Je suis au pays avec ma mère
C’est dans le cadre d’une psychothérapie qu’Irene de Santa Ana a rencontré Cédric ; Cédric, jeune requérant, sort de plusieurs mois d’#errance, dormant dans des parcs après avoir essuyé un premier refus à sa demande d’asile. Le statut de « débouté » prive Cédric de bien des droits accordés aux êtres humains, et le plonge dans d’épaisses limbes administratives, mais également existentielles. Au pays, plus rien ne l’attend ; en Suisse, l’espoir de pouvoir rester est plus que ténu. De cette psychothérapie, Irene de Santa Ana va faire un article, et c’est de cet article qu’Isabelle Pralong s’est emparée pour Je suis au pays avec ma mère. Isabelle Pralong s’est intéressée plus particulièrement aux rêves de Cédric, qu’elle met ainsi en image. Le texte de l’article, complètement repensé et réécrit par Irene de Santa Ana, vient ici introduire, commenter voire compléter les pages dessinées. Eminemment métaphorique, porteuse de sens, cette matière onirique rend compte à sa façon de l’état psychologique dans lequel doit évoluer et (sur)vivre Cédric, la complexité de son ressenti, de ses sentiments. Livre singulier dans une bibliographie singulière, Je suis au pays avec ma mère s’immisce dans des territoires politiques et sociaux sans une once de misérabilisme, et tente d’aborder autrement une question de société toujours irrésolue.
▻https://atrabile.org/catalogue/livres/je-suis-au-pays-avec-ma-mere
#Suisse #asile #déboutés #traumatisme #identité #disparition #clandestinité #peur #insoumission #désobéissance #clandestinisation #SDF #sans-abris
#BD #bande_dessinée #livre
SAINTE SOLINE, AUTOPSIE D’UN CARNAGE
Le 25 mars 2023, une #manifestation organisée par des mouvements de défense de l’environnement à #Sainte-Soline (#Deux-Sèvres) contre les #megabassines pompant l’#eau des #nappes_phréatiques pour l’#agriculture_intensive débouche sur de véritables scènes de guerre. Avec près de 240 manifestants blessés, c’est l’une des plus sanglantes répressions de civils organisée en France depuis le 17 octobre 1961 (Voir en fin d’article le documentaire de Clarisse Feletin et Maïlys Khider).
▻https://www.off-investigation.fr/sainte-solineautopsie-dun-carnage
Vidéo :
▻https://video.off-investigation.fr/w/9610c6e9-b18f-46b3-930c-ad0d839b0b17
#scène_de_guerre #vidéo #répression
#Sainte_Soline #carnage #méga-bassines #documentaire #film_documentaire #violences_policières #violence #Gérald_Darmanin #résistance #militarisation #confédération_paysanne #nasse
#off_investigation #cortège #maintien_de_l'ordre #gaz_lacrymogènes #impuissance #chaos #blessés #blessures #soins #élus #grenades #LBD #quads #chaîne_d'élus #confusion #médic #SAMU #LDH #Serge_Duteuil-Graziani #secours #enquête #zone_rouge #zone_d'exclusion #urgence_vitale #ambulances #évacuation #plainte #justice #responsabilité #terrain_de_guerre #désinformation #démonstration_de_force #récit #contre-récit #mensonge #vérité #lutte #Etat #traumatisme #bassines_non_merci #condamnations #Soulèvements_de_la_Terre #plainte
à partir de 1h 02’26 :
Hélène Assekour, manifestante :
« Moi ce que je voudrais par rapport à Sainte-Soline c’est qu’il y ait un peu de justice. Je ne crois pas du tout que ça va se faire dans les tribunaux, mais au moins de pouvoir un peu établir la vérité et que notre récit à nous puisse être entendu, qu’il puisse exister. Et qu’il puisse même, au fil des années, devenir le récit qui est celui de la vérité de ce qui s’est passé à Sainte-Soline ».
]]>« (…) ce n’est que beaucoup plus tard, que nous comprendrons, Nomi et moi, que derrière toute cette haine se cache une histoire non dite, qui frappe papa en plein cœur, l’histoire de Papuci, le père de notre père. »
#tabou #traumatisme #répression #silence #mémoire #yougoslavie #communisme #socialisme
Pigeon vole p. 53
]]>« (…) maman croit qu’avec ses excès d’alcool, papa se libère de ses cauchemars, mais quels cauchemars ?, c’est la question que nous avions posée, Nomi et moi, un soir de Saint-Sylvestre où papa avait bu presque jusqu’à en perdre conscience. Mais quelle histoire ?, maman a hésité comme si nous avions posé une de ces questions embarrassantes que posent les enfants : Derrière le soleil, il y a quoi ? Pourquoi n’avons-nous pas de rivière dans notre jardin ? Les communistes ont détruit sa vie, a répondu maman avec une intonation que nous ne lui avions encore jamais entendues, mais votre père vous racontera lui-même un jour, quand vous serez grandes. Grandes, c’est quand ? Un jour, quand le moment sera venu, dans quelques années, quand vous pourrez mieux comprendre tout ça. »
#communisme #tabou #traumatisme #silence #violence #mémoire #yougoslavie #répression #enfance #famille
Pigeon vole p. 23
]]>Quei bambini chiusi in trappola a Gaza. Il racconto di #Ruba_Salih
(une interview de Ruba Salih, prof à l’Université de Bologne, 5 jours après le #7_octobre_2023)
«Mai come in queste ore a Gaza il senso di appartenere a una comune “umanita” si sta mostrando più vuoto di senso. La responsabilità di questo è del governo israeliano», dice Ruba Salih antropologa dell’università di Bologna che abbiamo intervistato mentre cresce la preoccupazione per la spirale di violenza che colpisce la popolazione civile palestinese e israeliana.
Quali sono state le sue prime reazioni, sentimenti, pensieri di fronte all’attacco di Hamas e poi all’annuncio dell’assedio di Gaza messo in atto dal governo israeliano?
Il 7 ottobre la prima reazione è stata di incredulità alla vista della recinzione metallica di Gaza sfondata, e alla vista dei palestinesi che volavano con i parapendii presagendo una sorta di fine dell’assedio. Ho avuto la sensazione di assistere a qualcosa che non aveva precedenti nella storia recente. Come era possibile che l’esercito più potente del mondo potesse essere sfidato e colto così alla sprovvista? In seguito, ho cominciato a chiamare amici e parenti, in Cisgiordania, Gaza, Stati Uniti, Giordania. Fino ad allora si aveva solo la notizia della cattura di un numero imprecisato di soldati israeliani. Ho pensato che fosse una tattica per fare uno scambio di prigionieri. Ci sono più di 5000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane e 1200 in detenzione amministrativa, senza processo o accusa. Poi sono cominciate da domenica ad arrivare le notizie di uccisioni e morti di civili israeliani, a cui è seguito l’annuncio di ‘guerra totale’ del governo di Netanyahu. Da allora il sentimento è cambiato. Ora grande tristezza per la quantità di vittime, dell’una e dell’altra parte, e preoccupazione e angoscia senza precedenti per le sorti della popolazione civile di Gaza, che in queste ore sta vivendo le ore piu’ drammatiche che si possano ricordare.
E quando ha visto quello che succedeva, con tantissime vittime israeliane, violenze terribili, immagini di distruzione, minacce di radere al suolo Gaza?
Colleghi e amici israeliani hanno cominciato a postare immagini di amici e amiche uccisi – anche attivisti contro l’occupazione- e ho cominciato dolorosamente a mandare condoglianze. Contemporaneamente giungevano terribili parole del ministro della Difesa israeliano Gallant che definiva i palestinesi “animali umani”, dichiarando di voler annientare la striscia di Gaza e ridurla a “deserto”. Ho cominciato a chiamare amici di Gaza per sapere delle loro famiglie nella speranza che fossero ancora tutti vivi. Piano piano ho cominciato a cercare di mettere insieme i pezzi e dare una cornice di senso a quello che stava succedendo.
Cosa può dirci di Gaza che già prima dell’attacco di Hamas era una prigione a cielo aperto?
Si, Gaza è una prigione. A Gaza la maggior parte della popolazione è molto giovane, e in pochi hanno visto il mondo oltre il muro di recinzione. Due terzi della popolazione è composto da famiglie di rifugiati del 1948. Il loro vissuto è per lo più quello di una lunga storia di violenza coloniale e di un durissimo assedio negli ultimi 15 anni. Possiamo cercare di immaginare cosa significa vivere questo trauma che si protrae da generazioni. Gli abitanti di Gaza nati prima del 1948 vivevano in 247 villaggi nel sud della Palestina, il 50% del paese. Sono stati costretti a riparare in campi profughi a seguito della distruzione o occupazione dei loro villaggi. Ora vivono in un’area che rappresenta l’1.3% della Palestina storica con una densità di 7000 persone per chilometro quadrato e le loro terre originarie si trovano a pochi metri di là dal muro di assedio, abitate da israeliani.
E oggi?
Chi vive a Gaza si descrive come in una morte lenta, in una privazione del presente e della capacità di immaginare il futuro. Il 90% dell’acqua non è potabile, il 60% della popolazione è senza lavoro, l’80% riceve aiuti umanitari per sopravvivere e il 40% vive al di sotto della soglia di povertà: tutto questo a causa dell’ occupazione e dell’assedio degli ultimi 15 anni. Non c’è quasi famiglia che non abbia avuto vittime, i bombardamenti hanno raso al suolo interi quartieri della striscia almeno quattro volte nel giro di una decina di anni. Non credo ci sia una situazione analoga in nessun altro posto del mondo. Una situazione che sarebbe risolta se Israele rispettasse il diritto internazionale, né più né meno.
Prima di questa escalation di violenza c’era voglia di reagire, di vivere, di creare, di fare musica...
Certo, anche in condizioni di privazione della liberta’ c’e’ una straordinaria capacità di sopravvivenza, creatività, amore per la propria gente. Tra l’altro ricordo di avere letto nei diari di Marek Edelman sul Ghetto di Varsavia che durante l’assedio del Ghetto ci si innamorava intensamente come antidoto alla disperazione. A questo proposito, consilgio a tutti di leggere The Ghetto Fights di Edelman. Aiuta molto a capire cosa è Gaza in questo momento, senza trascurare gli ovvi distinguo storici.
Puoi spiegarci meglio?
Come sapete il ghetto era chiuso al mondo esterno, il cibo entrava in quantità ridottissime e la morte per fame era la fine di molti. Oggi lo scenario di Gaza, mentre parliamo, è che non c’è elettricità, il cibo sta per finire, centinaia di malati e neonati attaccati alle macchine mediche hanno forse qualche ora di sopravvivenza. Il governo israeliano sta bombardando interi palazzi, le vittime sono per più della metà bambini. In queste ultime ore la popolazione si trova a dovere decidere se morire sotto le bombe in casa o sotto le bombe in strada, dato che il governo israeliano ha intimato a un milione e centomila abitanti di andarsene. Andare dove? E come nel ghetto la popolazione di Gaza è definita criminale e terrorista.
Anche Franz Fanon, lei suggerisce, aiuta a capire cosa è Gaza.
Certamente, come ho scritto recentemente, Fanon ci viene in aiuto con la forza della sua analisi della ferita della violenza coloniale come menomazione psichica oltre che fisica, e come privazione della dimensione di interezza del soggetto umano libero, che si manifesta come un trauma, anche intergenerazionale. La violenza prolungata penetra nelle menti e nei corpi, crea una sospensione delle cornici di senso e delle sensibilità che sono prerogativa di chi vive in contesti di pace e benessere. Immaginiamoci ora un luogo, come Gaza, dove come un rapporto di Save the Children ha riportato, come conseguenza di 15 anni di assedio e blocco, 4 bambini su 5 riportano un vissuto di depressione, paura e lutto. Il rapporto ci dice che vi è stato un aumento vertiginoso di bambini che pensano al suicidio (il 50%) o che praticano forme di autolesionismo. Tuttavia, tutto questo e’ ieri. Domani non so come ci sveglieremo, noi che abbiamo il privilegio di poterci risvegliare, da questo incubo. Cosa resterà della popolazione civile di Gaza, donne, uomini bambini.
Come legge il sostegno incondizionato al governo israeliano di cui sono pieni i giornali occidentali e dell’invio di armi ( in primis dagli Usa), in un’ottica di vittoria sconfitta che abbiamo già visto all’opera per la guerra Russia-Ucraina?
A Gaza si sta consumando un crimine contro l’umanità di dimensioni e proporzioni enormi mentre i media continuano a gettare benzina sul fuoco pubblicando notizie in prima pagina di decapitazioni e stupri, peraltro non confermate neanche dallo stesso esercito israeliano. Tuttavia, non utilizzerei definizioni statiche e omogeneizzanti come quelle di ‘Occidente’ che in realtà appiattiscono i movimenti e le società civili sulle politiche dei governi, che in questo periodo sono per lo più a destra, nazionalisti xenofobi e populisti. Non è sempre stato così.
Va distinto il livello istituzionale, dei governi e dei partiti o dei media mainstream, da quello delle società civili e dei movimenti sociali?
Ci sono una miriade di manifestazioni di solidarietà ovunque nel mondo, che a fianco del lutto per le vittime civili sia israeliane che palestinesi, non smettono di invocare la fine della occupazione, come unica via per ristabilire qualcosa che si possa chiamare diritto (e diritti umani) in Palestina e Israele. Gli stessi media mainstream sono in diversi contesti molto più indipendenti che non in Italia. Per esempio, Bcc non ha accettato di piegarsi alle pressioni del governo rivendicando la sua indipendenza rifiutandosi di usare la parola ‘terrorismo’, considerata di parte, preferendo riferirsi a quei palestinesi che hanno sferrato gli attacchi come ‘combattenti’. Se sono stati commessi crimini contro l’umanità parti lo stabiliranno poi le inchieste dei tribunali penali internazionali. In Italia, la complicità dei media è invece particolarmente grave e allarmante. Alcune delle (rare) voci critiche verso la politica del governo israeliano che per esempio esistono perfino sulla stampa liberal israeliana, come Haaretz, sarebbero in Italia accusate di anti-semitismo o incitamento al terrorismo! Ci tengo a sottolineare tuttavia che il fatto che ci sia un certo grado di libertà di pensiero e di stampa in Israele non significa che Israele sia una ‘democrazia’ o perlomeno non lo è certo nei confronti della popolazione palestinese. Che Israele pratichi un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi è ormai riconosciuto da organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch, nonché sottolineato a più riprese dalla Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese.
Dunque non è una novità degli ultimi giorni che venga interamente sposata la retorica israeliana?
Ma non è una novità degli ultimi giorni che venga interamente sposata la narrativa israeliana. Sono anni che i palestinesi sono disumanizzati, resi invisibili e travisati. Il paradosso è che mentre Israele sta violando il diritto e le convenzioni internazionali e agisce in totale impunità da decenni, tutte le forme di resistenza: non violente, civili, dimostrative, simboliche, legali dei palestinesi fino a questo momento sono state inascoltate, anzi la situazione sul terreno è sempre più invivibile. Persino organizzazioni che mappano la violazione dei diritti umani sono demonizzate e catalogate come ‘terroristiche’. Anche le indagini e le commissioni per valutare le violazioni delle regole di ingaggio dell’esercito sono condotte internamente col risultato che divengono solo esercizi procedurali vuoti di sostanza (come per l’assassinio della reporter Shereen AbuHakleh, rimasto impunito come quello degli altri 55 giornalisti uccisi dall’esercito israeliano). Ci dobbiamo seriamente domandare: che cosa rimane del senso vero delle parole e del diritto internazionale?
Il discorso pubblico è intriso di militarismo, di richiami alla guerra, all’arruolamento…
Personalmente non metterei sullo stesso piano la resistenza di un popolo colonizzato con il militarismo come progetto nazionalistico di espansione e profitto. Possiamo avere diversi orientamenti e non condividere le stesse strategie o tattiche ma la lotta anticoloniale non è la stessa cosa del militarismo legato a fini di affermazione di supremazia e dominio di altri popoli. Quella dei palestinesi è una lotta che si inscrive nella scia delle lotte di liberazione coloniali, non di espansione militare. La lotta palestinese si collega oggi alle lotte di giustizia razziale e di riconoscimento dei nativi americani e degli afro-americani contro società che oggi si definiscono liberali ma che sono nate da genocidi, schiavitù e oppressione razziale. Le faccio un esempio significativo: la prima bambina Lakota nata a Standing Rock durante le lunghe proteste contro la costruzione degli olelodotti in North Dakota, che stanno espropriando e distruggendo i terre dei nativi e inquinando le acque del Missouri, era avvolta nella Kuffyah palestinese. Peraltro, il nazionalismo non è più il solo quadro di riferimento. In Palestina si lotta per la propria casa, per la propria terra, per la liberazione dalla sopraffazione dell’occupazione, dalla prigionia, per l’autodeterminazione che per molti è immaginata o orientata verso la forma di uno stato laico binazionale, almeno fino agli eventi recenti. Domani non so come emergeremo da tutto questo.
Emerge di nuovo questa cultura patriarcale della guerra, a cui come femministe ci siamo sempre opposte…
Con i distinguo che ho appena fatto e che ribadisco – ossia che non si può mettere sullo stesso piano occupanti e occupati, colonialismo e anticolonialismo -mi sento comunque di dire che una mobilitazione trasversale che aneli alla fine della occupazione deve essere possibile. Nel passato, il movimento femminista internazionalista tentava di costruire ponti tra donne palestinesi e israeliane mobilitando il lutto di madri, sorelle e figlie delle vittime della violenza. Si pensava che questo fosse un legame primario che univa nella sofferenza, attraversando le differenze. Ci si appellava alla capacità delle donne di politicizzare la vulnerabilità, convinte che nella morte e nel lutto si fosse tutte uguali. La realtà è che la disumanizzazione dei palestinesi, rafforzata dalla continua e sempre più violenta repressione israeliana, rende impossibile il superamento delle divisioni in nome di una comune umanità. Mentre i morti israeliani vengono pubblicamente compianti e sono degni di lutto per il mondo intero, i palestinesi – definiti ‘terroristi’ (anche quando hanno praticato forme non-violente di resistenza), scudi-umani, animali (e non da oggi), sono già morti -privati della qualità di umani- prima ancora di morire, e inscritti in una diversa classe di vulnerabilità, di non essenza, di disumanità.
Antropologa dell’università di Bologna Ruba Salih si interessa di antropologia politica con particolare attenzione a migrazioni e diaspore postcoloniali, rifugiati, violenza e trauma coloniale, genere corpo e memoria. Più recentemente si è occupata di decolonizzazione del sapere e Antropocene e di politiche di intersezionalità nei movimenti di protesta anti e de-coloniali. Ha ricoperto vari ruoli istituzionali tra cui membro eletto del Board of Trustees del Arab Council for the Social Sciences, dal 2015 al 2019. È stata visiting professor presso varie istituzioni tra cui Brown University, University of Cambridge e Università di Venezia, Ca’ Foscari.
▻https://left.it/2023/10/12/quei-bambini-chiusi-in-trappola-a-gaza-il-racconto-di-ruba-salih
#Gaza #Israël #Hamas #violence #prison #Palestine #violence_coloniale #siège #trauma #traumatisme #camps_de_réfugiés #réfugiés #réfugiés_palestiniens #pauvreté #bombardements #violence #dépression #peur #santé_mentale #suicide #crime_contre_l'humanité #apartheid #déshumanisation #résistance #droit_international #lutte #nationalisme #féminisme #à_lire #7_octobre_2023
]]>»Vor Mauern und hinter Gittern«
Kinderrechte werden an den Außengrenzen der Europäischen Union mit Füßen getreten
Kinder und Jugendliche werden an den Außengrenzen der EU gewaltsam zurückgeschoben (»Pushbacks«) und nach Ankunft in der EU inhaftiert – eine systematisch angewandte Praxis in mehreren Außengrenzstaaten der EU. Anlässlich des Treffens der EU-Innenminister*innen nächste Woche zeigt terre des hommes mit dem aktuellen Bericht »Vor Mauern und hinter Gittern« am Beispiel von Ungarn, Griechenland, Bulgarien und Polen die kinderrechtswidrigen Praktiken genauer auf. Der Bericht bezieht sich vor allem auf die Erfahrungen und Hinweise zivilgesellschaftlicher Projektpartnerorganisationen und verweist auch auf die Mitverantwortung der EU, deren Institutionen das Verhalten der Mitgliedsstaaten billigen und stützen.»Migrationshaft bei Kindern und Jugendlichen ist trotz ihrer Unvereinbarkeit mit der UN-Kinderrechtskonvention Realität in drei der vier untersuchten Mitgliedstaaten« sagt Teresa Wilmes, Programmreferentin für Deutschland und Europa bei terre des hommes. »In Ungarn, dem vierten untersuchten Mitgliedsstaat, wurde die Inhaftierung von geflüchteten Minderjährigen nur deswegen beendet, weil Pushbacks den Zugang zu einem Asylverfahren bereits nahezu vollständig verhindern.«
Die Folgen für Betroffene sind gravierend: Infolge einer Inhaftierung leiden Kinder und Jugendliche häufig an Depressionen, posttraumatischen Belastungsstörungen und Angstzuständen. Auch die Erfahrung von Gewalt gegen sie selbst oder Verwandte und Freunde ist für Kinder und Jugendliche traumatisierend und begleitet sie oft ein Leben lang.
