan coastguards and automatically re-incarcerated into the detention centres.

      “It has become an infinite, terrible circle from which there is no way out”, Julien Raickman, head of the MSF-France’s Libyan operation, told The Times.

      UNHCR’s main mission in Libya is to register migrants and find a solution to get them out of the country. However, as Raickman adds, “the resettlement procedure is totally blocked”.


      https://www.euronews.com/2019/10/02/unhcr-in-libya-part-2-migrants-in-detention-centres-why-does-unhcr-want-to
      #centres_de_détention #détention #Qasr_Bin_Gashir #Zintan #Az-Zāwiyah #Abu_Salim ##Az-Zawiyah

    • UNHCR in Libya Part 3: Former staffer blows whistle on favouritism and ’culture of impunity’

      Libya’s United Nations Refugee Agency has been branded “the worst in the region” by a former staff member who has alleged corruption, mismanagement and incompetence in its dealings with tens of thousands of vulnerable refugees and asylum seekers.

      The former staff member, who spoke to Euronews on condition of anonymity, painted an image of an agency overstretched and out of its depth, with asylum seekers left homeless, deprived of medical care and in legal limbo in an increasingly violent and unstable Libya.

      Migrants and refugees on the ground told Euronews that they had even bribed their way into Libya’s notorious detention centres in an effort to speed up their asylum claims. There they face exploitation at the hands of militia groups, which run the centres in all but name.

      The former staff member described a chaotic infrastructure at UNHCR, where he worked for several years, with asylum seekers registered under incorrect nationalities and others forced to wait for months to hear the status of their applications.

      Meanwhile, questions about UNHCR in Libya have stretched to procurement. An internal audit found that the agency had purchased laptop computers at inflated prices (eight laptops for just under $50,000) and used two travel agents to purchase almost $200,000 worth of flight tickets. The audit also notes that “no competitive bidding was conducted for the travel services” (sect. D of OIOS report 2019/007).
      Medical care

      Euronews has spoken to dozens of asylum seekers on the ground in Libya, including a man suffering from pulmonary tuberculosis. Asyas, 30, was discharged from the hospital by a UN medical partner, the International Medical Corps (IMC), and was now living in a private home in Tripoli.

      “I’m just waiting to die,” he told us.

      A medical source in Tripoli said that the hospitalisation of migrants and refugees - especially those cases with tuberculosis - is expensive, and some public hospitals lack the equipment to correctly diagnose the cases.

      As a result, NGOs have to find a balance between paying very high bills to private hospitals or discharging patients too early, the source concludes.

      The IMC told Euronews it cannot comment on the case.

      The feeling on the streets is one of abandonment by international institutions. Asylum seekers in urban areas believe that the UN agency will be there to help them find accommodation for example but the UNHCR are not obligated to do so.

      In one case, a group of Sudanese refugees – including expectant mothers and newborn babies - have been living for several months in an abandoned warehouse in an area of Tripoli known as al-Riyadiya.

      The group were since evicted from the warehouse and are now sleeping in front the UNHCR community day centre, waiting to be moved to safer housing.

      Commenting on the experiences Euronews uncovered, a spokesperson for the UNHCR, Charlie Yaxley, said: “Life for many refugees is extremely difficult and what we can do is at times very limited.”
      Libya in the eye of the storm

      Libya has been at the forefront of the migrant crisis and is the embarkation point for many boats that attempt to cross the Mediterranean to Italy.

      Libya’s lawlessness since the 2011 war that followed the overthrow of Colonel Gaddafi has seen the rise of numerous militia groups, all competing for a piece of the lucrative migrant trade.

      A large part of that trade is the operation of detention centres, officially run by the government but effectively controlled by militia groups. Asylum seekers detained in Libya are held at the centres, where they are often subject to abuse and violence.

      The conditions at detention centres has got so bad that the UNHCR prioritise the processing of refugees and migrants that are held in them - as they are considered among the most vulnerable. This has led to asylum seekers actually bribing their way into centres, sources say.

      In December, migrants and refugees detained in Khoms Suq al-Khamis started a hunger strike to persuade UNHCR to visit the centre and register them in the hope that this might stop them from being sold and disappeared.

      Amina, a Somali refugee now in Triq al-Sikka facility in Tripoli confirmed to Euronews that she paid money to be “accepted into detention and have a better chance to be registered and evacuated".

      The former UN staff member detailed one case where he claims a pregnant rape victim had opted to return to a detention centre in order to be considered for evacuation.

      At the Abu Salim detention centre, Eritrean refugees have been begging the detention centre manager to admit them, with the sole hope of being evacuated.

      Others are paying to get themselves in to the UNHCR’s Gathering and Departure Facility (GDF) - managed by the Libyan Ministry of Interior, UNHCR and UNHCR’s partner LibAid - in Tripoli, where refugees are normally hosted until their transfer to another state is confirmed.

      There, one refugee awaiting evacuation told Euronews: “The guards who are working at the gate, brought inside Somalian and Eritrean women; they paid 2000 dinars (around 430€) each. We told this to UNHCR, and they asked us not to tell anyone”.

      Commenting on the allegations, Yaxley said: “UNHCR takes any claims of misconduct very seriously. Any claim that is found to be valid following an investigation is followed by a zero tolerance approach. We strongly encourage any victims to directly contact our Inspector General’s Office.”.
      Lack of information

      Aside from bribery, the former employee said that the fate of individual asylum seekers and their families in Libya largely relies on luck.

      “It’s up to the office,” the source said.

      “At the beginning of 2019, the UNHCR registered a woman from Ivory Coast (which is not among the 9 nationalities that are prioritised according to Cochetel), only because there was a recommendation letter from a higher rank.

      “Sometimes you may wait months to register a case because no one will give you approval; there are cases of favouritism and a lazy attitude. All registration processes are unclear.”

      Many refugees and asylum seekers in Tripoli complained to Euronews about the lack of information available to them about their personal case. The former employee said that this is part of a strategy at the agency in order to avoid having to deal with the huge amount of admin involved.

      “It’s a general attitude not to answer refugees and keep them blind to avoid more requests. In Tripoli, refugees or asylum seekers are left without a clue. They don’t know if they are accepted or rejected.

      “They receive very little information about their file and most of the time, no proper update about the process, or in case they have to appeal if their request has been rejected.”

      The source said that since September 2017 there is no system in place to appeal against rejection on their refugee status, and asylum seekers don’t know they have the right to appeal the decision within 30 days.

      One family from Nigeria, now detained in Az-Zāwiyah detention centre, described their experience.

      “The first time we managed to meet UNHCR was secretly in Tarik Al Matar centre in July 2018. Since that time UNHCR is refusing to register us. When we try to ask about our cases they kept telling us later, next time, next time,” the father said.

      “Sometimes they avoid us totally. Once, UNHCR has even advised us to return home. My youngest girl has been born in detention and the eldest have some traumatic effects due to a whole lot of horrible stuff they’ve experienced.”

      Meanwhile the situation in Libya is only likely to get worse, with a bottleneck in some states like Niger slowing down the evacuation plan from Libya.

      There are currently 1,174 evacuees from Libya staying in Niger, including 192 evacuated unaccompanied children, according to UNHCR. With the Emergency Transit Mechanism (ETM) at full capacity, many cases are still pending a decision.

      “The Government of Niger has generously offered additional space for up to 1,500 refugees in the Emergency Transit Mechanism run by UNHCR in Niamey with financial support from the European Union,” writes Cochetel in May 2018.

