• In Europa viaggiare in treno costa il doppio che viaggiare in aereo
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Europa/In-Europa-viaggiare-in-treno-costa-il-doppio-che-viaggiare-in-aereo-

    Un recente studio di Greenpeace conferma che viaggiare in aereo è spesso molto più economico che viaggiare in treno. La colpa ricade principalmente sulle compagnie aeree low cost (e sui governi che ne agevolano l’azione), che con pratiche scorrette scaricano costi ambientali, economici e sociali su lavoratori e cittadini

  • Privilegi fiscali delle compagnie aeree europee, un biglietto da 34,2 miliardi di euro

    I colossi dell’aviazione civile del continente, che hanno già beneficato di sussidi pubblici durante la pandemia, sfruttano generose esenzioni sul cherosene, sulle emissioni e sui prezzi dei biglietti. Evitando ogni anno di pagare tasse che potrebbero essere investite dagli Stati in modalità di trasporto più sostenibili. Il report di T&E

    Nel 2022 i Paesi europei hanno perso 34,2 miliardi di euro a causa delle tasse non pagate dalle compagnie aeree, pari a circa quattro milioni di euro all’ora. Quanto si sarebbe speso per installare oltre 1.400 chilometri di rete ferroviaria ad alta velocità.

    Lo evidenzia lo studio pubblicato a luglio della Federazione europea per il trasporto e l’ambiente (Transport&Environment, T&E) che analizza e stima i danni causati dai privilegi fiscali di cui godono le compagnie aree sui voli passeggeri (la componente cargo non è stata considerata).

    “Questa differenza è dovuta a tre componenti: zero tasse sull’acquisto del cherosene (il carburante utilizzato per i voli aerei, ndr), Iva assente o molto ridotta sul costo dei biglietti e infine la tassazione delle emissioni secondo il mercato europeo (Emission trading scheme, Ets) solo sui voli tra scali europei”, si legge nella relazione.

    Dei 34,2 miliardi di euro non pagati la maggior parte (20,5 miliardi) sarebbero dovuti alle mancate imposte su carburante ed emissioni. Se non verranno presi provvedimenti, con la ripresa e la crescita del settore, questa quota è destinata ad aumentare, superando i 47 miliardi di euro nel 2025, quando il numero di voli sarà tornato ai livelli pre pandemia da Covid-19.

    Il settore dell’aviazione è tra i più emissivi, ed è infatti responsabile del 2,5% delle emissioni di CO2 a livello globale, un valore in forte crescita. Se nel 2013 l’impronta di carbonio era di 706 milioni di tonnellate di CO2 (MtCO2) nel 2019 questo valore era salito a 920. Nonostante il forte calo dei voli durante la pandemia da Covid-19, è previsto che il numero di partenze e arrivi dai Paesi dell’Unione europea aumenti del 62% al 2050 (rispetto ai livelli pre pandemici). Uno dei motivi di questa crescita, secondo T&E, è dovuto proprio agli ampi vantaggi fiscali del settore che non solo favoriscono le aziende ma non le incentivano a ridurre le proprie emissioni, ad esempio tramite l’utilizzo di carburanti alternativi o a emissioni nette nulle.

    Applicare una tassazione equa permetterebbe di ottenere numerosi vantaggi ambientali ed economici. A iniziare dall’incentivare la transizione ecologica del settore rendendo i combustibili fossili mono convenienti, oltre a diminuire la forbice tra voli e trasporto ferroviario favorendo mezzi di trasporto più ecologici (come indica anche Greenpeace). Inoltre, con le tasse pagate dalle aziende si potrebbero finanziare investimenti in tecnologie sostenibili non solamente nel settore dei trasporti. Il tutto secondo il principio per il quale dovrebbero essere le aziende più inquinanti a dover pagare per le proprie emissioni.

    Eppure dall’analisi di T&E emerge come siano proprio le compagnie aeree con le emissioni più alte ad aver beneficiato di uno sconto maggiore. Poco più della metà (il 56%) del tax gap è dovuto infatti alle 15 compagnie aeree più inquinanti d’Europa. A guidare questa classifica sono Air France e Lufthansa che sono le due maggiori responsabili del tax gap in Europa, a causa delle dimensioni della loro attività. L’Europa ha perso rispettivamente 2,4 e 2,3 miliardi di euro di entrate derivanti dalle attività di queste compagnie aeree.

    Come è possibile? Torniamo alle tre “cause”, partendo dal carburante. In Europa solo Norvegia e Svizzera impongono una tassa sul cherosene ma questa è limitata ai voli domestici. La Norvegia impone una tassa pari a 17 centesimi di euro per litro e nel 2022 ha portato a entrate per “soli” 68 milioni di euro. Mentre in Svizzera si pagano 45 centesimi per ogni litro consumato, ma la componente di voli domestici nel Paese è così bassa da rendere le sue entrate trascurabili.

    La seconda è la tassazione sui biglietti. Tutti i Paesi europei applicano un’aliquota Iva nulla al trasporto aereo internazionale e cinque (Cipro, Danimarca, Irlanda, Malta e Regno Unito) la impongono anche per le tratte domestiche. Gli altri Stati applicano un’aliquota ridotta (ad esempio Francia, Svezia) o l’aliquota Iva generale (ad esempio Grecia, Ungheria). T&E stima che l’Iva imposta ai viaggi aerei sia stata pari a 1,1 miliardi di euro nel 2022, con Italia (221 milioni) e Spagna (182 milioni) che hanno ottenuto il maggior gettito.

    La terza componente è dovuta all’esclusione dei voli extra-europei dal mercato del carbonio (Ets), il che comporta che la compagnia non debba compensare affatto le emissioni su questi voli. L’esclusione di queste tratte, che nonostante rappresentino solo il 6% dei voli sono responsabili del 51% delle emissioni del settore, non è solo problematica dal punto di vista ambientale ma favorisce compagnie di grandi dimensioni (come Air France, appunto) rispetto alle low cost, in quanto queste ultime, a causa della maggior quota di tratte europee, pagano un’imposta media maggiore sulle emissioni. Per queste ragioni nel febbraio 2022 quattro compagnie low cost (easyJet, Ryanair, Jet2 e Wizz Air), con il supporto di T&E, hanno scritto una lettera alla Commissione europea per chiedere di mettere fine a questo privilegio.

    Non solo i governi europei mantengono una fiscalità agevolata verso le compagnie aeree ma, in particolare durante la pandemia, hanno anche elargito loro finanziamenti pubblici. “La crisi da Covid-19 ha evidenziato la posizione favorevole delle compagnie aeree nell’accesso ai fondi statali. Ciò sottolinea che i governi tengono artificialmente a galla un settore ad alta intensità di carbonio con sussidi considerevoli. Durante la pandemia, il governo britannico ha fornito sostegno finanziario a British Airways, easyJet, Wizz air e Ryanair, per un ammontare di due miliardi di euro. La Svizzera ha destinato 1,8 miliardi di euro al settore dell’aviazione, di cui 1,2 miliardi a Swiss e 568 milioni di euro a Swissport, Gategroup e Sr technics. La Norvegia ha salvato le sue compagnie aeree con 559 milioni di euro -denuncia ancora T&E-. Questi sussidi non rientrano nella nostra analisi, ma sono importanti da menzionare quando si parla dell’accesso privilegiato dell’aviazione ai fondi pubblici”.

    Secondo la Federazione è necessario perciò che i Paesi europei pongano fine alle esenzioni fiscali ingiustificate sul carburante per aerei, garantendo che i mercati del carbonio coprano le emissioni di tutte le compagnie aeree (anche e soprattutto per i voli a lungo raggio) e applicando un’Iva del 20% su tutti i biglietti aerei. “Nel breve termine, i governi nazionali dovrebbero applicare le proprie tasse sui biglietti al livello necessario per colmare questo divario fiscale, in assenza di questi cambiamenti. In media, queste tasse vanno dai 23 euro per un viaggio nazionale, ai 51 euro per un viaggio intra-europeo e ai 259 euro per i viaggi extra-europei -suggerisce T&E-. Oltre a garantire che parte delle entrate raccolte sia reinvestita in tecnologie pulite come le energie rinnovabili e la produzione di carburanti sintetici (i cosiddetti e-fuel, combustibili a emissioni neutre necessari per la decarbonizzazione dei trasporti aerei e navali a lungo raggio) o nella promozione di modalità di trasporto alternative più pulite come la ferrovia”.

    Ciò potrebbe comportare una diminuzione della domanda e un risparmio di emissioni di CO2. Lo studio rileva che porre fine alle esenzioni nel 2022 avrebbe consentito di evitare la produzione di 35 milioni di tonnellate di CO2.

    “La tassazione non dovrebbe essere percepita come una punizione ma come un modo di far pagare in modo equo a coloro che beneficiano maggiormente della sotto regolamentazione dell’aviazione. Le persone più agiate della società hanno pagato troppo poco per le loro abitudini di volo -spiega Jo Dardenne, responsabile per l’aviazione presso T&E-. Un aumento delle imposte non ridurrà l’innovazione ma, al contrario, porterà benefici ai cittadini e al settore nel lungo periodo, poiché i governi interverranno per finanziare la transizione verso l’energia pulita, anche per i trasporti aerei”.

    https://altreconomia.it/privilegi-fiscali-delle-compagnie-aeree-europee-un-biglietto-da-342-mil
    #transport_aérien #compagnies_aériennes #subventions #fisc #exonération_fiscale #privilèges_fiscaux #avions #contradiction #absurdistan #absurdité #changement_climatique #fiscalité

    #OnEstPasAUneContradictionPrès

  • Sorvegliare in nome della sicurezza: le Agenzie Ue vogliono carta bianca

    Il nuovo regolamento di #Europol mette a rischio la #privacy di milioni di persone mentre #Frontex, chiamata a controllare le frontiere, punta sull’intelligenza artificiale e la biometria per fermare i migranti. Provando a eludere la legge.

    C’è una lotta interna nel cuore delle istituzioni europee il cui esito toccherà da vicino il destino di milioni di persone. Lo scontro è sul nuovo regolamento di Europol, l’Agenzia europea di contrasto al crimine, entrato in vigore a fine giugno 2022 con la “benedizione” del Consiglio europeo ma che il Garante per la protezione dei dati (Gepd) definisce un “colpo allo Stato di diritto”. “La principale controversia riguarda la possibilità per l’Agenzia di aggirare le proprie regole quando ha ‘bisogno’ di trattare categorie di dati al di fuori di quelli che può raccogliere -spiega Chloé Berthélémy, policy advisor dell’European digital rights (Edri), un’organizzazione che difende i diritti digitali nel continente-. Uno scandalo pari a quanto rivelato, quasi un decennio fa, da Edward Snowden sulle agenzie statunitensi che dimostra una tendenza generale, a livello europeo, verso un modello di sorveglianza indiscriminata”.

    Con l’obiettivo di porre un freno a questa tendenza, il 22 settembre di quest’anno il presidente del Gepd, Wojciech Wiewiórowski, ha comunicato di aver intentato un’azione legale di fronte alla Corte di giustizia dell’Unione europea per contestare la legittimità dei nuovi poteri attribuiti a Europol. Un momento chiave di questa vicenda è il gennaio 2022 quando l’ufficio del Gepd scopre che proprio l’Agenzia aveva conservato illegalmente un vasto archivio di dati sensibili di oltre 250mila persone, tra cui presunti terroristi o autori di reati, ma soprattutto di persone che erano entrate in contatto con loro. Secondo quanto ricostruito dal Guardian esisteva un’area di memoria (cache) detenuta dall’Agenzia contenente “almeno quattro petabyte, equivalenti a tre milioni di cd-rom” con dati raccolti nei sei anni precedenti dalle singole autorità di polizia nazionali. Il Garante ordina così di cancellare, entro un anno, tutti i dati più “vecchi” di sei mesi ma con un “colpo di mano” questa previsione viene spazzata via proprio con l’entrata in vigore del nuovo regolamento. “In particolare, due disposizioni della riforma rendono retroattivamente legali attività illegali svolte dall’Agenzia in passato -continua Berthélémy-. Ma se Europol può essere semplicemente esentata dai legislatori ogni volta che viene colta in flagrante, il sistema di controlli ed equilibri è intrinsecamente compromesso”.

    L’azione legale del Gepd ha però un ulteriore obiettivo. In gioco c’è infatti anche il “modello” che l’Europa adotterà in merito alla protezione dei dati: da un lato quello americano, basato sulla sorveglianza pressoché senza limiti, dall’altro il diritto alla protezione dei dati che può essere limitato solo per legge e con misure proporzionate, compatibili con una società democratica. Ma proprio su questo aspetto le istituzioni europee vacillano. “Il nuovo regolamento esplicita l’obiettivo generale della comunità delle forze dell’ordine: quello di poter utilizzare metodi di ‘polizia predittiva’ che hanno come finalità l’identificazione di individui che potranno potenzialmente essere coinvolti nella commissione di reati”, sottolinea ancora la ricercatrice. Significa, in altri termini, l’analisi di grandi quantità di dati predeterminati (come sesso e nazionalità) mediante algoritmi e tecniche basate sull’intelligenza artificiale che permetterebbero, secondo i promotori del modello, di stabilire preventivamente la pericolosità sociale di un individuo.

    “Questo approccio di polizia predittiva si sviluppa negli Stati Uniti a seguito degli attentati del 2001 -spiega Emilio De Capitani, già segretario della Commissione libertà civili (Libe) del Parlamento europeo dal 1998 al 2011 che da tempo si occupa dei temi legati alla raccolta dei dati-. Parallelamente, in quegli anni, inizia la pressione da parte della Commissione europea per sviluppare strumenti di raccolta dati e costruzione di database”.

    “Il nuovo regolamento esplicita l’obiettivo generale della comunità delle forze dell’ordine: quello di poter utilizzare metodi di ‘polizia predittiva’” – Chloé Berthélémy

    Fra i primi testi legislativi europei che si fondano sulla raccolta pressoché indiscriminata di informazioni c’è la Direttiva 681 del 2016 sulla raccolta dei dati dei passeggeri aerei (Pnr) come strumento “predittivo” per prevenire i reati di terrorismo e altri reati definiti come gravi. “Quando ognuno di noi prende un aereo alimenta due archivi: l’Advanced passenger information (Api), che raccoglie i dati risultanti dai documenti ufficiali come la carta di identità o il passaporto permettendo così di costruire la lista dei passeggeri imbarcati, e un secondo database in cui vengono versate anche tutte le informazioni raccolte dalla compagnia aerea per il contratto di trasporto (carta di credito, e-mail, esigenze alimentari, tipologia dei cibi, annotazioni relative a esigenze personali, etc.) -spiega De Capitani-. Su questi dati legati al contratto di trasporto viene fatto un controllo indiretto di sicurezza filtrando le informazioni in relazione a indicatori che potrebbero essere indizi di pericolosità e che permetterebbero di ‘sventare’ attacchi terroristici, possibili dirottamenti ma anche reati minori come la frode o la stessa violazione delle regole in materia di migrazione. Questo perché il testo della Direttiva ha formulazioni a dir poco ambigue e permette una raccolta spropositata di informazioni”. Tanto da costringere la Corte di giustizia dell’Ue, con una sentenza del giugno 2022 a reinterpretare in modo particolarmente restrittivo il testo legislativo specificando che “l’utilizzo di tali dati è permesso esclusivamente per lo stretto necessario”.