Rückendeckung erhalten die Mitgliedsstaaten dabei von der EU und ihren Institutionen: »Die Europäische Union, allen voran die EU-Kommission, macht sich für die Verletzung von Kinderrechten an den europäischen Außengrenzen mitverantwortlich. Zahlreiche Beispiele dafür finden sich im Bericht: vom europäischen Pilotprojekt zum Grenzschutz in Bulgarien über die EU-Finanzierung haftähnlicher Einrichtungen auf Griechenland bis hin zur Rolle der EU-Agentur FRONTEX,« erklärt Sophia Eckert, rechtspolitische Referentin bei terre des hommes. »Unser Bericht zeigt, dass die europäische Gemeinschaft maßgebliche Einflussmöglichkeiten darauf hat, ob der Schutz, das Wohl und die Rechte geflüchteter Kinder und Jugendlicher in der EU gelten oder einer ausgeklügelten Abschottungspolitik der EU-Mitgliedsstaaten zum Opfer fallen sollen.«
Mit Blick auf das Treffen der europäischen Innenminister*innen in der kommenden Woche fordert terre des hommes eine Kehrtwende der Reform des Gemeinsamen Europäischen Asylsystems. Dazu Sophia Eckert: »Dass die geplanten Reformvorschläge die im Bericht beschrieben Problemlagen beenden werden, ist illusorisch. Vielmehr ist zu befürchten, dass die Reform die Missstände an den europäischen Außengrenzen weiter verschärft, indem sie den Rechtsverletzungen einen europäischen Rahmen gibt. Wir fordern daher die Entscheidungsträger*innen in der EU auf, diese unsäglichen Reformpläne zu stoppen. Von einem menschenwürdigen europäischen Asylsystem erwarten wir den Zugang zu Asyl statt rechtswidriger Abschiebung, Kindeswohl statt Lagerhaft und faire Asylverfahren statt beschleunigter Grenzverfahren.«
Pour télécharger le rapport :
►https://www.tdh.de/fileadmin/user_upload/inhalte/04_Was_wir_tun/Themen/Weitere_Themen/Fluechtlingskinder/tdh_Bericht_Kinderrechtsverletzungen-an-EU-Aussengrenzen.pdf
▻https://www.tdh.de/was-wir-tun/arbeitsfelder/fluechtlingskinder/meldungen/vor-mauern-und-hinter-gittern-kinderrechte-an-den-eu-aussengrenzen
#enfants #enfance #frontières #migrations #asile #réfugiés #rapport #terre_des_hommes #enfermement #push-backs #refoulements #Hongrie #Grèce #Bulgarie #Pologne #Balkans #route_des_Balkans #droit_d'asile #traumatisme #santé #santé_mentale
]]>La Pédagogie noire
Je découvre ce concept de #Pédagogie_noire dans le livre de Catherine Dufour sur #Ada_Lovelace, dont l’éducation a été dictée par les préceptes de Moritz Schreber
▻https://regardconscient.net/archi14/1401pedagogienoire2.html
Quelles empreintes un enfant élevé selon les principes de la Pédagogie noire conservera-t-il inévitablement du long calvaire de son enfance ? La répression quasi systématique de son élan vital peut-elle avoir d’autres conséquences qu’une altération durable de son équilibre intérieur et de ses facultés naturelles à établir des relations harmonieuses avec ses semblables ? Les promoteurs de cette idéologie prétendent que les privations imposées par la nature puis par l’éducation sont « le premier pas vers le sens moral, le fondement de nos sentiments et par conséquent de notre sociabilité[21] » ou encore que, par la discipline éducative, « les plus hautes aspirations de l’intelligence et du cœur peuvent de même être éveillées et satisfaites[22]. » Cependant, ils ne cachent pas leur volonté de briser la vitalité de l’enfant par les moyens les plus violents afin d’être « maître de l’enfant pour toujours » – comme l’écrivait le Dr Schreber. Une séquelle durable d’un tel traitement sera de priver le jeune adulte de sa capacité à exercer naturellement sa sensibilité. N’ayant pas été respecté dans son intégrité physique et psychique, il prendra difficilement en compte celle des autres, notamment des personnes faibles ou dépendantes. Plus grave encore : l’histoire démontre qu’une éducation fondée sur le déni des besoins essentiels de l’enfant, loin de développer son sens moral, débouche au contraire sur les idéologies les plus inhumaines. Ce lien de causalité a été amplement confirmé par les travaux d’Alice Miller sur le succès du nazisme en Allemagne par exemple[23].
#Alice_Miller #Katharina_Rutschky
#enfance #éducation_violente #traumatisme #barbarie
et tout les proverbes merdiques qui découle de l’éducation au capitalisme « c’est pour ton bien » "qui le veut le peut" « qui aime bien châtie bien »
Appareil de Moritz Schreber pour empêcher les enfants d’ouvrir la bouche
@mad_meg mêmes tortures que pour les femmes :/
Israël : les #colons israéliens qui rêvent de revenir à Gaza - France 24
▻https://www.france24.com/fr/vid%C3%A9o/20231031-isra%C3%ABl-les-colons-isra%C3%A9liens-qui-r%C3%AAvent-de-revenir
En 2005, Ariel Sharon ordonne l’évacuation des 21 #colonies juives de la Bande de Gaza. L’événement est un #traumatisme pour les Israéliens, qui fracture le mouvement du sionisme religieux. Aujourd’hui, ces colons #déracinés vivent en majorité en #Cisjordanie occupée. 20 jours après le début de la guerre, certains nourrissent aujourd’hui l’#espoir d’un retour à Gaza, si le gouvernement décidait de ré-occuper l’enclave, après une invasion terrestre. Reportage Claire Duhamel.
#france_24 #…
]]>Gardes à vue antiterroristes. Comment les biais psychologiques induisent de « faux aveux »
▻https://paris-luttes.info/gardes-a-vue-antiterroristes-17485
Un petit groupe de personnes avec des compétences diverses, professionnelles ou pas, autour du traumatisme psychologique et des effets psychologiques de la violence, a été sollicité pour prendre connaissance des témoignages d’interpellations et de gardes à vue de plusieurs des mis·es en cause de l’affaire dite du 8 décembre 2020 (7 personnes accusées d’association de malfaiteurs terroristes d’ultragauche). Au-delà des expériences individuelles, ces témoignages laissent apparaître des méthodologies qui nous questionnent fortement sur le crédit qui peut être apporté à des informations obtenues lors de garde à vues longues et éprouvantes dans les locaux de la Direction Générale de la Sécurité Intérieure (DGSI) et de la Sous Direction Anti-Terroriste (SDAT). Voici les analyses qui sous-tendent ces questionnements.
#gardes_à_vue #SDAT #anti_terrorisme #traumatisme #police #manipulation #DGSI #aveu
]]>#Judith_Butler : Condamner la #violence
« Je condamne les violences commises par le #Hamas, je les condamne sans la moindre réserve. Le Hamas a commis un #massacre terrifiant et révoltant », écrit Judith Butler avant d’ajouter qu’« il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute #condamnation nécessite un refus de comprendre, de #peur que cette #compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre #capacité_de_jugement ».
Les questions qui ont le plus besoin d’un #débat_public, celles qui doivent être discutées dans la plus grande urgence, sont des questions qui sont difficiles à aborder dans les cadres existants. Et même si l’on souhaite aller directement au cœur du sujet, on se heurte à un cadre qui fait qu’il est presque impossible de dire ce que l’on a à dire. Je veux parler ici de la violence, de la violence présente, et de l’histoire de la violence, sous toutes ses formes. Mais si l’on veut documenter la violence, ce qui veut dire comprendre les #tueries et les #bombardements massifs commis par le Hamas en Israël, et qui s’inscrivent dans cette histoire, alors on est accusé de « #relativisme » ou de « #contextualisation ». On nous demande de condamner ou d’approuver, et cela se comprend, mais est-ce bien là tout ce qui, éthiquement, est exigé de nous ? Je condamne les violences commises par le Hamas, je les condamne sans la moindre réserve. Le Hamas a commis un massacre terrifiant et révoltant. Telle a été et est encore ma réaction première. Mais elle n’a pas été la seule.
Dans l’immédiateté de l’événement, on veut savoir de quel « côté » sont les gens, et clairement, la seule réaction possible à de pareilles tueries est une condamnation sans équivoque. Mais pourquoi se fait-il que nous ayons parfois le sentiment que se demander si nous utilisons les bons mots ou comprenons bien la situation historique fait nécessairement obstacle à une #condamnation_morale absolue ? Est-ce vraiment relativiser que se demander ce que nous condamnons précisément, quelle portée cette condamnation doit avoir, et comment décrire au mieux la ou les formations politiques auxquelles nous nous opposons ?
Il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute condamnation nécessite un refus de comprendre, de peur que cette compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre capacité de jugement. Mais que faire s’il est moralement impératif d’étendre notre condamnation à des #crimes tout aussi atroces, qui ne se limitent pas à ceux mis en avant et répétés par les médias ? Quand et où doit commencer et s’arrêter notre acte de condamnation ? N’avons-nous pas besoin d’une évaluation critique et informée de la situation pour accompagner notre condamnation politique et morale, sans avoir à craindre que s’informer et comprendre nous transforme, aux yeux des autres, en complices immoraux de crimes atroces ?
Certains groupes se servent de l’histoire de la violence israélienne dans la région pour disculper le Hamas, mais ils utilisent une forme corrompue de raisonnement moral pour y parvenir. Soyons clairs. Les violences commises par #Israël contre les Palestiniens sont massives : bombardements incessants, assassinats de personnes de tous âges chez eux et dans les rues, torture dans les prisons israéliennes, techniques d’affamement à #Gaza, expropriation radicale et continue des terres et des logements. Et ces violences, sous toutes leurs formes, sont commises sur un peuple qui est soumis à un #régime_colonial et à l’#apartheid, et qui, privé d’État, est apatride.
Mais quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard (Harvard Palestine Solidarity Groups) publient une déclaration disant que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques mortelles du Hamas contre des cibles israéliennes, ils font une erreur et sont dans l’erreur. Ils ont tort d’attribuer de cette façon la #responsabilité, et rien ne saurait disculper le Hamas des tueries atroces qu’ils ont perpétrées. En revanche, ils ont certainement raison de rappeler l’histoire des violences : « de la #dépossession systématique des terres aux frappes aériennes de routine, des #détentions_arbitraires aux #checkpoints militaires, des séparations familiales forcées aux #assassinats ciblés, les Palestiniens sont forcés de vivre dans un #état_de_mort, à la fois lente et subite. » Tout cela est exact et doit être dit, mais cela ne signifie pas que les violences du Hamas ne soient que l’autre nom des violences d’Israël.
Il est vrai que nous devons nous efforcer de comprendre les raisons de la formation de groupes comme le Hamas, à la lumière des promesses rompues d’Oslo et de cet « état de mort, à la fois lente et subite » qui décrit bien l’existence des millions de Palestiniens vivant sous #occupation, et qui se caractérise par une #surveillance constante, la #menace d’une détention sans procès, ou une intensification du #siège de #Gaza pour priver ses habitants d’#eau, de #nourriture et de #médicaments. Mais ces références à l’#histoire des Palestiniens ne sauraient justifier moralement ou politiquement leurs actes. Si l’on nous demandait de comprendre la violence palestinienne comme une continuation de la violence israélienne, ainsi que le demandent les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard, alors il n’y aurait qu’une seule source de #culpabilité_morale, et même les actes de violence commis par les Palestiniens ne seraient pas vraiment les leurs. Ce n’est pas rendre compte de l’autonomie d’action des Palestiniens.
La nécessité de séparer la compréhension de la violence omniprésente et permanente de l’État israélien de toute justification de la violence est absolument cruciale si nous voulons comprendre quels peuvent être les autres moyens de renverser le #système_colonial, mettre fin aux #arrestations_arbitraires et à la #torture dans les prisons israéliennes, et arrêter le siège de Gaza, où l’eau et la nourriture sont rationnés par l’État-nation qui contrôle ses frontières. Autrement dit, la question de savoir quel monde est encore possible pour tous les habitants de la région dépend des moyens dont il sera mis fin au système colonial et au pouvoir des colons. Hamas a répondu de façon atroce et terrifiante à cette question, mais il y a bien d’autres façons d’y répondre.
Si, en revanche, il nous est interdit de parler de « l’#occupation », comme dans une sorte de Denkverbot allemand, si nous ne pouvons pas même poser le débat sur la question de savoir si le joug militaire israélien sur la région relève du #colonialisme ou de l’#apartheid_racial, alors nous ne pouvons espérer comprendre ni le passé, ni le présent, ni l’avenir. Et beaucoup de gens qui regardent le carnage dans les médias sont totalement désespérés. Or une des raisons de ce #désespoir est précisément qu’ils regardent les #médias, et vivent dans le monde sensationnel et immédiat de l’#indignation_morale absolue. Il faut du temps pour une autre #morale_politique, il faut de la patience et du courage pour apprendre et nommer les choses, et nous avons besoin de tout cela pour que notre condamnation puisse être accompagnée d’une vision proprement morale.
Je m’oppose aux violences que le Hamas a commises, et ne leur trouve aucune excuse. Quand je dis cela, je prends une position morale et politique claire. Je n’équivoque pas lorsque je réfléchis sur ce que cette condamnation implique et présuppose. Quiconque me rejoint dans cette position se demande peut-être si la condamnation morale doit reposer sur une compréhension de ce qui est condamné. On pourrait répondre que non, que je n’ai rien besoin de connaître du Hamas ou de la Palestine pour savoir que ce qu’ils ont fait est mal et pour le condamner. Et si l’on s’arrête là, si l’on se contente des représentations fournies par les médias, sans jamais se demander si elles sont réellement utiles et exactes, et si le cadre utilisé permet à toutes les histoires d’être racontées, alors on se résout à une certaine ignorance et l’on fait confiance aux cadres existants. Après tout, nous sommes tous très occupés, et nous n’avons pas tous le temps d’être des historiens ou des sociologues. C’est une manière possible de vivre et de penser, et beaucoup de gens bien-intentionnés vivent effectivement ainsi, mais à quel prix ?
Que nous faudrait-il dire et faire, en revanche, si notre morale et notre politique ne s’arrêtaient pas à l’acte de condamnation ? Si nous continuions, malgré tout, de nous intéresser à la question de savoir quelles sont les formes de vie qui pourraient libérer la région de violences comme celles-ci ? Et si, en plus de condamner les crimes gratuits, nous voulions créer un futur dans lequel ce genre de violences n’aurait plus cours ? C’est une aspiration normative qui va bien au-delà de la condamnation momentanée. Pour y parvenir, il nous faut absolument connaître l’histoire de la situation : l’histoire de la formation du Hamas comme groupe militant, dans l’abattement total, après Oslo, pour tous les habitants de Gaza à qui les promesses de gouvernement autonome n’ont jamais été honorées ; l’histoire de la formation des autres groupes palestiniens, de leurs tactiques et de leurs objectifs ; l’histoire enfin du peuple palestinien lui-même, de ses aspirations à la liberté et au #droit_à_l’autodétermination, de son désir de se libérer du régime colonial et de la violence militaire et carcérale permanente. Alors, si le Hamas était dissous ou s’il était remplacé par des groupes non-violents aspirant à la #cohabitation, nous pourrions prendre part à la lutte pour une Palestine libre.
Quant à ceux dont les préoccupations morales se limitent à la seule condamnation, comprendre la situation n’est pas un objectif. Leur indignation morale est à la fois présentiste et anti-intellectuelle. Et pourtant, l’indignation peut aussi amener quelqu’un à ouvrir des livres d’histoire pour essayer de comprendre comment un événement comme celui-ci a pu arriver, et si les conditions pourraient changer de telle sorte qu’un avenir de violence ne soit pas le seul avenir possible. Jamais la « contextualisation » ne devrait être considérée comme une activité moralement problématique, même s’il y a des formes de contextualisation qui sont utilisées pour excuser ou disculper. Est-il possible de distinguer ces deux formes de contextualisation ? Ce n’est pas parce que certains pensent que contextualiser des violences atroces ne sert qu’à occulter la violence ou, pire encore, à la rationaliser que nous devrions nous soumettre à l’idée que toute forme de contextualisation est toujours une forme de #relativisme_moral.
Quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard disent que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques du Hamas, ils souscrivent à une conception inacceptable de la responsabilité morale. Il semble que pour comprendre comment s’est produit un événement, et ce qu’il signifie, il nous faille apprendre l’histoire. Cela veut dire qu’il nous incombe tout à la fois d’élargir la perspective au-delà de la terrible fascination du moment et, sans jamais nier l’horreur, de ne pas laisser l’#horreur présente représenter toute l’horreur qu’il y a à représenter, et nous efforcer de savoir, de comprendre et de nous opposer.
Or les médias d’aujourd’hui, pour la plupart d’entre eux, ne racontent pas les horreurs que vivent les Palestiniens depuis des décennies, les bombardements, les tueries, les attaques et les arrestations arbitraires. Et si les horreurs des derniers jours ont pour les médias une importance morale plus grande que les horreurs des soixante-dix dernières années, alors la réaction morale du moment menace d’empêcher et d’occulter toute compréhension des #injustices_radicales endurées depuis si longtemps par la Palestine occupée et déplacée de force.
Certains craignent, à juste titre, que toute contextualisation des actes violents commis par le Hamas soit utilisée pour disculper le Hamas, ou que la contextualisation détourne l’attention des horreurs perpétrées. Mais si c’est l’horreur elle-même qui nous amenait à contextualiser ? Où commence cette horreur et où finit-elle ? Si les médias parlent aujourd’hui de « guerre » entre le Hamas et Israël, c’est donc qu’ils proposent un cadre pour comprendre la situation. Ils ont, ainsi, compris la situation à l’avance. Si Gaza est comprise comme étant sous occupation, ou si l’on parle à son sujet de « prison à ciel ouvert », alors c’est une autre interprétation qui est proposée. Cela ressemble à une description, mais le langage contraint ou facilite ce que nous pouvons dire, comment nous pouvons décrire, et ce qui peut être connu.
Oui, la langue peut décrire, mais elle n’acquiert le pouvoir de le faire que si elle se conforme aux limites qui sont imposées à ce qui est dicible. S’il est décidé que nous n’avons pas besoin de savoir combien d’enfants et d’adolescents palestiniens ont été tués en Cisjordanie et à Gaza cette année ou pendant toutes les années de l’occupation, que ces informations ne sont pas importantes pour comprendre ou qualifier les attaques contre Israël, et les assassinats d’Israéliens, alors il est décidé que nous ne voulons pas connaître l’histoire des violences, du #deuil et de l’indignation telle qu’est vécue par les Palestiniens.
Une amie israélienne, qui se qualifie elle-même d’« antisioniste », écrit en ligne qu’elle est terrifiée pour sa famille et pour ses amis, et qu’elle a perdu des proches. Et nous devrions tous être de tout cœur avec elle, comme je le suis bien évidemment. Cela est terrible. Sans équivoque. Et pourtant, il n’est pas un moment où sa propre expérience de l’horreur et de la perte de proches ou d’amis est imaginé comme pouvant être ce qu’une Palestinienne éprouve ou a éprouvé de son côté après des années de bombardement, d’incarcération et de violence militaire. Je suis moi aussi une Juive, qui vit avec un #traumatisme_transgénérationnel à la suite des atrocités commises contre des personnes comme moi. Mais ces atrocités ont aussi été commises contre des personnes qui ne sont pas comme moi. Je n’ai pas besoin de m’identifier à tel visage ou à tel nom pour nommer les atrocités que je vois. Ou du moins je m’efforce de ne pas le faire.
Mais le problème, au bout du compte, n’est pas seulement une absence d’#empathie. Car l’empathie prend généralement forme dans un cadre qui permette qu’une identification se fasse, ou une traduction entre l’expérience d’autrui et ma propre expérience. Et si le cadre dominant considère que certaines vies sont plus dignes d’être pleurées que d’autres, alors il s’ensuit que certaines pertes seront plus terribles que d’autres. La question de savoir quelles vies méritent d’être pleurées fait partie intégrante de la question de savoir quelles sont les vies qui sont dignes d’avoir une valeur. Et c’est ici que le #racisme entre en jeu de façon décisive. Car si les Palestiniens sont des « #animaux », comme le répète Netanyahu, et si les Israéliens représentent désormais « le peuple juif », comme le répète Biden (englobant la diaspora juive dans Israël, comme le réclament les réactionnaires), alors les seules personnes dignes d’être pleurées, les seules qui sont éligibles au deuil, sont les Israéliens, car la scène de « guerre » est désormais une scène qui oppose les Juifs aux animaux qui veulent les tuer.
Ce n’est certainement pas la première fois qu’un groupe de personnes qui veulent se libérer du joug de la #colonisation sont représentées comme des animaux par le colonisateur. Les Israéliens sont-ils des « animaux » quand ils tuent ? Ce cadre raciste de la violence contemporaine rappelle l’opposition coloniale entre les « civilisés » et les « animaux », qui doivent être écrasés ou détruits pour sauvegarder la « civilisation ». Et lorsque nous rappelons l’existence de ce cadre au moment d’affirmer notre condamnation morale, nous nous trouvons impliqué dans la dénonciation d’une forme de racisme qui va bien au-delà de l’énonciation de la structure de la vie quotidienne en Palestine. Et pour cela, une #réparation_radicale est certainement plus que nécessaire.
Si nous pensons qu’une condamnation morale doive être un acte clair et ponctuel, sans référence à aucun contexte ni aucun savoir, alors nous acceptons inévitablement les termes dans lesquels se fait cette condamnation, la scène sur laquelle les alternatives sont orchestrées. Et dans ce contexte récent qui nous intéresse, accepter ce cadre, c’est reprendre les formes de #racisme_colonial qui font précisément partie du problème structurel à résoudre, de l’#injustice intolérable à surmonter. Nous ne pouvons donc pas refuser l’histoire de l’injustice au nom d’une certitude morale, car nous risquerions alors de commettre d’autres injustices encore, et notre certitude finirait par s’affaisser sur un fondement de moins en moins solide. Pourquoi ne pouvons-nous pas condamner des actes moralement haïssables sans perdre notre capacité de penser, de connaître et de juger ? Nous pouvons certainement faire tout cela, et nous le devons.
Les actes de violence auxquels nous assistons via les médias sont horribles. Et dans ce moment où toute notre attention est accaparée par ces médias, les violences que nous voyons sont les seules que nous connaissions. Je le répète : nous avons le droit de déplorer ces violences et d’exprimer notre horreur. Cela fait des jours que j’ai mal au ventre à essayer d’écrire sans trouver le sommeil, et tous les gens que je connais vivent dans la peur de ce que va faire demain la machine militaire israélienne, si le #discours_génocidaire de #Netanyahu va se matérialiser par une option nucléaire ou par d’autres tueries de masse de Palestiniens. Je me demande moi-même si nous pouvons pleurer, sans réserve aucune, pour les vies perdues à Tel-Aviv comme pour les vies perdues à Gaza, sans se laisser entraîner dans des débats sur le relativisme et sur les #fausses_équivalences. Peut-être les limites élargies du deuil peuvent-elles contribuer à un idéal d’#égalité substantiel, qui reconnaisse l’égale pleurabilité de toutes les vies, et qui nous porte à protester que ces vies n’auraient pas dû être perdues, qui méritaient de vivre encore et d’être reconnues, à part égale, comme vies.