      Mistakes

      To make the situation worse, according to the former employee, many mistakes have been made including nationalities wrongly assigned to individuals.

      “UNHCR was registering Chadians as Sudanese, or Ethiopians as Eritreans. The UNHCR staff in Libya was not qualified to properly understand the situation,” the source said.

      Commenting on that claim, Yaxley said: “UNHCR staff are selected through the same processes as in all other operations worldwide, following human resources rules. There are over 100 national staff working in Libya. UNHCR does not work with external contractors.”

      The aforementioned concentration on nine specified nationalities was put in place in order to keep numbers down, the former staff member said.

      Libya’s Undersecretary of the Ministry of Interior for Migration, Mohammed Al-Shibani, said that on the contrary the Libyan government is not refusing to register other nationalities. “The nationalities are determined by the UN not by us,” he said.

      Procurement

      On issues with procurement, the former staff member points Euronews at the internal UN audit of the operations in Libya, which found that UNHCR designated procurements to 12 partners worth $4.7 million and $4.0 million in 2017 and 2018 respectively.

      But the mission “did not conduct any cost-benefit analysis”, opting instead for direct procurement “despite the significant differences between official and market exchange rates.

      In 2017 and 2018, “the mission designated procurement exceeding $100,000 to three partners without them being pre-qualified by the Procurement Service at headquarters”. A lack of procurement plans resulted in ’’unnecessary and higher” costs.

      For example, the audit found a transaction for eight laptops with total expenditure of $47,067 (equivalent to a unit cost per laptop of $5,883). Moreover, flight tickets amounting to $128,000 and $66,000 during 2017 and 2018 were bought from two different travel agencies without any clear process for selection, as mentioned in the audit and confirmed by a former UN source.

      “The mission was unable to demonstrate it used its resources effectively and efficiently in providing for the essential needs of persons of concern. The lack of reporting also increased UNHCR’s reputational risk”, reads the audit.

      https://www.euronews.com/2019/10/03/unhcr-in-libya-part-3-former-staffer-blows-whistle-on-favouritism-and-cult
      #impunité

    • UNHCR in Libya Part 4: The detention centres - the map and the stories

      When NGO workers arrived at the Janzoor detention centre in Libya in October 2018 to collect 11 unaccompanied minors due to be returned to their country of origin, they were shocked to find that the young people had completely disappeared.

      The failed asylum seekers were registered and ready to go, a staff member at the International Organisation of Migration, who wished to remain anonymous, told Euronews. It took six months to find out what had happened to the group.

      “They were sold and their families were asked for ransom”, the former staff member said.

      In February 2019, the Libyan government revealed that there were 23 detention centres operating in Libya, holding over 5,000 asylum seekers. While they are officially run by the government, in reality it is Libya’s complex patchwork of militias that are in control.

      Even those ostensibly run by Libya’s Directorate for Combatting Illegal Migration (DCIM) are effectively under the control of whichever armed group controls the neighbourhood where a centre is located.
      Rule of militias

      Militias, also known as “katibas”, are de-facto in control of the gates of the centres and the management. In many cases, migrants and refugees are under arrest in locations which are not considered official detention facilities, but “holding places” for investigation.

      By correct protocol, they should be sent to proper detention facilities, but in reality procedures are seldom respected and asylum seekers are detained with no legal review or rights.

      For many migrants and refugees, the ordeal begins at sea.

      According to the Libyan coast guard, from January to August 2019, nearly 6,000 people were intercepted and brought back to Libya.

      On September 19, a man from Sudan died after being shot in the stomach hours after being returned to shore.

      The IOM, whose staff witnessed the attack, said it occurred at Abusitta disembarkation point in Tripoli, when 103 people that had been returned to shore were resisting being sent back to detention centres.

      IOM staff who were on the scene, reported that armed men began shooting in the air when several migrants tried to run away from their guards.

      “The death is a stark reminder of the grim conditions faced by migrants picked up by the Coast Guard after paying smugglers to take them to Europe, only to find themselves put into detention centres” said IOM Spokesperson Leonard Doyle.

      With conflict escalating in Tripoli and many detention centres located on the frontline, the majority of the people intercepted by Libyan coast guards are brought to al-Khoms, a coastal city 120km east of the Libyan capital.

      Tortured, sold, and released

      According to UN sources, guards at the city’s two detention facilities - al-Khoms and Souq al-Khamis - have either facilitated access to the militias or were afraid to deny them access.

      “Let me be honest with you, I don’t trust anyone in al-Khoms centre,” a former DCIM official told Euronews.

      “The detention centre has been officially closed by the DCIM but the militia there do whatever they want and they don’t respect the orders given by the Ministry of Interior.

      “People have been tortured, sold and released after paying money. The management and the militia in al-Khoms, they act independently from the government”.

      Last June, during the protection sector coordination meeting in Tripoli, UN agencies and international organisations raised the question of people disappearing on a daily basis.

      “In one week at least 100 detainees disappeared and despite the closure of the centre, the Libyan coast guard continued to bring refugees to al-Khoms detention centre” according to a note of the meeting seen by Euronews.

      The head of an international organisation present at the meeting, who asked to remain anonymous, said: “Many organisations have been turning their back on the situation, as they were not visiting the centre anymore.

      “19 people from Eritrea were at risk, including young ladies between 14 and 19 years old”.

      During a press briefing last June, the spokesman for UN High Commissioner for Human Rights, Rupert Colville, reported that women held in detention have been sold into sexual exploitation.

      David, a migrant who had been detained in Misrata detention centre was able to get out after transiting from a safe house in al-Khoms. He said that centre staff “had been extorting money from detainees for months.

      “I didn’t have a choice as the UN refused to register me because I come from Central African Republic and my nationality is not among the one recognised by UNHCR.”

      Detention centres are still open

      In August 2019, Libyan authorities in Tripoli confirmed the shutdown of three detention centres in Misrata, Khoms and Tajoura, but DCIM officers and migrants held in detention confirmed to Euronews that the centres are still open.

      While it is impossible to independently verify the current status of the facilities - as as the Ministry of Interior in Tripoli does not authorise access to them - Euronews was able to speak on the phone with detainees.

      “Just bring a letter with the authorisation from the Ministry of Interior and I will let you enter,” said one commander from Tajoura on the phone, confirming that the centre was still running.

      Another source at the DCIM in Tripoli mentioned that Tajoura was still running and the militia was mainly arresting people from street to fill the hangars again.

      The decision to close the Az-Zāwiyah detention centre - mentioned in PART 1 and 2 - was taken in April 2018 by former head of DCIM Colonel Mohamed Besher. But the centre has instead been transformed into an arrest and investigation centre.

      Located at the Az-Zāwiyah Refinery, which is secured by Al-Nasser brigade since 2011, it is close to the base of the Az-Zāwiyah coastguard

      Both the commander of the Libyan Coast Guard’s Unit and the head of Al-Nasr brigade are sanctioned by UN and the United States for alleged involvement in human trafficking and migrant smuggling.

      Mohammed Kushlaf is working in cooperation with “Osama” (➡️ SEE PART 2), who is in charge of the detention facility. His name appears 67 times in the recent investigation conducted by Italian prosecutor Luigi Patronaggio.

      ‘Inhumane conditions’

      The investigation had “confirmed the inhumane conditions” endured by many migrants and “the need to act, at an international level, to protect their most basic human rights.”

      The Government of National Accord has supported the UN sanctions and issued public statements of condemnation against the trafficking and smuggling of migrants.

