• I dati che raccontano la guerra ai soccorsi nell’anno nero della strage di Cutro

    Nel 2023 le autorità italiane hanno classificato come operazioni di polizia e non Sar oltre mille sbarchi, per un totale di quasi 40mila persone, un quarto degli arrivi via mare. Dati inediti del Viminale descrivono la “strategia” contro le Ong e l’intento di creare l’emergenza a Lampedusa concentrando lì oltre i due terzi degli approdi.

    Nell’anno della strage di Cutro (26 febbraio 2023) le autorità italiane hanno classificato come operazioni di polizia oltre 1.000 sbarchi, per un totale di quasi 40mila persone, poco più di un quarto di tutti gli arrivi via mare. Questo nonostante gli effetti funesti che la confusione tra “law enforcement” e ricerca e soccorso ha prodotto proprio in occasione del naufragio di fine febbraio dell’anno scorso a pochi metri dalle coste calabresi, quando morirono più di 90 persone, e sulla quale sta indagando la Procura di Crotone.

    Quello degli eventi strumentalmente classificati come di natura poliziesca in luogo del soccorso, anche dopo i fatti di Cutro, è solo uno dei dati attraverso i quali si può leggere come è andata lo scorso anno nel Mediterraneo. È possibile farlo dopo aver ottenuto dati inediti dal ministero dell’Interno, che rispetto al passato ha fortemente ridotto qualità e quantità degli elementi pubblicati nel cruscotto statistico giornaliero e nella sua rielaborazione di fine anno.

    Prima però partiamo dai dati noti. Nel 2023 sono sbarcate sulle coste italiane 157.651 persone (il Viminale talvolta ne riporta 157.652, ma la sostanza è identica). Il dato è il più alto dal 2017 ma inferiore al 2016, quando furono 181.436. Le prime cinque nazionalità dichiarate al momento dello sbarco, che rappresentano quasi il 50% degli arrivi, sono di cittadini della Guinea, Tunisia, Costa d’Avorio, Bangladesh, Egitto. I minori soli sono stati 17.319.

    E qui veniamo ai dati che ci ha trasmesso il Viminale a seguito di un’istanza di accesso civico generalizzato. La stragrande maggioranza delle persone sbarcate è partita nel 2023 dalla Tunisia: oltre 97mila persone sulle 157mila totali. Segue a distanza la Libia, con 52mila partenze, quasi doppiata, e poi più dietro la Turchia (7.150), Algeria, Libano e finanche Cipro.

    Come mostrano le elaborazioni grafiche dei dati governativi, ci sono stati mesi in cui dalla Tunisia sono sbarcate anche oltre 20mila persone. Una tendenza che ha conosciuto una brusca interruzione a partire dal mese di ottobre 2023, quando gli sbarchi in quota Tunisia, al netto delle condizioni meteo marine, sono crollati a poco meno di 1.900, attestandosi poco sotto i 5mila nei due mesi successivi.

    Tradotto: l’ultimo trimestre dello scorso anno ha visto una forte diminuzione degli sbarchi provenienti dalla Tunisia, Paese con il quale Unione europea e Italia hanno stretto il “solito” accordo che prevede soldi e forniture in cambio di “contrasto ai flussi”, ovvero contrasto ai diritti umani. È lo schema libico, con le differenze del caso. Il ministro Matteo Piantedosi il 31 dicembre 2023, intervistato da La Stampa, ha rivendicato la bontà della strategia parlando di “121.883 persone” (dando l’idea di un conteggio analitico e quotidiano) “bloccate” grazie alla “collaborazione con le autorità tunisine e libiche”.

    Un altro dato utilissimo per capire come “funziona” la macchina mediatica della presunta “emergenza immigrazione” è quello dei porti di sbarco. Il primo e incontrastato porto sul quale lo scorso anno è stata scaricata la stragrande maggioranza degli sbarchi è Lampedusa, con quasi 110mila arrivi (di cui “solo” 7.400 autonomi) contro i 5.500 di Augusta, Roccella Jonica, i 4.800 di Pantelleria e i 3.800 di Catania. In passato non è sempre stato così. Ma Lampedusa è troppo importante per due ragioni: dare in pasto all’opinione pubblica l’idea di una situazione esplosiva e ingestibile, bloccando i trasferimenti verso la terraferma (vedasi l’estate 2023), e contemporaneamente convogliare quanti più richiedenti asilo potenziali possibile nella macchina del trattenimento dell’hotspot.

    Benché in Italia si sia convinti che a soccorrere le persone in mare siano solo le acerrime nemiche Ong, i dati, ancora una volta, confermano il loro ruolo ridotto a marginale dopo anni di campagne diffamatorie, criminalizzazione penale e vera e propria persecuzione amministrativa. Nel 2023, infatti, gli assetti delle Organizzazioni non governative hanno salvato e sbarcato in Italia neanche 9mila persone. Poco più del 5% del totale. Anche nei mesi più intensi degli arrivi la quota delle Ong è stata limitata.

    Come noto, le poche navi umanitarie intervenute sono state deliberatamente indirizzate verso porti lontani. Il primo per numero di persone sbarcate è stato Brindisi (quasi 1.400 sbarcati su 9mila), ovvero 285 miglia in più rispetto al Sud-Ovest della Sicilia. Segue Lampedusa con 980, vero, ma poi ci sono Carrara (535 miglia di distanza in più dalla Sicilia), Trapani, Salerno, Bari, Civitavecchia, Ortona.

    Non è facile dire quanti giorni di navigazione in più questa “strategia” brutale abbia esattamente determinato. Un esperto operatore di ricerca e soccorso in mare aiuta a fare due conti a spanne: “Le navi normalmente viaggiano a meno di dieci nodi, calcolando una velocità di sette nodi andare a Brindisi implica circa 41 ore in più rispetto ai porti più vicini del Sud della Sicilia, come ad esempio Pozzallo. E per arrivare a Pozzallo dalla cosiddetta ‘SAR 1’, a Ovest di Tripoli, partendo da una distanza dalla costa libica di circa 35 miglia, tra Zuara e Zawiya, ci vogliono circa 24 ore”.

    Una recente analisi di Sos Humanity -ripresa dal Guardian a metà febbraio- ha stimato che questo modus operandi delle autorità italiane possa aver complessivamente fatto perdere alle navi delle Ong 374 giorni di operatività. Nell’anno in cui sono morte annegate ufficialmente almeno 2.500 persone e intercettate dalle milizie libiche e riportate indietro, sempre ufficialmente, quasi 17.200 (con l’ancora una volta dimostrata complicità dell’Agenzia europea Frontex). Ma sono tempi così oscuri che ostacolare le “ambulanze” è divenuto un vanto.

    https://altreconomia.it/i-dati-che-raccontano-la-guerra-ai-soccorsi-nellanno-nero-della-strage-

    #statistiques #débarquement #Italie #migrations #réfugiés #chiffres #sauvetage #ONG #SAR #search-and-rescue #Méditerranée #Lampedusa #law_enforcement #2023 #Tunisie #Libye #externalisation #accord #urgence #hotspot

  • Tiens, un grand projet débile à Toulouse évidemment validé par la cour administrative.

    « La cour … a écarté l’ensemble des moyens des requérants...elle a également retenu le caractère proportionné de l’étude d’impact aux différents enjeux environnementaux ».

    Le machin prévu fait 150 mètres de haut :/

    Les associations ont été déboutées une nouvelle fois après le rejet de leur recours initial par le tribunal administratif en juin 2022. En novembre 2023, la cour d’appel avait de nouveau rejeté le recours des opposants. Ce recours portait sur la modification du Plan local d’urbanisme autorisant le promoteur à ne pas construire de logements sociaux dans la tour.

    https://france3-regions.francetvinfo.fr/occitanie/haute-garonne/toulouse/la-tour-occitanie-devrait-voir-le-jour-la-cour-administ

    #justice #promoteurs_immobilier #grands_projets_inutiles

  • Stonebreakers
    https://resistenzeincirenaica.com/2024/01/17/5056

    Come ogni anno #La_Federazione delle Resistenze ha in serbo una serie di eventi per la ricorrenza del 19 febbraio / Yekatit 12, il giorno in cui si ricordano le vittime del colonialismo Italiano. Vi terremo aggiornati, ma intanto vi segnaliamo un primo appuntamento di avvicinamento alla data. Lunedì 22 gennaio la storica Mariana E.... Continua a leggere

    ##RIC #odonomastica #Urbanistica


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  • These Philadelphians got rid of their cars in the last year. They haven’t looked back.

    “Now that I’m forced to walk, I’m seeing the city more than I did before," said one newly carless resident. She used to pay about $400 a month on her car payment and insurance.

    Dajé Walker’s Hyundai Elantra was stolen from a Brewerytown parking lot in July, only to be found a week later on the side of a local highway.

    The car that Walker had driven for three years was “in shambles,” Walker said, and the insurance company deemed it a total loss.

    “I had that existential crisis moment where I was like, ‘Do I need a car or do I want a car?’” she said.

    Around the same time, Walker, 28, got a new, completely remote job as a project manager. The news sealed her decision: She took the insurance payout of about $15,000, putting some of the money in savings and using the rest to move from Brewerytown to Old City, and never looked back.

    She no longer has to set aside $300 a month for her car payment and another $100 for insurance. When she recently moved to Old City, she didn’t have to worry about securing a convenient and safe parking spot, which can cost at least $250 a month at private lots.

    The benefits of Walker’s new lifestyle aren’t just financial, though — they’re mental and physical, too.

    “My car, it was a complete crutch,” Walker said. “Now that I’m forced to walk, I’m seeing the city more than I did before.”

    She feels like she’s “seeing the sun more often” on regular walks to judo class, City Fitness, and social gatherings, she added. For outings farther away that require taking the bus, “it’s more time for me to be zen or read a book on the way there.”

    After a surge in car-buying statewide at the height of the pandemic, there are signs that some Philadelphians like Walker have made the decision to do away with their cars in recent years, bucking larger trends.

    In 2022, more than 638,000 passenger vehicles were registered in the city, about 24,000 fewer cars than were registered here a year prior, according to the most recent state data. That represents a 3.6% decline in registered vehicles over a period when the city’s population decreased 1.4%, the largest one-year drop in 45 years.

    The latest registration data was captured before the price of car ownership skyrocketed.

    In 2023, drivers who owned a new car paid more than $12,000 a year on average, a more than 13% increase from the prior year, according to AAA, which accounted for the costs of car payments, gas, maintenance, and insurance.

    In the last year, car insurance premiums nationwide have far outpaced inflation, increasing 20% on average. Philadelphia-area residents told The Inquirer last month that they’ve recently been quoted rates as much as 100% higher than what they were previously paying. A recent Bankrate report found Philadelphia-area residents paid $4,753 a year on average, and the region saw the largest increase of 26 major metro areas last year in terms of average comprehensive coverage costs.

    What you gain by going carless

    So far across the country, the increased cost of car ownership “does not appear to affect whether people are buying or what people are buying,” said Greg McBride, chief financial analyst at Bankrate. “A much longer-term trend is that American consumers have increasingly been moving away from smaller compact vehicles to larger SUVs and trucks.”

    Philadelphia, meanwhile, is consistently ranked among the metro areas with the lowest car ownership and is known for being one of the best cities to live in without a car (though historically not all neighborhoods have the same access to public transit).

    Some residents like Walker also cited a psychological cost to car ownership in the city. Even before she became one of the tens of thousands of residents who had their cars stolen last year, she was constantly worried about her car. And residents who choose to park on the street — which is free in some areas and $35 a year in others — may have a difficult time finding an open spot depending on the neighborhood and what time of day they’re coming home.

    Of course, the ease of driving and parking in the city is all relative.

    “Philly is really hard to have a car,” said Pascale Questel, 30, a copywriter who moved to Brewerytown from Florida three years ago. Every time she walks her dog, she checks on her Honda, which she parks on the street, and her Hyundai Elantra was stolen last year.

    Last year, Leo Walsh, 31, of West Philadelphia, sold his Subaru Forester, a car he said he felt like had become “an extension of me.” He had even lived out of it three months on a solo cross-country road trip.

    He suddenly realized he was resorting to driving at the smallest inconvenience, including for trips to Trader Joe’s a couple miles away or on rainy days when he didn’t feel like biking or walking to the trolley.

    He didn’t end up getting any money for his car — it was a 2004 and needed work — but he is saving on insurance, gas, and maintenance. And there’s an “unquantifiable” benefit, too: how it feels every day to see the faces of passersby as you bike past them, or to end your commute by thanking a conductor instead of slamming your car door shut, alone.

    “I have fallen more in love with the city now, just biking and getting to know all the streets,” said Walsh, who works for Jawnt, a technology company that provides transit benefits for some city employers. “You just don’t get that in a car. You’re in your little bubble.”

    https://www.inquirer.com/business/get-rid-of-car-sales-ownership-philadelphia-20240209.html
    #voitures #villes #urban_matter #piétons #Philadelphie #USA #Etats-Unis #marche #coût #santé #TRUST #Master_TRUST

  • #François_Piquemal : « la #rénovation_urbaine se fait sans les habitants des #quartiers_populaires »

    Il y a 20 ans naissait l’#Agence_Nationale_pour_la_Rénovation_Urbaine (#ANRU). Créée pour centraliser toutes les procédures de #réhabilitation des quartiers urbains défavorisés, elle promettait de transformer en profondeur la vie des habitants, notamment en rénovant des centaines de milliers de logements. Malgré les milliards d’euros investis, les révoltes urbaines de l’été 2023 ont démontré combien les « #cités » restent frappées par la #précarité, le #chômage, l’#insécurité et le manque de #services_publics. Comment expliquer cet échec ?

    Pour le député insoumis #François_Piquemal, qui a visité une trentaine de quartiers en rénovation dans toute la #France, la #rénovation_urbaine est réalisée sans prendre en compte les demandes des habitants et avec une obsession pour les #démolitions, qui pose de grands problèmes écologiques et ne règle pas les problèmes sous-jacents. Il nous présente les conclusions de son rapport très complet sur la question et nous livre ses préconisations pour une autre politique de rénovation urbaine, autour d’une planification écologique et territoriale beaucoup plus forte. Entretien.

    Le Vent Se Lève – Vous avez sorti l’an dernier un rapport intitulé « Allo ANRU », qui résume un travail de plusieurs mois mené avec vos collègues députés insoumis, basé sur une trentaine de visites de quartiers populaires concernés par la rénovation urbaine dans toute la France. Pourquoi vous être intéressé à ce sujet ?

    François Piquemal – Il y a trois raisons pour moi de m’intéresser à la rénovation urbaine. D’abord, mon parcours politique débute avec un engagement dans l’association « Les Motivés » entre 2005 et 2008 à Toulouse, qui comptait des conseillers municipaux d’opposition (Toulouse est dirigée par la droite depuis 2001, à l’exception d’un mandat dominé par le PS entre 2008 et 2014, ndlr). C’est la période à laquelle l’ANRU est mise en place, suite aux annonces de Jean-Louis Borloo en 2003. Le hasard a fait que j’ai été désigné comme un des militants en charge des questions de logement, donc je me suis plongé dans le sujet.

    Par ailleurs, j’ai une formation d’historien-géographe et j’ai beaucoup étudié la rénovation urbaine lorsque j’ai passé ma licence de géographie. Enfin, j’étais aussi un militant de l’association Droit au Logement (DAL) et nous avions de grandes luttes nationales sur la question de la rénovation urbaine, notamment à Grenoble (quartier de la Villeneuve) et à Poissy (La Coudraie). A Toulouse, la contestation des plans de rénovation urbaine est également arrivée assez vite, dans les quartiers du Mirail et des Izards, et je m’y suis impliqué.