Comment pouvons-nous même imaginer la forme future de l’égalité des vivants sans savoir, comme l’a documenté le Bureau de la coordination des affaires humanitaires des Nations unies, que les militaires et les colons israéliens ont tué au minimum 3 752 civils palestiniens depuis 2008 à Gaza et en Cisjordanie, y compris à Jérusalem-Est. Où et quand le monde a-t-il pleuré ces morts ? Et dans les seuls bombardements et attaques d’octobre, 140 enfants palestiniens ont déjà été tués. Beaucoup d’autres trouveront la mort au cours des actions militaires de « #représailles » contre le Hamas dans les jours et les semaines qui viennent.
Ce n’est pas remettre en cause nos positions morales que de prendre le temps d’apprendre l’histoire de la #violence_coloniale et d’examiner le langage, les récits et les cadres qui servent aujourd’hui à rapporter et expliquer – et interpréter a priori – ce qui se passe dans cette région. Il s’agit là d’un #savoir_critique, mais qui n’a absolument pas pour but de rationaliser les violences existences ou d’en autoriser d’autres. Son but est d’apporter une compréhension plus exacte de la situation que celle proposée par le cadre incontesté du seul moment présent. Peut-être d’autres positions d’#opposition_morale viendront-elles s’ajouter à celles que nous avons déjà acceptées, y compris l’opposition à la violence militaire et policière qui imprègne et sature la vie des Palestiniens dans la région, leur droit à faire le deuil, à connaître et exprimer leur indignation et leur solidarité, à trouver leur propre chemin vers un avenir de liberté ?
Personnellement, je défends une politique de #non-violence, sachant qu’elle ne peut constituer un principe absolu, qui trouve à s’appliquer en toutes circonstances. Je soutiens que les #luttes_de_libération qui pratiquent la non-violence contribuent à créer le monde non-violent dans lequel nous désirons tous vivre. Je déplore sans équivoque la violence, et en même temps, comme tant d’autres personnes littéralement stupéfiées devant leur télévision, je veux contribuer à imaginer et à lutter pour la justice et pour l’égalité dans la région, une justice et une égalité qui entraîneraient la fin de l’occupation israélienne et la disparition de groupes comme le Hamas, et qui permettrait l’épanouissement de nouvelles formes de justice et de #liberté_politique.
Sans justice et sans égalité, sans la fin des violences perpétrées par un État, Israël, qui est fondé sur la violence, aucun futur ne peut être imaginé, aucun avenir de #paix_véritable – et je parle ici de paix véritable, pas de la « #paix » qui n’est qu’un euphémisme pour la #normalisation, laquelle signifie maintenir en place les structures de l’injustice, de l’inégalité et du racisme. Un pareil futur ne pourra cependant pas advenir si nous ne sommes pas libres de nommer, de décrire et de nous opposer à toutes les violences, y compris celles de l’État israélien, sous toutes ses formes, et de le faire sans avoir à craindre la censure, la criminalisation ou l’accusation fallacieuse d’antisémitisme.
Le monde que je désire est un monde qui s’oppose à la normalisation du régime colonial israélien et qui soutient la liberté et l’autodétermination des Palestiniens, un monde qui réaliserait le désir profond de tous les habitants de ces terres de vivre ensemble dans la liberté, la non-violence, la justice et l’égalité. Cet #espoir semble certainement, pour beaucoup, impossible ou naïf. Et pourtant, il faut que certains d’entre nous s’accrochent farouchement à cet espoir, et refusent de croire que les structures qui existent aujourd’hui existeront toujours. Et pour cela, nous avons besoin de nos poètes, de nos rêveurs, de nos fous indomptés, de tous ceux qui savent comment se mobiliser.
►https://aoc.media/opinion/2023/10/12/condamner-la-violence
ici aussi : ►https://seenthis.net/messages/1021216
]]>#Guerre #Israël - #Hamas : l’engrenage infernal
Une #catastrophe_humanitaire se déroule sous nos yeux dans la bande de Gaza tandis qu’Israël bombarde l’enclave et prépare une #riposte_militaire. Nos invités ont accepté d’échanger dans notre émission « À l’air libre » alors que cette guerre les touche. Ou les terrasse.
Les invités :
– #Nadav_Lapid, réalisateur ;
– #Karim_Kattan, écrivain ;
– #Jonathan_Hayoun, réalisateur ;
– #Rony_Brauman, médecin, essayiste.
▻https://www.youtube.com/watch?v=Z0OWMbWxhpg
▻https://www.mediapart.fr/journal/international/171023/guerre-israel-hamas-l-engrenage-infernal
#Gaza #7_octobre_2023 #à_lire #à_voir #vidéo
#désespoir #désastre #impuissance #inquiétude #préoccupation #émotions #rage #médias #couverture_médiatique #couverture_politique #staus_quo #question_palestinienne #pogrom #mots #bombardements #eau #électricité #essence #réfugiés #déplacés_internes #IDPs #destruction #siège #catastrophe #Nakba #nouvelle_Nakba #évacuation #nourriture #famine #déportation #humiliation #paix #justice #droit_international #communauté_internationale #déshumanisation #sentiment_de_sécurité #sécurité #insécurité #apartheid #colonisation #nettoyage_ethnique #1948 #territoires_occupés #système_d'apartheid #double_régime_juridique #occupation_militaire #colonisation_civile #transferts_forcés_de_population #stratégie_de_désespoir #no_futur #actes_désespérés #lucidité #courage #étonnement #responsabilité #rationalisation #espoir #impasse #choc_électrique #trahison #traumatisme #terreur #cauchemar #cauchemar_traumatique #otages #libération_des_otages #guerre #autodestruction #suicide_national
« Le #viol, passage presque inévitable de la migration » : à Marseille, huit femmes témoignent
Lundi 18 septembre, la revue scientifique internationale « The Lancet » publie une enquête de santé publique inédite menée sur 273 demandeuses d’asile à Marseille, corrélant la migration et la violence sexuelle dont elles sont victimes. « Le Monde » a recueilli les histoires de huit femmes qui ont participé à l’étude.
Au milieu de la conversation, Aissata tressaille. Adama, elle, manque plusieurs fois de faire tomber son bébé de 2 mois, gros poupon emmailloté dans un body blanc, qu’elle allaite le regard absent. Les yeux de Perry se brouillent : elle a vu trop de #violence. Ceux de Fanta sont devenus vitreux : elle est là, mais plus vraiment là. Grace regrette sa sécheresse oculaire, elle aimerait tant pleurer et hurler, peut-être la croirait-on et l’aiderait-on davantage, mais elle ne sait pas où ses larmes sont parties. Nadia sourit en montrant les cicatrices des brûlures de cigarettes qui constellent sa poitrine, comme pour s’excuser de cette vie qui l’a fait s’échouer ici. Stella porte ses lunettes de soleil à l’intérieur, et explose de rire en racontant qu’elle a été vendue quatre fois.
Tous ces détails, ces marques de la #barbarie inscrite dans le #corps des femmes migrantes, le docteur Jérémy Khouani les observe depuis ses études de médecine. Généraliste dans une maison de santé du 3e arrondissement de Marseille – avec 55 % de ses habitants au-dessous du seuil de pauvreté, c’est l’un des endroits les plus pauvres de France –, il soigne les bobos, les angines et les gastros, mais voit surtout le #traumatisme surgir face aux mots « #excision », « #Libye », « #traite » ou « viol ».
Bouleversé par des consultations qui l’amènent à mesurer la taille de lèvres vaginales post-excision pour l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), à diagnostiquer une arthrose massive à une jeune femme de 30 ans ou à prescrire des antidépresseurs à une autre qui vient de tenter de s’immoler, il a décidé de lutter avec ce qu’il savait faire : « De la science ». « Je n’ai pas envie de hiérarchiser, mais les violences que subissent les femmes demandeuses d’asile, c’est trois fois plus horrible que les hommes. Ils subissent aussi des violences, mais ce n’est pas systémique, ils n’ont pas le vagin mutilé à 6 ans, ou le viol comme passage presque inévitable de la migration. » En Europe, en 2021, les femmes représentent 31 % des demandeurs d’asile.
Il y a trois ans, avec l’Assistance publique-Hôpitaux de Marseille et la faculté de médecine d’Aix-Marseille, #Jérémy_Khouani a lancé une grande enquête de #santé_publique pour mesurer l’#incidence des violences sexuelles chez les femmes demandeuses d’asile en France. Une étude inédite, publiée ce lundi 18 septembre dans la revue scientifique The Lancet (Regional Health Europe) et menée sur 273 femmes arrivées sur le territoire français, volontaires pour participer et en attente de la réponse des autorités quant à leur statut. La moitié d’entre elles viennent d’Afrique de l’Ouest, le reste du Moyen-Orient, d’Asie ou d’Europe.
« Un impondérable du #parcours_migratoire »
Ainsi, 26 % d’entre elles se déclarent victimes de violences sexuelles au cours de leurs douze derniers mois sur le territoire français, et 75 % avant leur entrée en France. Les demandeuses d’asile encourent dix-huit fois plus le risque d’être victimes de viol en France que les Françaises de la population générale ; 40 % d’entre elles ont subi des #mutilations_génitales. « L’étude fait ressortir que la violence sexuelle est un motif de départ, un impondérable du parcours migratoire, et un crime dont on ne les protège pas en France », analyse #Anne_Desrues, sociologue et enquêtrice sur le projet.
L’absence de logement, de compagnon et les antécédents de violence apparaissent comme des facteurs de risque du viol. « Le débat, ce n’est même pas de savoir si elles ont vocation à rester sur le territoire ou pas, mais, au moins, que pendant tout le temps où leur demande est étudiée, qu’elles ne soient pas violées à nouveau, elles sont assez traumatisées comme ça », pose le médecin généraliste.
Il faut imaginer ce que c’est de soigner au quotidien de telles blessures, de rassembler 273 récits de la sorte en six mois – ce qui n’est rien par rapport au fait de vivre ces violences. L’expression « #traumatisme_vicariant » qualifie en psychiatrie le traumatisme de seconde ligne, une meurtrissure psychique par contamination, non en étant exposé directement à la violence, mais en la documentant. « Heureusement, j’avais une psychologue pour débriefer les entretiens, évoque Anne Desrues. Moi, ce qui m’a aidée, c’est de savoir que celles qu’on rencontrait étaient aussi des femmes fortes, qui avaient eu le courage de partir, et de comprendre leur migration comme une #résistance à leur condition. » Le docteur Khouani, lui, érige cette étude comme rempart à son sentiment d’impuissance.
Le Monde, pendant quarante-huit heures, a recueilli les histoires de huit femmes qui ont participé à l’étude. Certaines sont sous obligation de quitter le territoire français (OQTF), risquant l’expulsion. Mais elles voulaient que quelqu’un entende, note et publie tout ce qu’elles ont subi. Dans le cabinet du médecin, sous les néons et le plafond en contreplaqué, elles se sont assises et ont parlé.
Lundi, 9 heures. Ogechi, surnommée « Perry », 24 ans. Elle regarde partout, sauf son interlocuteur. Elle a une croix autour du cou, une autre pendue à l’oreille, porte sa casquette à l’envers. Elle parle anglais tout bas, en avalant la fin des mots. Elle vient de Lagos, au Nigeria. Jusqu’à son adolescence, ça va à peu près. Un jour, dans la rue, elle rencontre une fille qui lui plaît et l’emmène chez elle. Son père ne supporte pas qu’elle soit lesbienne : il la balance contre le mur, la tabasse, appelle ses oncles. Ils sont maintenant cinq à se déchaîner sur Perry à coups de pied. « Ma bouche saignait, j’avais des bleus partout. »
Perry s’enfuit, rejoint une copine footballeuse qui veut jouer en Algérie. Elle ne sait pas où aller, sait seulement qu’elle ne peut plus vivre chez elle, à Lagos. L’adolescente, à l’époque, prend la route : Kano, au nord du pays, puis Agadez, au Niger, où un compatriote nigérian, James, l’achète pour 2 000 euros et la fait entrer en Libye. Elle doit appeler sa famille pour rembourser sa dette. « Je n’ai pas de famille ni d’argent, je ne vaux rien », lui répond Perry. Une seule chose a de la valeur : son corps. James prélève ses cheveux, son sang, fait des incantations vaudoues « pour me contrôler ». A 15 ans, elle est prostituée dans un bordel sous le nom de « Blackgate ».
« Si je meurs, qui va s’en apercevoir ? »
Son débit est monocorde, mais son récit est vif et transporte dans une grande maison libyenne divisée en « chambres » avec des rideaux. Un lit par box, elles sont sept femmes par pièce. « Des vieilles, des jeunes, des enceintes. » Et les clients ? « Des Africains, des Arabes, des gentils, des violents. » En tout, une cinquantaine de femmes sont exploitées en continu. « J’aurais jamais pensé finir là, je ne pouvais pas imaginer qu’un endroit comme ça existait sur terre », souffle-t-elle.
Perry passe une grosse année là-bas, jusqu’à ce qu’un des clients la prenne en pitié et la rachète pour l’épouser. Sauf qu’il apprend son #homosexualité et la revend à une femme nigériane, qui lui paye le voyage pour l’Europe pour la « traiter » à nouveau, sur les trottoirs italiens cette fois-ci. A Sabratha, elle monte sur un bateau avec 150 autres personnes. Elle ne souhaite pas rejoindre l’Italie, elle ne veut que fuir la Libye. « Je ne sais pas nager. Je n’avais pas peur, je n’étais pas heureuse, je me demandais seulement comment un bateau, ça marchait sur l’eau. » Sa première image de l’Europe : Lampedusa. « J’ai aimé qu’il y ait de la lumière 24 heures sur 24, alors que chez nous, la nuit, c’est tout noir. »
Mineure, Perry est transférée dans un foyer à Milan, où « les gens qui travaillent avec James m’ont encore fait travailler ». Elle tape « Quel est le meilleur pays pour les LGBT ? » dans la barre de recherche de Google et s’échappe en France. « Ma vie, c’est entre la vie et la mort, chaque jour tu peux perdre ou tu peux gagner », philosophe-t-elle. Le 4 septembre 2020, elle se souvient bien de la date, elle arrive dans le sud de la France, une région qu’elle n’a pas choisie. Elle suit un cursus de maroquinerie dans un lycée professionnel avec, toujours, « la mafia nigériane » qui la harcèle. « Ils m’ont mis une arme sur la tempe, ils veulent que je me prostitue ou que je vende de la drogue. C’est encore pire parce que je suis lesbienne, ils disent que je suis une abomination, une sorcière… »
A Marseille, elle fait trois tentatives de suicide, « parce que je suis trop traumatisée, j’arrive plus à vivre, mais Dieu m’a sauvée ». A 24 ans, pour qui Perry existe-t-elle encore ? « Si je meurs, qui va s’en apercevoir ? Je regrette d’avoir quitté le Nigeria, je ne pensais pas expérimenter une vie pareille », termine-t-elle, en s’éloignant dans les rues du 3e arrondissement.
Lundi, 11 heures. A 32 ans, la jeunesse de Fanta semble s’être dissoute dans son parcours. Elle a des cheveux frisés qui tombent sur son regard sidéré. Elle entre dans le cabinet les bras chargés de sacs en plastique remplis de la lessive et des chaussures qu’elle vient de se procurer pour la rentrée de ses jumeaux en CP, qui a eu lieu le matin même. « Ils se sont réveillés à 5 heures tellement ils étaient excités, raconte-t-elle. C’est normal, on a passé l’été dans la chambre de l’hôtel du 115, on ne pouvait pas trop sortir à cause de mon #OQTF. » Fanta vient de Faranah, en Guinée-Conakry, où elle est tombée accidentellement enceinte de ses enfants. « Quand il l’a su, mon père, qui a lui même trois femmes, m’a tapée pendant trois jours et reniée. »
Elle accouche, mais ne peut revenir vivre dans sa famille qu’à condition d’abandonner ses bébés de la honte. Elle refuse, bricole les premières années avec eux. Trop pauvre, trop seule, elle confie ses enfants à sa cousine et souhaite aller en Europe pour gagner plus d’argent. Mali, Niger, Libye. La prison en Libye lui laisse une vilaine cicatrice à la jambe. En 2021, elle atteint Bari, en Italie, puis prend la direction de la France. Pourquoi Marseille ? « Parce que le train s’arrêtait là. »
Sexe contre logement
A la gare Saint-Charles, elle dort par terre pendant trois jours, puis rejoint un squat dans le quartier des Réformés. Là-bas, « un homme blanc est venu me voir et m’a dit qu’il savait que je n’avais pas de papiers, et que si on ne faisait pas l’amour, il me dénonçait à la police ». Elle est violée une première fois. Trois jours plus tard, il revient avec deux autres personnes, avec les mêmes menaces. Elle hurle, pleure beaucoup. Ils finissent par partir. « Appeler la police ? Mais pour quoi faire ? La police va m’arrêter moi », s’étonne-t-elle devant notre question.
En novembre 2022, le navire de sauvetage Ocean-Viking débarque ses passagers sur le port de Toulon. A l’intérieur, sa cousine et ses jumeaux. « Elle est venue avec eux sans me prévenir, j’ai pleuré pendant une semaine. » Depuis, la famille vit dans des hôtels sociaux, a souvent faim, ne sort pas, mais « la France, ça va, je veux bien aller n’importe où du moment que j’ai de la place ». Parfois, elle poursuit les passants qu’elle entend parler sa langue d’origine dans la rue, « juste pour avoir un ami ». « La migration, ça fait exploser la violence », conclut-elle, heureuse que ses enfants mangent à la cantine de l’école ce midi.
Lundi, 15 heures. « C’est elle qui m’a donné l’idée de l’étude », s’exclame le docteur Khouani en nous présentant Aissata. « Oui, il faut parler », répond la femme de 31 ans. Elle s’assoit, décidée, et déroule un récit délivré de nombreuses fois devant de nombreux officiels français. Aissata passe son enfance en Guinée. En 1998, sa mère meurt et elle est excisée. « C’était très douloureux, je suis vraiment obligée de reraconter ça ? » C’est sa « marâtre » qui prend le relais et qui la « torture ». Elle devient la petite bonne de la maison de son père, est gavée puis privée de nourriture, tondue, tabassée, de la harissa étalée sur ses parties intimes. A 16 ans, elle est mariée de force à un cousin de 35 ans qui l’emmène au Gabon.
« Comme je lui ai dit que je ne voulais pas l’épouser, son travail, c’était de me violer. J’empilais les culottes et les pantalons les uns sur les autres pour pas qu’il puisse le faire, mais il arrachait tout. » Trois enfants naissent des viols, que son époux violente aussi. Elle s’interpose, il la frappe tellement qu’elle perd connaissance et se réveille à l’hôpital. « Là-bas, je leur ai dit que ce n’était pas des bandits qui m’avaient fait ça, mais mon mari. » Sur son téléphone, elle fait défiler les photos de bleus qu’elle avait envoyées par mail à son fils – « Comme ça, si je mourais, il aurait su quelle personne était son père. »
Un soignant lui suggère de s’enfuir, mais où ? « Je ne connais pas le Gabon et on ne peut pas quitter le mariage. » Une connaissance va l’aider à sortir du pays. Elle vend tout l’or hérité de sa mère, 400 grammes, et le 29 décembre 2018, elle prend l’avion à l’aéroport de Libreville. « J’avais tellement peur, mon cœur battait si fort qu’il allait sortir de mon corps. » Elle vit l’atterrissage à Roissy - Charles-de-Gaulle comme un accouchement d’elle-même, une nouvelle naissance en France. A Paris, il fait froid, la famille arrive à Marseille, passe de centres d’accueil humides en hôtels avec cafards du 115.
Sans cesse, les hommes la sollicitent. Propositions de sexe contre logement ou contre de l’argent : « Les hommes, quand tu n’as pas de papiers, ils veulent toujours en profiter. Je pourrais donner mon corps pour mes enfants, le faire avec dix hommes pour les nourrir, mais pour l’instant j’y ai échappé. » Au début de l’année, l’OQTF est tombée. Les enfants ne dorment plus, elle a arrêté de soutenir leurs devoirs. « La France trouve que j’ai pas assez souffert, c’est ça ? », s’énerve celle que ses amies surnomment « la guerrière ».
« Je suis une femme de seconde main maintenant »
Lundi, 17 heures. Nadia a le visage rond, entouré d’un voile noir, les yeux ourlés de la même couleur. Une immense tendresse se dégage d’elle. Le docteur Khouani nous a prévenues, il faut faire attention – elle sort à peine de l’hôpital psychiatrique. Il y a quelques semaines, dans le foyer où elle passe ses journées toute seule, elle a pris un briquet, a commencé à faire flamber ses vêtements : elle a essayé de s’immoler. Quand il l’a appris, le médecin a craqué, il s’en voulait, il voyait bien son désespoir tout avaler et la tentative de suicide arriver.
Pourtant, Nadia a fait une petite heure de route pour témoigner. Elle a grandi au Pakistan. Elle y a fait des études de finance, mais en 2018 son père la marie de force à un Pakistanais qui vit à Marseille. Le mariage est prononcé en ligne. Nadia prend l’avion et débarque en France avec un visa de touriste. A Marseille, elle se rend compte que son compagnon ne pourra pas la régulariser : il est déjà marié. Elle n’a pas de papiers et devient son « esclave », subit des violences épouvantables. Son décolleté est marqué de plusieurs cicatrices rondes : des brûlures de cigarettes.
Nadia apparaît sur les écrans radars des autorités françaises un jour où elle marche dans la rue. Il y a une grande tache rouge sur sa robe. Elle saigne tellement qu’une passante l’alerte : « Madame, madame, vous saignez, il faut appeler les secours. » Elle est évacuée aux urgences. « Forced anal sex », explique-t-elle, avec son éternel rictus désolé. Nadia accepte de porter plainte contre son mari. La police débarque chez eux, l’arrête, mais il la menace d’envoyer les photos dénudées qu’il a prises d’elle au Pakistan. Elle retire sa plainte, revient au domicile.
Les violences reprennent. Elle s’échappe à nouveau, est placée dans un foyer. Depuis qu’elle a témoigné auprès de la police française, la propre famille de Nadia ne lui répond plus au téléphone. Une nuit, elle s’est réveillée et a tenté de gratter au couteau ses brûlures de cigarettes. « Je suis prête à donner un rein pour avoir mes papiers. Je pense qu’on devrait en donner aux femmes victimes de violence, c’est une bonne raison. Moi, je veux juste étudier et travailler, et si je suis renvoyée au Pakistan ils vont à nouveau me marier à un homme encore pire : je suis une femme de seconde main maintenant. »
« Je dois avoir une vie meilleure »
Mardi, 11 heures. Médiatrice sociale du cabinet médical, Elsa Erb est une sorte d’assistante pour vies fracassées. Dans la salle d’attente ce matin, il y a une femme mauritanienne et un gros bébé de 2 mois. « C’est ma chouchoute », sourit-elle. Les deux femmes sont proches : l’une a accompagné l’autre à la maternité, « sinon elle aurait été toute seule pour accoucher ». Excision dans l’enfance, puis à 18 ans, en Mauritanie, mariage forcé à son cousin de 50 ans. Viols, coups, cicatrices sur tout le corps. Deux garçons naissent. « Je ne pouvais pas rester toute ma vie avec quelqu’un qui me fait autant de mal. » Adama laisse ses deux enfants, « propriété du père », et prend l’avion pour l’Europe.