      The Libyan prosecutor has also issued an order to suspend the commander of the Libyan Coast Guard and bring him into custody for investigations, although this was never implemented, confirmed a Libyan lawyer working at the Ministry of Justice.

      Sources at the DCIM mentioned that between September 2018 and April 2019 - when the Libyan National Army (LNA) troops guided by the general Khalifa Haftar seized Tripoli’s southern suburbs – many detention centres were located near the clashes.

      Salaheddin, Ain Zara, Qasr Bin Ghashir and Tariq Al Matar detention centres have been closed because of the conflict.

      As a result, large groups of refugees and migrants have been displaced or transferred to other locations. A DCIM officer in Tripoli mentioned that “The Tariq Al Matar centre was in the middle of the clashes and many refugees left to find safety in other areas after a few people were injured. A group was transferred to Ain Zara and another to Janzour detention centre, some 20 kilometres southwest of Tripoli’s centre.”

      Migrants being recruited to help militia in Libya’s civil war

      In September and several times in December and January, refugees say they were forced to move and pack weapons as fighting between rival armed groups in the capital of Tripoli flared up.

      They also engaged directly with local militia, from the Tripoli suburb of Tarhouna, that was controlling Qasr Bin Ghashir detention centre at the time.

      “No one was fighting on the front but they would ask us to open and close the gate and move and pack weapons”, said Musa, a Sudanese refugee who left Qasr Bin Ghashir in April following the attack.

      On October 2, Abdalmajed Adam, a refugee from South Sudan was also injured by a random bullet on his shoulder and was taken to a military hospital,” adds Musa.

      The militia who is controlling the area where Abu Salim detention centre is located is known as Ghaniwa and is aligned to the GNA.

      The group has been asking refugees, especially Sudanese – as they speak Arabic - to follow them to the frontline.

      “Last August they bought us to Wadi Al-Rabea in southern Tripoli, and asked us to load weapons. I was one of them. They took five of us from the centre,” said Amir, a Sudanese asylum seeker who is detained in Abu Salim.

      A former DCIM officer confirmed that in June 2018, the head of Abu Salim DCIM, Mohamed al-Mashay (aka Abu Azza), was killed by an armed group following internal disputes over power.

      The Qasr Bin Ghashir detention centre, in which 700 people were locked up, was attacked on April 23. Video and photographic evidence shows refugees and migrants trapped in detention having incurred gunshot wounds.

      Multiple reports suggested several deaths and at least 12 people injured. A former DCIM officer mentioned that behind the attack there was a dispute over the control of the territory: it is a very strategic point being the main road to enter to Tripoli.


      https://www.euronews.com/2019/10/03/unhcr-in-libya-part-4-the-detention-centres-the-map-and-the-stories

      #torture #traite_d'êtres_humains #cartographie #visualisation #localisation

  • Article sur le #réseau de #prostitution de #femmes nigérianes en #France (publié en mai 2015)
    Trahies, battues, violées: l’enfer des prostituées nigérianes en France

    « Je croyais qu’une fois en France, j’allais étudier, que l’enfer allait s’arrêter », raconte Joy, forcée à se prostituer pour payer son exil. Comme elle, des centaines de jeunes Nigérianes en quête d’une vie meilleure, finissent, après un voyage traumatisant, sous la coupe d’un réseau de prostitution.

    Dans les rues des grandes villes de France, elles sont aujourd’hui les plus nombreuses, devant les filles de l’Est ou les Chinoises, selon les autorités, et pratiquent les tarifs les plus bas, à partir de 10 euros la passe.

    La plupart arrivent d’Italie, où elles ont passé jusqu’à plusieurs années. « Les réseaux nigérians se déplacent vers la France en provenance d’Italie », confirme Didier Leschi, directeur général de l’Office français de l’immigration et de l’intégration (Ofii). La lutte contre les mafias nigérianes engagée par le gouvernement italien a forcé ces réseaux à se déplacer vers le Sud-Est de l’Hexagone.

    A Marseille, où la part des prostituées nigérianes a nettement augmenté ces dernières années, Michel Martinez, chef de la brigade de répression du proxénétisme (BRP), a appris à connaître ces réseaux « très organisés » : « Au pays, les filles sont recrutées par une +madame+, souvent une ancienne prostituée, qui les surveille et les met au travail, tandis que les hommes s’occupent du passage, de la logistique, de récupérer l’argent ».
    « Des invisibles »

    Leur parcours —Niger, Libye puis Italie en général— dure 2-3 mois « pendant lesquels elles sont privées de nourriture, violées, et elles commencent à travailler car elles n’ont pas d’argent pour payer le voyage ». Le prix de l’exode : 50.000 euros en moyenne, qu’elles doivent rembourser en se prostituant.

    Happy, qui a aujourd’hui refait sa vie à Marseille, a par exemple laissé derrière elle deux enfants au Nigeria pour fuir un mari violent. Forcée à se prostituer par ses passeurs pour payer son voyage vers l’Europe, elle finit par fuir l’Italie, où elle était « persécutée par la police, les hommes », raconte-t-elle à l’AFP, et traverse les Alpes, enceinte de 8 mois. « C’était terrible », décrit-elle en anglais, « j’ai dû grimper, sauter, courir avec mon gros ventre, mais j’y suis arrivée et j’ai sauvé mon bébé ».

    Les proxénètes sont très difficiles à « coincer », pointe aussi Michel Martinez : « Ce sont des personnes très peu visibles : elles n’utilisent pas le téléphone, sont très mobiles, changent de perruque, d’adresse, de numéro... Parfois les +madames+ s’échangent même les filles pour brouiller les pistes ».

    Pour faire tomber les réseaux, la police s’appuie sur les associations, qui peuvent convaincre les filles de porter plainte. Une démarche « extrêmement délicate » selon Lionel Arsiquaud, éducateur spécialisé de l’Amicale du Nid à Marseille, qui a vu « exploser » les arrivées de Nigérianes, qui représentent maintenant 80 % de son public. « C’est d’autant plus difficile qu’elles ne se sentent pas victimes de traite humaine », développe ce travailleur social.

    « Elles ont peur de tout, ce sont des invisibles », renchérit Elisabeth Moiron-Braud, secrétaire générale de la Mission interministérielle pour la protection des femmes contre les violences et la lutte contre la traite des êtres humains (Miprof). « Quand elles arrivent en France, elles ont un lourd passif, elles ont été traitées comme du bétail en Libye ».

    Joy, à qui on avait fait miroiter des études en France, a été recrutée à Benin City, plaque tournante de trafics en tous genres. « Dans mon pays, on ne parle pas de prostitution, on dit qu’on va +se faire sponsoriser le voyage+ », souligne-t-elle. Il y a 10 ans, cette coiffeuse « très pauvre », qui peine à manger chaque jour, fait confiance à un homme qui dit vouloir l’aider.

    Dans ses bagages, elle emmène tous les livres qu’elle possède pour ses futures études. Le voyage dure un an, durant lequel son « sponsor », qui l’avait recrutée, la force à se prostituer. « Je couchais avec des hommes arabes, souvent armés, j’étais tellement battue et violée que je ne pouvais plus marcher ni m’asseoir, mais j’étais sûre qu’en France tout s’arrangerait », raconte la jeune femme aux longs cheveux bouclés. Quand elle raconte à ses compagnes d’infortune qu’elle va étudier, « elles se moquent » d’elle.
    Rituel vaudou

    Arrivée en France, elle comprend que son calvaire ne fait que commencer : « La +madame+ du réseau m’a dit que je lui devais 40.000 euros et que pour ça je devais aller sur le trottoir ».