    Lorsque je suis devenu député en 2022, j’ai voulu poursuivre ces combats autour du logement. Et là, j’ai réalisé que l’ANRU allait avoir 20 ans d’existence et qu’il y avait très peu de travaux parlementaires sur le sujet. Bien sûr, il y a des livres, notamment ceux du sociologue Renaud Epstein, mais de manière générale, la rénovation urbaine est assez méconnue, alors même qu’elle est souvent critiquée, tant par des chercheurs que par les habitants des quartiers populaires. Donc j’ai décidé de m’emparer du sujet. J’en ai parlé à mes collègues insoumis et pratiquement tous ont des projets de rénovation urbaine dans leur circonscription. Certains connaissaient bien le sujet, comme Marianne Maximi à Clermont-Ferrand ou David Guiraud à Roubaix, mais la plupart avaient du mal à se positionner parmi les avis contradictoires qu’ils entendaient. Donc nous avons mené ce travail de manière collective.

    LVSL – Ce sujet est très peu abordé dans le débat public, alors même qu’il s’agit du plus grand chantier civil de France. Les chiffres sont impressionnants : sur 20 ans, ce sont 700 quartiers et 5 à 7 millions de personnes, soit un Français sur dix, qui sont concernés. 165.000 logements ont été détruits, 142.000 construits, 410.000 réhabilités et 385.000 « résidentialisés », c’est-à-dire dont l’espace public environnant a été profondément transformé. Pourtant, les révoltes urbaines de l’été dernier nous ont rappelé à quel point les problèmes des quartiers en question n’ont pas été résolus. On entend parfois que le problème vient avant tout d’un manque de financement de la part de l’Etat. Partagez-vous cette analyse ?

    F. P. – D’abord, les chiffres que vous venez de citer sont ceux du premier programme de l’ANRU, désormais terminé. Un second a été lancé depuis 2018, mais pour l’instant on dispose de peu de données sur celui-ci. Effectivement, lors de son lancement par Jean-Louis Borloo, la rénovation urbaine est présentée comme le plus grand chantier civil depuis le tunnel sous la Manche et les objectifs sont immenses : réduire le chômage et la précarité, renforcer l’accès aux services publics et aux commodités de la ville et combattre l’insécurité. On en est encore loin.

    Ensuite, qui finance la rénovation urbaine ? Quand on regarde dans le détail, on se rend compte que l’Etat est peu présent, comme le montre un documentaire de Blast. Ce sont les collectivités locales et les bailleurs sociaux qui investissent, en plus du « 1% patronal » versé par les entreprises. Concernant l’usage de ces moyens, on a des fourchettes de coût pour des démolitions ou des reconstructions, mais là encore les chiffres varient beaucoup.

    LVSL – Vous rappelez que les financements de l’Etat sont très faibles dans la rénovation urbaine. Pourtant, certains responsables politiques, comme Eric Zemmour, Jordan Bardella ou Sabrina Agresti-Roubache, secrétaire d’Etat à la ville de Macron, estiment que trop d’argent a été investi dans ces quartiers…

    F. P. – C’est un discours que l’on entend souvent. Mais on ne met pas plus d’argent dans les quartiers populaires que dans d’autres types de territoires. Par exemple, on mentionne souvent le chiffre de 90 à 100 milliards d’euros en 40 ans, avec les douze plans banlieue qui se sont succédé depuis 1977. Dit comme ça, ça semble énorme. Mais en réalité, cela représente en moyenne 110€ par habitant et par an dans les quartiers de la politique de la ville (QPV), un chiffre inférieur aux montants dépensés pour les Français n’habitant pas en QPV. Néanmoins, nous manquons encore d’informations précises et j’ai posé une question au gouvernement pour avoir des chiffres plus détaillés.

    LVSL – Parmi les objectifs mis en avant par l’ANRU dans les opérations qu’elle conduit, on retrouve tout le temps le terme de « mixité sociale ». Il est vrai que ces quartiers se sont souvent ghettoïsés et accueillent des populations très touchées par la pauvreté, le chômage et l’insécurité. Pour parvenir à cette fameuse mixité, il semble que l’ANRU cherche à gentrifier ces quartiers en y faisant venir des couches moyennes. Quel regard portez-vous sur cette façon d’assurer la « mixité sociale » ?

    F. P. – D’abord, il faut questionner la notion même de mixité sociale. Ce concept, personne ne peut être contre. Mais chacun a une idée différente de comment y parvenir ! Pour la droite, la mixité sociale passe par le fait que les classes moyennes et populaires deviennent des petits propriétaires. Pour la gauche, c’est la loi SRU, c’est-à-dire l’obligation d’avoir 25% de logement public dans chaque commune, afin d’équilibrer la répartition sur le territoire national.

    Peu à peu, la gauche et la droite traditionnelles ont convergé, c’est ce que le philosophe italien Antonio Gramsci appelle le « transformisme ». En réalité, c’est surtout l’imaginaire de la droite s’est imposé : aujourd’hui, vivre en logement public n’est pas perçu comme souhaitable, à tort ou à raison. Ceux qui y vivent ou attendent un logement public ne voient cela que comme une étape dans leur parcours résidentiel, avant de devenir enfin petit propriétaire. Dès lors, habiter en logement public devient un stigmate de positionnement social et les quartiers où ce type de logement domine sont de moins en moins bien perçus.

    Concrètement, ça veut dire que dans un quartier avec 50 ou 60% de logement public, la politique mise en œuvre pour parvenir à la mixité sociale est de faire de l’accession à la propriété, pour faire venir d’autres populations. Ca part d’un présupposé empreint de mépris de classe : améliorer la vie des personnes appartenant aux classes populaires passerait par le fait qu’elles aient des voisins plus riches. Comme si cela allait forcément leur amener plus de services publics ou de revenus sur leur compte en banque.

    Quels résultats a cette politique sur le terrain ? Il a deux cas de figure. Soit, les acquéreurs sont soit des multi-propriétaires qui investissent et qui vont louer les appartements en question aux personnes qui étaient déjà là. C’est notamment ce que j’ai observé avec Clémence Guetté à Choisy-le-Roi. Soit, les nouveaux propriétaires sont d’anciens locataires du quartier, mais qui sont trop pauvres pour assumer les charges de copropriété et les immeubles se dégradent très vite. C’est un phénomène qu’on voit beaucoup à Montpellier par exemple. Dans les deux cas, c’est un échec car on reproduit les situations de précarité dans le quartier.

    Ensuite, il faut convaincre les personnes qui veulent devenir petits propriétaires de s’installer dans ces quartiers, qui font l’objet de beaucoup de clichés. Allez dire à un Parisien de la classe moyenne d’aller habiter à la Goutte d’Or (quartier populaire à l’est de Montmartre, ndlr), il ne va pas y aller ! C’est une impasse. Rendre le quartier attractif pour les couches moyennes demande un immense travail de transformation urbanistique et symbolique. Très souvent, la rénovation urbaine conduit à faire partir la moitié des habitants d’origine. Certes, sur le papier, on peut trouver 50% de gens qui veulent partir, mais encore faut-il qu’ils désirent aller ailleurs ! Or, on a souvent des attaches dans un quartier et les logements proposés ailleurs ne correspondent pas toujours aux besoins.

    Donc pour les faire quitter le quartier, la « solution » est en général de laisser celui-ci se dégrader jusqu’à ce que la vie des habitants soit suffisamment invivable pour qu’ils partent. Par exemple, vous réduisez le ramassage des déchets ou vous laissez les dealers prendre le contrôle des cages d’escaliers.

    LVSL – Mais cet abandon, c’est une politique délibérée des pouvoirs publics, qu’il s’agisse de l’ANRU ou de certaines mairies ? Ou c’est lié au fait que la commune n’a plus les moyens d’assurer tous les services ?

    F. P. – Dans certains quartiers de Toulouse, que je connais bien, je pense que cet abandon est un choix délibéré de la municipalité et de la métropole. Par exemple, dans le quartier des Izards, il y avait un grand immeuble de logement public, certes vieillissant, mais qui pouvait être rénové. Il a été décidé de le raser. Or, beaucoup d’habitants ne voulaient pas partir, notamment les personnes âgées. Dans le même temps, d’autres appartements étaient vides. Certains ont été squattés par des réfugiés syriens, avant que le bailleur ne décide de payer des agents de sécurité pour les expulser. Par contre, ces agents laissaient sciemment les dealers faire leur business dans le quartier !

    Dans d’autres cas, le bailleur décide tout simplement d’abandonner peu à peu un immeuble voué à la démolition. Donc ils vont supprimer un concierge, ne pas faire les rénovations courantes etc. Et on touche là à un grand paradoxe de la rénovation urbaine : en délaissant certains immeubles, on dégrade aussi l’image du quartier dans lequel on souhaite faire venir des personnes plus aisées.

    LVSL – Il semble aussi que la « mixité sociale » soit toujours entendue dans le même sens : on essaie de faire venir ces ménages plus aisés dans les quartiers défavorisés, mais les ghettos de riches ne semblent pas poser problème aux pouvoirs publics…

    F. P. – En effet, il y a une grande hypocrisie. Faire venir des habitants plus riches dans un quartier prioritaire, pourquoi pas ? Mais où vont aller ceux qui partent ? Idéalement, ils visent un quartier plus agréable, qui a une meilleure réputation. Sauf que beaucoup de maires choisissent de ne pas respecter la loi SRU et de maintenir une ségrégation sociale. Résultat : les bailleurs sociaux ne peuvent souvent proposer aux personnes à reloger que des appartements trop chers ou inadaptés à leurs besoins.

    Donc on les déplace dans d’autres endroits, qui deviennent de futurs QPV. A Toulouse par exemple, beaucoup des personnes délogées par les programmes de rénovation urbaine sont envoyées au quartier Borderouge, un nouveau quartier avec des loyers abordables. Sauf que les difficultés sociales de ces personnes n’ont pas été résolues. Donc cela revient juste à déplacer le problème.

    LVSL – Ces déplacements de population sont liés au fait que les programmes de rénovation urbaine ont un fort ratio de démolitions. Bien sûr, il y a des logements insalubres trop compliqués à rénover qu’il vaut mieux détruire, mais beaucoup de démolitions ne semblent pas nécessaires. Pensez-vous que l’ANRU a une obsession pour les démolitions ?

    F. P. – Oui. C’est très bien montré dans le film Bâtiment 5 de Ladj Ly, dont la première scène est une démolition d’immeubles devant les édiles de la ville et les habitants du quartier. Je pense que l’ANRU cherchait à l’origine un effet spectaculaire : en dynamitant un immeuble, on montre de manière forte que le quartier va changer. C’est un acte qui permet d’affirmer une volonté politique d’aller jusqu’au bout, de vraiment faire changer le quartier en reconstruisant tout.

    Mais deux choses ont été occultées par cet engouement autour des démolitions. D’abord, l’attachement des gens à leur lieu de vie. C’est quelque chose qu’on retrouve beaucoup dans le rap, par exemple chez PNL ou Koba LaD, dont le « bâtiment 7 » est devenu très célèbre. Ce lien affectif et humain à son habitat est souvent passé sous silence.

    L’autre aspect qui a été oublié, sans doute parce qu’on était en 2003 lorsque l’ANRU a été lancée, c’est le coût écologique de ces démolitions. Aujourd’hui, si un ministre annonçait autant de démolitions et de reconstructions, cela soulèverait beaucoup de débats. A Toulouse, le commissaire enquêteur a montré dans son rapport sur le Mirail à quel point démolir des immeubles fonctionnels, bien que nécessitant des rénovations, est une hérésie écologique. A Clermont-Ferrand, ma collègue Marianne Maximi nous a expliqué qu’une part des déchets issus des démolitions s’est retrouvée sur le plateau de Gergovie, où sont conduites des fouilles archéologiques.

    LVSL – Maintenant que les impacts de ces démolitions, tant pour les habitants que pour l’environnement, sont mieux connus, l’ANRU a-t-elle changé de doctrine ?

    F. P. – C’est son discours officiel, mais pour l’instant ça ne se vérifie pas toujours dans les actes. J’attends que les démolitions soient annulées pour certains dossiers emblématiques pour y croire. Le quartier de l’Alma à Roubaix est un très bon exemple : les bâtiments en brique sont fonctionnels et superbes d’un point de vue architectural. Certains ont même été refaits à neuf durant la dernière décennie, pourquoi les détruire ?

    Maintenir ces démolitions est d’autant plus absurde que ces quartiers sont plein de savoir-faire, notamment car beaucoup d’habitants bossent dans le secteur du BTP. Je le vois très bien au Mirail à Toulouse : dans le même périmètre, il y a l’école d’architecture, la fac de sciences sociales, plein d’employés du BTP, une école d’assistants sociaux et un gros vivier associatif. Pourquoi ne pas les réunir pour imaginer le futur du quartier ? La rénovation urbaine doit se faire avec les habitants, pas sans eux.

    LVSL – Vous consacrez justement une partie entière du rapport aux perceptions de la rénovation urbaine par les habitants et les associations locales, que vous avez rencontré. Sauf exception, ils ne se sentent pas du tout écoutés par les pouvoirs publics et l’ANRU. L’agence dit pourtant chercher à prendre en compte leurs avis…

    F. P. – Il y a eu plein de dispositifs, le dernier en date étant les conseils citoyens. Mais ils ne réunissent qu’une part infime de la population des quartiers. Parfois les membres sont tirés au sort, mais on ne sait pas comment. En fait le problème, c’est que l’ANRU est un peu l’Union européenne de l’urbanisme. Tout décideur politique peut dire « c’est pas moi, c’est l’ANRU ». Or, les gens ne connaissent pas l’agence, son fonctionnement etc. Plusieurs entités se renvoient la balle, tout est abstrait, et on ne sait plus vers qui se tourner. Cela crée une vraie déconnexion entre les habitants et les décisions prises pour leur quartier. La rénovation se fait sans les habitants et se fait de manière descendante. Même Jean-Louis Borloo qui en est à l’origine en est aujourd’hui assez critique.

    A l’origine, les habitants ne sont pas opposés à la rénovation de leur quartier. Mais quand on leur dit que la moitié vont devoir partir et qu’ils voient les conditions de relogement, c’est déjà moins sympa. Pour ceux qui restent, l’habitat change, mais les services publics sont toujours exsangues, la précarité et l’insécurité sont toujours là etc. Dans les rares cas où la rénovation se passe bien et le quartier s’améliore, elle peut même pousser les habitants historiques à partir car les loyers augmentent. Mais ça reste rare : la rénovation urbaine aboutit bien plus souvent à la stagnation qu’à la progression.

    LVSL – L’histoire de la rénovation urbaine est aussi celle des luttes locales contre les démolitions et pour des meilleures conditions de relogement. Cela a parfois pu aboutir à des référendums locaux, soutenus ou non par la mairie. Quel bilan tirez-vous de ces luttes ?

    F. P. – D’abord ce sont des luttes très difficiles. Il faut un niveau d’information très important et se battre contre plusieurs collectivités plus l’ANRU, qui vont tous se renvoyer la balle. Le premier réflexe des habitants, c’est la résignation. Ils se disent « à quoi bon ? » et ne savent pas par quel bout prendre le problème. En plus, ces luttes débutent souvent lorsqu’on arrive à une situation critique et que beaucoup d’habitants sont déjà partis, ce qui est un peu tard.

    Il y a tout de même des exemples de luttes victorieuses comme la Coudraie à Poissy ou, en partie, la Villeneuve à Grenoble. Même pour l’Alma de Roubaix ou le Mirail de Toulouse, il reste de l’espoir. Surtout, ces luttes ont montré les impasses et les absurdités de la rénovation urbaine. La bataille idéologique autour de l’ANRU a été gagnée : aujourd’hui, personne ne peut dire que cette façon de faire a fonctionné et que les problèmes de ces quartiers ont été résolus. Certains en tirent comme conclusion qu’il faut tout arrêter, d’autres qu’il faut réformer l’ANRU.