A Marseille, elle rencontre un autre demandeur d’asile. Elle tombe enceinte dans des circonstances troubles, veut avorter mais l’homme à l’origine de sa grossesse la menace : c’est « péché » de faire ça, elle sera encore plus « maudite ». Depuis, elle semble trimballer son bébé comme un gros paquet embarrassant. Elsa Erb vient souvent la voir dans son foyer et lui apporte des boîtes de sardines. Elle s’inquiète car Adama s’isole, ne mange pas, passe des heures le regard dans le vide, un peu sourde aux pleurs et aux vomissements du petit. « Je n’y arrive pas. Avec mes enfants là-bas et celui ici, je me sens coupée en deux », se justifie-t-elle.
Mardi, 14 heures. A chaque atrocité racontée, Stella rit. Elle vient du Biafra, au Nigeria. Ses parents sont tués par des miliciens quand elle a 13 ans. Elle est envoyée au Bénin auprès d’un proche qui la viole. Puis elle tombe dans la #traite : elle est transférée en Libye. « J’ai été vendue quatre fois, s’amuse-t-elle. En Libye, vous pouvez mourir tous les jours, plus personne ne sait que vous existez. » Elle passe en Italie, où elle est encore exploitée.
Puis la France, Marseille et ses squats. Elle décrit des hommes blancs qui débarquent armés, font tous les étages et violent les migrantes. La police ? Stella explose de rire. « Quel pouvoir est-ce que j’ai ? Si je raconte ça à la police française, les agresseurs me tueront. C’est simple : vous êtes une femme migrante, vous êtes une esclave sexuelle. »
Avec une place dans un foyer et six mois de #titre_de_séjour en tant que victime de traite, elle est contente : « Quand on a sa maison, on est moins violée. » Des étoiles sont tatouées sur son cou. « Je dois avoir une vie meilleure. Mon nom signifie “étoile”, je dois briller », promet-elle. Le docteur Khouani tient à nous montrer une phrase issue du compte rendu d’une radio de ses jambes : « Lésions arthrosiques inhabituelles pour son jeune âge. » « Il est très probable qu’elle ait subi tellement de violences qu’elle a l’arthrose d’une femme de 65 ans. » Stella a 33 ans.
Déboutés par l’Ofpra
Mardi, 16 heures. Grace entre avec sa poussette, dans laquelle s’ébroue une petite fille de 7 mois, son quatrième enfant. Nigériane, la jeune femme a le port altier et parle très bien anglais. « J’ai été très trafiquée », commence-t-elle. Après son bac, elle est recrutée pour être serveuse en Russie. C’est en réalité un réseau de #proxénétisme qui l’emmène jusqu’en Sibérie, d’où elle finit par être expulsée. De retour au Nigeria, elle veut poursuivre ses études à la fac à Tripoli, en Libye.
A la frontière, elle est vendue, prostituée, violée. Elle tombe enceinte, s’échappe en Europe pour « fuir, pas parce que je voulais particulièrement y aller ». Arrivée en Italie, on lui propose d’avorter de son enfant du viol. Elle choisit de le garder, même si neuf ans après, elle ne sait toujours pas comment son premier fils a été conçu. En Italie, elle se marie avec un autre Nigérian. Ils ont quatre enfants scolarisés en France, mais pas de papiers. L’Ofpra les a déboutés : « Ils trouvent que j’ai les yeux secs, que je délivre mon histoire de manière trop détachée », comprend-elle.
Mardi, 18 heures. Abby se présente dans le cabinet médical avec sa fille de 12 ans. Elles sont originaires de Sierra Leone. Abby a été excisée : elle se remémore le couteau, les saignements, souffre toujours vingt-cinq ans après. « Ils ont tout rasé, c’est lisse comme ça », décrit-elle en caressant la paume de sa main.
Sa fille a aussi été mutilée, un jour où sa mère n’était pas à la maison pour la protéger. « Mais pour Aminata, ce n’est pas propre. » Alors, quand la mère et la fille ont déposé leur demande d’asile à l’Ofpra, le docteur Khouani s’est retrouvé à faire un acte qui l’énerve encore. « J’ai dû pratiquer un examen gynécologique sur une préado pour mesurer la quantité de ses lèvres qui avait survécu à son excision. Si tout était effectivement rasé, elles étaient déboutées, car il n’y avait plus rien à protéger. » Les deux femmes ont obtenu des titres de séjour. Abby travaille comme femme de ménage en maison de retraite. Aminata commence sa 5e, fait du basket et veut devenir médecin, comme le docteur Khouani.
►https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/09/18/le-viol-passage-presque-inevitable-de-la-migration-a-marseille-huit-femmes-r
#VSS #violences_sexuelles #migrations #femmes #femmes_migrantes #témoignage #asile #réfugiés #viols #abus_sexuels #mariage_forcé #prostitution #néo-esclavage #esclavage_sexuels #traite_d'êtres_humains #chantage
]]>Émeutes à Marseille : « Ils étaient là pour taper » : Hedi a été laissé pour mort après un tir de flash-ball | La Provence
▻https://www.laprovence.com/article/faits-divers-justice/6003428299923315/info-la-provence-ils-etaient-la-pour-taper-laisse-pour-mort-apres-un-tir
Dans la nuit du samedi 1er au dimanche 2 juillet, en marge des émeutes qui ont secoué Marseille, Hedi a reçu un tir de « flash-ball » dans la tempe avant d’être passé à tabac par un groupe de quatre à cinq personnes qu’il identifie comme un équipage de la Bac. Sorti du #coma, le jeune homme souffre d’un grave traumatisme crânien. Il raconte.
Certains anniversaires marquent plus que d’autres. Hedi n’avait pas prévu de passer le sien couché sur un lit d’hôpital, le visage tuméfié, les jambes constellées de plaies, la tête barrée de pansements camouflant mal les multiples traumatismes de cette nuit du 1er au 2 juillet. Sur sa fiche de transmission, les médecins ont indiqué, dans la case exposant les raisons de son admission : « TC (#traumatisme_crânien, Ndlr) grave sur shoot de flash-ball ».
Sur la tablette de sa chambre aux murs jaunis, le jeune homme de tout juste 22 ans dispose de plusieurs bouteilles d’eau minérale entamées et d’un paquet de bonbons éventré, auquel il ne faut pas se fier. « Il ne mange rien, gronde doucement Leïla, sa maman. Il a dû perdre au moins cinq kilos ! »
Sa silhouette longiligne étendue sur les draps froissés, le jeune homme justifie dans un pâle sourire : « Le médecin a dit que c’était dû à l’état de choc. » Ce choc, Hedi l’a reçu en pleine tête la semaine dernière, alors qu’en marge des #émeutes qui ont secoué le #centre-ville de Marseille, il était sorti boire un verre avec Lilian, l’ami qu’il appelle son frère, en état de choc lui aussi depuis cette sombre nuit.
« C’était la fête des terrasses, et j’ai terminé mon service vers 1h30, remonte le temps Hedi, assistant de direction dans l’hôtellerie-restauration, à Meyrargues. J’ai retrouvé Lilian à #Marseille, sur le Vieux-Port. Il devait être deux heures et il y avait beaucoup de fourgons de #police, on en a croisé quelques-uns, on leur a dit ’bonsoir’, on se sentait en sécurité. » Les deux jeunes hommes doivent retrouver leurs petites amies respectives, quand ils aperçoivent un #hélicoptère survoler la ville. « C’était comme dans un film, se souvient Hedi. On l’a suivi vers le cours Lieutaud, pour voir. On n’aurait pas dû. » Arrivés dans une ruelle non éclairée perpendiculaire au cours, vers le boulevard Baille, les deux amis croisent « quatre ou cinq hommes ».
« Ils étaient en civil mais portaient une arme à la ceinture, un #flash-ball autour du cou et avaient des matraques, détaille Lilian. Quand ils nous ont demandé ce qu’on faisait là, l’un d’eux avait son arme à la main, le doigt sur la détente, un autre a déplié sa matraque. Je crois qu’on n’a même pas eu le temps de répondre. J’ai bloqué un coup de matraque avec mon bras, on s’est retourné pour partir en courant. Et j’ai entendu un tir . »
« J’étais impuissant »
Le jeune homme se retourne, voit son ami « voler », atteint par une balle de « flash-ball ». Hedi s’écroule sur le sol, du haut de son mètre quatre-vingt-dix. « Ils m’ont tiré par les habits et m’ont traîné dans une ruelle, ils m’ont mis sur le dos, l’un d’eux a mis ses genoux sur mes jambes pour les bloquer. J’essayais de me protéger, mais je sentais le sang couler de ma tête, je pensais que j’avais toujours la balle dessus », revit-il, mimant les gestes qu’il a instinctivement exécutés alors, désignant ses blessures , les unes après les autres, causées par des coups de pied, de poing et de matraque . « Et puis un des hommes a dit de me laisser tranquille et ils sont partis . »
Sonné, meurtri, mais toujours conscient et « porté par l’adrénaline », Hedi parvient à se remettre sur pied, remarque le t-shirt gris de l’un de ses agresseurs taché de sang, le brassard sur l’avant-bras d’un autre. « Ils ont dû croire qu’on venait pour casser, tente-t-il de comprendre. On avait nos casquettes, nos gilets, mais pas de cagoules, de masques ou de gants... »
Pour Lilian, « ils étaient là pour taper. Ils attendaient que quelqu’un passe et malheureusement, ça a été nous. » Et de poursuivre : « Je suis parti... Quand j’ai vu qu’ils l’emmenaient, j’ai cru qu’ils l’interpellaient, je pensais pas que ça pouvait se terminer comme ça. J’étais impuissant, je ne pouvais rien faire », explique-t-il, ses larmes répondant à celles qui roulent sur les joues de son ami.
]]>Les traumatismes ne sont pas seulement psychologiques. Ils peuvent aussi avoir un impact sur le corps.
Un article de Sara M Moniuszko, publié sur USA TODAY, traduction par Iris Di Rosa.
Vous pouvez avoir l’impression d’être à bout de nerfs. Vous pouvez commencer à transpirer. Votre cœur peut s’emballer, vos poings se serrer.
Le traumatisme n’est pas seulement la réaction émotionnelle et psychologique d’une personne à un événement intense ou accablant, il peut aussi entraîner des manifestations physiques ressenties dans le corps.
« Ce type de symptômes physiologiques est extrêmement courant dans le SSPT (syndrome de stress post-traumatique), mais il s’agit également d’une réaction plus globale au traumatisme », explique le Dr Rubin Khoddam, psychologue clinicien et fondateur de COPE Psychology. « Et cette réaction physique a, au fil du temps, un impact important sur notre corps ».
Mais les nouveaux traitements axés sur le corps, tels que le yoga tenant compte des traumatismes, visent à aider celles qui luttent.
▻https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/05/28/les-traumatismes-ne-sont-pas-seulement-psychol
]]>Communiqué au sujet de S., camarade au pronostic vital engagé à la suite de la manifestation de Sainte-Soline
▻https://iaata.info/Communique-au-sujet-de-S-camarade-au-pronostic-vital-engage-a-la-suite-de-la
Samedi 25 mars à Sainte Soline, notre camarade S. a été atteint à la tête par une grenade explosive lors de la manifestation contre les bassines. Malgré son état d’urgence absolue, la préfecture a sciemment empêché les secours d’intervenir dans un premier temps et d’engager son transport dans une unité de soins adaptée dans un second temps. Il est actuellement en réanimation neurochirurgicale. Son pronostic vital est toujours engagé.
Le déferlement de violences que les manifestants ont subi a fait des centaines de blessés, avec plusieurs atteintes graves à l’intégrité physique comme l’annoncent les différents bilans disponibles. Les 30 000 manifestants étaient venus dans l’objectif de bloquer le chantier de la méga-bassine de Sainte-Soline, un projet d’accaparement de l’eau par une minorité au profit d’un modèle capitaliste qui n’a plus rien à défendre sinon la mort. La violence du bras armé de l’Etat démocratique en est la traduction la plus saillante.
Dans la séquence ouverte par le mouvement contre la réforme des retraites, la police mutile et tente d’assassiner pour empêcher le soulèvement, pour défendre la bourgeoisie et son monde. Rien n’entamera notre détermination à mettre fin à leur règne. Mardi 28 mars et les jours suivants, renforçons les grèves et les blocages, prenons les rues, pour S. et tous les blessés et les enfermés de nos mouvements.
Vive la révolution.
Des camarades du S.
P.-S.
Si vous disposez d’informations concernant les circonstances des blessures infligées à S., contactez-nous à : s.informations@proton.me
Nous souhaitons que ce communiqué soit diffusé le plus massivement possible.
#maintien_de_l'ordre #violence_d'État #violences_policières #gendarmerie #armes_de_la_police #GM2L #Manifestation #mégabassines #Sainte_Soline #blessés #urgence_vitale #coma #traumatisme_cranien #entre_la_vie_et_la_mort
]]>Folie douce, folie dure
Une balade dans le quotidien de plusieurs #institutions_psychiatriques, à la rencontre de personnes hors normes qui nous laissent entrer dans leur intimité…
▻https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/61018_0
#film #film_d'animation #hôpital_psychiatrique #maladie_psychiatrique #émotions #désir #traumatisme #psychiatrie #isolement
]]>Canada : Inquiétudes chez les vétérans sur l’aide à mourir La Presse canadienne à Ottawa - Le Devoir
▻https://www.ledevoir.com/societe/773388/sante-inquietudes-chez-les-veterans-sur-l-aide-a-mourir
Les révélations selon lesquelles certains anciens combattants canadiens se sont vu offrir l’aide médicale à mourir alors qu’ils cherchaient du soutien du gouvernement fédéral ajoutent aux inquiétudes concernant la volonté d’Ottawa de permettre cette procédure pour des motifs de problèmes mentaux.
Des groupes d’anciens combattants demandent plutôt à Ottawa d’accroître l’accès aux services de santé mentale pour les anciens militaires, ce qui comprend la résolution des longs délais d’attente que beaucoup se voient obligés d’endurer lorsqu’ils demandent de l’aide.
Alors que l’aide médicale à mourir a été légalisée en 2016 pour les Canadiens souffrant de blessures et de maladies physiques, les critères devraient être élargis en mars pour inclure les personnes vivant avec des problèmes de santé mentale.
Bien que ce plan ait déjà suscité la crainte de psychiatres de partout au pays, qui affirment que le Canada n’est pas prêt pour une telle décision, M. Maxwell et d’autres sonnent également l’alarme quant à l’impact potentiel sur les anciens soldats malades ou blessés.
Témoignage d’une vétérane
Ces préoccupations se sont cristallisées au cours des dernières semaines, après la venue d’allégations selon lesquelles plusieurs anciens militaires qui ont demandé de l’aide à Anciens Combattants Canada au cours des trois dernières années ont plutôt reçu des conseils sur l’aide à mourir.
Il s’agit notamment de la caporale à la retraite et paralympienne canadienne Christine Gauthier, qui a raconté la semaine dernière au comité permanent des anciens combattants de la Chambre des communes qu’ elle s’était vu offrir une mort assistée au cours de sa lutte de cinq ans pour obtenir une rampe d’accès pour fauteuils roulants chez elle.
Le gouvernement fédéral a blâmé une seule employée d’Anciens Combattants, affirmant que la gestionnaire agissait seule et que son cas avait été confié à la Gendarmerie royale du Canada. Il a aussi indiqué que des formations et de l’encadrement ont été dispensés au reste des employés du département.
La question a néanmoins suscité des craintes quant à ce qui se passera si les critères de l’aide médicale à mourir sont élargis en mars, d’autant plus que de nombreux anciens combattants souffrant de blessures mentales et physiques continuent de devoir attendre des mois, voire des années, pour obtenir un soutien fédéral.
Ces temps d’attente ont persisté pendant des années malgré la frustration, la colère et les avertissements de la communauté des anciens combattants ainsi que du bureau de l’ombudsman des vétérans, du vérificateur général du Canada et d’autres au sujet de l’impact négatif de ces temps d’attente.
« Ma crainte est que nous offrions aux gens un moyen de mettre fin à leurs jours alors qu’il existe des traitements, mais ces traitements sont plus difficiles d’accès que la mort médicalement assistée », a récemment témoigné Oliver Thorne, du Veterans Transition Network, devant le comité permanent des anciens combattants.
Malgré les affirmations du gouvernement selon lesquelles une seule employée était responsable de proposer l’aide médicale à mourir comme option, la directrice adjointe des services aux anciens combattants de la Légion royale canadienne, Carolyn Hughes, a affirmé que les allégations avaient avivé la colère et des craintes de longue date de la communauté.
« De nombreux anciens combattants ont été fâchés et retraumatisés par cette situation », a-t-elle déclaré au même comité. Elle a cité la perception de certains selon laquelle la stratégie du ministère est de nier, retarder les services et attendre que les vétérans meurent.
Le premier ministre Justin Trudeau a soutenu vendredi que le gouvernement cherchait à trouver le juste équilibre entre l’accès à l’aide médicale à mourir et la protection des Canadiens vulnérables, y compris les anciens combattants.
#armée #guerre #traumatisme #soins #santé_mentale #aide_médicale #suicide #décès #santé_publique
]]>#Flee
Pour la première fois, Amin, 36 ans, un jeune réfugié afghan homosexuel, accepte de raconter son histoire. Allongé les yeux clos sur une table recouverte d’un tissu oriental, il replonge dans son passé, entre innocence lumineuse de son enfance à Kaboul dans les années 1980 et traumatismes de la fuite de sa famille pendant la guerre civile, avant la prise du pouvoir par les talibans. Après des années de clandestinité en Russie, Amin – un pseudonyme – arrive seul à 16 ans au Danemark, où il rencontre le réalisateur qui devient son ami. Au fil de son récit et des douleurs enfouies, l’émotion resurgit. Aujourd’hui universitaire brillant installé avec son compagnon danois Kasper, le jeune homme confie un secret qu’il cachait depuis vingt ans.
Intime et politique
Pour retranscrire ces poignants entretiens et préserver l’anonymat de son ami, le réalisateur danois Jonas Poher Rasmussen, qui endosse ici à la fois la posture de l’intervieweur et de complice, a choisi la puissance évocatrice de l’animation, laquelle immerge dans le vibrant témoignage d’Amin, doublé par le comédien Kyan Khojandi. Passeurs au cynisme brutal, familles ballotées de marches éreintantes dans la neige en traversées dantesques à bord d’épaves, violences policières et corruption : si le film raconte en couleurs l’effroyable épopée du jeune demandeur d’asile afghan, les événements les plus traumatiques sont relatés dans des séquences en noir et blanc au fusain, traversées d’ombres fantomatiques. Des archives de journaux télévisés balisent aussi le récit, dont celles du naufrage du ferry « Estonia » en 1994 : ces incursions du réel trouvent une puissante résonance, alors que les drames de réfugiés se répètent, comme l’illustre aujourd’hui la guerre en Ukraine. Mêlant intime et politique, « Flee » transmet avec une rare sensibilité la dimension universelle de ces traques et exils forcés. Au travers du parcours d’Amin qui, enfant, aimait arborer les robes de sa sœur, avant de fantasmer sur Jean-Claude Van Damme, ce beau documentaire, distingué par une avalanche de prix (plus de quatre-vingts) et trois nominations aux Oscars, retrace aussi la quête identitaire d’un jeune homosexuel pour trouver sa place et vivre librement. Une bouleversante confession qui permet à son auteur de se délivrer de son lourd passé.
▻https://www.arte.tv/fr/videos/075801-000-A/flee
▻https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/62460_0
#film #film_d'animation #documentaire #réfugiés #asile #migrations #réfugiés_afghans #Afghanistan #homosexualité #LGBT #traumatisme #talibans #Danemark #secret #témoignage #parcours_migratoire #itinéraire_migratoire
]]>Une personne sans titre de séjour sur six souffre de troubles de stress post-traumatique en France
Les Troubles de stress post-traumatique (TSPT) sont des #troubles_psychiatriques qui surviennent après un #événement_traumatisant. Ils se traduisent par une #souffrance_morale et des complications physiques qui altèrent profondément la vie personnelle, sociale et professionnelle. Ces troubles nécessitent une #prise_en_charge spécialisée. Pour les personnes sans titre de séjour, la migration peut avoir donné lieu à des expériences traumatiques sur le #parcours_migratoire ou dans le pays d’accueil, qui peuvent s’ajouter à des traumatismes plus anciens survenus dans le pays d’origine, alors que les #conditions_de_vie sur le sol français sont susceptibles de favoriser le développement de TSPT.
Quelle est la prévalence des troubles de stress post-traumatique au sein de cette population encore mal connue ? Comment les #conditions_de_migration et les #conditions_de_vie dans le pays d’accueil jouent-elles sur leur prévalence ? Quel est l’accès à l’Aide médicale de l’Etat (#AME) des personnes qui en souffrent ?
54 % des personnes interrogées dans l’enquête Premiers pas, menée en 2019 à Paris et dans l’agglomération de Bordeaux auprès de personnes sans titre de séjour, déclarent avoir vécu un événement traumatique. 33 % dans leur pays d’origine, 19 % au cours de la migration, et 14 % en France. La prévalence des TSPT atteint 16 % parmi les personnes sans titre de séjour, tandis qu’elle est estimée entre 1 à 2 % en population générale en France (Vaiva et al., 2008 ; Darves-Bornoz et al., 2008). Les conditions de vie précaires en France sont associées à des prévalences plus élevées de TSPT. Parmi les personnes souffrant de TSPT éligibles à l’AME, 53 % ne sont pas couvertes, contre 48 % dans le reste de cette population.
