• Contrôle de l’accès à l’Université de Strasbourg : les élu∙es préoccupé∙es
    https://academia.hypotheses.org/54118

    Sujet : [infos-élus-cac] contrôle accès et sûreté Unistra Date : Thu, 23 Nov 2023 16:55 De : Liste Refonder Pour : president@unistra.fr Monsieur le Président Ces derniers jours, nous ont été rapportés des faits … Continuer la lecture →

    #Démocratie_universitaire #État_de_droit #Gouvernance_de_l'ESR #Libertés_académiques_:_pour_une_université_émancipatrice #droits_étudiants #expression_politique #libertés_publiques #sécurité #Université_de_Strasbourg

  • L’occupazione storica della Palestina e chi la nega: Pappé risponde a Travaglio

    Lo storico israeliano e direttore dello European centre for Palestine studies dell’Università di Exeter ha replicato a un editoriale del direttore de Il Fatto Quotidiano che puntava il dito contro presunti “errori storici” nell’appello degli accademici italiani per un cessate il fuoco immediato nella Striscia di Gaza

    All’inizio di novembre un gruppo di accademiche e accademici italiani ha rivolto un appello al ministro degli Esteri, Antonio Tajani, alla ministra dell’Università e della ricerca, Anna Maria Bernini, e alla Conferenza dei rettori (Crui) per chiedere un’azione urgente per un cessate il fuoco immediato nella Striscia di Gaza e il rispetto del diritto umanitario internazionale. Si chiedeva alle università una forma di boicottaggio accademico: interrompere immediatamente le collaborazioni con istituzioni universitarie e di ricerca israeliane, “fino a quando non sarà ripristinato il rispetto del diritto internazionale e umanitario, cessati i crimini contro la popolazione civile palestinese da parte dell’esercito israeliano e, quindi, fino a quando non saranno attivate azioni volte a porre fine all’occupazione coloniale illegale dei territori palestinesi e all’assedio di Gaza”.

    Un appello cui, a oggi, hanno aderito quasi 4.500 docenti universitari da tutta Italia. Due settimane dopo il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, ha dedicato l’editoriale di prima pagina (dal titolo “Errata corrige“) ai contenuti dell’appello, evidenziando presunti errori nella ricostruzione storica del testo. “Possibile -si è chiesto provocatoriamente Travaglio- che tra i quattromila prof non ce ne sia uno di Storia?”. Critiche a cui i promotori dell’iniziativa hanno deciso di replicare: “Ci ha colpiti e offesi l’accusa di ignoranza storica e logica nel trattare gli eventi del conflitto palestinese -si legge nel testo di replica-. Ironicamente, si chiedeva se tra di noi vi fossero degli storici. Possiamo confermare che tra le persone che hanno firmato vi siano”.

    E per rafforzare ulteriormente la validità dei propri argomenti e delle posizioni sostenute nell’appello, hanno chiesto di commentare le affermazioni di Travaglio a “un illustre collega e storico israeliano”, docente presso l’Università di Exeter, nel Regno Unito, ovvero Ilan Pappé: “Ha fondato e guidato l’Istituto per la Pace a Givat Haviva (Israele) tra il 1992 e il 2000, e ha ricoperto la cattedra dell’Istituto Emil Touma per gli Studi palestinesi di Haifa (2000-2008). Attualmente è direttore dello European centre for Palestine studies a Exeter”. Di seguito, d’accordo con le promotrici e i promotori dell’appello, pubblichiamo la traduzione dell’intervento di replica del professor Ilan Pappé.

    La richiesta di boicottaggio accademico è giunta dalla società civile palestinese, rappresentata da 150 Ong: non si tratta di un’iniziativa italiana. Essa si basa su chiare prove della complicità delle università israeliane nell’oppressione dei palestinesi ed è fortemente ispirata al richiamo al boicottaggio accademico contro l’apartheid in Sudafrica.

    Chiunque voglia organizzare una petizione contro altre istituzioni accademiche è il benvenuto, ma gli Stati menzionati nell’editoriale (da Travaglio, ovvero Iran, Siria, Arabia Saudita e Qatar, ndr) non stanno cercando di presentarsi come democrazie (a differenza di Israele), e quindi c’è un sufficiente dibattito pubblico sulla moralità dei contatti bilaterali con questi Paesi.

    L’Israele riconosciuto nella Risoluzione 181 non includeva le aree assegnate allo Stato arabo in quel documento, che Israele occupò nel 1948. Per 75 anni diverse parti della Palestina storica sono state sottoposte a diverse forme di oppressione in periodi differenti. Come menzionato, una parte della Palestina araba dell’Onu fu presa da Israele. Successivamente, la minoranza palestinese all’interno di Israele fu sottoposta a un regime militare di oppressione. Israele occupò la Cisgiordania e la Striscia di Gaza nel 1967 e trasferì in quei luoghi il brutale regime militare, sostituito nel 1981 da un’amministrazione civile altrettanto spietata, che violò gli Accordi di Oslo del 1993 dando mano libera all’esercito e agli insediamenti per gestire la vita di milioni di palestinesi ogni volta che lo desiderassero.

    Israele ha compiuto una pulizia etnica di 300mila palestinesi durante la guerra del giugno del 1967 e di oltre 600mila da allora fino a oggi, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questo è il contesto storico. A questo possiamo aggiungere l’assedio a Gaza dal 2007, che ha trasformato quel territorio in un ghetto, bombardato quattro volte dall’aria, causando la morte di migliaia di palestinesi, molti dei quali bambini.

    Il più grande crimine israeliano contro l’umanità è la pulizia etnica del 1948 della metà della popolazione della Palestina, la demolizione di metà dei suoi villaggi e della maggior parte delle sue città. Nonostante le Nazioni Unite abbiano ordinato a Israele di permettere ai rifugiati di tornare, questo ha rifiutato di farlo. La lotta palestinese era inizialmente per il ritorno dei rifugiati e dopo il 1967 per la liberazione della loro patria colonizzata e occupata.

    Israele ha reso la Striscia di Gaza un enorme campo profughi nel 1948, ecco perché non l’ha occupata (non si è “ritirata” da Gaza, non l’ha occupata) e ha dato la Cisgiordania alla Giordania in cambio di un ruolo giordano limitato nel tentativo arabo di salvare i palestinesi da ulteriori pulizie etniche.

    È l’Organizzazione per la liberazione dalla Palestina (Olp) che ha fatto una grande concessione volendo negoziare solo sul 22% della Palestina storica, ma la “giudaizzazione” della Cisgiordania e della Striscia di Gaza iniziata nel 1967 e il disonesto desiderio israeliano di continuare a governare su tutta la Palestina storica, offrendo ai palestinesi di vivere in un “bantustan” (termine che nel Sudafrica dell’apartheid indicava i territori in cui furono costretti a trasferirsi diversi gruppi etnici neri, ndr) non poteva essere accettato dal movimento di liberazione palestinese e di conseguenza la lotta continua fino ad oggi.

    Quindi gli oltre quattromila professori conoscono molto bene la storia e dovrebbero essere lodati per rifiutarsi di negare la Nakba del 1948 -farlo è grave tanto quanto negare l’Olocausto- e la Nakba in corso. In realtà, i palestinesi sono stati già oggetto di pulizia etnica negli anni Venti del Novecento, ma sicuramente la loro terra è stata colonizzata, sono stati cacciati, oppressi e negati i diritti fondamentali dal 1948 fino a oggi. Negare ciò è ignoranza o cancellazione intenzionale e cinica della storia.

    https://altreconomia.it/loccupazione-storica-della-palestina-e-chi-la-nega-ilan-pappe-risponde-

    #Ilan_Pappé #Gaza #Palestine #à_lire #7_octobre_2023 #université #ESR #boycott #histoire #Israël #nettoyage_ethnique #1948 #réfugiés #occupation #camp_de_réfugié #encampement #Jordanie #bantustan #apartheid #OLP #Nakba

    L’appel des académicien·nes italien·nes:
    Appel des universitaires italien·nes: cessez-le-feu immédiat et respect du droit humanitaire international à Gaza
    https://academia.hypotheses.org/53494

  • Conflit israélo-palestinien : une #chape_de_plomb s’est abattue sur l’université française

    Depuis les attaques du Hamas contre Israël le 7 octobre 2023, le milieu de la #recherche, en particulier les spécialistes du Proche-Orient, dénonce un climat de « #chasse_aux_sorcières » entretenu par le gouvernement pour toute parole jugée propalestinienne.

    « #Climat_de_peur », « chasse aux sorcières », « délation » : depuis les attaques du Hamas contre Israël, le 7 octobre dernier, et le déclenchement de l’offensive israélienne sur #Gaza, le malaise est palpable dans une partie de la #communauté_scientifique française, percutée par le conflit israélo-palestinien.

    Un #débat_scientifique serein, à distance des agendas politiques et de la position du gouvernement, est-il encore possible ? Certains chercheurs et chercheuses interrogés ces derniers jours en doutent fortement.

    Dans une tribune publiée sur Mediapart (https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/151123/defendre-les-libertes-dexpression-sur-la-palestine-un-enjeu-academiq), 1 400 universitaires, pour beaucoup « spécialistes des sociétés du Moyen-Orient et des mondes arabes », ont interpellé leurs tutelles et collègues « face aux faits graves de #censure et de #répression […] dans l’#espace_public français depuis les événements dramatiques du 7 octobre ».

    Ils et elles assurent subir au sein de leurs universités « des #intimidations, qui se manifestent par l’annulation d’événements scientifiques, ainsi que des entraves à l’expression d’une pensée académique libre ».

    Deux jours après l’attaque du Hamas, la ministre de l’enseignement supérieur et de la recherche, #Sylvie_Retailleau, avait adressé un courrier de mise en garde aux présidents d’université et directeurs d’instituts de recherche.

    Elle y expliquait que, dans un contexte où la France avait « exprimé sa très ferme condamnation ainsi que sa pleine solidarité envers Israël et les Israéliens » après les attaques terroristes du 7 octobre, son ministère avait constaté « de la part d’associations, de collectifs, parfois d’acteurs de nos établissements, des actions et des propos d’une particulière indécence ».

    La ministre leur demandait de « prendre toutes les mesures nécessaires afin de veiller au respect de la loi et des principes républicains » et appelait également à signaler aux procureurs « l’#apologie_du_terrorisme, l’#incitation_à_la_haine, à la violence et à la discrimination ».

    Un message relayé en cascade aux différents niveaux hiérarchiques du CNRS, jusqu’aux unités de recherche, qui ont reçu un courrier le 12 octobre leur indiquant que l’« expression politique, la proclamation d’opinion » ne devaient pas « troubler les conditions normales de travail au sein d’un laboratoire ».

    Censure et #autocensure

    Le ton a été jugé menaçant par nombre de chercheurs et chercheuses puisque étaient évoquées, une fois de plus, la possibilité de « #poursuites_disciplinaires » et la demande faite aux agents de « signaler » tout écart.

    Autant de missives que des universitaires ont interprétées comme un appel à la délation et qu’ils jugent aujourd’hui responsables du « #climat_maccarthyste » qui règne depuis plusieurs semaines sur les campus et dans les laboratoires, où censure et autocensure sont de mise.

    Au point que bon nombre se retiennent de partager leurs analyses et d’exprimer publiquement leur point de vue sur la situation au Proche-Orient. Symbole de la chape de plomb qui pèse sur le monde académique, la plupart de celles et ceux qui ont accepté de répondre à nos questions ont requis l’anonymat.

    « Cela fait plus de vingt ans que j’interviens dans le #débat_public sur le sujet et c’est la première fois que je me suis autocensurée par peur d’accusations éventuelles », nous confie notamment une chercheuse familière des colonnes des grands journaux nationaux. Une autre décrit « des échanges hyper violents » dans les boucles de mails entre collègues universitaires, empêchant tout débat apaisé et serein. « Même dans les laboratoires et collectifs de travail, tout le monde évite d’évoquer le sujet », ajoute-t-elle.

    « Toute prise de parole qui ne commencerait pas par une dénonciation du caractère terroriste du Hamas et la condamnation de leurs actes est suspecte », ajoute une chercheuse signataire de la tribune des 1 400.

    Au yeux de certains, la qualité des débats universitaires se serait tellement dégradée que la production de connaissance et la capacité de la recherche à éclairer la situation au Proche-Orient s’en trouvent aujourd’hui menacées.

    « La plupart des médias et des responsables politiques sont pris dans un #hyperprésentisme qui fait commencer l’histoire le 7 octobre 2023 et dans une #émotion qui ne considère légitime que la dénonciation, regrette Didier Fassin, anthropologue, professeur au Collège de France, qui n’accepte de s’exprimer sur le sujet que par écrit. Dans ces conditions, toute perspective réellement historique, d’une part, et tout effort pour faire comprendre, d’autre part, se heurtent à la #suspicion. »

    En s’autocensurant, et en refusant de s’exprimer dans les médias, les spécialistes reconnus du Proche-Orient savent pourtant qu’ils laissent le champ libre à ceux qui ne craignent pas les approximations ou les jugements à l’emporte-pièce.

    « C’est très compliqué, les chercheurs établis sont paralysés et s’interdisent de répondre à la presse par crainte d’être renvoyés à des prises de position politiques. Du coup, on laisse les autres parler, ceux qui ne sont pas spécialistes, rapporte un chercheur lui aussi spécialiste du Proche-Orient, qui compte parmi les initiateurs de la pétition. Quant aux jeunes doctorants, au statut précaire, ils s’empêchent complètement d’évoquer le sujet, même en cours. »

    Stéphanie Latte Abdallah, historienne spécialiste de la Palestine, directrice de recherche au CNRS, a été sollicitée par de nombreux médias ces dernières semaines. Au lendemain des attaques du Hamas, elle fait face sur certains plateaux télé à une ambiance électrique, peu propice à la nuance, comme sur Public Sénat, où elle se trouve sous un feu de questions indignées des journalistes, ne comprenant pas qu’elle fasse une distinction entre l’organisation de Daech et celle du Hamas…

    Mises en cause sur les #réseaux_sociaux

    À l’occasion d’un des passages télé de Stéphanie Latte Abdallah, la chercheuse Florence Bergeaud-Blackler, membre du CNRS comme elle, l’a désignée sur le réseau X, où elle est très active, comme membre d’une école de pensée « antisioniste sous couvert de recherche scientifique », allant jusqu’à dénoncer sa « fausse neutralité, vraie détestation d’Israël et des juifs ».

    S’est ensuivi un déluge de propos haineux à connotation souvent raciste, « des commentaires parfois centrés sur mon nom et les projections biographiques qu’ils pouvaient faire à partir de celui-ci », détaille Stéphanie Latte Abdallah, qui considère avoir été « insultée et mise en danger ».

    « Je travaille au Proche-Orient. Cette accusation qui ne se base sur aucun propos particulier, et pour cause (!), est choquante venant d’une collègue qui n’a de plus aucune expertise sur la question israélo-palestinienne et aucune idée de la situation sur le terrain, comme beaucoup de commentateurs, d’ailleurs », précise-t-elle.

    Selon nos informations, un courrier de rappel à l’ordre a été envoyé par la direction du CNRS à Florence Bergeaud-Blackler, coutumière de ce type d’accusations à l’égard de ses collègues via les réseaux sociaux. La direction du CNRS n’a pas souhaité confirmer.