    LVSL – Comment l’agence a-t-elle reçu votre rapport ?

    F. P. – Pas très bien. Ils étaient notamment en désaccord avec certains chiffres que nous citons, mais on a justement besoin de meilleures informations. Au-delà de cette querelle, je sais qu’il y a des personnes bien intentionnées à l’ANRU et que certains se disent que l’existence de cette agence est déjà mieux que rien. Certes, mais il faut faire le bilan économique, écologique et humain de ces 20 ans et réformer l’agence.

    Jean-Louis Borloo est d’accord avec moi, il voit que la rénovation urbaine seule ne peut pas résoudre les problèmes de ces quartiers. Il l’avait notamment dit lors de l’appel de Grigny (ville la plus pauvre de France, ndlr) avec des maires de tous les horizons politiques. Je ne partage pas toutes les suggestions de Borloo, mais au moins la démarche est bonne. Mais ses propositions ont été enterrées par Macron dès 2018…

    LVSL – Justement, quelles répercussions votre rapport a-t-il eu dans le monde politique ? On en a très peu entendu parler, malgré les révoltes urbaines de l’été dernier…

    F. P. – Oui, le rapport Allo ANRU est sorti en avril 2023 et l’intérêt médiatique, qui reste limité, n’est arrivé qu’avec la mort de Nahel. Cela montre à quel point ce sujet est délaissé. Sur le plan politique, je souhaite mener une mission d’information pour boucler ce bilan de l’ANRU et pouvoir interroger d’autres personnes que nous n’avons pas pu rencontrer dans le cadre de ce rapport. Je pense à des associations, des collectifs d’habitants, des chercheurs, des élus locaux, Jean-Louis Borloo…

    Tous ces regards sont complémentaires. Par exemple, l’avis d’Eric Piolle, le maire de Grenoble, était intéressant car il exprimait la position délicate d’une municipalité prise entre le marteau et l’enclume (les habitants de la Villeneuve s’opposent aux démolitions, tandis que l’ANRU veut les poursuivre, ndlr). Une fois le constat terminé, il faudra définir une nouvelle politique de rénovation urbaine pour les deux prochaines décennies.

    LVSL – Concrètement, quelles politiques faudrait-il mettre en place ?

    F. P. – Des mesures isolées, comme l’encadrement à la baisse des loyers (réclamé par la France Insoumise, ndlr), peuvent être positives, mais ne suffiront pas. A minima, il faut être intraitable sur l’application de la loi SRU, pour faire respecter partout le seuil de 25% de logement public. On pourrait aussi réfléchir à imposer ce seuil par quartier, pour éviter que ces logements soient tous concentrés dans un ou deux quartiers d’une même ville.

    Ensuite, il faut changer la perception du logement public, c’est d’ailleurs pour cela que je préfère ce terme à celui de « logement social ». 80% des Français y sont éligibles, pourquoi seuls les plus pauvres devraient-ils y loger ? Je comprends bien sûr le souhait d’être petit propriétaire, mais il faut que le logement public soit tout aussi désirable. C’est un choix politique : le logement public peut être en pointe, notamment sur la transition écologique. Je prends souvent l’exemple de Vienne, en Autriche, où il y a 60% de logement public et qui est reconnue comme une ville où il fait bon vivre.

    Pour y parvenir, il faudra construire plus de #logements_publics, mais avec une #planification à grande échelle, comme l’avait fait le général de Gaulle en créant la DATAR en 1963. Mais cette fois-ci, cette planification doit être centrée sur des objectifs écologiques, ce qui implique notamment d’organiser la #démétropolisation. Il faut déconcentrer la population, les emplois et les services des grands centres urbains, qui sont saturés et vulnérables au changement climatique. Il s’agit de redévelopper des villes comme Albi, Lodève, Maubeuge… en leur donnant des fonctions industrielles ou économiques, pour rééquilibrer le territoire. C’est ambitieux, quasi-soviétique diront certains, mais nous sommes parvenus à le faire dans le passé.

    https://lvsl.fr/francois-piquemal-la-renovation-urbaine-se-fait-sans-les-habitants-des-quartier

    #quartiers_populaires #urbanisme #TRUST #Master_TRUST #logement #aménagement_territorial #écologie

  • Cycling is ten times more important than electric cars for reaching net-zero cities

    Globally, only one in 50 new cars were fully electric in 2020, and one in 14 in the UK. Sounds impressive, but even if all new cars were electric now, it would still take 15-20 years to replace the world’s fossil fuel car fleet.

    The emission savings from replacing all those internal combustion engines with zero-carbon alternatives will not feed in fast enough to make the necessary difference in the time we can spare: the next five years. Tackling the climate and air pollution crises requires curbing all motorised transport, particularly private cars, as quickly as possible. Focusing solely on electric vehicles is slowing down the race to zero emissions.

    This is partly because electric cars aren’t truly zero-carbon – mining the raw materials for their batteries, manufacturing them and generating the electricity they run on produces emissions.

    Transport is one of the most challenging sectors to decarbonise due to its heavy fossil fuel use and reliance on carbon-intensive infrastructure – such as roads, airports and the vehicles themselves – and the way it embeds car-dependent lifestyles. One way to reduce transport emissions relatively quickly, and potentially globally, is to swap cars for cycling, e-biking and walking – active travel, as it’s called.

    Active travel is cheaper, healthier, better for the environment, and no slower on congested urban streets. So how much carbon can it save on a daily basis? And what is its role in reducing emissions from transport overall?

    In new research, colleagues and I reveal that people who walk or cycle have lower carbon footprints from daily travel, including in cities where lots of people are already doing this. Despite the fact that some walking and cycling happens on top of motorised journeys instead of replacing them, more people switching to active travel would equate to lower carbon emissions from transport on a daily and trip-by-trip basis.
    What a difference a trip makes

    We observed around 4,000 people living in London, Antwerp, Barcelona, Vienna, Orebro, Rome and Zurich. Over a two-year period, our participants completed 10,000 travel diary entries which served as records of all the trips they made each day, whether going to work by train, taking the kids to school by car or riding the bus into town. For each trip, we calculated the carbon footprint.

    Strikingly, people who cycled on a daily basis had 84% lower carbon emissions from all their daily travel than those who didn’t.

    We also found that the average person who shifted from car to bike for just one day a week cut their carbon footprint by 3.2kg of CO₂ – equivalent to the emissions from driving a car for 10km, eating a serving of lamb or chocolate, or sending 800 emails.

    When we compared the life cycle of each travel mode, taking into account the carbon generated by making the vehicle, fuelling it and disposing of it, we found that emissions from cycling can be more than 30 times lower for each trip than driving a fossil fuel car, and about ten times lower than driving an electric one.

    We also estimate that urban residents who switched from driving to cycling for just one trip per day reduced their carbon footprint by about half a tonne of CO₂ over the course of a year, and save the equivalent emissions of a one-way flight from London to New York. If just one in five urban residents permanently changed their travel behaviour in this way over the next few years, we estimate it would cut emissions from all car travel in Europe by about 8%.

    Nearly half of the fall in daily carbon emissions during global lockdowns in 2020 came from reductions in transport emissions. The pandemic forced countries around the world to adapt to reduce the spread of the virus. In the UK, walking and cycling have been the big winners, with a 20% rise in people walking regularly, and cycling levels increasing by 9% on weekdays and 58% on weekends compared to pre-pandemic levels. This is despite cycle commuters being very likely to work from home.

    Active travel has offered an alternative to cars that keeps social distancing intact. It has helped people to stay safe during the pandemic and it could help reduce emissions as confinement is eased, particularly as the high prices of some electric vehicles are likely to put many potential buyers off for now.

    So the race is on. Active travel can contribute to tackling the climate emergency earlier than electric vehicles while also providing affordable, reliable, clean, healthy and congestion-busting transportation.

    https://theconversation.com/cycling-is-ten-times-more-important-than-electric-cars-for-reaching
    #vélo #cyclisme #voitures_électriques #villes #urban_matter #transport

  • Pour une ville « passante, poreuse et profonde »
    https://metropolitiques.eu/Pour-une-ville-passante-poreuse-et-profonde-une-attention-a-l-experi

    Issu d’une enquête sur les interactions entre espaces publics et espaces privés dans des villes des Suds comme des Nords, le livre richement illustré de David Mangin et Soraya Boudjenane plaide pour un #urbanisme attentif à l’expérience du piéton. Le sujet des #rez-de-chaussée et de leur rapport à l’espace public préoccupe aujourd’hui largement les métiers de l’urbain, autour de la revitalisation des centres-villes en déshérence, ou plus généralement de nouvelles interventions en faveur de rez-de-chaussée #Commentaires

    / #fabrique_de_la_ville, #architecture, #centre-ville, #commerce, urbanisme, #espace_public, (...)

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_rottmann.pdf

  • Le passé retrouvé de Missak et Mélinée Manouchian
    https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2024/02/09/le-passe-retrouve-de-missak-et-melinee-manouchian_6215558_4500055.html

    Quatre-vingts ans après son exécution et celle de ses camarades au mont Valérien, #Missak_Manouchian ainsi que son épouse, Mélinée, seront inhumés le 21 février au Panthéon. Désireuse d’en apprendre davantage sur le destin percuté de ce couple, leur petite-nièce Katia Guiragossian a mis ses pas dans ceux de sa grand-tante. Ils l’ont menée à Erevan, en Arménie, jusqu’à de précieux carnets perdus.
    [...]

    L’Arménie ! Et si c’était là qu’il fallait chercher les derniers trésors enfouis ? Mélinée Manouchian y a débarqué pour la première fois de sa vie à 31 ans, « le 28 septembre 1945 exactement, invitée par le gouvernement d’Arménie soviétique à visiter le pays », révèle sa petite-nièce, qui a eu accès aux documents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra) – et non en 1947 avec les sept mille Arméniens de France montés à bord de deux paquebots soviétiques, comme le racontent encore des livres qui paraissent à l’occasion de la cérémonie du Panthéon.

    L’Arménie est soviétique depuis 1920 et un autre frère de Missak, Haïk, s’y est déjà installé pour devenir gardien dans un kolkhoze. Après guerre, « beaucoup de communistes – à l’époque, ils étaient internationalistes – s’en vont construire le socialisme dans leur pays d’origine, rappelle l’historienne Annette Wieviorka. C’est le cas d’Artur London, l’auteur de L’Aveu, qui part en Tchécoslovaquie, d’Adam Rayski, parti en Pologne, ou encore de Boris Holban », l’ancien chef militaire des #FTP-MOI de Paris avant Manouchian, exilé, lui, en Roumanie. Mélinée n’aurait jamais laissé derrière elle à Paris les carnets et agendas de son mari, se dit sa petite-nièce. Et si elle les avait mis en sécurité à Erevan, où elle a vécu jusqu’en 1963 ?

    Ce n’était pas prévu, mais quatre mois après son arrivée, lorsque #Mélinée_Manouchian réclame un visa retour pour rentrer un jour en France, elle n’obtient « jamais de réponse », indique-t-elle bien plus tard de son écriture sage sur sa fiche de l’Ofpra. La voilà « piégée », dit sa petite-nièce, assignée à résidence dans la capitale arménienne, où elle entame des études de philologie et enseigne à l’université. Le soir, elle rejoint seule son studio de l’avenue Staline (aujourd’hui avenue Machdots), l’une des deux grosses artères de la ville.


    Une carte de combattante des Forces françaises de l’intérieur délivrée à Mélinée Manouchian et retrouvée en décembre 2023 à Erevan. NAZIK ARMENAKYAN POUR « M LE MAGAZINE DU MONDE »


    Un des carnets de Missak Manouchian conservés au Musée d’art et de littérature d’Erevan. NAZIK ARMENAKYAN POUR « M LE MAGAZINE DU MONDE »

    https://justpaste.it/34i5d

    #apatrides #Résistance #PCF #URSS

  • the Far Right and the City
    https://urbanpolitical.podigee.io/75-far_right_and_city

    In this discussion, members of the Terra-R (Territorialisations of the Radical Right) network examine the developments of the radical right in Germany beyond simplistic urban-rural and East-West attributions, and outline the current and future challenges for academia and civil society alike.

    #urban,political,far-right,germany,democracy
    https://audio.podigee-cdn.net/1366766-m-7f56ef655379fe669ae46980cd340e37.m4a?source=feed

  • Pénurie de #foncier à urbaniser : de Toulouse à Bourg-en-Bresse, les 20 villes les plus touchées, selon une étude
    https://www.banquedesterritoires.fr/penurie-de-foncier-urbaniser-de-toulouse-bourg-en-bresse-les-20
    https://www.banquedesterritoires.fr/sites/default/files/2024-02/Chantiers_%C3%A0_la_Cartoucherie+%281%29.jpg

    Quelles vont être les conséquences de la sobriété foncière imposée par l’objectif de zéro #artificialisation nette (#ZAN) sur les métropoles et les agglomérations ? Pour le cabinet de conseil en immobilier professionnel Arthur Loyd, 113.000 hectares vont manquer en France d’ici 2030 pour répondre aux besoins de logement et de développement des territoires. Et selon des chiffres extraits de la septième édition de son baromètre sur l’attractivité des métropoles et des agglomérations, ce sont justement les territoires les plus dynamiques en termes de #croissance_démographique et/ou de progression de l’emploi qui vont pâtir le plus de la rareté du foncier.

    […] Alors que selon l’Insee, le nombre de ménages devrait continuer de croître, passant de près de 30 millions en 2018 à 34 millions en 2050, de nouveaux besoins en logements, services et équipements vont apparaître, dans un contexte de rareté foncière. « L’augmentation des coûts de l’immobilier va représenter une problématique durable pour les Français, alors que le #logement est d’ores et déjà le premier poste de dépenses des ménages », souligne Cevan Torossian.

    Autre sujet de premier ordre, pour Arthur Loyd : le besoin de foncier lié à la #réindustrialisation, alors que 12,8 milliards d’euros ont été investis au premier semestre 2023 dans les filières vertes. Selon l’étude, les territoires localisés hors des métropoles, qui seront demain les premiers touchés par les contraintes de sobriété foncière, concentrent aujourd’hui les trois quarts du volume total investi. Tous secteurs confondus, 22.000 hectares devraient être nécessaires pour permettre la réindustrialisation du pays, selon le rapport remis par le préfet Rollon Mouchel-Blaisot en juillet dernier.

    #urbanisation

  • Des nouvelles de l’Urssaf Limousin

    Pour 2023 l’Urssaf a fixé le montant de mes cotisations à 5 000 euros (régularisation 2022 + provisions 2023), calculées sur la base de mes revenus 2022 (19 000 euros).

    J’ai payé 3 000 euros et envoyé un petit message courant 2023 pour les informer que mes revenus artistiques 2023 tourneraient autour de 7 000 euros maxi et qu’en conséquence, il serait bien de réajuster la partie provisionnelle 2023 puisque j’ai pas les moyens de payer des cotisations sur des revenus que je n’aurai pas perçus.

    Sans plus d’explication l’Urssaf m’envoie un échéancier pour payer les 1 900 euros restant dûs (théoriquement) en plusieurs fois, ce qui ne règle pas le problème puisque je dois payer la même somme.

    En janvier, après avoir fait mon bilan, je renvoie un message en expliquant que mes revenus 2023 sont de 6 200 euros et demande qu’on réévalue ma cotisation 2023 en fonction. Et de recalculer les provisions 2024 qu’ils ont estimé sur la base de 2022 à 908 euros par trimestre, c’est-à-dire la moitié de mes revenus 2023 réels.

