• Alla ricerca di litio nei pozzi della #valle_di_Baccano

    I vecchi siti geotermici individuati da #Enel nel #Lazio potrebbero contenere importanti quantità del materiale critico fondamentale per la transizione. Due aziende australiane hanno già ottenuto i permessi di ricerca nonostante lo status di area protetta della zona. Promettendo un’estrazione a zero emissioni e impatti. Ma i dubbi sulla sostenibilità ambientale ed economica del progetto rimangono

    “Ecco, qui siamo al centro della valle. L’acqua non è presente, ma se facciamo una buca a neanche due metri troviamo la prima falda”, racconta Alessandro Mecali, geologo consulente del Parco di Bracciano-Martignano nel Lazio, facendo strada a piedi tra la vegetazione della valle di Baccano, chiusa a cerchio dalle colline.

    Siamo nel punto più basso di una conca che nasconde una potenziale miniera, un vecchio cratere vulcanico che fino al XIX secolo ospitava un lago, prosciugato dalla famiglia Chigi nel 1838. L’area è compresa nel Comune di Campagnano, 20 chilometri a Nord dal Grande Raccordo Anulare. L’intera valle è soggetta a vincolo paesaggistico ed è compresa tra due parchi regionali protetti: il Parco di Veio e quello di Bracciano-Martignano, appunto.

    Avanziamo tra le sterpaglie alla ricerca di qualche vecchio pozzo geotermico. Dopo un’ora di cammino, riusciamo a individuare quello che il ministero dell’Ambiente e sicurezza energetica denomina “Pozzo Cesano 8″. Mecali è raggiante: “Non avevo mai visto questi pozzi perché, quando sono stati realizzati, ero piccolissimo”. Un quadrato in cemento, quattro metri per quattro, immerso tra canne e arbusti secchi. Un pozzo anonimo, ma che potrebbe nascondere un tesoro.

    Negli anni Settanta del Novecento, l’Enel qui era impegnata con ricerche sull’energia geotermica. Gli studi rivelarono una forte concentrazione di litio in serbatoi d’acqua ad alte temperature sepolti nelle viscere della valle. Il progetto fu abbandonato, il litio geotermico ritenuto non troppo degno di nota e i vecchi pozzi furono cementati in attesa del domani. Quel domani è arrivato.

    Oggi il litio è chiamato “oro bianco”. È elencato tra le 34 materie critiche fondamentali alla transizione ed è uno dei materiali più ricercati al mondo poiché serve, tra altre cose, a immagazzinare energia nelle batterie delle auto elettriche. Basti pensare che nel 2022 è stato venduto per oltre 80mila dollari alla tonnellata.

    Proprio nel 2022 uno studio dell’Istituto di geoscienze e georisorse di Pisa (Igg) ha elencato le aree più promettenti per il litio geotermico in Italia. “Questo argomento è diventato molto attuale -spiega Andrea Dini, primo ricercatore dell’Igg-. Il nostro è un inventario. Non di miniere, perché quelle vengono aperte quando si sa che c’è un giacimento, ma delle zone più promettenti per il litio”.

    Il luogo che stiamo visitando, la caldera di Baccano, è appunto tra queste. “Siamo usciti con questo studio che ha smosso un po’ le acque. Ma l’argomento era già nell’aria”, commenta Dini. Tanto che questa valle ha attirato attenzione su di sé persino da oltreoceano.

    Due gruppi estrattivi australiani, la Vulcan Energy e l’Altamin, hanno ottenuto tra il 2021 e il 2022 permessi di ricerca di litio geotermico nella valle di Baccano. In particolare, la Vulcan ha già siglato contratti di fornitura con gruppi automobilistici e avviato una collaborazione con Enel green power, che detiene i dati delle vecchie ricerche ed è leader globale nella geotermia. Le società richiedenti stanno valutando i dati d’archivio senza esplorazioni geofisiche.

    Nel Lazio sono state approvate licenze di ricerca anche in altre località. “Nella richiesta presentata all’Ente parco, c’era una planimetria con una vasta area che andava da Sutri, Monterosi, Nepi, Campagnano, Formello e arrivava fino a Cesano”, racconta Marsilio Gregori, geometra del Parco di Veio. Lo incontriamo nella sede di Sacrofano, uno dei luoghi per i quali è stato chiesto un permesso di ricerca.

    Permessi che a volte suscitano dubbi. Nella valle di Baccano, in particolare, la Regione Lazio ha concesso due licenze contigue, stabilendo che non comportano interferenze con l’ambiente. Eppure, sono in molti a non fidarsi. “Non siamo per niente contenti di questa storia”. “Siamo contrari. Dovranno pur fare un sondaggio tra la popolazione”. “Da quanto ho capito, se vogliono espropriano”. “Io abito qui dietro. Non possiamo nemmeno collegarci alla rete del gas, perché siamo in area vincolata, e quelli pensano alla miniera di litio”. Sono gli umori raccolti tra i residenti della valle mentre, seduti al bar “Il Baccanale”, prendiamo un caffè prima di incamminarci. Ma il timore è fondato?

    Il sindaco di Campagnano, Alessio Nisi, dice che “per come viene descritto il modello di estrazione del litio in Italia e Germania, si tratta di una tecnica sostenibile che non impatta sull’ambiente”. Il progetto Zero carbon lithium si basa su una metodologia sperimentale, la Direct lithium extraction, e cioè la produzione di litio da acque geotermiche. Rispetto ai metodi tradizionali, ha un basso impatto ambientale e non produce emissioni. Quando si parla di estrazione di litio, viene in mente l’estensione delle cave australiane o le distese desertiche cilene. Un impatto inaccettabile in una zona come questa, con ampie aree protette.

    Per Dini, il ricercatore dell’Igg, non è così: “È un metodo molto meno impattante rispetto a quanto si vede nel deserto di Atacama, in Cile. Lì, l’impatto è enorme. Basta andare su Google Earth e ci si rende conto”. Qui si tratterebbe invece di individuare il giacimento in profondità e portare l’acqua ricca di litio in superficie con pozzi profondi a circuito chiuso. “L’acqua calda si fa passare attraverso un impianto industriale dove si estrae il litio in maniera selettiva. Rimane un fluido esausto che non viene rilasciato nell’ambiente, ma reimmesso in profondità nel giacimento per ricaricare il sistema”, conclude Dini.

    Il geologo Alessandro Mecali aggiunge una considerazione: “Quando si fa sperimentazione è fondamentale il monitoraggio continuo e verificare se ci sono abbassamenti del terreno. Altro discorso è l’impianto. Devono essere adottate tecniche innovative anche lì, visto che siamo dentro a un parco”. In teoria, la ricerca scientifica sembra escludere effetti negativi nell’uso di questa tecnica. Ma resta ancora tutto da vedere.

    “A oggi, si parla solo di ricerca, non di nuovi fori -riprende il geometra del Parco di Veio durante la nostra visita a Sacrofano-, c’è un vincolo di interesse paesistico nella valle di Baccano, ma con parere speciale delle autorità è aggirabile. In più, siamo tra due parchi. Secondo l’articolo 8, legge regionale 29/97, nelle aree protette è vietata l’estrazione”. Cerchiamo di capire che cosa potrebbe succedere se si dovesse passare a una fase estrattiva in zone protette. Per ragioni di pubblica utilità, la giunta regionale può autorizzare deroghe alle misure di salvaguardia, prescrivendo le modalità per tutelare i luoghi. La giunta potrebbe, cioè, approvare, a condizione che vengano rispettati limitazioni e controlli a spese del proponente. Ma il decreto legge sulle materie prime critiche del 25 giugno 2024, che adegua la normativa nazionale alle disposizioni europee, supera queste considerazioni: dalla data in cui la Commissione europea li riconosce come strategici, i progetti assumono la qualità di pubblico interesse nazionale e gli interventi necessari alla realizzazione sono “indifferibili e urgenti”.

    Il sindaco di Campagnano propone di individuare soluzioni a lungo termine, in un quadro di partenariato pubblico-privato, così da coinvolgere i Comuni interessati. “Che impatti positivi si vogliono immaginare per Campagnano? Se un’area ha una data risorsa, facciamo in modo di utilizzarla coinvolgendo il territorio in un percorso virtuoso”. Già perché la domanda latente sulla bocca di tutti è sempre la stessa: chi beneficerà di questa risorsa? Sarà equo il corrispettivo previsto a favore delle comunità locali? O forse le società minerarie dovranno ricorrere a incentivi pubblici per far fronte alla concorrenza globale? Ma, soprattutto, quanto litio si può estrarre da qui? Su questo risponde Alessandro Mecali di ritorno dall’escursione: “Dipende dalle dimensioni del serbatoio. Ci sono stratigrafie, i dati dell’Enel, si può calcolare”. Quindi occorre considerare costi-benefici e la durata operativa dell’impianto. “È quanto stanno valutando queste società”, conclude.

    Restano ancora molti nodi da sciogliere prima di vedere se l’oro della valle luccicherà davvero. Non ultima la questione del prezzo. Il formidabile crollo dei prezzi nel 2023 (circa -80%), e il protrarsi del ribasso nel 2024, è forse indicativo di una tendenza? L’offerta del minerale è stata così alta da aver superato la domanda. Si parlerà ancora di oro bianco?

    https://altreconomia.it/alla-ricerca-di-litio-nei-pozzi-della-valle-di-baccano
    #lithium #matières_premières #extractivisme #Italie #Baccano #Critical_raw_material_act (#Crma) #terres_rares #Latium #transition_énergétique #Parco_di_Veio #Parco_di_Bracciano-Martignano #Pozzo_Cesano_8 #caldera_di_Baccano #Vulcan_Energy #Altamin #Enel_green_power #licences #Alessio_Nisi #Campagnano #Direct_lithium_extraction #Zero_carbon_lithium #environnement #géothermie

  • La guerre des métaux rares. La face cachée de la #transition_énergétique et numérique

    En nous émancipant des énergies fossiles, nous sombrons en réalité dans une nouvelle #dépendance : celle aux métaux rares. #Graphite, #cobalt, #indium, #platinoïdes, #tungstène, terres rares… ces ressources sont devenues indispensables à notre nouvelle société écologique (#voitures_électriques, éoliennes, #panneaux_solaires) et numérique (elles se nichent dans nos #smartphones, nos #ordinateurs, tablettes et autre objets connectés de notre quotidien). Or les coûts environnementaux, économiques et géopolitiques de cette dépendance pourraient se révéler encore plus dramatiques que ceux qui nous lient au pétrole.

    Dès lors, c’est une #contre-histoire de la transition énergétique que ce livre raconte – le récit clandestin d’une odyssée technologique qui a tant promis, et les coulisses d’une quête généreuse, ambitieuse, qui a jusqu’à maintenant charrié des périls aussi colossaux que ceux qu’elle s’était donné pour mission de résoudre.

    https://www.editionslesliensquiliberent.fr/livre-La_guerre_des_m%C3%A9taux_rares-531-1-1-0-1.html
    #métaux_rares #terres_rares #matières_premières #livre #transition_numérique #énergie #Guillaume_Pitron

  • Dove sono i metalli rari in Italia

    Se lo sta chiedendo il governo, che ha approvato un decreto per sfruttare vecchi giacimenti e aprire nuove miniere.

    Dopo le sollecitazioni ricevute negli ultimi anni dall’Unione Europea, lo scorso 20 giugno il governo italiano ha approvato un decreto per sostenere la ricerca delle cosiddette “materie prime critiche”, un gruppo di metalli particolarmente necessari per il settore tecnologico e per la transizione energetica. Le materie prime critiche servono soprattutto all’industria dei microchip e dei componenti elettronici o per la produzione di batterie dei veicoli elettrici. Alcune hanno nomi più conosciuti, come il rame, il litio, il silicio e il nichel, altre sono meno note come il bismuto, il boro, il cobalto, il gallio, il germanio, il magnesio e il manganese, la grafite naturale, il titanio e il tungsteno.

    Fino a qualche decennio fa in Italia c’erano diversi giacimenti di questi metalli, miniere via via abbandonate perché dai costi insostenibili soprattutto se paragonati a quelli delle importazioni. Tuttavia negli ultimi anni l’aumento della richiesta dei metalli rari ha invertito questo rapporto: ora comprarli all’estero e importarli è molto costoso, mentre è più vantaggioso e politicamente strategico sfruttare vecchi giacimenti o trovarne di nuovi.

    Con queste premesse il governo ha approvato una serie di misure: semplificare le procedure per consentire alle compagnie minerarie di cercare nuovi giacimenti, finanziare una mappatura più completa delle aree sulla base di studi geologici, realizzare un piano nazionale delle materie prime con una definizione più puntuale dei finanziamenti per questo settore. L’obiettivo è spingere le compagnie a investire nella ricerca di nuovi giacimenti.

    Il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, ha detto che il programma esplorativo dovrà essere pronto entro il 24 maggio 2025. Se ne occuperà l’ISPRA, l’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, a cui sono stati dati 3,5 milioni di euro per realizzare una mappa dei possibili giacimenti, la nuova carta mineraria dell’Italia. Grazie alla nuova carta potranno essere aggiornati e migliorati i censimenti fatti dall’ISPRA negli ultimi anni.

    Uno degli ultimi censimenti è stato pubblicato nell’atlante dei dati ambientali, aggiornato al 2023, e comprende i giacimenti sfruttati in passato e ora da rivalutare.

    Nel documento dell’ISPRA si legge che l’Italia è «totalmente dipendente» dai mercati esteri, ma anche che sul territorio esistono mille possibili giacimenti: i più interessanti sono nell’arco alpino, in Liguria, nella fascia tirrenica tra Toscana e Campania, in Calabria e in Sardegna. «La coltivazione di minerali metalliferi è stata progressivamente abbandonata a cavallo dei due secoli non per esaurimento delle risorse ma, nella quasi totalità, per le convenienti condizioni economiche dei mercati esteri delle materie prime e per la mancanza di lungimiranza della politica industriale mineraria», dice lo studio.

    Risultano attive soltanto due miniere di fluorite (a Bracciano, in provincia di Roma, e a Silius, in Sardegna) e una ventina di feldspato tra Piemonte, Toscana, Lazio, Calabria e Sardegna. C’è poi un giacimento di titanio in Liguria, uno di cobalto in Piemonte, di litio in Lazio. Negli ultimi anni sono stati dati permessi per cercare zinco, cobalto, titanio e nichel in particolare sull’arco alpino.

    Il decreto prevede anche che le compagnie minerarie titolari delle concessioni, già attive o future, dovranno dare allo Stato tra il 5 e il 7 per cento dei prodotti estratti. Questa sorta di tassa finanzierà il fondo nazionale del Made in Italy per sostenere nuovi investimenti e un’ulteriore ricerca di materie prime critiche.

    In merito all’impatto ambientale, su cui c’è una maggiore sensibilità rispetto al passato, il governo ha incaricato l’ISPRA di vigilare sui progetti di ricerca dei metalli insieme alle soprintendenze dei territori interessati. L’ISPRA potrà bloccare i permessi se verranno rilevate irregolarità, per esempio trivellazioni in punti non consentiti. L’istituto dovrà anche coinvolgere gli enti locali, in particolare i comuni, per spiegare in modo approfondito i lavori previsti, l’impatto delle ricerche e dell’eventuale apertura di nuove miniere.

    https://www.ilpost.it/2024/07/14/mappa-metalli-rari-italia
    #Italie #extractivisme #Alpes #permis #mines #minières #Italie #terres_rares #matières_premières_critiques #transition_énergétique #batteries #extractivisme #décret #matières_premières_critiques #microchip #électronique #lithium #cuivre #cobalt #tungstène #titan #mines #minières #ISPRA #Gilberto_Pichetto_Fratin #matières_premières #concessions #cartographie #visualisation #carte

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    #métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

  • La #sardegna si contrappone alla #speculazione eolica e fotovoltaica.
    https://radioblackout.org/2024/06/la-sardegna-si-contrappone-alla-speculazione-eolica-e-fotovoltaica

    Il territorio sardo è ormai, purtroppo, conosciuto per i numerosi progetti e cantieri che lo costellano nell’ambito della produzione energetica, in particolare quella cosiddetta green, che proviene dal vento e dal sole. La narrazione europea che impone una #transizione_energetica ed ecologica non sostenibile per i territori e per chi li abita diventa qui una […]

    #L'informazione_di_Blackout #devastazione_territori #transizione_ecologica
    https://cdn.radioblackout.org/wp-content/uploads/2024/06/Comitati-no-speculazione-energetica-Gallura-2024_06_20_2024.06.20

  • Des #mines pour sauver la planète ?

    Pour réaliser la #transition_énergétique, il faudrait extraire en vingt ans autant de métaux qu’au cours de toute l’histoire de l’humanité. C’est « l’un des grands #paradoxes de notre temps », constate #Celia_Izoard.

    Journaliste, traductrice et philosophe, Celia Izoard examine depuis plusieurs années les impacts sociaux et écologiques du développement des nouvelles technologies. Ce nouvel ouvrage s’intègre dans cette veine en explorant les effets délétères de la transition énergétique et numérique.

    La #transition verte nécessite d’extraire du #sous-sol des quantités colossales de #métaux. Ils seront ensuite destinés à la production des énergies bas carbone qui sauveront la planète. Cette course aux métaux supposée sauver la planète du dérèglement climatique n’aggrave-t-elle pas le chaos écologique, les dégâts environnementaux et les inégalités sociales ?

    Celia Izoard mène une vaste enquête sur ce phénomène mondial, inédit et invisible. Si d’autres ouvrages ont également mis en avant l’insoutenabilité physique d’une telle transition, la force de ce livre est d’élaborer un panorama de cette question grâce à des enquêtes de terrain et une analyse fournie sur les aspects culturels, politiques, économiques et sociaux des mines et des métaux.

    Le #mythe de la #mine_verte

    Au début du livre, Celia Izoard part à la recherche des mines du XXIe siècle, « responsables », « relocalisées », « 4.0 », ou encore « décarbonées, digitales et automatisées ». Par un argumentaire détaillé et une plongée dans des mines en #Espagne ou au #Maroc, l’autrice démontre que derrière ce discours promu par les institutions internationales, les dirigeants politiques et les milieux d’affaires se cache un autre visage. Celui de la mine prédatrice, énergivore et destructrice. Celui qui dévore l’habitat terrestre et le vivant.