    Pour Lionel Arsiquaud, les réseaux ont d’autant moins de mal à tenir les filles sous leur coupe qu’il s’agit de personnes « conditionnées, dans leur pays, à être esclaves de maison ou dans les champs, à ne pas toujours être payées pour leur travail ».

    Des jeunes filles, parfois mineures, issues de familles « malveillantes et maltraitantes, qui parfois les vendent aux passeurs et à la +madame+ ». En général, explique Célia Mistre, directrice de l’Amicale du Nid 13, « elles souhaitent arrêter parce qu’elles sont enceintes ou à cause des violences, pas tant à cause de la prostitution qu’elles ont intégrée psychologiquement comme un poids à porter ».

    Un fardeau sanctuarisé par le rituel du « juju », un rituel vaudou qui lie les filles jusqu’à la mort à leur « madame ». Joy se souvient d’une cérémonie « effrayante, où je devais donner du sang, des cheveux, une dent même ». Quand elle trouve la force de quitter le réseau en 2015, sa « madame » appelle ses parents au Nigeria pour les menacer d’activer le « juju » contre eux.

    Aujourd’hui maman de deux petites filles nées à Marseille, Joy tente d’obtenir des papiers pour travailler légalement en France. Depuis qu’elle a porté plainte contre ses proxénètes, la trentenaire se sent « comme entre parenthèses », dans l’attente d’une nouvelle vie.

    https://www.lepoint.fr/societe/trahies-battues-violees-l-enfer-des-prostituees-nigerianes-en-france-03-05-2
    #migrations #asile #réfugiés #traite_d'êtres_humains #Nigeria

  • Das Geschäft mit den Flüchtlingen - Endstation Libyen

    Wenn sie aufgegeben haben, besteigen sie die Flugzeuge. Die Internationale Organisation für Migration (IOM) transportiert verzweifelte Flüchtlinge und Migranten zurück in ihre Heimatländer – den Senegal, Niger oder Nigeria. Es ist die Rettung vor dem sicheren Tod und gleichzeitig ein Flug zurück in die Hoffnungslosigkeit.

    https://www.deutschlandfunkkultur.de/media/thumbs/2/27a298dc737f6b659d3d4b7b097f1346v1_max_700x394_b3535db83dc50e2

    Flug in die Hoffnungslosigkeit (picture-alliance / dpa / Julian Stratenschulte)

    Für die Menschen, die Tausende Kilometer nach Libyen gereist sind, um nach Europa überzusetzen, wird die EU-Grenzsicherung zunehmend zur Falle. Denn die Schleuser in Libyen haben ihr Geschäftsmodell geändert: Nun verhindern sie die Überfahrt, kassieren dafür von der EU und verkaufen die Migranten als Sklaven.

    Die Rückkehrer sind die einzigen Zeugen der Sklaverei. Alexander Bühler hat sich ihre Geschichten erzählen lassen.

    Endstation Libyen
    Das Geschäft mit den Flüchtlingen
    Von Alexander Bühler

    Regie : Thomas Wolfertz
    Es sprachen : Sigrid Burkholder, Justine Hauer, Hüseyin Michael Cirpici, Daniel Berger, Jonas Baeck und Florian Seigerschmidt
    Ton und Technik : Ernst Hartmann und Caroline Thon
    Redaktion : Wolfgang Schiller
    Produktion : Dlf/RBB 2018

    Alexander Bühler hat in Gebieten wie Syrien, Libyen, Haiti, dem Kongo und Kolumbien gearbeitet und von dort u.a. über Drogen, Waffen- und Menschenhandel berichtet. 2016 erhielt er den Deutschen Menschenrechtsfilmpreis in der Kategorie Magazinbeiträge, 2018 den Sonderpreis der Premios Ondas.

    https://www.deutschlandfunkkultur.de/das-geschaeft-mit-den-fluechtlingen-endstation-libyen.3720.de.

    #migrations #UE #externalisation #contrôles_frontaliers #frontières #désert #Sahara #Libye #gardes-côtes_libyens #Tunisie #Niger #OIM (#IOM) #évacuation #retour_volontaire #réinstallation #Côte_d'Ivoire #traite #traite_d'êtres_humains #esclavage #marchandise_humaine #viol #trauma #traumatisme #audio #interview #Dlf

    @cdb_77, j’ai trouvé la super !!! métaliste sur :
    externalisation, contrôles_frontaliers, frontières, migrations, réfugiés...juste que ce reportage parle de tellement de sujets que j’arrive pas à choisir le fil - peut-être ajouter en bas de la métaliste ? Mais le but n’est pas de faire une métaliste pour ajouter des commentaires non ? En tout cas c’est très bien fait cette reportage je trouve ! ...un peu dommage que c’est en allemand...

  • Esclave en #Tunisie : le calvaire d’une migrante ivoirienne séquestrée par une riche famille de #Tunis (1/4)

    Depuis l’été 2018, de plus en plus d’embarcations partent de Tunisie pour traverser la mer #Méditerranée. En face, l’Union européenne grince des dents. Pourtant, Tunis ne réagit pas, ou si peu. Déjà confronté à une crise économique et sociale majeure, le pays n’a pas - encore - fait de la #crise_migratoire une priorité. La Tunisie n’a toujours pas mis en place une politique nationale d’asile et il n’existe presqu’aucune structure d’aide pour les migrants. InfoMigrants s’est rendu sur place pour enquêter et a rencontré Jeanne-d’Arc, une migrante ivoirienne, séquestrée et réduite en #esclavage pendant plusieurs mois par une famille tunisienne aisée. Elle se dit aujourd’hui abandonnée à son sort.

    Son visage exprime une détermination sans faille, la voix est claire, forte. « Non, je ne veux pas témoigner de manière anonyme, filmez-moi, montrez-moi. Je veux parler à visage découvert. Pour dénoncer, il ne faut pas se cacher ». Jeanne-d’Arc, est dotée d’un courage rare. Cette Ivoirienne, à la tête d’un salon de coiffure afro à Tunis, #sans_papiers, refuse l’anonymat tout autant que le mutisme. « Il faut que je raconte ce que j’ai subi il y quelques années pour éviter à d’autres filles de se faire piéger ».

    C’était il y a 5 ans, en décembre 2013, et les souvenirs sont toujours aussi douloureux. Pendant 5 mois, Jeanne-d’Arc a été l’#esclave_domestique d’une famille aisée de Tunis. « L’histoire est si banale…, commence-t-elle. Vous avez un #trafiquant qui promet à votre famille de vous faire passer en Europe et puis qui trahit sa promesse et vous vend à quelqu’un d’autre », résume-t-elle, assise sur le canapé de son salon dont les néons éclairent la pièce d’une lumière blafarde. « Quand nous sommes arrivées à Tunis, j’ai vite compris que quelque chose ne tournait pas rond, il y avait plusieurs jeunes filles comme nous, on nous a emmenées dans un appartement puis réparties dans des familles... Je n’ai rien pu faire. Une fois que vous êtes sortie de votre pays, c’est déjà trop tard, vous avez été vendue ».