▻https://www.irdes.fr/recherche/2022/qes-266-une-personne-sans-titre-de-sejour-sur-six-souffre-de-troubles-de-stres
#trouble_de_stress_post-traumatique (#TSPT) #statistiques #chiffres #traumatisme #sans-papiers #France #santé_mentale #psychiatrie #accès_aux_soins #précarité
Asile, une industrie qui dérape
Le traitement des demandes d’asile en Suisse est devenu une véritable industrie, avec des #centres_fédéraux gérés principalement par des sociétés privées. Employés mal payés, manque cruel de formation, dérapages violents, dérives bureaucratiques, accès aux soins problématique : des témoignages et des documents d’enquêtes pénales inédits permettent de percer la boîte noire des centres fédéraux d’asile.
▻https://pages.rts.ch/emissions/temps-present/12754866-asile-une-industrie-qui-derape.html
#Budget de fonctionnement des centres : 215 millions en 2021, dont 57 mio à l’encadrement et 60 millions à la sécurité (min 53’50) :
Dans le reportage, l’histoire de #Sezgin_Dag est racontée. Sezgin décède dans un taxi qui était en train de l’amener à l’hôpital (à partir de la minute 3’06).
#asile #migrations #réfugiés #privatisation #business #Suisse #ORS #Protectas
#violence #accélération_des_procédures #procédures_accélérées #accès_aux_soins #souffrance #témoignage #industrie_de_l'asile #business #SEM #Securitas #coût #dysfonctionnement #Boudry #cellule_de_réflexion #décès #morts #suicides #automutilations #traumatismes #dérapages #Gouglera #injures #violence_systématique #frontaliers #conditions_de_travail #plan_d'exploitation_hébergement (#PLEX) #fouilles #nourriture #alimentation #punitions #privations_de_sortie #mesures_disciplinaires #horaires #pénalité #formation #spray #agents_de_sécurité #salaires #centres_pour_récalcitrants #récalcitrants #Verrières #centres_spécifiques #centre_des_Verrières #disparitions #délinquance #optimisation #sécurité #prestations #société_anonyme
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Ajouté à la métaliste sur #ORS en Suisse :
►https://seenthis.net/messages/884092
(...) la floraison soudaine, surprenante, comme magique, de nouvelle facultés qui apparaissent suite au choc violent. Cela fait fait penser aux tours de fakirs qui, dit-on, peuvent faire croître des tiges et des fleurs à partir d’une graine, et ce sous nos yeux. L’adversité extrême, particulièrement la peur de la mort, semblent avoir le pouvoir soudain d’éveiller et d’activer des prédispositions latentes, non encore investies, qui attendaient leur maturation dans une tranquillité profonde. L’enfant ayant subi une #agression_sexuelle peut soudainement, sous la pression de l’urgence du #traumatisme, déployer toutes les facultés futures qui sont virtuellement préformées en lui et sont nécessaire pour le mariage, la maternité et la paternité, ainsi que toutes les émotions d’une personne mature. Là on peut parler de progression ou de #prématurité traumatique (pathologique), qui contraste avec le concept familier de régression. On pense à un fruit qui mûrit prématurément quand le bec d’une oiseau l’a meurtri, ou de la maturation prématuré d’un fruit véreux. Le choc peut conduire une partie de la personne à mûrir tout à coup, non seulement affectivement mais aussi intellectuellement. Je vous rappelle ce rêve typique du « bébé savant », que j’avais mis en avant voilà longtemps, dans lequel un nourrisson dans son berceau se met soudain à parler et même à enseigner la sagesse à toute la famille. La peur devant un adulte désinhibé - et donc fou en quelque sorte - transforme pour ainsi dire l’enfant en psychiatre. Pour se protéger des dangers que représentent des adultes sans contrôle, l’enfant doit d’abord savoir comment s’identifier complétement à eux. C’est incroyable à quel point nous pouvons réellement en apprendre de nos « enfants savant », les névrosés.
#ferenczi #trauma #confusion_des_langues #psychanalyse #inceste #pédocriminalité #pédophilie
]]>Six thérapeutes transculturelles pour p(e)anser les plaies du trauma colonial
▻https://desoriental.fr/therapie-transculturelle-decoloniale
mis à jour le 01/12/2021
"Comme nous le rappelle tristement l’actualité en Guadeloupe, le passé esclavagiste et colonial de la France a encore des conséquences aujourd’hui, économiques et politiques, mais aussi dans les âmes et dans les corps.
Cette semaine, on t’emmène faire un tour du côté des thérapies transculturelles (car non, la psychologie et la psychiatrie ne sont pas universelles mais bien ancrées culturellement.), un champ d’étude et d’action en santé mentale encore peu connu, et qui pourtant pourrait nous aider, collectivement et individuellement, à penser et à panser les plaies du trauma colonial.
On parle d’approches thérapeutiques transculturelles, décoloniales ou encore d’ethnopsychiatrie. L’occasion de rappeler que n’importe qui peut aller consulter un.e psychiatre. Il s’agit juste d’un.e professionnel.le qui allie psychologie et médecine et offre une modalité (remboursée par la sécu’) de prendre soin de sa santé mentale. Et comme dirait l’autre, les 20% qui vont en thérapie y vont à cause des 80% qui n’y vont pas. A bon entendeur !
Cette semaine donc, on te présente six thérapeutes transculturelles et/ou décoloniales à suivre ou à consulter. Ces six femmes, de générations et de cultures différentes, ont toutes pour point commun d’avoir à un moment de leur vie, ressenti le besoin viscéral d’apporter une solution à cet angle mort de la santé mentale française. Elles offrent à leurs patient.e.s des espaces sécurisés qui prennent en compte leurs spécificités culturelles mais aussi l’impact des oppressions systémiques sur leurs vécus, sans jugement.
En introduction, aux origines des approches thérapeutiques transculturelles
Impossible de citer toutes les contributions majeures au champ des thérapies transculturelles, aussi nous te présentons très subjectivement deux personnalités dont la pensée est un repère toujours pertinent pour comprendre la réalité psychologique des Français.e.s transculturel.le.s post-coloniaux.ales :
L’incontournable Frantz Fanon, psychanalyste français afro-caribéen fortement impliqué dans la lutte pour l’indépendance algérienne et enterré en Algérie, est l’un des premiers à envisager la part psychologique du processus et du système de colonisation et à décrire les séquelles et aliénations de la colonisation sur la psyché des sujets colonisés.
Alice Cherki, psychanalyste judéo-algéroise indépendantiste et disciple de Fanon est, elle, toujours vivante et sa réflexion n’a fait que suivre l’évolution des générations de déraciné.e.s, comme en témoigne son livre de 2007 La Frontière invisible, violence de l’immigration. Le trauma n’est plus vécu mais hérité des générations précédentes, souvent dans le silence, souvent par le corps.
Six praticiennes transculturelles et/ou décoloniales
1. Marie-Ève Hoffet-Gachelin, pédopsychiatre franco-vietnamienne
Elle exerce au centre médico-psycho-pédagogique de Colombes et a fait de la recherche sur la pédopsychiatrie post-coloniale en partant de sa connaissance des parcours post-coloniaux franco-vietnamiens.
2. Hagere Mogaadi, psychanalyste inclusive à Paris
Elle se présente comme décolonialiste, queer friendly, musulmane, féministe et transculturelle.
Au-delà des consultations, elle propose du contenu autour des questions identitaires et de santé mentale sur son compte instagram : @la_psy_qui_cause.
3. Selma Sardouk, coach décoloniale et féministe
Selma n’est pas thérapeute mais coach formée en hypnose et en thérapies brèves, créatrice de contenu autour des questions décoloniales et féministes.
Elle vulgarise des sujets très précis en formats très synthétiques. Mais on adore les Reels de son compte Instagram @selmasardouk qui mettent le doigt sur ces micro-moments où on peut se sentir incompris.e ou en colère face au racisme ordinaire voire bienveillant, en tant que Français.e transculturel.le. Rire libérateur assuré !
4. Amalani Simon, psychologue clinicienne franco-indienne
Elle exerce à l’hôpital Avicenne de Bobigny et est fortement impliquée dans la psychanalyse transculturelle et a notamment produit des travaux de recherche autour des liens entre psychologie et langage des enfants français d’ascendance tamoule.
5. Soumaëla Boutant, psychologue interculturelle française afro-caribéenne
L’intérêt de Soumaëla pour la psychologie interculturelle naît pendant ses études, où elle sent une sorte de dissonnance “entre [son] vécu de jeune femme française et afrocaribéenne et certaines théories qui [lui] étaient enseignées à l’université”.
Basée en Guadeloupe, Soumaëla propose des consultations de psychologie interculturelle en visio spécifiquement pour les caribéen.ne.s francophones expatrié.e.s.
6. Karima Lazali, psychologue franco-algérienne
Elle exerce à Levallois-Perret en libéral et a écrit Le trauma colonial, une enquête sur les effets psychiques et politiques contemporains de l’oppression coloniale en Algérie.❞
]]>Sur la mort du prêtre vendéen, témoignage d’une personne qui a bien connu Emmanuel, son élève qui s’est accusé de lui avoir donné la mort .
_Témoignage que je viens de rédiger.
Je ne peux plus me taire.
Cécile Murray, le mardi 10 août 2021.
Je suis choquée d’apprendre le meurtre d’un homme, qui était prêtre et qui tendait la main aux personnes dans le besoin. Je veux lui dire merci.
Je suis bouleversée pour cet homme qui a tendu la main à Emmanuel.
Et je suis bouleversée parce que Emmanuel, le suspect, était mon élève et mon ami depuis 2013.
Et pour cette raison, je ressens vraiment le besoin en lisant tout ce qu’il se dit sur les réseaux de donner mon témoignage, qui j’espère clarifiera et aidera à mieux comprendre cette tragique situation.
Peut être pourra il aider à ne pas juger trop vite.
Je ne crois pas, comme beaucoup le déclarent, qu’il s’agisse d’un incident terroriste ou radical.
Madame Le Pen, non, ne faites pas l’erreur de vous emparer trop vite de cette histoire tragique. Car cette histoire nous ramène bien avant l’incendie, bien avant ce meurtre terrible.
J’avais 24 ans lorsque j’ai connu Emmanuel. Aujourd’hui j’en ai 32. Emmanuel a mangé à notre table, nous avons été au musée ensemble, plusieurs fois je l’ai conduit ici ou là en voiture, seule, parce qu’Emmanuel était un homme bon et doux, profondément respectueux, avec lequel on se sentait en sécurité. Il a offert à la naissance de mon premier fils une peluche que nous avons toujours. Il a joué avec mes enfants.
Il a été hébergé par des membres de ma famille plusieurs mois, lorsqu’il n’avait nulle part où aller. Il était discret, gentil, était aimé de tous. Bref, vous l’avez compris, je connais bien cet homme.
Il avait la confiance de beaucoup de personnes, avant l’incendie à la cathedrale. Il était benevole, tous le décrivaient comme calme, paisible, plutôt timide et discret. Il bégayait un peu. De tous les réfugiés que je connais (et on emploie le terme “réfugié” à tort parce que justement, il ne l’était pas), il était que j’aurais placé en dernier sur la liste de ceux qui pourraient un jour faire du mal à autrui.
Je précise, avec regret mais je m’y sens forcée vu les commentaires lus aujourdui, qu’il n’était pas musulman. Il était chrétien, catholique.
Et il s’est beaucoup investi bénévolement au service de l’Eglise Catholique.
En 2013 j’ai lu en long et en large Les documents qu’il a reçus oú sa demande d’asile était refusée. Nous étions assis dans ma salle à manger, je lisais en silence le courrier de l’OFPRA (office français de protection des réfugiés et apatrides), essayant de rester calme. Emmanuel pleurait, impuissant. Dans ce dossier, il y avait la transcription de son interview à l’OFPRA, et donc de son histoire. J’ai tout lu en ravalant mes larmes et j’ai attendu qu’il reparte de chez moi pour m’effondrer. C’était la première fois que je lisais les détails de son histoire. Je me demandais comment il pouvait tenir si calmement, sans suivi psychiatrique après ces horreurs. Il me faudrait, si je traversais ça, un suivi psychiatrique de plusieurs années pour m’en remettre !
Non seulement il avait besoin d’un suivi psy, comme de nombreux demandeurs d’asile d’ailleurs, qui vivent hantés par leurs souvenirs et les traumas... mais en plus, puisque le refus de ‘OFPRA doit toujours être argumenté, on lui disait que son histoire n’était pas la vérité. On remettait en question la véracité des documents qu’il avait fournis, par exemple. Tant de personnes vivent ça. Ça serait tellement plus sain pour ceux qui racontent la vérité d’entendre qu’on ne peut pas accueillir davantage de personnes en France. S’entendre dire qu’on ment n’est pas facile pour tout le monde. J’ai vu ce jour là commencer pour cet homme qui avait déjà vécu la torture (au premier degré) une torture psychologique. L’angoisse, la peur, le sentiment d’injustice. Ce dossier est confidentiel et j’espère qu’un jour il sera relu, afin qu’on puisse réaliser non seulement l’horreur que cet homme a traversé, mais aussi la brutalité et l’indifférence avec laquelle on répond à une personne sur un sujet si délicat que l’histoire de sa vie, surtout parsemée de tels traumas.
Vous vous direz peut être : si ils ont jugé que son histoire n’est pas recevable, ils sont experts, nous devons faire confiance.
C’est là que les choses se compliquent : ces 9 dernières années au contact de demandeurs d’asile m’ont appris que, bien au delà de l’histoire de la personne, il y a des enjeux politiques et des accords entre les pays, voire même l’implication de notre pays dans certains conflits qui font que certains demandeurs d’asile ayant vraiment vécu atrocités et danger de mort ne sont pas reconnus réfugiés en France. Pour le Rwanda, la France considère que le genocide est terminé. Elle ne reconnaît pas les représailles qui ont pu avoir lieu après le genocide. Or un genocide et la haine ne se termine pas du jour au lendemain. Ça se saurait. Je me retiens de parler du Tchad et de la position de la France, et tellement d’autres exemples qui peuvent nous faire tellement honte, nous citoyens français.
Personnellement, je n’ai jamais réussi à m’imaginer dans la peau d’Emmanuel.
Il a fui la violence, pour finalement vivre un autre cauchemar de plusieurs années, sans toit, sans futur, sans être cru. Une fragilité psychologique s’est progressivement installée.. une impuissance terrible.
Il a essayé de croire, essayé de positiver. Plusieurs fois, nous avons prié. Il était croyant, catholique. Il essayait de placer sa confiance en Dieu. Il passait du temps d’ailleurs à l’église. Il a même été rencontré le Pape et était très fier d’une photo de lui qui lui serrait la main. L’Eglise, c’était sa bouffée d’oxygène.
Mais récépissés, OQTF se sont enchaînés. Les montagnes russes. Le désespoir revenait souvent. On ne peut pas ce que c’est. Pendant 8 ans, errer sans toit, dépendre de la bienveillance de certains qui t’accueillent. Tu ne peux pas travailler. Tu n’es pas réfugié. Tu ne peux pas retourner au pays, parce même si la France veut pas te croire pour ses raisons à elle qui dépasse de loin l’échelle des individus concernés, toi tu as connu la torture et l’horreur. Mais on te dit que tu mens. Malgré ce que le docteur qui a inspecté ton corps a écrit. Malgré les preuves que tu fournis.Aucune issue.
Il y a eu un tournant, dans la santé mentale d’Emmanuel. C’était en hiver 2019 (?) il me semble. Ça faisait déjà longtemps qu’on ne s’était pas revus. Emmanuel est venu chez nous, balafré à la joue, ses lunettes cassées, dans un état de panique, il était confus, il pleurait, il n’arrivait pas à s’exprimer. Le regard dans le vide, il répétait qu’il ne comprenait pas pourquoi il avait été attaqué. Quelques jours plus tôt, sur le parvis de la cathédrale, il avait été attaqué. Je lui ai mis de la crème sur la joue, je lui ai donné le tube. Je devais partir faire je ne sais quoi avec mes enfants, je n’ai pas pris le temps qu’il fallait. Je n’ai pas mesuré ce qu’il se passait. Je crois que ce jour la, il a vécu un trauma de plus, un trauma de trop. Peut être qu’à cette attaque, des traumas sont remontés...
Il y a quelques mois, je parlais avec un jeune qui était dans ma classe de francais, avec Emmanuel. B. avait 16 ans quand il est arrivé. Lui aussi avait eu un OQTF (obligation de quitter le territoire français ) et lui aussi je l’avais vu pleurer, dans notre salon. Sa maman lui manquait. Il n’était qu’un ado, après tout ! Il ne savait pas où il allait. Mais parce qu’il était mineur, il a bénéficié de la protection de l’enfance et après une année de galère et de détresse, il a reçu ses papiers. Aujourd’hui iil a fait des études, il travaille et il conduit. Alors que je lui donnais la terrible nouvelle de l’incendie de la cathedrale, voici ce qu’il a dit : « Si les problèmes avaient duré 8 ans pour moi, moi aussi je serais devenu fou, c’est invivable, intenable. Je suis désolé pour Emmanuel. »
...
Comprenons nous ?
Déjà l’année dernière à l’incendie de la cathédrale, de nombreuses personnes ont crié à l’attaque terroriste. Cette cathédrale, Emmanuel l’aimait beaucoup. C’était son lieu de travail et son lieu de recueillement. En quelque sorte, c’était chez lui. Il ne s’agit pas d’un homme qui est entré dans une cathédrale pour y mettre le feu ! Il s’agit d’un homme qui n’en pouvait plus et qui a foutu le feu à l’endroit qu’il connaissait peut être le mieux. Nous qui connaissons Emmanuel savons que c’était bien plus profond. Il aimait vraiment servir à l’église, ça lui permettait de penser à autre chose. Il aimait vraiment l’église. Sauf que même l’Eglise n’avait pu l’aider à hauteur du besoin. Le soutenir comme il l’aurait fallu. Parce qu’un homme a qui on refuse de vivre comme un homme, à un moment, ne peut plus tenir. Malgré le vrai soutien qu’il a reçu de la part de plusieurs personnes et de l’Eglise.
Je voudrais dire à Madame Le pen que oui, oui, il fallait accueillir cet homme menacé de mort au Rwanda. Oui il fallait l’accueillir. Mais ce n’est pas ce que nous avons fait. Il n’a pas été accueilli par la France, on lui a refusé l’asile suite à une interview, on lui a dit qu’il mentait, et pour des raisons qui dépassent son histoire et qui concernent la France et ses accords politiques, et cela malgré son intégration, son bénévolat, ses grands efforts, sa claire envie de s’en sortir, toutes les attestations que nous autres avons fournies, sa motivation à travailler, on l’a laissé survivre seul, sans ressources, sans toit, sans futur et sans perspective d’avenir. On l’a laissé la nuit revivre l’horreur de son passé dans ses cauchemars et le jour, faire face au cauchemar que vit l’homme débouté du droit d’asile. L’homme qui ne peut vivre comme un homme. On la laissé dans une détresse psychologique telle qu’un homme pourtant si doux, et encore une fois je ne suis pas la seule à le dire, se retrouve aujourd’hui tellement perturbé psychologiquement qu’il a tué celui qui lui tendait la main. Sans parler de la prison depuis l’acte terrible d’incendier la Cathédrale. L’Unité psychiatrique de la prison. Il ne mangeait plus pendant un temps. Il ne parlait plus. L’avez vous visité ? avez vous cherché ce qui a pu le pousser à déclencher un incendie dans la cathédrale ?
On a fait vivre un cauchemar à ce pauvre homme, pendant de nombreuses annees. Aujourd’hui, je pense qu’Emmanuel souffre de troubles psychiatriques graves qui ont fait de lui, hier, lundi 9 août 2021, un criminel. Il a tué cet homme qui lui tendait la main. C’est un acte d’une gravité énorme, et un acte incompréhensible qui, pour moi et à la lumière de ce que je sais de cette histoire, ne s’explique que par le trouble psychiatrique. Un trouble psychiatrique qui doit être reconnu. Un trouble psychiatrique installé par des années d’angoisse, dû à l’indifférence et la survie que vivent les déboutés du droit d’asile.
Et ce sont des citoyens, des religieux, des missionnaires, qui dans l’ombre prennent soin de ces gens qui sont là sans être là. Peu d’associations le font puisqu’il n’y a pas de financement pour ce public la. Qui sont les fantômes de notre République des droits de l’homme. Qui bossent au black dans notre pays.
Aujourd’hui je peux dire que mon ami Emmanuel est devenu un meurtrier, lui qui avait fui son pays et tout risqué pour ne pas l’être. Il est devenu un meurtrier.
Mais jamais je n’oublierais qu’avant hier, lundi, il était d’abord une victime, une victime du Rwanda, et une victime d’une France qui ne lui a pas tendu la main alors qu’il avait besoin de secours, pendant de longues années.
Madame Le Pen se permet de s’emparer du sujet en le reliant à un acte terroriste, disant que cet homme n’aurait jamais dû venir en France. Elle se saisit d’une histoire qu’elle ne connaît pas comme d’un argument pour faire pencher la balance en sa faveur.
Cet homme comme tant d’autres est venu trouver refuge en France parce que nous sommes le pays des Droits de L’Homme. Mais nous ne lui avons pas donné refuge. Nous l’avons laissé dans la misère et sa souffrance a pris le dessus. Hier il a commis le pire.
Aucun de nous ne peut savoir s’il aurait supporté les souffrances d’Emmanuel. Celles du Rwanda, et celles de ces 9 dernières années en France. Moi, je ne pense pas que j’aurais pu les supporter. Déjà les lire dans un dossier c’était trop. Alors les vivre, non.
Au prêtre décédé hier, tué par l’ami qu’il hébergeait, avec l’espoir de le voir aller mieux : merci du fond de mon cœur ♥️ il n’y a pas de plus grand amour que de donner sa vie pour ses amis. Vous avez tendu la main que la France n’a pas tendu à cet homme.
A tous, que celui qui a déjà vécu une vie comme celle d’Emmanuel lui jette la première pierre.
Moi, fille de fils d’immigré d’Algerie, j’ai eu la chance d’apprendre à écrire. Aujourd’hui je tenais à ce que ma plume témoigne de l’histoire d’un exilé, qui n’a lui pas eu la même chance que ma famille en France. Un exilé qui a été ignoré lorsqu’il tenait bon, et qui aujourd’hui est connu parce qu’il est tombé.
Voila, merci de m’avoir lue.
Cécile Issaad Murray
Ma tante, Odile Brousse, qui a hébergé Emmanuel plusieurs mois, tient à dire qu’elle co-signe cette lettre.