    De façon locale, le processus de « radicalisation » de la mine industrielle est détaillé par le prisme de ses ravages sociaux. La mine est avant tout « une gigantesque machine de #déracinement » (p. 54), qui vide des espaces en expropriant les derniers peuples de la planète. En outre, la mine contemporaine expose les populations à diverses maladies et à l’intoxication. Dans la mine de #Bou-Azzer au Maroc, on extrait du « #cobalt_responsable » pour les #voitures_électriques ; mineurs et riverains souffrent de cancers et de maladies neurologiques et cardiovasculaires.

    L’ampleur globale de la #prédation du #secteur_minier au XXIe siècle est aussi esquissée à travers la production grandissante de #déchets et de #pollutions. Le secteur minier est l’industrie la plus polluante au monde. Par exemple, une mine industrielle de #cuivre produit 99,6% de déchets. Stockés à proximité des #fosses_minières, les stériles, de gigantesques volumes de roches extraits, génèrent des dégagements sulfurés qui drainent les #métaux_lourds contenus dans les roches et les font migrer vers les cours d’#eau. Les tuyaux des usines crachent en permanence les #résidus_toxiques qui peuvent, en fonction du #minerai traité, se composer de #cyanure, #acides, #hydrocarbures, #soude, ou des #poisons connus comme le #plomb, l’#arsenic, le #mercure, etc. Enfin, les #mines_zéro_carbone sont des #chimères car elles sont toutes très énergivores. La quantité nécessaire pour extraire, broyer, traiter et raffiner les métaux représentent environ 8 à 10% de l’#énergie totale consommée dans le monde, faisant de l’#industrie_minière un principal responsable du dérèglement climatique.

    La face sombre de la transition énergétique

    Dans la seconde partie, Celia Izoard montre que les élites sont « en train d’enfouir la crise climatique et énergétique au fond des mines » (p. 62). Cet impératif d’extraire des métaux pour la transition coïncide avec le retour de la question des #matières_premières sur la scène publique, dans un contexte où les puissances occidentales ont perdu leur hégémonie face à la Chine et la Russie.

    Depuis quand la transition implique-t-elle une relance minière et donc le passage des #énergies_fossiles aux métaux ? Cet argument se diffuse clairement à la suite de la publication d’un rapport de la Banque mondiale en 2017. En collaboration avec le plus gros lobby minier du monde (l’ICMM, International Council on Mining and Metals), le rapport stipule que l’industrie minière est appelée à jouer un rôle majeur dans la lutte contre le changement climatique – en fournissant des technologies bas carbones. #Batteries électriques, rotors d’éoliennes, électrolyseurs, cellules photovoltaïques, câbles pour la vague d’électrification mondiale, toutes ces infrastructures et technologies requièrent néanmoins des quantités faramineuses de métaux. La transition énergétique des sociétés nécessiterait d’avoir recours à de nombreux métaux de base (cuivre, #nickel, #chrome ou #zinc) mais aussi de #métaux_rares (#lithium, #cobalt, #lanthanide). L’#électrification du parc automobile français exige toute la production annuelle de cobalt dans le monde et deux fois plus que la production annuelle de lithium.

    Au XXIe siècle, la matière se rappelle donc brusquement aux puissances occidentales alors qu’elles s’en rêvaient affranchies dans les années 1980. Pourtant, les sociétés occidentales n’avaient évidemment jamais cessé de se fournir en matières premières en s’approvisionnant dans les mines et les industries délocalisées des pays du Sud. Ce processus de déplacement avait d’ailleurs contribué à rendre invisible la mine et ses pollutions du paysage et de l’imaginaire collectif.

    Sous l’étendard de la transition qui permet d’anticiper les contestations environnementales et de faire adhérer les populations à cette inédite course mondiale aux métaux se cache le projet d’une poursuite de la croissance et des modes de vie aux besoins énergétiques et métalliques démesurés. Cette nouvelle légende de l’Occident capitaliste justifie une extraction de métaux qui seront également destinés aux entreprises européennes du numérique, de l’automobile, l’aérospatial, l’armement, la chimie, le nucléaire et toutes les technologies de pointe.

    « Déminer le #capitalisme »

    Ce #livre explore ensuite dans une troisième partie l’histoire du capitalisme à travers celle de la mine et des métaux. Elle montre comment s’est fondé un modèle extractiviste reposant sur des idéologies : le Salut, le Progrès, le Développement – et désormais la Transition ? L’extractivisme est permis par l’élaboration et le développement d’un ensemble de croyances et d’imaginaires qui lui donnent une toute puissance. C’est ce que Celia Izoard nomme : la « #cosmologie_extractiviste » (p. 211). Accompagnée par une législation favorable et des politiques coloniales menées par l’État et la bourgeoisie, puis par l’industrialisation au XIXe siècle, cette matrice a favorisé notre dépendance à un régime minier. Aux yeux du peuple amazonien des Yanomamis, les Blancs sont des « mangeurs de terre » (p. 215).

    Comment sortir de cette vision du monde occidental structuré autour de la mine dont l’objectif est l’accumulation de capital et de puissance. La solution minière, comme technologique, à la crise climatique est un piège, affirme Celia Izoard. Le mouvement climat doit passer par la #décroissance_minérale, par un « sevrage métallique autant qu’un sevrage énergétique » (p. 291). La réduction des consommations énergétiques et matérielles est une solution réaliste. Le quotidien des occidentaux est surminéralisé à l’instar de l’objet emblématique de notre surconsommation quotidienne de métaux : le smartphone. Il contient à lui seul, sous la forme d’alliage complexe, plus de 50 métaux. Les métaux ne devraient-ils pas être réservés aux usages déterminés comme essentiels à la vie humaine ?

    Pour sortir du #régime_minier, il est d’abord urgent de rendre visible la surconsommation de métaux dans le débat public. D’une part, cela doit passer par des mesures politiques. Instaurer un bilan métaux au même titre que le bilan carbone car l’idéologie de la transition a créé une séparation illusoire entre les ressources fossiles toxiques (charbon, pétrole et gaz) et l’extraction métallique, considérée comme salutaire et indispensable. Ou encore cibler la surconsommation minérale des plus riches en distinguant émissions de luxe et émissions de subsistance, comme le propose déjà Andreas Malm. D’autre part, pour « déminer le capitalisme » (p. 281), cela devra passer par un processus de réflexions et de débats collectifs et démocratiques, de mouvements sociaux et de prises de consciences individuelles, en particulier dans les pays hyperindustrialisés dont la surconsommation de métaux est aberrante.

    Non content de contourner l’obstacle de la « transition énergétique », l’extractivisme pousse les frontières toujours plus loin, justifiant la conquête de nouveaux eldorados : le Groenland, les fonds océaniques, voire les minerais extraterrestres. Face au processus de contamination et de dégradation de la planète mené par le secteur minier et industriel, les luttes contre les projets s’intensifient. Récemment, ce sont les Collas, peuple indigène du Chili, qui s’opposent aux géants miniers. Ces derniers ont pour projet d’extraire du lithium dans le salar de Maricunga ; cela entraînera le pompage de millions de mètres cubes d’eau dans les profondeurs des déserts de sel, ces emblèmes de la cordillère des Andes. La communauté colla en sera d’autant plus affaiblie d’autant plus qu’elle souffre déjà de l’exode urbain et de l’assèchement de la région. Les éleveurs devront aussi abandonner leurs élevages et s’engager vers les immenses cités minières de la région. En outre, la transhumance, la biodiversité, une quarantaine d’espèces sauvages locales (le flamant rose chilien, les vigognes ou les guanacos, etc.), sont menacées. Appuyés par leur porte-parole Elena Rivera, ils ne comptent pas se laisser faire et ont fait un recours au Tribunal environnemental de Santiago, qui traite des nombreuses controverses écologiques dans le pays. Au XXIe siècle, les débats et luttes organisés autour de l’extraction au Chili, deuxième pays concentrant le plus de lithium sur la planète, prouvent que les pauvres et les derniers peuples de la planète sont en première ligne face aux effets délétères sous-jacents à la « transition verte ».

    https://laviedesidees.fr/Des-mines-pour-sauver-la-planete
    #changement_climatique #climat #extractivisme

  • Energy, Power and Transition. State of Power 2024

    The fossil fuel based energy system has shaped capitalism and our geopolitical order. Our 12th State of Power report unveils the corporate and financial actors that underpin this order, the dangers of an unjust energy transition, lessons for movements of resistance, and the possibilities for transformative change.

    https://www.tni.org/en/publication/energy-power-and-transition

    #transition_énergétique #énergie #énergie_fossile #rapport #tni #capitalisme #pétrole #résistance #

  • « La ruée minière au XXIe siècle » : le #mensonge de la #transition_énergétique

    La transition énergétique telle qu’elle est promue par les entreprises, les institutions et les gouvernements partout dans le monde repose sur l’extraction d’une quantité abyssale de #métaux. C’est ce paradoxe que décortique la journaliste et philosophe #Celia_Izoard dans son essai intitulé La ruée minière au XXIe siècle, qui paraît cette semaine au Québec aux Éditions de la rue Dorion.

    « Pour régler le plus important problème écologique de tous les temps, on a recours à l’industrie la plus polluante que l’on connaisse », résume l’autrice en visioconférence avec Le Devoir depuis son domicile, situé en pleine campagne dans le sud-ouest de la France.

    Cette dernière examine depuis plusieurs années les impacts sociaux et écologiques des nouvelles technologies. Elle a notamment publié un livre sur la vie des ouvriers de l’entreprise chinoise Foxconn, le plus grand fabricant de produits électroniques au monde. Ironiquement, nos outils numériques font défaut au cours de l’entrevue, si bien que nous devons poursuivre la discussion par le biais d’une bonne vieille ligne téléphonique résidentielle.

    Les métaux ont beau être de plus en plus présents dans les objets qui nous entourent, dont les multiples écrans, l’industrie minière fait très peu partie de l’imaginaire collectif actuel, explique Mme Izoard d’un ton posé et réfléchi. « Je croise tous les jours des gens qui me disent : “Ah bon, je ne savais pas que notre système reposait encore sur la #mine.” Ça me conforte dans l’idée que c’était utile de faire cette enquête. Notre système n’a jamais autant reposé sur l’#extraction_minière qu’aujourd’hui. »

    L’extraction de métaux a déjà doublé en vingt ans et elle n’est pas en voie de s’amenuiser, puisque les #énergies dites renouvelables, des #batteries pour #voitures_électriques aux panneaux solaires en passant par les éoliennes, en dépendent. Elle est susceptible d’augmenter de cinq à dix fois d’ici à 2050, selon une évaluation de l’Agence internationale de l’énergie.

    « Électrifier le parc automobile français nécessiterait toute la production annuelle de #cobalt dans le monde et deux fois plus que la production annuelle de #lithium dans le monde. Donc soit cette transition prendra beaucoup trop longtemps et ne freinera pas le réchauffement climatique, soit elle se fera dans la plus grande violence et une destruction incroyable », rapporte l’autrice.

    On bascule d’une forme d’extraction, du pétrole, à une autre, des métaux. « Cela n’a pas plus de sens que d’essayer de venir à bout de la toxicomanie remplaçant une addiction par une autre », juge-t-elle.

    Une justification officielle

    Les pouvoirs publics ne semblent pas y voir de problème. Ils font largement la promotion de cette #ruée_minière, promettant le développement de « #mines_responsables ». La #transition est la nouvelle excuse pour justifier pratiquement tous les #projets_miniers. « Une mine de cuivre est devenue miraculeusement une mine pour la transition », souligne Mme Izoard. Pourtant, le #cuivre sert à de multiples usages au-delà de l’#électrification, comme l’électronique, l’aérospatiale et l’armement.

    C’est dans ce contexte que la journaliste est partie à la recherche de mines responsables. Elle s’est documentée, elle a visité des sites d’exploitation, elle a consulté des experts de ce secteur d’activité et elle a rencontré des travailleurs, tout cela en #France, au #Maroc, au #Suriname et en #Espagne.

    Malgré les engagements publics et les certifications de plusieurs #entreprises_minières envers des pratiques durables et les droits de la personne, Celia Izoard n’a pas trouvé ce qu’elle cherchait. Au cours de cette quête, elle a publié une enquête pour le média Reporterre au sujet d’une mine marocaine mise en avant par les constructeurs automobiles #BMW et #Renault comme étant du « #cobalt_responsable ». Or, il s’est avéré que cette mine empoisonne les sols à l’#arsenic, dessèche la #nappe_phréatique et cause des maladies aux travailleurs.

    « La #mine_industrielle est un modèle qui est voué à avoir des impacts catastrophiques à moyen et long terme. Ce n’est pas parce que ces entreprises sont méchantes et malhonnêtes, mais parce qu’il y a des contraintes physiques dans cette activité. Elle nécessite énormément d’#eau et d’énergie, elle occupe beaucoup d’espace et elle déforeste. »

    #Boues_toxiques et pluies d’oies sauvages

    Dans son livre, Mme Izoard décrit de nombreux ravages et risques environnementaux qui sont matière à donner froid dans le dos. Les premières pages sont notamment consacrées au phénomène du #Berkeley_Pit, une ancienne mine de cuivre devenue un lac acide causant la mort de milliers d’oies sauvages.

    « Rappelons-nous la rupture de digue de résidus de la mine de cuivre et d’or de #Mount_Polley en 2014, lors de laquelle 17 millions de mètres cubes d’eau chargée en #métaux_toxiques ont irréversiblement contaminé de très grandes superficies et des ressources en eau d’une valeur inestimable, a-t-elle souligné au sujet de cette catastrophe canadienne. Or, des bassins de résidus de même type, il y en a 172 rien qu’en #Colombie-Britannique, et les boues toxiques qui y sont stockées représentent l’équivalent d’un million de piscines olympiques. Malheureusement, avec le chaos climatique, les risques de rupture accidentelle de ces barrages sont décuplés. » Elle considère d’ailleurs que le Canada est « au coeur de la tourmente extractiviste ».

    Les gouvernements du #Québec et du #Canada soutiennent généralement que le développement minier sur leur territoire respectera des #normes_environnementales plus strictes, en plus d’utiliser de l’énergie plus propre. Cet argument justifierait-il l’implantation de nouvelles mines ? Non, estime Mme Izoard.

    « Aucun État puissant industriellement ne relocalise sa #production_minière ni ne s’engage à cesser d’importer des métaux. Ce qui est en train de se passer, c’est que les besoins en métaux explosent dans tous les domaines et que les entreprises minières et les États se sont mis d’accord pour créer des mines partout où il est possible d’en créer. Ce n’est pas parce qu’on accepte une mine dans sa région qu’il n’y aura pas de mine pour la même substance à l’autre bout du monde. » Il est peu probable, par exemple, que des batteries produites au Québec s’affranchissent totalement des métaux importés.

    Pour une #décroissance_minérale

    Celia Izoard estime plutôt qu’une grande partie des mines du monde devraient fermer, puisqu’elles sont situées dans des zones menacées par la sécheresse. Nous n’aurions alors pas d’autre choix que de nous engager dans une désescalade de la consommation de métaux, « une remise en cause radicale de la manière dont on vit ». Selon cette vision, il faudrait contraindre l’ensemble du secteur industriel à se limiter, tout comme on lui demande de réduire ses émissions de GES. Les métaux devraient être réservés aux usages alors déterminés comme étant essentiels. Les immenses centres de données, les avions, les VUS électriques et les canettes d’aluminium sont-ils nécessaires à la vie humaine ?

    « Il faut arrêter de se laisser intimider par le #déterminisme_technologique, soit l’idée que le #progrès suit cette direction et qu’on ne peut rien changer. Ce sont des choix idéologiques et politiques très précis avec du financement public très important. Il faut cesser de penser que les technologies sont inéluctablement déployées et qu’on ne peut pas revenir en arrière. »

    https://www.ledevoir.com/lire/806617/coup-essai-mensonge-transition-energetique
    #mines #extractivisme #terres_rares #pollution

  • « Affirmer que la #transition_énergétique est impossible, c’est le meilleur moyen de ne jamais l’engager »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/22/affirmer-que-la-transition-energetique-est-impossible-c-est-le-meilleur-moye

    Partant du double constat selon lequel il n’y a jamais eu, par le passé, de remplacement d’une source d’énergie par une autre ; et que les transformations énergétiques se sont toujours faites de manière additive (les énergies s’ajoutant les unes aux autres), certains historiens en déduisent, à tort selon nous, qu’il n’y aurait aucun horizon pour une sortie des fossiles. Cette sortie des fossiles (le « transitioning away from fossil fuels », dans le langage forgé à la COP28) serait donc condamnée par avance.

    Tel est le message récurrent de Jean-Baptiste Fressoz [chroniqueur au Monde] notamment, dans ses ouvrages ou tribunes, qui visent toutes à réfuter ce qu’il considère comme « la fausse promesse de la transition ».

    Or, ce déclinisme écologique est non seulement grandement infondé, mais également de nature à plomber les ambitions dans la lutte contre le changement climatique. Affirmer que la transition est impossible, c’est le meilleur moyen de ne jamais l’engager. A rebours de ce défaitisme, nous voulons ici affirmer, avec force, qu’il est possible de réussir cette transition.

    Certes, à l’exception des années de crise – financière en 2008-2009, sanitaire en 2020-2021 –, les émissions de CO2 n’ont jamais cessé d’augmenter, bien que sur un rythme ralenti, d’environ + 1 % annuel au cours des années 2010, contre + 3 % annuels dans les années 2000. Car, dans le même temps, la population mondiale continuait à augmenter, tout comme la satisfaction des besoins énergétiques d’une part croissante de cette population.

    Pourtant le désempilement des énergies a déjà lieu dans certaines régions du monde : c’est le cas en Europe, par exemple, qui a engagé sa transition énergétique. Parallèlement, des acteurs de plus en plus nombreux – Etats, entreprises, chercheurs, citoyens – intègrent aujourd’hui la nécessité de réduire les émissions de gaz à effet de serre dans leurs stratégies et comportements. L’ambition n’est pas encore assez affirmée, la mise en œuvre des transformations pas assez rapide et efficace, mais le mouvement est enclenché. Comment l’ignorer ?

