• Ecco quello che hanno fatto davvero gli italiani “brava gente”

    In un libro denso di testimonianze e documenti, #Eric_Gobetti con “I carnefici del duce” ripercorre attraverso alcune biografie i crimini dei militari fascisti in Libia, Etiopia e nei Balcani, smascherando una narrazione pubblica che ha distorto i fatti in una mistificazione imperdonabile e vigliacca. E denuncia l’incapacità nazionale di assumersi le proprie responsabilità storiche, perpetuata con il rosario delle “giornate della memoria”. Ci fu però chi disse No.

    “I carnefici del duce” è un testo che attraverso alcune emblematiche biografie è capace di restituire in modo molto preciso e puntigliosamente documentato le caratteristiche di un’epoca e di un sistema di potere. Di esso si indagano le pratiche e le conseguenze nella penisola balcanica ma si dimostra come esso affondi le radici criminali nei territori coloniali di Libia ed Etiopia, attingendo linfa da una temperie culturale precedente, dove gerarchia, autoritarismo, nazionalismo, militarismo, razzismo, patriarcalismo informavano di sé lo Stato liberale e il primo anteguerra mondiale.

    Alla luce di tali paradigmi culturali che il Ventennio ha acuito con il culto e la pratica endemica dell’arbitrio e della violenza, le pagine che raccontano le presunte prodezze italiche demoliscono definitivamente l’immagine stereotipa degli “italiani brava gente”, una mistificazione imperdonabile e vigliacca che legittima la falsa coscienza del nostro Paese e delle sue classi dirigenti, tutte.

    Anche questo lavoro di Gobetti smaschera la scorciatoia autoassolutoria dell’Italia vittima dei propri feroci alleati, denuncia l’incapacità nazionale di assumere le proprie responsabilità storiche nella narrazione pubblica della memoria – anche attraverso il rosario delle “giornate della memoria” – e nell’ufficialità delle relazioni con i popoli violentati e avidamente occupati dall’Italia. Sì, perché l’imperialismo fascista, suggeriscono queste pagine, in modo diretto o indiretto, ha coinvolto tutta la popolazione del Paese, eccetto coloro che, nei modi più diversi, si sono consapevolmente opposti.

    Non si tratta di colpevolizzare le generazioni (soprattutto maschili) che ci hanno preceduto, afferma l’autore,­ ma di produrre verità: innanzitutto attraverso l’analisi storiografica, un’operazione ancora contestata, subissata da polemiche e a volte pure da minacce o punita con la preclusione da meritate carriere accademiche; poi assumendola come storia propria, riconoscendo responsabilità e chiedendo perdono, anche attraverso il ripudio netto di quel sistema di potere e dei suoi presunti valori. Diventando una democrazia matura.

    Invece, non solo persistono ambiguità, omissioni, false narrazioni ma l’ombra lunga di quella storia, attraverso tante biografie, si è proiettata nel secondo dopoguerra, decretandone non solo la radicale impunità ma l’affermarsi di carriere, attività e formazioni che hanno insanguinato le strade della penisola negli anni Settanta, minacciato e condizionato l’evolversi della nostra democrazia.

    Di un sistema di potere così organicamente strutturato – come quello che ha retto e alimentato l’imperialismo fascista – pervasivo nelle sue articolazioni sociali e culturali, il testo di Gobetti ­accanto alle voci dei criminali e a quelle delle loro vittime, fa emergere anche quelle di coloro che hanno detto no, scegliendo di opporsi e dimostra che, nonostante tutto, era comunque possibile fare una scelta, nelle forme e nelle modalità più diverse: dalla volontà di non congedarsi dal senso della pietà, al tentativo di rendere meno disumano il sopravvivere in un campo di concentramento; dalla denuncia degli abusi dei propri pari, alla scelta della Resistenza con gli internati di cui si era carcerieri, all’opzione netta per la lotta di Liberazione a fianco degli oppressi dal regime fascista, a qualunque latitudine si trovassero.