    Commission disciplinaire

    À l’École des hautes études en sciences sociales (EHESS), après la diffusion le 8 octobre d’un communiqué de la section syndicale Solidaires étudiant·e·s qui se prononçait pour un « soutien indéfectible à la lutte du peuple palestinien dans toutes ses modalités et formes de lutte, y compris la lutte armée », la direction a effectué un signalement à la plateforme Pharos, qui traite les contenus illicites en ligne.

    Selon nos informations, une chercheuse du CNRS qui a relayé ce communiqué sur une liste de discussion interne, en y apportant dans un premier temps son soutien, est aujourd’hui sous le coup d’une procédure disciplinaire. Le fait qu’elle ait condamné les massacres de civils dans deux messages suivants et pris ses distances avec le communiqué de Solidaires étudiant·e·s n’y a rien fait. Une « commission paritaire » – disciplinaire en réalité – sur son cas est d’ores et déjà programmée.

    « Il s’agit d’une liste intitulée “opinions” où l’on débat habituellement de beaucoup de sujets politiques de façon très libre », nous précise un chercheur qui déplore le climat de suspicion généralisée qui s’est installé depuis quelques semaines.

    D’autres rappellent l’importance de la chronologie puisque, le 8 octobre, l’ampleur des crimes contre les civils perpétrés par le Hamas n’était pas connue. Elle le sera dès le lendemain, à mesure que l’armée israélienne reprend le contrôle des localités attaquées.

    Autre cas emblématique du climat inhabituellement agité qui secoue le monde universitaire ces derniers jours, celui d’un enseignant-chercheur spécialiste du Moyen-Orient dénoncé par une collègue pour une publication postée sur sa page Facebook privée. Au matin du 7 octobre, Nourdine* (prénom d’emprunt) poste sur son compte une photo de parapentes de loisir multicolores, assortie de trois drapeaux palestiniens et trois émoticônes de poing levé. Il modifie aussi sa photo de couverture avec une illustration de Handala, personnage fictif et icône de la résistance palestinienne, pilotant un parapente.

    À mesure que la presse internationale se fait l’écho des massacres de civils israéliens auxquels ont servi des ULM, que les combattants du Hamas ont utilisés pour franchir la barrière qui encercle la bande de Gaza et la sépare d’Israël, le chercheur prend conscience que son post Facebook risque de passer pour une célébration sordide des crimes du Hamas. Il le supprime moins de vingt-quatre heures après sa publication. « Au moment où je fais ce post, on n’avait pas encore la connaissance de l’étendue des horreurs commises par le Hamas, se défend-il. Si c’était à refaire, évidemment que je n’aurais pas publié ça, j’ai été pétri de culpabilité. »

    Trop tard pour les regrets. Quatre jours après la suppression de la publication, la direction du CNRS, dont il est membre, est destinataire d’un mail de dénonciation. Rédigé par l’une de ses consœurs, le courrier relate le contenu du post Facebook, joint deux captures d’écran du compte privé de Nourdine et dénonce un « soutien enthousiaste à un massacre de masse de civils ».

    Elle conclut son mail en réclamant « une réaction qui soit à la mesure de ces actes et des conséquences qu’ils emportent », évoquant des faits pouvant relever de « l’apologie du terrorisme » et susceptibles d’entacher la réputation du CNRS.

    On est habitués à passer sur le gril de l’islamo-gauchisme et aux attaques extérieures, mais pas aux dénonciations des collègues.

    Nourdine, chercheur

    Lucide sur la gravité des accusations portées à son égard, Nourdine se dit « démoli ». Son état de santé préoccupe la médecine du travail, qui le met en arrêt et lui prescrit des anxiolytiques. Finalement, la direction de l’université où il enseigne décide de ne prendre aucune sanction contre lui.

    Également directeur adjoint d’un groupe de recherche rattaché au CNRS, il est néanmoins pressé par sa hiérarchie de se mettre en retrait de ses fonctions, ce qu’il accepte. Certaines sources universitaires affirment que le CNRS avait lui-même été mis sous pression par le ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche pour sanctionner Nourdine.

    Le chercheur regrette des « pratiques vichyssoises » et inédites dans le monde universitaire, habitué aux discussions ouvertes même lorsque les débats sont vifs et les désaccords profonds. « Des collègues interloqués par mon post m’ont écrit pour me demander des explications. On en a discuté et je me suis expliqué. Mais la collègue qui a rédigé la lettre de délation n’a prévenu personne, n’a pas cherché d’explications auprès de moi. Ce qui lui importait, c’était que je sois sanctionné », tranche Nourdine. « On est habitués à passer sur le gril de l’#islamo-gauchisme et aux #attaques extérieures, mais pas aux dénonciations des collègues », finit-il par lâcher, amer.

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    Sciences Po en butte aux tensions

    Ce mardi 21 novembre, une manifestation des étudiants de Sciences Po en soutien à la cause palestinienne a été organisée rue Saint-Guillaume. Il s’agissait aussi de dénoncer la « censure » que subiraient les étudiants ayant trop bruyamment soutenu la cause palestinienne.

    Comme l’a raconté L’Obs, Sciences Po est confronté à de fortes tensions entre étudiants depuis les attaques du Hamas du 7 octobre. Le campus de Menton, spécialisé sur le Proche-Orient, est particulièrement en ébullition.

    Une boucle WhatsApp des « Students for Justice in Palestine », créée par un petit groupe d’étudiants, est notamment en cause. L’offensive du Hamas y a notamment été qualifiée de « résistance justifiée » et certains messages ont été dénoncés comme ayant des relents antisémites. Selon l’hebdomadaire, plusieurs étudiants juifs ont ainsi dit leur malaise à venir sur le campus ces derniers jours, tant le climat y était tendu. La direction a donc convoqué un certain nombre d’étudiants pour les rappeler à l’ordre.

    Lors d’un blocus sur le site de Menton, 66 étudiants ont été verbalisés pour participation à une manifestation interdite.

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    En dehors des cas particuliers précités, nombre d’universitaires interrogés estiment que le climat actuel démontre que le #monde_académique n’a pas su résister aux coups de boutoir politiques.

    « Ce n’est pas la première fois qu’une telle situation se produit », retrace Didier Fassin. « On l’avait vu, sous la présidence actuelle, avec les accusations d’islamo-gauchisme contre les chercheuses et chercheurs travaillant sur les discriminations raciales ou religieuses. On l’avait vu, sous les deux présidences précédentes, avec l’idée qu’expliquer c’est déjà vouloir excuser », rappelle-t-il en référence aux propos de Manuel Valls, premier ministre durant le quinquennat Hollande, qui déclarait au sujet de l’analyse sociale et culturelle de la violence terroriste : « Expliquer, c’est déjà vouloir un peu excuser. »

    « Il n’en reste pas moins que pour un certain nombre d’entre nous, nous continuons à essayer de nous exprimer, à la fois parce que nous croyons que la démocratie de la pensée doit être défendue et surtout parce que la situation est aujourd’hui trop grave dans les territoires palestiniens pour que le silence nous semble tolérable », affirme Didier Fassin.

    Contactée, la direction du #CNRS nous a répondu qu’elle ne souhaitait pas s’exprimer sur les cas particuliers. « Il n’y a pas à notre connaissance de climat de délation ou des faits graves de censure. Le CNRS reste très attaché à la liberté académique des scientifiques qu’il défend depuis toujours », nous a-t-elle assuré.

    Une répression qui touche aussi les syndicats

    À la fac, les syndicats sont aussi l’objet du soupçon, au point parfois d’écoper de sanctions. Le 20 octobre, la section CGT de l’université Savoie-Mont-Blanc (USMB) apprend sa suspension à titre conservatoire de la liste de diffusion mail des personnels, par décision du président de l’établissement, Philippe Galez. En cause : l’envoi d’un message relayant un appel à manifester devant la préfecture de Savoie afin de réclamer un cessez-le-feu au Proche-Orient et dénonçant notamment « la dérive ultra-sécuritaire de droite et d’extrême droite en Israël et la politique de nettoyage ethnique menée contre les Palestiniens ».

    La présidence de l’université, justifiant sa décision, estime que le contenu de ce message « dépasse largement le cadre de l’exercice syndical » et brandit un « risque de trouble au bon fonctionnement de l’établissement ». La manifestation concernée avait par ailleurs été interdite par la préfecture, qui invoquait notamment dans son arrêté la présence dans un rassemblement précédent « de nombreux membres issus de la communauté musulmane et d’individus liés à l’extrême gauche et ultragauche ».

    La section CGT de l’USMB n’a pas tardé à répliquer par l’envoi à la ministre Sylvie Retailleau d’un courrier, depuis resté lettre morte, dénonçant « une atteinte aux libertés syndicales ». La lettre invite par ailleurs le président de l’établissement à se plier aux consignes du ministère et à effectuer un signalement au procureur, s’il estimait que « [le] syndicat aurait “troublé le bon fonctionnement de l’établissement” ». Si ce n’est pas le cas, « la répression syndicale qui s’abat sur la CGT doit cesser immédiatement », tranche le courrier.

    « Cette suspension vient frontalement heurter la #liberté_universitaire, s’indigne Guillaume Defrance, secrétaire de la section CGT de l’USMB. C’est la fin d’un fonctionnement, si on ne peut plus discuter de manière apaisée. »

    Le syndicat dénonce également l’attitude de Philippe Galez, qui « veut désormais réguler l’information syndicale à l’USMB à l’aune de son jugement ». Peu de temps après l’annonce de la suspension de la CGT, Philippe Galez a soumis à l’ensemble des organisations syndicales un nouveau règlement relatif à l’utilisation des listes de diffusion mail. Le texte limite l’expression syndicale à la diffusion « d’informations d’origine syndicale ou à des fins de communication électorale ». Contacté par nos soins, le président de l’USMB nous a indiqué réserver dans un premier temps ses « réponses et explications aux organisations syndicales et aux personnels de [son] établissement ».

    Interrogé par Mediapart, le cabinet de Sylvie Retailleau répond que le ministère reste « attaché à la #liberté_d’expression et notamment aux libertés académiques : on ne juge pas des opinions. Il y a simplement des propos qui sont contraires à la loi ».

    Le ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche fait état de « quelques dizaines de cas remontés au ministère ». Il reconnaît que des événements ont pu être annulés pour ne pas créer de #trouble_à_l’ordre_public dans le climat actuel. « Ils pourront avoir lieu plus tard, quand le climat sera plus serein », assure l’entourage de la ministre.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/211123/conflit-israelo-palestinien-une-chape-de-plomb-s-est-abattue-sur-l-univers
    #université #Israël #Palestine #France #7_octobre_2023 #délation #ESR

  • L’auteur du listing des 600 islamogauchistes définitivement condamné en appel
    https://academia.hypotheses.org/52886

    Academia salue la première décision définitive condamnant pour diffamation Philippe Boyer, auteur d’un site recensant plus de 1000 universitaires comme “islamogauchistes”.#ResistESR COUR D’APPEL DE PAPEETE CHAMBRE DES APPELS CORRECTIONNELS Prononcé publiquement le jeudi 5 octobre 2023, par la chambre statuant … Continuer la lecture →

    ##ResistESR #Libertés_académiques_:_pour_une_université_émancipatrice #extrême-droite #islamophobie #Université_de_Polynésie_française

  • L’Assemblée nationale lance une mission sur la formation et le recrutement des professeurs
    https://www.aefinfo.fr/depeche/702173-l-assemblee-nationale-lance-une-mission-sur-la-formation-et-le-recrut

    La commission de l’éducation de l’Assemblée nationale vient de lancer une mission d’information sur « le recrutement et la formation du personnel enseignant dans les collèges et lycées publics ». Elle est présidée par Roger Chudeau (#RN, Loir-et-Cher) et la rapporteure est Cécile Rilhac (Renaissance, Val-d’Oise).

    https://fr.wikipedia.org/wiki/Roger_Chudeau

    Dans les mois qui suivent son élection, il présente trois propositions de loi, toutes en rapport avec l’#éducation : l’une visant à instaurer l’#uniforme_obligatoire pour les élèves à l’école primaire et au collège, une autre pour faciliter l’école à la maison, et la dernière visant à interdire le port du voile par les femmes qui accompagnent des sorties ou des voyages scolaires.

    dans sa biblio : comment faire de l’école publique un rempart contre l’islamisme ?

    « C’était très violent » : les syndicats de profs, attaqués par Renaissance et le RN, claquent la porte d’une commission parlementaire
    https://www.liberation.fr/checknews/cetait-tres-violent-les-syndicats-de-profs-attaques-par-renaissance-et-le

    [Chudeau]« Je pense que cette table ronde est un échec, les propos tenus rendent inopérante ce type de réunion. Je pense que nos hôtes n’ont pas compris où ils sont ni à qui ils s’adressent. Que madame de la FSU vous vous permettiez de nous faire une leçon de respect et de démocratie, est à la fois ridicule et totalement déplacé. Monsieur du Snalc qui ironise sur l’absentéisme des députés est totalement ridicule et déplacé. Donc si vous voulez que l’année prochaine on se retrouve, ce qui n’est pas forcément certain, j’aimerais que vous vous mettiez au niveau, et que vous baissiez d’un ton. »

    #école #enseignants de #en_Marche à #mettre_au_pas

  • Unity is probably going to do layoffs - The Verge
    https://www.theverge.com/2023/11/9/23954709/unity-layoffs-q3-earnings-runtime-program

    In the report, the company says it is assessing its product portfolio “to focus on those products that are most valuable to our customers” and is “evaluating the right cost structure that aligns with the more focused portfolio.” It plans to make changes during the fourth quarter, and they will “likely include discontinuing certain product offerings, reducing our workforce, and reducing our office footprint.” The company expects to complete its changes before the end of Q1 2024.

    Cette annonce fait suite au départ du PDG plus tôt cette année :

    Unity Announces Leadership Transition | Business Wire
    https://seenthis.net/messages/1020414

    Départ suite au changement de stratégie commerciale :

    Unity introducing new fee attached to game installs
    https://seenthis.net/messages/1017447

    qui avait été modifiée suite à la grogne des clients :

    An open letter to our community | Unity Blog
    https://seenthis.net/messages/1018076

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #unity #finance #business #ressources_humaines #licenciements

  • Typothèque Bye Bye Binary
    https://typotheque.genderfluid.space

    Des remplacements de glyphes automatiques avec OpenType, à partir d’une écriture plus simple à base de point médian (ami⋅e) ou deux points (ami..e).

    Avec une standardisation des nouveaux glyphes à suivre entre toutes les fontes augmentées :
    https://typotheque.genderfluid.space/quni.html

    Les fontes de cette typothèque proposent de nombreux glyphes (lettres mutantes, ligatures, éléments de symbiose) en addition au point médian et autres solutions régulièrement utilisées pour écrire et composer des textes inclusifs. Nos claviers ne contiennent pas (encore) les touches qui correspondent à ces caractères. Alors pour rendre utilisable cet arc-en-ciel de signes par touls, la collective Bye Bye Binary construit des pratiques en commun, des normes molles, rageuses et aux petits oignons, qui ensemble forment læ Queer Unicode Initiative (QUNI). Le QUNI permet de rassembler nos fontes, avec toute la diversité qu’elles contiennent, autour d’un même système d’encodage en vue de leur utilisation par un large public.