    Sobriété, efficacité et investissements
    Le 11 janvier, Fatih Birol, directeur de l’Agence internationale de l’énergie (AIE), indiquait que les capacités installées dans l’année en énergies renouvelables avaient augmenté de 50 % entre 2022 et 2023. Pour la part des renouvelables dans la production d’électricité, l’AIE attend le passage de 29 % à 42 % en 2028 (de 12 % à 25 % pour les seules énergies éolienne et solaire). Depuis 1975, le prix des panneaux photovoltaïques est passé de 100 dollars par watt à moins de 0,5 dollar par watt aujourd’hui, soit une réduction de 20 % du coût pour chaque doublement des capacités installées ; c’est la mesure du taux d’apprentissage de la technologie. Et alors que la question du stockage de l’électricité devient de plus en plus cruciale, on constate le même taux d’apprentissage pour les batteries : depuis 1992, chaque fois que double le nombre de batteries produites, leur coût diminue de 18 %.

    Il est clair que ces progrès spectaculaires ne contredisent pas la thèse de l’additivité des énergies : si depuis 2016 les investissements dans les énergies décarbonées dépassent largement les investissements dans les énergies fossiles, ces derniers ont à nouveau augmenté après la baisse de 2020. Et la sortie des fossiles ne se vérifiera vraiment que le jour où l’augmentation de la production d’énergie décarbonée sera supérieure en volume à celle de la consommation totale d’énergie.

    Pour atteindre cet objectif, sobriété et efficacité énergétique sont indispensables afin de maîtriser la croissance de la demande. Mais il est également évident que sobriété et efficacité ne suffiront pas. Pour atteindre le plafonnement des émissions avant 2030, il faudra décupler les investissements dans ces énergies décarbonées, et notamment dans les pays du Sud, afin de faire baisser le volume des énergies fossiles : c’est la condition sine qua non pour atteindre les objectifs de l’accord de Paris. Nous sommes conscients qu’il s’agit d’un processus long et difficile, mais osons le dire : il n’y a pas d’autre solution, et nous pouvons y arriver.

    De nouvelles alliances s’imposent
    Serions-nous condamnés par l’histoire ? Faut-il prendre acte de notre impuissance supposée, ou poser un renversement complet du système comme condition préalable à la transition ? Dans les deux cas, cela serait très risqué, et franchement irresponsable.

    Car il n’y a pas de fatalité ! On trouve sur le site du dernier rapport du Groupe d’experts intergouvernemental sur l’évolution du climat (GIEC) une citation d’Albert Camus : « Pour ce qui est de l’avenir, il ne s’agit pas de le prédire, mais de le faire. » C’est dans cette perspective que s’inscrivent tous les acteurs des COP et des négociations internationales – que certains stigmatisent comme un « grand cirque » –, pour qui « dire, c’est faire ».

    Evidemment, dire ne suffit pas, et il faut aussi mobiliser des moyens puissants, politiques et financiers. Il faut également affronter ceux – lobbys industriels et politiques – qui, par fatalisme ou par intérêt, freinent cette transformation. Enfin, comme le suggère le philosophe Pierre Charbonnier, la création de nouvelles alliances s’impose entre ceux qui ont compris que la transition servait leurs intérêts, et surtout ceux de leurs enfants.

    La démarche des sciences de la nature et de la physique consiste à s’appuyer sur des constats d’observation pour en tirer des lois immuables. Elle s’applique mal cependant aux sciences sociales. Mais ces obstacles ne doivent pas empêcher de penser l’avenir, à la manière de Gaston Berger, le père de la prospective, qui ne cessait de rappeler : « Demain ne sera pas comme hier. Il sera nouveau et il dépendra de nous. Il est moins à découvrir qu’à inventer. »

    Signataires : Anna Creti, économiste, chaire Economie du climat, université Paris-Dauphine ; Patrick Criqui, économiste, CNRS, université Grenoble-Alpes ; Michel Derdevet, président de Confrontations Europe, Sciences Po ; François Gemenne, politiste, HEC Paris ; Emmanuel Hache, économiste, IFP énergies nouvelles et Institut de relations internationales et stratégiques ; Carine Sebi, économiste, chaire Energy for Society, Grenoble Ecole de Management.

  • Japan’s thirst for biomass is having a harmful impact on Canada’s forests

    When you walk through a fresh clearcut in British Columbia, you are surrounded by a “one-dimensional, dead landscape,” says Michelle Connolly of Conservation North, a volunteer conservation group based in the Canadian province.

    The forest’s soft, mossy ground, the birdcalls and the cool moisture in the air are gone. In their place, twigs and debris lay everywhere, occasionally interspersed with pieces of garbage. Sound and movement from plants or animals have almost ceased, except for the buzzing of insects. The smell of burned piles of slash — wood debris not profitable enough to bring to a mill — hangs in the air.

    “That’s the story of conventional forestry in BC,” Connolly says.

    Last month, Connolly visited Japan to share how such scenes are linked to the nation’s “green” energy: A portion of BC’s razed forests are being used to make wood pellets, a type of biofuel that Japan is importing and burning in increasing quantities as an alternative to fossil fuels.

    The Japanese government claims wood pellets are “carbon neutral” because trees absorb carbon dioxide throughout their lives and, therefore, do not result in a net increase of atmospheric carbon dioxide when burned. The Agency for Natural Resources and Energy, which is in charge of Japan’s biomass policy, did not respond to a request for comment.

    Experts in the field, however, warn that this kind of carbon accounting is dangerously misguided.

    Research by British think tank Chatham House details how woody biomass fuels like wood pellets release a large amount of carbon dioxide during combustion — even more than coal — due to having lower energy density. Burning trees for electricity increases atmospheric carbon dioxide in the near term, precisely when the world most needs to reduce greenhouse gas emissions. And when forests are cut, their ability to absorb and sequester carbon is halted for decades.

    The Japanese government plans to have biomass contribute 5% of Japan’s power needs by 2030, putting it on par with wind. Hydrogen and ammonia, the government and industry’s controversial long-term bet to decarbonize the power sector, are expected to only contribute 1% by that year.

    Japan began seriously investing in woody biomass after the 2011 Fukushima nuclear disaster triggered a sudden shortage of zero-emission energy, as the nation took all of its reactors offline. Beginning in 2012, generous government support for renewable energy projects led to 434 approvals for power plants designed to run either partially or fully on woody biomass, although only 191 had come online as of June 2022 and many don’t use imported pellets.

    Still, the country’s wood pellet imports from Canada shot up accordingly, from 76,000 metric tons in 2013 to 1.4 million in 2022, representing 31% of Japan’s total pellet imports that year (other top sources of pellets include Vietnam, the U.S. and Malaysia).

    Japan received 40% of all Canadian wood pellet exports in 2022, according to Canadian government statistics. Over the first 10 months of 2023, that figure rose to 55%, with practically all of that coming from BC.

    However, Connolly and other experts warn that BC’s overstretched and declining forestry sector may not be able to provide Japan with a steady supply of wood pellets for long — and, for the present, it is leaving a trail of environmental destruction in its wake.

    Unknown exploitation

    Wood pellets are enmeshed in BC’s forestry industry, and proponents claim that pellets help utilize waste generated from producing other products, such as lumber. The catch, according to Connolly, is that “BC’s forestry system is fundamentally unsustainable.”

    The province has experienced roughly a century “of forest exploitation, and the last 60 years of that has been ultra-aggressive,” she adds.

    Forest land accounts for roughly two-thirds of BC’s total area, and that’s a large area — the province is three times the size of all of Japan. It’s unknown exactly how much of the province’s 600,000 square kilometers of forest remain untouched by logging, but experts and activists warn that such “primary forests” are dwindling. Although BC does release figures for “old growth” logging, primary forests represent a wider category of ecosystems that don’t contain signs of human disturbance but whose trees might not fit the definition of “old growth.”

    The results of a government-initiated strategic review of old-growth forests in BC noted in 2020 that the province’s “economy is heavily dependent on trees harvested from primary forests of old trees.” This is especially true of logging in the province’s interior, where “large-scale commercial cutting of primary forests” began 50 or fewer years ago and where it can take “several decades” for replanted trees to be ready for a second harvest.

    BC’s pellet industry is located in the interior. As a result, wood pellet feedstock likely comes from clearcut primary forest, whether a pellet mill uses byproducts such as sawmill waste or whole trees sourced directly from a logging site.

    Connolly’s home city, Prince George, lies in an area of the BC interior where forests are currently being harvested — in part, for pellets.

    From 2017, 9% of the output of the 80,000-square-kilometer Prince George timber supply area has been set aside for “bioenergy stands” — trees fit for logging for pellets — defined as “mature, damaged pine-leading stands” with relatively low marketability as saw logs.

    However, Andrew Weaver, a professor at the University of Victoria’s School of Earth & Ocean Sciences and a former member of the province’s Legislative Assembly, told The Japan Times that even harvesting such “damaged” stands could set a dangerous precedent. After being cut, replanted trees will take decades to grow, during which time the wood pellet industry will need more raw materials. The impacts of climate change also make a future second harvest less predictable, Weaver added.

    Connolly argues that BC’s remaining primary forest would be better left as-is.

    Primary forests are the best habitat for much of BC’s wildlife, especially large-bodied mammals, including critically endangered caribou, as well as bears that make dens in large tree trunks. They also keep watersheds clean, an essential ecosystem service that benefits both animals and people (Vancouver, the province’s economic capital, has banned logging in its watersheds since the 1990s).

    In addition, primary forests contribute significant carbon sinks, with much carbon dioxide stored in large, old trees and undisturbed soil and peat. Scientists note that primary forests are more effective at storing carbon than single-species plantation forests; it can take centuries for a replanted forest to store as much carbon as the primary forest it replaced.

    Currently, U.K.-headquartered Drax — a utility at home and a pellet producer in Canada and the U.S. — controls eight of 12 BC pellet mills, roughly 80% of the province’s total wood pellet production capacity.

    At its mills, huge piles of trees await processing. Although the company previously claimed to only use “sawdust and waste wood,” a 2022 investigation by BBC Panorama found evidence that Drax was also sourcing directly from primary forests. Drax responded to the BBC investigation by saying that 80% of its source material is “sawmill residues” and the rest is “waste material” from forests at risk of fire or disease.

    “In Canada, good forest management includes managed removals, which create less dense stands of trees and reduce what’s left lying on the forest floor, helping to protect from fires, pests and diseases, and preserving biodiversity,” a Drax spokesperson told The Japan Times in an email. “We support good forest management by providing a market for this material and turning it into something useful — sustainable biomass — which can be used as fuel for renewable, low carbon power.”

    During her trip to Japan, Connolly felt that Japanese audiences — including wood pellet stakeholders, media and members of the general public — were puzzled and disappointed to learn how BC’s primary forests are being turned into wood pellets.

    “It was actually really emotional for me to see people’s faces fall,” Connolly says.
    A finite amount of wood

    Although wood pellets are often billed as a “sustainable” resource, there may be a limit on the amount of pellets BC can provide Japan, warned Ben Parfitt, a resource policy analyst for the Canadian Center for Policy Alternatives who also covered forestry in BC for many years as a journalist. Parfitt traveled to Japan with Connolly to speak about wood pellets.

    BC’s logging industry, which pellet manufacturers rely on, is shrinking. Roughly 51.3 million cubic meters of timber were logged in 2022, down from 76.6 million in 2013, according to data Parfitt compiled from government statistics. Many companies are moving their operations to the southern U.S., where trees grow faster in a milder climate on already extensive forest plantations. The number of sawmills in BC is also decreasing, down from 111 in 2005 to 64 in 2023.

    In Parfitt’s view, the logging industry is contracting primarily because it logged too much, too quickly. “They have run out of the easiest-to-access and cheapest fiber,” he said.

    With logging in decline, Parfitt predicted increasing competition for resources going forward.

    “That’s pretty much where, I think, the rubber hits the road,” he concludes. “There’s a finite amount (of wood) out there.”

    In a public event during his visit to Japan, Parfitt highlighted both Drax’s overwhelming control of BC’s wood pellet industry and the fact that the company itself consumes vast quantities of wood pellets at its own power plant in the U.K. As competition for resources intensifies, the decisions Drax makes going forward could potentially have a big impact on Japan’s wood pellet supply, Parfitt warned.

    The company itself brushed off such concerns, saying in its statement to The Japan Times that it responsibly manages its commercial agreements and closely analyzes market issues affecting itself and its suppliers.

    “The majority of the sustainable biomass we supply to Japan is sourced from British Columbia in Canada where the forests are sustainably managed and subject to environmental regulation, careful management and third-party certification,” the Drax representative wrote.

    Still, Parfitt is not alone in his concern over the future of Japan’s supply of BC wood pellets. Weaver too sees BC’s relatively slow-growing forest resources as “mismatched” with the wood pellet industry and its eager customers in Japan. Wood pellets aren’t anything more than a “short-term fix” for the country’s energy needs, he said.

    Going forward, Weaver suggested that Japan, known abroad as a nation of innovators, could show more international leadership in renewable energy.

    “Burning wood is literally what our ancestors and Neanderthals did many hundred thousands of years ago,” he says. “Surely we’re better than that.”

    https://www.japantimes.co.jp/environment/2024/01/14/resources/biomass-canada-japan-imports
    #Canada #forêts #déforestation #Japon #transition_énergétique #green-washing #bois #pellets #extractivisme #énergie #bioénergie

  • Aïe ! J’ai peur que ces artistes soient légèrement naïfs sur ce coup-là. Pourtant un accès minimum universel à l’électricité c’est sûr que ce serait pas mal.
    « Il ne peut y avoir de transition énergétique sans qu’au préalable l’accès universel à une énergie abordable, fiable et durable ne soit garanti, à nos populations, mais aussi à nos entreprises. Bien utilisées, toutes nos ressources constituent un vecteur puissant de développement. Nous sommes convaincus qu’en comptant sur nous-mêmes, en étant vertueux et responsables dans l’utilisation de nos ressources, nous arriverons à développer notre continent et à faire rayonner sa culture. »
    https://www.jeuneafrique.com/1524740/economie-entreprises/lafrique-a-besoin-de-toutes-ses-energies-face-a-la-transition-climatiq
    #transition_energetique #afrique #electricite

  • Sans #transition. Une nouvelle #histoire de l’#énergie

    Voici une histoire radicalement nouvelle de l’énergie qui montre l’étrangeté fondamentale de la notion de transition. Elle explique comment matières et énergies sont reliées entre elles, croissent ensemble, s’accumulent et s’empilent les unes sur les autres.
    Pourquoi la notion de transition énergétique s’est-elle alors imposée ? Comment ce futur sans passé est-il devenu, à partir des années 1970, celui des gouvernements, des entreprises et des experts, bref, le futur des gens raisonnables ?
    L’enjeu est fondamental car les liens entre énergies expliquent à la fois leur permanence sur le très long terme, ainsi que les obstacles titanesques qui se dressent sur le chemin de la #décarbonation.

    https://www.seuil.com/ouvrage/sans-transition-jean-baptiste-fressoz/9782021538557
    #livre #Jean-Baptiste_Fressoz

    • « #Transition_énergétique » : un #mythe qui nous mène dans le mur

      Transition énergétique, ce mot est partout aujourd’hui. Dans les discours du gouvernement, la communication des entreprises fossiles, des multinationales, dans les rapports scientifiques.. Le message est clair, face à l’urgence climatique, il nous faut opérer une transition énergétique pour réduire nos émissions de gaz à effet de serre et décarboner les économies d’ici à 2050. La notion de de #transition part de l’idée que nous devrions répéter les transition du passé, du bois au charbon puis du charbon au pétrole pour désormais aller vers le nucléaire et les renouvelables et ainsi échapper au chaos climatique. Pour Jean-Baptiste Fressoz, chercheur au CNRS, la transition énergétique n’est qu’une #fable créée de toute pièce par le capital et que toute l’histoire déconstruit. Dans son livre “ Sans transition” il écrit “Rien de plus consensuelle que la transition énergétique, rien de plus urgent que de ne pas y croire” L’historien des sciences le rappelle “après deux siècles de “transitions énergétiques”, l’humanité n’a jamais brûlé autant de pétrole et de gaz, autant de charbon et même de bois”. À l’échelle mondiale, il faut dire que la transition énergétique est invisible. Depuis le début du XXème siècle, les énergies et les ressources que l’on utilise se sont accumulées sans se remplacer. L’histoire de l’énergie est donc une histoire d’accumulation et de symbiose. Même la consommation de charbon, considéré comme l’énergie de la révolution industrielle, a battu un nouveau record en 2023. Les énergies renouvelables ne remplacent pas les fossiles, elles s’ y additionnent. Et les émissions de gaz à effet de serre continuent d’augmenter Alors la transition énergétique n’est-elle qu’une illusion ? Pour Jean Baptiste Fressoz, en se basant sur une lecture fausse du passé selon laquelle chaque énergie serait venue en remplacer une autre, nous nous empêchons de construire une politique climatique rigoureuse. Pourquoi la transition énergétique nous empêche de penser convenablement le défi climatique ? Comment cette notion s’est-elle imposée ? Et en quoi est-il urgent de ne pas y croire et de penser autrement nos réponses au plus grand défi du siècle ? Réponses dans cet entretien de Paloma Moritz avec Jean Baptiste Fressoz.

      https://www.blast-info.fr/emissions/2024/transition-energetique-un-mythe-qui-nous-mene-dans-le-mur-Inu5q1eWT0WwT7X

      #audio #podcast

  • L’#hydrogène est un #gaz_à_effet_de_serre deux fois plus puissant qu’on ne le pensait
    (date de publication : 2022)

    Une étude publiée ce vendredi par le département britannique de l’Economie, de l’Énergie et de la Stratégie industrielle (BEIS) a révélé que l’hydrogène est un gaz à effet de serre deux fois plus puissant qu’on ne le pensait auparavant.

    Le rapport explique que la molécule d’hydrogène exerce une action indirecte sur le climat. Elle réagit avec d’autres gaz à effet de serre présents dans l’atmosphère en augmentant leur potentiel de réchauffement global (PRG). Le résultat de cette étude confirme ainsi l’alerte lancée précédemment par d’autres scientifiques.