    Pour toute réponse je reçois un recommandé exigeant 2800 euros (1900 + 900).

    J’ai écrit au Caap pour savoir si il y avait moyen de régler ça gentiment car évidemment, je ne possède pas la somme qu’on me réclame.

    #grosse_fatigue (comment ne pas haïr ces gens)

    • Pas de quoi glorifier la #cotisation comme mode de financement de la protection sociale.

      (je connais pas l’Urssaf :-) ... au cas où... sauf déblocage par d’autres moyens, je suggèrerais une prise de rv à laquelle tu peux [tu as le droit d’] aller accompagnée par la personne de ton choix : le changement de situation de la cotisante doit être prise en compte, évoquer extorsion, dire si besoin « je vais être obligée de saisir mon conseil », ie lancer une procédure ; la menace suffit... souvent)
      #Urssaf #racket #arbitraire

  • L’#Europe et la fabrique de l’étranger

    Les discours sur l’ « #européanité » illustrent la prégnance d’une conception identitaire de la construction de l’Union, de ses #frontières, et de ceux qu’elle entend assimiler ou, au contraire, exclure au nom de la protection de ses #valeurs particulières.

    Longtemps absente de la vie démocratique de l’#Union_européenne (#UE), la question identitaire s’y est durablement installée depuis les années 2000. Si la volonté d’affirmer officiellement ce que « nous, Européens » sommes authentiquement n’est pas nouvelle, elle concernait jusqu’alors surtout – à l’instar de la Déclaration sur l’identité européenne de 1973 – les relations extérieures et la place de la « Communauté européenne » au sein du système international. À présent, elle renvoie à une quête d’« Européanité » (« Europeanness »), c’est-à-dire la recherche et la manifestation des #trait_identitaires (héritages, valeurs, mœurs, etc.) tenus, à tort ou à raison, pour caractéristiques de ce que signifie être « Européens ». Cette quête est largement tournée vers l’intérieur : elle concerne le rapport de « nous, Européens » à « nous-mêmes » ainsi que le rapport de « nous » aux « autres », ces étrangers et étrangères qui viennent et s’installent « chez nous ».

    C’est sous cet aspect identitaire qu’est le plus fréquemment et vivement discuté ce que l’on nomme la « #crise_des_réfugiés » et la « #crise_migratoire »

    L’enjeu qui ferait de l’#accueil des exilés et de l’#intégration des migrants une « #crise » concerne, en effet, l’attitude que les Européens devraient adopter à l’égard de celles et ceux qui leur sont « #étrangers » à double titre : en tant qu’individus ne disposant pas de la #citoyenneté de l’Union, mais également en tant que personnes vues comme les dépositaires d’une #altérité_identitaire les situant à l’extérieur du « #nous » – au moins à leur arrivée.

    D’un point de vue politique, le traitement que l’Union européenne réserve aux étrangères et étrangers se donne à voir dans le vaste ensemble de #discours, #décisions et #dispositifs régissant l’#accès_au_territoire, l’accueil et le #séjour de ces derniers, en particulier les accords communautaires et agences européennes dévolus à « une gestion efficace des flux migratoires » ainsi que les #politiques_publiques en matière d’immigration, d’intégration et de #naturalisation qui restent du ressort de ses États membres.

    Fortement guidées par des considérations identitaires dont la logique est de différencier entre « nous » et « eux », de telles politiques soulèvent une interrogation sur leurs dynamiques d’exclusion des « #autres » ; cependant, elles sont aussi à examiner au regard de l’#homogénéisation induite, en retour, sur le « nous ». C’est ce double questionnement que je propose de mener ici.

    En quête d’« Européanité » : affirmer la frontière entre « nous » et « eux »

    La question de savoir s’il est souhaitable et nécessaire que les contours de l’UE en tant que #communauté_politique soient tracés suivant des #lignes_identitaires donne lieu à une opposition philosophique très tranchée entre les partisans d’une défense sans faille de « l’#identité_européenne » et ceux qui plaident, à l’inverse, pour une « #indéfinition » résolue de l’Europe. Loin d’être purement théorique, cette opposition se rejoue sur le plan politique, sous une forme tout aussi dichotomique, dans le débat sur le traitement des étrangers.

    Les enjeux pratiques soulevés par la volonté de définir et sécuriser « notre » commune « Européanité » ont été au cœur de la controverse publique qu’a suscitée, en septembre 2019, l’annonce faite par #Ursula_von_der_Leyen de la nomination d’un commissaire à la « #Protection_du_mode_de_vie_européen », mission requalifiée – face aux critiques – en « #Promotion_de_notre_mode_de_vie_européen ». Dans ce portefeuille, on trouve plusieurs finalités d’action publique dont l’association même n’a pas manqué de soulever de vives inquiétudes, en dépit de la requalification opérée : à l’affirmation publique d’un « #mode_de_vie » spécifiquement « nôtre », lui-même corrélé à la défense de « l’#État_de_droit », « de l’#égalité, de la #tolérance et de la #justice_sociale », se trouvent conjoints la gestion de « #frontières_solides », de l’asile et la migration ainsi que la #sécurité, le tout placé sous l’objectif explicite de « protéger nos citoyens et nos valeurs ».

    Politiquement, cette « priorité » pour la période 2019-2024 s’inscrit dans la droite ligne des appels déjà anciens à doter l’Union d’un « supplément d’âme
     » ou à lui « donner sa chair » pour qu’elle advienne enfin en tant que « #communauté_de_valeurs ». De tels appels à un surcroît de substance spirituelle et morale à l’appui d’un projet européen qui se devrait d’être à la fois « politique et culturel » visaient et visent encore à répondre à certains problèmes pendants de la construction européenne, depuis le déficit de #légitimité_démocratique de l’UE, si discuté lors de la séquence constitutionnelle de 2005, jusqu’au défaut de stabilité culminant dans la crainte d’une désintégration européenne, rendue tangible en 2020 par le Brexit.

    Précisément, c’est de la #crise_existentielle de l’Europe que s’autorisent les positions intellectuelles qui, poussant la quête d’« Européanité » bien au-delà des objectifs politiques évoqués ci-dessus, la déclinent dans un registre résolument civilisationnel et défensif. Le geste philosophique consiste, en l’espèce, à appliquer à l’UE une approche « communautarienne », c’est-à-dire à faire entièrement reposer l’UE, comme ensemble de règles, de normes et d’institutions juridiques et politiques, sur une « #communauté_morale » façonnée par des visions du bien et du monde spécifiques à un groupe culturel. Une fois complétée par une rhétorique de « l’#enracinement » desdites « #valeurs_européennes » dans un patrimoine historique (et religieux) particulier, la promotion de « notre mode de vie européen » peut dès lors être orientée vers l’éloge de ce qui « nous » singularise à l’égard d’« autres », de « ces mérites qui nous distinguent » et que nous devons être fiers d’avoir diffusés au monde entier.

    À travers l’affirmation de « notre » commune « Européanité », ce n’est pas seulement la reconnaissance de « l’#exception_européenne » qui est recherchée ; à suivre celles et ceux qui portent cette entreprise, le but n’est autre que la survie. Selon #Chantal_Delsol, « il en va de l’existence même de l’Europe qui, si elle n’ose pas s’identifier ni nommer ses caractères, finit par se diluer dans le rien. » Par cette #identification européenne, des frontières sont tracées. Superposant Europe historique et Europe politique, Alain Besançon les énonce ainsi : « l’Europe s’arrête là où elle s’arrêtait au XVIIe siècle, c’est-à-dire quand elle rencontre une autre civilisation, un régime d’une autre nature et une religion qui ne veut pas d’elle. »

    Cette façon de délimiter un « #nous_européen » est à l’exact opposé de la conception de la frontière présente chez les partisans d’une « indéfinition » et d’une « désappropriation » de l’Europe. De ce côté-ci de l’échiquier philosophique, l’enjeu est au contraire de penser « un au-delà de l’identité ou de l’identification de l’Europe », étant entendu que le seul « crédit » que l’on puisse « encore accorder » à l’Europe serait « celui de désigner un espace de circulation symbolique excédant l’ordre de l’identification subjective et, plus encore, celui de la #crispation_identitaire ». Au lieu de chercher à « circonscri[re] l’identité en traçant une frontière stricte entre “ce qui est européen” et “ce qui ne l’est pas, ne peut pas l’être ou ne doit pas l’être” », il s’agit, comme le propose #Marc_Crépon, de valoriser la « #composition » avec les « #altérités » internes et externes. Animé par cette « #multiplicité_d’Europes », le principe, thématisé par #Etienne_Balibar, d’une « Europe comme #Borderland », où les frontières se superposent et se déplacent sans cesse, est d’aller vers ce qui est au-delà d’elle-même, vers ce qui l’excède toujours.

    Tout autre est néanmoins la dynamique impulsée, depuis une vingtaine d’années, par les politiques européennes d’#asile et d’immigration.

    La gouvernance européenne des étrangers : l’intégration conditionnée par les « valeurs communes »

    La question du traitement public des étrangers connaît, sur le plan des politiques publiques mises en œuvre par les États membres de l’UE, une forme d’européanisation. Celle-ci est discutée dans les recherches en sciences sociales sous le nom de « #tournant_civique ». Le terme de « tournant » renvoie au fait qu’à partir des années 2000, plusieurs pays européens, dont certains étaient considérés comme observant jusque-là une approche plus ou moins multiculturaliste (tels que le Royaume-Uni ou les Pays-Bas), ont développé des politiques de plus en plus « robustes » en ce qui concerne la sélection des personnes autorisées à séjourner durablement sur leur territoire et à intégrer la communauté nationale, notamment par voie de naturalisation. Quant au qualificatif de « civique », il marque le fait que soient ajoutés aux #conditions_matérielles (ressources, logement, etc.) des critères de sélection des « désirables » – et, donc, de détection des « indésirables » – qui étendent les exigences relatives à une « #bonne_citoyenneté » aux conduites et valeurs personnelles. Moyennant son #intervention_morale, voire disciplinaire, l’État se borne à inculquer à l’étranger les traits de caractère propices à la réussite de son intégration, charge à lui de démontrer qu’il conforme ses convictions et comportements, y compris dans sa vie privée, aux « valeurs » de la société d’accueil. Cette approche, centrée sur un critère de #compatibilité_identitaire, fait peser la responsabilité de l’#inclusion (ou de l’#exclusion) sur les personnes étrangères, et non sur les institutions publiques : si elles échouent à leur assimilation « éthique » au terme de leur « #parcours_d’intégration », et a fortiori si elles s’y refusent, alors elles sont considérées comme se plaçant elles-mêmes en situation d’être exclues.

    Les termes de « tournant » comme de « civique » sont à complexifier : le premier car, pour certains pays comme la France, les dispositifs en question manifestent peu de nouveauté, et certainement pas une rupture, par rapport aux politiques antérieures, et le second parce que le caractère « civique » de ces mesures et dispositifs d’intégration est nettement moins évident que leur orientation morale et culturelle, en un mot, identitaire.

    En l’occurrence, c’est bien plutôt la notion d’intégration « éthique », telle que la définit #Jürgen_Habermas, qui s’avère ici pertinente pour qualifier ces politiques : « éthique » est, selon lui, une conception de l’intégration fondée sur la stabilisation d’un consensus d’arrière-plan sur des « valeurs » morales et culturelles ainsi que sur le maintien, sinon la sécurisation, de l’identité et du mode de vie majoritaires qui en sont issus. Cette conception se distingue de l’intégration « politique » qui est fondée sur l’observance par toutes et tous des normes juridico-politiques et des principes constitutionnels de l’État de droit démocratique. Tandis que l’intégration « éthique » requiert des étrangers qu’ils adhèrent aux « valeurs » particulières du groupe majoritaire, l’intégration « politique » leur demande de se conformer aux lois et d’observer les règles de la participation et de la délibération démocratiques.

    Or, les politiques d’immigration, d’intégration et de naturalisation actuellement développées en Europe sont bel et bien sous-tendues par cette conception « éthique » de l’intégration. Elles conditionnent l’accès au « nous » à l’adhésion à un socle de « valeurs » officiellement déclarées comme étant déjà « communes ». Pour reprendre un exemple français, cette approche ressort de la manière dont sont conçus et mis en œuvre les « #contrats_d’intégration » (depuis le #Contrat_d’accueil_et_d’intégration rendu obligatoire en 2006 jusqu’à l’actuel #Contrat_d’intégration_républicaine) qui scellent l’engagement de l’étranger souhaitant s’installer durablement en France à faire siennes les « #valeurs_de_la_République » et à les « respecter » à travers ses agissements. On retrouve la même approche s’agissant de la naturalisation, la « #condition_d’assimilation » propre à cette politique donnant lieu à des pratiques administratives d’enquête et de vérification quant à la profondeur et la sincérité de l’adhésion des étrangers auxdites « valeurs communes », la #laïcité et l’#égalité_femmes-hommes étant les deux « valeurs » systématiquement mises en avant. L’étude de ces pratiques, notamment les « #entretiens_d’assimilation », et de la jurisprudence en la matière montre qu’elles ciblent tout particulièrement les personnes de religion et/ou de culture musulmanes – ou perçues comme telles – en tant qu’elles sont d’emblée associées à des « valeurs » non seulement différentes, mais opposées aux « nôtres ».

    Portées par un discours d’affrontement entre « systèmes de valeurs » qui n’est pas sans rappeler le « #choc_des_civilisations » thématisé par #Samuel_Huntington, ces politiques, censées « intégrer », concourent pourtant à radicaliser l’altérité « éthique » de l’étranger ou de l’étrangère : elles construisent la figure d’un « autre » appartenant – ou suspecté d’appartenir – à un système de « valeurs » qui s’écarterait à tel point du « nôtre » que son inclusion dans le « nous » réclamerait, de notre part, une vigilance spéciale pour préserver notre #identité_collective et, de sa part, une mise en conformité de son #identité_personnelle avec « nos valeurs », telles qu’elles s’incarneraient dans « notre mode de vie ».

    Exclusion des « autres » et homogénéisation du « nous » : les risques d’une « #Europe_des_valeurs »

    Le recours aux « valeurs communes », pour définir les « autres » et les conditions de leur entrée dans le « nous », n’est pas spécifique aux politiques migratoires des États nationaux. L’UE, dont on a vu qu’elle tenait à s’affirmer en tant que « communauté morale », a substitué en 2009 au terme de « #principes » celui de « valeurs ». Dès lors, le respect de la dignité humaine et des droits de l’homme, la liberté, la démocratie, l’égalité, l’État de droit sont érigés en « valeurs » sur lesquelles « l’Union est fondée » (art. 2 du Traité sur l’Union européenne) et revêtent un caractère obligatoire pour tout État souhaitant devenir et rester membre de l’UE (art. 49 sur les conditions d’adhésion et art. 7 sur les sanctions).

    Reste-t-on ici dans le périmètre d’une « intégration politique », au sens où la définit Habermas, ou franchit-on le cap d’une « intégration éthique » qui donnerait au projet de l’UE – celui d’une intégration toujours plus étroite entre les États, les peuples et les citoyens européens, selon la formule des traités – une portée résolument identitaire, en en faisant un instrument pour sauvegarder la « #civilisation_européenne » face à d’« autres » qui la menaceraient ? La seconde hypothèse n’a certes rien de problématique aux yeux des partisans de la quête d’« Européanité », pour qui le projet européen n’a de sens que s’il est tout entier tourné vers la défense de la « substance » identitaire de la « civilisation européenne ».