    È dunque possibile scegliere e fare la propria parte anche oggi, perché la comunità a cui apparteniamo si liberi dagli “elefanti nella stanza” – così li chiama Gobetti nell’introduzione al suo lavoro –­ cioè dai traumi irrisolti con cui ci si rifiuta di fare i conti, che impediscono di imparare dai propri sbagli e di diventare un popolo maturo, in grado di presentarsi con dignità di fronte alle altre nazioni, liberando dalla vergogna le generazioni che verranno e facendo in modo che esse non debbano più sperimentare le nefandezze e i crimini del fascismo, magari in abiti nuovi. È questo autentico amor di patria.

    “I carnefici del duce” – 192 pagine intense e scorrevolissime, nonostante il rigore della narrazione,­ è diviso in 6 capitoli, con un’introduzione che ben motiva questa nuova ricerca dell’autore, e un appassionato epilogo, che ne esprime l’alto significato civile.

    Le tappe che vengono scandite scoprono le radici storiche dell’ideologia e delle atrocità perpetrate nelle pratiche coloniali fasciste e pre-fasciste; illustrano la geopolitica italiana del Ventennio nei Balcani, l’occupazione fascista degli stessi fino a prospettarne le onde lunghe nelle guerre civili jugoslave degli anni Novanta del secolo scorso; descrivono la teoria e la pratica della repressione totale attuata durante l’occupazione, circostanziandone norme e regime d’impunità; evidenziano la stretta relazione tra la filosofia del regime e la mentalità delle alte gerarchie militari.


    Raccontano le forme e le ragioni dell’indebita appropriazione delle risorse locali e le terribili conseguenze che ne derivarono per le popolazioni, fino a indagare l’inferno, il fenomeno delle decine e decine di campi d’internamento italiani, di cui è emblematico quello di Arbe. Ciascun capitolo è arricchito da una testimonianza documentaria, significativa di quanto appena esposto. Impreziosiscono il testo, oltre ad un’infinità di note che giustificano quasi ogni passaggio – a riprova che nel lavoro storiografico rigore scientifico e passione civile possono e anzi debbono convivere – una bibliografia e una filmografia ragionata che offrono strumenti per l’approfondimento delle questioni trattate.

    https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/ecco-quello-che-hanno-fatto-davvero-gli-italiani-brava-gente
    #Italiani_brava_gente #livre #Italie #colonialisme #fascisme #colonisation #Libye #Ethiopie #Balkans #contre-récit #mystification #responsabilité_historique #Italie_coloniale #colonialisme_italien #histoire #soldats #armée #nationalisme #racisme #autoritarisme #patriarcat #responsabilité_historique #mémoire #impérialisme #impérialisme_fasciste #vérité #résistance #choix #atrocités #idéologie #occupation #répression #impunité #camps_d'internement #Arbe

    –-

    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    • I carnefici del Duce

      Non tutti gli italiani sono stati ‘brava gente’. Anzi a migliaia – in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia – furono artefici di atrocità e crimini di guerra orribili. Chi furono ‘i volenterosi carnefici di Mussolini’? Da dove venivano? E quali erano le loro motivazioni?
      In Italia i crimini di guerra commessi all’estero negli anni del fascismo costituiscono un trauma rimosso, mai affrontato. Non stiamo parlando di eventi isolati, ma di crimini diffusi e reiterati: rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, impiccagioni, uso di armi chimiche, campi di concentramento, stragi di civili che hanno devastato intere regioni, in Africa e in Europa, per più di vent’anni. Questo libro ricostruisce la vita e le storie di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato fattivamente a quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, in tanti hanno contribuito a quell’inferno. L’hanno fatto per convenienza o per scelta ideologica? Erano fascisti convinti o soldati che eseguivano gli ordini? O furono, come nel caso tedesco, uomini comuni, ‘buoni italiani’, che scelsero l’orrore per interesse o perché convinti di operare per il bene della patria?