    L’esempio della raccolta dati legata ai Pnr è esemplificativo di un meccanismo che sempre di più caratterizza l’operato delle Agenzie europee: raccogliere un elevato numero di dati per finalità genericamente collegate alla sicurezza e con scarse informazioni sulla reale utilità di queste misure indiscriminatamente intrusive. “Alle nostre richieste parlamentari in cui chiedevamo quanti terroristi o criminali fossero stati intercettati grazie a questo sistema, che raccoglie miliardi di dati personali, la risposta è sempre stata evasiva -continua De Capitani-. È come aggiungere paglia mentre si cerca un ago. Il cittadino ci rimette due volte: non ha maggior sicurezza ma perde in termini di rispetto dei suoi diritti. E a perderci sono soprattutto le categorie meno protette, e gli stessi stranieri che vengono o transitano sul territorio europeo”.

    “Il cittadino ci rimette due volte: non ha maggior sicurezza ma perde in termini di rispetto dei suoi diritti. Soprattutto le categorie meno protette” – Emilio De Capitani

    I migranti in particolare diventano sempre più il “banco di prova” delle misure distopiche di sorveglianza messe in atto dalle istituzioni europee europee attraverso anche altri sistemi che si appoggiano anch’essi sempre più su algoritmi intesi a individuare comportamenti e caratteristiche “pericolose”. E in questo quadro Frontex, l’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee gioca un ruolo di primo piano. Nel giugno 2022 ancora il Garante europeo ha emesso nei suoi confronti due pareri di vigilanza che sottolineano la presenza di regole “non sufficientemente chiare” sul trattamento dei dati personali dei soggetti interessati dalla sua attività e soprattutto “norme interne che sembrano ampliare il ruolo e la portata dell’Agenzia come autorità di contrasto”.

    Il Garante si riferisce a quelle categorie speciali come “i dati sanitari delle persone, i dati che rivelano l’origine razziale o etnica, i dati genetici” che vengono raccolti in seguito all’identificazione di persone potenzialmente coinvolte in reati transfrontalieri. Ma quel tipo di attività di contrasto non rientra nel mandato di Frontex come guardia di frontiera ma ricade eventualmente nelle competenze di un corpo di polizia i cui possibili abusi sarebbero comunque impugnabili davanti a un giudice nazionale o europeo. Quindi, conclude il Garante, il trattamento di questi dati dovrebbe essere protetto con “specifiche garanzie per evitare pratiche discriminatorie”.

    Ma secondo Chris Jones, direttore esecutivo del gruppo di ricerca indipendente Statewatch, il problema è a monte. Sono le stesse istituzioni europee a incaricare queste due agenzie di svolgere attività di sorveglianza. “Frontex ed Europol hanno sempre più poteri e maggior peso nella definizione delle priorità per lo sviluppo di nuove tecnologie di sicurezza e sorveglianza”, spiega. Un peso che ha portato, per esempio, a finanziare all’interno del piano strategico Horizon Europe 2020, che delinea il programma dell’Ue per la ricerca e l’innovazione dal 2021 al 2024, il progetto “Secure societies”. Grazie a un portafoglio di quasi 1,7 miliardi di euro è stata commissionata, tra gli altri, la ricerca “ITFlows” che ha come obiettivo quello di prevedere, attraverso l’utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale, i flussi migratori. Il sistema predittivo, simile a quello descritto da Berthélémy, è basato su un modello per il quale, con una serie di informazioni storiche raccolte su un certo fenomeno, sarebbe possibile anticipare sugli eventi futuri.

    “Se i dati sono cattivi, la decisione sarà cattiva. Se la raccolta dei dati è viziata dal pregiudizio e dal razzismo, lo sarà anche il risultato finale” – Chris Jones

    “Se le mie previsioni mi dicono che arriveranno molte persone in un determinato confine, concentrerò maggiormente la mia sorveglianza su quella frontiera e potrò più facilmente respingerli”, osserva Yasha Maccanico, ricercatore di Statewatch. Sempre nell’ambito di “Secure societies” il progetto “iBorderCtrl” riguarda invece famigerati “rilevatori di bugie” pseudoscientifici che dedurrebbe lo stato emotivo, le intenzioni o lo stato mentale di una persona in base ai suoi dati biometrici. L’obiettivo è utilizzare questi strumenti per valutare la credibilità dei racconti dei richiedenti asilo nelle procedure di valutazione delle loro richieste di protezione. E in questo quadro sono fondamentali i dati su cui si basano queste predizioni: “Se i dati sono cattivi, la decisione sarà cattiva -continua Jones-. Se la raccolta dei dati è viziata dal pregiudizio e dal razzismo, lo sarà anche il risultato finale”. Per questi motivi AccessNow, che si occupa di tutela dei diritti umani nella sfera digitale, ha scritto una lettera (firmata anche da Edri e Statewatch) a fine settembre 2022 ai membri del consorzio ITFlows per chiedere di terminare lo sviluppo di questi sistemi.

    Anche sul tema dei migranti il legislatore europeo tenta di creare, come per Europol, una scappatoia per attuare politiche di per sé illegali. Nell’aprile 2021 la Commissione europea ha proposto un testo per regolamentare l’utilizzo dell’intelligenza artificiale e degli strumenti basati su di essa (sistemi di videosorveglianza, identificazione biometrica e così via) escludendo però l’applicazione delle tutele previste nei confronti dei cittadini che provengono da Paesi terzi. “Rispetto ai sistemi di intelligenza artificiale quello che conta è il contesto e il fine con cui vengono utilizzati. Individuare la presenza di un essere umano al buio può essere positivo ma se questo sistema è applicato a un confine per ‘respingere’ la persona diventa uno strumento che favorisce la lesione di un diritto fondamentale -spiega Caterina Rodelli analista politica di AccessNow-. Si punta a creare due regimi differenti in cui i diritti dei cittadini di Paesi terzi non sono tutelati come quelli degli europei: non per motivi ‘tecnici’ ma politici”. Gli effetti di scarse tutele per gli uni, i migranti, ricadono però su tutti. “Per un motivo molto semplice. L’Ue, a differenza degli Usa, prevede espressamente il diritto alla tutela della vita privata nelle sue Carte fondamentali -conclude De Capitani-. Protezione che nasce dalle più o meno recenti dittature che hanno vissuto gli Stati membri: l’assunto è che chi è o si ‘sente’ controllato non è libero. Basta questo per capire perché sottende l’adozione di politiche ‘predittive’ e la riforma di Europol o lo strapotere di Frontex, stiano diventando un problema di tutti perché rischiano di violare la Carta dei diritti fondamentali”.

    https://altreconomia.it/sorvegliare-in-nome-della-sicurezza-le-agenzie-ue-vogliono-carta-bianca
    #surveillance #biométrie #AI #intelligence_artificielle #migrations #réfugiés #Etat_de_droit #données #protection_des_données #règlement #identification #police_prédictive #algorythme #base_de_données #Advanced_passenger_information (#Api) #avion #transport_aérien #Secure_societies #ITFlows #iBorderCtrl #asile #

    • New Europol rules massively expand police powers and reduce rights protections

      The new rules governing Europol, which came into force at the end of June, massively expand the tasks and powers of the EU’s policing agency whilst reducing external scrutiny of its data processing operations and rights protections for individuals, says a report published today by Statewatch.

      Given Europol’s role as a ‘hub’ for information processing and exchange between EU member states and other entities, the new rules thus increase the powers of all police forces and other agencies that cooperate with Europol, argues the report, Empowering the police, removing protections (https://www.statewatch.org/publications/reports-and-books/empowering-the-police-removing-protections-the-new-europol-regulation).

      New tasks granted to Europol include supporting the EU’s network of police “special intervention units” and managing a cooperation platform for coordinating joint police operations, known as EMPACT. However, it is the rules governing the processing and exchange of data that have seen the most significant changes.

      Europol is now allowed to process vast quantities of data transferred to it by member states on people who may be entirely innocent and have no link whatsoever to any criminal activity, a move that legalises a previously-illegal activity for which Europol was admonished by the European Data Protection Supervisor.

      The agency can now process “investigative data” which, as long it relates to “a specific criminal investigation”, could cover anyone, anywhere, and has been granted the power to conduct “research and innovation” projects. These will be geared towards the use of big data, machine learning and ‘artificial intelligence’ techniques, for which it can process sensitive data such as genetic data or ethnic background.

      Europol can now also use data received from non-EU states to enter “information alerts” in the Schengen Information System database and provide “third-country sourced biometric data” to national police forces, increasing the likelihood of data obtained in violation of human rights being ‘laundered’ in European policing and raising the possibility of third states using Europol as a conduit to harass political opponents and dissidents.

      The new rules substantially loosen restrictions on international data transfers, allowing the agency’s management board to authorise transfers of personal data to third states and international organisations without a legal agreement in place – whilst priority states for international cooperation include dictatorships and authoritarian states such as Algeria, Egypt, Turkey and Morocco.

      At the same time, independent external oversight of the agency’s data processing has been substantially reduced. The threshold for referring new data processing activities to the European Data Protection Supervisor (EDPS) for external scrutiny has been raised, and if Europol decides that new data processing operations “are particularly urgent and necessary to prevent and combat an immediate threat,” it can simply consult the EDPS and then start processing data without waiting for a response.

      The agency is now required to employ a Fundamental Rights Officer (FRO), but the role clearly lacks independence: the FRO will be appointed by the Management Board “upon a proposal of the Executive Director,” and “shall report directly to the Executive Director”.

      Chris Jones, Director of Statewatch, said:

      “The proposals to increase Europol’s powers were published six months after the Black Lives Matter movement erupted across the world, calling for new ways to ensure public safety that looked beyond the failed, traditional model of policing.

      With the new rules agreed in June, the EU has decided to reinforce that model, encouraging Europol and the member states to hoover up vast quantities of data, develop ‘artificial intelligence’ technologies to examine it, and increase cooperation with states with appalling human rights records.”

      Yasha Maccanico, a Researcher at Statewatch, said:

      “Europol has landed itself in hot water with the European Data Protection Supervisor three times in the last year for breaking data protection rules – yet the EU’s legislators have decided to reduce the EDPS’ supervisory powers. Independent, critical scrutiny and oversight of the EU’s policing agency has never been more needed.”

      The report (https://www.statewatch.org/publications/reports-and-books/empowering-the-police-removing-protections-the-new-europol-regulation) has been published alongside an interactive ’map’ of EU agencies and ’interoperable’ policing and migration databases (https://www.statewatch.org/eu-agencies-and-interoperable-databases), designed to aid understanding and further research on the data architecture in the EU’s area of freedom, security and justice.

      https://www.statewatch.org/news/2022/november/new-europol-rules-massively-expand-police-powers-and-reduce-rights-prote
      #interopérabilité #carte #visualisation

    • EU agencies and interoperable databases

      This map provides a visual representation of, and information on, the data architecture in the European Union’s “area of freedom, security and justice”. It shows the EU’s large-scale databases, networked information systems (those that are part of the ’Prüm’ network), EU agencies, national authorities and international organisations (namely Interpol) that have a role in that architecture. It is intended to facilitate understanding and further investigation into that architecture and the agencies and activities associated with it.

      https://www.statewatch.org/eu-agencies-and-interoperable-databases
      #réseau #prüm_II

  • Climat : Des centaines d’activistes arrêtés à l’aéroport d’Amsterdam

    Des militants écologistes de Greenpeace et d’Extinction Rebellion se sont glissés, samedi, sur le tarmac de l’aéroport néerlandais de Schiphol. Ils ont bloqué des jets privés.

    Des centaines d’activistes pour le climat ont été arrêtés, samedi, à l’aéroport d’Amsterdam Schiphol, après avoir franchi des clôtures et occupé une aire de stationnement pour jets privés. Les manifestants, dont beaucoup portaient des combinaisons blanches et certains étaient à vélo, ont envahi le tarmac vers 13h, avant de s’asseoir devant au moins 14 avions privés. Il y avait également un transporteur C-130 de l’Aviation royale canadienne sur ce tarmac.


    Les militants se sont assis devant au moins 14 avions privés et un transporteur de l’Aviation royale canadienne.

    Entonnant des slogans comme « À bas les vols » ou « Schiphol pollueur de l’environnement », ces militants des ONG Greenpeace et Extinction Rebellion ont fait le tour du tarmac, sous les applaudissements de spectateurs de l’autre côté des clôtures. « L’action d’aujourd’hui signifie que l’aéroport de Schiphol doit réduire ses émissions, il doit y avoir moins de vols », a commenté la porte-parole de Greenpeace Pays-Bas, Faiza Oulahsen. « Nous commençons par les vols dont nous n’avons absolument pas besoin, comme ceux des jets privés et les vols courts. »

    Traînés vers des bus
    Environ trois heures après le début de l’envahissement du tarmac, la police des frontières a commencé à arrêter des militants, dont certains ont été traînés vers des bus après avoir résisté passivement. « Nous prenons cela très au sérieux. Ces personnes sont dans un endroit où elles n’auraient pas dû se trouver », a déclaré son porte-parole, le major Robert van Kapel. Pour Greenpeace, la police a été « beaucoup trop dure contre les militants à vélo » et au moins une personne a été heurtée à la tête.

    L’action est intervenue à la veille de l’ouverture, dimanche, en Égypte, de la COP27, sommet de l’ONU sur le climat. La pollution des avions, « c’est un sujet dont ils doivent parler », a déclaré Tessel Hofstede, porte-parole d’Extinction Rebellion.

    #Climat #Transport_aérien #pollution #avions #milliardaires #privilégiés #avions #riches #richesse #luxe #capitalisme #cop27 #aéroports #jets_privés

    Source : https://www.lessentiel.lu/fr/story/des-centaines-dactivistes-arretes-a-laeroport-damsterdam-728665140970

  • Jets privés : l’homme qui a rendu fou Bernard Arnault et les ultra #Riches
    https://www.blast-info.fr/emissions/2022/jets-prives-lhomme-qui-a-rendu-fou-bernard-arnault-et-les-ultra-riches-CG

    Pour sa rentrée, Au Poste convoque un invité de choix : le tenancier (anonyme) du fameux compte twitter I Fly Bernard, qui a joliment foutu le feu aux poudres et au kérosène, dès son apparition printanière. Comment travaille-t-il ? Avec quelles finalités,…

    #Climat #Transport_aérien
    https://static.blast-info.fr/stories/2022/thumb_story_list-jets-prives-lhomme-qui-a-rendu-fou-bernard-arnaul

  • Un avion A380 alimenté à l’huile de friture et sans kérosène a survolé l’Occitanie ce mardi - midilibre.fr
    https://www.midilibre.fr/2022/03/30/un-avion-a380-alimente-a-lhuile-de-friture-et-sans-kerosene-a-survole-locc

    Dans un communiqué relayé par TF1, Airbus a indiqué que « 27 tonnes de SAF non mélangé ont été fournies par TotalEnergies pour ce vol. Le SAF produit en Normandie, près du Havre, en France, était fabriqué à partir d’esters et d’acides gras hydrotraités (HEFA), exempts d’aromatiques et de soufre, et principalement constitués d’huile de cuisson usagée, ainsi que d’autres déchets gras ».