    #typographie #fontes #genre #écriture_inclusive #opentype #unicode #standardisation #quni

  • #Titane, #lithium : l’#Europe ouvre « un open bar pour l’#industrie_minière »

    Plutôt que l’instrument d’une transition « verte », la future législation européenne sur les #matières_premières_critiques est une offrande aux industries polluantes, dénonce Laura Verheecke de l’Observatoire des multinationales.

    Reporterre — En quoi consiste la législation européenne sur les matières premières critiques, actuellement discutée ?

    Lora Verheecke — Cette #loi est pensée par la #Commission_européenne pour permettre à l’#Union_européenne (#UE) un approvisionnement plus conséquent et plus sûr en #minerais indispensables pour la transition « verte ». Ces minerais serviront à fabriquer les #capteurs, les #moteurs ou encore les #batteries des #voitures_électroniques, des rotors d’#éoliennes, des #panneaux_photovoltaïques

    En pratique, le texte prévoit un #soutien_financier pour ouvrir des mines hors de l’UE, avec très peu de contraintes pour les entreprises en termes de respect de l’environnement et des populations locales. Il permet aussi d’ouvrir plus de mines en Europe à travers le principe d’« #intérêt_stratégique_supérieur », c’est-à-dire en limitant les motifs d’objection juridique des populations, en reléguant les lois environnementales et démocratiques. Par conséquent, on consultera moins, plus vite et on pourra plus difficilement remettre en cause l’ouverture d’une mine.

    Le processus législatif en cours est très rapide — « le plus rapide de l’histoire » selon certains journalistes — et le brouillon de loi publié en mars par la Commission est aujourd’hui au stade final de discussions et compromis entre le Parlement européen et le Conseil, c’est-à-dire les États membres. Les deux institutions ont déjà arrêté leurs positions.

    Une fois leurs discussions achevées, la loi n’aura plus qu’à être votée par les États membres et le Parlement et elle deviendra loi partout dans l’Union européenne. Si le processus est si rapide, c’est qu’il y a encore peu d’attention publique et médiatique sur ce projet de loi et le soutien est large — mais pas entier — du côté des capitales européennes et des députés européens.

    Dans le rapport Du sang sur le Green Deal publié avec Corporate Europe Observatory (https://multinationales.org/fr/enquetes/du-sang-sur-le-pacte-vert/du-sang-sur-le-green-deal-comment-l-ue-sous-pretexte-d-action-clima), vous montrez comment cette loi, présentée comme favorable au climat, profite largement à l’industrie minière, pourtant « intrinsèquement sale ».

    On peut même affirmer que cette loi s’est transformée en un #open_bar pour l’industrie minière, sale, et celle de l’#armement, mortifère. Elle est le fruit d’un #lobbying soutenu et de longue date, notamment au sein d’un groupe de travail de la Commission, actif depuis les années 80 et qui compte comme membres de nombreuses entreprises telles que #Volkswagen, #Umicore — spécialisé dans la technologie des matériaux —, #Nokia et #Boliden, une entreprise minière suédoise.

    Sous couvert de garantir la #transition_écologique, les conséquences de cette loi seront donc potentiellement désastreuses : une mine est et sera toujours sale. En ouvrir une requiert de grandes quantités de terres, peut entraîner le déplacement de communautés.

    L’extraction des minerais de la terre implique une grande #pollution de l’#eau, des #sols et de l’#air, car cette extraction utilise de nombreux produits chimiques. C’est un réel #danger pour la #biodiversité : en 2019, 79 % de l’extraction mondiale de minerais métalliques provenait de cinq des six biomes les plus riches en espèces, dont les écosystèmes tropicaux forestiers.

    En #France, l’ouverture de la plus grande mine de lithium est prévue pour 2028, dans l’#Allier. Des organisations locales s’y opposent déjà pour éviter la pollution de leurs terres et leurs rivières et le secteur de la mine a été placé sous surveillance comme « site avec une contestation susceptible de se radicaliser à court terme » par les services du ministère de l’Intérieur.

    Parmi les groupes de pression, on retrouve des secteurs de la défense et de l’aéronautique, comme #Airbus ou #Safran. Comment ont-ils influé sur le processus de décision ?

    Airbus et Safran, mais aussi #Dassault, ont rencontré de nombreux décideurs politiques européens. Ils sont également membres de nombreuses associations d’entreprises et paient des agences de lobbying comme #Avisa_Partners pour supplémenter leur lobbying.

    De plus, les portes tournent [1] entre les entreprises de l’armement et l’Union européenne. En 2020, par exemple, l’ex-président de l’Agence européenne de défense est devenu lobbyiste en chef d’Airbus.

    Ces rencontres, études et événements et ces aller-retours leur ont permis de se faire des alliés au sein même de la Commission, au Parlement européen et dans de nombreux États membres. La Commission a même cofinancé une alliance sur les #matériaux_rares — dont #France_Industrie est membre — et créé un groupe d’experts dans lesquels les industriels de l’armement ont voix au chapitre.

    Tout ceci a mené à deux victoires majeures : premièrement, on ouvrira des mines dans le futur à la fois pour les #voitures_électriques, mais aussi pour des #missiles ; et deuxièmement l’extraction de certains minerais sera aidée financièrement et politiquement pour l’industrie de la défense, comme le titane.

    Ce #minerai est aujourd’hui classé stratégique, d’après l’UE, suite au lobbying de l’industrie de la #défense et de l’#aérospatial. Alors même qu’il n’est pas utile à la transition « verte ». Cette catégorisation était une des demandes du PDG de Safran auprès du vice-président de la Commission lors de leur rencontre en mai 2023.

    Pour résumer, la #défense et l’#aéronautique ont tout fait, donc, pour s’assurer que les métaux qui les intéressaient bénéficieraient du même soutien public et des mêmes déréglementations environnementales que ceux qui sont réellement utiles aux transitions climatique et numérique.

    Quel rôle a joué la France et le commissaire français #Thierry_Breton dans ce processus ?

    Les deux ont été des alliés très importants des industriels. M. Breton n’a pas hésité à se faire la voix de l’industrie de l’armement, en clamant notamment en mars 2023, lorsque la Commission européenne dévoilait le projet de loi : « Pas de batteries sans lithium, pas d’éoliennes sans terres rares, pas de munitions sans #tungstène… » Le #lobby européen des entreprises de la défense dira de M. Breton, en novembre 2021 : « Nous sommes très fiers et heureux de vous considérer comme "notre commissaire" ».

    C’est de ce même lobby que la France copiera d’ailleurs une partie de ses positions au Conseil — l’institution au sein de laquelle les États membres débattent. La France a d’ailleurs créé en novembre 2022 un #Observatoire_français_des_ressources_minérales_pour_les_filières_industrielles (#Ofremi), qui a d’ailleurs placé, dès son lancement, les difficultés d’approvisionnement du secteur de la défense au rang de ses priorités. L’Ofremi tient par exemple un discours similaire au PDG de Safran sur le titane.

    Est-il encore possible de sauver ce texte ?

    Ce texte est principalement débattu aujourd’hui dans la bulle européenne d’experts, avec des discussions qui se limitent à des considérations techniques. Il est temps d’avoir une discussion politique pour savoir sous quelles conditions ouvrir des mines et quelle doit être l’utilisation des minerais et terres rares. Nous devons nous poser la question des priorités d’usage. Ouvre-t-on des mines pour des 4x4 électriques lourds, pour des bus électriques ou pour des drones ?

    Il est nécessaire d’avoir une discussion politique sur les conséquences environnementales de notre transition dite verte. Aujourd’hui, ces discussions sont trop absentes du débat public européen. La loi ne mentionne pas la question de notre boulimie de consommation, d’une limite à notre demande en matériaux rares. Sous couvert de #Green_Deal et de transition « verte », on met de côté les nouvelles pollutions, émissions et atteintes aux droits de l’homme à venir.

    Notre chance, ce sont les élections européennes qui approchent : les députés seront de plus en plus réceptifs aux demandes des citoyens européens sur leur position sur ce texte. Certains États membres posent timidement la question de la réduction de notre consommation en minerais et terres rares, comme la Belgique, qui prend la présidence du Conseil en janvier. On peut pousser nos gouvernements à avoir cette position : plutôt qu’ouvrir des mines, ouvrons le débat sur la consommation de minerais.

    https://reporterre.net/Titane-lithium-l-Union-europeenne-ouvre-un-open-bar-pour-l-industrie-min
    #terres_rares #transition_énergétique #énergie #mines #extractivisme

  • EU-Tunisia like UK-Rwanda? Not quite. But would the New Pact asylum reforms change that?

    EU law only allows sending asylum applicants to third countries if they can be considered safe and have a reasonable connection with the applicant. However, if the New Pact reforms go ahead, the safe third-country concept may be used to further shift protection responsibilities outside the EU. While the EU would be unable to conclude a UK-Rwanda-style agreement, the pressure for reforms, as well as the recent Memorandum of Understanding with Tunisia, signal the threat of diminished human rights protections and safeguards.

    Following an agreement on the last piece of the reform package, the so-called crisis instrument, the European Council and European Parliament are currently negotiating all proposals included in the New Pact on Migration and Asylum. While the focus on preventing irregular arrivals and increasing returns has long been a priority for the European Council and has been widely debated in EU migration policy, the possible impact of Pact reforms on the Safe Third-Country (STC) has gone largely unnoticed, partly due to its technical nature.

    However, the use of this concept could be expanded, in line with the original Pact proposal by the Commission, unless the European Parliament’s approach prevails over the European Council’s position. Should the Parliament fail to stay the course, the reforms could make it easier to transfer asylum applicants back to countries of transit, where they could be exposed to human rights violations. Recent developments point in this direction.

    Faced with an increase in irregular arrivals, ahead of the February 2023 meeting of the European Council, eight member states called on the European Commission and European Council to “explore new solutions and innovative ways of tackling irregular migration” based on “safe third-country arrangements”. Reflecting an established trend of outsourcing to third countries migration management responsibilities, in July 2023, the Commission signed a Memorandum of Understanding (MoU) with Tunisia on border controls and returns in exchange, among others, for economic and trade benefits. This MoU, singled out as a blueprint for similar arrangements by von der Leyen in her 2023 State of the Union address, was concluded at the urging of the Italian government, as it wants to use the concept of STC to return those arriving by sea via Tunisia.

    However, some member states aim to go further, with some commentators arguing that their goal is cooperation with third countries based on the 2022 UK-Rwanda deal. In this controversial deal, Rwanda committed to readmit asylum seekers arriving irregularly in the UK in exchange for development aid, regardless of whether asylum seekers had ever lived in or even entered the country before. Explicit bilateral declarations of support for this policy came from Austria and Italy. Denmark even negotiated a similar deal with Rwanda in September 2022. However, the Danish plans were put on hold, with the government expecting an EU-wide approach.

    These developments raise several crucial questions regarding EU migration and asylum policies. Under EU law, are UK-Rwanda-like deals lawful? What difference, if any, could the Pact reforms bring in this respect? How should the MoU with Tunisia be seen in this context? And will the concept of STC be used to shift responsibility to third countries in the future, and with what potential consequences for human rights protections?

    Externalisation: A U-turn on the concept of safe third-country

    The concept of STC emerged at the end of the 1980s to ensure a fair burden sharing of responsibility for asylum applicants among members of the international community. Under its original conception, the states most impacted by refugee flows could send asylum applicants to another state on the condition that the receiving state could offer them adequate protection in line with international standards.

    In recent years, however, restrictive immigration policies aimed at deterring irregular arrivals have proliferated, including outsourcing responsibilities to third countries. These policies, commonly referred to as ‘externalisation’, seek to transfer migration management and international protection responsibilities to countries already impacted by refugee flows, mostly countries of transit, in a spirit of burden-shifting rather than burden-sharing. These also come with diminished safeguards.

    Notable examples from outside the EU include the controversial policy by Australia of setting up extraterritorial asylum processing in Papua New Guinea in 2001. In the European context, the idea of setting up extraterritorial processing centres was first suggested by the UK in 2003 and then by Germany in 2005. This idea regained attention in the aftermath of the so-called 2015 refugee crisis, with several heads of EU states calling for asylum external processing. However, legal hurdles and the lack of willing neighbouring countries prevented it from becoming an EU mainstream migration control mechanism. The use of the STC concept to declare an application for international protection inadmissible without an examination of its merits prevailed instead, with the purpose of transferring the person who filed it to a third-country which is considered safe. Under current EU rules, the safety of the country is assessed on the basis of protection from persecution, serious harm, and respect for the principle of non-refoulement. However, this concept can only be applied individually, when there is a sufficient connection between the asylum seeker and the third- country, defined under national law, which makes it reasonable to return to that country.

    The much-debated 2016 EU-Türkiye Statement is considered the blueprint of this approach. Under the statement, Türkiye agreed to readmit all asylum seekers who crossed into Greece from Türkiye. In line with EU law, asylum applicants can only be returned after considering the time of stay there, access to work or residence, existence of social or cultural relations, and knowledge of the language, among others.

    Unlike the EU-Türkiye Statement, the UK-Rwanda agreement does not foresee the need for any such connection. Under the deal, the UK would, in principle, be able to send to Rwanda Syrians, Albanians and Afghans without them having ever set foot there. However, as of October 2023, the deal remains on hold, as the Court of Appeal found that it overlooks serious deficiencies in the Rwandan asylum system, rendering it unsafe.

    The expansion of safe third-country under the New Pact on Migration and Asylum

    Considering the above, Denmark or other member states could not transfer asylum seekers to a third-country, regardless of their circumstances. As the European Commission and experts argued, this would only be possible if a reasonable connection with the applicant could be established.

    Things may nevertheless change if the Pact negotiations were to proceed in accordance with the compromise reached by member states in June 2023. The European Council’s compromise text keeps the reasonable connection requirement while also leaving to member states the exact definition of STC under national law, as in the current rules. However, two possible changes could broaden its applicability to facilitate returns.

    First, albeit non-legally binding, the recitals introducing the European Council’s agreed position explicitly mention that a mere ‘stay’ in a STC could be regarded as sufficient for the reasonable connection requirement to be met. If the changes were to pass in this form, it is not unforeseeable that some member states will push to return asylum seekers to countries of transit, even if they only have a tenuous link with them, although case-law of the EU Court of Justice points against this interpretation.

    Second, the position agreed by the European Council in June would allow member states to presume the safety of a third country when the EU and the said third-country have decided that migrants readmitted there will be protected in line with international standards. However, the mere existence of an agreement does not prove its safety in practice. For example, the recently agreed MoU with Tunisia was called into question for its human rights implications and overlooking abuses against migrants, arguably rendering it unsafe.

    Despite Italian wishes to the contrary, Tunisia has so far only expressly agreed to readmit its own nationals. However, considering the expectations of EU states, the European Council’s position, and an uncertain future, the possibility of more comprehensive arrangements with other countries, such as Egypt, cannot be ruled out. While UK-Rwanda-style deals are and will remain a no-go for member states, an expanded STC concept could enable the EU to pursue its priority of implementing returns to countries of transit, a notable shift compared to current practices. The push for cooperation with Tunisia shows that this would come at the expense of human rights.