    En revanche, le passage à une « intégration éthique », tel que le suggère l’exhortation à s’en remettre à une « Europe des valeurs » plutôt que des droits ou de la citoyenneté, comporte des risques importants pour celles et ceux qui souhaitent maintenir l’Union dans le giron d’une « intégration politique », fondée sur le respect prioritaire des principes démocratiques, de l’État de droit et des libertés fondamentales. D’où également les craintes que concourt à attiser l’association explicite des « valeurs de l’Union » à un « mode de vie » à préserver de ses « autres éthiques ». Deux risques principaux semblent, à cet égard, devoir être mentionnés.

    En premier lieu, le risque d’exclusion des « autres » est intensifié par la généralisation de politiques imposant un critère de #compatibilité_identitaire à celles et ceux que leur altérité « éthique », réelle ou supposée, concourt à placer à l’extérieur d’une « communauté de valeurs » enracinée dans des traditions particulières, notamment religieuses. Fondé sur ces bases identitaires, le traitement des étrangers en Europe manifesterait, selon #Etienne_Tassin, l’autocontradiction d’une Union se prévalant « de la raison philosophique, de l’esprit d’universalité, de la culture humaniste, du règne des droits de l’homme, du souci pour le monde dans l’ouverture aux autres », mais échouant lamentablement à son « test cosmopolitique et démocratique ». Loin de représenter un simple « dommage collatéral » des politiques migratoires de l’UE, les processus d’exclusion touchant les étrangers constitueraient, d’après lui, « leur centre ». Même position de la part d’Étienne Balibar qui n’hésite pas à dénoncer le « statut d’#apartheid » affectant « l’immigration “extracommunautaire” », signifiant par là l’« isolement postcolonial des populations “autochtones” et des populations “allogènes” » ainsi que la construction d’une catégorie d’« étrangers plus qu’étrangers » traités comme « radicalement “autres”, dissemblables et inassimilables ».

    Le second risque que fait courir la valorisation d’un « nous » européen désireux de préserver son intégrité « éthique », touche au respect du #pluralisme. Si l’exclusion des « autres » entre assez clairement en tension avec les « valeurs » proclamées par l’Union, les tendances à l’homogénéisation résultant de l’affirmation d’un consensus fort sur des valeurs déclarées comme étant « toujours déjà » communes aux Européens ne sont pas moins susceptibles de contredire le sens – à la fois la signification et l’orientation – du projet européen. Pris au sérieux, le respect du pluralisme implique que soit tolérée et même reconnue une diversité légitime de « valeurs », de visions du bien et du monde, dans les limites fixées par l’égale liberté et les droits fondamentaux. Ce « fait du pluralisme raisonnable », avec les désaccords « éthiques » incontournables qui l’animent, est le « résultat normal » d’un exercice du pouvoir respectant les libertés individuelles. Avec son insistance sur le partage de convictions morales s’incarnant dans un mode de vie culturel, « l’Europe des valeurs » risque de produire une « substantialisation rampante » du « nous » européen, et d’entériner « la prédominance d’une culture majoritaire qui abuse d’un pouvoir de définition historiquement acquis pour définir à elle seule, selon ses propres critères, ce qui doit être considéré comme la culture politique obligatoire de la société pluraliste ».

    Soumis aux attentes de reproduction d’une identité aux frontières « éthiques », le projet européen est, en fin de compte, dévié de sa trajectoire, en ce qui concerne aussi bien l’inclusion des « autres » que la possibilité d’un « nous » qui puisse s’unir « dans la diversité ».

    https://laviedesidees.fr/L-Europe-et-la-fabrique-de-l-etranger
    #identité #altérité #intégration_éthique #intégration_politique #religion #islam

    • Politique de l’exclusion

      Notion aussi usitée que contestée, souvent réduite à sa dimension socio-économique, l’exclusion occupe pourtant une place centrale dans l’histoire de la politique moderne. Les universitaires réunis autour de cette question abordent la dimension constituante de l’exclusion en faisant dialoguer leurs disciplines (droit, histoire, science politique, sociologie). Remontant à la naissance de la citoyenneté moderne, leurs analyses retracent l’invention de l’espace civique, avec ses frontières, ses marges et ses zones d’exclusion, jusqu’à l’élaboration actuelle d’un corpus de valeurs européennes, et l’émergence de nouvelles mobilisations contre les injustices redessinant les frontières du politique.

      Tout en discutant des usages du concept d’exclusion en tenant compte des apports critiques, ce livre explore la manière dont la notion éclaire les dilemmes et les complexités contemporaines du rapport à l’autre. Il entend ainsi dévoiler l’envers de l’ordre civique, en révélant la permanence d’une gouvernementalité par l’exclusion.

      https://www.puf.com/politique-de-lexclusion

      #livre

  • Blockade von Leningrad : »Die schlimmen Zeiten sind nicht vergessen« 
    https://www.jungewelt.de/artikel/468044.blockade-von-leningrad-die-schlimmen-zeiten-sind-nicht-vergessen.ht


    Verteidiger der Stadt während der Blockade : Sowjetische Panzer auf der Urizkistraße (30.10.1942)

    Un entretien avec un des derniers survivants du siège de Léningrad. Le 27 janvier marque le quatre vingtième anniversaire de la fin de cet acte de barbarie allemand.

    Aujourd’hui en Allemagne on préfère commémorer la libération du camp d’Auschwitz exactement un an plus tard en évitant autant que possible de parler des soldats de l’armée rouge. On plaint les juifs assassinés et passe sous silence le crime contre les citoyens de l’Union Soviétique qui a couté la vie à vingt fois plus d’hommes, femmest et enfants.

    27.1.2024 von Arnold Schölzel - Sie haben die Leningrader Blockade überlebt. Wie viele Überlebende gibt es in Berlin?

    Allein hier sind wir 40 bis 45 Menschen, in der Bundesrepublik etwa 300. Wir haben uns in der Vereinigung »Lebendige Erinnerung« zusammengeschlossen und arbeiten mit dem »Club Dialog« im Wedding und der Stiftung »Erinnerung, Verantwortung und Zukunft« zusammen. Bis zur Pandemie feierten wir den Jahrestag der Befreiung Leningrads stets im Haus der Russischen Kultur, aber das ist jetzt nicht mehr möglich. Einige wenige fliegen auch in diesem Jahr auf Einladung des Gouverneurs von St. Petersburg dorthin, um den 80. Jahrestag der Befreiung Leningrads zu feiern. Überlebende der Blockade leben überall auf der Welt.

    Wie begehen Sie im »Club Dialog« den Jahrestag?

    Wir hören dort ein Fragment der »Leningrader Sinfonie« von Dmitri Schostakowitsch, die er zu Beginn der Blockade komponiert hat und die am 9. August 1942 in Leningrad aufgeführt wurde. Wir gedenken vor allem der Toten. Niemand weiß, wie viele es letztlich waren. Die Schätzungen reichen von 600.000 bis 1,2 Millionen Menschen. Sie starben durch Hunger, Kälte, Bomben und viele andere Ursachen. Heute wissen hier allerdings viele junge Menschen kaum noch, dass St. Petersburg und Leningrad dieselbe Stadt sind.

    Sie waren am 22. Juni 1941 zwölf Jahre alt. Wie haben Sie den Kriegsbeginn erlebt?

    Ich war an jenem Tag in einem Pionierferienlager, gut 20 Kilometer von Leningrad entfernt. Es war für Kinder von Mitarbeitern der großen Leningrader Textilfabrik »Rotes Banner«. Dort arbeitete mein Großvater, denn ich lebte bei meinen Großeltern. Meine Eltern waren unterwegs auf Großbaustellen des sozialistischen Aufbaus, vor allem in den großen Kraftwerken am Wolchow und am Swir. Bis 1936 war ich im Sommer manchmal zwei Monate bei ihnen, dann ging es zurück zu Opa und Oma. 1936 sollte ich auf einmal bei den Eltern bleiben und zur Schule gehen, das war in Staraja Russa. Als ich einen Monat lang die Schule geschwänzt hatte, durfte ich zurück. Ich hatte vier Klassen absolviert, als der Krieg kam.

    Was passierte im Ferienlager?

    Es herrschte Chaos. Nach einigen Tagen kamen viele Mütter und holten unter Klagen und Weinen ihre Kinder ab, zurück blieben ungefähr zehn bis 15 Kinder, darunter ich. Zu mir kam niemand, und ich war sehr unglücklich. Die Lagerleiter erklärten uns nichts, wir hatten nur Zeitungen. Irgendwann entschloss ich mich, allein nach Leningrad zu fahren. Wir waren ja nicht weit weg, aber für mich als Kind war das eine lange Reise. Zum Glück holte mich mein Opa am Bahnhof ab, meine Oma war leider im Januar 1941 gestorben.

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    Meine Mutter sah ich erst nach zehn Jahren 1946 wieder. Sie lebte damals in Wologda, nördlich von Moskau. Von den Behörden hatte sie die Mitteilung erhalten, dass mein Vater bei der Verteidigung Leningrads drei Tage vor dem Ende der Blockade, am 24. Januar 1944, getötet worden war. Er hatte in Jelisawetino, etwa 70 Kilometer südwestlich der Stadt, eine Artilleriestellung kommandiert. Sie erhielt einen Volltreffer, alle fünf Soldaten waren tot. Meine Mutter bekam eine sehr kleine staatliche Unterstützung und arbeitete als Grundschullehrerin. Aber es reichte nicht, um meine drei jüngeren Geschwister zu ernähren. Sie lebten in einem Kinderheim.

    Der Winter 1941/42 war mit bis zu minus 40 Grad extrem kalt. Wie haben Sie und Ihre Familie überlebt?

    Uns halfen vor allem eine Cousine und ein Onkel, der beim Militär war: Sie teilten ihre Lebensmittelrationen mit uns. Aber es war schwer: Im November kam der Befehl, alle Holzzäune und Holzhäuser für Heizung zur Verfügung zu stellen. Wir mussten das Haus, in dem wir wohnten, aufgeben, und zogen alle zusammen in ein Zimmer. Zum Glück waren einige wegen ihrer militärischen Verpflichtungen nur selten da. Das Zimmer war Teil einer Gemeinschaftswohnung, einer Kommunalka, und wurde von einer Granate getroffen, die zwar nicht explodierte, aber es in der Kälte unbewohnbar machte. Wir zogen ein Haus weiter – es gab bereits viele leerstehende Wohnungen. Ich wurde im Februar 1942 zusammen mit meiner Tante und deren Kindern in ein sibirisches Dorf evakuiert, 120 Kilometer südlich der Gebietshauptstadt Tscheljabinsk in der Nähe der kasachischen Grenze. Dort arbeiteten alle in einer Molkerei und ich von Mai bis Ende September als Schafhirte. 1944 hatte ich die Verantwortung für 533 Schafe. Im Kolchos sagten sie, ich müsse das übernehmen, weil ich ein belesener Mensch sei – ich war ständig mit einem Buch unterwegs.

    Die Blockade beendete Ihre Schulbildung?

    Es gab in Leningrad nur wenige Schulen, die weiterarbeiten konnten – vor allem für Jüngere. Ende 1944 hörte ich eines Tages in unserem Dorfrundfunk, der täglich zweimal jeweils 30 Minuten sendete, einen Aufruf: Moskauer und Leningrader Bildungseinrichtungen fordern dazu auf, sich im Januar und Februar 1945 für die ersten Kurse einzuschreiben. Wir erhielten eine Genehmigung, nach Leningrad zu fahren, und kamen im Februar 1945 dort an. In der Marineschule, für die ich mich beworben hatte, gab es aber eine böse Überraschung: Bei der Musterung stellte der Augenarzt bei mir Astigmatismus fest, eine Hornhautverkrümmung. Das war’s.

    Unserer Regierung war aber klar, dass nach dem Krieg Zehntausende, wenn nicht Hunderttausende Kinder und Jugendliche ihre unterbrochene Bildung und Ausbildung fortsetzen wollten. Ich wurde schließlich von einer Fachschule, die Funktechniker ausbildete, angenommen. Der Unterricht und die Ausbildung dort waren allerdings hart, sehr hart, ein halbes Jahr militärischer Ausbildung gehörte dazu. Dort erhielt ich 1949 mein erstes Abschlusszeugnis.

    Sie machten weiter?

    Ich wollte zur Hochschule. Das hieß: Arbeit und zugleich Studium. Das allein war schon anstrengend, aber hinzu kamen die schlimmen Wohnverhältnisse. 1952 heiratete ich meine Frau, stand aber noch bis 1955 auf der Liste der Wohnungssuchenden. Plötzlich erhielten wir ein Zimmer in einer Kommunalka. Zu den Schwierigkeiten gehörte auch: Menschen jüdischer Herkunft waren in den 50er Jahren bestimmte Arbeitsbereiche, gerade in der Nachrichtentechnik und der Militärtechnik insgesamt, verschlossen. Auf mich kam aber irgendwann ein Freund zu und forderte mich auf, in seinem Forschungsinstitut anzufangen. Es stellte sich heraus, dass es um Funktechnik zur Steuerung und Abwehr von Raketen ging, also ein Gebiet, das strenger Geheimhaltung unterlag, auf dem aber Tausende Menschen arbeiteten.

    Vom Blockadekind und Schafhirten zum Spitzenwissenschaftler?

    In den 60er Jahren begann ich eine Aspirantur, das war in der Sowjetunion ein Weg zur Promotion, wurde Dozent und schließlich Professor, erhielt viele Auszeichnungen. Nach meinem 60. Geburtstag und der Pensionierung wollten meine Frau und ich unserem Sohn nach Berlin folgen, ich nicht so sehr, aber meine Frau hatte hier eine ihr nahestehende Cousine, die in der DDR Generaldirektorin der Nachrichtenagentur ADN gewesen war. 1993 konnten wir ausreisen. Übrigens habe ich auch hier vor einem Jahr für meine ehrenamtliche Tätigkeit einen Orden erhalten, das Bundesverdienstkreuz. Das ist unter uns ehemaligen Sowjetbürgern selten.

    Wie empfinden Sie den Umgang mit dem Zweiten Weltkrieg und der Blockade Leningrads in der Bundesrepublik?

    Das ist nicht einfach. Ich habe dazu nicht wissenschaftlich gearbeitet und kann nur meine persönliche Meinung sagen: Die Leute in Deutschland wissen zumeist nichts davon und verstehen auch nichts. Jetzt herrscht dieser Krieg in der Ukraine, und ich höre, dass die Ukraine ihn gewinnen muss. Ich vermeide, darüber zu sprechen, denn die Menschen, die diesen Krieg führen, haben die schlimmen Ereignisse und Zeiten von damals vergessen. Wir Überlebende hören junge Leute sagen: »Die Krim gehört uns.« Ich finde das alles nicht richtig. Ich bin gegen Krieg, alle Menschen sollten in Frieden leben können, sollten Arbeit und Erholung haben. In unserem »Club Dialog« erzählen Zeitzeugen wie ich zu den Jahrestagen des Zweiten Weltkrieges davon. Wir arbeiten weiter, denn niemand ist vergessen und nichts ist vergessen.