Vous pouvez partager, et largement si le cœur vous en dit._
Source : ▻https://facebook.com/story.php?story_fbid=10159516250561667&id=782961666
]]>#Eyal_Weizman : « Il n’y a pas de #science sans #activisme »
Depuis une dizaine d’années, un ensemble de chercheurs, architectes, juristes, journalistes et artistes développent ce qu’ils appellent « l’architecture forensique ». Pour mener leurs enquêtes, ils mettent en œuvre une technologie collaborative de la vérité, plus horizontale, ouverte et surtout qui constitue la vérité en « bien commun ». Eyal Weizman en est le théoricien, son manifeste La Vérité en ruines a paru en français en mars dernier.
▻https://aoc.media/entretien/2021/08/06/eyal-weizman-il-ny-a-pas-de-science-sans-activisme-2
#recherche #architecture_forensique #forensic_architecture #vérité #preuve #preuves #régime_de_preuves #spatialisation #urbanisme #politique #mensonges #domination #entretien #interview #espace #architecture #preuves_architecturales #cartographie #justice #Palestine #Israël #Cisjordanie #Gaza #images_satellites #contre-cartographie #colonialisme #Etat #contrôle #pouvoir #contre-forensique #contre-expertise #signaux_faibles #co-enquête #positionnement_politique #tribunal #bien_commun #Adama_Traoré #Zineb_Redouane #police #violences_policières #Rodney_King #Mark_Duggan #temps #Mark_Duggan #Yacoub_Mousa_Abu_Al-Qia’an #Harith_Augustus #fraction_de_seconde #racisme #objectivité #impartialité #faits #traumatisme #mémoire #architecture_de_la_mémoire #Saidnaya #tour_Grenfell #traumatisme #seuil_de_détectabilité #détectabilité #dissimulation #créativité #art #art_et_politique
]]>ROULE AVEC DRIVER spécial DMX (repose en paix ) - YouTube
▻https://www.youtube.com/watch?v=Rks27aUouoA
le maire de #sarcelles... pleins d’infos, d’anecdotes, #rap #chiens #street #hip_hop #dmx #driver #dépouille. Celui sur lil wayne est parfait aussi.
]]>« Traumatisée », la chanteuse Britney Spears demande à la justice californienne de lever sa tutelle
▻https://www.lemonde.fr/culture/article/2021/06/24/traumatisee-la-chanteuse-britney-spears-demande-a-la-justice-de-lever-sa-tut
Selon des documents judiciaires cités par le New York Times, Britney Spears a toutefois exprimé à plusieurs reprises une nette opposition aux conditions de son régime de tutelle. « Elle a déclaré qu’elle avait le sentiment que la tutelle était devenue un moyen de contrôle oppressant à son encontre », écrit dans un rapport daté de 2016 un enquêteur judiciaire chargé du dossier.
#justice #tutelle #britney_spears #star #célébrité #people #trouble_bipolaire #santé #famille #traumatisme #freebritney
]]>Le nombre de déplacés internes, dus aux conflits et au climat, atteint des records
▻https://www.lemonde.fr/planete/article/2021/05/20/le-nombre-de-deplaces-internes-dus-aux-conflits-et-au-climat-atteint-des-rec
Le nombre de déplacés internes, dus aux conflits et au climat, atteint des records. A la fin 2020, 55 millions de personnes vivaient en exil dans leur propre pays, un record. Près de 41 millions de nouveaux déplacements internes ont été enregistrés l’an dernier, dont les trois quarts en raison de catastrophes environnementales. Elles ont quitté leur foyer et leurs terres pour fuir des guerres, des tempêtes, des épisodes de sécheresse ou de violentes moussons. A la fin 2020, 55 millions de personnes vivaient en exil dans leur propre pays, un record, alerte l’Observatoire des situations de déplacement interne (IDMC), dans son bilan annuel publié jeudi 20 mai. Parmi ces populations, 48 millions de personnes ont été poussées au départ en raison de conflits et de violences, et 7 millions du fait de catastrophes environnementales – un chiffre probablement sous-estimé.
Cette structure basée à Genève, qui dépend du Conseil norvégien pour les réfugiés, comptabilise également le nombre de nouveaux déplacements internes intervenus dans l’année, qui peuvent concerner plusieurs fois les mêmes personnes, dont certaines finissent par rentrer chez elles. L’an dernier, près de 41 millions de nouveaux déplacements ont été enregistrés dans 149 pays, soit le chiffre le plus élevé depuis dix ans (+ 20 % par rapport à 2019). Les trois quarts des départs (31 millions) sont dus à des catastrophes environnementales.« Ces nouveaux chiffres sont choquants. La hausse, année après année, du nombre de personnes déplacées montre que l’on ne trouve pas de solutions pour ces gens », regrette Alexandra Bilak, la directrice de l’IDMC. Elle note que les déplacés internes ne suscitent pas la même attention politique que les réfugiés, deux fois moins nombreux. Pourtant, rappelle-t-elle, ces déplacements entraînent « des chocs répétés sur des populations souvent précaires, des déracinements, des traumatismes, des vies brisées ». La pandémie de Covid-19 n’a pas forcément augmenté le nombre de personnes déplacées, mais elle a accru leur vulnérabilité et leur insécurité alimentaire. « Moins de personnes ont cherché des abris d’urgence après des catastrophes, par peur d’être contaminées », ajoute Alexandra Bilak.
#Covid-19#migrant#migration#sante#vulnerabilite#personnedeplacee#migrantinterne#deracinement#exil#traumatisme#santementale#conflit#environnement#statistiques
]]>L’OIM fournit une aide au retour à 160 migrants bangladais depuis la Libye | Organisation internationale pour les migrations
▻https://www.iom.int/fr/news/loim-fournit-une-aide-au-retour-160-migrants-bangladais-depuis-la-libye
▻https://www.iom.int/sites/default/files/styles/highlights/public/press_release/media/photo_2_in_dhaka_edited_0.jpg?itok=ycslm7j0
Dhaka - En étroite coordination avec le gouvernement du Bangladesh, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) a facilité le retour en toute sécurité de 160 migrants bangladais bloqués en Libye grâce à son programme de retour humanitaire volontaire.L’avion a quitté Benghazi, en Libye, le 4 mai et a atterri en toute sécurité à l’aéroport international Hazrat Shajalal de Dhaka le lendemain. Les migrants étaient bloqués en Libye en raison de la COVID-19 et de la situation difficile en matière de sécurité dans le pays. L’OIM a œuvré en étroite collaboration avec les autorités libyennes et l’Ambassade du Bangladesh en Libye pour aider ces personnes à rentrer chez elles. Avant le départ, les migrants ont subi des examens de santé et l’OIM leur a fourni une aide au transport avant le départ, des services de conseil et un examen de protection. Ils ont également reçu des équipements de protection individuelle (EPI) et ont passé des tests de COVID-19 (PCR) avant d’entamer leur retour au Bangladesh.
« La pandémie de COVID-19 en Libye a déclenché une série d’événements qui a conduit à une perte importante des moyens de subsistance pour des milliers de migrants. Le programme de retour humanitaire volontaire de l’OIM est la seule voie sûre et régulière pour les migrants qui veulent quitter la Libye et rentrer chez eux de manière sûre, régulière et digne », a déclaré Federico Soda, chef de mission de l’OIM en Libye. « Ces opérations sont compliquées et rendues possibles par la collaboration tripartite entre l’OIM, l’ambassade du Bangladesh en Libye et les autorités libyennes à Benghazi. Cette collaboration est soutenue financièrement par l’Union européenne. »
A Dhaka, les responsables du gouvernement bangladais et le personnel de l’OIM ont accueilli et aidé les migrants à l’aéroport international Hazrat Shahjalal, où ils ont reçu une aide en espèces pour leur transport ultérieur vers leurs destinations respectives.
Les migrants de retour recevront chacun une subvention de réintégration pour les aider à se réinsérer dans leurs communautés. Cette aide à la réintégration est particulièrement importante pour les migrants qui, dans certains cas, ont subi des traumatismes physiques et psychologiques lorsqu’ils étaient bloqués en Libye.« Notre priorité est d’offrir à ceux qui souhaitent rentrer dans leur pays un moyen sûr et digne pour le faire, et de soutenir leur réintégration. Pour ce faire, nous continuons à travailler de manière étroite et constructive avec le gouvernement du Bangladesh, et je les remercie pour leurs efforts continus », a déclaré Giorgi Gigauri, chef de mission de l’OIM au Bangladesh.Selon l’un des migrants de retour, « la vie en Libye était très dangereuse car les affrontements se poursuivaient ; j’ai décidé de rentrer dans mon pays car je ne gagnais pas assez d’argent. C’était très difficile de rester là-bas. »
#Covid-19#migrant#migration#libye#bengladesh#sante#retour#rapatriement#santementale#traumatisme
Le programme de retour humanitaire volontaire de l’OIM est souvent considéré comme une bouée de sauvetage pour les migrants bloqués qui choisissent de rentrer chez eux et de reconstruire leur vie. Depuis 2015, plus de 2 900 migrants bangladais sont rentrés de Libye grâce à ce programme, qui fait partie de l’initiative conjointe UE-OIM pour la protection et la réintégration des migrants, plus vaste.
]]>Réfugiés : contourner la #Croatie par le « #triangle » #Serbie - #Roumanie - #Hongrie
Une nouvelle route migratoire s’est ouverte dans les Balkans : en Serbie, de plus en plus d’exilés tentent de contourner les barbelés barrant la #Hongrie en faisant un crochet par la Roumanie, avant d’espérer rejoindre les pays riches de l’Union européenne. Un chemin plus long et pas moins risqué, conséquence des politiques sécuritaires imposées par les 27.
Il est 18h30, le jour commence à baisser sur la plaine de #Voïvodine. Un groupe d’une cinquantaine de jeunes hommes, sacs sur le dos et duvets en bandoulière, marche d’un pas décidé le long de la petite route de campagne qui relie les villages serbes de #Majdan et de #Rabe. Deux frontières de l’Union européenne (UE) se trouvent à quelques kilomètres de là : celle de la Hongrie, barrée depuis la fin 2015 d’une immense clôture barbelée, et celle de la Roumanie, moins surveillée pour le moment.
Tous s’apprêtent à tenter le « #game », ce « jeu » qui consiste à échapper à la police et à pénétrer dans l’UE, en passant par « le triangle ». Le triangle, c’est cette nouvelle route migratoire à trois côtés qui permet de rejoindre la Hongrie, l’entrée de l’espace Schengen, depuis la Serbie, en faisant un crochet par la Roumanie. « Nous avons été contraints de prendre de nouvelles dispositions devant les signes clairs de l’augmentation du nombre de personnes traversant illégalement depuis la Serbie », explique #Frontex, l’Agence européenne de protection des frontières. Aujourd’hui, 87 de ses fonctionnaires patrouillent au côté de la police roumaine.
Depuis l’automne 2020, le nombre de passages par cet itinéraire, plus long, est en effet en forte hausse. Les #statistiques des passages illégaux étant impossibles à tenir, l’indicateur le plus parlant reste l’analyse des demandes d’asiles, qui ont explosé en Roumanie l’année dernière, passant de 2626 à 6156, soit une hausse de 137%, avec un pic brutal à partir du mois d’octobre. Selon les chiffres de l’Inspectoratul General pentru Imigrări, les services d’immigrations roumains, 92% de ces demandeurs d’asile étaient entrés depuis la Serbie.
“La Roumanie et la Hongrie, c’est mieux que la Croatie.”
Beaucoup de ceux qui espèrent passer par le « triangle » ont d’abord tenté leur chance via la Bosnie-Herzégovine et la Croatie avant de rebrousser chemin. « C’est difficile là-bas », raconte Ahmed, un Algérien d’une trentaine d’années, qui squatte une maison abandonnée de Majdan avec cinq de ses compatriotes. « Il y a des policiers qui patrouillent cagoulés. Ils te frappent et te prennent tout : ton argent, ton téléphone et tes vêtements. Je connais des gens qui ont dû être emmenés à l’hôpital. » Pour lui, pas de doutes, « la Roumanie et la Hongrie, c’est mieux ».
La route du « triangle » a commencé à devenir plus fréquentée dès la fin de l’été 2020, au moment où la situation virait au chaos dans le canton bosnien d’#Una_Sana et que les violences de la police croate s’exacerbaient encore un peu plus. Quelques semaines plus tard, les multiples alertes des organisations humanitaires ont fini par faire réagir la Commission européenne. Ylva Johansson, la Commissaire suédoise en charge des affaires intérieures a même dénoncé des « traitements inhumains et dégradants » commis contre les exilés à la frontière croato-bosnienne, promettant une « discussion approfondie » avec les autorités de Zagreb. De son côté, le Conseil de l’Europe appelait les autorités croates à mettre fin aux actes de tortures contre les migrants et à punir les policiers responsables. Depuis, sur le terrain, rien n’a changé.
Pire, l’incendie du camp de #Lipa, près de #Bihać, fin décembre, a encore aggravé la crise. Pendant que les autorités bosniennes se renvoyaient la balle et que des centaines de personnes grelottaient sans toit sous la neige, les arrivées se sont multipliées dans le Nord de la Serbie. « Rien que dans les villages de Majdan et Rabe, il y avait en permanence plus de 300 personnes cet hiver », estime Jeremy Ristord, le coordinateur de Médecins sans frontières (MSF) en Serbie. La plupart squattent les nombreuses maisons abandonnées. Dans cette zone frontalière, beaucoup d’habitants appartiennent aux minorités hongroise et roumaine, et Budapest comme Bucarest leur ont généreusement délivré des passeports après leur intégration dans l’UE. Munis de ces précieux sésames européens, les plus jeunes sont massivement partis chercher fortune ailleurs dès la fin des années 2000.
Siri, un Palestinien dont la famille était réfugiée dans un camp de Syrie depuis les années 1960, squatte une masure défoncée à l’entrée de Rabe. En tout, ils sont neuf, dont trois filles. Cela fait de longs mois que le jeune homme de 27 ans est coincé en Serbie. Keffieh sur la tête, il tente de garder le sourire en racontant son interminable odyssée entamée voilà bientôt dix ans. Dès les premiers combats en 2011, il a fui avec sa famille vers la Jordanie, puis le Liban avant de se retrouver en Turquie. Finalement, il a pris la route des Balkans l’an dernier, avec l’espoir de rejoindre une partie des siens, installés en Allemagne, près de Stuttgart.
“La police m’a arrêté, tabassé et on m’a renvoyé ici. Sans rien.”
Il y a quelques jours, Siri à réussi à arriver jusqu’à #Szeged, dans le sud de la Hongrie, via la Roumanie. « La #police m’a arrêté, tabassé et on m’a renvoyé ici. Sans rien », souffle-t-il. À côté de lui, un téléphone crachote la mélodie de Get up, Stand up, l’hymne reggae de Bob Marley appelant les opprimés à se battre pour leurs droits. « On a de quoi s’acheter un peu de vivres et des cigarettes. On remplit des bidons d’eau pour nous laver dans ce qui reste de la salle de bains », raconte une des filles, assise sur un des matelas qui recouvrent le sol de la seule petite pièce habitable, chauffée par un poêle à bois décati.
De rares organisations humanitaires viennent en aide à ces exilés massés aux portes de l’Union européennes. Basé à Belgrade, le petit collectif #Klikaktiv y passe chaque semaine, pour de l’assistance juridique et du soutien psychosocial. « Ils préfèrent être ici, tout près de la #frontière, plutôt que de rester dans les camps officiels du gouvernement serbe », explique Milica Švabić, la juriste de l’organisation. Malgré la précarité et l’#hostilité grandissante des populations locales. « Le discours a changé ces dernières années en Serbie. On ne parle plus de ’réfugiés’, mais de ’migrants’ venus islamiser la Serbie et l’Europe », regrette son collègue Vuk Vučković. Des #milices d’extrême-droite patrouillent même depuis un an pour « nettoyer » le pays de ces « détritus ».
« La centaine d’habitants qui restent dans les villages de Rabe et de Majdan sont méfiants et plutôt rudes avec les réfugiés », confirme Abraham Rudolf. Ce sexagénaire à la retraite habite une modeste bâtisse à l’entrée de Majdan, adossée à une ruine squattée par des candidats à l’exil. « C’est vrai qu’ils ont fait beaucoup de #dégâts et qu’il n’y a personne pour dédommager. Ils brûlent les charpentes des toits pour se chauffer. Leurs conditions d’hygiène sont terribles. » Tant pis si de temps en temps, ils lui volent quelques légumes dans son potager. « Je me mets à leur place, il fait froid et ils ont faim. Au vrai, ils ne font de mal à personne et ils font même vivre l’épicerie du village. »
Si le « triangle » reste a priori moins dangereux que l’itinéraire via la Croatie, les #violences_policières contre les sans papiers y sont pourtant monnaie courante. « Plus de 13 000 témoignages de #refoulements irréguliers depuis la Roumanie ont été recueillis durant l’année 2020 », avance l’ONG Save the Children.
“C’est dur, mais on n’a pas le choix. Mon mari a déserté l’armée de Bachar. S’il rentre, il sera condamné à mort.”
Ces violences répétées ont d’ailleurs conduit MSF à réévaluer sa mission en Serbie et à la concentrer sur une assistance à ces victimes. « Plus de 30% de nos consultations concernent des #traumatismes physiques », précise Jérémy Ristor. « Une moitié sont liés à des violences intentionnelles, dont l’immense majorité sont perpétrées lors des #push-backs. L’autre moitié sont liés à des #accidents : fractures, entorses ou plaies ouvertes. Ce sont les conséquences directes de la sécurisation des frontières de l’UE. »
Hanan est tombée sur le dos en sautant de la clôture hongroise et n’a jamais été soignée. Depuis, cette Syrienne de 33 ans souffre dès qu’elle marche. Mais pas question pour elle de renoncer à son objectif : gagner l’Allemagne, avec son mari et leur neveu, dont les parents ont été tués dans les combats à Alep. « On a essayé toutes les routes », raconte l’ancienne étudiante en littérature anglaise, dans un français impeccable. « On a traversé deux fois le Danube vers la Roumanie. Ici, par le triangle, on a tenté douze fois et par les frontières de la Croatie et de la Hongrie, sept fois. » Cette fois encore, la police roumaine les a expulsés vers le poste-frontière de Rabe, officiellement fermé à cause du coronavirus. « C’est dur, mais on n’a pas le choix. Mon mari a déserté l’armée de Bachar avec son arme. S’il rentre, il sera condamné à mort. »
Qu’importe la hauteur des murs placés sur leur route et la terrible #répression_policière, les exilés du nord de la Serbie finiront tôt ou tard par passer. Comme le déplore les humanitaires, la politique ultra-sécuritaire de l’UE ne fait qu’exacerber leur #vulnérabilité face aux trafiquants et leur précarité, tant pécuniaire que sanitaire. La seule question est celle du prix qu’ils auront à paieront pour réussir le « game ». Ces derniers mois, les prix se sont remis à flamber : entrer dans l’Union européenne via la Serbie se monnaierait jusqu’à 2000 euros.
▻https://www.courrierdesbalkans.fr/Refugies-contourner-la-Croatie-par-le-triangle-Serbie-Roumanie-Ho
#routes_migratoires #migrations #Balkans #route_des_Balkans #asile #migrations #réfugiés #contournement #Bihac #frontières #the_game
The Asylum Story: Narrative Capital and International Protection
Obtaining international protection relies upon an ability to successfully navigate the host country’s asylum regime. In #France, the #récit_de_vie, or asylum story, is critical to this process. An asylum seeker must craft their story with the cultural expectations of the assessor in mind. The shaping of the asylum story can be seen as an act of political protest.
The role of the asylum story within the asylum procedure
Within a context of increasing securitization of Europe’s borders, the consequences of differentiated rights tied to immigration status have profound impacts. The label of “refugee” confers rights and the chance to restart one’s life. In order to obtain this label, a narrative of the person’s history is required: the asylum story. It must explain the reasons and mechanisms of individualized persecution in the asylum seeker’s country of origin or residence, and the current and sustained fears of this persecution continuing should they return. In France, the Office for the Protection of Refugees and Stateless People (OFPRA)
is responsible for determining whether or not the person will be granted protection, either through refugee status or subsidiary protection.
This essay examines the construction of these stories based on participant observation conducted within an association supporting exiles in Nice called Habitat et Citoyenneté (“Housing and Citizenship”, hereafter H&C).
One of H&C’s activities is supporting asylum seekers throughout the asylum process, including the writing of the story and preparation of additional testimony for appeals in the event of a rejection. Over time, H&C has increasingly specialized in supporting women seeking asylum, many of whom have suffered gender-based and sexual violence. These women’s voices struggle to be heard within the asylum regime as it currently operates, their traumas cross-examined during an interview with an OFPRA protection officer. Consequently, an understanding of what makes a “good” asylum story is critical. Nicole and Nadia, members of H&C who play multiple roles within the association, help to develop the effective use of “narrative capital” whereby they support the rendering of the exiles’ experiences into comprehensive and compelling narratives.
Creating the narrative while struggling against a tide of disbelief
The experience of asylum seekers in Nice illustrates the “culture of disbelief” (Kelly 2012) endemic within the asylum system. In 2019, OFPRA reported a 75% refusal rate.
Rejection letters frequently allege that stories are “not detailed enough,” “vague,” “unconvincing,” or “too similar” to other seekers’ experiences. These perfunctory refusals of protection are an assault in and of themselves. Women receiving such rejections at H&C were distressed to learn their deepest traumas had been labelled as undeserving.
While preparing appeals, many women remembered the asylum interviews as being akin to interrogations. During their interviews, protection officers would “double-back” on aspects of the story to “check” the consistency of the narrative, jumping around within the chronology and asking the same question repeatedly with different phrasing in an attempt to confuse or trick the asylum seeker into “revealing” some supposed falsehood. This practice is evident when reading the transcripts of OFPRA interviews sent with rejection letters. Indeed, the “testing” of the asylum seeker’s veracity is frequently applied to the apparent emotiveness of their descriptions: the interviewer may not believe the account if it is not “accompanied by suitable emotional expression” (Shuman and Bohmer 2004). Grace, recently granted protective status, advised her compatriots to express themselves to their fullest capability: she herself had attempted to demonstrate the truth of her experiences through the scars she bore on her body, ironically embarrassing the officer who had himself demanded the intangible “proof” of her experience.