    The negotiations with the European Parliament offer the opportunity to avoid this expansion and maintain stronger safeguards. However, considering the wider systemic weaknesses of the envisaged reforms – especially the loose solidarity obligations within member states – the EU will likely continue its burden-shifting efforts in the future regardless, whether through the STC concept or other types of arrangements with third countries.

    https://www.epc.eu/en/Publications/EU-Tunisia-like-UK-Rwanda-Not-quite-But-would-the-New-Pact-asylum-re~55422c
    #Pacte_européen_sur_la_migration_et_l’asile #migrations #asile #réfugiés #externalisation #new_pact #nouveau_pacte #EU #UE #Union_européenne #pays-tiers_sûrs #procédure_d'asile #droits_humains #Tunisie #Rwanda #pays_de_transit

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    ajouté à la métaliste sur le #Pacte_européen_sur_la_migration_et_l’asile:
    https://seenthis.net/messages/1019088

  • Fewer boat crossings, visit to Frontex : EU and Tunisia implement migration pact

    Despite an alleged repayment of funds for migration defence, Tunisia is cooperating with the EU. Fewer refugees are also arriving across the Mediterranean – a decrease by a factor of seven.

    In June, the EU Commission signed an agreement on joint migration control with Tunisia. According to the agreement, the government in Tunis will receive €105 million to monitor its borders and “combat people smuggling”. Another €150 million should flow from the Neighbourhood, Development and International Cooperation Instrument (NDICI) in the coming years for the purposes of border management and countering the “smuggling” of migrants.

    Tunisia received a first transfer under the agreement of €67 million in September. The money was to finance a coast guard vessel, spare parts and marine fuel for other vessels as well as vehicles for the Tunisian coast guard and navy, and training to operate the equipment. Around €25 million of this tranche was earmarked for “voluntary return” programmes, which are implemented by the United Nations Refugee Agency and the International Organisation for Migration.

    However, a few weeks after the transfer from Brussels, the government in Tunis allegedly repaid almost the entire sum. Tunisia “does not accept anything resembling favours or alms”, President Kais Saied is quoted as saying. Earlier, the government had also cancelled a working visit by the Commission to implement the agreement.

    Successes at the working level

    Despite the supposed U-turn, cooperation on migration prevention between the EU and Tunisia has got off the ground and is even showing initial successes at the working level. Under the agreement, the EU has supplied spare parts for the Tunisian coast guard, for example, which will keep “six ships operational”. This is what Commission President Ursula von der Leyen wrote last week to MEPs who had asked about the implementation of the deal. Another six coast guard vessels are to be repaired by the end of the year.

    In an undated letter to the EU member states, von der Leyen specifies the equipment aid. According to the letter, IT equipment for operations rooms, mobile radar systems and thermal imaging cameras, navigation radars and sonars have been given to Tunisia so far. An “additional capacity building” is to take place within the framework of existing “border management programmes” implemented by Italy and the Netherlands, among others. One of these is the EU4BorderSecurity programme, which among other things provides skills in sea rescue and has been extended for Tunisia until April 2025.

    The Tunisian Garde Nationale Maritime, which is part of the Ministry of the Interior, and the Maritime Rescue Coordination Centre benefit from these measures. This MRCC has already received an EU-funded vessel tracking system and is to be connected to the “Seahorse Mediterranean” network. Through this, the EU states exchange information about incidents off their coasts. This year Tunisia has also sent members of its coast guards to Italy as liaison officers – apparently a first step towards the EU’s goal of “linking” MRCC’s in Libya and Tunisia with their “counterparts” in Italy and Malta.

    Departures from Tunisia decrease by a factor of seven

    Since the signing of the migration agreement, the departures of boats with refugees from Tunisia have decreased by a factor of 7, according to information from Migazin in October. The reason for this is probably the increased frequency of patrols by the Tunisian coast guard. In August, 1,351 people were reportedly apprehended at sea. More and more often, the boats are also destroyed after being intercepted by Tunisian officials. The prices that refugees have to pay to smugglers are presumably also responsible for fewer crossings; these are said to have risen significantly in Tunisia.

    State repression, especially in the port city of Sfax, has also contributed to the decline in numbers, where the authorities have expelled thousands of people from sub-Saharan countries from the centre and driven them by bus to the Libyan and Algerian borders. There, officials force them to cross the border. These measures have also led to more refugees in Tunisia seeking EU-funded IOM programmes for “voluntary return” to their countries of origin.

    Now the EU wants to put pressure on Tunisia to introduce visa requirements for individual West African states. This is to affect, among others, Côte d’Ivoire, where most of the people arriving in the EU via Tunisia come from and almost all of whom arrive in Italy. Guinea and Tunisia come second and third among these nationalities.

    Reception from the Frontex Director

    In September, three months after the signing of the migration agreement, a delegation from Tunisia visited Frontex headquarters in Warsaw, with the participation of the Ministries of Interior, Foreign Affairs and Defence. The visit from Tunis was personally received by Frontex Director Hans Leijtens. EU officials then gave presentations on the capabilities and capacities of the border agency, including the training department or the deportation centre set up in 2021, which relies on good cooperation with destination states of deportation flights.

    Briefings were also held on the cross-border surveillance system EUROSUR and the “Situation Centre”, where all threads from surveillance with ships, aircraft, drones and satellites come together. The armed “permanent reserve” that Frontex has been building up since 2021 was also presented to the Tunisian ministries. These will also be deployed in third countries, but so far only in Europe in the Western Balkans.

    However, Tunisia still does not want to negotiate such a deployment of Frontex personnel to its territory, so a status agreement necessary for this is a long way off. The government in Tunis is also not currently seeking a working agreement to facilitate the exchange of information with Frontex. Finally, the Tunisian coast guard also turned down an offer to participate in an exercise of European coast guards in Greece.

    Model for migration defence with Egypt

    Aiding and abetting “smuggling” is an offence that the police are responsible for prosecuting in EU states. If these offences affect two or more EU states, Europol can coordinate the investigations. This, too, is now to get underway with Tunisia: In April, EU Commissioner Ylva Johansson had already visited Tunis and agreed on an “operational partnership to combat people smuggling” (ASOP), for which additional funds will be made available. Italy, Spain and Austria are responsible for implementing this police cooperation.

    Finally, Tunisia is also one of the countries being discussed in Brussels in the “Mechanism of Operational Coordination for the External Dimension of Migration” (MOCADEM). This working group was newly created by the EU states last year and serves to politically bundle measures towards third countries of particular interest. In one of the most recent meetings, the migration agreement was also a topic. Following Tunisia’s example, the EU could also conclude such a deal with Egypt. The EU heads of government are now to take a decision on this.

    https://digit.site36.net/2023/11/01/fewer-boat-crossings-visit-to-frontex-eu-and-tunisia-implement-migrati

    #Europe #Union_européenne #EU #externalisation #asile #migrations #réfugiés #accord #gestion_des_frontières #aide_financière #protocole_d'accord #politique_migratoire #externalisation #Memorandum_of_Understanding (#MoU) #Tunisie #coopération #Frontex #aide_financière #Neighbourhood_Development_and_International_Cooperation_Instrument (#NDICI) #gardes-côtes_tunisiens #militarisation_des_frontières #retours_volontaires #IOM #OIM #UNHCR #EU4BorderSecurity_programme #Seahorse_Mediterranean #officiers_de_liaison #arrivées #départs #chiffres #statistiques #prix #Frontex #operational_partnership_to_combat_people_smuggling (#ASOP) #Mechanism_of_Operational_Coordination_for_the_External_Dimension_of_Migration (#MOCADEM)

    –—
    ajouté à la métaliste sur le Mémorandum of Understanding entre l’UE et la Tunisie :
    https://seenthis.net/messages/1020591

  • Pour tous ceux qui ne sont pas capables de couper les liens, ou de ne pas en créer avec un état créé à l’époque coloniale avec toute la barbarie de l’époque coloniale, qui n’a jamais accepté de sortir du colonialisme et qui maintenant pratique la barbarie coloniale avec les armes les plus sophistiquées.

    https://x.com/Andychuho/status/1718766644258877705?s=20

    #Israel #Union-Européenne #Etats-Unis #Barbarie #Crimes-de-guerre #Génocide #assassinats-d'-enfants #Gaza

  • Comment l’austérité paralyse l’université

    [Rentrée sous tension à la fac] Pour dénoncer leur manque de #reconnaissance, des enseignants démissionnent de leurs #tâches_administratives, alors que le projet de loi de finances 2024 risque d’aggraver les difficultés financières de l’université.

    Les présidents d’université l’ont mauvaise. La raison ? Le #projet_de_loi_de_finances (#PLF) 2024, qui n’est pas à la hauteur des besoins de leurs établissements. Déjà fortement impactées par la hausse des prix en général et des coûts de l’énergie en particulier, les universités vont en effet devoir financer pour 2023 et 2024 une partie de la hausse des #salaires décidée en juin par le ministre de la Fonction publique Stanislas Guérini. « Une très mauvaise nouvelle », a réagi France Universités dans un communiqué du 19 octobre :

    « Pour les universités, cela signifie qu’elles devront financer 120 millions d’euros [sur un coût total d’environ 400 millions d’euros, NDLR], soit par prélèvement sur leurs fonds de roulement, soit par réduction de leur campagne d’emplois. Cela équivaut à 1 500 #emplois de maîtres de conférences en moins, non ouverts au recrutement, dénonce l’association, qui fédère l’ensemble des présidents d’universités. Encore une fois, les universités font les frais de la #politique_budgétaire du gouvernement qui considère l’#enseignement_supérieur et la #recherche comme une variable d’ajustement et non comme un investissement en faveur de la jeunesse », ajoute le communiqué.

    La situation est, il est vrai, particulièrement difficile, avec de nombreuses universités au #budget_déficitaire ou en passe de le devenir. Et un gouvernement qui n’entend rien leur concéder.

    Chute de la dépense par étudiant

    Début septembre, #Emmanuel_Macron expliquait, dans un échange avec le Youtubeur Hugo Travers, qu’il n’y avait « pas de problème de moyens » dans l’enseignement supérieur public, dénonçant une forme de « #gâchis_collectif » puisque, à ses yeux, il y aurait « des formations qui ne diplôment pas depuis des années » et d’autres qui se maintiennent « simplement pour préserver des postes d’enseignants ».

    Dans la foulée, la ministre #Sylvie_Retailleau, exigeait de libérer leurs #fonds_de_roulement – cet « argent public qui dort » d’après elle – estimés à un milliard d’euros, et qui permettrait de financer une partie des mesures en faveur du pouvoir d’achat des #fonctionnaires décidées cet été. Seulement, arguent les chefs d’établissements, ces fonds sont destinés aux rénovations énergétiques des bâtiments ou aux équipements de laboratoires de recherches.

    Déjà peu élevée par rapport aux autres pays d’Europe, la #dépense_par_étudiant décroche en réalité nettement depuis 2010. À l’université, le nombre d’inscrits a augmenté de 25 %, et le budget d’à peine 10 %. Le nombre d’enseignants a, lui, baissé de 2 %.

    « Pour retrouver les #taux_d’encadrement de 2010, il faudrait créer 11 000 postes dans les universités », a calculé Julien Gossa, maître de conférences en sciences informatiques à l’université de Strasbourg et fin observateur des questions liées à l’enseignement supérieur.

    Dans le détail, ces chiffres masquent des #inégalités : tous les établissements ne sont pas dotés de la même manière. Difficile d’obtenir des données officielles à ce sujet, mais celles produites par Julien Gossa révèlent des écarts allant parfois du simple au double.

    A L’université de Créteil, qui a vu ses effectifs exploser ces dernières années et devrait atteindre un #déficit de 10 millions d’euros cette année, l’Etat débourse en moyenne 6 750 euros par étudiant. À Aix-Marseille, le montant s’élève à 10 000 euros. À la Sorbonne, celui-ci est de 13 000 euros, soit presque deux fois plus qu’à Nantes (7 540 euros). Et largement plus qu’à Nîmes (5 000 euros). « Ces grandes différences ne peuvent s’expliquer uniquement par des frais de structures », souligne Hervé Christofol, membre du bureau national du Snesup-FSU.

    La #concurrence s’est aggravée en 2007 avec la loi relative aux libertés et responsabilités des universités (#LRU). Réforme majeure du quinquennat de #Nicolas_Sarkozy, elle a transféré aux établissements universitaires la maîtrise de leurs budgets, et de leurs #ressources_humaines, qui revenait jusqu’ici à l’Etat.

    « On nous a vendu l’idée selon laquelle les universités seraient plus libres de faire leurs propres choix en s’adaptant à leur territoire. Mais en réalité, le gouvernement s’est tout simplement déresponsabilisé », tance Julien Gossa.

    Manque de profs titulaires

    Concrètement, pour fonctionner à moyens constants, les présidents d’universités sont contraints de mener des politiques d’austérité. Conséquences : les #recrutements d’#enseignants_titulaires sont gelés dans plusieurs universités, comme à Créteil, et celles et ceux en poste accumulent les #heures_supplémentaires.

    En 2022, le nombre d’ouvertures de postes de maîtres de conférences a augmenté de 16 %, mais cela ne suffit pas à rattraper la stagnation des dernières années. Le Snesup-FSU, syndicat majoritaire, avait d’ailleurs identifié la date du 26 janvier comme le « #jour_du_dépassement_universitaire », autrement dit le jour à compter duquel les titulaires ont épuisé les heures correspondant à leurs obligations de service pour l’année en cours.

    Au-delà, tous les enseignements sont assurés en heures supplémentaires, ou bien par le recrutement de #contractuels ou #vacataires – des #contrats_précaires qui interviennent de façon ponctuelle, sans que l’université ne soit leur activité principale. Les syndicats estiment qu’ils sont entre 100 000 et 130 000. Leur #rémunération : à peine 40 euros bruts de l’heure, contre environ 120 euros bruts pour un titulaire.

    Les problématiques de rémunération ont d’ailleurs créé la pagaille lors de la rentrée dans un certain nombre d’universités. À Paris-Est-Créteil, les étudiants de première année de la filière sciences et techniques des activités physiques et sportives (Staps) ont vu leur rentrée décalée de deux semaines. Puis les cours ont démarré, mais dans une situation pour le moins dantesque : pas préparés en amont, les groupes de TD ont été créés dans la panique par des agents administratifs déjà débordés… Sans tenir compte des options souhaitées par les étudiants.

    Une quinzaine d’enseignants ont en effet démissionné d’une partie de leurs responsabilités : ils continuent d’assurer leurs cours, mais refusent d’effectuer leurs tâches administratives ou pédagogiques non statutaires pour dénoncer ce qu’ils qualifient d’un « manque de reconnaissance » de l’État. À Rouen, ils sont 57 à en avoir fait de même. Même son de cloche à l’IUT Sciences de gestion de l’Université de Bordeaux, ou à celui de Chimie d’Aix-Marseille.

    « Cela impacte tout le monde, insiste Gabriel Evanno, représentant du bureau des élèves de Staps à Créteil. Pour l’instant, nous ne savons même pas si les partiels de cet hiver pourront avoir lieu puisqu’il n’y a plus de surveillants d’examens. Nous ne savons pas non plus qui sera en mesure de signer nos conventions de stages étant donné que les enseignants qui étaient en mesure de le faire n’y sont plus habilités depuis leurs démissions de ces tâches. »

    L’étudiant soutient, malgré tout, la protestation des enseignants.