    Leonid Berezin wurde 1929 in Sibirien geboren, kam aber als Kleinkind nach Leningrad. Er überlebte die Blockade der Stadt und arbeitete dort Jahrzehnte im Zentralen Forschungsinstitut für Schiffsinstrumente an Waffentypen, über die der Westen nicht verfügte. Seit 1992 lebt er in Berlin

    Siège de Léningrad
    https://fr.m.wikipedia.org/wiki/Si%C3%A8ge_de_L%C3%A9ningrad

    #URSS #Alkemagne #guerre #histoire

  • Les nouvelles du samedi 20:42
    https://framablog.org/2024/01/27/les-nouvelles-du-samedi-2042

    Pour achever cette semaine, deux nouvelles de 2042 concoctées avec amour par les participant⋅es des ateliers #solarpunk #UPLOAD de l’Université Technologique de #Compiègne (UTC). En 2042, on rénove et on en profite pour faire autrement, que ce soit à la … Lire la suite­­

    #Communs_culturels #Enjeux_du_numérique #UPLOAD #Agriculture #amiante #atelier #bâtiment_passif #briques #désamiantage #durabilité #écriture #empreinte_carbone #éolien #ferme #fromage #hangar #high-tech #LowTech #nouvelle #PMR #rénovation #solaire #Solarpunk #urbanisme_durable #UTC

  • Face à la vague de froid en Ile-de-France, la détresse de jeunes exilés « ni majeurs ni mineurs » aux yeux de l’Etat
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/01/19/face-a-la-vague-de-froid-en-ile-de-france-la-detresse-de-jeunes-exiles-ni-ma

    Face à la vague de froid en Ile-de-France, la détresse de jeunes exilés « ni majeurs ni mineurs » aux yeux de l’Etat
    Par Fatoumata Sillah
    Lasso Camara a regardé, dans un froid glacial, les flocons de neige recouvrir Paris dans la nuit de mercredi à jeudi. Le thermomètre est descendu jusqu’à − 5 °C. Paire de gants, chaussettes, pulls et couette issus de dons ne suffisent pas à le réchauffer. Le jeune Guinéen de 17 ans, arrivé à Paris il y a trois semaines, dort dans une tente sous le pont de Notre-Dame, en face de la Seine, et ce, depuis le mardi 9 janvier. C’était sa première nuit dehors, alors qu’une vague de froid touchait déjà l’Hexagone avec des températures négatives sur presque tout le territoire. L’adolescent n’a pas trouvé de solution d’hébergement d’urgence.
    Aux yeux des associations, Lasso est un « mijeur » (contraction de mineur et majeur). Aux yeux de l’Etat, il n’entre dans aucune case administrative. Ni officiellement mineurs ni majeurs, ces exilés n’ont pas obtenu la reconnaissance de leur minorité à leur arrivée en France, après une évaluation du département où ils ont tenté leur chance. Leurs documents d’identité, quand ils en ont, les preuves écrites de leurs parcours, ainsi que leurs récits, témoignent pourtant du contraire. S’ensuit alors une bataille administrative durant laquelle ils sont exclus des dispositifs de protection de l’enfance et ne peuvent prétendre aux aides réservées aux majeurs.
    « Des évaluateurs partent du principe que ces jeunes sont malhonnêtes », plutôt que de prouver leur minorité, « ils vont tenter de prouver qu’ils mentent et qu’ils sont incohérents », analyse Patricia Mothes, maîtresse de conférences en sciences de l’éducation à l’Institut catholique de Toulouse, dont les recherches portent notamment sur la scolarisation des enfants migrants.
    Après que le plan Grand Froid a été déclenché, le gouvernement a annoncé le déblocage d’une enveloppe correspondant à 10 000 places supplémentaires d’hébergement d’urgence en Ile-de-France. Paris a ouvert un gymnase pour mettre à l’abri cinquante jeunes durant quelques jours. Mais Lasso n’a pas obtenu de place. Ni lui, ni la centaine de migrants de toutes nationalités qui dorment dans les trente-neuf tentes de son campement, ou les près de six cents autres dispersés dans au moins une vingtaine de sites, identifiés par l’association de défense des exilés Utopia 56, dans Paris et sa première couronne.
    Le 115, numéro d’urgence pour les personnes sans abri, est, lui, saturé. « Quand on l’appelle, on ne nous répond pas, ou on nous rappelle que seuls les majeurs sont pris en charge. Quand on appelle le 119 [service de protection d’enfants en danger], personne ne vient nous chercher », rapporte Yacoub Cissé, 16 ans et voisin de Lasso. Alors, c’est la rue et pendant les épisodes de grand froid, « vraiment, c’est dur ». « Moi, j’ai cru que j’étais à la limite de mourir cette nuit. Il faisait tellement froid », témoigne, toujours choqué, Sekouba Traoré, 16 ans. Dans une boucle WhatsApp dédiée aux jeunes et aux familles qui campent dehors, Utopia 56 a diffusé des messages audio expliquant comment reconnaître une hypothermie et appeler les secours. Quand le jour se lève, Lasso, Yacoub et lui s’affairent à trouver des couches de vêtement en plus pour les prochaines nuits, si possible une couette et une couverture de survie pour le toit de la tente. « J’aimerais bien avoir au moins trois couvertures et plus de chaussettes », dit Lasso, qui espère, autrement, récupérer le duvet d’un de ses compagnons, là depuis plus longtemps, auquel il souhaite d’être enfin pris en charge par l’aide sociale à l’enfance.
    A Utopia 56, « on fait des maraudes chaque soir », raconte Alice Bertrand, chargée des mineurs non accompagnés au sein de l’association. Dans la nuit de mercredi 17 à jeudi 18 janvier, trois bénévoles d’une vingtaine d’années font le tour de l’est et du centre de la capitale. « Bonsoir, c’est Utopia, on a du thé et du café », annoncent-ils à leur arrivée dans les campements qu’ils ont identifiés en amont. En anglais, en français ou avec des traducteurs, selon la langue de leurs interlocuteurs, « avez-vous besoin de gants, manteaux ou chaussures ? », demandent Elias Hufnagel, Maëlle Foix et Thomas Dufermont.
    Dans leur voiture, ils ont des cartons de produits d’hygiène, de vêtements, quelques Sheltersuit, cette veste imperméable et coupe-vent qui peut se transformer en combinaison une fois zippée sur un sac de couchage, et des tentes. Même si Alice Bertrand et Thomas Dufermont constatent que les dons ont été nombreux cet hiver, les dix-neuf tentes que les bénévoles peuvent distribuer sont insuffisantes par rapport à la demande. « En ce moment, nous comptons entre 90 et 150 nouveaux mineurs non accompagnés par semaine », selon Alice Bertrand. Utopia se prépare par ailleurs à récupérer – « aujourd’hui, demain, on ne sait pas » – les jeunes à l’abri dans le gymnase ouvert à Paris lorsque le plan Grand Froid sera désactivé et qu’ils se retrouveront à la rue. Des tentes leur seront données pour leur première nuit.
    En France, il n’existe aucune donnée fiable sur le nombre précis de mineurs non accompagnés présents sur le territoire, selon l’ONG Médecins du monde. Le ministère de la justice communique seulement sur le nombre de jeunes pris en charge par l’aide sociale à l’enfance. En 2022, ils étaient 14 782, pour la plupart originaires de Côte d’Ivoire, de Guinée, de Tunisie, du Mali, d’Afghanistan ou encore du Bangladesh. L’association médicale et humanitaire estime toutefois que, dans 70 % des cas, la prise en charge est rejetée. Ces jeunes doivent faire une demande de recours pour que leur minorité soit finalement reconnue et faire valoir leur droit à être mis à l’abri. Le délai entre la saisine du juge des enfants et sa décision varie selon le département. « A Créteil, dans le 94 [Val-de-Marne], ça peut aller jusqu’à sept mois », d’après Renaud Mandel, de l’organisation Accompagnement et défense des jeunes isolés étrangers (Adjie). Le dossier de Lasso est à Créteil. Dans six mois et huit jours, il devra s’y représenter pour une première audience avec un juge. A l’issue de celle-ci, le magistrat peut demander des investigations complémentaires, comme un examen de maturation osseuse, pouvant prolonger de plusieurs semaines la décision, ou se prononcer. En attendant, Lasso sait qu’il continuera de dormir dehors. « On s’y habitue », lâche-t-il.
    Le traitement de ces jeunes migrants avant la reconnaissance de leur minorité ou lors de leur recours juridique est dénoncé par de nombreuses ONG, qui estiment que la Convention internationale des droits de l’enfant n’est pas respectée. La Cour européenne des droits de l’homme avait aussi condamné la France, en 2019, pour avoir infligé un « traitement dégradant » à un mineur isolé afghan lorsqu’il était en France. Cet enfant, âgé de 11 ans à l’époque, n’avait pas été pris en charge par les autorités. Il avait vécu environ six mois dans le bidonville de Calais (Pas-de-Calais). Unicef France a également interpellé la France à plusieurs reprises sur la situation de ces jeunes.
    L’Adjie a, de son côté, alerté, une nouvelle fois, la Mairie de Paris, en vain. « Nous vous demandons de bien vouloir, en urgence, demander la prise en charge de ces jeunes » face « à la situation de danger du fait de leur minorité et de leur isolement ». La vague de froid « ajoute un danger potentiel de mort pour ces jeunes aux organismes déjà affaiblis par de longues semaines d’errance dans les rues de la capitale », a écrit Renaud Mandel à Anne Hidalgo et Dominique Versini, l’adjointe à la maire de Paris en charge des droits de l’enfant et de la protection de l’enfance. « Avant on avait une réponse, maintenant plus personne nous répond », regrette-t-il. Dominique Versini n’a pas répondu aux sollicitations du Monde. Pas plus que le ministère du logement, dont le cabinet est vide dans l’attente de la nomination de toute l’équipe du gouvernement de Gabriel Attal. L’adjointe à la maire de Paris en charge des solidarités, de l’hébergement d’urgence et de la protection des réfugiés, Léa Filoche, renvoie, elle, vers l’Etat.

    #Covid-19#migrant#migration#france#MNA#hebergement#urgence#ASE#ong#campement#minorite#iseolement#sante

  • « L’hospitalisation sous contrainte est trop souvent la porte d’entrée dans les soins psychiatriques », Martine Frager-Berlet, administratrice de l’association Les ailes déployées

    En tant que mère d’un fils soigné en #psychiatrie depuis plus de vingt ans et membre active d’associations de familles concernées, le débat suscité par l’accusation de « laxisme » dirigée contre la psychiatrie, faisant suite à des faits divers sanglants, me fait réagir vivement. « La France est le pays qui détient le record des hospitalisations sous contrainte », répondent des responsables, et cette affirmation est malheureusement vraie, ce que l’on devrait plutôt déplorer.
    Les personnes atteintes de maladies psychiques sévères – environ 3 millions en France – ne demandent pas spontanément des #soins, au moins pendant une première période de leur maladie chronique, parfois pendant plusieurs années. Le plus souvent, ce sont leurs proches qui contactent les services de psychiatrie, mais ceux-ci demandent que la personne malade vienne elle-même au centre médico-psychologique (CMP) de son quartier. La plupart du temps, quand elle va mal, elle ne veut pas y aller.

    Il faut donc attendre que la situation, dont les proches s’inquiètent, devienne intenable pour que des services interviennent – non pas les services de psychiatrie mais la #police ou les pompiers s’ils se reconnaissent compétents. Il faut pour cela une mise en danger ou une infraction. A ce moment-là, plusieurs semaines, plusieurs mois, ou même plusieurs années, peuvent s’être écoulés depuis la première alerte. La « crise » devient alors une « urgence », qui seule est considérée par les services de psychiatrie comme justifiant d’imposer au malade une hospitalisation.

    Des interrogations sur les missions de la psychiatrie

    Cette procédure est, de fait, la seule en vigueur en France pour apporter des soins à un malade psychique qui ne reconnaît pas sa maladie. L’hospitalisation sous contrainte est trop souvent la porte d’entrée dans les soins psychiatriques. Quand le patient sort de l’hôpital et retourne vivre dans son logement ou chez ses proches, il n’est pas seul, il a son ordonnance, sur laquelle sont inscrits les médicaments qu’il doit prendre.
    A-t-il compris qu’il est malade, accepte-t-il de se reconnaître comme tel et qu’il doit se soigner pour ne pas rechuter ? Là n’est pas la question selon l’hôpital : il faut libérer son lit et il a rendez-vous au CMP un mois plus tard. Va-t-il y aller ? Pendant combien de temps prendra-t-il son traitement ? Les rechutes sont fréquentes et elles se traduisent par une nouvelle hospitalisation sous contrainte, retour à la « case départ ». Il n’est donc pas étonnant que ce type d’hospitalisation soit très fréquent en France. Cela signifie-t-il que la psychiatrie a assuré ses missions ?

    Le code de la #santé_publique prévoit que les services de psychiatrie doivent assurer « un recours de proximité en soins psychiatriques (…) y compris sous forme d’intervention à domicile (…) Ils mettent à la disposition de la population (…) des services et des équipements de prévention, de diagnostic, de soins, de réadaptation et de réinsertion sociale ». Et « dans chaque territoire de santé, l’agence régionale de santé organise un dispositif de réponse aux urgences psychiatriques ». Or, on l’aura compris, ce n’est clairement pas le cas.

    Une maltraitance institutionnelle

    Les hospitalisations sous contrainte, intervenant lorsque la crise est devenue aiguë, donnent lieu souvent à une mise à l’#isolement et parfois sous #contention (le malade est attaché à son lit) dans des conditions qui sont peu respectueuses de la dignité, ni même des textes applicables.

    La loi du 26 janvier 2016 prévoit en effet que « l’isolement et la contention sont des pratiques de dernier recours. Il ne peut y être procédé que pour prévenir un dommage immédiat ou imminent pour le patient ou autrui, sur décision d’un #psychiatre, prise pour une durée limitée ». Ces « soins » psychiatriques sont très mal vécus par les patients et ils aggravent le désordre psychique et le rejet des soins : ils constituent, dans les établissements qui les pratiquent encore, une maltraitance institutionnelle.

    Que faire alors ? Intervenir dès que l’alerte est donnée, accompagner l’entourage qui a besoin de comprendre ce qu’il se passe, venir à domicile avant que la personne ne soit en crise aiguë sont des recommandations qui ont fait leur preuve. Après la crise, on le sait, le traitement chimique ne suffit pas, les patients ont aussi besoin dans la durée de #psychothérapies, d’#activités thérapeutiques (incluant le corps), de pédagogie sur leur maladie (#psychoéducation), de contacts avec des malades rétablis (#pair-aidance), de groupes de parole, de projets qui les tirent vers l’envie de se soigner.

    Favoriser l’inclusion dans la société

    Aujourd’hui, ici et là en France, des initiatives sont prises pour des soins psychiatriques de qualité, pourquoi sont-ils le fait de telle équipe motivée et volontaire au lieu d’être généralisés ? On l’oublie trop souvent : l’objectif de la psychiatrie ne se résume pas à empêcher la personne malade de nuire aux autres ou de se nuire à elle-même mais elle doit viser en priorité à favoriser le rétablissement, c’est-à-dire la capacité d’agir de cette personne, afin de favoriser son inclusion dans la société.
    Si des soins sont prodigués dès les premières alertes, un rétablissement durable se produira plus rapidement. Enfin, la « prévention des maladies psychiques » passe par l’information et la déstigmatisation de ces maladies du cerveau qui n’ont rien de plus honteux que les autres.

    Pour conclure, quelques lignes extraites d’un texte écrit par mon fils au sujet de sa première hospitalisation sous contrainte, que je cite avec son autorisation : « Mon droit à la dignité a directement été violé car j’ai été déshabillé de force par deux infirmiers, j’appelle ça une humiliation… Le monde nous laissait en plan, la vie à l’état statique. L’inexistence. Tout sauf du soin et de l’humanité. »

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/18/l-hospitalisation-sous-contrainte-est-trop-souvent-la-porte-d-entree-dans-le

    #urgences_psychiatriques #hospitalisations_sous_contrainte

  • Hôpital public : « Quand la situation est dégradée au point de mettre les patients en danger, c’est un devoir moral de dénoncer l’inacceptable »

    Alors que le 13 janvier, au CHU de Dijon, Gabriel Attal a promis de mettre l’hôpital en haut de la pile des problèmes à résoudre, un collectif rassemblant plus de 230 médecins, soignants et personnels hospitaliers dénonce, dans une tribune au « Monde », la répression qui s’abat sur celles et ceux qui alertent sur les dysfonctionnements.