    Alors que l’effet néfaste induit par l’hydrogène sur le méthane et l’ozone dans la troposphère – la couche la plus basse de l’atmosphère – était déjà connu, « nous avons maintenant considéré aussi, pour la première fois dans nos calculs du PRG de l’hydrogène, l’influence ignorée jusqu’ici de ce gaz sur la vapeur d’eau et l’ozone présents dans la stratosphère » expliquent les auteurs du rapport, des scientifiques du National Center for Atmospheric Sciences et des universités de Cambridge et de Reading. « Nous estimons maintenant que le PRG de l’hydrogène pour une période de 100 ans est en moyenne de 11, c’est-à-dire qu’il est 11 fois plus néfaste pour le climat que le dioxyde de carbone (CO2) », précisent-ils. Une précédente étude publiée en 2001 et fréquemment citée depuis, évaluait le PRG de l’hydrogène à 5,8.

    https://www.france-hydrogene.org/lhydrogene-est-un-gaz-a-effet-de-serre-deux-fois-plus-puissant-quo

    #changement_climatique #climat #transition_énergétique

  • Permessi in mano straniera : il vero #business è rivenderli

    La crescita della domanda delle materie prime critiche ha rimesso le miniere al centro dell’agenda politica italiana. Ma sono compagnie extra-UE a fare da protagoniste in questa rinascita perché la chiusura delle miniere negli anni ’80 ha spento l’imprenditoria mineraria italiana.

    “Nelle #Valli_di_Lanzo l’attività mineraria risale al XVIII secolo, quando il cobalto era utilizzato per colorare di blu tessuti e ceramiche. Poi l’estrazione non era più conveniente e le miniere sono state chiuse negli anni ‘20” dice a IE Domenico Bertino, fondatore del museo minerario di Usseglio, Piemonte. Adesso, grazie a una società australiana, i minatori potrebbero tornare a ripopolare le vette alpine.

    Secondo Ispra quasi tutti i 3015 siti attivi in Italia dal 1870 sono dismessi o abbandonati. Ma la crescita della domanda di materie prime critiche (CRM) ha fatto tornare le miniere al centro dell’agenda politica.

    “Abbiamo 16 materie critiche in miniere che sono state chiuse oltre trent’anni fa. Era più facile far fare l’estrazione di cobalto in Congo, farlo lavorare in Cina e portarlo in Italia” ha detto a luglio il ministro delle imprese e del made in Italy Adolfo Urso, ribadendo la volontà del governo di riaprire le miniere. Oltre al cobalto in Piemonte, ci sono progetti per la ricerca di piombo e zinco in Lombardia, di litio nel Lazio e di antimonio in Toscana.

    I protagonisti di questa “rinascita mineraria”, che dovrebbe rendere l’Italia meno dipendente da paesi terzi, sono compagnie canadesi e australiane. Dei 20 permessi di esplorazione attivi, solo uno è intestato a una società italiana (Enel Green Power).

    La ragione è che “le scelte politiche fatte negli anni ‘80 hanno portato alla chiusura delle miniere. E così la nostra imprenditoria mineraria si è spenta e la nuova generazione ha perso il know how” spiega Andrea Dini, ricercatore del CNR.

    La maggior parte sono junior miner, società quotate in borsa il cui obiettivo è ottenere i permessi e vendere l’eventuale scoperta del giacimento a una compagnia mineraria più grande. “Spesso quando la società mineraria dichiara di aver scoperto il deposito più grande del mondo, il più ricco, il più puro, cerca solo di attrarre investitori e far decollare il valore del titolo” spiega Alberto Valz Gris, geografo ed esperto di CRM del Politecnico di Torino, promotore di una carta interattiva (http://frontieredellatransizione.it) che raccoglie i permessi di ricerca mineraria per CRM in Italia.

    Tra le junior miner presenti in Italia spicca Altamin, società mineraria australiana che nel 2018 ha ottenuto i primi permessi di esplorazione (https://va.mite.gov.it/it-IT/Oggetti/Info/1760) per riaprire le miniere di cobalto di Usseglio e Balme, in Piemonte. “Finora sono state effettuate solo analisi in laboratorio per capire la qualità e quantità del cobalto” spiega Claudio Balagna, appassionato di mineralogia che ha accompagnato in alta quota gli esperti di Altamin. “Ma da allora non abbiamo saputo più nulla", dice a IE Giuseppe Bona, assessore all’ambiente di Usseglio, favorevole a una riapertura delle miniere che potrebbe creare lavoro e attirare giovani in una comunità sempre più spopolata.

    A Balme, invece, si teme che l’estrazione possa inquinare le falde acquifere. “Non c’è stato alcun dialogo con Altamin, quindi è difficile valutare quali possano essere i risvolti eventualmente positivi" lamenta Giovanni Castagneri, sindaco di Balme, comune che nel 2020 ha ribadito l’opposizione “a qualsiasi ricerca mineraria che interessi il suolo e il sottosuolo”.

    “Le comunità locali sono prive delle risorse tecniche ed economiche per far sentire la propria voce” spiega Alberto Valz Gris.

    Per il governo Meloni la corsa alla riapertura delle miniere è una priorità, con la produzione industriale italiana che dipende per €564 miliardi di euro (un terzo del PIL nel 2021) dall’importazione di materie critiche extra-UE. Tuttavia, a oggi, non c’è una sola miniera di CRM operativa in Italia.

    Nel riciclo dei rifiuti le aziende italiane sono già molto forti. L’idea è proprio di puntare sull’urban mining, l’estrazione di materie critiche dai rifiuti, soprattutto elettronici, ricchi di cobalto, rame e terra rare. Ma, in molti casi, la raccolta e il riciclo di queste materie è oggi ben al di sotto dell’1%. “Un tasso di raccolta molto basso, volumi ridotti e mancanza di tecnologie appropriate non hanno permesso lo sviluppo di una filiera del riciclaggio delle materie critiche”, dice Claudia Brunori, vicedirettrice per l’economia circolare di ENEA, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile. Oltre alla mancanza di fondi: nel PNRR non sono previsti investimenti per le materie prime critiche.

    Un’altra strategia è estrarre CRM dalle discariche minerarie. Il Dlgs 117/08 fornisce indicazioni sulla gestione dei rifiuti delle miniere attive, ma non fornisce riferimenti per gli scarti estrattivi abbandonati. Così “tali depositi sono ancora ritenuti rifiuti e non possono essere considerati nuovi giacimenti da cui riciclare le materie” denuncia l’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), che chiede una modifica normativa che consenta il recupero delle risorse minerarie.

    https://www.investigate-europe.eu/it/posts/permessi-in-mano-straniera-il-vero-business-rivenderli
    #extractivisme #Alpes #permis #mines #minières #Italie #terres_rares #matières_premières_critiques #transition_énergétique #Alberto_Valz_Gris #permis_d'exploration #Usseglio #Piémont #Adolfo_Urso #plomb #zinc #Lombardie #Latium #Toscane #antimoine #Enel_Green_Power #junior_miner #Altamin #Australie #Balme #urban_mining #recyclage #économie_circulaire #déchets

    –—

    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

  • Mine games

    Rare earths are to the 21st century what coal was to the 19th and oil to the 20th. Our everyday electronics - and Europe’s climate goals - depend on them. But China controls almost all supply chains. Can Europe free itself from this dependence?

    Your mobile has them. Your laptop as well. They are likely in the toothbrush you used this morning. E-scooters are full of them. So are electric cars.

    Rare earths and other minerals are essential for wind and solar power installations, defence, and for the gadgets that we now rely upon in our daily lives. The demand for critical raw materials is going to skyrocket in the years ahead, far beyond current supply.

    There is no “climate neutrality” ahead without them. This implies more mining than ever before. “We, eight billion of us, will use more metal than the 108 billion people who lived before us,” according to Guillaume Pitrón, author of the book Rare Metals War.

    The political headache is that Europe depends heavily on imports of these critical raw materials, primarily from China.

    China controls EU supply of critical raw materials
    The trade in rare earths and other materials is controlled by the Chinese. Russia and Chile are significant suppliers as are some European nations.

    European dependency on Russian gas was a wake-up call last year, when Russia invaded Ukraine. Now the EU urgently wants to reduce the similar dependency on Chinese supplies of rare earth elements, lithium, bismuth, magnesium and a series of other critical minerals.

    European consumers have for decades not had to be much concerned with the environmental destruction and pollution that often comes with mining. Now, governments haste to revive mining across the continent – and to fast-track processes that otherwise may take a decade or more.

    https://www.youtube.com/watch?v=qzw9-1G9Sok

    Investigate Europe reporters have unearthed what lies beneath these “green mining” ambitions. We have broken into a mountain of dilemmas, challenges and questions that come with Europe’s pressing need for minerals.

    To what extent will Europe be practically able to revive a mining industry that it has long abandoned? How can governments secure social acceptance for new mines if they are to fast-track permit processes? What kind of autonomy can come in an industry dominated by global companies?

    https://www.investigate-europe.eu/themes/investigations/critical-raw-materials-mining-europe
    #minières #mines #extractivisme #Europe #Chine #dépendance #indépendance #terres_rares #neutralité_climatique #transition_énergétique #importation #lithium #bismuth #magnésium #green_mining #industrie_minière #autonomie

    disponible en plusieurs langues, français notamment :
    https://www.investigate-europe.eu/fr/themes/investigations/critical-raw-materials-mining-europe

    • Écocides et #paradis_fiscaux : révélations sur les dérives du soutien européen à l’industrie minière

      Pour développer l’industrie des #batteries_électriques ou des éoliennes, l’Union européenne finance des entreprises minières au travers du programme #Horizon. Une partie de ces fonds soutient des sociétés impliquées dans des catastrophes environnementales, voire, pour l’une d’entre elles, domiciliée dans un paradis fiscal.

      C’est une immense tâche blanche, un entrelacs de tuyaux et de cuves, au milieu d’un écrin vert-bleu, à l’embouchure du fleuve Amazone, au #Brésil. Ici, l’usine de la société minière française #Imerys a laissé un souvenir amer aux communautés autochtones. En 2007, plusieurs dizaines de familles ont été contraintes à l’exil lorsque le leader mondial de la production de minéraux industriels a déversé 200 000 m3 de #déchets_toxiques dans les rivières alentour. #Cadmium, #baryum et autres #métaux_lourds cancérigènes se sont déposés au fond des cours d’eau dans lesquels puisent les populations, aux confins de la plus grande forêt pluviale du monde.

      De l’autre côté du globe, dans le #désert_de_Gobi, en #Mongolie, #Orano, (ex-#Areva), exploite des gisements d’#uranium. Cette fois, le géant français du combustible nucléaire est suspecté d’avoir injecté dans le sol « d’énormes quantités d’#acide_sulfurique », contaminant les #eaux_souterraines au #strontium — mortel à très haute dose — et à l’#arsenic, selon une enquête judiciaire mongole. « Moutons, chèvres, chevaux qui naissent handicapés, eau souterraine polluée, femmes qui font des fausses couches… » : l’association locale #Eviin_huch_eh_nutgiin_toloo, interrogée récemment par Reporterre, énumère les conséquences sanitaires potentiellement désastreuses de l’exploitation d’Orano.

      Plus loin au sud, près de l’équateur, l’île d’#Halmahera, en #Indonésie, fait face aux effets dévastateurs de l’exploitation récente de #nickel, à #Weda_Bay, en partie détenue par le groupe métallurgique et minier français, #Eramet. Là aussi, les terres sont détruites, et les populations autochtones déplacées. Sa filiale calédonienne, la société #Le_Nickel, est à l’origine d’une importante #pollution au #fuel constatée en avril 2023. Environ 6 000 litres de combustible se seraient échappés d’une conduite percée.

      Ces trois sociétés françaises n’ont pas pour seul point commun d’être impliquées dans des scandales environnementaux : elles bénéficient des largesses du programme européen Horizon. D’après notre enquête, la société française Eramet a touché 1,9 million d’euros, entre 2019 et 2022. Quant à Orano et Imerys, elles ont reçu respectivement 2,3 millions d’euros et 312 637 euros du programme européen. Parmi les prérequis indispensables à l’obtention de ces #subventions, figurait celui de « ne pas nuire à l’un des six objectifs environnementaux » présent au cœur du “#green_deal” européen, le #pacte_vert, en français. À commencer par la prévention contre les #risques_de_pollution ou la protection des écosystèmes. Sollicitée, la Commission européenne se contente de déclarer qu’elle accorde « une attention approfondie » aux enjeux environnementaux.

      Quinze sociétés impliquées dans des crimes environnementaux

      Doté d’un budget de 95 milliards d’euros sur sept ans (2021-2027), le programme européen Horizon, initié en 2014, et financé en grande partie sur fonds publics, a pour mission de soutenir la #recherche et l’innovation au sein de l’Union européenne. Avec l’émergence des besoins en batteries électriques, en #éoliennes et autres industries liées au secteur de la #transition_énergétique, ce soutien se dirige en grande partie vers le secteur minier, d’après notre analyse des données mises en ligne par l’UE. Avec une nette accélération ces dernières années : sur les 667 millions d’euros réservés à ce type de projets, entre 2014 et 2023, près de la moitié ont été attribués à partir de 2020.

      Projets financés par le programme de l’UE Horizon, en lien avec la loi sur les #matières_premières_critiques

      Depuis 2014, Horizon a financé 95 projets de ce type. Ceux-ci ont reçu 667 millions d’euros distribués entre 1 043 organisations. Les 67 présentés dans le graphique ont reçu plus de 2 millions d’euros.

      En plus des trois entreprises françaises ayant bénéficié du fonds Horizon malgré leur lien avec des pollutions environnementales, Disclose et Investigate Europe ont identifié douze autres sociétés problématiques. À chaque fois, celles-ci ont été impliquées dans des catastrophes environnementales. Leurs liens avec lesdites catastrophes sont accessibles en quelques clics sur Internet.

      Un exemple : l’entreprise minière suédoise #Boliden. Elle a perçu près de 2,7 millions d’euros dans le cadre de huit appels à projets Horizon. La dernière fois, c’était en novembre 2019. Or, cette société spécialisée dans la production de #zinc et de #cuivre a un lourd passif en matière de dégradation des écosystèmes. En 1998, près de Séville, en Espagne, le barrage d’un bassin de décantation d’une mine de #pyrite lui appartenant s’est rompu, déversant des eaux polluées sur plus de 40 km de terres agricoles. Dans les années 1980, Boliden a également été épinglé pour avoir exporté des milliers de tonnes de #déchets_miniers depuis la Suède vers #Arica, au nord du #Chili. Les #boues_toxiques d’arsenic liées au stockage sont pointées par des locaux pour être vraisemblablement à l’origine de #cancers et #maladies chez des milliers de résidents, lui valant d’être un cas d’étude dans un document du Parlement européen.

      Défaillances en chaîne

      Les données analysées réservent d’autres surprises. Alors que l’Union européenne ne cesse de défendre la nécessité de réduire sa dépendance vis-à-vis de la Chine et de la Russie, surtout depuis la pandémie et le conflit russo-ukrainien, le #programme_Horizon semble souffrir de quelques défaillances. Et pour cause, selon l’examen détaillé des entreprises bénéficiaires, il est arrivé à au moins trois reprises que les fonds versés par l’UE terminent soit sur le compte en banque d’un acteur étatique chinois, soit sur celui d’oligarques russes.

      Dans le premier cas, il s’agit du dossier déposé par la #Soil_Machine_Dynamics, une entreprise britannique leader dans le domaine de la robotique sous-marine. Celle-ci a reçu 3,53 millions d’euros du budget d’Horizon pour un projet baptisé #Vamos. Il visait à développer une technique permettant d’extraire des minéraux à des profondeurs jusque-là inaccessibles. Le projet a démarré le 1er février 2015. Mais, cinq jours plus tard, le fonds d’investissement privé Inflexion a cédé l’entreprise à #Zhuzhou_CSR_Times_Electric, dont l’actionnaire majoritaire est l’État chinois. Le projet Vamos, passé sous pavillon chinois, est resté actif jusqu’au 31 janvier 2019.

      Le second cas fait référence à la société #Aughinish_Alumina. L’entreprise basée en Irlande raffine la #bauxite, la roche dont est extraite l’#alumine utilisée pour produire l’#aluminium. En 2018, elle a reçu 563 500 euros en provenance de l’Union européenne pour sa participation à un projet visant à étudier la réutilisation des résidus de bauxite. Or, cette entreprise minière appartient depuis 2007 à #Rusal, un groupe russe qui domine le secteur et dont l’un des principaux actionnaires n’est autre qu’#Oleg_Deripaska. Réputé proche de Vladimir Poutine, ce dernier figure sur la liste des oligarques russes sanctionnés par le Royaume-Uni et les États-Unis… et l’Europe.

      Des fonds publics européens atterrissent dans un paradis fiscal

      Un autre cas intrigue, celui de la société #Lancaster_Exploration_Limited, spécialisée dans l’exploration de terres rares. L’entreprise a participé à un projet Horizon qui promettait de développer de nouveaux « modèles d’exploration pour les provinces alcalines et de carbonatite » destinés à l’industrie européenne de haute technologie. Pour ce projet, elle a perçu plus de 168 000 euros de la part de l’Europe, alors que son siège social est situé dans les #îles_Vierges britanniques, paradis fiscal notoirement connu. Interrogé sur ce cas précis, un porte-parole de la Commission européenne explique que l’institution peut mettre fin à un contrat la liant avec une société qui se serait rendue coupable d’infractions avec ses « obligations fiscales » ou qui aurait été « créé sous une juridiction différente, avec l’intention de contourner les obligations fiscales, sociales ou autres obligations légales dans le pays d’origine. »

      Reste à savoir si l’Union européenne prendra des mesures contre des sociétés ne respectant manifestement pas leurs obligations. D’autant plus que l’acquisition d’une souveraineté dans le secteur des #matières_premières critiques et des terres rares est l’une des priorités affichées par l’exécutif européen. La Commission a d’ailleurs présenté, en mars dernier, le #Critical_Raw_Materials_Act, consistant à relancer l’activité minière sur le continent. Grâce, notamment, aux centaines de millions d’euros que le programme Horizon destine aux professionnels du secteur.

      https://www.investigate-europe.eu/fr/posts/eu-horizon-scheme-millions-funding-mining-companies-environmental
      #paradis_fiscal #fisc #évasion_fiscale #écocide

  • Mine de lithium dans l’Allier : le rapport qui dévoile une bombe toxique
    https://disclose.ngo/fr/article/mine-de-lithium-dans-lallier-le-rapport-qui-devoile-une-bombe-toxique

    Il y a un an, le gouvernement a annoncé l’ouverture, dans l’Allier, de la plus grande mine de lithium d’Europe. D’après un rapport inédit dévoilé par Disclose et Investigate Europe, le secteur, fortement contaminé à l’arsenic et au plomb, présente « un risque significatif pour l’environnement et la santé humaine ». Une véritable bombe à retardement passée sous silence par les autorités. Lire l’article

    • Des mines de lithium en #Limousin ? L’impossible débat

      De l’Allier jusqu’à la #Haute-Vienne, la fièvre minière suscite la controverse.