    Va falloir en manger des frites, pour faire voler les avions.

    • 27 t d’huiles de friture usagées pour un vol Toulouse-Nice ! Un A380 consomme (paraît-il) 2,9 litres/100 km/passager de kérosène. Donc déjà, il nous manque une donnée pour pouvoir comparer. Mais on va essayer :
      A raison d’environ 800 kg pour 1 000 litres d’huile, le machin a brûlé 33 750 litres de SAF (27/0,8*1000). Si on estime le vol Toulouse-Nice à 250 km, il a consommé 13 500 l /100 km (33750/2,5) . Si on prend 75 kg le poids moyen d’un passager (avec ses bagages), on a 180 passagers sur ce vol (13500/75).

      Je reprends le calcul avec les données « kérosène » (2,9 l/100 km/passager) :
      2,9*2,5*180=1305
      1 305 litres de kérozène soit presque 26 fois moins !

      En terme de bilan carbone (même si on économise le CO2 émis pour l’extraction de la matière première puisqu’il y a recyclage), la combustion du SAF dans les réacteurs de l’avion est-elle moins polluante en émission de CO2 que celle du kérosène ? Bon, ok, on n’a plus d’émission de composés aromatiques ni de soufre. Et en outre, on peut se passer du pétrole de Poutine. Mais franchement ...
      Ceci dit, je me suis peut-être planté dans mon raisonnement.

    • 33000 litres, c’est la contenance max des réservoirs d’un A380. Il semble que simplement on a fait le plein, bien que ce soit inutile pour Toulouse-Nice, vu que la distance franchissable est de 15000 kms.

    • Donc en fait, ce genre d’article pour le « commun des mortels » induit le fameux biais que, en France, si on n’a pas de pétrole, on a des idées. Comme un arrière goût des années 70 après le 2e choc pétrolier.
      Faites chauffer les friteuses ! Sans compter que pour faire chauffer l’huile recyclée en carburant, elle vont en consommer du gaz / de l’électricité, les friteuses. Sans compter l’énergie nécessaire pour transformer cette huile en SAF. Moralité, le SAF est loin d’être « safe » ...

      Oui mais c’est du « recyclage » (Ah ouaaais) ...

      Apparté : ça le fait aussi avec du saindoux ? (Parce que les frites au saindoux, y a pas photo).

      #bullshit

      https://previews.dropbox.com/p/thumb/ABffbD9i66VycS_mPVPodv9T33YFf1Soq_Bvfl6tRMcyZtvBBB0lD2zuEG-Us8Jj4PLHczhyA9BhYvUBsaMyqZu7TfGTsEPCf5DEMEH-LxlwE3S_u1FN1LRQsjWUYcjHBArvtIacAGc7MCo0pS3HSVrKxthUgQ6JiKSbJCq_SoppPmfPp_YkkiGLwEtR7OevW3ZsKO2QZbdndzGCTY5OSiQU3f592S89NMblj_kJ9SXmW7DXImO_seg1AGh8pNtW6FVB_SCIGJgeX6fE0gzDerCbl6DII28d13lhJAEG-9RsNTePtWEd35NgeUW-FU2SdKLqgheeHZvsyYxCrdiF81A0-VF_cme0xS1jF8XzMAazpg/p.gif

    • Huiles alimentaires usagees.pdf
      http://www.decoset.fr/userfiles/files/Huiles%20alimentaires%20usagees.pdf

      Les Français achètent près de 300 millions de litres d’huile végétale par an qu’ils utilisent pour la friture, la cuisson, l’assaisonnement, ...

      300 000 000 litres d’huile
      274 500 tonnes environ

      11 574 remplissages d’un A320 (réservoir de 24 000 litres)
      968 remplissages d’un A380 (réservoir de 310 000 litres !)

    • Je reviens à l’article précédent du Midi Libre. J’ai une autre source qui dit que :

      Pour réaliser le premier vol, TotalEnergies a produit 27 tonnes de son SAP près du Havre en Normandie. Cette quantité, non mélangée à du kérosène, a permis à l’avion de voler une durée de trois heures.

      https://www.presse-citron.net/un-a380-carburant-huile-de-cuisson-decolle

      Impressionnante, la capacité en carburant de l’A380 ! Mais ce très long courrier est un échec commercial, paraît-il.

      L’A380-800 a un rayon d’action de 15 400 kilomètres, ce qui lui permet de voler de New York jusqu’à Hong Kong sans escale, à la vitesse de 910 km/h (Mach 0,85) jusqu’à 1 012 km/h (Mach 0,94)9. Cette autonomie fut réalisée selon une forte intention de John Leahy, responsable de vente10. Son principal client est Emirates, la compagnie de Dubaï qui maintient la production de l’A380 à flot avec une commande de 123 modèles. À la suite du remplacement de plusieurs A340-500, l’A380 de Qantas effectue depuis septembre 2014 le vol commercial le plus long du monde entre Sydney et Dallas-Fort-Worth, soit 13 804 km11.

      Le gros porteur souffre d’un paradoxe : malgré ses qualités, et même s’il est particulièrement apprécié par ses passagers12,13, l’A380 ne répond pas au besoin des compagnies : aucun nouveau client n’achète un exemplaire à partir de 2015, tandis qu’aucune compagnie n’augmente ses commandes en dehors d’Emirates, qui finit par annuler l’achat de 39 appareils en 2019. Face à ce succès commercial limité, Airbus annonce le 14 février 2019 la fin de la production de l’A380 pour 2021. Air-France-KLM annonce, le 20 mai 2020, l’arrêt définitif de son exploitation, deux ans et demi avant la date prévue14.

      L’A380 aura été produit à 254 exemplaires volants de série MSN xxx : 5 appareils d’essai (dont 2 revendus ensuite) et 249 appareils pour les compagnies aériennes (251 en exploitation commerciale). À ceux-ci il faut ajouter 2 appareils pour les essais statiques MSN 5001 et 5002.

      Le dernier appareil produit, qui porte le numéro de série MSN 272 et qui a pour immatriculation finale A6-EVS, a été livré à la compagnie aérienne Emirates le 16 décembre 202115.

      https://fr.wikipedia.org/wiki/Airbus_A380

      #aéronautique #transport_aérien

  • La compagnie Lufthansa devra effectuer 18 000 vols presque à vide pour conserver ses créneaux
    https://www.ouest-france.fr/economie/entreprises/lufthansa/la-compagnie-lufthansa-devra-effectuer-18-000-vols-presque-a-vide-pour-
    https://img-s-msn-com.akamaized.net/tenant/amp/entityid/AAShnnt.img?h=315&w=600&m=6&q=60&o=t&l=f&f=jpg

    La compagnie Lufthansa a annoncé qu’elle va être contrainte de faire voler 18 000 avions presque à vide. Le géant allemand du secteur aérien a déjà annulé 33 000 vols qui devaient circuler cet hiver. En raison de règles européennes, il pourrait perdre encore plus gros s’il n’effectue pas ces vols à vide.

  • La compagnie Southwest a annulé plus de 1 000 vols
    http://www.lessentiel.lu/fr/economie/story/la-compagnie-southwest-a-annule-plus-de-1000-vols-17229993

    La compagnie américaine Southwest a annulé plus de 1 000 vols, dimanche, prétextant des problèmes météorologiques et de contrôle aérien.


    Le transporteur a annulé plus de 1 085 vols dimanche, soit près de 29% de son trafic. (photo : AFP)

    Southwest Airlines a annulé plus de 1 000 vols, dimanche, lors d’un week-end marqué par les perturbations, que la compagnie explique par la météo et des problèmes de contrôle aérien.

    Le transporteur a annulé plus de 1 085 vols dimanche, soit près de 29% de son trafic, le plus haut taux pour une compagnie aérienne, et a accusé des retards sur plus de 900 autres liaisons, selon l’outil de suivi de vol FlightAware. Southwest a aussi annulé plus de 800 vols samedi, assure FlightAware.

    Dans un communiqué, Southwest explique que les ennuis météorologiques ont commencé dans les aéroports de Floride au début du week-end et ont été aggravés par des problèmes inattendus de contrôle aérien qui ont provoqué des retards et entraîné de nombreuses annulations.

    Protestation
    « Nous avons continué à travailler avec diligence tout au long du week-end pour reprendre nos opérations en nous concentrant sur le repositionnement des avions et des équipages pour prendre soin de nos clients », a assuré la compagnie aérienne.

    L’Association des pilotes de Southwest Airlines (SWAPA) a réfuté les rumeurs selon lesquelles certains pilotes ou salariés de la compagnie participaient à un ralentissement de l’activité pour protester contre la décision de l’entreprise d’obliger ses employés à se faire vacciner contre le Covid-19.

    « La SWAPA est au courant des difficultés opérationnelles affectant Southwest Airlines, aujourd’hui, à cause de plusieurs problèmes, mais nous pouvons dire avec certitude que nos pilotes ne participent à aucune mobilisation officielle ou officieuse », a souligné le groupe, samedi.

    #grève  #transport_aérien #travail #luttes_sociales #vaccination #crise_sanitaire #covid-19 #sante #santé #coronavirus #sars-cov-2 #variant #covid #pandémie #santé_publique

  • Les biocarburants peuvent-ils vraiment améliorer le bilan écologique des avions ?
    https://www.lemonde.fr/les-decodeurs/article/2021/06/24/les-biocarburants-peuvent-ils-vraiment-ameliorer-le-bilan-ecologique-des-avi

    Le secteur aérien reste un fort émetteur de gaz à effet de serre. Il représente 2 à 3 % des émissions au niveau mondial : cela peut paraître peu, mais à distance parcourue et nombre de voyageurs équivalents, il est possible d’être beaucoup plus écologique. Par exemple, les vols intérieurs en avion émettent environ soixante fois plus que le train.

    #transport_aérien #avion #carburant #effet_de_serre #écologie #gaz_à_effet_de_serre #pollution

  • Covid-19 : Boeing reste confiant dans l’avenir, malgré les difficultés financières des compagnies aériennes
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2020/10/07/covid-19-boeing-reste-confiant-dans-l-avenir-malgre-les-difficultes-financie

    Pour un peu, Boeing n’aurait pas vu passer la crise. A l’occasion de la publication de ses prévisions à dix ans, l’avionneur américain « évalue le marché de l’aviation commerciale et de la défense à 8 500 milliards de dollars [environ 7 222 milliards d’euros] d’ici à 2028. » Une prévision très proche de celle établie en 2019, avant la survenue de la pandémie de Covid-19, qui tablait sur un marché de 8 700 milliards de dollars pour la prochaine décennie.

    « Nous sommes convaincus que les secteurs de l’aviation commerciale et de la défense surmonteront ces défis immédiats, retrouveront leur stabilité et sortiront renforcés de cette épreuve », a déclaré, mardi 6 octobre, Marc Allen, directeur de la stratégie de Boeing.

    Toutefois, la pandémie aura quand même une incidence sur les ventes d’avions. Boeing prévoit que, pour les dix ans à venir, les compagnies n’auront besoin que de 18 350 appareils neufs, évalués à 2 900 milliards de dollars. Une baisse de 11 % par rapport aux prévisions établies en 2019. Les choses devraient rentrer dans l’ordre à plus long terme. D’ici à 2040, l’avionneur de Seattle envisage les besoins des compagnies à plus de 43 000 avions neufs. Il y a un an, il tablait sur 44 000 appareils d’ici à 2038…

    « 300 000 dollars par minute »

    L’optimisme de Boeing semble à l’opposé des difficultés, principalement financières, des compagnies aériennes, les clientes des avionneurs. Selon l’Association du transport aérien international (IATA), le pire pourrait rapidement survenir, à savoir les premières faillites. Car les caisses des compagnies vont rapidement être vides. En moyenne, leurs trésoreries ne leur permettront pas de tenir plus de 8,5 mois. A en croire la CGT, Air France « a de quoi tenir jusqu’au début du troisième trimestre 2021 ». Elles brûlent leur cash à grande vitesse : 77 milliards de dollars rien que pour le second semestre, estime IATA. Chaque mois, elles consomment 13 milliards de dollars, précise Alexandre de Juniac, directeur général de IATA. Soit « 300 000 dollars par minute », ajoute-t-il.

    Et ce n’est pas fini. L’année 2021 s’annonce meurtrière pour nombre de compagnies. Selon IATA, elles auront besoin de 60 milliards à 70 milliards de dollars, car la crise s’installe durablement. Le petit rebond observé au début de l’été a vécu. Dès la mi-août, l’activité a replongé. « Les réservations ne sont pas au niveau. La saison d’hiver, qui court d’octobre à mars 2021, ne sera pas bonne », a estimé, mercredi 7 octobre, le cabinet de conseil Archery Strategy Consulting. Selon lui, « aux Etats-Unis, certaines compagnies sont en train de mourir, faute d’argent ».

    Coupes dans les effectifs

    Pourtant, les autorités mettent la main à la poche, avec une nouvelle enveloppe globale de 25 milliards de dollars d’aides. Sept compagnies vont recevoir, chacune, un prêt de 7,5 milliards de dollars. Une manne qui pourrait pourtant être insuffisante pour éviter les licenciements massifs dans le transport aérien outre-Atlantique. Tant en Amérique du Nord qu’en Europe, les avions sont vides et le trafic passagers en repli de près de 70 % par rapport à 2019.

    Pour tenter de s’en sortir, les compagnies taillent dans leurs effectifs. American Airlines a annoncé la mise en chômage technique de 19 000 salariés. United Airlines veut se séparer de près de 13 500 de ses personnels. Delta Airlines a poussé vers la sortie près de 40 000 salariés à coups de plans de départs volontaires, de retraite anticipée ou de congés sans solde. Enfin, Southwest Airlines, qui compte désormais 27 % d’employés en moins, demande aux personnels d’accepter des baisses de salaires pour éviter de nouveaux plans de départs.

    Faute de passagers en nombre, les compagnies se reportent sur le fret, avec une grosse demande pour le transport du matériel médical, comme les masques ou les médicaments. Les avions-cargos des compagnies sont aussi utilisés pour répondre à l’essor du commerce en ligne depuis le début de la pandémie. Au départ de Roissy, Emirates devrait, par exemple, en 2020, faire mieux que « les 44 000 tonnes transportées sur une année normale », indique Cédric Renard, directeur général d’Emirates France, qui a ouvert « 122 destinations cargo » à partir de Roissy. Airbus propose, pour sa part, aux compagnies d’adapter, temporairement, leurs avions vides au transport de marchandises.

    #transport_aérien #logistique

  • Analyse comparative de la localisation géographique des hubs de Paris et Dubaï à travers les flux aériens internationaux
    http://journals.openedition.org/mappemonde/4006

    Les émirats de Dubaï, d’Abu Dhabi et du Qatar mènent des stratégies ambitieuses en matière de transport aérien. Cela s’est traduit par la création de compagnies aériennes majeures — à l’image d’Emirates Airline (1985), de Qatar Airways (1994), ou encore d’Etihad Airways (2003) — qui concurrencent nettement des transporteurs établis dans d’autres régions, à commencer par l’Europe et l’Asie orientale. Pour autant, les hubs du Golfe bénéficient-ils vraiment d’un avantage concernant leur localisation géographique, ce qui expliquerait le succès des compagnies qui y sont basées ?