    Irène Frachon a permis la condamnation du laboratoire Servier en appel le 20 décembre 2023. C’est la victoire de la « fille de Brest » – et celle de milliers de victimes – qui a réussi à montrer qu’elle avait raison de s’être attaquée au si puissant lobby pharmaceutique. Elle restera un exemple pour ces femmes et ces hommes, souvent anonymes, témoignant de la situation catastrophique de l’#hôpital public.
    Ces lanceurs d’alerte, impliqués au quotidien auprès des #patients, ne voulant rien d’autre que d’être entendus, ont pourtant été punis de leur bonne foi. Sébastien Harscoat à Strasbourg, ou Caroline Brémaud à Laval le savent : alerter, pour le bien de la communauté, est dangereux. Les lanceurs d’alerte, pour le sociologue Francis Chateauraynaud, auteur de Alertes et lanceurs d’alerte (« Que sais-je ? », PUF, 2020), ne sont pas les dénonciateurs de fautes, de fraudes ou de mauvais traitements, mais des personnes ou des groupes qui, rompant le silence, signalent l’imminence, ou la simple possibilité, d’un enchaînement catastrophique.

    C’est exactement ce qui se passe à l’hôpital public. Depuis quelques années, aides-soignantes, infirmières, secrétaires médicales, psychologues, assistantes sociales, cadres de santé, patients, médecins, chefs de service… témoignent de la dégradation de l’#accès_aux_soins et de l’hôpital public. Ils alertent les pouvoirs publics, les élus et les patients présents, ou futurs, par la presse et les réseaux sociaux, sur la situation de notre système de #santé, espérant arrêter la spirale infernale. Pénuries de personnel, accueils inadéquats des patients, pertes de chance, voire morts inattendues ou évitables, sont désormais médiatisés.

    En 2022 une #surmortalité de 50 000 décès a été constatée par l’Insee. Aujourd’hui, plus personne, même le gouvernement, ne nie la dégradation de l’hôpital public et de l’accès aux soins pour tous. Brigitte Bourguignon, éphémère ministre de la santé, avait qualifié les collectifs d’hospitaliers et d’usagers d’ « oiseaux de mauvais augure », mais les collectifs de défense de l’hôpital public ne sont pas des prophètes de malheur : ils sont des optimistes voulant sauver notre système public.

    7 000 lits ont été fermés en 2022
    Ils dénoncent la communication mensongère sur des milliards providentiels qui ne sont que l’addition de fonds alloués au privé et au public sur la prochaine décennie, et rappellent les faits : on ne compte plus le nombre de services d’urgences « régulés » pour ne pas dire fermés (163 sur 389 à l’été 2023), les files d’attente de brancards sur les parkings des hôpitaux – à Strasbourg, le parking a vu pour Noël se monter une tente pour accueillir les patients –, l’attente prolongée des patients les plus âgés entraînant une surmortalité de 4 %.

    Et pourtant, près de 7 000 lits ont encore été fermés en 2022, et 3 milliards d’économies sont prévues en 2024. Les établissements hospitaliers doivent administrer sur des objectifs comptables, les #soignants continuent à fuir (50 % de départ des infirmières à dix ans de carrière) et près du tiers des postes de médecins hospitaliers sont vacants.

    Les lanceurs d’alerte qui s’exposent pour défendre l’institution, au lieu d’être écoutés, sont maintenant punis, sous prétexte d’un #devoir_de_réserve évoqué à chaque fois qu’une alerte est lancée. Ils sont parfois mis à l’écart ou démis de leurs chefferies de service (comme Caroline Brémaud à Laval), subissent sans « réserve » entretiens de recadrage (comme Sébastien Harscoat), audits internes à charge, blocages de mutation de service.

    Une situation indigne d’une démocratie sanitaire
    Les exemples se multiplient, pas toujours médiatisés par peur des #sanctions, obligeant certains à quitter leur service, leur hôpital voire l’hôpital public pour lequel ils s’étaient pleinement investis. Pourtant, la loi les protège. La loi du 21 mars 2022 précise : « Un lanceur d’alerte est une personne physique qui signale ou divulgue, sans contrepartie financière directe et de bonne foi, des informations portant sur un crime, un délit, une menace ou un préjudice pour l’intérêt général (…). » C’est de cela qu’il s’agit, quand certains de nos « héros d’un jour » risquent leur carrière hospitalière pour défendre la santé, comprise comme bien commun.

    Quand la situation est dégradée au point de mettre les patients en danger, c’est un devoir moral de dénoncer l’inacceptable. A l’inverse, le silence est coupable et doit être questionné, y compris pour les directions hospitalières soumises directement à des injonctions insoutenables. Mettre la poussière sous le tapis, cacher les brancards derrière des paravents et faire taire les lanceurs d’alerte est indigne d’une démocratie sanitaire, de ce qu’on doit à la population. Interdire de mettre des mots sur les maux n’est pas un remède ; c’est une faute, comme étouffer la réalité avec le sophisme du pire.

    Les collectifs de défense de l’hôpital public et de notre système de santé universel demandent que ces actions d’intimidations voire de représailles cessent et que tous ensemble nous puissions travailler sereinement pour la sauvegarde de ce qui était jadis, selon l’Organisation mondiale de la santé (OMS), le meilleur système de santé du monde. Alerter est la première étape de la reconstruction et non, comme certains dirigeants veulent nous faire croire, la dernière étape de l’effondrement.

    Les premiers signataires : Philippe Bizouarn, anesthésiste-réanimateur, CHU Nantes, Collectif inter-hôpitaux ; Caroline Brémaud, urgentiste, CH Laval ; Sophie Crozier, neurologue, CHU de la Pitié-Salpétrière, Collectif inter-hôpitaux ; Sebastien Harscoat, urgentiste, CHU Strasbourg, Collectif inter-hôpitaux ; Véronique Hentgen, pédiatre, CH Versailles, Collectif inter-hôpitaux ; Corinne Jacques, aide-soignante, Collectif inter-urgences ; Cécile Neffati, psychologue, CH Draguignan, Collectif inter-hôpitaux ; Sylvie Pécard, IDE, CHU Saint-Louis, Collectif inter-hôpitaux ; Vincent Poindron, médecine interne, CHU Strasbourg, Collectif inter-hôpitaux ; Pierre Schwob, IDE Collectif inter-urgences.
    Liste complète des signataires : https://vigneaucm.wordpress.com/2024/01/15/signataires-tribune-le-monde-lanceurs-dalerte

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/15/hopital-public-quand-la-situation-est-degradee-au-point-de-mettre-les-patien

    • @CollectInterHop
      https://twitter.com/CollectInterHop/status/1746981442524000465

      En attendant des mesures concrètes pour l’hôpital, aux #urgences

      6 heures d’attente et 50 brancards dans les couloirs : les urgences du CHU de Dijon saturées
      https://france3-regions.francetvinfo.fr/bourgogne-franche-comte/cote-d-or/dijon/6-heures-d-attente-50-brancards-dans-les-couloirs-les-u

      Selon la Fédération hospitalière de France (FHF), la situation dans les services d’urgences s’est dégradée de 41 % cette année par rapport à 2022. Quant à l’accès aux lits d’hospitalisation, la situation s’est détériorée de 52 % en un an d’après la FHF.

      #lits #brancards

    • Santé : Gabriel Attal critiqué pour sa « communication trompeuse » sur les 32 milliards d’euros supplémentaires annoncés
      https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/01/15/sante-gabriel-attal-critique-pour-sa-communication-trompeuse-sur-les-32-mill

      En visite samedi au CHU de Dijon, le premier ministre a chiffré à « 32 milliards d’euros supplémentaires » sur les « cinq ans à venir (…) l’investissement » prévu dans le système de soins. Une non-annonce qui a suscité de sévères réactions des professionnels du secteur.

      S’il s’agissait d’envoyer un signal positif au secteur de la santé, ça n’a pas marché. Quarante-huit heures après le premier déplacement, samedi 13 janvier, du nouveau chef du gouvernement, Gabriel Attal, dans un hôpital, le scepticisme n’a fait que croître chez les acteurs du soin. En cause : un « coup de communication » peu apprécié par une communauté professionnelle sous tension.

      En visite au centre hospitalier universitaire de Dijon, M. Attal a chiffré, devant la presse, à « 32 milliards d’euros supplémentaires » sur les « cinq ans à venir (…) l’investissement » prévu dans le système de soins. « Je le dis, notre hôpital et nos soignants, c’est un trésor national », a-t-il affirmé, aux côtés de la nouvelle ministre chargée de la santé, Catherine Vautrin.

      L’annonce a, de prime abord, semblé conséquente. Etait-ce là une nouvelle « enveloppe » fortement attendue dans un secteur en crise depuis des mois ? La question a résonné dans les médias. Avant que l’entourage du premier ministre n’apporte une réponse, en forme de rétropédalage : ces 32 milliards d’euros correspondent à la « hausse du budget de la branche maladie qui a été adoptée dans la dernière loi de financement de la Sécurité sociale », concernant l’hôpital et la médecine de ville, a fait savoir Matignon.
      Un montant pas tout à fait « nouveau », en somme. Rien que pour l’hôpital, cela représente 3 milliards d’euros supplémentaires en 2024 par rapport à 2023, a-t-on aussi précisé dans l’entourage de M. Attal. Selon les documents budgétaires, les dépenses de la branche maladie passeront de 242,2 milliards d’euros en 2022 à 273,9 milliards d’euros en 2027.

      « Pensée magique »
      « Communication trompeuse », « effet d’annonce », « pensée magique »… Les réactions ont été sévères. « On ne peut pas présenter un budget déjà voté pour les prochaines années comme des “milliards supplémentaires” », a fait valoir, dès dimanche par la voie d’un communiqué, le Collectif inter-hôpitaux, appelant de ses vœux un « cap politique clair pour les prochaines années et des mesures fortes aptes à faire revenir les soignants partis de l’hôpital ».

      Annoncer en fanfare comme des nouveautés des budgets déjà attribués, c’est une entourloupe classique. D’habitude ça ne se chiffre pas en milliards et le procédé vise des secteurs de la société qui n’ont pas droit de cité (les chômeurs et précaires, par exemple).
      On est en train de demander au petit socle électoral du macronisme de faire l’impasse sur la manière dont, pour la plupart, ils ne sont pas et ne seront pas soignés un tant soit peu correctement.

      #budget

      #communication_gouvernementale #gouvernement_kamikaze

    • Système de soins en crise : « C’est terriblement dangereux, pour les soignants comme pour les patients »
      https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/01/24/systeme-de-soins-en-crise-c-est-terriblement-dangereux-pour-les-soignants-co

      Par Mattea Battaglia et Camille Stromboni

      DÉCRYPTAGE Plongée dans un système de soins où la crise s’éternise, en ville comme à l’hôpital, de Lille à Strasbourg, en passant par la Mayenne.

      Brigitte Bourguignon, François Braun, Aurélien Rousseau, Agnès Firmin Le Bodo et, depuis le dernier remaniement, le 11 janvier, Catherine Vautrin… Un ministre de la santé chasse l’autre, à un poste qui a rarement semblé aussi instable que sous ce second quinquennat d’Emmanuel Macron. Et le système de soins, lui, s’enfonce dans la crise. C’est en tout cas le sentiment d’une large frange de soignants : les services hospitaliers sont saturés, les cabinets des médecins libéraux ne désemplissent pas. « Le système craque », répète-t-on sur le terrain. Mais avec le sentiment de ne plus être entendu.

      La crise sanitaire avait marqué une rupture et polarisé l’attention sur la situation des hôpitaux et des soignants. C’était encore le cas il y a un an, avec le déferlement d’une « triple épidémie » mêlant grippe, Covid-19 et bronchiolite sur les services hospitaliers, des pénuries de médicaments constatées un peu partout, un mouvement de grève des médecins libéraux…

      Et après ? « Rien ne change, mais plus personne n’ose rien dire, lâche Marc Noizet, à la tête du syndicat SAMU-Urgences de France. Tout doucement, on en arrive à une résignation complète. C’est terriblement dangereux, pour les soignants comme pour les patients. » « On est dans une course permanente pour garder la tête hors de l’eau, témoigne Luc Duquesnel, patron des généralistes de la Confédération des syndicats médicaux français. Pour beaucoup de collègues, la question n’est plus de savoir quand ça va s’améliorer, mais jusqu’où ils vont pouvoir tenir… »

      « Délestages » à la maternité de Lille

      De Lille à Strasbourg, de Créteil à la Mayenne, les symptômes d’une « maladie » qui ronge le système de soins continuent d’apparaître, toujours les mêmes – des bras qui manquent, des services qui ferment ou fonctionnent de manière dégradée, des déserts médicaux qui s’étendent, des patients qui ne trouvent pas de rendez-vous… Sans que la réponse politique paraisse à même d’inverser la tendance.

      A la maternité Jeanne-de-Flandre, au CHU de Lille – l’une des plus grandes de France –, la décision fait grand bruit : face au manque de pédiatres néonatologues, des transferts de patientes sont organisés, depuis décembre 2023, vers d’autres hôpitaux de la région, et jusqu’en Belgique. « La maternité continue de fonctionner normalement, seules certaines prises en charge en lien avec la réanimation néonatale sont orientées vers d’autres établissements partenaires », précise-t-on à la direction du CHU, tout en soulignant que des transferts de ce type ne sont pas inédits. Reste que ce « délestage » organisé devrait durer jusqu’en mai, le temps de reconstituer l’effectif médical.

      « Tant que c’étaient seulement les petites maternités qui fermaient, comme cela s’est encore produit tout l’été, le sujet restait sous les radars », pointe Bertrand de Rochambeau, président du Syndicat des gynécologues et obstétriciens de France. « Mais, là, on est dans une autre dimension », alerte-t-il, relevant qu’il s’agit d’un service de niveau 3 (en charge des grossesses les plus à risque), dans une grande métropole.

      Manque de lits d’aval

      Devant les urgences du Nouvel Hôpital civil de Strasbourg, ce qui devait être une « solution provisoire » pour réduire les délais d’attente est toujours d’actualité : l’unité sanitaire mobile, permettant d’accueillir jusqu’à huit personnes et de libérer plus rapidement les transporteurs (ambulances et véhicules de pompiers), sera installée là aussi longtemps que nécessaire, explique-t-on à l’hôpital. Déployé quelques jours avant Noël, le préfabriqué devait être démonté le 2 janvier. Depuis deux semaines, des ambulanciers ont pris le relais des sapeurs-pompiers initialement postés : un accueil « insuffisamment sécurisé », s’inquiète Christian Prud’homme, infirmier anesthésiste et secrétaire du syndicat FO aux hôpitaux universitaires de Strasbourg. Ce que l’hôpital dément.

      Aux urgences de Nantes, le décès, le 2 janvier, d’une patiente âgée qui était dans la « file d’attente » depuis près de quatre heures, a provoqué un vif émoi chez les soignants. « Cette dame serait décédée très probablement, mais cela aurait été plus acceptable pour tout le monde [si c’était arrivé] dans des conditions moins indignes », estime Eric Batard, chef de service. Elle avait été vue, à son arrivée, par l’infirmier d’accueil, qui n’avait pas constaté de signe de risque vital, et attendait d’être examinée par un médecin.

      Dernier épisode en date : ce mardi 23 janvier, l’hôpital Nord Franche-Comté a fait savoir qu’il devait recourir à la « #réserve_sanitaire » face à des tensions majeures aux urgences et en médecine. Le renfort de trois médecins, de dix infirmiers et de dix aides-soignants est prévu du 24 au 30 janvier.