      C’est à Échassières, petit bourg de 400 habitants dans l’Allier que la multinationale #Imerys prévoit d’ouvrir la plus grande mine de lithium d’Europe et d’extraire plus d’un million de tonnes d’#oxyde_de_lithium en 25 ans. Ce volume permettra de produire 700 000 #batteries de #voitures_électriques.

      C’est bien la #transition_écologique et le #tout-électrique qui font grimper les cours du lithium, rendant à présent sa prospection intéressante en Europe et en France, où les lois environnementales sont pourtant contraignantes pour les industriels. Les deux plus grand pays producteurs que sont l’#Australie et le #Chili (70 % du volume mondial) ne semblent en effet que bien peu s’embarrasser du sort des populations autochtones vivant sur les territoires miniers.

      Les occidentaux font partie des plus grands consommateurs de lithium au monde. Dès lors, refuser une #extraction_locale au nom de l’écologie serait-il faire la promotion d’une « #écologie_coloniale » ? À l’inverse, peut-on parler de « transition écologique » lorsque les groupes industriels produisent à l’envie des smartphones à l’obsolescence programmée et des voitures électriques toujours plus lourdes et gourmandes type SUV, Tesla et autres ? Le débat parait impossible, tant les contradictions fusent de part et d’autre.

      Dans ce reportage nous écouterons les habitants de la ville d’Échassières, des militants de #Stopmines23, Rafael Solans-Ezquerra, élu à la mairie d’#Ambazac favorable à l’extraction de lithium sur sa commune, et Laurent Richard, spécialiste des sols. À travers leurs témoignages nous entendrons peut-être qu’une sortie par le haut de cet impossible débat serait déjà de se poser la question de nos réels besoins fondamentaux. Nous les entendrons évoquer le principe de sobriété mais aussi la manière dont les industriels ont exploité les divers minerais de la région par le passé, notamment l’uranium.

      https://telemillevaches.net/videos/des-mines-de-lithium-en-limousin-limpossible-debat

    • Dans l’Allier, un projet d’exploitation d’une mine de lithium divise

      Le gouvernement français relance l’extraction minière. En Auvergne, un projet de mine de lithium, présenté comme vertueux pour la lutte contre le réchauffement climatique, rencontre de l’opposition.

      Un projet de mine de lithium, un minerai blanc utilisé dans la fabrication, entre autres, de batteries automobiles électriques, divise la population. D’un côté, la région, le gouvernement et une société vantent un projet qui accompagnerait une stratégie globale de décarbonation. De l’autre, des citoyens et des associations craignent des retombées négatives ; pollution, effets sur l’accès au sol et à l’eau...

      Mais le sujet dépasse l’Allier où la mine pourrait voir le jour, et la seule production de lithium. En effet, le gouvernement français, et au-delà, les institutions européennes, comptent relancer l’extraction minière sur le sol européen.

      https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/la-transition-de-la-semaine/dans-l-allier-un-projet-d-exploitation-d-une-mine-de-lithium-divise-2830

    • Mine de lithium dans l’Allier : « Voulons-nous que nos voitures fonctionnent au pétrole, ou à l’électricité du soleil et du vent » ?

      Alors que le débat public s’achève sur le projet de mine à Echassières (Allier) devons-nous laisser dormir les centaines de milliers de tonnes de lithium que renferme son granite ? Ou sécuriser les approvisionnements des usines de batteries en construction dans les Hauts-de-France ? interroge Cédric Philibert, chercheur associé à l’Ifri (1) .

      Le projet de la société Imerys d’ouvrir une mine de lithium à Echassières, dans l’Allier, sur le site d’une carrière de kaolin qu’elle exploite, fait débat. Ce débat est organisé par la commission nationale du débat public, comme pour tout investissement de cette ampleur. Les réunions publiques tenues au fil des dernières semaines permettent d’en repérer peu à peu les principaux arguments et les lignes de force, et les positions des divers acteurs.

      Certains des futurs voisins de la mine ou des installations connexes s’inquiètent de possibles nuisances, visuelles ou auditives. Pêcheurs, agriculteurs et environnementalistes craignent un gaspillage de ressources hydriques et de possibles pollutions des eaux souterraines. La mine demande « énormément d’eau », affirme Antoine Gatet, le président de France Nature Environnement (Libération du 10 mars 2024).

      Mais des oppositions plus radicales s’expriment. A quoi bon extraire du lithium ? A quoi bon fabriquer des voitures électriques, si c’est pour perpétuer la voiture ? L’historien Jean-Baptiste Fressoz s’interroge dans le Monde : « D’où vient cette idée que, pour sauver le climat, il faut absolument ouvrir des mines ? » A quoi bon, en effet, puisque « la voiture électrique ne réduit que de 60 % les émissions de CO2 par rapport à un véhicule thermique. » La transition ne serait qu’un prétexte pour réenchanter la mine : « Le lobby minier parle maintenant “des métaux pour la transition”, alors qu’il s’agit souvent de métaux pour l’électronique et l’industrie en général », poursuit-il. Et qu’importe si les batteries de nos téléphones, de nos ordinateurs portables et, surtout, de nos véhicules électriques représenteront d’ici à 2030 pas moins de 95 % de la demande de lithium.
      Nous ne sommes pas seuls au monde

      Bien sûr, la voiture électrique est indispensable pour réduire nos émissions de gaz à effet de serre. La France compte une voiture pour deux habitants, c’est trop. Admettons que nous réussissions, d’ici à 2050, à ramener le nombre de voitures à une pour cinq habitants – en multipliant les transports en commun, les pistes cyclables, en incitant à l’exercice physique… Mais beaucoup d’entre nous, vivant dans les villages et les bourgs ou en banlieues lointaines serons encore dépendants de leur voiture pour se déplacer dans vingt-cinq ans.

      Et nous ne sommes pas seuls au monde. Nous serons bientôt dix milliards, et il n’y a pas de raison que dans les autres pays, sur les autres continents, on n’arrive pas au même niveau d’équipement que les sobres Français. Ça fera tout de même deux milliards de voitures en tout, deux fois plus qu’aujourd’hui… Voulons-nous qu’elles fonctionnent au pétrole, ou à l’électricité du soleil et du vent, alors devenue majoritaire dans le mix énergétique mondial ?

      Pourtant, sceptiques et opposants n’ont pas forcément tort… Nous pourrions ne pas créer la mine d’Echassières, et laisser dormir les quelques centaines de milliers de tonnes de lithium que renferme son granite. Le monde regorge de lithium, on s’en rend compte maintenant qu’on en cherche. Les réserves, économiquement exploitables aujourd’hui, estimées à 17 millions de tonnes, il y a quatre ans, sont désormais évaluées à 28 millions de tonnes, de quoi soutenir un demi-siècle de production intensive de batteries.

      On les trouve au Chili, au Pérou, en Argentine, en Australie, en Chine… et aux Etats-Unis, où la plus récente découverte pourrait encore doubler les réserves d’un seul coup. Les ressources connues, peut-être un jour exploitables, sont quatre fois plus importantes que ces réserves.

      Certes, sécuriser autant que possible les approvisionnements des usines de batteries que nous sommes en train de construire dans les Hauts-de-France, cela pourrait se révéler utile, dans un monde qui se hérisse de barrières et de conflits. Mais qu’avons-nous besoin de fabriquer des batteries, ou même des voitures ? Nous les achèterons à la Chine… Plus sérieusement, si nous devons acheter à l’étranger, et surtout à la Chine, les métaux nécessaires à la fabrication des batteries et voitures européennes, autant en limiter les volumes autant que possible.
      Toutes les études ne sont pas terminées

      Aucune mine n’est bien sûr sans impact sur l’environnement. Mais ces impacts peuvent être drastiquement réduits. Le projet d’Imerys est à cet égard très intéressant. La mine sera souterraine, limitant fortement les nuisances, et fera essentiellement appel à des machines électriques. Le mica voyagera d’abord dans des conduites souterraines, puis des wagons, en aucun cas des camions. L’usine de conversion du mica en hydroxyde lithium, située près de Montluçon, n’utilisera que l’eau d’une station d’épuration.

      Dans la mine elle-même, 95 % de l’eau utilisée pour le lavage des concentrés sera recyclée, limitant le prélèvement dans la Sioule à 600 000 m³ par an, 0,1 % de son débit moyen, moins de 1 % de son débit d’étiage. Moins d’un mètre cube pour la batterie d’une voiture électrique, à peine la quantité d’eau nécessaire pour produire une demi-tablette de chocolat…

      Toutes les études ne sont pas terminées, les autorisations ne sont pas délivrées, mais le projet est sous étroite surveillance des pouvoirs publics, des ONG, des médias. Au nom de quoi nous priverions-nous du surcroît de souveraineté que procure une production domestique ? Et si l’on préfère considérer toute mine comme un fardeau pour notre environnement – fardeau relatif, qui aide à éviter un mal bien plus grand encore, celui du changement climatique, mais fardeau tout de même – au nom de quoi devrions-nous laisser ce fardeau à des peuples lointains ?

      Contrairement à nous, ils n’ont pas toujours les moyens d’exiger des industries minières les mesures indispensables de préservation de leur environnement immédiat. On peut donc voir, dans l’ouverture de mines en Europe pour fournir au moins une partie des matériaux de la transition énergétique, un enjeu moral autant que de souveraineté.

      (1) Dernier ouvrage paru : Pourquoi la voiture électrique est bonne pour le climat, Les Petits Matins-Institut Veblen, mars 2024.

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/mine-de-lithium-dans-lallier-voulons-nous-que-nos-voitures-fonctionnent-a

    • Le #lithium, de l’#or_blanc en barre

      Promesse économique et énergétique, risque écologique : « Les Jours » enquêtent sur ce métal rare niché dans le sol français.

      À #Échassières (#Allier)

      Échassières, département de l’Allier. Un petit bourg tranquille, jusqu’au 24 octobre dernier. Au petit matin, la brume s’attarde sur la #forêt_domaniale des #Colettes. La route s’enfonce sous les arbres, remonte en douceur les flancs du massif granitique de La Bosse avant de redescendre vers le village. Échassières, 400 âmes, un château, un clocher, cinq commerces soutenus à bout de bras par la municipalité, une minuscule école primaire et un Ehpad dont les locataires font sérieusement grimper la moyenne d’âge de la population. Et puis, le 24 octobre 2022, le groupe français de minéraux industriels Imerys a annoncé son intention d’y ouvrir l’une des plus grandes mines européennes de lithium, ce métal mou et léger, composant essentiel des batteries électriques. Alors dans les semaines qui ont suivi, les journalistes ont défilé sur la place de l’église et le secrétariat de la mairie a ployé sous les appels de ses administrés.

      « Dans l’ensemble, la population est plutôt ouverte au projet », estime Frédéric Dalaigre, le maire (sans étiquette) d’Échassières. Il faut dire que l’on se trouve ici en terre minière. « La mine, c’est l’ADN de la région », s’exclame Jean-Christophe Thenot, animateur du musée géologique local, Wolframines. Ce natif du coin, passionné de minéralogie, déploie son enthousiasme pour la richesse géologique locale à grand renfort de superlatifs et d’érudition. « C’est un site exceptionnel, dont la diversité minéralogique et minière est unique et réputée », assure-t-il. Chaque année, des dizaines de scientifiques et passionnés de minéralogie viennent arpenter les flancs du massif. Mais l’économie locale, elle, s’est surtout bâtie sur l’extraction minière. Dans le coin, on a commencé à creuser dès l’époque gallo-romaine, pour extraire de l’étain principalement. Des siècles plus tard, à l’aube du XIXe siècle, c’est le kaolin qui intéresse – cette argile blanche, principalement utilisée dans la confection de céramiques. Les nobles locaux ouvrent une tripotée de carrières, dont la première, celle de Beauvoir, est toujours en activité. Propriété d’Imerys depuis 2005, elle emploie une trentaine de salariés. C’est là que le groupe minier prévoit d’ouvrir son site d’extraction de lithium. Mais l’exploitation sera autrement conséquente. Avec le projet #Emili (pour « Exploitation de mica lithinifère par #Imerys »), l’entreprise espère produire quelque 34 000 tonnes d’hydroxyde de lithium par an, dès 2028. De quoi équiper 700 000 véhicules électriques chaque année, estime le groupe. Et ce pour une durée d’au moins ving-cinq ans, le temps d’exploiter un gisement parmi les plus prometteurs de l’Hexagone.

      À Échassières, si certains ont été quelque peu soufflés par la nouvelle, les anciens, eux, ne sont pas surpris. « Du lithium, ça fait belle lurette qu’on sait qu’il y en a et qu’on attend qu’il soit exploité », sourit Danièle Chammartin. Trente-sept ans de secrétariat de mairie et deux mandats à la tête de la commune, l’ancienne élue est une véritable mémoire du village. Dans le salon de sa maison, face à l’église, elle raconte. Le Bureau de recherches géologiques et minières (BRGM) a effectué des sondages à Échassières dès les années 1970, décelant la présence de lithium au cœur du granit du massif, dans le mica lépidolite formé par des milliers d’années d’évolution géologique. Et dans les années 1980, plusieurs élus locaux et un député ont bataillé pour convaincre de l’intérêt d’exploiter le gisement de Beauvoir. Haroun Tazieff, alors secrétaire d’État chargé de la Prévention des risques naturels et technologiques majeurs, est même venu à Échassières, en 1984, pour constater le potentiel filon.

      Mais à l’époque, le lithium n’intéresse pas grand-monde. « Pas assez rentable », déplore Danièle. Longtemps utilisé dans la production de verres et céramiques, ou encore en médecine, pour le traitement des patients bipolaires, ce n’est que dans les années 1970 que l’on découvre le potentiel de stockage d’électricité de ce minuscule atome. Les batteries dites « Li-ion » commencent certes à être commercialisées dans les années 1980 pour les caméscopes, les ordinateurs, et leur production augmente au fil des années. Mais on préfère produire ailleurs, en Chine notamment. La mondialisation bat son plein et la France ferme ses mines plutôt que d’en ouvrir de nouvelles. Près de quarante ans plus tard, la donne a changé. Le climat s’emballe, les dirigeants mondiaux s’engagent à réduire leurs émissions de gaz à effet de serre, investissent dans les énergies renouvelables et, en parallèle, l’Union européenne acte la fin des véhicules thermiques en interdisant leur vente à partir de 2035. L’ère de la transition énergétique et de la voiture électrique est lancée. Le lithium, avec les autres métaux rares constituant les batteries, devient plus recherché que jamais et le marché explose. Les chiffres sont vertigineux. De moins de 40 000 tonnes en 2016, la production mondiale de lithium a dépassé 100 000 tonnes par an en 2021, selon l’Institut des études géologiques américain. Et elle peine à suivre la demande. D’après l’Agence internationale de l’énergie, la consommation annuelle mondiale de lithium pourrait atteindre 800 000 tonnes en 2040 pour les seuls véhicules électriques. Les prix s’envolent, quintuplant entre 2021 et 2022 pour atteindre 80 000 dollars la tonne de lithium qualité batterie, rapporte L’Usine nouvelle. La course au « nouvel or blanc », tel qu’il a été surnommé, est lancée.

      « Avec la transition énergétique, on passe d’une dépendance aux hydrocarbures à une dépendance aux métaux rares », résume le journaliste et chercheur associé à l’Institut de relations internationales et stratégiques (Iris) Guillaume Pitron, auteur de La guerre des métaux rares. Alors, aux quatre coins du monde, on explore ses ressources pour y piocher sa part. Un enjeu économique, certes, mais aussi stratégique. Car cette transition redistribue également les cartes des dépendances géopolitiques. Pour l’heure, la production de lithium est essentiellement assurée par quatre pays : l’Australie, fournissant à elle seule plus de la moitié de l’extraction, le Chili (un quart de l’extraction mondiale), la Chine (16 %) et l’Argentine (7 %). Mais extraire du lithium ne suffit pas. De la mine à la batterie, le métal doit subir plusieurs processus de séparation et de transformation. Et en la matière, la Chine s’est depuis longtemps imposée. 60 % du raffinage de l’« or blanc » se fait sur son territoire. Si l’on y ajoute les autres métaux présents dans les batteries pour véhicules électriques (manganèse, nickel, graphite, cobalt), c’est près de 80 % de la production mondiale qui y serait transformée.

      Alors l’Union européenne peut bien rêver d’assurer 25 % de la production mondiale de batteries électriques en 2030, elle n’en a, pour l’heure, pas les ressources. Tandis que la guerre en Ukraine met cruellement en relief nos dépendances énergétiques, cette domination de la Chine sur le marché irrite. Et d’un bout à l’autre du Vieux Continent, on parle mines et relocalisation de la production, Emmanuel Macron le premier. « En France, on n’a pas de pétrole, mais on a du lithium », lançait le président de la République sur France 2 le 26 octobre, reprenant la petite phrase de Valéry Giscard d’Estaing en pleine crise pétrolière, en 1976 (« En France, on n’a pas de pétrole, mais on a des idées »). Dix jours plus tôt, il déclarait aux Échos : « Dans la campagne, j’ai fixé un objectif : une filière [de voitures électriques] 100 % produite en France. » Et de rappeler que trois « gigafactories » – comprenez « très grosses usines » – de batteries de véhicules électriques se sont récemment implantées dans le Nord de la France, la première devant commencer sa production en 2023. Restent l’extraction et le raffinage des ressources et, parmi celles-ci, du lithium.