    #transport #transport_aérien #circulation

  • « Le pire endroit pour faire un aéroport » : le nouveau projet de Vinci, près d’une réserve naturelle à Lisbonne
    https://www.bastamag.net/Vinci-aeroport-reserve-naturelle-oiseaux-migrateurs-Lisbonne-Tage-ZAD

    Un nouvel aéroport doit être construit par Vinci en périphérie de Lisbonne, sur l’estuaire protégé du Tage, où nichent des dizaines de milliers d’oiseaux migrateurs. « Le pays dépend de l’augmentation de sa capacité aéroportuaire », déclarait en avril dernier Pedro Nuno Santos, ministre des infrastructures du Portugal. Avec un record de 27 millions de visiteurs en 2019, le tourisme pèse lourd dans l’économie du pays. La ville de Lisbonne, destination européenne à la mode, a connu un afflux inédit de (...) #Résister

    / #Europe, #Climat, Biodiversité, #Multinationales, A la une

    #Biodiversité

  • Fermeture des vols intérieurs : « Si Aurillac est sur la liste, le Cantal est mort » | Public Senat
    https://www.publicsenat.fr/article/politique/fermeture-des-vols-interieurs-si-aurillac-est-sur-la-liste-le-cantal-est

    #Air_France_KLM va réduire de 40 % ses vols nationaux d’ici à 2021. Les sénateurs dont les territoires sont concernés par ces fermetures de ligne craignent l’#enclavement de leur région mais aussi les conséquences économiques.

    Pour Air France, un plan d’aide peu écolo et non contraignant
    https://reporterre.net/Pour-Air-France-un-plan-d-aide-peu-ecolo-et-non-contraignant

    Pour faire face aux conséquences économiques de la pandémie de Covid-19, le gouvernement va accorder 7 milliards d’euros d’aides à Air France. En échange, la compagnie est censée devenir « plus respectueuse de la planète ». Mais les conditions environnementales posées ne sont ni ambitieuses ni contraignantes

    Liens cités dans l’article de Reporterre :
    Réseau Action Climat, Climat : que vaut le plan du Gouvernement pour l’aérien ?, https://reseauactionclimat.org/publications/climat-que-vaut-le-plan-du-gouvernement-pour-laerien

    The Shift Project, « Crise(s), climat : préparer l’avenir de l’aviation » : les propositions du Shift de contreparties à l’aide publique au secteur aérien, https://theshiftproject.org/article/climat-preparer-avenir-aviation-propositions-shift-contreparties

    #changement_climatique #transport_aérien #aménagement_du_territoire #développement_durable

  • Covid-19, la #frontiérisation aboutie du #monde

    Alors que le virus nous a rappelé la condition de commune humanité, les frontières interdisent plus que jamais de penser les conditions du cosmopolitisme, d’une société comme un long tissu vivant sans couture à même de faire face aux aléas, aux menaces à même d’hypothéquer le futur. La réponse frontalière n’a ouvert aucun horizon nouveau, sinon celui du repli. Par Adrien Delmas, historien et David Goeury, géographe.

    La #chronologie ci-dessus représente cartographiquement la fermeture des frontières nationales entre le 20 janvier et le 30 avril 2020 consécutive de la pandémie de Covid-19, phénomène inédit dans sa célérité et son ampleur. Les données ont été extraites des déclarations gouvernementales concernant les restrictions aux voyages, les fermetures des frontières terrestres, maritimes et aériennes et des informations diffusées par les ambassades à travers le monde. En plus d’omissions ou d’imprécisions, certains biais peuvent apparaitre notamment le décalage entre les mesures de restriction et leur application.

    https://www.youtube.com/watch?time_continue=64&v=mv-OFB4WfBg&feature=emb_logo

    En quelques semaines, le nouveau coronavirus dont l’humanité est devenue le principal hôte, s’est propagé aux quatre coins de la planète à une vitesse sans précédent, attestant de la densité des relations et des circulations humaines. Rapidement deux stratégies politiques se sont imposées : fermer les frontières nationales et confiner les populations.

    Par un processus de #mimétisme_politique global, les gouvernements ont basculé en quelques jours d’une position minimisant le risque à des politiques publiques de plus en plus drastiques de contrôle puis de suspension des mobilités. Le recours systématique à la fermeture d’une limite administrative interroge : n’y a-t-il pas, comme répété dans un premier temps, un décalage entre la nature même de l’#épidémie et des frontières qui sont des productions politiques ? Le suivi de la diffusion virale ne nécessite-t-il un emboîtement d’échelles (famille, proches, réseaux de sociabilité et professionnels…) en deçà du cadre national ?

    Nous nous proposons ici de revenir sur le phénomène sans précédent d’activation et de généralisation de l’appareil frontalier mondial, en commençant par retrouver la chronologie précise des fermetures successives. Bien que resserrée sur quelques jours, des phases se dessinent, pour aboutir à la situation présente de fermeture complète.

    Il serait vain de vouloir donner une lecture uniforme de ce phénomène soudain mais nous partirons du constat que le phénomène de « frontiérisation du monde », pour parler comme Achille Mbembe, était déjà à l’œuvre au moment de l’irruption épidémique, avant de nous interroger sur son accélération, son aboutissement et sa réversibilité.

    L’argument sanitaire

    Alors que la présence du virus était attestée, à partir de février 2020, dans les différentes parties du monde, la fermeture des frontières nationales s’est imposée selon un principe de cohérence sanitaire, le risque d’importation du virus par des voyageurs était avéré. Le transport aérien a permis au virus de faire des sauts territoriaux révélant un premier archipel économique liant le Hubei au reste du monde avant de se diffuser au gré de mobilités multiples.

    Pour autant, les réponses des premiers pays touchés, en l’occurrence la Chine et la Corée du Sud, se sont organisées autour de l’élévation de barrières non-nationales : personnes infectées mises en quarantaine, foyers, ilots, ville, province etc. L’articulation raisonnée de multiples échelles, l’identification et le ciblage des clusters, ont permis de contrôler la propagation du virus et d’en réduire fortement la létalité. A toutes ces échelles d’intervention s’ajoute l’échelle mondiale où s‘est organisée la réponse médicale par la recherche collective des traitements et des vaccins.

    Face à la multiplication des foyers de contamination, la plupart des gouvernements ont fait le choix d’un repli national. La fermeture des frontières est apparue comme une modalité de reprise de contrôle politique et le retour aux sources de l’État souverain. Bien que nul dirigeant ne peut nier avoir agi « en retard », puisque aucun pays n’est exempt de cas de Covid-19, beaucoup d’États se réjouissent d’avoir fermé « à temps », avant que la vague n’engendre une catastrophe.

    L’orchestration d’une réponse commune concertée notamment dans le cadre de l’OMS est abandonnée au profit d’initiatives unilatérales. La fermeture des frontières a transformé la pandémie en autant d’épidémies nationales, devenant par là un exemple paradigmatique du nationalisme méthodologique, pour reprendre les termes d’analyse d’Ulrich Beck.

    S’impose alors la logique résidentielle : les citoyens présents sur un territoire deviennent comptables de la diffusion de l’épidémie et du maintien des capacités de prise en charge par le système médical. La dialectique entre gouvernants et gouvernés s’articule alors autour des décomptes quotidiens, de chiffres immédiatement comparés, bien que pas toujours commensurables, à ceux des pays voisins.

    La frontiérisation du monde consécutive de la pandémie de coronavirus ne peut se résumer à la seule somme des fermetures particulières, pays par pays. Bien au contraire, des logiques collectives se laissent entrevoir. A défaut de concertation, les gouvernants ont fait l’expérience du dilemme du prisonnier.

    Face à une opinion publique inquiète, un chef de gouvernement prenait le risque d’être considéré comme laxiste ou irresponsable en maintenant ses frontières ouvertes alors que les autres fermaient les leurs. Ces phénomènes mimétiques entre États se sont démultipliés en quelques jours face à la pandémie : les États ont redécouvert leur maîtrise biopolitique via les mesures barrières, ils ont défendu leur rationalité en suivant les avis de conseils scientifiques et en discréditant les approches émotionnelles ou religieuses ; ils ont privilégié la suspension des droits à grand renfort de mesures d’exception. Le risque global a alors légitimé la réaffirmation d’une autorité nationale dans un unanimisme relatif.

    Chronologie de la soudaineté

    La séquence vécue depuis la fin du mois janvier de l’année 2020 s’est traduite par une série d’accélérations venant renforcer les principes de fermeture des frontières. Le développement de l’épidémie en Chine alarme assez rapidement la communauté internationale et tout particulièrement les pays limitrophes.

    La Corée du Nord prend les devants dès le 21 janvier en fermant sa frontière avec la Chine et interdit tout voyage touristique sur son sol. Alors que la Chine développe une stratégie de confinement ciblé dès le 23 janvier, les autres pays frontaliers ferment leurs frontières terrestres ou n’ouvrent pas leurs frontières saisonnières d’altitude comme le Pakistan.

    Parallèlement, les pays non frontaliers entament une politique de fermeture des routes aériennes qui constituent autant de points potentiels d’entrée du virus. Cette procédure prend des formes différentes qui relèvent d’un gradient de diplomatie. Certains se contentent de demander aux compagnies aériennes nationales de suspendre leurs vols, fermant leur frontière de facto (Algérie, Égypte, Maroc, Rwanda, France, Canada, entre autres), d’autres privilégient l’approche plus frontale comme les États-Unis qui, le 2 février, interdisent leur territoire au voyageurs ayant séjournés en Chine.

    La propagation très rapide de l’épidémie en Iran amène à une deuxième tentative de mise en quarantaine d’un pays dès le 20 février. Le rôle de l’Iran dans les circulations terrestres de l’Afghanistan à la Turquie pousse les gouvernements frontaliers à fermer les points de passage. De même, le gouvernement irakien étroitement lié à Téhéran finit par fermer la frontière le 20 février. Puis les voyageurs ayant séjourné en Iran sont à leur tour progressivement considérés comme indésirables. Les gouvernements décident alors de politiques d’interdiction de séjour ciblées ou de mises en quarantaine forcées par la création de listes de territoires à risques.

    Le développement de l’épidémie en Italie amène à un changement de paradigme dans la gestion de la crise sanitaire. L’épidémie est dès lors considérée comme effectivement mondiale mais surtout elle est désormais perçue comme incontrôlable tant les foyers de contamination potentiels sont nombreux.

    La densité des relations intra-européennes et l’intensité des mobilités extra-européennes génèrent un sentiment d’anxiété face au risque de la submersion, le concept de « vague » est constamment mobilisé. Certains y ont lu une inversion de l’ordre migratoire planétaire. Les pays aux revenus faibles ou limités décident de fermer leurs frontières aux individus issus des pays aux plus hauts revenus.

    Les derniers jours du mois de février voient des gouvernements comme le Liban créer des listes de nationalités indésirables, tandis que d’autres comme Fiji décident d’un seuil de cas identifiés de Covid-19. Les interdictions progressent avec le Qatar et l’Arabie Saoudite qui ferment leur territoire aux Européens dès le 9 mars avant de connaître une accélération le 10 mars.

    Les frontières sont alors emportées dans le tourbillon des fermetures.

    La Slovénie débute la suspension de la libre circulation au sein de l’espace Schengen en fermant sa frontière avec l’Italie. Elle est suivie par les pays d’Europe centrale (Tchéquie, Slovaquie). En Afrique et en Amérique, les relations avec l’Union européenne sont suspendues unilatéralement. Le Maroc ferme ses frontières avec l’Espagne dès le 12 mars. Ce même jour, les États-Unis annonce la restriction de l’accès à son territoire aux voyageurs issu de l’Union européenne. La décision américaine est rapidement élargie au monde entier, faisant apparaitre l’Union européenne au cœur des mobilités planétaires.

    En quelques jours, la majorité des frontières nationales se ferment à l’ensemble du monde. Les liaisons aériennes sont suspendues, les frontières terrestres sont closes pour éviter les stratégies de contournements.

    Les pays qui échappent à cette logique apparaissent comme très minoritaires à l’image du Mexique, du Nicaragua, du Laos, du Cambodge ou de la Corée du Sud. Parmi eux, certains sont finalement totalement dépendants de leurs voisins comme le Laos et le Cambodge prisonniers des politiques restrictives du Vietnam et de la Thaïlande.

    Au-delà de ces gouvernements qui résistent à la pression, des réalités localisées renseignent sur l’impossible fermeture des frontières aux mobilités quotidiennes. Ainsi, malgré des discours de fermeté, exception faite de la Malaisie, des États ont maintenus la circulation des travailleurs transfrontaliers.

    Au sein de l’espace Schengen, la Slovénie maintient ses relations avec l’Autriche, malgré sa fermeté vis-à-vis de l’Italie. Le 16 mars, la Suisse garantit l’accès à son territoire aux salariés du Nord de l’Italie et du Grand Est de la France, pourtant les plus régions touchées par la pandémie en Europe. Allemagne, Belgique, Norvège, Finlande, Espagne font de même.

    De l’autre côté de l’Atlantique, malgré la multiplication des discours autoritaires, un accord est trouvé le 18 mars avec le Canada et surtout le 20 mars avec le Mexique pour maintenir la circulation des travailleurs. Des déclarations conjointes sont publiées le 21 mars. Partout, la question transfrontalière oblige au bilatéralisme. Uruguay et Brésil renoncent finalement à fermer leur frontière commune tant les habitants ont développé un « mode de vie binational » pour reprendre les termes de deux gouvernements. La décision unilatérale du 18 mars prise par la Malaisie d’interdire à partir du 20 mars tout franchissement de sa frontière prend Singapour de court qui doit organiser des modalités d’hébergement pour plusieurs dizaines de milliers de travailleurs considérés comme indispensables.

    Ces fermetures font apparaitre au grand jour la qualité des coopérations bilatérales.

    Certains États ferment d’autant plus facilement leur frontière avec un pays lorsque préexistent d’importantes rivalités à l’image de la Papouasie Nouvelle Guinée qui ferme immédiatement sa frontière avec l’Indonésie pourtant très faiblement touchée par la pandémie. D’autres en revanche, comme la Tanzanie refusent de fermer leurs frontières terrestres pour maintenir aux États voisins un accès direct à la mer.

    Certains observateurs se sont plu à imaginer des basculements dans les rapports de pouvoirs entre l’Afrique et l’Europe notamment. Après ces fermetures soudaines, le bal mondial des rapatriements a commencé, non sans de nombreuses fausses notes.

    L’accélération de la frontiérisation du monde

    La fermeture extrêmement rapide des frontières mondiales nous rappelle ensuite combien les dispositifs nationaux étaient prêts pour la suspension complète des circulations. Comme dans bien des domaines, la pandémie s’est présentée comme un révélateur puissant, grossissant les traits d’un monde qu’il est plus aisé de diagnostiquer, à présent qu’il est suspendu.