      Les difficultés actuelles vont « bien au-delà des urgences ou des maternités », relève David Piney, le numéro deux de la Conférence des présidents de commissions médicales d’établissement de centres hospitaliers. « Les équipes sont à flux tendu, des services de médecine polyvalente comme d’autres spécialités sont aussi saturés… Dès qu’il y a un imprévu, c’est toute l’organisation qui se bloque. »

      Dans ce tableau sombre, quelques signaux d’amélioration sont pointés ici ou là. A la fin de l’année 2023, le patron de l’Assistance publique-Hôpitaux de Paris, Nicolas Revel, a ainsi relevé un « frémissement » dans les recrutements, plus favorables, chez les infirmiers – le point noir qui oblige de nombreux hôpitaux à garder des lits fermés. « On ressent un léger mieux, mais ça reste compliqué », reconnaît le professeur Rémi Salomon, président de la commission médicale d’établissement.

      Médecine de ville : la chute se poursuit

      Si la photographie des difficultés hospitalières se dessine, par petites touches, dans la presse ou sur les réseaux sociaux, qui relaient au quotidien les alertes et mobilisations de soignants comme de patients, les tensions qui pèsent sur la #médecine_de_ville, cette « deuxième jambe » du système de soins, se perçoivent – et se racontent – différemment. Un récit à bas bruit, conséquence d’une démographie médicale déclinante face à une population toujours plus âgée et une demande de soins toujours plus forte.

      Année après année, la chute se poursuit. Chez les généralistes, la densité – soit le nombre de médecins libéraux pour 100 000 habitants – est passée, entre 2013 et 2023, de 96,3 à 83,6, selon la direction de la recherche, des études, de l’évaluation et des statistiques. L’accès aux spécialistes – pédiatres, gynécologues, psychiatres… – est, lui aussi, de plus en plus difficile.

      Cela fait longtemps que les « #déserts_médicaux » ne se réduisent plus aux zones rurales. Symbolique, parce que réputée attractive, la région francilienne connaît également une détérioration de l’accès aux soins. « On a des médecins formés, il faut leur donner l’envie de s’installer », plaide Bernard Elghozi, généraliste installé dans le quartier du Mont-Mesly, à Créteil, depuis quarante-cinq ans. Cela fait dix ans que ce médecin a atteint l’âge de la retraite, cinq ans qu’il « songe vraiment à [s’]arrêter », confie-t-il, mais ne pas trouver de remplaçant pour « reprendre le flambeau » auprès de ses patients est, pour lui, un « crève-cœur ». « Régulièrement, je leur explique que j’arrêterai à la fin de l’année, et puis je reporte, je tiens… Ils sont peinés, anxieux de ne pas savoir qui va s’occuper d’eux. »

      En cinq ans, en dépit d’un réseau professionnel qu’il s’est aussi forgé comme militant associatif et praticien hospitalier à mi-temps, le docteur Elghozi n’a rencontré que deux libéraux, des pédiatres, possiblement intéressés par la reprise de son cabinet. Mais aucun généraliste.

      A quelque 300 kilomètres de là, en Mayenne, un territoire rural parmi les plus en difficulté, le docteur Luc Duquesnel, patron de la Confédération des syndicats médicaux français, a lui aussi l’attention focalisée sur les « départs ». Sur les dix-neuf #médecins de la maison de santé où il exerce, sept sont partis en retraite, un ailleurs dans le département, un autre en Bretagne… « On est de moins en moins nombreux pour faire des gardes toujours plus lourdes. On n’a pas le choix, on tient, même si on a le sentiment de se prendre un tsunami sur la tête. »

  • Cosmopolitan Solidarity
    https://urbanpolitical.podigee.io/71-clara_salazar_urban_lives_property

    To live in the age of precarity is a tolling, everyday struggle. It erodes one’s strength to carry on, live another day, and keep the hope for a modicum of prosperity due to come in some vague future. And when things get unbearably harsh, when the hegemony of neoliberalism has individualised the problems and told those who sustain life by the skin of their teeth to keep their head above the surface without having an eye for care from the retreating state that sees no obligation towards the lesser-able citizens, and when the politics of fear buffets on the anxiety evoked by the physical proximity of the Other, refugees —the most vulnerable of all living in the city— are scapegoated for all the problems befallen on daily life. Refugees are easy targets. They, on principle, lack most forms (...)

    #urban,politics
    https://audio.podigee-cdn.net/1337181-m-43aa6c8737e1e4c9d8aa33cc5475fc09.m4a?source=feed

  • Sexe, ethnie : l’enquête choc de médecins montpelliérains sur la discrimination des patients aux urgences
    https://www.midilibre.fr/2024/01/10/sexe-ethnie-lenquete-choc-de-medecins-montpellierains-sur-la-discriminatio

    « Notre évaluation de la gravité des malades aux urgences est soumise à la discrimination » : Xavier Bobbia, urgentiste au CHU de Montpellier, a coordonné une étude qui montre qu’à symptômes égaux, les patients noirs sont moins pris au sérieux que les patients blancs, et les femmes moins que les hommes. L’enquête est publiée dans la revue internationale European journal of emergency medicine.

    « On n’a pas la prétention de changer les préjugés, mais quand on voit le résultat, on ne peut être qu’horrifié » : urgentiste au CHU de Montpellier et chargé d’enseignement à la faculté de médecine de Montpellier-Nîmes, Xavier Bobbia avait bien le sentiment que tous les patients arrivés aux urgences ne bénéficiaient pas de la même prise en charge.

  • Dans ce village isolé des Pyrénées-Orientales, une #voiture_électrique est proposée en #libre-service

    Jusqu’à octobre 2026, le village de #Prugnanes (Pyrénées-Orientales) expérimente la location d’un véhicule électrique. Les 100 habitants tout comme les personnes de passage peuvent l’utiliser contre quelques euros afin d’aller faire leurs courses ou se rendre chez le médecin. Une idée qui doit permettre notamment de pallier le manque de stationnement dans la bourgade.

    Elle est neuve et n’émet pas de bruit, mais elle est surtout en libre-service. À Prugnanes (Pyrénées-Orientales), les 100 habitants ont la possibilité de louer une voiture électrique mise à leur disposition à l’entrée du village. Le maire, Pierre-Henri Bintein (sans étiquette), a fait installer une borne en octobre 2023, à proximité de places de parking. « C’est une expérimentation qui va durer trois ans. C’est unique dans notre département », nous explique l’édile qui a pris l’idée à la commune de #Villerouge-Termenès (Aude).

    À Prugnanes, il n’y a pas de commerce ou d’école. Aucun bus ne dessert la commune en montagne. Pour aller chercher son pain ou déposer son enfant le matin, la voiture est donc obligatoire. Les habitants peuvent désormais emprunter le véhicule électrique durant quelques heures pour se rendre dans la commune d’à côté, qui dispose de toutes les commodités, ou bien à Perpignan, situé à 50 km de Prugnanes, soit une heure de route.

    Réduire le budget essence des habitants

    « Il faut compter entre 14 et 20 € de gasoil pour se rendre à Perpignan et revenir. Les habitants n’ont pas de gros moyens et ont surtout de vieilles voitures », déplore Pierre-Henri Bintein. La voiture électrique, ayant une autonomie supérieure à 100 km, pourrait donc leur faire économiser de l’argent. Pour trois heures de location, ils sont invités à payer 3 € et 1 € de réservation. Ensuite, le véhicule neuf électrique se loue 75 centimes pour 30 minutes.

    Afin de proposer ce service à ses administrés, la municipalité, aidée par le Département, a déboursé environ 13 000 € pour l’installation de la borne électrique et paie un forfait location de 700 € par mois. En clair, elle ne gagne pas d’argent avec la voiture électrique. Une dépense qu’elle pouvait tout de même se permettre grâce aux neuf éoliennes installées sur le territoire communal. « Elles nous rapportent 100 000 € par an », glisse l’élu local.

    Un geste écologique

    En plus de vouloir aider les habitants dans leur quotidien, Pierre-Henri Bintein espère faire changer les mentalités. « A-t-on vraiment besoin d’avoir une voiture tous les jours ? », s’interroge-t-il sans cacher sa sensibilité écologique. Réduire le nombre de véhicules dans son village pourrait en plus régler un autre problème : le manque de stationnement. « En montagne, nous avons peu de parkings », confirme-t-il.

    L’expérimentation vient de débuter et la voiture est louée environ cinq fois par semaine, rapporte Le Parisien . « Ce n’était pas une demande de la part des habitants, nous indique le maire. Mais, je compte sur le bouche-à-oreille. » Pour louer le véhicule électrique, il faut forcément télécharger une application. « Cela peut être un frein pour certains, c’est vrai. » Petit plus du dispositif : les touristes, les personnes de passage, les habitants des villes des alentours peuvent louer l’automobile. Les 30 minutes leur sont facturées 1 €.

    https://www.ouest-france.fr/economie/transports/voiture-electrique/dans-ce-village-isole-des-pyrenees-orientales-une-voiture-electrique-es
    #urban_matter #transports #urbanisme

  • Quando l’arte di strada rigenera. Dentro le “Trame” di #Grosseto

    Contro la desertificazione del centro storico della città maremmana, il collettivo #Clan ha immaginato nel 2020 il #festival_Trame, con l’obiettivo di ridare colore alle serrande chiuse. Chiamando a dipingerle artisti da tutta Italia.

    “Serrande chiuse per arte aperta” è il modo più immediato per descrivere Trame, il festival di arte urbana che dal 2020 sta contribuendo alla rigenerazione del centro storico di Grosseto, la “Kansas City” di Luciano Bianciardi, una città di circa 80mila abitanti persa in mezzo alla Maremma, in una delle zone meno antropizzate d’Italia. Quattro edizioni dell’evento hanno permesso di trasformare 50 serrande, grazie ad artisti arrivati da tutta Italia tramite residenze finalizzate alla rigenerazione territoriale.

    Trame è un’iniziativa del Collettivo libero anti noia (Clan) e nasce dall’osservazione di un contesto comune a molti altri centri urbani. “Il Collettivo è nato nel 2012 da un gruppo di amici per promuovere e diffondere la cultura in tutte le sue forme, dall’attività artistica alla promozione del territorio. Abbiamo una sede in centro dal 2018, grazie al progetto ‘Pop up lab’, promosso dal Comune di Grosseto e dalla Regione Toscana per contrastare la desertificazione dei centri storici. Quando ci siamo insediati in questa ‘viettina tremenda’ ci siamo resi conto che la maggior parte delle saracinesche erano abbassate, ormai le persone vivono altrove, i servizi sono rarefatti”, sottolinea Giada Breschi, tra i fondatori di Clan.

    “A Grosseto il centro è la nuova periferia, che le persone non frequentano anche perché -continua- non ha senso passeggiare di fronte alle serrande chiuse”. A meno che queste non diventino delle vere opere d’arte, come hanno immaginato i soci di Clan, due dei quali, Giada e Mara, lavorano per l’associazione culturale. “La prima edizione di Trame, nel 2020, l’anno della pandemia da Coivd-19, è stata senz’altro la più difficile, anche perché dovevamo ‘confrontarci’ con la diffidenza dei proprietari degli immobili -ricorda Breschi-. Edizione dopo edizione, però, tutti si sono resi conto che le opere sono realizzate da professionisti e in tanti hanno iniziato a proporci le loro serrande. Inizialmente abbiamo fatto degli appelli ma anche proposto un questionario online, per capire quali tipologie di azioni risultavano più gradite ai cittadini come esempi di riqualificazione. Abbiamo poi attaccato cartelli su tutti i garage del centro storico: ‘Vuoi trasformare la tua serranda in un’opera d’arte?’. Con tutti i proprietari stringiamo un accordo”.

    Gli artisti invece arrivano a Grosseto grazie a una call nazionale. Ogni edizione di Trame ha avuto un tema. Quella del 2023, ad esempio, è stata “Facciamo tempesta”, dove la tempesta e ciò che scuote e scardina lo status quo, tanto più importante in provincia, “dove ci si sente tagliati fuori dai centri dove le cose accadono e le uniche burrasche che sembrano colpirci sono quelle che il cambiamento, invece che alimentarlo, lo affogano”, spiega il documento elaborato da Clan.

    Sono 50 le serrande di Grosseto “trasformate” dalle quattro edizioni del festival

    Nel 2023 sono stati selezionati otto artisti, sulla base dei progetti inviati. Grazie al contributo della Fondazione CR Firenze, che sostiene il progetto, vengono ospitati a Grosseto per tre giorni e ricevono un rimborso per le spese di viaggio, vitto e alloggio oltre a quelle per dipingere. “Arrivano qui sapendo di trovare le serrande pronte, perché la pulizia e anche il ripristino del fondo lo facciamo noi”, spiega Breschi.

    In questi anni hanno lavorato nella città toscana alcuni nomi importanti della street art italiana, come Luogo Comune, Exit/Enter e Ginevra Giovannoni, in arte Rame 13. “Ogni intervento dialoga con il palazzo, con le vie, questo è un elemento a cui teniamo molto e su cui concentriamo la nostra attività a livello curatoriale”, sottolinea Breschi. Per completare l’azione di rigenerazione territoriale, i soci di Clan accompagnano le persone attraverso il museo a cielo aperto organizzando il “Trame street tour”.

    “Ogni intervento dialoga con il palazzo, con le vie, questo è un elemento a cui teniamo molto e su cui concentriamo la nostra attività a livello curatoriale” – Giada Breschi

    “Anche se tramite il nostro sito chiunque può scoprire in autonomia tutte le serrande -racconta Breschi- a noi piace di più raccontare le storie degli artisti ed è bello farlo attraverso i più giovani, a partire dai laboratori di mediazione artistica che teniamo nelle scuole. Tornando a casa con questa ‘scoperta’, i bambini poi portano i genitori a fare il giro delle serrande: le mappe le costruiamo insieme a loro. Lavoriamo dalle materne alle superiori, con laboratori ovviamente differenziati. Alle secondarie di secondo grado dopo il tour si chiede agli insegnanti di far vedere i documentari che pubblichiamo per ogni edizione, chiedendo loro poi di collegare l’arte contemporanea locale al super-contemporaneo delle serrande. A quelli delle medie chiediamo invece di realizzare una loro idea di street art”.

    In inverno i laboratori si tengono al Molino Hub, un centro di promozione culturale e artistica ricavato all’interno delle Mura medicee della città: un altro dei progetti del Collettivo libero anti noia che il 2 dicembre 2023 ha ospitato l’atto finale di Trame 2023, con la presentazione del docu-film realizzato durante la quarta edizione del festival di arte urbana e della nuova street art map, per camminare nel centro storico di Grosseto con altri occhi.

    https://altreconomia.it/quando-larte-di-strada-rigenera-dentro-le-trame-di-grosseto
    #Italie #street-art #art_de_rue #graffitis #festival #régénération_urbaine #villes #urban_matter #centre-ville #désertification #art

  • Ce que fait l’animal à la ville - AOC media
    https://aoc.media/opinion/2023/12/28/ce-que-fait-lanimal-a-la-ville-2

    En 1923, Le Corbusier écrit dans Vers une architecture[1] une phrase qui incarnera, pour plusieurs générations d’architectes, l’idéologie d’un certain mouvement moderne et une définition à la fois épaisse et sensible de la discipline architecturale : « L’architecture est le jeu savant, correcte et magnifique des volumes assemblés sous la lumière ».
    Aujourd’hui, que nous racontent les volumes assemblés sous la lumière des changements climatiques à l’œuvre et de l’effondrement du vivant ? Au service de quoi, ce jeu savant, correct et magnifique doit-il être mis pour faire face aux enjeux contemporains ? Et eux, ces vivants qui s’effondrent, des papillons aux moineaux en passant par les libellules, qu’attendent-ils de l’architecture et de la ville d’aujourd’hui ?

    https://justpaste.it/2hf45

    #urbanisme #écologie (vision anthropo-centrée de l’) #nos_ennemies_les_bêtes