      Dans ce contexte, l’annonce du projet Emili a donc été accueillie avec enthousiasme par le gouvernement. Le ministre de l’Économie Bruno Le Maire, la ministre de la Transition énergétique Agnès Pannier-Runacher, et le ministre de l’Industrie Roland Lescure sont même cités dans le communiqué d’Imerys. « Ce projet, exemplaire sur le plan environnemental et climatique, réduira drastiquement nos besoins d’importation de lithium », salue le premier, ajoutant qu’il sera bien entendu soutenu par le gouvernement.

      Enjeu écologique, enjeu stratégique et géopolitique, enjeu économique. À Échassières, la promesse économique fait rêver certains d’un retour à la grande époque minière du village. À partir de 1912, la principale exploitation minière d’Échassières était celle du wolfram, dont était extrait le tungstène, un métal destiné principalement aux aciers de coupe, blindages et divers usages militaires. Exploitée par la Compagnie minière des Montmins, la mine emploie au plus fort de ses activités jusqu’à 450 salariés. Roger, l’époux de Danièle, était de ceux-là. « Au village, il y avait deux “familles”, ceux du tungstène, qui avaient le statut de mineurs, qui étaient mieux payés, avaient plus d’avantages, et ceux du kaolin, qui gagnaient moins bien. » Avec sa dizaine de commerces et ses 800 habitants, le village prospère. Mais en 1962, le couperet tombe. Les cours du tungstène s’effondrent, l’exploitation d’Échassières n’est plus rentable et la mine ferme. « C’était brutal. Du jour au lendemain, mon mari et les autres ont été licenciés, s’exclame Danièle. Sans préavis, sans indemnités. » La Compagnie minière des Montmins a mis la clé sous la porte en abandonnant sur place toute l’infrastructure.

      À quelques kilomètres du bourg, le spectre de l’ancienne usine de transformation de tungstène pourrit toujours lentement, le long de la route. La végétation a envahi les ateliers et les bureaux, les planchers se sont effondrés, les structures métalliques se balancent dans la brise depuis soixante ans. Un repaire de chats errants qui viennent se nourrir chez Roger Konate. Débarqué de Marseille en 2008, l’homme a acheté un ancien atelier de l’usine pour une bouchée de pain et l’a retapé pour s’en faire une maison : « Je suis venu ici parce que c’était la région de ma mère, et puis que c’était vraiment pas cher. » Juste à côté de sa maison, dissimulée sous des rideaux de lierre, se trouve l’entrée d’une ancienne galerie de transport de la mine, rebouchée depuis. Du lithium et d’Imerys, Roger Konate ne sait pas trop quoi en penser. « De toute façon, c’est déjà décidé, qu’est-ce que vous voulez qu’on y fasse ?, lâche-t-il. J’espère juste qu’ils ne rouvriront pas les anciennes galeries et que je ne me retrouverai pas exproprié ! Enfin, je serais dédommagé, mais bon, je suis bien tranquille ici. » Au milieu des fantômes du passé.

      Car avec le départ de la Compagnie des Montmins, le glas des années minières a sonné à Échassières. « Dans la décennie qui a suivi, les carrières de kaolin ont fermé, les unes après les autres », raconte Danièle. Son mari, qui avait trouvé un emploi à la carrière des Colettes, a été licencié à nouveau avant de retrouver un poste de conducteur d’engins sur le site Beauvoir, le seul resté en activité. « Mais pour le village, ça a été une catastrophe, poursuit sa femme. De 800 habitants, la population est passée en quelques années à peine à 400 et n’est jamais remontée depuis. » Alors pour elle, le projet Emili est une belle opportunité. « Quelque part, c’est l’aboutissement d’un espoir qu’on avait depuis les années 1970, dit-elle. C’est la possibilité de soutenir les commerces, de maintenir le service public. »

      Le maire actuel, Frédéric Dalaigre, ne dit pas autre chose : « L’opportunité économique est évidente. » Lors de l’annonce, c’est 1 000 emplois qui ont été évoqués par Imerys. Même si ceux-ci ne seront pas tous à Échassières, tempère le maire : « Ils seront répartis entre le site d’extraction et le site de conversion, dans un autre lieu encore non-déterminé. La majorité des emplois sera vraisemblablement sur ce dernier. Mais ce n’est pas grave. Nous n’avons pas besoin de 1 000 emplois. Nous n’avons pas les capacités actuellement d’accueillir tant de monde. » En attendant, l’arrivée de nouveaux habitants permettra peut-être d’ouvrir de nouvelles classes à l’école primaire – laquelle accueille actuellement 60 élèves des cinq communes environnantes –, de soutenir les commerces existants et peut-être d’en voir ouvrir de nouveaux, espère-t-il. Mais s’il est, a priori, plutôt favorable au projet, Frédéric Dalaigre est trop prudent pour s’emballer. Car une mine n’est pas sans conséquences, il le sait. Imerys assure vouloir faire d’Emili une mine « verte », mais entre promesse d’exemplarité et réalité de l’exploitation minière, l’écart est difficile à combler. Et dans la région, nombreux sont ceux qui craignent de devoir troquer la richesse de la nature pour une éphémère embellie économique.

      https://lesjours.fr/obsessions/lithium-france/ep1-lithium-sous-sol-france

    • Mine de lithium dans l’Allier : l’#eau, point faible du projet d’Imerys

      Le géant minier a achevé, fin juillet, un cycle de débats publics visant à convaincre de sa capacité à mettre en œuvre les technologies les plus innovantes pour créer une mine « propre » sur leur territoire. Mais de sérieuses incertitudes subsistent, notamment sur les besoins en eau de ce complexe industriel à l’heure du changement climatique.

      Une mine saine dans un esprit sain. Tel est le leitmotiv que le groupe minier Imerys s’est efforcé d’inculquer aux habitant·es de l’Allier au cours des cinq derniers mois, dans le cadre d’un cycle de débats publics arrivé à son terme fin juillet. L’esprit sain, c’est celui de la transition énergétique, qu’est censée faciliter la mine d’Échassières puisque celle-ci, si elle voit le jour, fournira assez d’hydroxyde de lithium pour produire chaque année, à partir de 2028 et pendant au moins vingt-cinq ans, 663 000 batteries de voitures électriques.

      La #mine_saine, c’est la promesse d’une infrastructure mettant les technologies les plus avancées au service du plus faible coût environnemental possible. Concernant l’utilisation de l’eau, une des principales sources d’inquiétude de la population, Imerys assure que son complexe industriel sera un modèle de #sobriété et de #propreté, grâce notamment à une réutilisation de la ressource en #circuit_fermé et à une politique du #zéro_déchet liquide.

      Il suffira ainsi de 600 000 mètres cubes d’eau par an pour faire tourner la mine et son usine de concentration, à Échassières, et d’une quantité équivalente pour l’usine de conversion prévue à #Montluçon. Soit un niveau de consommation d’eau « 10 à 20 fois moins élevé que l’eau nécessaire pour la production de lithium dans les #salars [bassins d’évaporation – ndlr] sud-américains », affirme Imerys dans son dossier de maîtrise d’ouvrage.

      Le site sera alimenté par des prélèvements réalisés sur la #Sioule, un affluent de l’Allier prenant sa source dans le Puy-de-Dôme, et celui de Montluçon par des eaux sorties de l’usine de retraitement de la ville, initialement issues du Cher. Là encore, pas d’inquiétude affirme l’industriel : « Sur la Sioule, on est à 0,1 % du débit moyen annuel actuel, et en étiage [quand le débit est le plus faible – ndlr], on atteint 0,6 % du débit mensuel », souligne Fabrice Frébourg, chef de projet environnement chez Imerys. Sur le Cher, les taux seraient respectivement de 0,1 % et 2 %, selon les documents fournis par Imerys.

      Pourtant la marge de manœuvre de l’industriel est beaucoup moins large qu’il n’y paraît. Le schéma directeur d’aménagement et de gestion des eaux (Sdage) 2022-2027 du bassin Loire-Bretagne classe la Sioule parmi les bassins « qui montrent un équilibre très fragile entre la ressource et les prélèvements, à cause de #prélèvements excessifs ou de l’#évaporation par les #plans_d’eau, ou bien d’un régime d’étiage naturel trop faible ». Il impose pour cette raison « une limitation des prélèvements en période de basses eaux au niveau actuel ».

      Dès lors, Imerys ne pourra pas brancher ses pompes sur la Sioule avant d’avoir négocié avec les autres acteurs déjà présents sur le bassin une nouvelle répartition des prélèvements. Les pompages industriels étant de faible volume et incompressibles, le seul interlocuteur du groupe minier dans cette négociation est la #chambre_d’agriculture de l’Allier.

      Bataille de quotas avec le monde agricole

      Celle-ci s’est vu confier par arrêté préfectoral, fin 2015, une #autorisation_unique_de_prélèvement (#AUP) portant sur 4,92 millions de mètres cubes d’eau à ponctionner annuellement dans la Sioule sur un étiage courant de juin à septembre, à charge pour elle de répartir la ressource entre tous les irrigants et irrigantes. Ce chiffre a ultérieurement été révisé à 4,6 millions de mètres cubes.

      Or les agriculteurs et agricultrices n’ont jamais utilisé à plein leurs autorisations, leurs pompages réels n’ayant jamais dépassé 3,7 millions de mètres cubes, selon Nicolas Bonnefous, vice-président de la chambre d’#agriculture. Ce qui fait dire à Fabrice Frébourg qu’Imerys, qui n’a besoin de prélever que 50 000 mètres cubes d’eau par mois, soit 200 000 mètres cubes sur la période d’étiage, « serait capable de rentrer dans ces quotas ».

      « Le problème, c’est que nous avons bel et bien besoin de toute l’eau autorisée, même si nous ne prélevons que 3,1 ou 3,3 millions de mètres cubes », tempère cependant Nicolas Bonnefous. La chambre d’agriculture répartit en effet l’eau prélevée dans la Sioule entre des dizaines d’irrigant·es qui, d’une année sur l’autre, au gré des aléas météorologiques, utiliseront en totalité ou seulement en partie la part qui leur a été attribuée. L’addition de ces quotas non utilisés s’appelle le #foisonnement. « Et non, on n’est pas capables de dégager des marges sur le foisonnement, insiste Bonnefous. L’État doit prendre ses responsabilités et donner l’eau à Imerys sans prendre aux agriculteurs. »

      Déjà, des voix se font entendre parmi les irrigant·es pour dénoncer un possible coup de force. « Avec les précipitations variables d’aujourd’hui, l’#irrigation devient essentielle, a prévenu Adelaïde Giraud, présidente de l’association d’irrigants ASA des Champagnes, lors d’une réunion publique le 30 mai à Vichy. La Sioule ne semble pas pouvoir accueillir un intervenant supplémentaire [et] nous espérons sincèrement ne pas être une variable d’ajustement. »

      Impacts inéluctables

      Des pourparlers n’en sont pas moins en cours entre la chambre d’agriculture, le groupe minier, les services de l’État et #EDF, opérateur du barrage des Fades, en amont du site d’implantation de la mine, qui assure déjà un supplément de soutien d’étiage au bénéfice des irrigant·es. Et non, « ce n’est pas la profession agricole qui amènera un blocage », assure Patrice Bonnin, président de la chambre. « On a l’eau, on a le tuyau, il faut juste que l’administration trouve le bon robinet » réglementaire pour permettre l’opération, poursuit-il.

      Le « robinet » souhaité par les agriculteurs et agricultrices pourrait prendre la forme d’une sortie du classement du bassin de la Sioule en zone à prélèvements limités, ou celle d’une prise en compte des lâchers d’eau estivaux par le barrage de Fades pour augmenter les autorisations de prélèvements, évoque Nicolas Bonnefous.

      Si l’approvisionnement en eau de la mine semble déjà problématique au vu des réglementations actuelles, basées sur des évaluations de besoins remontant au début des années 2010, qu’en sera-t-il dans quatre ans, au moment théorique de l’entrée en activité du site ? Le Sdage stipule en effet que l’autorisation unique de prélèvement accordée à la chambre d’agriculture ne sera valable que jusqu’à l’ajout d’une analyse HMUC (hydrologie, milieux, usages, climat), soit « au plus tard, en 2027 ».

      Cette analyse, qui devra être diligentée par la commission locale de l’eau (CLE) chargée du schéma d’aménagement et de gestion des eaux (Sage) de la Sioule, permettra de déterminer le #volume_potentiellement_mobilisable (#VPM) de la rivière, c’est-à-dire la part de son débit restant à disposition après soustraction de l’eau réservée aux milieux aquatiques, aux réseaux d’eau potable ou encore à la sécurité anti-incendie.

      Pour Céline Boisson, animatrice du Sage Sioule, il est peu probable que les résultats de l’analyse HMUC permettent d’ouvrir en grand les vannes des stations de pompage. « La Sioule est déjà affectée par le #changement_climatique : son débit moyen a baissé de 15 % en trente ans, et son débit d’étiage de 48 % », avait-elle rappelé lors de la réunion publique de Vichy.

      Interrogée par Mediapart, l’experte précise que les seuils de crise ne sont jamais atteints sur la Sioule en aval du #barrage_de_Fades grâce aux lâchers d’eau diligentés par EDF, en vertu d’un accord avec la chambre d’agriculture. « Mais ça ne veut pas dire qu’il n’y a pas de crise. Clairement, l’amont du barrage est en crise, tout comme la #Bouble », petite #rivière appartenant au même bassin, ajoute-t-elle, avant de conclure : « Je ne suis pas sûre que tout le monde sera satisfait du résultat de l’analyse. Il y aura forcément un partage à faire. »

      S’il se dit confiant dans la capacité du barrage de #Fades, fort de ses 65 millions de mètres cubes d’eau, à pourvoir aux besoins de la mine, Fabrice Frébourg évoque également des pistes à l’étude chez Imerys pour permettre au complexe d’Échassières de disposer de ses « propres solutions de modulation ».

      Il s’agit principalement de renforcer la capacité de deux petits lacs déjà présents sur le site, en la faisant passer de 55 000 à 100 000 mètres cubes, ou éventuellement d’utiliser des galeries d’exploitation de la mine pour du stockage d’eau. La gestion des périodes de maintenance pour les faire coïncider avec l’étiage est également une « piste d’optimisation du projet ».

      Ces solutions ne convainquent pas les défenseurs et défenseuses des milieux aquatiques. « Depuis vingt ans, il n’y a quasiment plus de crues morphogènes sur la Sioule. Or elles sont essentielles pour le cours d’eau car elles permettent le transit sédimentaire et le décolmatage du lit, indispensable pour la réussite de la reproduction de certaines espèces, explique Mickaël Lelièvre, directeur de la fédération de pêche de l’Allier. Si on augmente le soutien d’étiage ou le stockage, on aggrave ce phénomène de réduction des crues morphogènes. »

      Menaces sur des #poissons déjà en danger

      Le pêcheur est soutenu par Aurore Baisez, directrice du Logrami, centre de recherche sur les poissons migrateurs du bassin de la Loire, qui souligne qu’une infime variation du niveau de la crue peut suffire à perturber la migration des espèces fréquentant la Sioule (saumon, lamproie, anguille, alose) et le Cher (les mêmes moins le saumon). « Les crues sont le signal du départ dans un sens ou dans l’autre. La perte de ce signal se traduit par de faibles remontées des poissons, ou très en aval », indique la scientifique, précisant que l’alose et la lamproie sont « classées en danger critique d’extinction, à l’instar du tigre du Bengale ou de l’éléphant d’Afrique ».

      À Montluçon, où le #mica_lithinifère – principal minerai du lithium – sera transformé en #hydroxyde_de_lithium, Imerys n’est pas soumis aux mêmes contraintes réglementaires que dans la vallée de la Sioule, puisque son alimentation en eau proviendra de l’usine de retraitement des eaux usées de la ville et ne peut donc être comptabilisée comme un « prélèvement » sur le Cher. Elle n’en occasionnera pas moins une « perte d’eau nette » d’environ 600 000 mètres cubes par an pour une rivière déjà en crise, classée « zone de répartition des eaux » – impliquant un contrôle des prélèvements toute l’année – par le Sdage Loire-Bretagne en raison d’un « déséquilibre quantitatif avéré ».

      « Certes, on parle d’une ponction limitée. Mais le #Cher n’a pas de réserves, très peu de nappe alluviale. Quand il ne pleut plus, il n’y a plus de débit », commente Jonathan Bourdeaux-Garrel, animateur du Sage Cher-Amont. Il y a bien un petit barrage, #Rochebut, censé assurer un débit garanti de 1,55 mètre cube par seconde. « Mais quand il n’y a pas d’eau dans le barrage, ça descend jusqu’à 800 litres par seconde, et il faut voir alors la tête du Cher. »

      Mickaël Lelièvre, de la fédération de pêche, confirme et renchérit : « La situation hydrologique est très dégradée sur le Cher. Sans le soutien d’étiage par le barrage, il n’y aurait plus d’eau dans la rivière. Rien que cela devrait imposer d’interdire tout nouveau prélèvement. » L’expert met par ailleurs en cause les statistiques fournies par Imerys, basées sur des moyennes quinquennales de débit et donc aveugles aux aléas de faible durée qui frappent régulièrement la rivière.

      Du côté d’Imerys, Fabrice Frébourg assure « qu’on prend la chose très au sérieux ». Le cadre assure que son entreprise choisira un indice « beaucoup plus pénalisant que les moyennes quinquennales » dans ses prochaines études sur l’impact du réchauffement climatique. Il évoque également la piste, « apportée par l’administration, d’un possible soutien d’étiage par le barrage de Rochebut ». Comme le faisait remarquer un intervenant en réunion publique, « les poissons ne peuvent pas se mettre entre parenthèses » à chaque assèchement du Cher.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/030824/mine-de-lithium-dans-l-allier-l-eau-point-faible-du-projet-d-imerys
      #promesses

  • #Titane, #lithium : l’#Europe ouvre « un open bar pour l’#industrie_minière »

    Plutôt que l’instrument d’une transition « verte », la future législation européenne sur les #matières_premières_critiques est une offrande aux industries polluantes, dénonce Laura Verheecke de l’Observatoire des multinationales.

    Reporterre — En quoi consiste la législation européenne sur les matières premières critiques, actuellement discutée ?