A problematic reality is that the asylum seeker may be prevented from producing narrative coherency owing to the effects of prolonged stress and the traumatic resonance of memories themselves (Puumala, Ylikomi and Ristimäki 2018). At H&C, exiles needed to build trust in order to be able to narrate their histories within the non-judgemental and supportive environment provided by the association. Omu, a softly spoken Nigerian woman who survived human trafficking and brutal sexual violence, took many months before she was able to speak to Nadia about her experiences at the offices of H&C. When she did so, her discomfort in revisiting that time in her life meant she responded minimally to any question asked. Trauma’s manifestations are not well understood even among specialists. Therefore, production of “appropriately convincing” traumatic histories is moot: the evaluative methodologies are highly subjective, and indeed characterization of such narratives as “successful” does not consider the person’s reality or lived experience. Moreover, language barriers, social stereotypes, cultural misconceptions and expected ways of telling the truth combine to impact the evaluation of the applicant’s case.
Asylum seekers are expected to demonstrate suffering and to perform their “victimhood,” which affects mental well-being: the individual claiming asylum may not frame themselves as passive or a victim within their narrative, and concentrating on trauma may impede their attempts to reconstruct a dignified sense of self (Shuman and Bohmer 2004). This can be seen in the case of Bimpe: as she was preparing her appeal testimony, she expressed hope in the fact that she was busy reconstructing her life, having found employment and a new community in Nice; however, the de facto obligation to embody an “ideal-type” victim meant she was counselled to focus upon the tragedy of her experiences, rather than her continuing strength in survival.
Narrative inequality and the disparity of provision
Standards of reception provided for asylum seekers vary immensely, resulting in an inequality of access to supportive services and thereby the chance of obtaining status. Governmental reception centers have extremely limited capacity: in 2019, roughly a third of the potential population
were housed and receiving long-term and ongoing social support. Asylum seekers who find themselves outside these structures rely upon networks of associations working to provide an alternative means of support.
Such associations attempt to counterbalance prevailing narrative inequalities arising due to provisional disparities, including access to translation services. Nicole is engaged in the bulk of asylum-story support, which involves sculpting applications to clarify ambiguities, influence the chronological aspect of the narration, and exhort the asylum seeker to detail their emotional reactions (Burki 2015). When Bimpe arrived at H&C only a few days ahead of her appeal, the goal was to develop a detailed narrative of what led her to flee her country of origin, including dates and geographical markers to ground the story in place and time, as well as addressing the “missing details” of her initial testimony.
Asylum seekers must be allowed to take ownership in the telling of their stories. Space for negotiation with regard to content and flow is brought about through trust. Ideally, this occurs through having sufficient time to prepare the narrative: time allows the person to feel comfortable opening up, and offers potential to go back and check on details and unravel areas that may be cloaked in confusion. Nicole underlines the importance of time and trust as fundamental in her work supporting women with their stories. Moreover, once such trust has been built, “risky” elements that may threaten the reception of the narrative can be identified collaboratively. For example, mention of financial difficulties in the country of origin risks reducing the asylum seeker’s experience to a stereotyped image where economics are involved (see: the widely maligned figure of the “economic migrant”).
Thus, the asylum story is successful only insofar as the seeker has developed a strong narrative capital and crafted their experience with the cultural expectations of the assessor in mind. In today’s reality of “asylum crisis” where policy developments are increasingly repressive and designed to recognize as few refugees as possible, the giving of advice and molding of the asylum story can be seen as an act of political protest.
Bibliography
Burki, M. F. 2015. Asylum seekers in narrative action: an exploration into the process of narration within the framework of asylum from the perspective of the claimants, doctoral dissertation, Université de Neuchâtel (Switzerland).
Kelly, T. 2012. “Sympathy and suspicion: torture, asylum, and humanity”, Journal of the Royal Anthropological Institute, vol. 19, no. 4, pp. 753–768.
Puumala, E., Ylikomi, R. and Ristimäki, H. L. 2018. “Giving an account of persecution: The dynamic formation of asylum narratives”, Journal of Refugee Studies, vol. 31, no. 2, pp. 197–215.
Shuman, A. and Bohmer, C. 2004. “Representing trauma: political asylum narrative”, Journal of American Folklore, pp. 394–414.
▻https://metropolitics.org/The-Asylum-Story-Narrative-Capital-and-International-Protection.html
#asile #migrations #audition #narrative #récit #OFPRA #France #capital_narratif #crédibilité #cohérence #vraisemblance #véracité #émotions #corps #traces_corporelles #preuves #trauma #traumatisme #stress #victimisation #confiance #stéréotypes
PERDUES DANS LE DIAGNOSTIC ! Les survivantes de l’inceste dans le milieu psychiatrique - ★ ZINZIN ZINE ★
▻https://www.zinzinzine.net/perdues-dans-le-diagnostic-les-survivantes-de-l-inceste-dans-le-milieu-p
Tags : #traumatisme #violence #viol #psychiatrie #soin #.témoignage
]]>L’inceste heureux de Dupond-Moretti
Mi-janvier, Christine Angot a évoqué l’affaire d’inceste dans lequel deux femmes violées dès leurs 10 ans s’étaient rangées du côté de leur père, jugé pour viols. L’une avait finalement eu un enfant avec lui : un « inceste heureux », plaidait alors Éric Dupond-Moretti, avocat des parties civiles et actuel ministre de la Justice. Ce que l’on a oublié depuis, c’est que la fille qui vivait en concubinage avec son père est peu à peu parvenue à se défaire de son emprise et a décidé de le quitter deux ans après le procès, en 2014. Désaveu intolérable pour l’intéressé : il a finalement pourchassé et assassiné sa fille, ainsi que l’homme chez qui elle avait trouvé refuge.
▻https://www.philomag.com/articles/un-inceste-peut-il-vraiment-etre-consenti
#inceste #viol #féminicide #dupond-moretti #Affaire_Mannechez
’I’m certain that people have died here’ – German doctor talks about his experience treating migrants in Bosnia
Aid workers are increasingly alarmed about the worsening situation of the some 1,500 migrants stuck in northwest Bosnia, hundreds of whom are staying in abandoned buildings and makeshift forest settlements with little access to aid. InfoMigrants spoke with German streetwork doctor Gerhard Trabert about his patients’ physical and mental health, a lack of cooperation at the expense of the migrants and what ought to happen next.
Over the past 20 years, Gerhard Trabert has done no fewer than 34 medical aid missions abroad in countries and hotspots including Afghanistan, Syria, Ethiopia, Sri Lanka, Indonesia and Lesbos.
In 1998, the German doctor and social worker founded the aid organization “Armut und Gesundheit in Deutschland” ("Poverty and Health in Germany"), whose medical streetwork approach is to seek out homeless people so they get access to health care. For his accomplishments and services, he received Germany’s Federal Cross of Merit in 2004 and was named professor of the year in 2020, among other awards.
Trabert’s latest mission took him to northwest Bosnia and Herzegovina, where the living conditions of the some 1,500 migrants stranded in the Una-Sana canton are becoming increasingly miserable and dangerous. For months, they have been staying there without access to the most basic necessities.
Despite not receiving an official permit to deliver medical care, Trabert and his team managed to treat some 170 people in Bihać, the administrative center of the Una-Sana canton, and several other hotspots in the region over the course of eight days.
InfoMigrants spoke to the 64-year-old in mid-January, three days after he returned from his trip to Bosnia. The interview, which has been edited and condensed for clarity, was conducted by InfoMigrants’ Benjamin Bathke.
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InfoMigrants: The experiences you had in Bosnia must still be very present. What is going through your mind now that you’re back in Germany?
Gerhard Trabert: Seeing people living in ruins without access to food, water and medical care at freezing temperatures in shabby blankets and mattresses, who make open fire to somehow keep warm; seeing the migrant camp Lipa that’s still not functioning — all this makes (you) melancholic, sad and angry because these conditions shouldn’t, they mustn’t exist; and Europe is failing to act.
It’s bizarre that only a ten-hour car drive away from my home, it almost feels like being almost in another world. It also feels bizarre how different and incommensurate priorities can be: While protective measures against COVID-19 are being discussed in Germany, none of these measures exist for migrants and refugees in Bosnia. People complain about not being able to go skiing this winter while migrants live in cold and damp huts full of snow and mud.
All week long we had sub-zero temperatures. After spending three hours in one of the dwellings, we were chilled to the bone. Of course we were able to go where it’s warm afterwards, but the notion that these people are living in these conditions 24/7 is unfathomable. It’s hard to convey these things if you haven’t seen them with your own eyes or sensed it with your own body, if only temporarily.
▻https://twitter.com/InfoMigrants/status/1351220558529224704Can you tell us why you decided to go to Bosnia and what your mission looked like, broadly speaking?
It was a very spontaneous decision after watching all the media reports. We drove down there with two mobile clinics and had contact with our Bosnian partner organization SOS Bihać upfront. We tried to get a permit but decided we could no longer wait and must give it a try. Our vehicles are rolling consulting rooms equipped with an examination couch, medical equipment, medicine, dressing material, and so on. After waiting at the Croatian-Bosnian border for six hours, we were allowed to cross the border, but without our vehicles. A few hours later, we were told we couldn’t go anywhere because of the curfew in Bosnia, so they brought us to a nearby accommodation. The next day, it took another five hours to finally enter Bosnia with our vehicles and drive to Bihać.
Our team of five consisted of two nurses, two social workers and myself in the role of a physician. We had brought high-quality, suitable material including sleeping bags usable for down to -15°C, sleeping pads, hygiene articles like diapers and toilet paper and warm underwear. We weren’t able to use our mobile clinics, especially in the first few days, because SOS Bihać told us police would come immediately if we show up at a hotspot with the vehicles. So we put as much as we could in our backpacks and walked to the hotspots.
One of those hotspots you described on Facebook is the run-down four-story building in Bihać of what you say used to be an elderly care facility. What did you experience there?
We saw more than 100 Pakistani and Afghan men staying there in the freezing cold, most of them between the ages of 20 and 40. We went from floor to floor, introduced ourselves and offered help. It was so dark we had to use flash lights and headlamps at all times. There was this biting smoke everywhere from the open fireplaces they used to keep somewhat warm and cook food.
Around one in three people had some kind of injury that required medical attention. We treated lots of cases of scabies, which causes bacteria to enter the wound through itching. Fortunately, we had brought special salves and medication needed to treat scabies, which a local pharmacy didn’t have. Many people had respiratory diseases and problems with their digestive organs like gastritis due to the cold and their general living conditions. We also saw skin wounds and severe open wounds as well as typical stress disorders like high blood pressure. During our second visit, we changed the bandages.
Experiencing people forced to live like this was very intense. Some people told us they had been staying in the building for over a year, one even said it’s been three years. They occasionally try to cross the border, get pushed back and return to the ruin.
What do the surroundings of the ruin look like?
It’s a hotspot in the middle of the city, next to a river. The distance to our apartment in Bihać, which has a population of around 50,000, was only 200 meters. During the day, people were out and about in the city for a while and received some food at kiosks. I saw some shovel snow, so perhaps they received some money in exchange. But a regular care concept for these people doesn’t exist. Drinking water, groceries, sanitary facilities — the migrants are more or less dependent on themselves.
I also noticed protests by locals, but we were told those Bosnians weren’t against refugees and migrants per se but against illegal hotspots. They called for accommodating and providing for them instead of living in the middle of Bihać by the hundreds. But it seems that nobody on the Bosnian side feels responsible for providing for them.
What about the NGOs — to what extent can they alleviate the suffering?
My impression after a week on the ground is that there was no real cooperation, interconnectedness or communication between the NGOs. We even sensed some competition. It’s a scrap for power and competence, and many things happened in a very uncoordinated way.
Regarding Bosnian authorities, there are conflicts between the Una-Sana canton and the capital Sarajevo. Overall, the different players didn’t look at who has which resources, who can take on which task, and so on. I perceived the situation as absolute bleak. And I do have to say that this imbroglio was wanted from the side of Bosnian authorities, which didn’t surprise me as I know it from my time on Lesbos, where the Greek, but also the EU authorities acted similarly: Signaling time and again to the people that they were not welcome there. So I assume chaos is part of the strategy.
How does the group dynamics among the migrants staying in the hotspots look like? Are there hierarchies and tensions?
From my experience on the ground in Bosnia, but also from missions in other countries, I must say that there is a hierarchy among the different nationalities. Syrians usually hold the top spot, followed by Afghans, Pakistani, Bangladeshi and northern African countries like Morocco. Why? Because Syrians have the best shot at receiving asylum. Migrants there know exactly how Europe reacts. This hierarchy sometimes manifests in violent confrontations — we treated stab wounds, for instance. Moroccans and Algerians told us they couldn’t go to groups from other countries without getting sent away. There are some mixed groups, including people from Afghanistan and Pakistan as well as Moroccans and Algerians.
What can you tell us about people’s mental health?
Please allow me to make a short scientific digression. There are three forms of traumatization, primary, secondary and tertiary. Primary and secondary cases occur when people suffer from violence directly or observe others becoming the victim of violence, respectively. My point is about the tertiary form of traumatization, or sequential traumatization. It means that a person with a primary or secondary trauma — and that includes all the 1,500 people in northwest Bosnia — who isn’t received with respect, who isn’t able to share their experiences with others, who isn’t listened to or shown empathy, also suffers from tertiary traumatization. The tragic thing about this third form is that it is graver than the first two because only then does the trauma become chronic; only then they have flashbacks, anxieties, sleep disorders, depressions, panic attacks and heightened risk of suicide. All this means that the way we treat those people leads to another, active traumatization. And you can feel it when you talk to talk to them.
Speaking of suicides, you said in a recent interview that you “wouldn’t be surprised if people died here”. What made you arrive at this conclusion?
We were told there were bears and wolves in the woods in the Una-Sana canton that have attacked and killed migrants in the past, as well as many wild dogs that have bitten many of them. We treated one person with a bite wound from a dog, which is extremely dangerous because of the certain kind of germs in that wound. If such a wound isn’t treated with antibiotics, his life is in danger. We gave him a special antibiotics. He also had a swollen, infected hand. I cannot imagine that nobody has died yet — and dies — in these conditions. The question is how deaths are dealt with, and I believe they are swept under the rug. If you look at the living conditions as well as the diseases and illnesses of these people with a bit of common sense, I’m certain that people have died.
On your Facebook page, you also wrote about treating small children.
In Bosanska Bojna, a small village north of Bihać directly on the border with Croatia, a contact who was shooting a film there had met 20 families who lived in ramshackle houses and ruins with their infants and toddlers. We were able to drive there with our mobile clinics because there were no controls. We treated infections, inflammations of the middle ear, which unless it is treated can lead to meningitis. It seemed that the children there were well cared for by and large, but it’s always difficult to tell because children being able to suppress many things fairly well means it’s not easy to see the scars and wounds on their souls.
Many had stomach aches and nausea, which could stem from the hygienic conditions, but could also be an indicator for a psychosomatic component. Children can also get depression, but the symptoms are different from those in adults: Most of the time, children are very nervous or hyperactive. Oftentimes, this is interpreted as attention deficit disorder, when it is in fact a depression. One sees that time and again among migrant children: Being hyperactive or reclusive, which I also saw in Bosanska Bojna. Partly no talking and no eye contact, nothing. Symptoms like these are always signs for psychic traumatization.
What did you hear about violent push backs at the hand of Croatian police?
We have seen many wounds on arms and legs that might well have been caused by beatings. Many call trying to cross the borders “Game” — they go back time and again in the hope to eventually encounter Croatians who allow them into the country.
Calling it “Game” — is that some kind of coping strategy or black humor?
I think it speaks to an optimism bias that’s especially prevalent in situations of extreme stress like the one migrants in northwest Bosnia are in. They perceive and describe their situation much more positive than it objectively is. This also manifests in their language, so “Game” is a trivialization to suppress the brutality of the experience a bit. Optimism bias also applies to their general situation and their health conditions, otherwise they wouldn’t be able to act in their situation or survive. It’s astounding what the body and the psyche do in order to deal with such life-threatening situations.
Why do so many people choose to live outside of the camp in Lipa?
Lipa is located at 750 meters in an area hostile to life. It is surrounded by wood, and it’s cold and windy there. There is no infrastructure nearby. The village of Lipa is hours away by foot, and you have to use a dirt road for two kilometers to reach the camp. It’s obvious that the location of the camp emphasizes to the people: “You are not welcome here, and we kind of don’t care what happens to you.”
That’s why people look for opportunities elsewhere like in Bihać, where they might get some kind of assistance or earn some money by working somewhere. So they use former factories, the ruins of the said elderly care facility or the so-called jungle camp in Velika Kladuša, where we also treated people. These hotspots are everywhere because there is no real care concept, like I said before. So people try to create a certain amount of ’free space’ for themselves they can shape more actively — notwithstanding all the other deprivations, because hardly anybody goes to those spaces and brings food and water.
From your perspective, what needs to happen now to help migrants in northwestern Bosnia?
My principal claim is to evacuate all of the people there and distribute them among EU member states. It’s possible, we can achieve it and it needs to happen. Their living conditions are not in keeping with human rights and are inhumane. We cannot wait for all of Europe to go along with this. There’s a shift to the right across Europe, toward nationalism and racism, which I also see in this debate. We have to take a stand, and German needs to lead the way.
Right this moment we need to conceptually organize how medical care can be provided. This needs to happen immediately. The EU alongside Bosnia needs to show where money is invested in a transparent way. At Lipa, we need tents that protect people from all kinds of weather. We also need a hygiene concept and sanitary facilities. All of this is possible — the containers can be brought there and be installed quickly. Moreover, we need a real interconnectedness and cooperation between the different organizations, and ideally a UN organization like UNHCR at the helm that brings together all the different players and decides who does what and where. My impression is that the Bosnian authorities are overburdened and ill-suited, which has something to do with the old wounds and still existent power struggles and rivalries from the Bosnian war.
Will you go back to Bosnia and Herzegovina in case you receive the permission from the Bosnian authorities to deliver medical aid?
Yes, in that case we would go back there, at least with one mobile clinic. We would then deliver medical aid in cooperation with others and might leave the vehicle in Bosnia long-term, perhaps by lending it to a different NGO to use free of charge like we’re doing right now in Sicily with an Italian NGO.
▻https://www.infomigrants.net/en/post/29741/i-m-certain-that-people-have-died-here-german-doctor-talks-about-his-e
#route_des_Balkans #Bosnie #asile #migrations #réfugiés #Balkans #santé_mentale #violence #Gerhard_Trabert #Lipa #hiver #froid #neige #Bihać #hotspot #hotspots #traumatisme #the_game #game #camp_de_réfugiés
Le néo-populisme est un néo- libéralisme
Comment être libéral et vouloir fermer les frontières ? L’histoire du néolibéralisme aide à comprendre pourquoi, en Autriche et en Allemagne, extrême droite et droite extrême justifient un tel grand écart : oui à la libre-circulation des biens et des richesses, non à l’accueil des migrants.
►https://aoc.media/analyse/2018/07/03/neo-populisme-neo-liberalisme
–-> je re-signale ici un article publié dans AOC media qui date de 2018, sur lequel je suis tombée récemment, mais qui est malheureusement sous paywall
#populisme #libéralisme #néo-libéralisme #néolibéralisme #fermeture_des_frontières #frontières #histoire #extrême_droite #libre-circulation #migrations #Allemagne #Autriche
EU policy ‘worsening’ mental health for refugees on Greek islands
New research says more asylum-seekers stranded in EU’s ‘hotspot’ centres experiencing severe mental health symptoms.
A prominent humanitarian group has warned of a worsening mental health crisis among asylum-seekers trapped at refugee camps on three Greek islands, saying its research reveals severe symptoms among people of all ages and backgrounds, including depression, post-traumatic stress disorder and self-harm.
The International Rescue Committee (IRC), in a new report (▻https://www.rescue-uk.org/courage-to-continue) on Thursday, said nearly 15,000 people remain stranded at the European-Union funded Reception and Identification Centres, camps known as “hotspots” that were set up on Europe’s borders almost five years ago to swiftly process applications for asylum.
Citing data collected from 904 asylum-seekers supported by its mental health programmes on the islands of Lesbos, Chios and Samos, the IRC said one in three of its clients reported suicidal thoughts, while one in five reported having made attempts to take their lives.
“I even tried to hang myself but my son saw me and called my husband,” Fariba, a 32-year-old Afghan woman, was quoted as saying. The mother of two young children lives in the Vathy camp in the island of Samos.
“I think about death a lot here: that it would be a good thing for the whole family, that if I could add a medicine in our food and we all died it would be a deliverance. But then I look at my daughter and I think it is not her time yet,” she said.
The hotspot centres were established up in 2015, when the Aegean islands, especially Lesbos, came under enormous pressure, with nearly a million refugees and migrants trying to reach Europe arriving on the Greek islands.
In January of this year, the five camps together hosted more than 38,600 asylum-seekers – a number six times higher than the hotspots’ capacity. The number had reduced significantly by November, yet, asylum seekers still live under “inhumane” conditions and “in great distress, with limited access to food, water and sanitation,” read the report.
‘Alarming spike’
On Lesbos, thousands of people live in a temporary camp after a fire burned down their overcrowded facility known as the Moria refugee camp. With winter in full swing, many people now live in tents battered by winds and flooding, the report said, adding an even deeper sense of exhaustion and frustration. On Sunday, the camp of Kara Tepe in Lesbos – where more than 7,000 people live – was flooded for the third time after three days of rain amid stormy weather conditions.
Mohammad, a 23-year-old Syrian asylum seeker who fled the city of Idlib in 2019, told Al Jazeera how he is affected by depression and sleeping disorders.
“How could my mental health not be affected? When you wake up and find a rat on your chest, when you are constantly waiting [for your legal status to proceed], when rain is pouring into your tent for days, you have no toilet but just garbage around you?” he said, asking his surname to be withheld as his second attempt to gain residency is under way.
This is the second winter Mohammad has spent in a self-made wooden hut in what is known as “the jungle” in the island of Samos. The 600-people capacity camp, located on a hill, comprises of tents made out of recycled material and houses more than 3,000 people.
Mohammad said there were high level of distress and constant fear of possible violent escalations among the residents of the camp. “We need some sort of improvement as it is getting difficult to control the anger,” he said.
The coronavirus pandemic and the strict restrictions on movement has inflicted further blows.
The IRC reported an “alarming spike” in the number of people disclosing psychotic symptoms following the pandemic, jumping from one in seven to almost one in four. There was also a sharp rise in people reporting self-harm, which jumped by 66 percent, as well as a surge in those reporting symptoms of PTSD, which climbed from close to half of clients beforehand to almost two in three people.
These severe symptoms of mental health negatively affect people’s ability to cope with the many challenges they face at the hotspot centres, such as standing in line for hours to get food, or successfully navigate the complex asylum process, the report said.