    #Passeport_confisqué

    Comme de nombreuses autres Ivoiriennes, Jeanne-d’Arc a été victime de réseaux criminels « bien rôdés » dont l’intention est d’attirer des migrantes d’#Afrique_subsaharienne pour ensuite les « louer » à de riches familles tunisiennes. Pendant 5 mois, Jeanne-d’Arc ne dormira « que quand sa patronne s’endormira », elle nettoiera chaque jour ou presque « les 6 chambres, 4 salons et deux cuisines » du triplex de ses « patrons » qui vivent dans une banlieue chic de la capitale, la « #cité_el_Ghazala ». « La patronne m’a confisqué mon passeport. Évidemment je n’étais pas payée. Jamais. On me donnait l’autorisation de sortir de temps en temps, je pouvais dormir aussi, j’avais plus de chance que certaines. »

    Jeanne d’Arc a raconté son histoire au Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES), une association qui vient en aide, entre autres, aux migrants. L’association tente depuis longtemps d’alerter les autorités sur ces réseaux - ivoiriens notamment - de #traite_d’êtres_humains. Des mafias également bien connues de l’organisation internationale des migrations (#OIM). « Comme beaucoup de pays dans le monde, la Tunisie n’est pas épargnée par ce phénomène [de traite] dont les causes sont multiples et profondes », a écrit l’OIM dans un de ces communiqués. Depuis 2012, l’OIM Tunisie a détecté 440 victimes de traite, 86 % viennent de #Côte_d'Ivoire.

    Pour lutter contre ce fléau, la Tunisie a adopté en août 2016 une #loi relative à la prévention et à la lutte contre la traite des personnes - loi qui poursuit et condamne les auteurs de trafics humains (#servitude_domestique, #exploitation_sexuelle…). Ce cadre juridique devrait en théorie permettre aujourd’hui de protéger les victimes – qui osent parler - comme Jeanne-d’Arc. Et pourtant, « l’État ne fait rien », assure-t-elle. « L’OIM non plus… Une loi, c’est une chose, la réalité, c’est autre chose ».

    L’enfer des « #pénalités » imposées aux migrants sans-papiers en Tunisie

    Car Jeanne-d’Arc a essayé de s’en sortir après sa « libération », un jour de janvier 2014, quand sa patronne lui a rendu son passeport et lui a ordonné de partir sur le champ, elle a cru son calvaire terminé. Elle a cru que l’État tunisien allait la protéger.

    « C’est tout le contraire... À peine libérée, un ami m’a parlé de l’existence de ’pénalités’ financières en Tunisie… Il m’a dit que j’allais certainement devoir payer une amende. Je ne connaissais pas ce système. Je ne pensais pas être concernée. J’étais prise au #piège, j’ai été anéantie ».

    La demande d’asile de Jeanne-d’Arc a été rejetée en 2015. Crédit : InfoMigrants

    En Tunisie, selon la loi en vigueur, les étrangers en #situation_irrégulière doivent s’acquitter de « pénalités de dépassement de séjour », sorte de sanctions financières contre les sans papiers. Plus un migrant reste en Tunisie, plus les pénalités s’accumulent. Depuis 2017, cette amende est plafonnée à 1 040 dinars tunisiens (environ 320 euros) par an, précise le FTDES. « C’est une triple peine, en plus d’être en situation irrégulière et victime de la traite, une migrante doit payer une taxe », résume Valentin Bonnefoy, coordinateur du département « Initiative pour une justice migratoire » au FTDES.

    Malgré l’enfer qu’elle vient de vivre, Jeanne d’Arc est confrontée à une nouvelle épreuve. « Mon ami m’a dit : ‘Tu pourras vivre ici, mais tu ne pourras pas partir’... » En effet, les « fraudeurs » ne sont pas autorisés à quitter le sol tunisien sans s’être acquitté de leur dette. « Si j’essaie de sortir du pays, on me réclamera l’argent des pénalités que j’ai commencé à accumuler quand j’étais esclave !… Et ça fait 5 ans que je suis en Tunisie, maintenant, le calcul est vite fait, je n’ai pas assez d’argent. Je suis #bloquée ».

    Asile rejeté

    Ces frais effraient les étrangers de manière générale – qui craignent une accumulation rapide de pénalités hebdomadaires ou mensuelles. « Même les étudiants étrangers qui viennent se scolariser en Tunisie ont peur. Ceux qui veulent rester plus longtemps après leurs études, demander une carte de séjour, doivent parfois payer ces pénalités en attendant une régularisation. C’est environ 20 dinars [6 euros] par semaine, pour des gens sans beaucoup de ressources, c’est compliqué », ajoute Valentin Bonnefoy de FTDES.

    Pour trouver une issue à son impasse administrative et financière, Jeanne-d’Arc a donc déposé en 2015 un dossier de demande d’asile auprès du Haut-commissariat à l’ONU – l’instance chargée d’encadrer les procédures d’asile en Tunisie. Elle pensait que son statut de victime jouerait en sa faveur. « Mais ma demande a été rejetée.La Côte d’Ivoire n’est pas un pays en guerre m’a-t-on expliqué. Pourtant, je ne peux pas y retourner, j’ai des problèmes à cause de mes origines ethniques », dit-elle sans entrer dans les détails. Jeanne d’arc a aujourd’hui épuisé ses recours. « J’ai aussi pensé à dénoncer la famille qui m’a exploitée à la justice, mais à quoi bon... Je suis fatiguée… »

    « J’ai le seul salon afro du quartier »

    Après une longue période d’abattement et de petits boulots, Jeanne-d’Arc a récemment repris du poil de la bête. « Je me suis dit : ‘Ce que tu veux faire en Europe, pourquoi ne pas le faire ici ?’ ». Avec l’aide et le soutien financier d’un ami camerounais, la trentenaire sans papiers a donc ouvert un salon de coiffure afro, dans un quartier populaire de Tunis. « Je paye un loyer, le bailleur se fiche de ma situation administrative, du moment que je lui donne son argent ».

    Les revenus sont modestes mais Jeanne d’Arc défend sa petite entreprise. « Je me suis installée ici, dans un quartier sans migrants, parce que je ne voulais pas de concurrence. Je suis le seul salon afro du secteur, et plus de 90 % de ma clientèle est tunisienne », dit-elle fièrement, en finissant de tresser les nattes rouges et noires d’une jeune fille. Mais les marchandises manquent et ses étals sont ostensiblement vides. « J’ai besoin de produits, de mèches, d’extensions… Mais pour m’approvisionner, il faudrait que je sorte de Tunisie... Je ne sais pas comment je vais faire ».

    Pour les migrants comme Jeanne-d’Arc acculés par les pénalités, la seule solution est souvent la fuite par la mer. « Payer un #passeur pour traverser la Méditerranée peut s’avérer moins cher que de payer cette amende », résume Valentin Bonnefoy de FTDES. Une ironie que souligne Jeanne d’Arc en souriant. « En fait, ce gouvernement nous pousse à frauder, à prendre des dangers… Mais moi, que vais-je faire ? », conclut-elle. « Je ne veux pas aller en #Europe, et je ne peux pas retourner vivre en Côte d’Ivoire. Je suis définitivement prisonnière en Tunisie ».

    http://www.infomigrants.net/fr/post/12875/esclave-en-tunisie-le-calvaire-d-une-migrante-ivoirienne-sequestree-pa

    #UNHCR #demande_d'asile

  • #IMPASSE

    Dire et filmer la #prostitution autrement. IMPASSE propose un regard sans fantasme ni concession sur une réalité brutale, celles de ces #femmes qui louent leur corps pour joindre les deux bouts ou qui sont prises dans des réseaux de #prostitution_forcée.