    Mobilisations des « ESAS »

    Ces #démissions_massives sont le fruit d’une #mobilisation démarrée il y a un an à l’initiative du collectif 384 regroupant près de 2 000 enseignants au statut particulier, les #enseignants_du_secondaire_affectés_dans_le_supérieur (#ESAS) : des professeurs agrégés, d’autres certifiés, d’autres issus de lycées professionnels. Au nombre de 13 000, ces enseignants se trouvent majoritairement dans les instituts universitaires de technologie (IUT), les filières Staps ou les instituts nationaux supérieurs du professorat et de l’éducation (Inspé).

    Toutes et tous assurent 384 heures de cours par an, soit deux fois plus que les enseignants-chercheurs, sans compter le suivi des étudiants.

    Or, début 2022, un nouveau système de #primes pouvant atteindre d’ici 2027 6 400 euros par an a été mis en place, pour inciter à prendre en charge des tâches administratives et pédagogiques. Le problème, c’est qu’il a été réservé aux enseignants-chercheurs, alors même que les ESAS remplissent tout autant ce genre de missions.

    « En plus de nos heures de cours, nous assurons depuis longtemps des missions non statutaires, parfois délaissées par les enseignants-chercheurs : le suivi des stages, le recrutement des étudiants, ou encore l’élaboration des emplois du temps, énumère Nicolas Domergue, porte-parole du collectif et enseignant à l’IUT du Puy-en-Velay. Le tout pour la somme ridicule de 600 euros par an. On est surinvestis, et pourtant oubliés au moment des réformes. »

    Pour Guillaume Dietsch, enseignant en Staps de l’Université de Paris-Est-Créteil et « démissionnaire », cette exclusion des primes a été « la goutte d’eau de trop. Cette injustice a été perçue de façon symbolique comme un manque de reconnaissance plus large de notre travail. »

    Le Ministère de l’enseignement supérieur avait d’abord justifié cette différence de traitement par l’absence de mission de recherche des enseignants issus du second degré, avant de chercher un moyen de stopper la vague des démissions. Pour calmer la grogne, début septembre, le Ministère a débloqué 50 millions d’euros afin de revaloriser la prime des ESAS qui passera à 4 200 euros en 2027. Ce qui fait toujours 2 200 euros de moins que celle accordée aux enseignants-chercheurs.

    « Contrairement à ce que ce procédé laisse entendre, nous pensons que la formation des futurs actifs doit être reconnue au même niveau que la recherche », rétorque Nicolas Domergue.

    Au-delà de cette question de prime, se joue une autre bataille : celle de l’évolution de carrière. De par leur statut hybride, ces enseignants sont pris en étau entre deux ministères, celui de l’enseignement supérieur et de la recherche et celui de l’éducation nationale.

    « Notre carrière est quasiment à l’arrêt dès que l’on quitte le secondaire, regrette Céline Courvoisier, membre du collectif 384 et professeure agrégée de physique à l’IUT d’Aix-Marseille. Nous ne sommes plus évalués par le rectorat au motif que nous travaillons dans le supérieur. »

    Ces enseignants sont, de fait, exclus des primes dont peuvent bénéficier leurs collègues dans les collèges ou les lycées. Pour eux, c’est la double peine quand les effets de l’austérité budgétaire s’ajoutent à leur insuffisante reconnaissance salariale. Ainsi, depuis 2021, les IUT se font désormais en trois ans au lieu de deux auparavant.

    « Nous avons dû monter une troisième année à coûts constants alors que cela nécessite nécessairement des embauches, des salles… Comment est-ce possible ? », interroge Céline Courvoisier.

    Surtout, a-t-on envie de se demander, combien de temps cette situation va-t-elle pouvoir durer ?

    https://www.alternatives-economiques.fr/lausterite-paralyse-luniversite/00108494

    #austérité #université #ERS #France #facs #démission

  • The hotspot approach in Greece and Italy

    The ’hotspot approach’ was presented by the European Commission as part of the European agenda on migration in April 2015, when record numbers of refugees, asylum-seekers and other migrants began arriving in the EU. The ’hotspots’ (first reception facilities) were intended to improve coordination of EU agencies’ and national authorities’ efforts at the external borders of the EU, in the initial reception, identification, registration and fingerprinting of asylum-seekers and migrants. Although other Member States also have the possibility to benefit from the hotspot approach, only Greece and Italy host hotspots. This approach was also designed to contribute to the temporary emergency relocation mechanisms that – between September 2015 and September 2017 – helped to transfer asylum-seekers from Greece and Italy to other EU Member States. Even though 96 % of the people eligible had been relocated by the end of March 2018, relocation numbers were far from the targets originally set and the system led to tensions with Czechia, Hungary and Poland, which refused to comply with the mechanism. Relocations to other EU Member States, especially under the new voluntary scheme established in June 2022, remain low. Since their inception, the majority of hotspots have suffered from overcrowding, and concerns have been raised by stakeholders with regard to camp facilities and living conditions – in particular for vulnerable migrants and asylum-seekers – and to gaps in access to asylum procedures. These shortcomings cause tensions among the migrants and with local populations and have already led to violent protests. On 8 September 2020, a devastating fire in the Moria camp on Lesvos only aggravated the existing problems. The European Parliament has called repeatedly for action to ensure that the hotspot approach does not endanger the fundamental rights of asylum-seekers and migrants. This briefing updates earlier ones published in March 2016, in June 2018 and September 2020.

    https://www.europarl.europa.eu/thinktank/en/document/EPRS_BRI(2023)754569

    #relocalisation #chiffres #asile #migrations #réfugiés #EU #Union_européenne #UE #hotspot #Grèce #Italie #violence

  • Violences sexistes et sexuelles sous les projecteurs à l’Université Bordeaux Montaigne
    https://academia.hypotheses.org/53011

    Violences sexistes et sexuelles. L’université de Bordeaux Montaigne dans la tourmente : “on a l’impression que toutes les paroles ne se valent pas”, par Julie Chapman, France 3 Nouvelle Aquitaine, 27 octobre 2023 Les faits remontent sur une période s’étendant de … Continuer la lecture →

  • Écocides et paradis fiscaux : révélations sur les dérives du soutien européen à l’industrie minière
    https://disclose.ngo/fr/article/ecocides-et-paradis-fiscaux-revelations-sur-les-derives-du-soutien-europee

    Pour développer l’industrie des batteries électriques ou des éoliennes, l’Union européenne finance des entreprises minières au travers du programme Horizon. Une partie de ces fonds soutient des sociétés impliquées dans des catastrophes environnementales, voire, pour l’une d’entre elles, domiciliée dans un paradis fiscal. Lire l’article

  • Proposition de loi visant à interdire l’usage de l’#écriture_inclusive
    Rapport n° 67 (2023-2024), déposé le 25 octobre 2023

    AVANT-PROPOS

    I. ÉCRITURE « INCLUSIVE » OU NOVLANGUE EXCLUANTE ?
    A. DES PRATIQUES QUI SE DÉVELOPPENT RAPIDEMENT
    1. Qu’est-ce que l’écriture dite « inclusive » ?
    2. Un phénomène loin d’être marginal
    B. UNE DÉMARCHE QUI SOULÈVE DE NOMBREUSES DIFFICULTÉS
    1. Une écriture non neutre
    2. Une contrainte importante sur une langue déjà menacée
    3. Une menace pour l’intelligibilité et l’accessibilité des textes
    II. UNE PROPOSITION DE LOI NÉCESSAIRE POUR DISSIPER DES INCERTITUDES JURIDIQUES
    A. DES INCERTITUDES JURIDIQUES
    1. Quelques grands principes et deux circulaires
    2. Une jurisprudence hésitante
    B. UNE PROPOSITION DE LOI POUR CLARIFIER LE DROIT
    C. LA POSITION DE LA COMMISSION

    EXAMEN DES ARTICLES

    Article 1er

    Interdiction de l’usage de l’écriture dite inclusive dès lors que le droit exige l’utilisation du français
    Article 2

    Conditions d’application et d’entrée en vigueur de la loi
    Intitulé de la proposition de loi

    EXAMEN EN COMMISSION
    LISTE DES PERSONNES ENTENDUES
    RÈGLES RELATIVES À L’APPLICATION DE L’ARTICLE 45
    DE LA CONSTITUTION ET DE L’ARTICLE 44 BIS
    DU RÈGLEMENT DU SÉNAT (« CAVALIERS »)
    LA LOI EN CONSTRUCTION
    https://www.senat.fr/rap

    /l23-067/l23-067.html
    #France #interdiction #loi #novlangue #langue #menace #intelligibilité #accessibilité #incertitudes_juridiques #jurisprudence #circulaires #proposition_de_loi

    • 中性语言 - 维基百科,自由的百科全书
      https://zh.m.wikipedia.org/wiki/%E4%B8%AD%E6%80%A7%E8%AF%AD%E8%A8%80

      Trop compliqué:e pour moi. Désormais je contournerai le problème en ne m"exprimant plus qu’en chinois, qui ne connait pas le problème de no lamgues.

      Le chinois est une langue super simple qui ne connais ni genre, ni temps ni conjugaison ou déclinaison. Il n’y a mėme pas de singulier ou pluriel. Tu dis simplemen « il y en a plusieurs » avec un seul « mot » (们) qui établit son contexte par sa position. Si tu veux dire expressément qu’il n’y a qu’un seul spécimen de quelque chose ( 一个 x ) tu le dis simplement. S’il est important de savoir s’il s’agit de quelque chose de féminin (女)ou masculin (男), tu fais pareil. Tu ne mentionne expressément que les qualités exceptionnelles, tout le reste est contexte.

      Les juristes ont raison sur un point : il est très difficile voire impossible de formuler des textes de droit en chinois qui ne comportent pas ambiguité. On est confronté en chinois à un nombre d’éléments de grammaire très réduit au profit de la syntaxe. Chaque idéogramme correspond à un nombre élevé de significations différents et parfois contradictoires. Cette particularité fait que le chinois ancient dépasse en complexité le grec antique.

      On peut sans doute affirmer que nos grammaires ont une grande influence sur notre logique, notre manière de penser. Nos batailles liguistiques n’existeraient pas, si nous avions appris à parler et penser d’une manière plus libre, peut-être plus chinoise ;-)

      Voici ce que dit wikipedia en chinois à propos de l’écriture inclusive.

      Un langage neutre signifie éviter l’utilisation d’un langage qui est préjugé contre un sexe ou un genre particulier. En anglais, certaines personnes préconisent d’utiliser des noms non sexistes pour désigner des personnes ou des professions [1] et d’arrêter d’utiliser des mots à connotation masculine. Par exemple, le mot hôtesse de l’air est un titre de poste spécifique au sexe, et le mot neutre correspondant devrait être agent de bord. En chinois , certains caractères chinois à connotation positive et négative auront le mot « 女 » comme radical .Un langage neutre signifie éviter l’utilisation d’un langage qui est préjugé contre un sexe ou un genre particulier. En anglais, certaines personnes préconisent d’utiliser des noms non sexistes pour désigner des personnes ou des professions et d’arrêter d’utiliser des mots à connotation masculine. Par exemple, le mot hôtesse de l’air est un titre de poste spécifique au sexe, et le mot neutre correspondant devrait être agent de bord . En chinois , certains caractères chinois à connotation positive et négative auront le mot « 女 » comme radical .

      Attention, traduction Google

    • Suggérer l’utilisation du kotava comme langue de communication dans l’administration :

      Les substantifs et les pronoms sont invariables ; il n’existe aucun système de déclinaison. Il n’y a pas non plus de genre. Si l’on souhaite insister sur le sexe d’une personne ou d’un animal il est possible d’utiliser les suffixes dérivationnels -ye (pour les êtres vivants de sexe masculin) et -ya (pour les êtres vivant de sexe féminin).

      https://fr.wikipedia.org/wiki/Kotava

    • Guerre d’usure contre l’écriture inclusive… et l’#égaconditionnalité

      Les #conservateurs, en mal de notoriété, épuisent les féministes avec un énième texte contre l’écriture inclusive. Ce texte veut interdire cette écriture à celles et ceux qui reçoivent des fonds publics. #Anti-égaconditionnalité !

      Quelques jours après l’échec du Rassemblement National (RN), Les Républicains (LR) réussissent à imposer un #débat_parlementaire pour interdire l’écriture inclusive ! Le 12 octobre dernier, le RN avait inscrit un texte dans sa « niche » parlementaire à l’#Assemblée_nationale. Mais il avait fini par le retirer avant de se voir opposer un rejet. Des députés LR qui s’étaient alliés à lui, puis rétractés, réservaient sans doute leurs forces pour soutenir leurs collègues du Sénat.
      Car mercredi 25 octobre, les sénateur.trice.s de la Commission de la culture, de l’éducation et de la communication du Sénat ont adopté une proposition de loi voulant « protéger la langue française  » de ses « #dérives  ». Une proposition qui sera examinée le 30 octobre.

      Le bruit des conservateurs, la fatigue des féministes

      Une #grosse_fatigue a alors gagné le mouvement féministe sur les réseaux sociaux. Impossible de compter le nombre de proposition de lois, de circulaires, de textes outragés, de déclarations solennelles s’attaquant à l’#égalité dans le #langage. Vouloir restaurer la #domination_masculine dans la #langue_française permet aux conservateurs de se faire mousser à bon compte auprès de leur électorat. Et pendant qu’ils occupent le devant de la scène sous les ors de la République, les féministes s’épuisent à démontrer la #justesse de leur combat avec beaucoup moins de moyens pour se faire entendre.

      Le #rouleau_compresseur est en marche. La proposition de la commission sénatoriale, qui avait été déposée par « Le sénateur » -c’est ainsi qu’elle se présente- LR #Pascale_Gruny en janvier 2022, a peu de chance d’aboutir dans sa totalité à une loi tant elle est excessive. Mais elle permet une nouvelle fois de sédimenter le discours conservateur dans l’opinion. Un discours attaché à ce que « le masculin l’emporte ».

      Pascale Gruny a eu les honneurs de l’émission « Les grandes gueules » sur RMC . Elle a pu nier le poids du #symbole : « Que le masculin l’emporte sur le féminin, c’est simplement une règle de grammaire, cela ne veut pas dire que les hommes sont supérieurs aux femmes, c’est ridicule » a-t-elle asséné. « Le but c’est de l’interdire dans les contrats, les publications de la vie privée pour que cela ne s’utilise plus. Et je veux aussi que cela disparaisse de l’#université comme à Sciences-po où c’est obligatoire je crois. »

      Le texte proposé veut très largement bannir l’écriture inclusive « dans tous les cas où le législateur exige un document en français », comme les modes d’emploi, les contrats de travail ou autres règlements intérieurs d’entreprises, mais aussi les actes juridiques. « Tous ces documents seraient alors considérés comme irrecevables ou nuls » s’ils utilisent l’écriture inclusive, dite aussi #écriture_épicène.
      Ces conservateurs ne se sont toujours pas remis de l’approbation, par le Tribunal de Paris en mars dernier, d’inscrire l’écriture inclusive dans le marbre de plaques commémoratives (lire ici).