‘Trauma of hotspot centres’
“Such stressful situation triggers a sort of re-traumatisation,” said Essam Daod, a psychiatric and mental health director of Humanity Crew, an NGO providing first response mental health interventions to refugees in Samos.
“You left home because you felt hopeless, unsafe and with a massive distrust with the system. You reached Europe and you start to stabilise your mood, but then COVID-19 destroyed all of this triggering the same feeling they had when they were fleeing their own country,” he said.
IRC found that mental health issues can also cause high levels of stigma and discrimination, while increasing vulnerability to exploitation or violence, including sexual violence.
Children are also bearing the brunt of the the worsening crisis.
“When parents break down, it has a major impact on children,” said Thanasis Chirvatidis, a psychologist with Doctors Without Borders who has been working in Lesbos since August.
Children perceive parents who experience psychological collapse as being unable to protect them, said Chirvatidis. The result is an increasing number of children are developing symptoms such as hopeless, insomnia, night terrors and regression symptoms as they go backwards at an earlier mental state where they had better memories and felt safer.
All of the people in the hotspot centres – adult and children alike – “even those who had a sense of normalcy in their life before, at this point will need support in the future for sorting what they are going through here, which has now become a trauma itself,” said Chirvatidis.
▻https://www.aljazeera.com/news/2020/12/17/eus-refugee-policy-on-greek-islands-worsening-mental-health
#Moria #santé_mentale #asile #migrations #réfugiés #îles #Lesbos #Mer_Egée #Grèce #traumatisme #trauma #hotspots #rapport
ping @_kg_
Rapport thématique – Durcissements à l’encontre des Érythréen·ne·s : actualisation 2020
Deux ans après une première publication sur la question (►https://odae-romand.ch/rapport/rapport-thematique-durcissements-a-lencontre-des-erythreen%c2%b7ne%c2%b7), l’ODAE romand sort un second rapport. Celui-ci offre une synthèse des constats présentés en 2018, accompagnée d’une actualisation de la situation.
Depuis 2018, l’ODAE romand suit de près la situation des requérant·e·s d’asile érythréen∙ne∙s en Suisse. Beaucoup de ces personnes se retrouvent avec une décision de renvoi, après que le #Tribunal_administratif_fédéral (#TAF) a confirmé la pratique du #Secrétariat_d’État_aux_Migrations (#SEM) amorcée en 2016, et que les autorités ont annoncé, en 2018, le réexamen des #admissions_provisoires de quelque 3’200 personnes.
En 2020, le SEM et le TAF continuent à appliquer un #durcissement, alors que la situation des droits humains en #Érythrée ne s’est pas améliorée. Depuis près de quatre ans, les décisions de renvoi tombent. De 2016 à à la fin octobre 2020, 3’355 Érythréen·ne·s avaient reçu une décision de renvoi suite à leur demande d’asile.
Un grand nombre de requérant·e·s d’asile se retrouvent ainsi débouté·e·s.
Beaucoup des personnes concernées, souvent jeunes, restent durablement en Suisse, parce que très peu retournent en Érythrée sur une base volontaire, de peur d’y être persécutées, et qu’il n’y a pas d’accord de réadmission avec l’Érythrée. Au moment de la décision fatidique, elles perdent leur droit d’exercer leur métier ou de se former et se retrouvent à l’#aide_d’urgence. C’est donc à la constitution d’un groupe toujours plus important de jeunes personnes, exclues mais non renvoyables, que l’on assiste.
C’est surtout en cédant aux pressions politiques appelant à durcir la pratique – des pressions renforcées par un gonflement des statistiques du nombre de demandes d’asile – que la Suisse a appréhendé toujours plus strictement la situation juridique des requérant∙e∙s d’asile provenant d’Érythrée. Sur le terrain, l’ODAE romand constate que ces durcissements se traduisent également par une appréciation extrêmement restrictive des motifs d’asile invoqués par les personnes. D’autres obstacles limitent aussi l’accès à un examen de fond sur les motifs d’asile. Au-delà de la question érythréenne, l’ODAE romand s’inquiète pour le droit d’asile au sens large. L’exemple de ce groupe montre en effet que l’application de ce droit est extrêmement perméable aux incitations venues du monde politique et peut être remaniée sans raison manifeste.
▻https://odae-romand.ch/rapport/rapport-thematique-durcissements-a-lencontre-des-erythreen%c2%b7ne%c2%b7
Pour télécharger le rapport :
▻https://odae-romand.ch/wp/wp-content/uploads/2020/12/RT_erythree_2020-web.pdf
#rapport #ODAE_romand #Erythrée #Suisse #asile #migrations #réfugiés #réfugiés_érythréens #droit_d'asile #protection #déboutés #permis_F #COI #crimes_contre_l'humanité #service_militaire #travail_forcé #torture #viol #détention_arbitraire #violences_sexuelles #accord_de_réadmission #réadmission #déboutés #jurisprudence #désertion #Lex_Eritrea #sortie_illégale #TAF #justice #audition #vraisemblance #interprètes #stress_post-traumatique #traumatisme #trauma #suspicion #méfiance #procédure_d'asile #arbitraire #preuve #fardeau_de_la_preuve #admission_provisoire #permis_F #réexamen #santé_mentale #aide_d'urgence #sans-papiers #clandestinisation #violence_généralisée
La pandémie, un trauma au ralenti, santé mental[e] en danger ! Avec Franco «Bifo» Berardi.
▻https://www.franceculture.fr/emissions/la-grande-table-idees/la-pandemie-un-trauma-au-ralenti
Avec Franco Berardi dit Bifo, philosophe et militant italien. Il publiera en juin 2021 chez Verso "The third unconscious - Subjectivity and sensibility in the pandemic threshold" (non encore traduit).
Franco (dit « #Bifo ») Berardi est philosophe, théoricien de la culture et des médias et activiste politique. Né à Bologne, acteur de Mai 68, il a baigné dans les mouvements sociaux radicaux des 1970 en Italie. Issu du mouvement opéraïste italien initié en 1969 par Toni Negri, il a été une figure clé de la première radio libre en Italie (Radio Alice) et du magazine A/traverso, qu’il a fondé en 1975. Ayant fui à Paris, où il a travaillé avec Félix Guattari à l’élaboration de la théorie de la schizo-analyse. Il a contribué dans les années 1980 à Semiotexte (New York), à la revue fondée par Deleuze et Guattari, Chimères (Paris), à Metropoli (Rome) et à Musica 80 (Milan). Il est aujourd’hui professeur d’histoire sociale des médias à Milan.
Avec l’arrivée du #coronavirus en Italie, il a publié en ligne un journal comportants ses observations et ses expériences personnelles des changements, au jour le jour, apportés par la pandémie. Selon lui, le virus a agi comme un révélateur de catastrophes présentes bien avant la pandémie, à commencer par la catastrophe environnementale. La pandémie serait un moyen de sortir du “cadavre” du capitalisme, comme il le nomme. Un système conjugant hégémonie néolibérale, nouvelles formes de fascisme et cybernétisation omnipotente. La sensibilité et l’affectivité humaines, l’empathie, en ressortent affectées, les liens de solidarité en pâtissent.
Un fait qu’empire le devoir de barrière physique induit par la pandémie. L’auteur note ainsi une sensibilisation phobique au corps de l’autre, aux lèvres, désormais dissimulées par le masque, et pour un temps qui semble devoir durer bien après cette crise. Il craint une forme d’autisme dans laquelle, même passée cette crise et de manière durable, on refuserait encore la présence de l’autre. En cette ère des pandémies, une nouvelle forme de névrose.
#capitalisme #traumatisme #trauma_au_ralenti #dépression #subjectivités
]]>Documenter la douleur des autres : #souvenirs, #identités et #appartenance dans les imaginaires diasporiques des #Teochew
La #mémoire_traumatique est un héritage avec lequel les descendants des #rescapés du #génocide_cambodgien doivent négocier pour trouver leur place dans une #histoire rompue, celle de leurs parents, et en France, pays où ils sont nés. Pour certains d’entre eux, l’#art et la #littérature sont un moyen de réparer les #blessures.
La #migration s’accompagne invariablement d’une expérience de bouleversement, mais les circonstances du déplacement des #réfugiés du Cambodge – dont un nombre important de Chinois originaires du sud de la #Chine, les Teochew – équivaut à une réelle rupture. Le génocide mené par les #Khmers_rouges qui a anéanti près d’un quart de la population a laissé une génération dépourvue d’anciens et une fracture qui n’a pas été refermée quatre décennies plus tard. Pour les #réfugiés_cambodgiens, cette #séparation forcée est accentuée par l’apparente permanence de l’#exil. Comme pour tous les réfugiés et survivants cambodgiens, cette expérience du génocide est au cœur de la #mémoire_diasporique des Teochew, une mémoire déjà compliquée par l’histoire de #déplacements répétés (de la Chine au Cambodge et du Cambodge à la #France) et par un rapport ambivalent non seulement envers le Cambodge et son passé génocidaire mais aussi envers la Chine qui est restée silencieuse face à la persécution de ses diasporas.
Comme mes recherches l’ont montré, ces histoires sont largement cryptées dans le #silence qui hante les familles de réfugiés, projetant les ombres du passé génocidaire à travers les générations. Les réflexions sur le travail de mémoire sino-cambodgien éclairent la relation entre lieux – de vie et d’appartenance –, mémoire et identité diasporique. Elles éclairent les conditions qui facilitent ou entravent la #transmission_intergénérationnelle ainsi que les luttes des générations post-réfugiées – celles qui n’ont pas vécu les #traumatismes mais qui sont néanmoins hantées par eux – pour récupérer cette histoire, et, à travers elle, leur place et leur appartenance à de multiples espaces de connexion.
Ce texte fait référence aux prises de paroles de descendants de réfugiés cambodgiens (Jenny Teng, Mathieu Pheng et Lana Chhor) lors de la conférence « Générations Post-refugié.e.s » organisée à Sciences Po en décembre 2018. L’analyse de leur parole démontre à quel point le silence autour de la mémoire du génocide des Khmers rouges est un élément constitutif des identités des descendants nés et éduqués en France.
Les générations post-génocide face au silence
Dans ses réflexions sur le silence « post-génocide », Jenny Teng, cinéaste française d’origine cambodgienne Teochew, souligne qu’il existe « une culture du récit, de l’histoire, de la transmission des mots, qui est fondatrice de la diaspora et la culture juive » qu’on ne retrouve pas chez les Sino-cambodgiens, ce qui rend le témoignage encore plus difficile. Liant le silence à la honte et la culpabilité des survivants face à de telles violences et de telles pertes, elle note : « Les témoignages viennent ouvrir quelque chose qui était très secret. Et c’est peut-être parce que, dans ce secret, il y a une forme de culpabilité et une honte que ces enfants, que cette deuxième génération porte depuis l’enfance. » Pour Lana Chhor, auteure d’origine sino-cambodgienne, le silence engendre des effets dévastateurs non seulement « pour celui qui porte le silence mais aussi pour ceux à qui il est imposé. » Soulignant l’effet du silence qui, de manière simultanée, lie et fracture, elle compare la famille enveloppée par le silence à une « prison » où « chacun [se trouve] dans des cellules individuelles ». Les générations suivantes se retrouvent ainsi sans les outils nécessaires pour reconstruire et comprendre ces histoires et ces récits non seulement au sens linguistique mais aussi culturel et expérientiel. Comme le note Lana Chhor, « il est douloureux de grandir dans le silence car les mêmes questions reviennent, mais toujours sans réponses. »
« Quelle place on donne aux disparus, aux défunts qui n’ont pas reçu de sépultures ? Les survivants ont en mémoire et au quotidien gardé une place, quelle est cette place ? »
#Jenny_Teng, cinéaste et chercheure
Le credo républicain de l’assimilation en France ne laisse pas de place à la pluralité des histoires, ce qui invisibilise non seulement les histoires des communautés diasporiques en France mais aussi les enchevêtrements de ces histoires avec l’histoire coloniale et post-coloniale de la France. Cet effacement permet à la France de ne considérer les réfugiés que comme des personnes à sauver et les politiques d’asile comme une action humanitariste plutôt que comme une responsabilité. Pour beaucoup, comme l’exprime Jenny Teng, le vide créé par l’inconnu et le non reconnu provoque un questionnement existentiel : « où se sent-on chez soi, physiquement, symboliquement ? » Pour les générations post-réfugiées, historiciser leur identité est donc un moyen d’affirmer leur humanité et individualité (personhood) et, comme le dit Lana Chhor, « d’enlever les étiquettes que la société nous met malgré nous ». En récupérant ces histoires enfouies et désavouées, ils récupèrent un lien avec un passé, et à travers ce passé une place dans le présent – au Cambodge, en Chine, en France – et une identité collective qui s’oppose à l’invisibilisation, à l’altérité, et à un « entre-deux » qui signifie essentiellement être à l’extérieur.
Les générations post-génocide face à la mémoire
Comme pour d’autres histoires traumatiques, avec le passage des générations, les questions de transmission et de conservation de la mémoire acquièrent une certaine urgence. Écrivant sur la transmission de la « tutelle de l’Holocauste », l’écrivaine Eva Hoffman décrit la deuxième génération comme « la génération charnière dans laquelle les connaissances reçues et transférées des événements sont transformées en histoire ou en mythe1. Comment les générations « postmémoire », ainsi que les appelle une autre écrivaine, Marianne Hirsch, reçoivent-elles et négocient-elles ces « expériences puissantes, souvent traumatisantes, qui ont précédé leur naissance mais qui leur ont pourtant été si profondément transmises qu’elles semblent constituer des souvenirs pleins ? » Comment raconter et aborder la « douleur des autres sans se l’approprier » comme la philosophe Susan Sontag l’a si bien décrit ? Et comment faire cela avec seulement des fragments de souvenirs, glanés ici et là, et à distance depuis son perchoir générationnel ? Quelles sont, le cas échéant, les négociations entre éthique et esthétique de la mémoire ?
« Le credo républicain de l’assimilation en France ne laisse pas de place à la pluralité des histoires, ce qui invisibilise non seulement les histoires des communautés diasporiques en France mais aussi les enchevêtrements de ces histoires avec l’histoire coloniale et post-coloniale de la France. »
Khatharya Um
Significativement, à partir de leur « proximité distanciée », les générations post-réfugiées peuvent s’engager dans cette histoire traumatisante d’une manière impossible pour les survivants de la première génération. Les « entre-deux » spatiaux, temporels et générationnels, des lieux que #Mathieu_Pheng, documentariste d’origine franco-cambodgienne, décrit comme « les endroits où ça frictionne » – ne sont pas seulement des espaces de tension mais aussi de possibilité, où la distance générationnelle offre de nouvelles perspectives, un sentiment d’urgence renouvelé, où le créatif et le critique peuvent émerger des ruines de la guerre, du génocide et de l’exil. Pour Jenny Teng, qui centre ses œuvres sur cette notion d’« entre », la création est un pont entre le passé et le présent, et la caméra une fenêtre vers un passé douloureux qui « permet à la personne qui témoigne, de se constituer en témoin dans le sens premier, c’est-à-dire qu’elle va dire ce qu’elle a vu, ce qu’elle a connu pour l’inscrire dans l’histoire. Le documentaire a cette force-là, qui est de sortir du cercle familial et de l’affect, peut-être trop chargé, pour s’adresser à la fenêtre qu’ouvre la caméra. » Les documentaires offrent également une opportunité de dialogue intergénérationnel et de co-création qu’elle considère comme ouvrant la voie « pour sortir du tabou familial » même si cela prend du temps.
Si l’art et l’écriture ont leur rôle dans la promotion des liens intergénérationnels et de la guérison, ils ne peuvent ni consoler ni restaurer les pertes subies par les réfugiés. Pour Jenny Teng, la possibilité offerte par la création artistique n’est pas forcément la récupération, qu’elle juge impossible, mais un moyen de « permettre à la solitude d’être un petit peu apaisée… Donc c’est vraiment consoler la souffrance de la souffrance, pas la souffrance en elle-même. » Également investie dans la potentialité réparatrice de l’art, Lana Chhor voit les mots comme aidant à suturer le vide et la blessure engendrés par le silence spectral de l’histoire : « Autant qu’ils peuvent blesser, je suis intimement convaincue que les mots peuvent réparer. »
]]>#Eyal_Weizman. The Architecture of Memory
Nick Axel How has 3Forensic_Architecture ’s work with witnesses evolved over the years?
Eyal Weizman In our first experiments, we were inspired by Harun Farocki’s work such as Serious Games (2009–2010) to take witnesses through a set of immersive experiences, back through the “scene of the crime,” so to speak. This was an attempt to open up, even critique, the over-reliance on both the spoken word and text within what came to be called “the era of the witness.” We wanted to show that communication is also based on gesture, on movement, and on mental-spatial navigation. When we reflected on a number of our experiments with forensic psychologists, we learnt of an important distinction. Memory always shifts between what psychologists call egocentric and allocentric perspectives. An egocentric perspective is a situated view—you remember a scene as you experienced it at eye level—while allocentric perspective allows you to see yourself from the outside—your relation to other things that are behind you or around corners.
NA How does the experience of trauma relate to these different types of perspective?
EW Trauma is a moment where those two perspectives, the egocentric and the allocentric, diverge or collide. Part of trauma therapy is about allowing victims to navigate between the egocentric and the allocentric: the reconstruction of their experience—what they saw, what they heard, what they smelled, what they felt—and an understanding of the spaces and the actors that conditioned it. It allows them to gain a more comprehensive understanding of what happened.
NA In a number of your cases, the way victims were able to express their testimonies is not through words, but with a pen. What is it like to work with people who have gone through such traumatic experiences, and what role does drawing have in your ability to elucidate their experiences?
EW Trauma often causes an understanding of a particular situated experience to be lost. This means that as the interviewer, in the early stages of an interview, you need to be tuned both to understanding the descriptions you are being told and also to the potential errors within it. Errors are information in their own right. In one of the interviews we undertook in relation to the Saydnaya project, a witness that was beaten in a straight corridor remembered it to have been a spherical space, with all the cells looking at them. This difference in memory allows us to understand something about the experience of total incarceration. It’s a paradox, but errors confirm, to a certain extent, the fact of an intense experience. The more intense the experience has been, the more frequent memory errors are. An error is sometimes more truthful than a faithful cartesian description.
NA How can you tell what is an error and what isn’t?
EW In some situations we know because of other sources of information, such as other testimonies, photographs of the space, or videos of the incident, but in others we don’t. In these cases, we need to constitute a relation between an egocentric perspective and an allocentric map of the environment. In order to do this, we often start our interviews with a plan, with an allocentric view, and ask the witness, “What was your understanding at the time of how the scene was laid out?” In a sketch, or a series of sketches, the witness is asked to locate themselves in relation to objects, spaces, and actors. Then, working slowly together with the witness, we extrude the plan, which allows the eye level to be lowered, and for an egocentric perspective to be taken. Dimensions don’t need to be exact, because the witness already has that space in their memories. Then there’s a circular process of negotiation in which memory incrementally starts building, detailing, refining the space, and at the same time, the space starts elucidating the memory. This is a crucial moment and its very volatile. It has much potential, but also involves great risks. We do not want to create secondary memories; we don’t want the memory of the reenactment to become mixed with and distort the original memory. But in this process, in this constant search for memory, things slowly get aligned.
NA Do you think this leads to a new understanding of architecture, or of space?
EW As an architect, we often draw the outline or the contour of buildings, then we divide them internally; we work from the outside-in. The process of incarceration makes one experience and measure architecture from the inside-out. I remember former prisoners speaking about the actual pattern of stones within a terrazzo tile. From there they were able to determine the dimension of this floor tile, and from the floor tile, by counting how many there are, the size of the cell. Then, they may try to understand how many cells there are in a corridor by the measuring the distance of shouts, the footsteps they hear, or echoes. Once you start drawing the plan from the inside-out, you never really stop. You certainly don’t stop at the edge of the building. You start thinking, how far away are you from where you were arrested, or from your family? How far are you from a border, and in case of a war, from the forces that may come to liberate you? You build the world around the detail you experience, and this allows you to position yourself within that world and orient yourself.
NA These models that you build are much more than just an architectural model. How do you, or how do the people you make them with, understand them?
EW Many of the people we speak with carry trauma with them. The models we’ve built with these witnesses, from their memories, allow them often to externalize what is otherwise and sometimes inaccessibly in their heads. They can see themselves. They can study the building as if from the outside. The models allow people to say “now that you have created this model, I can start to forget.”
▻https://www.e-flux.com/architecture/confinement/357171/the-architecture-of-memory
#mémoire #architecture_forensique #Harun_Farocki #traumatisme #prison #emprisonnement #architecture #Saydnaya #torture #Syrie
via @isskein et @mobileborders
« Je suis passée tout près de la mort » : après le traumatisme de la #réanimation, la longue reconstruction psychologique des patients Covid-19
▻https://www.francetvinfo.fr/sante/maladie/coronavirus/je-suis-passee-tout-pres-de-la-mort-apres-le-traumatisme-de-la-reanimat
Les rescapés partagent la même incompréhension. Les patients de Marisa Denos se demandent comment et pourquoi une telle épreuve est arrivée, si les #séquelles vont rester, si le virus va revenir. « L’anxiété est d’autant plus forte que l’on parle d’un #traumatisme collectif, à une échelle immense », poursuit Marilyne Baranes. Cette docteure en psychologie clinique et psychopathologie, spécialiste du stress post-traumatique, suit cinq patients post-réanimation, âgés de 28 à 40 ans. « D’habitude, des patients sortis de réanimation ont, plus ou moins rapidement, le sentiment d’avoir échappé à la mort, d’être tiré d’affaire. Là, les gens ne comprennent pas pourquoi cette maladie a fait tant de dégâts, pourquoi on n’a pas prévenu les gens plus tôt. Et avec la possibilité d’une deuxième vague, ils sont pétris de peur. »
L’angoisse est d’autant plus forte pour des jeunes qui n’avaient jamais connu l’hôpital. A 22 ans, Hugues Mignot voit son état physique revenir « quasiment comme avant », même si tout effort sportif reste interdit. Ses cheveux et poils de barbe blanchissent et tombent. « C’est lié au stress post-traumatique », dit calmement ce Parisien passé dix jours en réanimation en mai. À l’hôpital Foch de Suresnes (Hauts-de-Seine), Hugues Mignot était l’un des rares patients conscients dans le service. Si les médecins étaient « très humains », les souvenirs restent violents, comme cette vue sur la chambre d’un homme très âgé, placé sous respirateur et dans le coma. Ou ces trois jours critiques « où je me suis rendu compte que c’était peut-être la fin ».
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