    Ces dernières années, l’augmentation des mobilités internationales par le trafic aérien s’est accompagnée de dispositifs de filtrage de plus en plus drastiques notamment dans le cadre de la lutte contre le terrorisme. Les multiples étapes de contrôle articulant dispositifs administratifs dématérialisés pour les visas et dispositifs de plus en plus intrusifs de contrôle physique ont doté les frontières aéroportuaires d’une épaisseur croissante, partageant l’humanité en deux catégories : les mobiles et les astreints à résidence.

    En parallèle, les routes terrestres et maritimes internationales sont restées actives et se sont même réinventées dans le cadre des mobilités dites illégales. Or là encore, l’obsession du contrôle a favorisé un étalement de la frontière par la création de multiples marches frontalières faisant de pays entiers des lieux de surveillance et d’assignation à résidence avec un investissement continu dans les dispositifs sécuritaires.

    L’épaisseur des frontières se mesure désormais par la hauteur des murs mais aussi par l’exploitation des obstacles géophysiques : les fleuves, les cols, les déserts et les mers, où circulent armées et agences frontalières. À cela s’est ajouté le pistage et la surveillance digitale doublés d’un appareil administratif aux démarches labyrinthiques faites pour ne jamais aboutir.

    Pour décrire ce phénomène, Achille Mbembe parlait de « frontiérisation du monde » et de la mise en place d’un « nouveau régime sécuritaire mondial où le droit des ressortissants étrangers de franchir les frontières d’un autre pays et d’entrer sur son territoire devient de plus en plus procédural et peut être suspendu ou révoqué à tout instant et sous n’importe quel prétexte. »

    La passion contemporaine pour les murs relève de l’iconographie territoriale qui permet d’appuyer les représentations sociales d’un contrôle parfait des circulations humaines, et ce alors que les frontières n’ont jamais été aussi polymorphes.

    Suite à la pandémie, la plupart des gouvernements ont pu mobiliser sans difficulté l’ingénierie et l’imaginaire frontaliers, en s’appuyant d’abord sur les compagnies aériennes pour fermer leur pays et suspendre les voyages, puis en fermant les aéroports avant de bloquer les frontières terrestres.

    Les réalités frontalières sont rendues visibles : la Norvège fait appel aux réservistes et retraités pour assurer une présence à sa frontière avec la Suède et la Finlande. Seuls les pays effondrés, en guerre, ne ferment pas leurs frontières comme au sud de la Libye où circulent armes et combattants.

    Beaucoup entretiennent des fictions géographiques décrétant des frontières fermées sans avoir les moyens de les surveiller comme la France en Guyane ou à Mayotte. Plus que jamais, les frontières sont devenues un rapport de pouvoir réel venant attester des dépendances économiques, notamment à travers la question migratoire, mais aussi symboliques, dans le principe de la souveraineté et son autre, à travers la figure de l’étranger. Classe politique et opinion publique adhèrent largement à une vision segmentée du monde.

    Le piège de l’assignation à résidence

    Aujourd’hui, cet appareil frontalier mondial activé localement, à qui l’on a demandé de jouer une nouvelle partition sanitaire, semble pris à son propre piège. Sa vocation même qui consistait à décider qui peut se déplacer, où et dans quelles conditions, semble égarée tant les restrictions sont devenues, en quelques jours, absolues.

    Le régime universel d’assignation à résidence dans lequel le monde est plongé n’est pas tant le résultat d’une décision d’ordre sanitaire face à une maladie inconnue, que la simple activation des dispositifs multiples qui préexistaient à cette maladie. En l’absence d’autres réponses disponibles, ces fermetures se sont imposées. L’humanité a fait ce qu’elle savait faire de mieux en ce début du XXIe siècle, sinon la seule chose qu’elle savait faire collectivement sans concertation préalable, fermer le monde.

    L’activation de la frontière a abouti à sa consécration. Les dispositifs n’ont pas seulement été activés, ils ont été renforcés et généralisés. Le constat d’une entrave des mobilités est désormais valable pour tous, et la circulation est devenue impossible, de fait, comme de droit. Pauvres et riches, touristes et hommes d’affaires, sportifs ou diplomates, tout le monde, sans exception aucune, fait l’expérience de la fermeture et de cette condition dans laquelle le monde est plongé.

    Seuls les rapatriés, nouveau statut des mobilités en temps de pandémie, sont encore autorisés à rentrer chez eux, dans les limites des moyens financiers des États qu’ils souhaitent rejoindre. Cette entrave à la circulation est d’ailleurs valable pour ceux qui la décident. Elle est aussi pour ceux qui l’analysent : le témoin de ce phénomène n’existe pas ou plus, lui-même pris, complice ou victime, de cet emballement de la frontiérisation.

    C’est bien là une caractéristique centrale du processus en cours, il n’y a plus de point de vue en surplomb, il n’y a plus d’extérieur, plus d’étranger, plus de pensée du dehors. La pensée est elle-même confinée. Face à la mobilisation et l’emballement d’une gouvernementalité de la mobilité fondée sur l’entrave, l’abolition pure et simple du droit de circuler, du droit d’être étranger, du droit de franchir les frontières d’un autre pays et d’entrer sur son territoire n’est plus une simple fiction.

    Les dispositifs de veille de ces droits, bien que mis à nus, ne semblent plus contrôlables et c’est en ce sens que l’on peut douter de la réversibilité de ces processus de fermeture.

    Réversibilité

    C’est à l’aune de ce constat selon lequel le processus de frontiérisation du monde était à déjà l’œuvre au moment de l’irruption épidémique que l’on peut interroger le caractère provisoire de la fermeture des frontières opérée au cours du mois de mars 2020.

    Pourquoi un processus déjà enclenché ferait machine arrière au moment même où il accélère ? Comme si l’accélération était une condition du renversement. Tout se passe plutôt comme si le processus de frontiérisation s’était cristallisé.

    La circulation internationale des marchandises, maintenue au pic même de la crise sanitaire, n’a pas seulement permis l’approvisionnement des populations, elle a également rappelé que, contrairement à ce que défendent les théories libérales, le modèle économique mondial fonctionne sur l’axiome suivant : les biens circulent de plus en plus indépendamment des individus.

    Nous venons bien de faire l’épreuve du caractère superflu de la circulation des hommes et des femmes, aussi longtemps que les marchandises, elles, circulent. Combien de personnes bloquées de l’autre côté d’une frontière, dans l’impossibilité de la traverser, quand le moindre colis ou autre produit traverse ?

    Le réseau numérique mondial a lui aussi démontré qu’il était largement à même de pallier à une immobilité généralisée. Pas de pannes de l’Internet à l’horizon, à l’heure où tout le monde est venu y puiser son travail, ses informations, ses loisirs et ses sentiments.

    De là à penser que les flux de data peuvent remplacer les flux migratoires, il n’y qu’un pas que certains ont déjà franchi. La pandémie a vite fait de devenir l’alliée des adeptes de l’inimitié entre les nations, des partisans de destins et de développement séparés, des projets d’autarcie et de démobilité.

    Alors que le virus nous a rappelé la condition de commune humanité, les frontières interdisent plus que jamais de penser les conditions du cosmopolitisme, d’une société comme un long tissu vivant sans couture à même de faire face aux aléas, aux zoonoses émergentes, au réchauffement climatique, aux menaces à même d’hypothéquer le futur.

    La réponse frontalière n’a ouvert aucun horizon nouveau, sinon celui du repli sur des communautés locales, plus petites encore, formant autant de petites hétérotopies localisées. Si les étrangers que nous sommes ou que nous connaissons se sont inquiétés ces dernières semaines de la possibilité d’un retour au pays, le drame qui se jouait aussi, et qui continue de se jouer, c’est bien l’impossibilité d’un aller.

    https://blogs.mediapart.fr/adrien-delmas/blog/280520/covid-19-la-frontierisation-aboutie-du-monde
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    ping @mobileborders @karine4 @isskein @thomas_lacroix @reka

    • Épisode 1 : Liberté de circulation : le retour des frontières

      Premier temps d’une semaine consacrée aux #restrictions de libertés pendant la pandémie de coronavirus. Arrêtons-nous aujourd’hui sur une liberté entravée que nous avons tous largement expérimentée au cours des deux derniers mois : celle de circuler, incarnée par le retour des frontières.

      https://www.franceculture.fr/emissions/cultures-monde/droits-et-libertes-au-temps-du-corona-14-liberte-de-circulation-le-ret

    • #Anne-Laure_Amilhat-Szary (@mobileborders) : « Nous avons eu l’impression que nous pouvions effectivement fermer les frontières »

      En Europe, les frontières rouvrent en ordre dispersé, avec souvent le 15 juin pour date butoir. Alors que la Covid-19 a atteint plus de 150 pays, la géographe Anne-Laure Amilhat-Szary analyse les nouveaux enjeux autour de ces séparations, nationales mais aussi continentales ou sanitaires.

      https://www.franceculture.fr/geopolitique/anne-laure-amilhat-szary-nous-avons-eu-limpression-que-nous-pouvions-e

    • « Nous sommes très loin d’aller vers un #repli à l’intérieur de #frontières_nationales »
      Interview avec Anne-Laure Amilhat-Szary (@mobileborders)

      Face à la pandémie de Covid-19, un grand nombre de pays ont fait le choix de fermer leurs frontières. Alors que certains célèbrent leurs vertus prophylactiques et protectrices, et appellent à leur renforcement dans une perspective de démondialisation, nous avons interrogé la géographe Anne-Laure Amilhat Szary, auteure notamment du livre Qu’est-ce qu’une frontière aujourd’hui ? (PUF, 2015), sur cette notion loin d’être univoque.

      Usbek & Rica : Avec la crise sanitaire en cours, le monde s’est soudainement refermé. Chaque pays s’est retranché derrière ses frontières. Cette situation est-elle inédite ? À quel précédent historique peut-elle nous faire penser ?

      Anne-Laure Amilhat Szary : On peut, semble-t-il, trouver trace d’un dernier grand épisode de confinement en 1972 en Yougoslavie, pendant une épidémie de variole ramenée par des pèlerins de La Mecque. 10 millions de personnes avaient alors été confinées, mais au sein des frontières nationales… On pense forcément aux grands confinements historiques contre la peste ou le choléra (dont l’efficacité est vraiment questionnée). Mais ces derniers eurent lieu avant que l’État n’ait la puissance régulatrice qu’on lui connaît aujourd’hui. Ce qui change profondément désormais, c’est que, même confinés, nous restons connectés. Que signifie une frontière fermée si l’information et la richesse continuent de circuler ? Cela pointe du doigt des frontières aux effets très différenciés selon le statut des personnes, un monde de « frontiérités » multiples plutôt que de frontières établissant les fondements d’un régime universel du droit international.

      Les conséquences juridiques de la fermeture des frontières sont inédites : en supprimant la possibilité de les traverser officiellement, on nie l’urgence pour certains de les traverser au péril de leur vie. Le moment actuel consacre en effet la suspension du droit d’asile mis en place par la convention de Genève de 1951. La situation de l’autre côté de nos frontières, en Méditerranée par exemple, s’est détériorée de manière aiguë depuis début mars.

      Certes, les populistes de tous bords se servent de la menace que représenteraient des frontières ouvertes comme d’un ressort politique, et ça marche bien… jusqu’à ce que ces mêmes personnes prennent un vol low-cost pour leurs vacances dans le pays voisin et pestent tant et plus sur la durée des files d’attentes à l’aéroport. Il y a d’une part une peur des migrants, qui pourraient « profiter » de Schengen, et d’autre part, une volonté pratique de déplacements facilités, à la fois professionnels et de loisirs, de courte durée. Il faut absolument rappeler que si le coronavirus est chez nous, comme sur le reste de la planète, c’est que les frontières n’ont pas pu l’arrêter ! Pas plus qu’elles n’avaient pu quelque chose contre le nuage de Tchernobyl. L’utilité de fermer les frontières aujourd’hui repose sur le fait de pouvoir soumettre, en même temps, les populations de différents pays à un confinement parallèle.

      Ne se leurre-t-on pas en croyant assister, à la faveur de la crise sanitaire, à un « retour des frontières » ? N’est-il pas déjà à l’œuvre depuis de nombreuses années ?

      Cela, je l’ai dit et écrit de nombreuses fois : les frontières n’ont jamais disparu, on a juste voulu croire à « la fin de la géographie », à l’espace plat et lisse de la mondialisation, en même temps qu’à la fin de l’histoire, qui n’était que celle de la Guerre Froide.

      Deux choses nouvelles illustrent toutefois la matérialité inédite des frontières dans un monde qui se prétend de plus en plus « dématérialisé » : 1) la possibilité, grâce aux GPS, de positionner la ligne précisément sur le terrain, de borner et démarquer, même en terrain difficile, ce qui était impossible jusqu’ici. De ce fait, on a pu régler des différends frontaliers anciens, mais on peut aussi démarquer des espaces inaccessibles de manière régulière, notamment maritimes. 2) Le retour des murs et barrières, spectacle de la sécurité et nouvel avatar de la frontière. Mais attention, toute frontière n’est pas un mur, faire cette assimilation c’est tomber dans le panneau idéologique qui nous est tendu par le cadre dominant de la pensée contemporaine.

      La frontière n’est pas une notion univoque. Elle peut, comme vous le dites, se transformer en mur, en clôture et empêcher le passage. Elle peut être ouverte ou entrouverte. Elle peut aussi faire office de filtre et avoir une fonction prophylactique, ou bien encore poser des limites, à une mondialisation débridée par exemple. De votre point de vue, de quel type de frontières avons-nous besoin ?

      Nous avons besoin de frontières filtres, non fermées, mais qui soient véritablement symétriques. Le problème des murs, c’est qu’ils sont le symptôme d’un fonctionnement dévoyé du principe de droit international d’égalité des États. À l’origine des relations internationales, la définition d’une frontière est celle d’un lieu d’interface entre deux souverainetés également indépendantes vis-à-vis du reste du monde.

      Les frontières sont nécessaires pour ne pas soumettre le monde à un seul pouvoir totalisant. Il se trouve que depuis l’époque moderne, ce sont les États qui sont les principaux détenteurs du pouvoir de les fixer. Ils ont réussi à imposer un principe d’allégeance hiérarchique qui pose la dimension nationale comme supérieure et exclusive des autres pans constitutifs de nos identités.

      Mais les frontières étatiques sont bien moins stables qu’on ne l’imagine, et il faut aujourd’hui ouvrir un véritable débat sur les formes de frontières souhaitables pour organiser les collectifs humains dans l’avenir. Des frontières qui se défassent enfin du récit sédentaire du monde, pour prendre véritablement en compte la possibilité pour les hommes et les femmes d’avoir accès à des droits là où ils vivent.