      Pas de #subvention si le masculin ne l’emporte pas

      Le texte de Pascale Gruny fait même de l’anti-égaconditionnalité en interdisant l’écriture inclusive aux « publications, revues et communications diffusées en France et qui émanent d’une personne morale de droit public, d’une personne privée exerçant une mission de service public ou d’une personne privée bénéficiant d’une subvention publique ». Les journaux qui reçoivent des subventions publiques devraient être concernés ?…

      Rappelons que l’égaconditionnalité des finances publiques revendiquée par les féministes consiste à s’assurer que les #fonds_publics distribués ne servent pas à financer des activités qui creusent les inégalités entre femmes et hommes… Ici on parlerait de patriarcatconditionnalité…

      C’est aussi un combat qui épuise les féministes.

      https://www.lesnouvellesnews.fr/guerre-dusure-contre-lecriture-inclusive-et-legaconditionnalite

      #épuisement #féminisme

    • Pour une fois je me permets d’avoir une opinion alors que d’habitude j’essaie de me tenir aux choses que je sais et de me taire ou de poser de questions par rapports aux autres sujets.

      Ne perdons pas trop de temps avec des discussions inutiles. Si le langage et l’écriture appelés inclusifs deviennent assez populaires parce qu’ils correspondent à une pratique partagée par assez de monde, si cette relative nouveauté est plus qu’un dada des intellectuels, si le peuple adopte ces formes d’expression, aucun décret n’arrêtera leur avancée.

      Je suis content d’avoir été en mesure d’apprendre un français approximatif, assez bon pour me faire comprendre et je ne verrai plus le jour du triomphe ou de la défaite de telle ou telle forme de français. Ces processus durent longtemps.

      Alors je préfère investir un peu de mon temps pour améliorer mes compétences en chinois. Cette langue me promet la même chose qui m’a fait prendre la décision d’apprendre le français. Avec l’apprentissage d’une nouvelle langue on découvre le monde sous d’autres angles, on adopte de nouvelles façons de raisonner et d’agir, on développe une personnalité supplémentaire, on n’est plus jamais seul. Parfois je me demande, ce que ferait mon caractère chinois à ma place quand ma personnalité allemande, française ou états-unienne me fait prendre une décision.

      Ma pratique des langues que je maîtrise changera au rythme auquel je les utiliserai. Je continuerai alors de le mentionner quand le sexe d’une personne a une importance et une signification, si c’est nécessaire pour dire ce que j’ai à dire. Pour le reste je me tiens aux règles qu’on m’a enseignées et aux habitudes que j’ai prises.

      Je comprends la peur de l’invisibilité et le besoin de la combattre parce que je passe une grande partie de ma vie à donner une voix aux personnes qui sont comme moi rendus invisibles par le pouvoir en place, par les mécanismes inscrits dans nos sociétés et par la méchanceté et le dédain des imbéciles. Chaque langue connaît des manières de s’attaquer à ce défi.

      Je suis curieux comment l’écriture et le langage inclusif cohabiteront ou pas avec cette multitude de formes d’expression chères à celles et ceux qui en sont maîtresses et maîtres et les considèrent comme les leurs.

      #écriture_inclusive #français #chinois #dialectes #patois #allemand

    • #mecsplications sur l’inclusivité et détournement de ce qui est préoccupant dans ce post.

      Les langues sont vivantes et tout gouvernement/état qui cherche à imposer aux populations de contrôler leurs expressions du langage tend au totalitarisme. #police_du_langage

      A contrario, l’écriture inclusive est un signe qui déplait aux conservateurs et aux fascistes parce qu’elle est manifestation politique du vivre ensemble, du soin à marquer que les inégalités de genre ne sont plus acceptables et de la résistance vivante à une langue moribonde, celle du patriarcat. Une petite révolution à la barbe des tenants du pouvoir et tout cela uniquement par le langage cela appelle des lois et de la répression.

      Quelle mauvais blague.

      Les rétrogrades de Toulouse ne s’y sont pas trompés, ils ont carrément interdit l’usage de l’écriture inclusive. 23/06/2021
      https://www.ladepeche.fr/2021/06/22/toulouse-pas-decriture-inclusive-au-capitole-9624088.php

      #féminisme #écriture_inclusive

    • #militantisme #langues_vivantes #langue_écrite #langue_parlée

      Et justement : les passions tristes des forces réactionnaires :

      «  Il existe d’autres moyens d’inclure le féminin dans la langue française  », expose la conseillère municipale d’opposition qui juge «  intéressant de réfléchir à ces questions sans passion.  »

      Qu’iels aillent bien tou·tes se faire cuire le cul, ces administrateurs·rices du cheptel humain :-))

    • Mais la française est vraiment horrible, il faut absolument la interdire avant qu’elle ne se diffuse partout, elle va nous falloir rapidement accepter l’écriture inclusive ou toute la morale patriarcale de notre chère Jeanne Jack Rousselle va se retrouver à la ruisselle. Pensez donc à cette genre de traduction

      « Toute l’éducation des hommes doit être relative à les femmes. Leur plaire, leur être utiles, se faire aimer et honorer d’elles, les élever jeunes, les soigner grandes, les conseiller, les consoler, leur rendre la vie agréable et douce : voilà les devoirs des hommes dans toutes les temps, et ce qu’on doit leur apprendre dès l’enfance. »

    • La Monde ne sait pas ce qu’est la pointe médiane, et utilise des pointes de ponctuation (et en les doublant) pour dénoncer la usage qu’elle méconnait. C’est quand même savoureuse.

      sénateur.rice.s

      c’est pourtant simple la pointe médiane c’est à la milieu, comme ça

      sénatrice·s

      la texte législative de ces andouilles qui n’ont rien à asticoter dans leur cervelle a donc été adoptée par la sénate cette nuit

      https://www.lemonde.fr/politique/article/2023/10/31/ecriture-inclusive-le-senat-adopte-un-texte-interdisant-la-pratique-dans-tou

      #les_crétins_du_palais_du_luxembourg

    • C’est difficile de suivre cette débat avec la novlangue employée par les député·es ; par exemple j’ai cherché la terme de wokisme dans la dictionnaire et je n’ai rien trouvée. Et sinon pour pointer une contradiction, elle me semble qu’il y a déjà une loi AllGood qui vise à défendre l’immutabilité éternelle de la française — mais que la startup nachioune n’en a pas grand chose à faire.

    • la enjeu est de montrer que la culture française est sage et docile ( Au-delà de Versailles et de St Cloud c’est la jungle ) et que grâce à macron et toutes celleux accrocs à ses jolies mollettes de roitelet la langue française constitue une socle immuable. (ici j’adore l’aspect sable mouvant de la langue, tu crois que tu la maitrises qu’elle t’appartient enfermé dans les dogmes coloniaux des institutions et hop, nique ta novlangue)

      Iels ont donc si peur que la langue française soit vivante et évolue, je trouve ça juste extraordinaire d’en arriver à légiférer pour un point médian. Enchainez ce point médian tout de suite et jetez le au cachot ! Oui maitre·sse.

    • Le « François » dans tous ses états ...
      #château-Macron (du gros qui fait tache)
      https://seenthis.net/messages/1023508#message1023947

      #tataouinage (?) #québecois
      https://fr.wiktionary.org/wiki/tataouiner
      (Et donc rien à voir avec Tataouine, ville de Tunisie passée dans le langage populaire pour évoquer un endroit perdu au bout du monde)
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Tataouine
      En arabe,
      تطاوين
      se prononce un peu comme Tatooine qui est une planète-désert de l’univers de fiction Star Wars.
      Il n’y a pas de hasard, enfin, si, peut-être, un peu quand même ...

  • Database delays: new timetable for interoperable EU policing and migration systems by 2027

    EU interior ministers have agreed another revised timeline for the plan to make all justice and home affairs databases “interoperable”, with the aim now to have the systems up and running by 2027. Mandatory biometric border checks may now be introduced progressively, in the hope of limiting delays at border crossing points.

    The new timetable, agreed at the Justice and Home Affairs Council last week, follows on from previous delays. A revision to the timeline adopted in November 2021 included a plan for the Entry/Exit System (EES), a biometric border-crossing registration database, to be functional by September 2022. Further changes saw the deadline extended to May this year. A Belgian proposal to “decouple” the EES and the European Travel Information and Authorisation System (ETIAS) does not appear to have been taken on board.

    Under the new plan, the EES is supposed to come into use at some point in the second half of 2024 - though a note from the Spanish Presidency (pdf) suggests that even then, the “capturing and storing of biometrics... could be activated progressively.” This is because of the extra waiting times that the introduction of mandatory biometric capture, storage and verification at all EU border crossing points is likely to introduce.

    As previously reported by Statewatch, the Austrian government expects “process times to double compared to the current situation,” the Croatian government is clear that “the waiting time for border checks will certainly be significantly longer,” and the German government has said “control times for passengers will increase significantly by the introduction of EES.”

    To mitigate this, the Spanish Presidency’s note says that “derogation measures will be available for activation at individual border crossing points to prevent long waiting times. The date that will be retained for the entry into operation will be outside periods of major events and high travel times.”

    The introduction of the EES in the second half of 2024 is supposed to be followed by the ETIAS in the first half of 2025, the European Criminal Records Information System for Third Country Nationals (ECRIS-TCN) in mid-2026, finalisation of “the technical implementation of the IO [interoperability] architecture” in late 2026, followed by work to “upgrade and evolve the IO architecture” from 2027 onward.

    The timetable published by eu-Lisa also foresees the eventual integration of the expanded #Eurodac database, depending on the adoption of the law, which is currently under discussion in the Council and the Parliament.

    https://www.statewatch.org/news/2023/october/database-delays-new-timetable-for-interoperable-eu-policing-and-migratio
    #EU #UE #Union_européenne #biométrie #contrôles_frontaliers #asile #migrations #réfugiés #interopérabilité #frontières #Entry/Exit_System (#EES) #European_Travel_Information_and_Authorisation_System (#ETIAS) #European_Criminal_Records_Information_System_for_Third_Country_Nationals (#ECRIS-TCN) #agenda

  • The EU-Tunisia Memorandum of Understanding : A Blueprint for Cooperation on Migration ?

    On July 16, 2023, a memorandum of understanding, known as the “migrant deal”, was signed between the EU and Tunisia, at a time when the EU is trying to find ways to limit the arrival of irregular migrants into its territory. The memorandum, however, raises some concerns regarding its content, form, and human rights implications.

    This past year, Tunisia became the primary country of departure for migrants attempting to reach the European Union via Italy through the Central Mediterranean route. With a sharp increase of arrivals in the first few months of 2023, which further accelerated during the summer, cooperation with Tunisia has turned into a key priority in the EU’s efforts to limit migration inflows.

    On July 16, 2023, after complicated negotiations, Olivér Várhelyi, the EU Commissioner for Neighborhood and Enlargement, and Mounir Ben Rjiba, Secretary of State to the Minister of Foreign Affairs, Migration and Tunisians Abroad, signed a memorandum of understanding (MoU) on “a strategic and global partnership between the European Union and Tunisia,” published in the form of a press release on the European Commission’s website. President Ursula von der Leyen labeled the deal as a “blueprint” for future arrangements, reiterating the commission’s intention to work on similar agreements with other countries. The MoU, however, in terms of its content, form, and the human rights concerns it raises, falls squarely within current trends characterizing EU cooperation on migration with third countries.
    The content of the agreement

    Known as the “migrant deal,” the MoU covers five areas of cooperation: macro-economic stability, economy and trade, green energy transition, people-to-people contacts, and migration and mobility. The EU agreed to provide €105 million to enhance Tunisia’s border control capabilities while facilitating entry to highly-skilled Tunisians, and €150 million in direct budgetary support to reduce the country’s soaring inflation. It further foresees an extra €900 million in macro-economic support conditioned on Tunisia agreeing to sign an International Monetary Fund bailout. In exchange, Tunisia committed to cooperate on the fight against the smuggling and trafficking of migrants, to carry out search and rescue operations within its maritime borders, and to readmit its own nationals irregularly present in the EU—an obligation already existent under customary international law. Much to Italy’s disappointment, and unlike what happened in the case of Turkey in 2016, Tunisia refused to accept the return of non-Tunisian migrants who transited through the country to reach the EU, in line with the position it has occupied since the onset of the negotiations.

    What was agreed on seems to be all but new, seemingly reiterating past commitments

    Overall, what was agreed on seems to be all but new, seemingly reiterating past commitments. As for funding, the EU had been providing support to Tunisia to strengthen its border management capabilities since 2015. More broadly, and despite its flaws, the MoU embeds the current carrot-and-stick approach to EU cooperation with third countries, systematically using other external policies of interest to these nations, such as development assistance, trade and investments, and energy—coupled with promises of (limited) opportunities for legal mobility—to induce third countries to cooperate on containing migration flows.
    The legal nature of the agreement

    The MoU embeds the broader trend of de-constitutionalization and informalization of EU cooperation with third countries, which first appeared in the 2005 “Global Approach to Migration” and the 2011 “Global Approach to Migration and Mobility”, and substantially grew in the aftermath of the 2015 refugee crisis, with the EU-Turkey Statement and the “Joint Way Forward on migration with Afghanistan” being the most prominent examples, in addition to several Mobility Partnerships. The common denominator among these informal arrangements consisted of the use of instruments outside the constitutional framework established for concluding international agreements, notably Article 218 on the Treaty of the Functioning of the European Union (TFEU), to agree on bilateral commitments that usually consist in the mobilization of different EU policy areas to deliver on migration containment goals.

    Recourse to informal arrangements can have its advantages, as they are capable of adapting quickly to new realities and allow for immediate implementation without requiring parliamentary ratification or authorization procedures, as highlighted by the EU Court of Auditors. However, they might fall short of constitutional guarantees, as they do not follow standard EU treaty-making rules. EU treaties are silent as to how non-binding agreements should be negotiated and concluded, and thus often lack democratic oversight, transparency, and legal certainty. They might also pose issues in terms of judicial review by the Court of Justice of the EU (CJEU), in accordance with Article 263 of the TFEU.

    In the much-debated judgment “NF”, the General Court—the jurisdiction of first instance of the CJEU—refused to assess the legality of the 2016 EU-Turkey Statement, which was published as a press release on the website of the European Council. Indeed, the Court concluded at the time that the deal was one of member states acting in their capacity as heads of state and government, and not as part of the European Council as an EU institution, rendering the deal unattributable to the EU. The Court did not specifically refer to the legal nature of the agreement, despite all EU institutions stressing that the document was “not intended to produce legally binding effects nor constitute an agreement or a treaty” (para. 27), it being “merely ‘a political arrangement’” (para. 29).