    Ce film est le fruit d’une année d’immersion, par tous les temps et à toute heure, sur une surface de 21 hectares, soit le périmètre de la prostitution du quartier de #Sévelin à #Lausanne. Dans le périmètre même de la #violence, de rencontres en rencontres, dans la rue ou dans les salons, la confiance se construit peu à peu et permet d’approcher l’endroit où une vérité cachée peut alors se murmurer.

    Le film prend le parti de considérer ce #quartier comme un véritable théâtre - ou la métaphore d’un théâtre, une mascarade sociale, mais dans laquelle se joue la vie d’êtres humains.

    A l’écart des clichés et des préjugés, des témoignages au plus proche de l’intime, racontent librement l’envers du décor : les impacts de la mise à disposition de son corps, la survie, le secret, la destruction et l’espoir.

    Un regard humain sur le froid visage de la prostitution.


    http://www.impasse-lefilm.ch
    #film #prostitution #asile #migrations #traite #traite_d'êtres_humains #documentaire #Nigeria #Suisse #Elise_Shubs

    • Extrait, témoignage d’une femme (à partir de la minute 25 environ) :

      « Quand je raconterai cette histoire, les enfants, je ne sais pas comment ils vont me regarder, ma petite est toujours en train de demander d’après son papa, mais comme toujours, puisque ma vie est déjà mensonge, j’invente des histoires. Mais au moins, elle, elle garde toujours cet espoir là. Elle dit toujours ’un jour mon papa va revenir’. Je sais que pour un enfant de son âge, lui dire qu’elle est née comme ça, ça va lui faire beaucoup de mal, et je ne veux pas. (...) Parfois je pense de retourner dans mon pays et puis je réfléchis, si on venait à découvrir mes soucis de santé, la vie que j’ai menée, je serai la honte de la famille. Je ne veux pas. Au moins ici, personne ne me connaît. Je préfère que ça reste comme cela. Je suis personne. On me voit passer, la dame qui habite là. C’est tout. Je préfère. »

      #invisibilité #anonymat

  • Les #violences_de_genre à l’épreuve du droit

    ❝Quand la critique féministe renouvelle le droit. Présentation du dossier
    Marta Roca i Escoda, Pauline Delage et Natacha Chetcuti-Osorovitz

    Légiférer sur les « violences de genre » tout en préservant l’ordre patriarcal. L’exemple du #Nicaragua (1990-2017)
    Delphine Lacombe

    Les violences au sein du couple au prisme de la #justice_familiale.
    Invention et mise en œuvre de l’ordonnance de protection
    Solenne Jouanneau, Anna Matteoli

    Les politiques de lutte contre les violences de genre en #Belgique et les #femmes_migrantes : entre volonté de #protection et #contrôle_migratoire
    Isabelle Carles

    Déqualifier les #viols : une enquête sur les mains courantes de la #police_judiciaire
    Océane Pérona

    Sous condition « d’émancipation active » : le droit d’asile des prostituées nigérianes victimes de #traite des êtres humains
    Prune de Montvalon
    #traite_d'êtres_humains #prostitution #Nigeria #migrations

    https://ds.hypotheses.org/3483
    #genre #violence #droit #revue

  • Femmes érythréennes victimes de #traite ?

    Nous vous contactons en tant que Caritas Luxembourg.

    Nous sommes fortement préoccupés par la situation de plusieurs femmes érythréennes dont le #regroupement_familial a été accepté par nos autorités.

    Ces femmes ont pris l’avion mais ont ensuite « disparu » de manière un peu rocambolesque. Soit à l’aéroport (pendant, par ex, que le mari effectuait des achats), soit elles n’ont pas pris l’avion les emmenant à #Luxembourg dans leur aéroport de transit en Europe.

    Les maris ne sont pas tous inquiets et certains n’ont même pas déposé plainte à la police pour #disparition. La police n’enquête pas vraiment, arguant que ces femmes n’ont pas de résidence légale au Luxembourg.

    S’agit-il de disparitions volontaires et organisées ?
    Sont-elles victimes de traite ?

    Nous cherchons à comprendre ces situations très inquiétantes qui se répètent.

    Des cas similaires sont-ils signalés dans d’autres pays européens ?

    Il faudrait savoir si ces femmes déposent une demande de protection dans d’autres pays (en cas de disparition volontaire). Car sinon, que font-elles ?

    –-> Reçu via la mailing-list Migreurop

    #traite_d'êtres_humains #réfugiés #asile #migrations #réfugiés_érythréens #Erythrée #femmes #disparitions

  • Migrazioni in corso

    I percorsi e le esperienze di donne e ragazze – rifugiate, studentesse, lavoratrici, cittadine – mettono in luce tutta l’importanza che un’attenzione di genere può ricoprire per comprendere le migrazioni, un fenomeno sempre più sfaccettato e complesso

    http://www.ingenere.it/dossier/migrazioni-corso
    #genre #migrations #asile #réfugiés #femmes #revue #travail #violence #sport #alphabétisation #intégration #traite_d'êtres_humains

  • Soutien aux réfugiés en #Grèce : octroi d’une #aide_d'urgence de 180 millions d’euros

    La Commission européenne a annoncé aujourd’hui l’octroi d’un nouveau #financement de 180 millions d’euros pour des projets d’aide en Grèce, visant notamment à étendre le programme phare d’« #aide_d'urgence_à_l'intégration_à_l'hébergement » (#ESTIA) destiné à aider les réfugiés à trouver un #logement en zone urbaine et à l’extérieur des camps ainsi qu’à leur fournir une aide régulière en espèces.

    Ce financement intervient alors que le commissaire chargé de l’aide humanitaire et de la gestion des crises, Christos Stylianides, rencontrait aujourd’hui le Premier ministre grec, Alexis Tsipras, à Athènes.

    Le programme ESTIA, lancé en juillet 2017 avec le Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR), est la plus grande opération d’aide menée par l’UE dans le pays, en cohérence avec la politique du gouvernement grec visant à sortir les réfugiés des camps. Jusqu’à présent, il a permis de créer plus de 23 000 places d’hébergement urbain et de mettre en place un système d’assistance pécuniaire en espèces pour plus de 41 000 réfugiés et demandeurs d’asile.

    « Les programmes humanitaires que nous avons déployés en Grèce en faveur des réfugiés témoignent clairement de la solidarité européenne. Nous restons fermement déterminés à aider les réfugiés en Grèce à mener une vie plus sûre, plus normale et plus digne ainsi qu’à faciliter leur intégration dans l’économie locale et dans la société. Grâce à notre programme ESTIA, nous parvenons à améliorer concrètement la vie des gens. Je souhaite tout particulièrement rendre hommage aux citoyens et aux maires grecs qui ont accueilli des réfugiés dans leur municipalité en leur manifestant une grande attention et de l’empathie » a déclaré M. Christos Stylianides, commissaire chargé de l’aide humanitaire et de la gestion des crises.

    Six autres contrats ont été signés avec le Conseil danois pour les réfugiés, l’Arbeiter-Samariter-Bund, Médecins du Monde, la Croix-Rouge espagnole ainsi que les ONG grecques METAdrasi et Smile of the Child, pour répondre aux besoins humanitaires urgents en Grèce, notamment en matière d’abris, de soins de santé primaires, d’aide psychosociale, d’amélioration des conditions d’hygiène, d’éducation informelle et de services d’interprétation pour les soins de santé et la protection.