    Lora Verheecke — Cette #loi est pensée par la #Commission_européenne pour permettre à l’#Union_européenne (#UE) un approvisionnement plus conséquent et plus sûr en #minerais indispensables pour la transition « verte ». Ces minerais serviront à fabriquer les #capteurs, les #moteurs ou encore les #batteries des #voitures_électroniques, des rotors d’#éoliennes, des #panneaux_photovoltaïques

    En pratique, le texte prévoit un #soutien_financier pour ouvrir des mines hors de l’UE, avec très peu de contraintes pour les entreprises en termes de respect de l’environnement et des populations locales. Il permet aussi d’ouvrir plus de mines en Europe à travers le principe d’« #intérêt_stratégique_supérieur », c’est-à-dire en limitant les motifs d’objection juridique des populations, en reléguant les lois environnementales et démocratiques. Par conséquent, on consultera moins, plus vite et on pourra plus difficilement remettre en cause l’ouverture d’une mine.

    Le processus législatif en cours est très rapide — « le plus rapide de l’histoire » selon certains journalistes — et le brouillon de loi publié en mars par la Commission est aujourd’hui au stade final de discussions et compromis entre le Parlement européen et le Conseil, c’est-à-dire les États membres. Les deux institutions ont déjà arrêté leurs positions.

    Une fois leurs discussions achevées, la loi n’aura plus qu’à être votée par les États membres et le Parlement et elle deviendra loi partout dans l’Union européenne. Si le processus est si rapide, c’est qu’il y a encore peu d’attention publique et médiatique sur ce projet de loi et le soutien est large — mais pas entier — du côté des capitales européennes et des députés européens.

    Dans le rapport Du sang sur le Green Deal publié avec Corporate Europe Observatory (https://multinationales.org/fr/enquetes/du-sang-sur-le-pacte-vert/du-sang-sur-le-green-deal-comment-l-ue-sous-pretexte-d-action-clima), vous montrez comment cette loi, présentée comme favorable au climat, profite largement à l’industrie minière, pourtant « intrinsèquement sale ».

    On peut même affirmer que cette loi s’est transformée en un #open_bar pour l’industrie minière, sale, et celle de l’#armement, mortifère. Elle est le fruit d’un #lobbying soutenu et de longue date, notamment au sein d’un groupe de travail de la Commission, actif depuis les années 80 et qui compte comme membres de nombreuses entreprises telles que #Volkswagen, #Umicore — spécialisé dans la technologie des matériaux —, #Nokia et #Boliden, une entreprise minière suédoise.

    Sous couvert de garantir la #transition_écologique, les conséquences de cette loi seront donc potentiellement désastreuses : une mine est et sera toujours sale. En ouvrir une requiert de grandes quantités de terres, peut entraîner le déplacement de communautés.

    L’extraction des minerais de la terre implique une grande #pollution de l’#eau, des #sols et de l’#air, car cette extraction utilise de nombreux produits chimiques. C’est un réel #danger pour la #biodiversité : en 2019, 79 % de l’extraction mondiale de minerais métalliques provenait de cinq des six biomes les plus riches en espèces, dont les écosystèmes tropicaux forestiers.

    En #France, l’ouverture de la plus grande mine de lithium est prévue pour 2028, dans l’#Allier. Des organisations locales s’y opposent déjà pour éviter la pollution de leurs terres et leurs rivières et le secteur de la mine a été placé sous surveillance comme « site avec une contestation susceptible de se radicaliser à court terme » par les services du ministère de l’Intérieur.

    Parmi les groupes de pression, on retrouve des secteurs de la défense et de l’aéronautique, comme #Airbus ou #Safran. Comment ont-ils influé sur le processus de décision ?

    Airbus et Safran, mais aussi #Dassault, ont rencontré de nombreux décideurs politiques européens. Ils sont également membres de nombreuses associations d’entreprises et paient des agences de lobbying comme #Avisa_Partners pour supplémenter leur lobbying.

    De plus, les portes tournent [1] entre les entreprises de l’armement et l’Union européenne. En 2020, par exemple, l’ex-président de l’Agence européenne de défense est devenu lobbyiste en chef d’Airbus.

    Ces rencontres, études et événements et ces aller-retours leur ont permis de se faire des alliés au sein même de la Commission, au Parlement européen et dans de nombreux États membres. La Commission a même cofinancé une alliance sur les #matériaux_rares — dont #France_Industrie est membre — et créé un groupe d’experts dans lesquels les industriels de l’armement ont voix au chapitre.

    Tout ceci a mené à deux victoires majeures : premièrement, on ouvrira des mines dans le futur à la fois pour les #voitures_électriques, mais aussi pour des #missiles ; et deuxièmement l’extraction de certains minerais sera aidée financièrement et politiquement pour l’industrie de la défense, comme le titane.

    Ce #minerai est aujourd’hui classé stratégique, d’après l’UE, suite au lobbying de l’industrie de la #défense et de l’#aérospatial. Alors même qu’il n’est pas utile à la transition « verte ». Cette catégorisation était une des demandes du PDG de Safran auprès du vice-président de la Commission lors de leur rencontre en mai 2023.

    Pour résumer, la #défense et l’#aéronautique ont tout fait, donc, pour s’assurer que les métaux qui les intéressaient bénéficieraient du même soutien public et des mêmes déréglementations environnementales que ceux qui sont réellement utiles aux transitions climatique et numérique.

    Quel rôle a joué la France et le commissaire français #Thierry_Breton dans ce processus ?

    Les deux ont été des alliés très importants des industriels. M. Breton n’a pas hésité à se faire la voix de l’industrie de l’armement, en clamant notamment en mars 2023, lorsque la Commission européenne dévoilait le projet de loi : « Pas de batteries sans lithium, pas d’éoliennes sans terres rares, pas de munitions sans #tungstène… » Le #lobby européen des entreprises de la défense dira de M. Breton, en novembre 2021 : « Nous sommes très fiers et heureux de vous considérer comme "notre commissaire" ».

    C’est de ce même lobby que la France copiera d’ailleurs une partie de ses positions au Conseil — l’institution au sein de laquelle les États membres débattent. La France a d’ailleurs créé en novembre 2022 un #Observatoire_français_des_ressources_minérales_pour_les_filières_industrielles (#Ofremi), qui a d’ailleurs placé, dès son lancement, les difficultés d’approvisionnement du secteur de la défense au rang de ses priorités. L’Ofremi tient par exemple un discours similaire au PDG de Safran sur le titane.

    Est-il encore possible de sauver ce texte ?

    Ce texte est principalement débattu aujourd’hui dans la bulle européenne d’experts, avec des discussions qui se limitent à des considérations techniques. Il est temps d’avoir une discussion politique pour savoir sous quelles conditions ouvrir des mines et quelle doit être l’utilisation des minerais et terres rares. Nous devons nous poser la question des priorités d’usage. Ouvre-t-on des mines pour des 4x4 électriques lourds, pour des bus électriques ou pour des drones ?

    Il est nécessaire d’avoir une discussion politique sur les conséquences environnementales de notre transition dite verte. Aujourd’hui, ces discussions sont trop absentes du débat public européen. La loi ne mentionne pas la question de notre boulimie de consommation, d’une limite à notre demande en matériaux rares. Sous couvert de #Green_Deal et de transition « verte », on met de côté les nouvelles pollutions, émissions et atteintes aux droits de l’homme à venir.

    Notre chance, ce sont les élections européennes qui approchent : les députés seront de plus en plus réceptifs aux demandes des citoyens européens sur leur position sur ce texte. Certains États membres posent timidement la question de la réduction de notre consommation en minerais et terres rares, comme la Belgique, qui prend la présidence du Conseil en janvier. On peut pousser nos gouvernements à avoir cette position : plutôt qu’ouvrir des mines, ouvrons le débat sur la consommation de minerais.

    https://reporterre.net/Titane-lithium-l-Union-europeenne-ouvre-un-open-bar-pour-l-industrie-min
    #terres_rares #transition_énergétique #énergie #mines #extractivisme

  • Écocides et paradis fiscaux : révélations sur les dérives du soutien européen à l’industrie minière
    https://disclose.ngo/fr/article/ecocides-et-paradis-fiscaux-revelations-sur-les-derives-du-soutien-europee

    Pour développer l’industrie des batteries électriques ou des éoliennes, l’Union européenne finance des entreprises minières au travers du programme Horizon. Une partie de ces fonds soutient des sociétés impliquées dans des catastrophes environnementales, voire, pour l’une d’entre elles, domiciliée dans un paradis fiscal. Lire l’article

  • Manu le #gilet_jaune
    http://carfree.fr/index.php/2023/09/26/manu-le-gilet-jaune

    On attendait (ou pas) depuis des mois un soi-disant projet de #planification écologique qui allait mettre enfin la France sur la voie d’une prise de conscience écologique et on obtient… Lire la suite...

    #Fin_de_l'automobile #bagnole #carburant #critique #Emmanuel_Macron #humour #politique #subventions #transition_énergétique #voiture_électrique

    • J’ai d’ailleurs toujours été épaté par ce miracle du libéralisme : les riches qui contestent sans cesse les impôts sont les premiers à récupérer des milliers d’euros d’argent public sous forme de bonus automobile pour acheter leur deuxième ou troisième voiture électrique pour madame ou les enfants. Et tous ceux qui gagnent juste assez pour payer des impôts sont en général bien incapables de débourser les sommes monstrueuses demandées pour s’équiper d’une voiture électrique, même en comptant le bonus. En fait, la plupart des gens qui roulent en diesel payent des impôts pour que les professions libérales comme les chefs d’entreprise, les médecins, avocats, etc. s’achètent des voitures électriques grâce aux subventions publiques…

      Etonnant, non ? A une époque, l’impôt servait à prendre de l’argent aux riches pour le reverser aux pauvres. Aujourd’hui, on prend surtout aux pauvres pour financer le train de vie des riches… Mais bon, vous saviez déjà tout ça si vous avez vu la réception royale de Charles III à Versailles…

      C’est pourquoi, nous conseillons à « Manu le gilet jaune » de relire le texte magnifique d’André Gorz sur la bagnole écrit en 1973 et dont voici la première phrase : « Le vice profond des bagnoles, c’est qu’elles sont comme les châteaux ou les villa sur la Côte : des biens de luxe inventés pour le plaisir exclusif d’une minorité de très riches et que rien, dans leur conception et leur nature, ne destinait au peuple. »

  • Alla ricerca del cobalto sulle Alpi

    È un elemento importante per la realizzazione delle batterie delle auto elettriche. Il cobalto viene estratto però soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo, una realtà travolta dalla corruzione e instabile dal punto di vista militare e politico. Per “aggirare” la possibile penuria della fornitura di un componente essenziale dello sviluppo di una economia realizzata con fonti rinnovabili, le nazioni post-industriali e industrializzate cercano il Cobalto altrove, in territori guidati da governi più stabili e dove è più solida la certezza del diritto.

    Vecchie miniere di cobalto dismesse perché poco remunerative tornano improvvisamente interessanti. Una di queste è situata tra Torino e il confine con la Francia, ancora in territorio piemontese.

    Tra la necessità di tutelare l’ambiente e l’opportunità economica offerta, istituzioni e popolazione si interrogano sul presente e il futuro del territorio interessato dal possibile nuovo sviluppo minerario.

    https://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/laser/Alla-ricerca-del-cobalto-sulle-Alpi-16169557.html?f=podcast-shows

    #extractivisme #Alpes #cobalt #Piémont #Italie #terres_rares #Balme #Altamin #Barmes #Punta_Corna #Valli_di_Lanzo #mines #exploitation #peur #résistance #Berceto #Sestri_Levante #lithium #souveraineté_extractive #green-washing #green_mining #extraction_verte #transition_énergétique #NIMBY #Usseglio #Ussel

    Le chercheur #Alberto_Valz_Gris (https://www.polito.it/en/staff?p=alberto.valzgris) parle de la stratégie de l’Union européenne pour les #matières_premières_critiques :
    #Matières_premières_critiques : garantir des #chaînes_d'approvisionnement sûres et durables pour l’avenir écologique et numérique de l’UE
    https://seenthis.net/messages/1013265

    –—

    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

    • Caccia al cobalto sulle Alpi piemontesi

      Viaggio in provincia di Torino dove una multinazionale ha nel mirino la creazione di una miniera destinata ad alimentare le nuove batterie per i veicoli elettrici.

      Il boom delle auto elettriche trascina la ricerca mineraria in Europa. Noi siamo stati in Piemonte dove una società australiana spera di aprire una miniera di cobalto, uno dei metalli indispensabili per produrre le più moderne batterie. Il progetto è ancora in una fase preliminare. Non si vede nulla di concreto, per ora. Ma se siamo qui è perché quanto sta accadendo in questa terra alpina apre tutta una serie d’interrogativi su quella che – non senza contraddizioni – è stata definita “transizione ecologica”.

      Balme, alta #Val_d’Ala, Piemonte. Attorno a noi i boschi sono colorati dall’autunno mentre, più in alto, le tonalità del grigio tratteggiano le cime che si estendono fino in Francia. Un luogo magico, non toccato dal turismo di massa, ma apprezzato dagli appassionati di montagna. Tutto potrebbe però cambiare. Nelle viscere di queste rocce si nasconde un tesoro che potrebbe scombussolare questa bellezza: il cobalto. La società australiana Altamin vuole procedere a delle esplorazioni minerarie sui due versanti della Punta Corna. Obiettivo: sondare il sottosuolo in vista di aprire una miniera da cui estrarre questa materia prima sempre più strategica. Il cobalto è infatti un minerale indispensabile per la fabbricazione delle batterie destinate alle auto elettriche o ad immagazzinare l’energia prodotta da fonti rinnovabili. Tecnologie dette verdi, ma che hanno un lato grigio: l’estrazione mineraria.

      Oggi, circa il 70% del cobalto mondiale proviene dalla Repubblica democratica del Congo (Rdc), dove la corsa a questo metallo, guidata dalla Cina, alimenta la corruzione e genera grossi problemi sociali e ambientali. Di recente, un po’ in tutta Europa, si sta sempre più sondando il terreno in cerca di nuovi filoni che potrebbero ridurre la dipendenza dall’estero di questo ed altri minerali classificati dall’Ue come “critici”. Ecco quindi che queste valli piemontesi sono diventate terreno di caccia di imprese che hanno fiutato il nuovo business. Siamo così partiti anche noi in questa regione. Alla ricerca del cobalto e all’ascolto delle voci da un territorio che – suo malgrado – si trova oggi al centro della nuova corsa mondiale all’accaparramento delle risorse.

      Balme dice no

      «Siamo totalmente contrari. In primis perché non siamo stati coinvolti in nessun tipo di dialogo. Siamo poi convinti che l’estrazione di minerali non sia l’attività adatta per lo sviluppo del nostro territorio». #Gianni_Castagneri è il sindaco di Balme, 110 abitanti, uno dei comuni su cui pende una domanda di ricerca da parte di Altamin. Il primo cittadino ci accoglie nella piccola casa comunale adiacente alla chiesa. È un appassionato di cultura e storia locale e autore di diversi libri. Con dovizia di particolari, ci spiega che anticamente queste erano terre di miniera: «Un po’ tutti i paesi della zona sono sorti grazie allo sfruttamento del ferro. Già nel Settecento, però, veniva estratto del cobalto, il cui pigmento blu era utilizzato per la colorazione di tessuti e ceramiche».

      Dopo quasi un secolo in cui l’attività mineraria è stata abbandonata, qualche anno fa è sbarcata Altamin che ha chiesto e ottenuto i permessi di esplorazione. Secondo le stime della società i giacimenti a ridosso della Punta Corna sarebbero comparabili a quello di Bou Azzer, in Marocco, uno dei più ricchi al mondo di cobalto. «Andando in porto l’intero progetto di Punta Corna si avrà una miniera europea senza precedenti» ha dichiarato un dirigente della società. Affermazione che, qui a Balme, ha suscitato molta preoccupazione.

      Siamo in un piccolo comune alpino, la cui unica attività industriale è l’imbottigliamento d’acqua minerale e un birrificio. Al nostro incontro si aggiungono anche i consiglieri comunali Guido Rocci e Tessiore Umbro. Entrambi sono uomini di montagna, attivi nel turismo. Entrambi sono preoccupati: «Siamo colti alla sprovvista, cerchiamo “cobalto” su Internet ed escono solo cose negative, ma abbiamo come l’impressione che la nostra voce non conti proprio nulla».

      Sul tavolo compare una delibera con cui il Comune ha dichiarato la propria contrarietà «a qualsiasi pratica di ricerca e coltivazione mineraria». Le amministrazioni degli ultimi anni hanno orientato lo sviluppo della valle soprattutto verso un turismo sostenibile, vietando ad esempio le attività di eliski: «Noi pensiamo ad un turismo lento – conclude il sindaco – la montagna che proponiamo è aspra, poco adatta allo sfruttamento sciistico in senso moderno. Questa nostra visione ha contribuito in positivo all’economia del villaggio e alla sua preservazione. Ci sembra anacronistico tornare al Medioevo con lo sfruttamento minerario delle nostre montagne».

      Australiani alla conquista

      «Lo sviluppo della mobilità elettrica ha spinto le richieste di permessi di ricerca in Piemonte» ci spiega al telefono un funzionario del settore Polizia mineraria, Cave e Miniere della regione Piemonte. Si tratta dell’ente che, a livello regionale, rilascia le prime autorizzazioni. L’uomo, che preferisce non essere citato, ci dice che per il momento è troppo presto per «creare allarmismi o entusiasmi», ma conferma che, in Piemonte, sono state richieste altre autorizzazioni: «Oltre a Punta Corna, si fanno ricerche in Valsesia e verso la Val d’Ossola» conclude il funzionario. Proprio in Valsesia un’altra società australiana, del gruppo Alligator Energy, ha comunicato di recente di avere iniziato i lavori per un nuovo sondaggio. La zona è definita dall’azienda «ad alto potenziale».

      L’argomento principale delle società minerarie è uno: la necessità di creare una catena di valore delle batterie in Europa: «Punta Corna è centrale per la strategia di Altamin […] e beneficerà della spinta dell’Ue per garantire fonti pulite e locali di metalli nonché degli investimenti industriali europei negli impianti di produzione di veicoli elettrici e batterie» si legge in un recente documento destinato agli azionisti. Altamin ricorda come, in prospettiva, l’operazione genererebbe una sinergia produttiva col progetto Italvolt dell’imprenditore svedese Lars Calstrom. L’uomo vuole costruire una nuova grande fabbrica di batterie ad alta capacità presso gli ex stabilimenti Olivetti nella vicina Ivrea.