    Overall, it is apparent that the lack of clarity regarding the procedure to be followed and the actors to be involved when it comes to the conclusion of non-binding agreements by the EU is problematic from a rule of law perspective

    The EU-Tunisia MoU, on the other hand, was signed by the European Commission alone, making it fully attributable to the EU. This means that it could be potentially challenged before the CJEU, if there is reason to believe that the content of the agreement renders it a legally-binding one, infringing on the procedure foreseen by the EU treaties, or if the competencies of the Council and the Parliament, the two other EU institutions usually involved in the conclusion of international agreements, were otherwise breached. In another case, the CJEU indeed found that, while the treaties do not regulate the matter and thus Article 218 on the TFEU does not apply, the Commission should nonetheless seek prior approval of the Council before signing an MoU in the exercise of its competencies, pursuant to Article 17 (1) of the Treaty on the European Union (TEU), due to the Council’s “policy-making” powers provided by Article 16 of the TEU. The Court, however, did not clarify whether the Commission should have likewise involved the European Parliament in light of its power to exercise “political control,” provided by Article 14 TEU. With regard to the MoU with Tunisia, however, neither of the two institutions seemed to have been involved. Overall, it is apparent that the lack of clarity regarding the procedure to be followed and the actors to be involved when it comes to the conclusion of non-binding agreements by the EU is problematic from a rule of law perspective.
    Concerns over protection of fundamental rights

    The EU-Tunisia MoU has been harshly criticized by both civil society organizations and different members of the European Parliament (MEPs) in light of the Tunisian authorities’ documented abuses and hostilities against migrants, amidst a political climate of broader democratic crisis. While vaguely referring to “respect for human rights,” the MoU does not specify how the Commission intends to ensure compliance with fundamental rights. Concerns over the agreement led the European Ombudsman—a body of the EU that investigates instances of maladministration by EU institutions—to ask the EU’s executive arm whether it had conducted a human rights impact assessment before its conclusion, as well as if it intended to monitor its implementation, and if it envisaged the suspension of funding if human rights were not respected. This adds to the growing discontent over the EU’s prioritization of securing its borders over ensuring the protection of fundamental rights of migrants, through the externalization of border controls to third countries with poor human rights records and authoritarian governments, such as Libya, Turkey, Morocco, Egypt, and Sudan, among others.

    These episodes exemplify the paradox of externalization, with the EU trying to shield itself from the risk of instrumentalization of migration by third countries on one hand, and making itself dependent upon these actors’ willingness to contain migratory flows, and thus vulnerable to forms of repercussion and bad faith tactics, on the other

    In an unprecedented move, Tunisia denied entry to a group of MEPs who were due to visit the country on official duty on September 14. While no official explanation was given, the move was seen as a reaction for speaking out against the agreement. Despite this, and the fact that there is still a lack of clarity as to how compliance with fundamental rights will be guaranteed, the Commission announced that the first tranche of EU funding would be released by the end of September. However, Tunisia declared to have rejected the money precisely over the EU’s excessive focus on migration containment, although Várhelyi stated that the refusal related to budget support is unrelated to the MoU. These episodes exemplify the paradox of externalization, with the EU trying to shield itself from the risk of instrumentalization of migration by third countries on one hand, and making itself dependent upon these actors’ willingness to contain migratory flows, and thus vulnerable to forms of repercussion and bad faith tactics, on the other. Similar deals, posing similar risks, are currently envisaged with Egypt and Morocco. Moving forward, the EU should instead make efforts to create partnerships with third countries based on genuine mutually-shared interests, restoring credibility in its international relations which should be based on support for its founding values: democracy, human rights, and the rule of law.

    https://timep.org/2023/10/19/the-eu-tunisia-memorandum-of-understanding-a-blueprint-for-cooperation-on-mig
    #Tunisie #EU #Europe #Union_européenne #EU #externalisation #asile #migrations #réfugiés #accord #gestion_des_frontières #aide_financière #protocole_d'accord #politique_migratoire #externalisation #memorandum_of_understanding #MoU

    –—
    ajouté à la métaliste sur le Mémorandum of Understanding entre l’UE et la Tunisie :
    https://seenthis.net/messages/1020591

  • En six ans, plus de 43 millions d’#enfants ont été déplacés à cause de #catastrophes_météorologiques

    Les catastrophes climatiques ont déraciné et traumatisé des dizaines de millions d’enfants dans le monde, a alerté vendredi le Fonds des Nations Unies pour l’enfance (UNICEF).

    Selon ses estimations, les inondations fluviales pourraient, à elles seules, déplacer presque 96 millions d’enfants au cours des 30 prochaines années.

    Entre 2016 et 2021, quatre types de #catastrophes_climatiques (#inondations, #tempêtes, #sécheresses, #incendies), dont la fréquence et l’intensité augmentent avec le réchauffement de la planète, ont entraîné 43,1 millions de déplacements d’enfants à l’intérieur de 44 pays, dont 95% liés aux inondations et aux tempêtes, détaille le rapport. Et ce n’est là que « la partie émergée de l’iceberg », souligne l’UNICEF, déplorant le manque d’attention portée à ces « victimes invisibles ».

    Sur cette période de six ans, il s’agit d’environ 20.000 déplacements par jour. « Imaginez la terreur d’un enfant qui voit sa communauté ravagée par un feu incontrôlé, une tempête ou une inondation », a déclaré Catherine Russell, Directrice générale de l’UNICEF. « En plus d’affronter la peur, ceux qui sont contraints de fuir traversent des épreuves aux conséquences particulièrement dévastatrices, sans savoir s’ils pourront rentrer chez eux et retourner à l’école ou s’ils devront se déplacer à nouveau ».

    Inondations, tempêtes, sécheresses

    Les inondations et les tempêtes ont donné lieu à 40,9 millions de déplacements d’enfants entre 2016 et 2021, soit 95% du nombre total recensé. Dans le même temps, les sécheresses ont provoqué plus de 1,3 million de déplacements internes d’enfants, la Somalie comptant une fois encore parmi les pays les plus touchés, tandis que les feux incontrôlés en ont provoqué 810.000, dont plus d’un tiers au cours de la seule année 2020.

    Même si les impacts grandissants du changement climatique frappent partout, le rapport pointe du doigt des zones particulièrement vulnérables. Ainsi, les Philippines, l’Inde et la Chine sont les pays les plus touchés en nombre absolu (près 23 millions de déplacements d’enfants en 6 ans), en raison de leur très large population, de leur situation géographique, mais aussi de plans d’évacuation préventifs.

    Mais en examinant la proportion d’enfants déplacés, on constate que les enfants vivant dans de petits États insulaires, tels que la Dominique et le Vanuatu, ont été les plus affectés par les tempêtes, tandis que ceux de Somalie et du Soudan du Sud sont au premier rang des victimes d’inondations.

    Le risque de déplacement est particulièrement élevé pour les enfants vivant dans des pays déjà aux prises avec des crises simultanées, telles que les conflits et la pauvreté, et dont les capacités locales à faire face à d’éventuels déplacements d’enfants supplémentaires sont mises à rude épreuve. Haïti, par exemple, pays à haut risque de déplacements d’enfants liés à des catastrophes, est également en proie à la violence ainsi qu’à la pauvreté et pâtit d’un manque d’investissements dans des mesures d’atténuation des risques et de préparation.

    96 millions d’enfants déplacés dans les 30 prochaines années

    Par ailleurs, le rapport avance des projections. Par exemple, les inondations uniquement liées au débordement des rivières pourraient provoquer 96 millions de déplacements d’enfants dans les 30 prochaines années, les vents cycloniques 10,3 millions et les submersions marines liées aux tempêtes 7,2 millions. Des chiffres qui n’incluent pas les évacuations préventives.

    « À mesure que les effets des changements climatiques s’accentuent, les mouvements en lien avec le climat s’intensifient eux aussi, et force est de constater que nous n’agissons pas assez vite, alors même que nous disposons des outils et des connaissances nécessaires pour relever ce défi de plus en plus urgent », a ajouté Mme Russell.

    Alors que les dirigeants s’apprêtent à se réunir à Dubaï en novembre à l’occasion de la COP 28 pour aborder la question des changements climatiques, l’UNICEF appelle les décideurs à prendre des mesures pour protéger les enfants et les jeunes exposés à un risque de déplacement et les préparer, ainsi que leurs communautés. Il importe de veiller à ce que les services essentiels pour les enfants, notamment l’éducation, la santé, la nutrition, la protection sociale et la protection infantile, soient résilients aux chocs, mobiles et ouverts à tous, y compris aux enfants déjà déracinés.

    https://news.un.org/fr/story/2023/10/1139392
    #climat #changement_climatique #IDPs #déplacés_internes #réfugiés_climatiques #chiffres #statistiques #UNICEF #rapport #enfance #déplacés

    • Alerte UNICEF : impacts du réchauffement climatique et de la crise environnementale sur les enfants

      La crise climatique et environnementale est l’un des plus grands défis à relever pour nos sociétés, et la jeune génération est déjà la plus touchée. Face à cette vulnérabilité, l’Unicef lance à nouveau l’alerte …

      Avec #Dina_Ionesco Chef de la Division des migrations, de l’environnement et du changement climatique (MECC)

      La situation est critique et ces chiffres devraient malheureusement continuer d’augmenter dans les années à venir. Quels sont les impacts du changement climatique et des dégradations environnementales sur les enfants du monde ? Quelles initiatives et solutions existent et doivent être soutenues au plus haut niveau ?

      Avec Jodie Soret, responsable du service ‘Programmes, plaidoyer et affaires publiques’ chez UNICEF France et Dina Ionesco, spécialiste des questions de migrations climatiques qui a travaillé sur ces questions à l’Organisation Internationale pour les Migrations (OIM) jusqu’en 2021 et travaille actuellement pour le Forum des Pays les Plus Vulnérables (Climate Vulnerable Forum, le CVF).

      https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/de-cause-a-effets-le-magazine-de-l-environnement/alerte-unicef-impacts-du-rechauffement-climatique-et-de-la-crise-environ
      #audio #podcast

  • En Chine, le chômage de masse chez les jeunes embarrasse Pékin

    Le pouvoir s’inquiète particulièrement du défaitisme affiché, avec ironie, par les #jeunes internautes. Ces dernières années, tout un vocabulaire a émergé pour promouvoir une sorte de #philosophie_de_la_paresse : certains parlent de « rester couché » (« tangping »), tandis que d’autres appellent à « laisser pourrir les choses » (« bailan »). Il s’agit, à chaque fois, d’en faire le moins possible au #travail. On pense au « quiet quitting » en vogue aux Etats-Unis pendant la pandémie de Covid-19.

    Une attitude qui suscite peu de compassion de la part de leurs aînés. « Je ne pense pas que le #chômage_des_jeunes soit un gros problème en Chine, parce que beaucoup d’entre eux pourraient trouver un #emploi_, estime Dan Wang, cheffe économiste à la banque hongkongaise Hang Seng. _C’est la génération des enfants uniques, leur famille a énormément investi dans leur éducation donc ils ne veulent pas accepter un job qui soit juste “passable”. Les 12 millions de #diplômés de l’#université en 2023 sont généralement issus de familles aisées qui peuvent se permettre de les soutenir un certain temps », explique-t-elle.

    La preuve en est que certains secteurs, comme la restauration et l’industrie, peinent à recruter. « Les jeunes n’ont pas forcément envie de travailler dans les #usines. C’est vu comme une activité dégradante, non seulement par eux, mais aussi par leurs parents », explique Nicolas Musy, patron de LX Precision, une entreprise suisse qui fabrique, en périphérie de Shanghaï, des composants pour l’industrie automobile, médicale et de télécommunication. « Jusqu’au début des années 2010, c’était beaucoup plus facile de recruter : il y avait cet afflux de travailleurs migrants des campagnes : pour eux, un travail, quel qu’il soit, c’était important. Maintenant, les gens font plus attention à quelles opportunités de carrière ils accèdent », poursuit cet entrepreneur présent en #Chine depuis plus de trente ans. Un phénomène renforcé par la baisse de la population active, qui a atteint son pic en 2010.

    Profond changement de génération

    Beaucoup de jeunes des campagnes alimentant par le passé les lignes de production chinoises préfèrent aujourd’hui travailler comme #livreurs, pour les plates-formes de #commerce en ligne ou de livraison de repas. Une concurrence directe pour les ressources humaines que représentent les #ouvriers. « C’est une difficulté pour nous : travailler à l’usine, ça veut dire être soumis à une certaine discipline, et effectuer des tâches qui peuvent être ennuyeuses. Les jeunes préfèrent souvent la liberté, reconnaît Kathy Sun, directrice des ressources humaines chez Clarion Electronics pour l’Asie chez Forvia, leader français des composants automobiles. Il revient aux entreprises de faire des efforts pour attirer les cols bleus, non seulement en jouant sur la charge de travail et les salaires, mais aussi en offrant un environnement de travail et une culture plus accueillants. »

    Le changement entre générations est profond. En 2021, 58 % des jeunes entrants sur le marché du travail sortaient de l’éducation supérieure (au-delà du baccalauréat), alors qu’ils n’étaient que 30 % en 2012. Même ceux des campagnes, moins privilégiés, ont une expérience éloignée de celle de leurs parents, qui avaient grandi à la ferme et dans la pauvreté. « Pour les générations précédentes, vous pouviez aller à la ville, travailler dur et obtenir une vie meilleure pour vous et votre famille. Les jeunes migrants d’aujourd’hui ont des parents qui ont travaillé dans les grandes villes. Leurs aspirations sont proches de celles des enfants de la classe moyenne : ils sont plus éduqués, ont une idée de leurs droits sur le marché du travail. Ils ne sont plus prêts à travailler de longues journées pour un salaire de misère, décrit Ole Johannes Kaland, anthropologue, associé à l’université de Bergen, en Norvège, qui a réalisé des études sur les enfants de migrants à Shanghaï. Pas un seul des adolescents que j’ai étudiés ne souhaitait travailler dans les usines ou dans le secteur de la construction. »
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2023/10/22/en-chine-le-chomage-de-masse-chez-les-jeunes-embarrasse-pekin_6195996_3234.h
    https://archive.ph/jnmRJ

  • Au #Sénégal, la farine de poisson creuse les ventres et nourrit la rancœur

    À #Kayar, sur la Grande Côte sénégalaise, l’installation d’une usine de #farine_de_poisson, destinée à alimenter les élevages et l’aquaculture en Europe, a bouleversé l’économie locale. Certains sont contraints d’acheter les rebuts de l’usine pour s’alimenter, raconte “Hakai Magazine”.
    “Ils ont volé notre #poisson”, affirme Maty Ndau d’une voix étranglée, seule au milieu d’un site de transformation du poisson, dans le port de pêche de Kayar, au Sénégal. Quatre ans plus tôt, plusieurs centaines de femmes travaillaient ici au séchage, au salage et à la vente de la sardinelle, un petit poisson argenté qui, en wolof, s’appelle yaboi ou “poisson du peuple”. Aujourd’hui, l’effervescence a laissé place au silence.

    (#paywall)

    https://www.courrierinternational.com/article/reportage-au-senegal-la-farine-de-poisson-creuse-les-ventres-

    #élevage #Europe #industrie_agro-alimentaire

    • Un article publié le 26.06.2020 et mis à jour le 23.05.2023 :

      Sénégal : les usines de farines de poisson menacent la sécurité alimentaire

      Au Sénégal, comme dans nombre de pays d’Afrique de l’Ouest, le poisson représente plus de 70 % des apports en protéines. Mais la pêche artisanale, pilier de la sécurité alimentaire, fait face à de nombreuses menaces, dont l’installation d’usines de farine et d’huile de poisson. De Saint-Louis à Kafountine, en passant par Dakar et Kayar… les acteurs du secteur organisent la riposte, avec notre partenaire l’Adepa.