    Constituée de divers financements, l’aide globale mise à la disposition de la Grèce par la Commission européenne pour l’aider à gérer la situation humanitaire, la migration et les frontières extérieures dépasse 1,5 milliard d’euros.

    http://europa.eu/rapid/press-release_IP-18-2604_fr.htm
    #Europe #UE #EU #aide #hébergement #aide_financière

    • Migration : Commission steps up emergency assistance to Spain and Greece

      The European Commission has awarded an additional €45.6 million in emergency assistance to support Spain and Greece respond to the migratory challenges they face.

      In view of increased arrivals, Spain will receive €25.6 million to improve the reception capacity for arrivals at its southern coast and in Ceuta and Melilla as well as to help increase returns. Another €20 million has been awarded to the United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) to improve reception conditions in Greece, notably on the island of Lesvos.

      Dimitris Avramopoulos, Commissioner for Migration, Home Affairs and Citizenship said: “The Commission continues to deliver on its commitment to support Member States under pressure. Spain has seen arrival figures increase during the past year and we need to step up our support to help manage the numbers and return those who have no right to stay. And while the EU-Turkey Statement has greatly contributed to lowering the number of arrivals in Greece, the country is still facing significant migratory pressure, in particular on the islands. Over €1 billion has now been awarded in emergency assistance to help Member States manage migration.”

      With the new funding decisions an important milestone has been reached: In total, the Commission has now mobilised over €1 billion in emergency assistance to help manage migration under the current financial framework (2014-2020) – support that has gone to the Member States most affected such as Italy, Greece, Bulgaria, Croatia, Germany, Sweden and now also Spain.

      Spain

      €24.8 million has been awarded to the Ministry of Employment and Social Security and the Spanish Red Cross for a project aimed at providing healthcare, food, and shelter to migrants arriving on the southern coast of Spain and in Ceuta and Melilla.
      A further €720,000 has been awarded to the Ministry of Interior to help improve the quality of return facilities and infrastructure for return transfers.

      The emergency funding awarded to Spain comes on top of €692 million allocated to Spain for migration, border and security management under national programmes for the period 2014-2020.

      Greece

      The additional €20 million awarded to the UNHCR will be used to help manage the reception facilities in the island of Lesvos, support local community projects and provide further emergency accommodation on the islands.
      It will also go towards stepping up measures for the protection of children, non-formal education and to prevent sexual and gender-based violence.

      This funding decision comes on top of more than €1.6 billion of funding support awarded by the Commission since 2015 to address migration challenges in Greece.

      http://europa.eu/rapid/press-release_IP-18-4342_en.htm
      #Espagne

    • Migration: Commission increases emergency assistance for Spain to €30 million [Updated on 3/8/2018 at 13:01]

      Yesterday, the Commission awarded an additional €3 million in emergency assistance under the #Internal_Security_Fund (#ISF) to support Spain in responding to the recent migratory pressure. The assistance will mainly support the costs linked to the deployment of extra staff from the Guardia Civil to the southern borders of Spain. This support brings to €30 million the emergency funding awarded to Spain since July to help the country address migratory challenges. This financial assistance comes on top of €691.7 million allocated to Spain under the Asylum, Migration and Integration Fund (AMIF) and the Internal Security Fund (ISF) national programme 2014-2020. (For more information: Natasha Bertaud – Tel.: +32 229 67456; Katarzyna Kolanko – Tel.: +32 299 63444)

      http://europa.eu/rapid/press-release_MEX-18-4834_en.htm

    • Avramopoulos in Spain to announce further EU support to tackle migration

      As Commissioner Dimitris Avramopoulos headed to Madrid, the European Commission announced Friday (3 August) a further €3 million in emergency aid to support Spanish border guards in curbing irregular migration.

      The new cash comes from the Internal Security Fund and aims to help cover the costs linked to the deployment of extra staff in the southern borders of Spain.

      In July this year, the EU executive awarded €24.8 million to the Ministry of Employment and Social Security and the Spanish Red Cross to enhance reception capabilities, health assistance, food and shelter for migrants arriving through the Western Mediterranean route.

      A further €720,000 went to the Ministry of Interior to help improve the quality of return and transfer facilities in the south of Spain, Ceuta and Melilla.

      This financial assistance comes on top of €691.7 million allocated to Spain under the Asylum, Migration and Integration Fund and the Internal Security Fund since 2014.

      https://www.euractiv.com/section/justice-home-affairs/news/avramopoulos-in-spain-to-announce-further-eu-support-to-tackle-migration/?_ga=2.232982942.1049233813.1533558974-1514184901.1489527159

    • Migration : Commission provides €24.1 million to the International Organisation for Migration to provide support, help and education for migrant children in Greece

      The European Commission has awarded €24.1 million in emergency assistance under the Asylum, Migration and Integration Fund (AMIF) to support Greece in responding to migratory challenges. The International Organisation for Migration (IOM) will receive the funding to help ensure that migrant children can be immediately placed in a protective environment and receive education. It will notably support child-adequate accommodation, medical and psychological support, interpretation and cultural mediation as well as food provision for up to 1,200 unaccompanied minors in the Greek islands and in the mainland and facilitate formal education by providing transport and school kits. In addition, the funding will help assist migrants registered for assisted voluntary return and reintegration programmes. Today’s funding decision comes on top of more than €1.6 billion of funding support awarded by the Commission since 2015 to address migration challenges in Greece. Under the Asylum, Migration and Integration Fund (AMIF) and the Internal Security Fund (ISF), Greece has now been awarded €482.2 million in emergency funding, in addition to €561 million already awarded under these funds for the Greek national programme 2014-2020.

      v. aussi :


      https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/files/what-we-do/policies/european-agenda-migration/20181010_managing-migration-eu-financial-support-to-greece_en.pdf

    • EC provides 43.7 million euros to increase migrant reception capacity in mainland Greece

      The European Commission has awarded an additional 43.7 million euros in emergency assistance to the International Organization for Migration (#IOM) to support Greece in responding to migratory challenges, the EU’s executive body said Wednesday.

      The grant, which comes from the Asylum, Migration and Integration Fund, is designed to support the provision of emergency shelter for up to 6,000 asylum seekers and refugees by rapidly establishing places in temporary accommodation facilities, the Commission said.

      “The funding aims to provide dignified accommodation as well as basic assistance and protection services to the most vulnerable migrants in Greece, especially in view of the upcoming winter months and the need to decongest reception facilities on the Greek islands,” it said.

      The Commission has awarded more than 1.6 billion euros in funding since 2015 to address migratory challenges in Greece.

      http://www.ekathimerini.com/234665/article/ekathimerini/news/ec-provides-437-million-euros-to-increase-migrant-reception-capacity-i
      #OIM

    • Migration et #frontières : la Commission octroie 305 millions d’euros supplémentaires aux États membres sous pression

      Cette semaine, la Commission européenne a débloqué une enveloppe supplémentaire de 305 millions d’euros d’aide d’urgence afin de soutenir la #Grèce, l’#Italie, #Chypre et la #Croatie dans le domaine de la gestion des migrations et des frontières.

      Ces moyens financiers soutiendront les efforts déployés pour accroître les capacités d’#accueil, protéger les victimes de la traite des êtres humains et renforcer les capacités de surveillance et de #gestion_des_frontières.