      Altamin, così come altre società attive nel ramo, non è un gigante minerario. Si tratta di una giovane società capitalizzata alla borsa di Sidney che ha puntato sull’Italia per tentare il colpaccio. Ossia trovare un filone minerario potenzialmente sfruttabile e redditizio, considerato anche l’aumento dei prezzi delle materie prime, soprattutto dei metalli da batteria. Oltre al progetto piemontese, l’azienda è attiva in altre zone d’Italia: in Lombardia ha un progetto di estrazione di zinco, mentre ha presentato domande anche in Liguria, Emilia-Romagna e Lazio. Qui, nell’antica caldera vulcanica del Lago di Bracciano, Altamin e un’altra società australiana, #Vulcan_Energy_Resources, hanno ottenuto delle licenze per cercare del litio, un altro metallo strategico. «L’idea che si sta portando avanti è quella di rivedere vecchi siti minerari anche alla luce delle nuove tecnologie e della risalita del prezzo dei metalli» spiegano da Altamin. Il tutto in uno scenario internazionale, in particolar modo europeo, in cui si cerca di ridurre la dipendenza delle importazioni dall’estero. Questo a loro dire avrebbe molti vantaggi: «Estrarre cobalto qui ridurrebbe al minimo i problemi etici e logistici che si riscontrano attualmente con la maggior parte delle forniture provenienti dalla Rdc». Ma non tutti la pensano così.

      Lo sguardo del geografo

      A Torino, il Politecnico ha sede presso il Castello del Valentino, antica residenza sabauda situata sulla riva del Po. Qui incontriamo il geografo e assegnista di ricerca Alberto Valz Gris che di recente ha messo in luce diverse ombre del progetto Punta Corna e, in generale, dell’impatto della corsa ai minerali critici sulle comunità locali. Per la sua tesi di dottorato, Valz Gris ha studiato le conseguenze socio-ambientali causate dall’estrazione del litio nella regione di Atacama tra Argentina e Cile. Rientrato dal Sudamerica, lo studioso è venuto a conoscenza del progetto minerario a Punta Corna, a due passi da casa, nel “giardino dei torinesi”. Il ricercatore ha così deciso di mettere in evidenza alcune contraddizioni di questa tanto decantata transizione ecologica: «Il cobalto o il litio sono associati a una retorica di sostenibilità in quanto indispensabili alle batterie. In realtà, per come è stata organizzata, questa transizione ecologica, continua a implicare un’estrazione massiva di risorse naturali non rinnovabili e, quindi, il moltiplicarsi di siti estrattivi altamente inquinanti. Ciò non mi sembra molto ecologico».

      In questo senso il ritorno dell’estrazione mineraria su grande scala in Europa non è proprio una buona notizia: «L’estrattivismo non ha mai portato sviluppo e la materialità di questa dinamica investirà in particolare le aree di montagna. Per cui ho forti dubbi sulle promesse su cui si fondano tutti i progetti come quello di Punta Corna, e cioè che accettare il danno ecologico e paesaggistico portato dall’estrazione mineraria si traduca in sviluppo sociale ed economico per chi abita quei territori». Per Alberto Valz Gris, però, opporsi alle miniere europee non significa giustificare l’appropriazione di risorse in altri posti del mondo: «Dobbiamo immaginare alternative tecniche ed economiche che siano realmente al servizio dell’emergenza climatica, per esempio investendo nel riciclo delle risorse già in circolo nel sistema industriale in modo da ridurre al minimo la pressione antropica sugli ecosistemi». Il problema ruota attorno al fatto che «estrarre nuove materie prime dalle viscere della Terra è ad oggi molto meno costoso che non impegnarsi effettivamente nel riciclare quelle già in circolo»; questo vantaggio economico che «impedisce lo sviluppo di una vera economia circolare» è falsato poiché «non vengono mai calcolati i costi sociali e ambientali legati all’estrazione delle materie prime».

      Gli “sherpa” di Altamin

      Usseglio, alta Valle di Viù, Piemonte. Siamo di nuovo in quota, questa volta sul versante Sud della Punta Corna. Anche qui il territorio vive perlopiù di turismo e può contare su una centrale idroelettrica che capta l’acqua dal bacino artificiale più alto d’Europa. Su queste montagne, oltre i 2.500 metri, Altamin ha ottenuto di recente la possibilità di estendere i carotaggi in profondità. I lavori dovrebbero iniziare la primavera prossima. Ciò che non sembra preoccupare il sindaco Pier Mario Grosso: «Pare che ci sia una vena molto interessante, ma per capire se si potrà sfruttarla occorrono altri sondaggi».

      Il primo cittadino ci accoglie nel suo ufficio e ci mostra una cartina appesa alle pareti su cui si legge “miniere di cobalto”: «Erano le vecchie miniere poi abbandonate e su cui ora Altamin vuole fare delle ricerche perché il cobalto è il metallo del futuro». A Usseglio, l’approccio del comune è diverso rispetto a Balme. #Pier_Mario_Grosso è un imprenditore che vende tende e verande in piano. Per lui il progetto di Altamin potrebbe creare sviluppo in valle: «Questa attività porterà senz’altro benefici alla popolazione e aiuterà a combattere lo spopolamento. Sono quindi tendenzialmente favorevole al progetto, a patto che crei posti di lavoro e non sia dannoso per l’ambiente».

      Salutiamo il sindaco e saliamo fino alla frazione di #Margone dove abbiamo appuntamento per visitare un piccolo museo dei minerali. Qui incontriamo #Domenico_Bertino e #Claudio_Balagna, due appassionati mineralogisti che gestiscono questa bella realtà museale. Nelle bacheche scopriamo alcune perle delle #Alpi_Graie, come gli epidoti e la #Lavoisierite, un minerale unico al mondo scovato nella zona. Appese ai muri ci sono delle splendide mappe minerarie dell’800 trovate negli archivi di Stato di Torino. E poi c’è lui, il cobalto. Finalmente lo abbiamo trovato: «È in questa pietra che si chiama #Skutterudite e il cobalto sono questi triangolini di colore metallico, anche se in molti pensano che sia blu» ci spiegano i due ricercatori. Eccolo qui, il minerale strategico tanto agognato che oggi vale circa 52.000 dollari la tonnellata.

      Possiamo osservarlo nei minimi dettagli su un grande schermo collegato ad uno stereoscopio. Sul muro a lato un cartello sovrasta la nuova strumentazione: «Donazione da parte di Altamin». Tra il museo e la società vi è infatti un legame. Più volte, Domenico e Claudio hanno accompagnato in quota i geologi di Altamin a cercare gli ingressi delle vecchie miniere. Sherpa locali di una società che altrimenti non saprebbe muoversi tra gli alti valloni di queste montagne poco frequentate. Non c’è timore nell’ammetterlo e i due, uomini di roccia e legati nell’intimo a questo territorio, non sembrano allarmati: «Noi siamo una sorta di guardiani. Abbiamo ricevuto delle rassicurazioni e l’estrazione, se mai ci sarà, avverrà in galleria e sarà sottoposta a dei controlli. In passato abbiamo avuto le dighe che hanno portato lavoro, ma ora qui non c’è più nessuno e la miniera potrebbe essere una speranza di riportare vita in valle».

      Usseglio fuori stagione è affascinante, ma desolatamente vuota. Le poche persone che abbiamo incontrato in giro erano a un funerale. Il terzo nelle ultime settimane, il che ha fatto scendere il numero di abitanti sotto i duecento. Ma siamo sicuri che una miniera risolverà tutti i problemi di questa realtà montana? E se l’estrattivismo industriale farà planare anche qui la “maledizione delle risorse”? Torniamo a casa pieni di interrogativi a cui non riusciamo ancora a dare risposta. Nel 2023, dopo lo scioglimento delle nevi (sempre se nevicherà) Altamin inizierà i carotaggi in quota. Scopriremo allora se l’operazione Punta Corna avrà un seguito o se franerà nell’oblio. La certezza è che in Piemonte, come del resto in Europa e nel mondo, la caccia grossa a questi nuovi metalli critici continuerà.

      https://www.areaonline.ch/Caccia-al-cobalto-sulle-Alpi-piemontesi-2654a100

  • Piemonte, corsa alle nuove miniere : da #Usseglio al Pinerolese si cercano nichel, cobalto, grafite e litio

    Scatta la corsa alle terre rare: la Regione deve vagliare le richieste delle multinazionali su una decina di siti

    Nei prossimi anni il Piemonte potrebbe trasformarsi in una grande miniera per soddisfare le esigenze legate alla costruzione degli apparecchi digitali e all’automotive elettrico. È un futuro fatto di cobalto, titanio, litio, nichel, platino e associati. E non mancano nemmeno oro e argento. Un grande business, infatti oggi si parla di «forti interessi» di aziende estrattive nazionali e straniere. Anche perché la Commissione Europea ha stabilito che «almeno il 10% del consumo di materie prime strategiche fondamentali per la transizione green e per le nuove tecnologie dovrebbe essere estratto nell’Ue, il 15% del consumo annuo di ciascuna materia prima critica dovrebbe provenire dal riciclaggio e almeno il 40% dovrebbe essere raffinato in Europa». In questo contesto il Piemonte è considerato un territorio strategico. Anche perché l’anno scorso il mondo ha estratto 280mila tonnellate di terre rare, circa 32 volte di più rispetto alla metà degli anni 50. E la domanda non farà che aumentare: entro il 2040, stimano gli esperti, avremo bisogno di sette volte più terre rare rispetto a oggi. Quindi potrebbero essere necessarie più di 300 nuove miniere nel prossimo decennio per soddisfare la domanda di veicoli elettrici e batterie di accumulo di energia, secondo lo studio condotto da Benchmark Mineral Intelligence.

    «Al momento abbiamo nove permessi di ricerca in corso, ma si tratta di campionature in superficie o all’interno di galleria già esistenti, come è avvenuto a Punta Corna, sulle montagne di Usseglio – analizza Edoardo Guerrini, il responsabile del settore polizia mineraria, cave e miniere della Regione -. C’è poi in istruttoria di via al ministero dell’Ambiente un permesso per la ricerca di grafite nella zona della Val Chisone». Si tratta di un’area immensa di quasi 6500 ettari si estende sui comuni di Perrero, Pomaretto, San Germano Chisone, Perosa Argentina, Pinasca, Villar Perosa, Pramollo, Roure e Inverso Pinasca che interessa all’australiana Energia Minerals (ramo della multinazionale Altamin). E un’altra società creata da Altamin, la Strategic Minerals Italia, nella primavera prossima, sulle montagne di Usseglio, se non ci saranno intoppi, potrà partire con le operazioni per 32 carotaggi nel Vallone del Servin con una profondità variabile da 150 a 250 metri. Altri 25 sondaggi verranno invece effettuati nel sito di Santa Barbara, ma saranno meno profondi. E, ovviamente, ambientalisti e amanti della montagna, hanno già espresso tutti i loro timori perché temono uno stravolgimento del territorio. «Nelle settimane scorse ho anche ricevuto i rappresentati di una società svedese interessati ad avviare degli studi di valutazione in tutto il Piemonte con l’obiettivo di estrarre minerali – continua Guerrini – anche perché l’Unione Europea spinge per la ricerca di materie prime indispensabili per la conversione ecologica e quindi l’autosufficienza energetica».

    È la storia che ritorna anche perché il Piemonte è stata sempre una terra di estrazione. Basti pensare che, solo nel Torinese, la cavi attive «normali» sono 66. E ora, a parte Usseglio e il Pinerolese, ci sono richieste per cercare nichel in Valle Anzasca, rame, platino e affini nel Verbano Cusio Ossola, dove esiste ancora una concessione non utilizzata per cercare oro a Ceppo Morelli nella Val d’Ossola (anche se il giacimento più sfruttato per l’oro è sempre stato quello del massiccio del Rosa) e la richiesta di poter coltivare il boro nella zona di Ormea. E pensare che, dal 2013 al 2022, le aziende che si occupano di estrazione di minerali da cave e miniere in Piemonte sono scese da 265 a 195. «Il settore estrattivo continua a essere fonte di occupazione – riflette l’assessore regionale Andrea Tronzano -. Con il piano regionale in via di definizione vogliamo dare certezze agli imprenditori e migliorare l’attuale regolamentazione in modo che ci siano certezze ambientali e più facilità nel lavorare. Le miniere su materie prime critiche sono oggetto di grande attenzione e noi vorremmo riattivare le nostre potenzialità come ci chiede la Ue. Ci stiamo lavorando con rispetto per tutti, anche perché qui non siamo nè in Cina nè in Congo. Vedremo le aziende che hanno chiesto di fare i carotaggi che cosa decideranno. Noi le ascolteremo».

    https://www.lastampa.it/torino/2023/08/06/news/piemonte_nuove_miniere_usseglio_nichel_cobalto-12984408

    #extractivisme #Italie #mines #nickel #cobalt #graphite #lithium #Alpes #montagnes #Piémont #Pinerolo #terres_rares #multinationales #transition_énergétique #Punta_Corna #Val_Chisone #Energia_Minerals #Altamin #Strategic_Minerals_Italia #Vallone_del_Servin #Santa_Barbara #Valle_Anzasca #Verbano_Cusio_Ossola #cuivre #platine #Ceppo_Morelli #Val_d'Ossola #or #Ormea

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    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

  • Gagnants et perdants de la course aux énergies « vertes » : une perspective (...) - Centre tricontinental
    https://www.cetri.be/Gagnants-et-perdants-de-la-course

    Promesse d’un monde décarboné, la transition énergétique n’est ni juste ni durable. Matériellement intensive, elle repousse les frontières de l’extractivisme, déplace le coût du verdissement des économies riches sur les pays en développement et tend à reproduire un rapport de type colonial. Une juste transition devra corriger les asymétries Nord-Sud et questionner le productivisme et le consumérisme à l’origine des déséquilibres mondiaux.

    « Au quotidien, nous dépendons des métaux et des minéraux pour alimenter nos iPhones et acheminer notre électricité. Les technologies numériques nous donnent l’impression de vivre dans une économie éthérée, détachée du monde matériel. En fait, nous extrayons plus de minéraux qu’à aucun autre moment de notre histoire (...). En dépit des discours sur l’intelligence artificielle, les objets interconnectés et la prise de contrôle imminente par les robots, nos sociétés n’ont, à bien des égards, pas évolué par rapport aux pratiques du passé, lorsque la soif de pétrole a poussé les Européens à se partager le Moyen-Orient » (Sanderson, 2022).

    #transition_énergétique #décarbonation #extractivisme #colonialisme #grenntechs #greenwashing

    Et à propos du #syndrome_hollandais (ou #dutch_desease) :
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Maladie_hollandaise

  • Des tensions sur l’approvisionnement de cuivre

    La demande en métal rouge devrait bondir dans les années à venir en raison de son rôle primordial dans la transition énergétique. Sa production est particulièrement concentrée géographiquement et la mise en oeuvre de nouveaux projets d’extraction nécessite du temps.

    En 2022, le cuivre a, une nouvelle fois, connu une évolution très contrastée. Son prix a atteint un record à 10.730 dollars la tonne, en mars. Aujourd’hui, le métal rouge se négocie à un prix moindre, autour de 8.100 dollars. La demande de la #Chine, principal consommateur, s’avère moins vigoureuse qu’escomptée après la fin de la politique zéro Covid, alors que les stocks ont, eux, augmenté de 70 % au cours des quatre dernières semaines dans les entrepôts du London Metal Exchange (LME).

    Pourtant, son rôle clé dans la #transition_énergétique fait du cuivre un métal à surveiller de très près, selon Philippe Chalmin, coordinateur du rapport CylOpe, dédié à l’évolution des matières premières. Sollicité pour son rôle de #conducteur_électrique et thermique, le cuivre est notamment essentiel à la fabrication des #voitures_électriques.

    Selon le scénario climatique le plus ambitieux de l’agence internationale de l’énergie (AIE) - celui de la neutralité carbone d’ici à 2050 - le nombre de véhicules électriques pourrait dépasser les 350 millions d’ici à 2030, contre 16,5 millions en 2021. De quoi provoquer un fort accroissement des besoins en métal rouge. Robert Friedland, fondateur d’Ivanhoe Mines, table sur une demande d’environ 40 millions de tonnes en 2030, contre 25 millions en 2021.

    Et ce, alors que la géopolitique de cette matière première « peut être très sensible à des nouvelles fractures », observe Philippe Chalmin. La production du cuivre est en effet particulièrement concentrée. Environ 40 % du #métal_rouge provient du #Chili et du #Pérou, deux pays marqués ces dernières années par des périodes d’instabilité. Celle-ci représente une double menace, puisqu’elle risque de peser à la fois sur les capacités de production et sur les relations commerciales régionales.

    Opposition des populations locales
    A cela s’ajoutent des incertitudes quant à l’état futur des stocks, bien qu’il s’agisse d’un métal relativement abondant dans la croûte terrestre. On constate ces dernières années une baisse de la teneur en cuivre dans les mines chiliennes notamment, et les restrictions d’eau dues à la sécheresse obligent à ralentir le rythme de production.

    « Plusieurs nouvelles grandes #mines_de_cuivre vont être mises en service cette année, mais il y a une absence notable de projets futurs », estimait par ailleurs en janvier Daniel Sullivan, expert en ressources naturelles pour le gestionnaire d’actifs Janus Henderson. Ces projets suscitent régulièrement l’opposition de la population locale et la mise en exploitation de nouvelles mines nécessite un temps très long. Tandis que le rythme de la transition, lui, s’accélère.

    Ces différents facteurs pourraient créer des difficultés d’approvisionnement dans les années à venir, risquant de mettre à mal certaines ambitions climatiques. Le développement du recyclage pourrait néanmoins compléter cette offre primaire insuffisante, estime le rapport CyclOpe.

    Le cuivre a l’avantage de pouvoir être réutilisé plusieurs fois, sans perte de performance. Une véritable tendance dans le secteur. Aurubis, premier producteur européen de cuivre, a ainsi lancé mi-2022 le chantier de son nouveau site de retraitement de métaux, situé à Augusta, aux Etats-Unis. Il devrait être opérationnel en janvier 2024, pour un traitement annuel d’environ 90.000 tonnes de métaux, dont le #cuivre.

    (Les Échos)