      Boum de la consommation mondiale de poisson, accords de #pêche avec des pays tiers, pirogues plus nombreuses, pêche INN (illicite, non déclarée, non réglementée), manque de moyens de l’État… La pêche sénégalaise a beau bénéficier de l’une des mers les plus poissonneuses du monde, elle fait face aujourd’hui à une rapide #raréfaction de ses #ressources_halieutiques. De quoi mettre en péril les quelque 600 000 personnes qui en vivent : pêcheurs, transformatrices, mareyeurs, micro-mareyeuses, intermédiaires, transporteurs, etc.

      Pourtant, des solutions existent pour préserver les ressources : les aires marines protégées (AMP) et l’implication des acteurs de la pêche dans leur gestion, la création de zones protégées par les pêcheurs eux-mêmes ou encore la surveillance participative… Toutes ces mesures contribuent à la durabilité de la ressource. Et les résultats sont palpables : « En huit ans, nous sommes passés de 49 à 79 espèces de poissons, grâce à la création de l’aire marine protégée de Joal », précise Karim Sall, président de cette AMP.

      Mais ces initiatives seront-elles suffisantes face à la menace que représentent les usines de farine et d’huile de poisson ?

      Depuis une dizaine d’années, des usines chinoises, européennes, russes, fleurissent sur les côtes africaines. Leur raison d’être : transformer les ressources halieutiques en farines destinées à l’#aquaculture, pour répondre à une demande croissante des consommateurs du monde entier.

      Le poisson détourné au profit de l’#export

      Depuis 2014, la proportion de poisson d’élevage, dans nos assiettes, dépasse celle du poisson sauvage. Les farines produites en Afrique de l’Ouest partent d’abord vers la #Chine, premier producteur aquacole mondial, puis vers la #Norvège, l’#Union_européenne et la #Turquie.

      Les impacts négatifs de l’installation de ces #usines sur les côtes sénégalaises sont multiples. Elles pèsent d’abord et surtout sur la #sécurité_alimentaire du pays. Car si la fabrication de ces farines était censée valoriser les #déchets issus de la transformation des produits de la mer, les usines achètent en réalité du poisson directement aux pêcheurs.

      Par ailleurs, ce sont les petits pélagiques (principalement les #sardinelles) qui sont transformés en farine, alors qu’ils constituent l’essentiel de l’#alimentation des Sénégalais. Enfin, les taux de #rendement sont dévastateurs : il faut 3 à 5 kg de ces sardinelles déjà surexploitées [[Selon l’organisation des Nations unies pour l’agriculture et l’alimentation (FAO)]] pour produire 1 kg de farine ! Le poisson disparaît en nombre et, au lieu d’être réservé à la consommation humaine, il part en farine nourrir d’autres poissons… d’élevage !

      Une augmentation des #prix

      Au-delà de cette prédation ravageuse des sardinelles, chaque installation d’usine induit une cascade d’autres conséquences. En premier lieu pour les mareyeurs et mareyeuses mais aussi les #femmes transformatrices, qui achetaient le poisson directement aux pêcheurs, et se voient aujourd’hui concurrencées par des usines en capacité d’acheter à un meilleur prix. Comme l’explique Seynabou Sene, transformatrice depuis plus de trente ans et trésorière du GIE (groupement d’intérêt économique) de Kayar qui regroupe 350 femmes transformatrices : « Avant, nous n’avions pas assez de #claies de #séchage, tant la ressource était importante. Aujourd’hui, nos claies sont vides, même pendant la saison de pêche. Depuis 2010, quatre usines étrangères se sont implantées à Kayar, pour transformer, congeler et exporter le poisson hors d’Afrique, mais elles créent peu d’#emploi. Et nous sommes obligées de payer le poisson plus cher, car les usines d’#exportation l’achètent à un meilleur prix que nous. Si l’usine de farine de poisson ouvre, les prix vont exploser. »

      Cette industrie de transformation en farine et en huile ne pourvoit par ailleurs que peu d’emplois, comparée à la filière traditionnelle de revente et de transformation artisanale. Elle représente certes un débouché commercial lucratif à court terme pour les pêcheurs, mais favorise aussi une surexploitation de ressources déjà raréfiées. Autre dommage collatéral enfin, elle engendre une pollution de l’eau et de l’air, contraire au code de l’environnement.

      La riposte s’organise

      Face à l’absence de mesures gouvernementales en faveur des acteurs du secteur, l’#Adepa [[L’Adepa est une association ouest-africaine pour le développement de la #pêche_artisanale.]] tente, avec d’autres, d’organiser des actions de #mobilisation citoyenne et de #plaidoyer auprès des autorités. « Il nous a fallu procéder par étapes, partir de la base, recueillir des preuves », explique Moussa Mbengue, le secrétaire exécutif de l’Adepa.

      Études de terrain, ateliers participatifs, mise en place d’une coalition avec différents acteurs. Ces actions ont permis d’organiser, en juin 2019, une grande conférence nationale, présidée par l’ancienne ministre des Pêches, Aminata Mbengue : « Nous y avons informé l’État et les médias de problèmes majeurs, résume Moussa Mbengue. D’abord, le manque de moyens de la recherche qui empêche d’avoir une connaissance précise de l’état actuel des ressources. Ensuite, le peu de transparence dans la gestion d’activités censées impliquer les acteurs de la pêche, comme le processus d’implantation des usines. Enfin, l’absence de statistiques fiables sur les effectifs des femmes dans la pêche artisanale et leur contribution socioéconomique. »

      Parallèlement, l’association organise des réunions publiques dans les ports concernés par l’implantation d’usines de farines et d’huile de poisson. « À Saint-Louis, à Kayar, à Mbour… nos leaders expliquent à leurs pairs combien le manque de transparence dans la gestion de la pêche nuit à leur activité et à la souveraineté alimentaire du pays. »

      Mais Moussa Mbengue en a conscience : organiser un plaidoyer efficace, porté par le plus grand nombre, est un travail de longue haleine. Il n’en est pas à sa première action. L’Adepa a déjà remporté de nombreux combats, comme celui pour la reconnaissance de l’expertise des pêcheurs dans la gestion des ressources ou pour leur implication dans la gestion des aires marines protégées. « Nous voulons aussi que les professionnels du secteur, conclut son secrétaire exécutif, soient impliqués dans les processus d’implantation de ces usines. »

      On en compte aujourd’hui cinq en activité au Sénégal. Bientôt huit si les projets en cours aboutissent.

      https://ccfd-terresolidaire.org/senegal-les-usines-de-farines-de-poisson-menacent-la-securite-a

      #extractivisme #résistance

  • #France_Universités : Projet de loi de finances 2024 : les universités vont-elles être obligées de sacrifier certaines de leurs missions ?

    France Universités a pris connaissance du projet de loi de finances pour 2024 et déplore le manque de moyens consacrés à l’enseignement supérieur et la recherche. La situation budgétaire critique des établissements universitaires impacte directement leurs missions et leur fonctionnement.

    C’est pourquoi France Universités demande la compensation par l’État de l’intégralité des mesures sociales et salariales à destination des agents de l’État, la compensation du surcoût de l’énergie par la prolongation du fonds d’intervention, lancé en 2022, en 2024 (et au-delà), et l’application effective de la clause de revoyure de la Loi de programmation de la recherche.

    Après leur non-compensation en 2022, la compensation seulement partielle des mesures annoncées par le ministre de la Transformation et de la Fonction publiques, Stanislas Guerini, en 2023 et 2024 est une très mauvaise nouvelle pour les universités. Une nouvelle fois, des mesures salariales, applicables à l’ensemble de la fonction publique, ne seront que partiellement consolidées en loi de finances. Pour les universités, cela signifie qu’elles devront financer 120 millions d’euros, soit par prélèvement sur leurs fonds de roulement, soit par réduction de leur campagne d’emplois. Cela équivaut à 1 500 emplois de maîtres de conférences en moins, non ouverts au recrutement. Cette situation, totalement injustifiable, obérera leurs missions de formation, de recherche et d’innovation, ainsi que leur capacité à investir et à mettre en œuvre les projets de décarbonation souhaités par le président de la République.

    Ce choix budgétaire s’effectue dans un contexte où, depuis plusieurs années, des mesures RH décidées au niveau de l’État ne sont pas financées, notamment le Glissement-Vieillesse-Technicité (GVT) qui vient grever les budgets des universités à hauteur de 45 millions d’euros, rien que pour 2023, et dont la valeur cumulée en plus de 10 ans équivaut à plusieurs milliers d’emplois d’enseignants ou d’enseignants-chercheurs. Nous tenons à rappeler que bien que les personnels des universités soient des fonctionnaires de l’État, c’est aux universités qu’il est demandé de prendre en charge les revalorisations et progressions de carrière prévues pour eux.

    La situation est d’autant plus préoccupante qu’elle s’inscrit dans un contexte d’inflation et de crise énergétique. De fait, les universités, qui représentent 20 % du patrimoine immobilier de l’État, sont frappées de plein fouet par l’augmentation des tarifs des fluides, actuelle et à venir. En 2022, l’accroissement de la facture énergétique a été proche de 100 millions d’euros, soit +45 % sur un an. En 2023, le surcoût par rapport à 2022 est estimé entre 300 et 350 millions d’euros. Or, l’État ne prévoit pas non plus de le compenser. Cette perspective est d’autant moins acceptable que les universités, opératrices de l’État, sont en première ligne dans la démarche de « l’État exemplaire » en matière de sobriété, et prennent leurs responsabilités pour atteindre les 10 % de baisse de consommation d’ici 2024.

    De plus, au-delà de l’enjeu des bonnes conditions d’accueil des étudiants et des personnels dans les locaux universitaires, se pose aussi la question de la compétitivité de la recherche française dans des secteurs disciplinaires requérants des équipements scientifiques énergivores.

    Encore une fois, les universités font les frais de la politique budgétaire du gouvernement qui considère l’enseignement supérieur et la recherche comme une variable d’ajustement et non comme un investissement en faveur de la jeunesse. France Universités appelle donc le Gouvernement et la Représentation nationale au réexamen des crédits de l’enseignement supérieur et de la recherche lors des débats à l’Assemblée nationale puis au Sénat. Plutôt que d’exiger des universités un « effort de responsabilité » qu’elles assument déjà largement, l’État doit prendre la pleine mesure du rôle joué par les universités et établissements de l’ESR dans le développement économique de notre pays et leur déléguer, enfin, les moyens d’accomplir leurs missions. Il en va de l’avenir de notre jeunesse, mais aussi du futur d’une recherche publique française menacée de décrochage.

    https://franceuniversites.fr/actualite/projet-de-loi-finances-2024-les-universites-vont-elles-etre-oblige
    #ESR #enseignement_supérieur #université #facs #France #budget #finances #loi_finances

  • Tragédie moyen-orientale suite sans fin

    Inavouables jeux mortifères avec les vies des civils innocents !

    Bien sûr, à l’origine de la création et de la perpétuation de la tragédie du Moyen-Orient, il y a la fondation de l’État d’Israël en tant qu’État exclusivement juif, et le déracinement violent des Palestiniens de leur terre. Mais tout en ayant en tête ce constat, la grande question – toujours sans réponse – était et reste aujourd’hui que faisons nous et que devons-nous faire pour arrêter cet incessant bras de fer horrible et barbare au Proche-Orient, dont nous vivons le paroxysme ces jours-ci, craignant même que peut être le pire ne soit devant nous…

    Nous avouons que l’actuelle extrême exacerbation de la tragédie moyen-orientale, nous empêche d’avoir de réponse toute faite sur ce qu’il faut faire. Mais nous avons quelques idées sur ce qu’il ne faut pas faire. Et ce, non pas, bien sûr, en Israël ou en Palestine où notre parole n’a aucune chance d’arriver ou d’influencer, mais ici, dans notre pays et dans notre espace politique naturel, la gauche. Dans ce sens et sous cet angle, le premier constat est que beaucoup de choses auraient changé pour le mieux si le rejet catégorique de la responsabilité et de la culpabilité collective n’était pas resté sur le papier comme un vœu pieux, mais avait été appliqué non seulement par les protagonistes – directs et indirects – de la tragédie, mais aussi par chacun d’entre nous. Et nous nous expliquons tout de suite.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/10/20/tragedie-moyen-orientale-suite-sans-fin

    #international #palestine #israel

    • masters of war

      ces politiques et ces crimes tournent en permanence à l’avantage… des criminels rivaux, en ralliant nécessairement l’opinion publique derrière eux. Et en ralliant l’opinion publique derrière les dirigeants/criminels, ils empêchent « ceux d’en bas » des deux camps de se rapprocher, une éventualité que ces mêmes dirigeants/criminels craignent et redoutent plus que tout.

      Le paroxysme guerrier et la crise humanitaire en cours en sont un excellent exemple. Le moment précis où les hostilités ont commencé était marqué par la chute libre de la popularité du #Hamas et du gouvernement #Netanyahou. En effet, alors qu’Israël était secoué depuis des mois et plus que jamais dans son histoire par des manifestations continues de centaines de milliers de citoyens dénonçant la corruption et surtout l’intention manifeste de Netanyahou de transformer le pays en quelque chose qui ressemble de plus en plus à une dictature (1), à Gaza, les sondages et les témoignages d’observateurs tout à fait fiables convergeaient pour prévoir qu’en cas d’élections, le Hamas s’effondrerait au profit de… l’OLP qui y est quasi inexistante, alors qu’au contraire, en Cisjordanie occupée, l’OLP corrompue qui la dirige perdrait clairement au profit… du Hamas !

      En déclenchant donc son attaque contre Israël et, surtout, contre les civils Israéliens, le Hamas a fait exactement ce que tous les dirigeants antidémocratiques du monde entier font lorsqu’ils sont menacé de perdre leur pouvoir : il a tenté de contraindre les Palestiniens de Gaza à se rallier derrière lui, persuadé comme il était que la réponse militaire de Netanyahou, qui ressemble de plus en plus à un génocide bien planifié, ne leur laisserait aucune marge de manœuvre pour échapper à ce chantage. Mais en même temps, le Hamas faisait aussi autre chose : il tirait Netanyahou et ses partenaires gouvernementaux – encore plus racistes, extrémistes et va-t-en-guerre – de la situation extrêmement difficile dans laquelle ils se trouvaient, puisque les manifestations antigouvernementales s’arrêtaient tout de suite et la population israélienne était forcée de se rallier – au moins temporairement – derrière Netanyahou et son gouvernement !

      Et ce n’est pas tout. Dans le camp palestinien, qui avait vu il y a seulement quelques semaines 130 personnalités dénoncer publiquement le président de l’Autorité palestinienne, Mahmoud Abbas, pour ses déclarations antisémites, non seulement s’arrêtait toute tentative de rapprochement entre les deux parties, mais s’attisait aussi la haine provoquée – comme il était prévisible – par le massacre de Gazaouis par l’armée israélienne. Et dans le camp israélien, s’estompait en quelques heures le rapprochement historique qui commençait à se dessiner timidement à l’horizon depuis que l’apparition de drapeaux palestiniens dans les manifestations anti-gouvernementales ne faisait plus sensation et ne suscitait plus de réactions négatives.

      #Guerre #unité_nationale