      Rejoignez-vous ceux qui, comme le philosophe Régis Debray ou l’ancien ministre socialiste Arnaud Montebourg, font l’éloge des frontières et appellent à leur réaffirmation ? Régis Débray écrit notamment : « L’indécence de l’époque ne provient pas d’un excès mais d’un déficit de frontières »…

      Nous avons toujours eu des frontières, et nous avons toujours été mondialisés, cette mondialisation se réalisant à l’échelle de nos mondes, selon les époques : Mer de Chine et Océan Indien pour certains, Méditerranée pour d’autres. À partir des XII-XIIIe siècle, le lien entre Europe et Asie, abandonné depuis Alexandre le Grand, se développe à nouveau. À partir du XV-XVIe siècle, c’est l’âge des traversées transatlantiques et le bouclage du monde par un retour via le Pacifique…

      Je ne suis pas de ces nostalgiques à tendance nationaliste que sont devenus, pour des raisons différentes et dans des trajectoires propres tout à fait distinctes, Régis Debray ou Arnaud Montebourg. Nous avons toujours eu des frontières, elles sont anthropologiquement nécessaires à notre constitution psychologique et sociale. Il y en a même de plus en plus dans nos vies, au fur et à mesure que les critères d’identification se multiplient : frontières de race, de classe, de genre, de religion, etc.

      Nos existences sont striées de frontières visibles et invisibles. Pensons par exemple à celles que les digicodes fabriquent au pied des immeubles ou à l’entrée des communautés fermées, aux systèmes de surveillance qui régulent l’entrée aux bureaux ou des écoles. Mais pensons aussi aux frontières sociales, celles d’un patronyme étranger et racialisé, qui handicape durablement un CV entre les mains d’un.e recruteur.e, celles des différences salariales entre femmes et hommes, dont le fameux « plafond de verre » qui bloque l’accès aux femmes aux fonctions directoriales. Mais n’oublions pas les frontières communautaires de tous types sont complexes car mêlant à la fois la marginalité choisie, revendiquée, brandie comme dans les « marches des fiertés » et la marginalité subie du rejet des minorités, dont témoigne par exemple la persistance de l’antisémitisme.

      La seule chose qui se transforme en profondeur depuis trente ans et la chute du mur de Berlin, c’est la frontière étatique, car les États ont renoncé à certaines des prérogatives qu’ils exerçaient aux frontières, au profit d’institutions supranationales ou d’acteurs privés. D’un côté l’Union Européenne et les formes de subsidiarité qu’elle permet, de l’autre côté les GAFAM et autres géants du web, qui échappent à la fiscalité, l’une des raisons d’être des frontières. Ce qui apparaît aussi de manière plus évidente, c’est que les États puissants exercent leur souveraineté bien au-delà de leurs frontières, à travers un « droit d’ingérence » politique et militaire, mais aussi à travers des prérogatives commerciales, comme quand l’Arabie Saoudite négocie avec l’Éthiopie pour s’accaparer ses terres en toute légalité, dans le cadre du land grabbing.

      Peut-on croire à l’hypothèse d’une démondialisation ? La frontière peut-elle être précisément un instrument pour protéger les plus humbles, ceux que l’on qualifie de « perdants de la mondialisation » ? Comment faire en sorte qu’elle soit justement un instrument de protection, de défense de certaines valeurs (sociales notamment) et non synonyme de repli et de rejet de l’autre ?

      Il faut replacer la compréhension de la frontière dans une approche intersectionnelle : comprendre toutes les limites qui strient nos existences et font des frontières de véritables révélateurs de nos inégalités. Conçues comme des instruments de protection des individus vivant en leur sein, dans des périmètres où l’Etat détenteur du monopole exclusif de la violence est censé garantir des conditions de vie équitables, les frontières sont désormais des lieux qui propulsent au contraire les personnes au contact direct de la violence de la mondialisation.

      S’il s’agit de la fin d’une phase de la mondialisation, celle de la mondialisation financière échevelée, qui se traduit par une mise à profit maximalisée des différenciations locales dans une mise en concurrence généralisée des territoires et des personnes, je suis pour ! Mais au vu de nos technologies de communication et de transports, nous sommes très loin d’aller vers un repli à l’intérieur de frontières nationales. Regardez ce que, en période de confinement, tous ceux qui sont reliés consomment comme contenus globalisés (travail, culture, achats, sport) à travers leur bande passante… Regardez qui consomme les produits mondialisés, du jean à quelques euros à la farine ou la viande produite à l’autre bout du monde arrivant dans nos assiettes moins chères que celle qui aurait été produite par des paysans proches de nous… Posons-nous la question des conditions dans lesquelles ces consommateurs pourraient renoncer à ce que la mondialisation leur offre !

      Il faut une approche plus fine des effets de la mondialisation, notamment concernant la façon dont de nombreux phénomènes, notamment climatiques, sont désormais établis comme étant partagés - et ce, sans retour possible en arrière. Nous avons ainsi besoin de propositions politiques supranationales pour gérer ces crises sanitaires et environnementales (ce qui a manqué singulièrement pour la crise du Cocid-19, notamment l’absence de coordination européenne).

      Les frontières sont des inventions humaines, depuis toujours. Nous avons besoin de frontières comme repères dans notre rapport au monde, mais de frontières synapses, qui font lien en même temps qu’elles nous distinguent. De plus en plus de personnes refusent l’assignation à une identité nationale qui l’emporterait sur tous les autres pans de leur identité : il faut donc remettre les frontières à leur place, celle d’un élément de gouvernementalité parmi d’autres, au service des gouvernants, mais aussi des gouvernés. Ne pas oublier que les frontières devraient être d’abord et avant tout des périmètres de redevabilité. Des espaces à l’intérieur desquels on a des droits et des devoirs que l’on peut faire valoir à travers des mécanismes de justice ouverts.

      https://usbeketrica.com/article/on-ne-va-pas-vers-repli-a-interieur-frontieres-nationales

  • Coronavirus : ce que les grandes épidémies disent de notre manière d’habiter le monde
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/05/21/ce-que-les-grandes-epidemies-disent-de-notre-maniere-d-habiter-le-monde_6040

    C’est une carte animée de la Chine qui donne le vertige. On y voit d’immenses flux de petits points verts se déplacer en étoile autour des métropoles : fondés sur les données de géolocalisation des téléphones portables, ces mouvements enregistrés pendant le Nouvel An chinois retracent les centaines de millions de voyages qui ont permis au coronavirus de conquérir la Chine depuis la ville de Wuhan. Au milieu du nuage de points verts, figurent nombre de petits points rouges – ce sont, précise le New York Times, les personnes infectées par le SARS-CoV-2.
    Le graphique suivant n’est guère plus rassurant : cette fois, les dizaines de milliers de points se dirigent vers Tokyo, Manille, Milan, Dubaï, Athènes, Buenos Aires, Islamabad, Los Angeles, Moscou, Singapour et Hongkong. En ce mois de janvier 2020, le New York Times recense 900 trajets par mois vers New York, 2 000 vers Sydney, 15 000 vers Banghok. Lorsque les vols au départ de Wuhan sont suspendus, fin janvier, il est déjà trop tard : les liaisons aériennes qui quadrillent le monde ont permis au virus de s’implanter sur tous les continents. « Dès la fin janvier, l’épidémie est présente dans plus de 30 villes et 26 pays », précise le quotidien.
    Pour l’immunologue Norbert Gualde, professeur à l’université de Bordeaux, ces graphiques illustrent à merveille le mécanisme des épidémies. « Ce n’est pas le virus, c’est l’homme qui fait l’épidémie, rappelle-t-il. Le virus est sédentaire : il n’a aucun moyen de locomotion. Pour se déplacer, il lui faut passer de corps en corps. C’est ce qu’exprime l’étymologie du mot épidémie : le terme est emprunté au latin médical “epidemia”, lui-même issu de la racine grecque “epidemos” – “epi”, qui circule, “demos”, dans le peuple. »

    #Covid-19#migrant#migration#santé#épidémie#circulations#santé#transports

    • La carte du New York Times aurait sans doute stupéfié les médecins qui, de la Renaissance au XIXe siècle, invoquaient au contraire la toute-puissance du « genius loci » (génie des lieux). « Ils croyaient fermement que l’apparition épidémique de certaines maladies était la conséquence des influences telluriques et cosmiques sur une région déterminée » , souligne l’historien de la médecine Mirko Drazen Grmek (1924-2000), en 1963, dans Les Annales. A l’époque, nul ne redoutait les épidémies mondiales : l’heure était au contraire à la recherche des « conditions géographiques et astrales » qui engendraient, dans chaque lieu, des maladies singulières.

      Cette tradition de la « topographie médicale » atteint son apogée au XVIIIe siècle avant de décliner à la fin du siècle suivant. Les découvertes de Louis Pasteur (1822-1895) et de Robert Koch (1843-1910) sur les micro-organismes pathogènes et leur contagion donnent le coup de grâce à une discipline qui souffre, selon Mirko Drazen Grmek, de son « caractère trop général » et de ses « synthèses précipitées » . Dès la fin du XIXe siècle, l’hygiéniste américain John Shaw Billings (1838-1913) n’hésite d’ailleurs pas à moquer ses confrères : il compare leur simplisme et leur naïveté à celle de chimistes qui voudraient analyser la composition d’un rat en le mettant tout entier dans un vase d’expérience.

      « Un passager clandestin planétaire »

      Le Covid-19 montre en effet que si les maladies contagieuses apparaissent plus aisément sous certains cieux, elles restent rarement prisonnières des « topographies médicales » imaginées aux XVIIe et XVIIIe siècles. Comme ses prédécesseurs, le SARS-CoV-2 s’est promené dans le vaste monde au gré des voyages des hommes : il est monté avec eux dans les trains, a emprunté des vols long-courriers, a séjourné dans des bateaux de croisière, a pris des autobus de banlieue. Le coronavirus est un « passager clandestin planétaire » qui suit pas à pas nos déplacements, résume le géographe Michel Lussault : comme toutes les épidémies, il raconte les allées et venues des hommes.

      Née en Chine, la « peste noire » met ainsi plus d’une quinzaine d’années, au Moyen Age, pour atteindre l’Europe. Apparu au début des années 1330, le mal emprunte, au rythme des déplacements humains, les routes commerciales entre l’Asie et l’Europe jusqu’à Caffa, un comptoir génois de Crimée où se joue le « futur drame de l’Occident » , notent Stéphane Barry et Nobert Gualde dans La Peste noire dans l’Occident chrétien et musulman (Ausonius, 2007). En 1345-1346, un chef militaire qui assiège la ville jette par-dessus l’enceinte des cadavres pestiférés. « Si certains historiens s’interrogent sur la véracité de cet événement, il est certain qu’une terrible épidémie éclate parmi la population. » En 1346, plusieurs navires partis de Caffa répandent alors la peste dans toute l’Europe.

      Le mal se propage au fil des mois sur les côtes de la mer Noire, en Grèce, en Crète, à Chypre, avant de débarquer, le 1er novembre 1347, dans le port de Marseille. Il emprunte ensuite les voies commerciales terrestres et fluviales : la peste franchit les Alpes, frappe la Suisse et progresse vers l’Allemagne et les Pays-Bas. En Europe du Nord, elle traverse à nouveau la mer pour se répandre en Angleterre, puis, en 1349, en Irlande et en Ecosse. En 1350, elle atteint la Scandinavie, puis tout l’espace hanséatique, avant de toucher Moscou en 1352.

      Routes commerciales et conflits militaires

      Si les épidémies empruntent volontiers les routes commerciales tracées par les hommes, elles savent aussi tirer habilement parti des conflits militaires. Lors de la guerre de 1870-1871, les troupes françaises et prussiennes disséminent ainsi la variole sur l’ensemble du territoire. « Pendant l’année 1869 et le commencement de 1870, les épidémies demeurèrent locales ou ne se propagèrent, par voisinage, qu’à de très courtes distances , constate, en 1873, Paul-Emile Chauffard, rapporteur de l’Académie de médecine. Mais lorsque la guerre amena ce grand mouvement de population qui suivit nos premiers désastres, l’épidémie reprit de toutes parts une nouvelle intensité. »

      Pendant le conflit, les soldats du Second Empire contaminent en effet les populations civiles. « Ils promènent la variole partout avec eux et les populations fuyant le flot envahisseur l’entraînent avec elles dans des retraites où elle n’avait pas encore sévi » , poursuit Paul-Emile Chauffard. Une fois faits prisonniers, les militaires français exportent le virus dans les pays frontaliers. « A mesure des batailles perdues, ils sont envoyés dans des camps en Prusse , raconte, en 2011, l’historien des sciences Gérard Jorland dans la revue Les Tribunes de la santé. La population civile allemande, par le biais de ses interactions avec les prisonniers, est contaminée. »

      Les réfugiés de Sedan propagent l’épidémie en Belgique, où elle fait plus de 33 000 morts en 1870-1872. Les volontaires italiens qui ont combattu en Côte-d’Or l’implantent à Naples, Milan, Turin et Gênes en rentrant chez eux. Les Français qui fuient les combats emportent le virus en Angleterre, où il provoque plus de 40 000 morts en 1871-1872. De ces pays, l’épidémie se répand en Irlande, en Ecosse, aux Pays-Bas, au Danemark, en Suède, en Autriche et en Russie avant de conquérir les Etats-Unis, le Japon, le Chili, Hawaï, l’Australie, Bornéo, Ceylan et l’Inde. Dans la seule Europe, l’épidémie fait 500 000 morts.

      Une cinquantaine d’années plus tard, au début du XXe siècle, c’est une nouvelle fois la guerre qui précipite la diffusion planétaire de la grippe espagnole. « L’épidémie, qui est repérée au Kansas au début du printemps 1918, franchit l’Atlantique grâce au premier conflit mondial, explique le géographe Freddy Vinet. La progression du virus suit les mouvements de troupes : au printemps 1918, les soldats américains envoyés sur le front diffusent le virus dans toute l’Europe, et à l’automne 1918, les militaires engagés sur le sol européen retournent chez eux en disséminant cette fois le virus dans les territoires coloniaux et les pays alliés. »

      Une guerre éclair

      Dans La Grande Grippe-1918, la pire épidémie du siècle (Vendémiaire, 2018), Freddy Vinet reconstitue en détail l’itinéraire de cette épidémie qui a fait plus de victimes que la première guerre mondiale. « Pour un virus se transmettant par voie respiratoire, les déplacements de troupes à l’échelle du globe sont une aubaine , explique-t-il. En 1918, plus de vingt pays sont en guerre, auxquels s’ajoutent les empires coloniaux – la quasi-totalité de l’Afrique, les Indes britanniques, les Indes Orientales néerlandaises (Indonésie), la Caraïbe… Les seuls recoins de la planète épargnés par le virus le doivent à leur isolement ou à des quarantaines strictes. »

      Comme le bacille de la peste ou le virus de la grippe espagnole, le SARS-CoV-2 a envahi la planète en se glissant discrètement dans les bagages des hommes. Mais il l’a fait à une tout autre allure : la peste médiévale avait mis près de vingt ans pour passer des terres mongoles au port de Marseille, et le virus de la grippe espagnole, une année pour se répandre sur toute la Terre. Le coronavirus a, lui, mené une guerre éclair : apparu au mois de décembre en Chine, il a franchi les frontières et les océans à une vitesse foudroyante. Le 8 mars, plus de 100 pays avaient déjà signalé des cas de Covid-19.