      M. Dimitris Avramopoulos, commissaire pour la migration, les affaires intérieures et la citoyenneté, a déclaré à cette occasion : « La Commission est résolue à continuer de soutenir les États membres soumis à une #pression_migratoire. Les 305 millions d’euros supplémentaires attribués cette semaine à plusieurs pays permettront de répondre à des besoins urgents, en faisant en sorte que les nouveaux migrants arrivés dans ces pays soient hébergés convenablement et reçoivent de la #nourriture et de l’#eau, que la #sûreté et la #sécurité des personnes les plus vulnérables soient garanties et que les #contrôles_aux_frontières soient renforcés, si nécessaire. »

      Ce #financement_d'urgence, qui sera accordé au titre du Fonds « Asile, migration et intégration » (#AMIF) et du #Fonds_pour_la_sécurité_intérieure (#FSI) de la Commission, constitue une partie des 10,8 milliards d’euros déjà mobilisés par la Commission en faveur de la gestion des migrations et des frontières et de la sécurité intérieure pour la période 2014-2020.

      Grèce

      La Commission débloque 289 millions d’euros pour soutenir la gestion des migrations en Grèce. Cette enveloppe sera répartie comme suit :

      Hébergements locatifs et allocations : 190 millions d’euros seront versés au Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (#HCR) pour permettre la poursuite du programme #ESTIA (#aide_d'urgence_à_l'intégration_et_à_l'hébergement). Ce programme fournit des #logements en location permettant d’accueillir jusqu’à 25 000 demandeurs d’asile et réfugiés et distribue des #allocations mensuelles en espèces pour un maximum de 70 000 personnes. Le HCR recevra également un autre montant de 5 millions d’euros afin d’augmenter encore la capacité d’#accueil dans les nouveaux #centres_d'accueil ouverts en Grèce continentale, en mettant à disposition et en distribuant 400 conteneurs préfabriqués.
      Conditions d’accueil : 61 millions d’euros iront à l’Organisation internationale pour les migrations (#OIM) et au Fonds international de secours à l’enfance des Nations unies (#UNICEF), pour permettre la poursuite des programmes d’appui sur le terrain dans les centres d’accueil en Grèce continentale. Ces programmes englobent l’#accès_aux_soins de santé et à l’#éducation non formelle, la création de zones de sécurité spécifiques pour les #mineurs_non_accompagnés, ainsi que des formations destinées au personnel opérationnel.
      Recherche et sauvetage : 33 millions d’euros destinés aux garde-côtes grecs permettront de couvrir une partie des frais de fonctionnement afférents aux activités de connaissance de la situation maritime en mer Égée et contribueront à assurer des débarquements sûrs et une prise en charge efficiente des migrants à la suite d’opérations de recherche et sauvetage.
      Adaptation aux conditions hivernales : l’OIM recevra, pour soutenir ses préparatifs, 357 000 euros supplémentaires afin de fournir des couvertures, des vestes d’hiver et des kits d’hivernage dans les infrastructures d’accueil sur les îles grecques et dans la région de l’Évros.

      La Commission a mis plus de 2 milliards d’euros à la disposition de la Grèce pour la gestion des migrations, dont près de 1,5 milliard d’euros à titre d’aide financière d’urgence (voir la fiche d’information pour en savoir plus).

      Italie

      La Commission octroie 5,3 millions d’euros d’aide financière d’urgence aux autorités italiennes pour contribuer à protéger les victimes de la traite des êtres humains dans le contexte migratoire. Dans le cadre d’un projet pilote mené dans des centres d’hébergement de demandeurs d’asile dans la région du Piémont, le financement servira à identifier les victimes de la traite des êtres humains et à les encourager à recourir aux possibilités d’assistance à leur disposition.

      Depuis le début de la crise migratoire, la Commission a mis à disposition près de 950 millions d’euros pour soutenir la gestion des migrations et des frontières en Italie. Ce financement comprend un montant de plus de 225 millions d’euros d’aide d’urgence et 724 millions d’euros déjà alloués à l’Italie au titre de ses programmes nationaux relevant du Fonds « Asile, migration et intégration » et du Fonds pour la sécurité intérieure 2014-2020 (voir la fiche d’information pour en savoir plus).

      Chypre

      La Commission accorde 3,1 millions d’euros à Chypre pour que ce pays renforce sa capacité d’accueil et transforme le centre d’urgence temporaire « #Pournaras » en un centre de premier accueil à part entière. Grâce à ce financement, le centre deviendra un centre de formalités universel pouvant fonctionner 24 heures sur 24 et 7 jours sur 7. Les services assurés sur place comprendront l’examen médical, l’#enregistrement, le relevé des #empreintes_digitales, le #filtrage, la fourniture d’informations et la possibilité de présenter une demande d’asile.

      L’aide d’urgence s’inscrit dans le cadre des efforts déployés par la Commission pour renforcer l’appui à la gestion des migrations en faveur de Chypre, après l’augmentation considérable du nombre d’arrivées que ce pays a connue au cours de l’année 2018. Ce nouveau financement vient s’ajouter à près de 40 millions d’euros alloués à la gestion des migrations pour la période 2014-2020, et à près de 1 million d’euros d’aide d’urgence alloué en 2014 pour les questions migratoires. Le Bureau européen d’appui en matière d’asile déploie actuellement 29 agents chargés de dossiers afin d’aider Chypre à résorber l’arriéré de demandes d’asile consécutif à l’augmentation des arrivées au cours des dernières années.

      Croatie

      La Commission accorde 6,8 millions d’euros à la Croatie pour aider ce pays à renforcer la gestion des frontières extérieures de l’UE, dans le strict respect des règles de l’UE. Cette enveloppe permettra de renforcer la surveillance des frontières et les capacités des services répressifs, en couvrant les coûts opérationnels (indemnités journalières, compensation des heures supplémentaires et équipements) de dix postes de police des frontières. Un mécanisme de suivi sera mis en place afin de faire en sorte que toutes les mesures appliquées aux frontières extérieures de l’UE soient proportionnées et respectent pleinement les droits fondamentaux et la législation de l’Union en matière d’asile.

      Le montant octroyé aujourd’hui porte l’aide d’urgence totale en faveur de la gestion des migrations et des frontières allouée à la Croatie par la Commission à près de 23,2 millions d’euros. Cette somme s’ajoute à près de 108 millions d’euros alloués à la Croatie au titre des programmes nationaux relevant du Fonds « Asile, migration et intégration » et du Fonds pour la sécurité intérieure 2014-2020.

      Contexte

      Le soutien opérationnel et financier de l’Union joue un rôle déterminant pour aider les États membres à relever les défis migratoires depuis 2015.

      Le soutien de l’UE a également pris la forme d’une aide financière sans précédent accordée au titre du budget de l’UE à des partenaires – non seulement des autorités nationales, mais aussi des organisations internationales et des organisations non gouvernementales. En plus des dotations initiales pour la période 2014-2020 s’élevant à 6,9 milliards d’euros pour le Fonds « Asile, migration et intégration » (AMIF) et le Fonds pour la sécurité intérieure (#FSI_frontières_et_police), un montant supplémentaire de 3,9 milliards d’euros a été mobilisé en faveur de la gestion des migrations et des frontières et de la sécurité intérieure, pour atteindre 10,8 milliards d’euros.

      En outre, tirant les leçons de l’expérience, et compte tenu du fait que la gestion des migrations et des frontières demeurera un défi à l’avenir, la Commission a également proposé d’augmenter fortement les financements en la matière au titre du prochain budget de l’UE pour la période 2021-2027.

      http://europa.eu/rapid/press-release_IP-18-6884_fr.htm
      #traite_d'êtres_humains #surveillance_des_frontières #santé #MNA #IOM #Evros #Fonds_Asile_migration_et_intégration #tri #catégorisation