      Que nous disent ces épidémies de la géographie du monde ? En quoi témoignent-elles de notre manière d’habiter la planète ? La « peste noire » médiévale racontait la vitalité des routes commerciales entre l’Asie et l’Europe, et la grippe espagnole, l’ampleur des transports de troupes pendant la première guerre mondiale. Pour le géographe Michel Lussault, le SARS-CoV-2 est le signe que notre monde est devenu un « buissonnement d’interdépendances géographiques » : le moindre événement local se diffuse désormais sans délai à l’ensemble de la planète à la manière du battement d’ailes du papillon évoqué en 1972 par le météorologue Edward Lorenz.

      Le coronavirus remet frontalement en question nos modes de vie
      Pour l’économiste Laurent Davezies, professeur au Conservatoire national des arts et métiers, le coronavirus remet frontalement en question nos modes de vie. « Tout ce que nous considérions il y a encore quelques mois comme vertueux est devenu vicieux. La mondialisation a fait reculer la pauvreté comme jamais dans l’histoire de l’humanité mais elle a précipité l’extension de l’épidémie. La densité urbaine des métropoles a boosté l’innovation technologique mais elle a favorisé les contaminations. Le SARS-CoV-2 nous montre que la concentration et la mobilité qui régissent désormais la planète peuvent engendrer de graves périls. »

      Si les hommes se sont toujours déplacés, le monde contemporain est en effet caractérisé par une explosion mobilitaire sans précédent. « Tout bouge, sans cesse : objets, marchandises, matières, données, informations, humains, animaux, et tout emprunte des voies innombrables – terrestres, maritimes, aériennes, satellitaires, filaires, constatent Michel Lussault et Cynthia Ghorra-Gobin, en 2015, dans la revue Tous urbains (PUF). Tout est sans cesse en contact avec tout et cela témoigne de la vigoureuse montée en puissance des pratiques mais aussi des imaginaires et des cultures de la connectivité. »

      Les déplacements à l’intérieur des frontières ont beaucoup augmenté : un Français parcourt en moyenne près de 15 000 kilomètres par an contre moins de 10 000 en 1980. Le nombre de voyages à l’étranger a, lui aussi, explosé : en 2018, près de 1,5 milliard d’individus ont, au cours de l’année, franchi une frontière pour effectuer, loin de leur domicile, un séjour de moins d’un an, ce qui représente une progression de 50 % en une décennie. La tendance à franchir toujours plus les frontières n’est ni une mode ni une anomalie, résume François Héran, professeur au Collège de France : c’est une « lame de fond » .

      Les marchandises, elles aussi, ne cessent de se déplacer

      Pour Laurent Davezies, cette mobilité représente une « transformation radicale ». « Pendant des siècles, les Français avaient été assignés à résidence dans un territoire. Mais aujourd’hui, tout a changé : selon le sociologue Jean Viard, le travail, entre la naissance et la mort, ne représente plus que 12 % à 13 % de notre vie. L’immense plage de temps libéré par ce recul des contraintes professionnelles est consacrée à des activités qui supposent des déplacements – faire des études à l’étranger, visiter une ville pendant les vacances, partir en week-end, effectuer des visites familiales pendant la retraite. »

      Les marchandises, elles aussi, ne cessent de se déplacer. Dans un livre publié en 1996, Mondialisation, villes et territoires (PUF), l’économiste Pierre Veltz décrivait les rouages de l’ « économie d’archipel » composée par le réseau planétaire des grandes régions urbaines. « Ces métropoles concentrent l’essentiel des flux de toute nature, et notamment ceux d’une production industrielle de plus en plus éclatée, explique-t-il. Pour fabriquer une brosse à dents électrique, les piles viennent de Tokyo, l’assemblage est fait à Shenzhen et les tests aux Philippines. L’acier vient de Suède et le plastique d’Autriche. Au total, les composants parcourent plus de 30 000 kilomètres par air, par mer ou par route, avant de servir le marché californien. »

      Dans cette nébuleuse hyperconnectée qu’est devenu le monde, les villes jouent un rôle capital. L’urbanisation de la planète est, selon Michel Lussault, une mutation comparable à celle du néolithique ou de la Révolution industrielle : aujourd’hui, plus de 4 milliards de personnes vivent en ville – et toutes ces zones urbaines sont reliées. « Loin de se réduire à un centre historique et à un quartier d’affaires, la métropole contemporaine doit plutôt s’appréhender comme un entrelacs de réseaux qui mettent quotidiennement en relation des lieux de formes, de tailles et de fonctions très diverses » , analysent le géographe Eric Charmes et le politiste Max Rousseau dans un article publié sur le site de la Vie des idées.

      Cette révolution ne s’est pas contentée d’engendrer des « world-cities » comme New York, Londres ou Tokyo : elle a également fait disparaître les frontières qui séparaient les villes des campagnes. « Aujourd’hui, en France, le monde rural est habité par des gens qui sont en relation permanente avec le monde urbain, souligne Laurent Davezies. La moitié des actifs qui vivent à la campagne travaillent en ville et tous fréquentent des circuits de consommation situés dans des territoires urbanisés. Les va-et-vient sont permanents – au point que certains géographes ont renoncé à utiliser les termes rural et urbain : ils parlent simplement d’une variation de la densité. Il n’y a pas de changement radical de mode de vie entre ces deux mondes. »

      Le bouleversement des pratiques sociales

      Selon le géographe et urbaniste Jacques Lévy, cette culture mondiale de la mobilité a provoqué un véritable changement d’échelle du monde. « A l’époque de la peste médiévale, les villageois se déplaçaient dans un réseau, comme nous, mais à l’échelle de la marche ou du cheval, explique le professeur à l’Ecole polytechnique fédérale de Lausanne. La modernité a inventé un espace d’échelle mondiale à partir des espaces préexistants d’échelle inférieure. Certaines civilisations anciennes avaient imaginé sans y croire qu’un jour, elles pourraient se pencher au-dessus d’une corniche pour regarder l’ensemble du monde. Nous y sommes. »

      Le plus étrange, poursuit Jacques Lévy, c’est que cette stupéfiante mutation s’est accomplie en l’absence de révolution des transports. « Les voitures et surtout les avions ne vont pas tellement plus vite que dans les années 1950, constate-t-il. L’explosion des mobilités n’est donc pas liée au changement de la vitesse nominale des transports mais au bouleversement des pratiques sociales. A l’époque préfordiste, la mobilité était pendulaire – elle se résumait aux trajets domicile-travail. Avec le fordisme, s’y sont ajoutés des voyages liés aux vacances et aux loisirs. Aujourd’hui, le trajet domicile-travail ne représente plus que 20 % des déplacements. »

      Pour illustrer ce changement d’échelle, Jacques Lévy, Ogier Maître et Thibault Romany ont imaginé en 2016, dans la revue Réseaux , une nouvelle manière de cartographier le monde. A la métrique euclidienne classique – la distance kilométrique entre deux points –, ils ont substitué, pour 35 villes de plus de dix millions d’habitants, une « métrique de réseau » fondée sur le temps de transport entre les mégapoles. Cette carte ne cherche pas à représenter la topographie physique : elle s’efforce de dessiner les nouvelles lignes de force de l’espace mondial, faites de « réseaux et plus particulièrement de rhizomes » .

      Le concept de rhizome

      Inventé en 1980, par Gilles Deleuze et Félix Guattari, le concept de rhizome désigne des réseaux aux frontières floues dont les éléments s’influencent en permanence les uns les autres. Depuis la fin du XXe siècle, les « rhizomes ouverts de l’individu, urbain et mondialisé, contemporain » ont remplacé les « petits pays enclavés du paysan » , conclut l’article. « Notre carte fait apparaître des ensembles que les transports ont rapprochés, même s’ils restent éloignés en kilomètres , ajoute Jacques Lévy. Cette trame du monde qui met en exergue les lieux forts et les liens rapides correspond parfaitement à la géographie de l’épidémie : le coronavirus colle à la planète interconnectée. »

      C’est en effet en parcourant ces rhizomes que le coronavirus a conquis le monde à la vitesse de l’éclair. Il ne s’est pas contenté d’emprunter les avions, les bateaux ou les trains : il a prospéré dans les espaces publics interconnectés du monde contemporain que sont les gares, les stades de foot ou les galeries marchandes, ces lieux de sociabilité intense où les hommes se frôlent avant de se connecter à un autre pôle, un autre réseau, une autre ramification. « A l’échelle mondiale, l’infrastructure spatiale de cette épidémie, ce sont les hubs – les hubs stricto sensu que sont les aéroports, mais aussi les centralités plus spécialisées que sont, par exemple, les centres commerciaux » , résume Jacques Lévy.

      Avec la pandémie de Covid-19, la planète urbanisée et hyperconnectée de ce début de XXIe siècle s’est révélée extrêmement vulnérable : pour un virus aussi contagieux que le SARS-CoV-2, les flux, les rhizomes, les plates-formes, les liens et les réseaux constituent un véritable paradis. La lutte contre le coronavirus a donc imposé aux habitants de la planète un revirement radical : il a fallu immobiliser brutalement un monde qui vénérait depuis des décennies le principe de la mobilité. Reprendra-t-il, une fois que la pandémie sera vaincue, sa folle course – au risque de voir renaître de nouvelles épidémies ? Nul ne le sait encore.

      #villes #métropole #mobilité #voyage #transport_aérien #peste_noire #variole #grippe_espagnole

  • Coronavirus : Air France distribue des masques si la distanciation sociale n’est pas respectée
    https://www.latribune.fr/entreprises-finance/services/transport-logistique/coronavirus-air-france-va-distribuer-des-masques-si-la-distanciation-socia

    Air France va distribuer des masques aux passagers qui n’en possèdent pas déjà « dans les cas où la distanciation n’est pas possible » dans l’avion en raison de son fort taux de remplissage, a annoncé la compagnie aérienne lundi 20 avril.

    Air France prend des mesures : l’entreprise distribue depuis dimanche des masques lorsque les « règles de distanciation sociale » ne peuvent pas être respectées, assure la direction. "Sur la quasi-totalité de nos vols, les faibles taux de remplissage actuels permettent la mise en place d’une distanciation sociale", a précisé la compagnie dans un tweet intitulé « informations Covid-19 ». Mais "dans les cas où la distanciation n’est pas possible, nos équipages distribuent désormais à la porte de l’avion des masques aux clients qui n’en possèdent pas déjà", a-t-elle ajouté.

    Cette mise au point intervient à la suite de la publication samedi d’une photo sur Twitter montrant des passagers installés côte à côte à bord d’un vol Paris-Marseille. "Paris-Marseille ce matin. Après avoir fait la queue en respectant la distanciation sociale, les passagers se retrouvent assis côte à côte.Le vol est complet. Apparté : aucun contrôle d’attestation pour vérifier les motifs de déplacement", a commenté la journaliste auteure du tweet.

    • Air France m’a dit être en capacité à compter d’aujourd’hui et jusqu’aux annonces des dispositions nationales relatives au déconfinement progressif de doter de masques au cas par cas les passagers qui en ressentiraient le besoin", a-t-il ajouté. Air France a précisé que "l’air en cabine est renouvelé toutes les trois minutes par un système équipé de filtres identiques à ceux utilisés dans les blocs opératoires qui extraient les plus petits virus, dont [celui responsable du] Covid-19" .

      #masques #cadres #transport_aérien

    • Ben voila, euréka, on n’a qu’à se faire extraire le virus en prenant l’avion matin et soir. Professeur Bingu va nous breveter un système de centrifugeuse à l’entrée des magasins et des usines. Je ne sais pas si la population sera d’accord mais il est temps d’ouvrir le débat.

  • Quand on regarde un site comme
    https://www.flightradar24.com/46.18,-45.99/4
    on se rend compte que l’activité de transport aérien n’a quasiment pas baissé aux États-Unis. Il est donc fort probable que l’activité commerciale non plus. Je jette un coup d’œil une ou 2 fois par jour depuis une bonne quinzaine de jours et c’est toujours le même scénario. Business as usual en somme...

    À noter qu’en Europe on garde un trafic assez conséquent au dessus de l’Allemagne, mais il faudrait démêler un peu, car il y a pas mal de vols « en transit » au dessus du pays.

    #transport_aérien #coronavirus #covid19 #pandémie

  • Trois façons dont la COVID-19 changera nos vies
    Ximena Sampson, Radio Canada, le 29 mars 2020
    https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/1689094/covid-19-pandemie-changements-voyages-teletravail-surveillance-comm

    1. Nous ne voyagerons plus comme avant

    2. Nous serons plus surveillés que jamais

    3. Le télétravail va se généraliser

    #coronavirus #surveillance #fasctistovirus #le_jour_d'après

    Voir compile des effets délétères indirects de la pandémie :
    https://seenthis.net/messages/832147

  • Autour des avions et de la #diffusion du #coronavirus, dans la conférence de #Sansonetti :


    –-> plutôt que la théorie du #climat (là où il fait chaud, pas de virus), c’est celle des connexions par #avion qui serait à privilégier pour la #propagation du #virus...

    La conférence :
    https://seenthis.net/messages/834008

    #géographie #ressources_pédagogiques #coronavirus
    Et comme dit ma collègue Sarah Mekdjian :

    j’ajoute à mon TD sur le #déterminisme_climatique

    #déterminisme_géographique #avions #transports #températures #Afrique #Asie #Europe #transport_aérien #température #cartographie #visualisation

    #Philippe_Sansonetti

    • Reçu d’une amie à qui j’ai envoyé le commentaire ci-dessus

      Avevo visto la cartina in gennaio : une crisi annunciata.

      Pensa te che Zurigo in febbraio ha chiuso i voli diretti con la Cina, Ginevra no (3 voli /settimana con Pechino). All’atterraggio ricevevano un foglio dell’ufsp con scritto: in CH non é obbligatorio portare la mascherina (gettatela uscendo dall’aereo). Poi nessun controllo (febbre, quarantena... niente ).

      Morale ? Confronta il numero di casi à GVA e ZH !

      La politica ginevrina Del non chiudere l’aeroporto a Ginevra é stata spiegata pubblicamente dal medico cantonale il 25 febbraio all’unige (conferenza disponibile su mediaserver dell’uni).

      Remarque : la conferenza era sul mezzo giorno e gli esperti facevano « blagues » perché « je vous rappelle qu’au jour d’aujourd’hui il n’y a aucun cas en Suisse »..... un’ ora dopo la stampa annunciava il primo caso in Ticino. Tu vuoi farmi credere che il medico cantonale non lo sapevo ????

      #Suisse #Zurich #aéroports #Genève

    • Coronavirus en Afrique : pourquoi la catastrophe annoncée n’a pas eu lieu ?

      Les experts annoncent depuis des mois une déferlante de l’épidémie de coronavirus en Afrique, où la pauvreté et le manque d’infrastructures de santé font craindre le pire. Pourtant, alors que le premier cas remonte au 14 février sur le continent, la vague n’est toujours pas arrivée. Comment expliquer cette relative préservation ?

      Depuis le premier cas de coronavirus sur le continent, le 14 février en Égypte, les experts nous prédisent un scénario effrayant. L’Afrique allait être rapidement submergée par la pandémie de Covid-19 avec à la clé un cataclysme sanitaire dans un continent pauvre au système de santé défaillant. L’Organisation mondiale de la Santé (OMS) appelle presque chaque jour le continent « à se préparer au pire ». Deux mois plus tard, le tsunami n’a toujours pas eu lieu, alors que les pays européens et les États-Unis sont violemment frappés.
      L’Afrique est le continent le moins touché par l’épidémie de coronavirus

      Avec 1.216 décès et 26.058 cas recensés au 22 avril, l’Afrique est le continent le moins touché par l’épidémie de coronavirus. L’Algérie, est le pays qui déplore le plus grand nombre de décès (402) devant l’Égypte, le Maroc et l’Afrique du Sud. Par comparaison, la France et ses 66 millions d’habitants a dépassé la barre des 20.000 morts du Covid-19. Alors pourquoi l’Afrique avec ses 1,2 milliard d’habitants semble échapper à l’épidémie ?

      Évidemment, le faible nombre de tests et le manque de données faussent en partie le bilan, le nombre de cas étant sans doute largement sous-estimé. Le chef du Centre africain de contrôle et de prévention des maladies, John Nkengasong, concède à l’AFP que, faute de tests, les statistiques ne sont pas parfaites. Mais il écarte l’idée que de nombreux cas passent sous les radars. « Les hôpitaux seraient envahis de malades, ce qui n’est pas le cas », confirme le médecin. D’autres facteurs peuvent en revanche apporter quelques pistes d’explication.

      Une longueur d’avance

      L’épidémie a gagné l’Afrique quelques semaines après l’Europe, permettant à ses dirigeants d’adopter des mesures préventives très en amont. « Avant même la détection des premiers cas de coronavirus sur le sol rwandais, nous avons pris très tôt des mesures d’hygiène qui ont été appliquées sur presque toute l’étendue du territoire », corrobore le docteur Sabin Nsanzimana, directeur général du Rwanda Biomedical Centre, à RFI. L’Afrique du Sud, la Tunisie, le Maroc et l’Algérie ont imposé un confinement et des couvre-feux avant que l’épidémie n’ait eu le temps de se propager.
      Une faible densité de population

      Avec 43 habitants par kilomètre carré, contre 181 en Europe de l’Ouest ou 154 en Asie du Sud-Est, l’Afrique demeure un continent faiblement peuplé dans la plupart des régions. Les habitants sont généralement concentrés dans les capitales, qui ont été très tôt confinées. En Côte d’Ivoire, le grand Abidjan est ainsi officiellement isolé du reste du pays depuis le 30 mars. Idem au Lagos, où les habitants des deux mégalopoles, Abuja et Lagos, ont interdiction de quitter la ville. Cette faible densité limite considérablement les contacts et donc la transmission du virus.

      Moins de circulation des personnes

      Contrairement à la plupart des pays occidentaux, de nombreuses régions africaines restent très isolées et vivent en quasi-autarcie. Le virus circule donc très peu dans la population. L’Afrique est également beaucoup moins touristique que l’Europe ou les États-Unis. Sur les 50 aéroports les plus fréquentés au monde, un seul est africain (celui de Johannesburg). L’Afrique ne compte pas non plus de diaspora importante comme la Chine ou l’Inde, qui doivent faire face au retour de nombreux étudiants revenant de l’étranger. Peu de grands mouvements de population ont d’ailleurs été constatés en Afrique subsaharienne.
      Une pyramide des âges beaucoup plus jeune

      Environ 60 % de la population africaine est âgée de moins de 25 ans. Or, le coronavirus frappe plus particulièrement les personnes âgées : en France, 75 % des personnes décédées du Covid-19 ont plus de 75 ans. L’Italie du Nord, région la plus touchée au monde, est aussi caractérisée par une très forte population âgée. « En Afrique, il n’y a plus de vieux à tuer sur le continent » résume sarcastiquement l’écrivain ivoirien Gauz, dans une tribune sur le site de Jeune Afrique. L’Afrique présente aussi un très faible taux d’obésité, qui est un facteur de risque majeur de mortalité au Covid-19.

      Une immunité pré-existante ?

      Une étude préliminaire du NHS (National Health Service) et de King’s College montre une corrélation négative entre les pays affectés par la malaria et ceux touchés par le Covid-19, qu’elle explique par un possible effet protecteur des traitements prophylactiques pour la malaria comme la chloroquine contre le coronavirus. Or, 93 % des cas de malaria sont enregistrés en Afrique, selon l’OMS. D’après une autre étude, c’est la vaccination systématique du BCG déployée en Afrique qui pourrait expliquer l’immunisation de la population. Les pays sans politique de vaccination universelle du BCG comme l’Italie et les États-Unis sont à l’inverse les plus touchés par le Covid-19, notent les auteurs. Des corrélations qui n’apportent toutefois aucune preuve de cause à effet.
      Famine, criquets, effondrement de l’économie : ces autres menaces bien plus concrètes

      Malgré ces atouts, l’Afrique risque pourtant de faire les frais de l’épidémie de Covid-19. Conséquence de la fermeture des frontières, des mesures de confinement et de la hausse des prix des denrées alimentaires, « le nombre de personnes menacées de famine en Afrique de l’Ouest pourrait quasi tripler en trois mois », a ainsi alerté l’ONG Oxfam le 21 avril. Une invasion de criquets fait également des ravages en ce moment en Afrique de l’Est. En Éthiopie, 200.000 hectares de terres agricoles ont été dévorées et un million de personnes ont désormais besoin d’une aide alimentaire d’urgence. La pandémie de coronavirus a également mis à l’arrêt la plupart des campagnes de vaccination contre la polio, la rougeole ou la diphtérie. En Afrique, le coronavirus est loin d’être la priorité des habitants.

      https://www.futura-sciences.com/alternative/amp/actualite/79699/?__twitter_impression=true
      #pyramide_des_âges #densité_de_population

  • How Guilty Should You Feel About Flying ? - The New York Times
    https://www.nytimes.com/interactive/2019/10/17/climate/flying-shame-emissions.html?smtyp=cur&smid=tw-nytimes

    The Swedes call it “flygskam,” or “flying shame,” the movement that encourages people to stop taking flights to lower their carbon footprints.

    But should most Americans really be ashamed of getting on a plane to see grandma this holiday season?

    The short answer: Probably not. If your flights are purely a luxury, though, that’s another matter.

    Probably not mais le droit de voler des personnes qui peuvent se le permettre devra un jour être remis en cause pour cause d’allocation plus juste des ressources et de lutte contre le changement climatique...
    #aviation

  • #Transport_aérien : des sénateurs veulent conforter les lignes d’#aménagement_du_territoire
    https://www.banquedesterritoires.fr/transport-aerien-des-senateurs-veulent-conforter-les-lignes-dam

    Dans son rapport présenté ce 3 octobre, la mission sénatoriale d’information sur les transports aériens et l’aménagement des territoires défend le rôle de l’avion qu’elle juge « vital » pour désenclaver les territoires isolés et répondre aux besoins de leurs habitants, en métropole et en outre-mer. Malgré le dénigrement dont il fait l’objet, le transport aérien peut être inscrit dans une trajectoire durable, selon elle. La mission formule 30 propositions concrètes dont plusieurs concernent directement le rôle des régions et des départements.

    […] Dans son septième axe de préconisations, la mission met en avant plusieurs propositions visant à concilier le #désenclavement aérien des territoires avec le #développement_durable. Tout d’abord, à propos de l’#écocontribution sur les billets d’avion mise en place dans le projet de loi de finances 2020, la mission va proposer via un amendement d’instaurer un abattement prenant en compte le degré de substituabilité entre l’aérien et le train. « Par exemple, un vol Paris-Lyon (52 minutes de différence entre le train et l’avion) ne bénéficierait pas d’abattement et serait pleinement imposé. En revanche, pour un vol Paris-Nice (4 heures 20 d’écart entre le train et l’avion), un abattement de 100 % sur la taxe carbone serait appliqué », illustre Josiane Costes.

    Le rapport : http://www.senat.fr/notice-rapport/2018/r18-734-notice.html

    • Toulouse -> Caen la place en covoiturage 77€ pour 75€ en avion … en train, 125€ pour le meilleur prix.
      (Tiens tiens, voyages-scnf.com a été squatté, les brêles)

  • KLM Has a Surprising Request for Passengers: Don’t Fly

    It sounds noble, but what’s the real motive?

    If your company is in business to make money (as pretty much all companies are), how likely are you to launch a huge marketing campaign begging people not to use your product? Probably not very likely. Unless you’re #KLM Royal Dutch Airlines, in which case you’ve already done it.

    That’s right. KLM, the Netherlands’ national airline, just launched a campaign called “#Fly_Responsibly” in which it makes a surprising request of its customers: Fly less. “Do you always have to meet face-to-face?” the promotional video asks. “Could you take the train instead?”

    Wait, what? An airline is asking its passengers not to fly? Yes. Because, as KLM explains in an accompanying statement, air travel accounts for 2 to 3 percent of manmade CO2 emissions worldwide and that number is growing, as more people in more countries are climbing out of poverty and hankering to see the world. The 100-year-old airline says it’s been doing its part. In an accompanying statement, KLM says it has been replacing its fleet with more fuel-efficient planes, using sustainable fuel, and has even created a sustainable fuel plant in the Netherlands. “We work hard to get things right, but all parties involved need to join forces to create a sustainable future.”

    Some critics say this amounts to nothing more than “greenwashing.” After all, the airline still offers special deals and its website invites people to “Book a flight with KLM and visit the most incredible destinations around the world.” And indeed, in the accompanying statement, the airline explains that it won’t stop promoting air travel—after all it wants to stay in business “for our customers and for our 33,000 employees.”
    No carbon tax, please.

    Interestingly, the airline also notes in its statement that it’s opposed to a national carbon tax in the Netherlands since, it claims, passengers would simply drive to Germany or Belgium and fly from there instead. Therefore, KLM says, a carbon tax on aviation should only be imposed if it can be imposed globally—which is pretty disingenuous, because of course that’ll never happen. It also claims that a tax that isn’t invested back into the aviation industry to make it more sustainable “won’t do anything to combat climate change.” This, again, is untrue because the main point of a carbon tax is to make polluting more expensive, which causes people and companies to do less of it.

    All this talk about a carbon tax can give you a big clue as to KLM’s true motivation here. A carbon tax or cap-and-trade law seems like a non-starter in the U.S.—even in the very blue state of Washington, one was roundly defeated last election. But in Europe, the idea is very much alive. France’s huge “yellow vest” demonstrations began as opposition to a planned carbon tax that working people felt they couldn’t afford. (It was withdrawn.) But in the Netherlands, a carbon tax which would increase the price of airline tickets among many other things is in the works. My guess is that KLM hopes that by getting out ahead on this issue, it can push the government toward letting companies take voluntary action rather than writing new laws.

    KLM also says that as part of its sustainability effort it’s sharing information about sustainability with other airlines, beginning in September with a webinar with its sustainable fuel supplier, SkyNRG. Which sounds good, but since SkyNRG is in the business of selling its fuel, the webinar may amount to a big sales pitch. Perhaps more useful, though, KLM says it’s exploring connections with trains. That’s a great idea, because for a lot of passengers, transferring to a train rather than a connecting flight to go a relatively short distance will be appealing, and environmentalists believe short airplane trips in particular can and should be replaced with other forms of transportation. KLM has also been inviting passengers to pay a small extra fee that the airline will use to offset their flight and make their travel carbon neutral. It will share that system with other airlines as well.

    KLM’s motivations may not be as pure as it claims but the fact remains that the airline is taking some positive steps toward reducing its own environmental impact. For that, we should all applaud. And then do what the airline suggested and fly a little bit less.

    https://www.inc.com/minda-zetlin/klm-fly-responsibly-sustainability-environment-carbon-tax.html
    #fly_shaming #vol #avions #transport_aérien #honte #honte_de_voler #greenwashing #green_washing #taxe_carbone

    –---------

    KLM Fly Responsibly
    https://www.youtube.com/watch?v=L4htp2xxhto&feature=youtu.be

    ping @reka

  • #Suède : le « #flygskam » fait baisser le nombre de passagers sur des #vols_intérieurs
    http://www.rfi.fr/europe/20190816-suede-baisse-nombre-passagers-vols-interieurs-flygskam

    C’est ce qu’on appelle une descente en chute libre. En juillet de cette année, le nombre de passagers qui a transité sur les dix plus grands #aéroports suédois, en empruntant des vols intérieurs, a baissé de 11%, en comparaison à juillet 2018. Si l’on prend comme référence la période qui va de janvier à juillet, la baisse était déjà… de 8%.

    #aviation_civile #transport_aérien

  • Les Pays-Bas prêts à taxer les voyages aériens La Rédaction - 17 Mai 2019 - Enviro2b
    https://www.enviro2b.com/2019/05/17/les-pays-bas-prets-a-taxer-les-voyages-aeriens

    Les Pays-Bas imposeront une taxe de 7 € par passager si l’UE ne propose pas elle-même une solution au problème du transport aérien.

    Le gouvernement néerlandais envisage d’introduire une taxe de 7 € par passager aérien en 2021 si l’UE ne parvient pas à mettre en place une taxe paneuropéenne, faisant ainsi suite à la pression environnementale qui pèse sur le secteur de l’aviation.

    Les Pays-Bas ont annoncé le mardi 14 mai que leur projet de loi sur « la taxe de vol » pourrait rapporter 200 millions d’euros et « contribuer à réduire l’écart de prix entre les billets d’avion et, par exemple, les billets de train », a déclaré le secrétaire d’Etat aux Finances, Menno Snel.

    Selon le projet de loi, qui doit encore être débattu par les politiciens, les passagers en partance du sol néerlandais seront facturés au maximum 7,50 €. Les avions cargo seront également facturés à 1,92 € pour les avions silencieux et à 3,85 € pour les avions bruyants.

    Un communiqué du ministère des Finances a déclaré qu’ « il comprend des mesures visant à prévenir un impact négatif potentiel sur le rôle de l’aéroport Schiphol de l’aéroport d’Amsterdam et sur son réseau international de connexions ».

    « Contrairement aux voyages en voiture, en bus ou en train, les vols internationaux au départ des Pays-Bas ne sont en aucun cas taxés par le gouvernement néerlandais. C’est une des principales raisons d’instaurer une taxe de vol », a déclaré Menno Snel dans un communiqué.

    Une seule taxe pour l’Union Européenne
    « Beaucoup de nos voisins ont déjà une taxe de vol et c’est pourquoi notre priorité est de rechercher une coopération au niveau européen », a ajouté le secrétaire d’État, faisant allusion à une proposition faite par les Pays-Bas et la Belgique au début de cette année d’imposer des taxes sur l’aviation via des accords bilatéraux.

    L’annonce est claire : si une taxe au niveau européen est probable en 2019 ou 2020, la législation nationale sera retirée. Le gouvernement néerlandais organise une conférence en juin pour déterminer s’il existe un intérêt pour plus d’action à ce sujet au-delà de la Belgique et de la France.

    Lundi 13 mai, un rapport de l’UE qui a été divulgué a révélé que la Commission européenne avait conclu qu’une taxe sur le carburéacteur, actuellement exempte de taxes en vertu d’un accord international, réduirait les émissions de carbone et aurait un impact limité sur l’emploi.

    Le gouvernement néerlandais a déclaré qu’il examinait également la faisabilité d’une taxe sur le kérosène.

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