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858151396
      #patrie #patriotisme #Grèce #Yougoslavie #crimes_de_guerre #camps_de_concentration #armes_chimiques #violence #brutalité

  • 01.11.2023 :

    En honorant ce 1er novembre la mémoire de Blessing et en luttant pour que la vérité et la justice soit faite sur les circonstances de sa mort, c’est la mémoire de toutes les victimes des frontières que nous honorons, et c’est contre cette politique et pour le respect des droits que nous luttons.

    https://www.facebook.com/tousmigrants/posts/pfbid0VR7pkb1i1WxeskfmAP81cTim6oEp6aiKkUsWSvrN7NsJcY8iXTd4LAMhaE6mL19hl
    #Blessing #commémoration #mémoire #Blessing_Matthew #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #Hautes-Alpes #Italie #France #frontières #vérité #justice

    –—

    voir aussi ce fil de discussion sur l’"affaire Blessing" :
    https://seenthis.net/messages/962473

  • The Congo Tribunal

    En plus de 20 ans, la #guerre du #Congo a déjà fait plus de 6 millions de victimes. La population souffre de cet état d’#impunité totale, les #crimes_de_guerre n’ayant jamais fait l’objet de poursuites judiciaires. Cette région recèle les gisements les plus importants de #matières_premières nécessitées par les technologies de pointe. Dans son « #Tribunal_sur_le_Congo », Milo Rau parvient à réunir les victimes, les bourreaux, les témoins et les experts de cette guerre et à instituer un #tribunal d’exception du peuple du Congo de l’Est. Un portrait bouleversant de la guerre économique la plus vaste et la plus sanglante de l’histoire humaine.

    https://vimeo.com/234124116

    https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/53668_0


    http://www.the-congo-tribunal.com

    #film #documentaire #film_documentaire #extractivisme #tribunal_des_peuples #justice_transformatrice #justice #vérité_et_justice #multinationales #responsabilité #Banro #RDC #massacres #témoignage #Twangiza #massacre_de_Mutarule #mine #extractivisme #Sud-Kivu #or #Banro_Corporation #impunité #crimes #douleur #tribunal #engagement #viols #vérité_et_justice #multinationales #guerre #concessions_minières #ressources_naturelles #pillage #minerai #Mining_and_Processing_Congo (#MPC) #Walikale #Bisie #droits_humains #MCP_Alptamin #Mukungwe #milices #Cheka_Group #groupes_armés #diamants #cassiterite #marché_noir #loi_Dodd_Frank #minerai_critique #Mutarule #MONUSCO #ONU #Nations_Unies

    • La production du réel sur scène est ce qui m’intéresse
      Entretien avec #Milo_Rau

      Né à Berne, en Suisse en 1977, Milo Rau étudie la sociologie auprès de Pierre Bourdieu et Tzvetan Todorov, ainsi que les littératures allemandes et romanes à Paris, Zurich et Berlin. Tout d’abord journaliste, ses premiers voyages et reportages se déroulent au Chiapas ainsi qu’à Cuba en 1997. À partir de 2000, Rau travaille comme auteur au sein de la Neue Zürcher Zeitung, un groupe de presse suisse qui édite le journal du même nom puis il entame en 2003 sa carrière de metteur en scène en Suisse tout d’abord et, par la suite, à l’étranger.

      https://www.cairn.info/la-video-en-scene--9782379243431-page-329.htm

    • #IIPM#International_Institute_of_Political_Murder

      Produktionsgesellschaft für Theater, Film und Soziale Plastik


      Das IIPM – International Institute of Political Murder wurde vom Regisseur und Autor Milo Rau im Jahr 2007 mit Sitz in der Schweiz und in Deutschland gegründet zur Produktion und internationalen Verwertung seiner Theaterinszenierungen, Aktionen und Filme.

      Die bisherigen Produktionen des IIPM stießen international auf große Resonanz und stehen für eine neue, dokumentarisch und ästhetisch verdichtete Form politischer Kunst – „Real-Theater“, wie Alexander Kluge Milo Raus Ästhetik einmal nannte. Seit 2007 hat das IIPM mehr als 50 Theaterinszenierungen, Filme, Bücher, Ausstellungen und Aktionen realisiert. Die Stücke des IIPM tourten durch bisher über 30 Länder und wurden an alle bedeutenden internationalen Festivals eingeladen. Wiederkehrende Kooperationspartner sind u. a. die Schaubühne am Lehniner Platz, das Théâtre Nanterre-Amandiers, das Theaterspektakel Zürich, das Kunstenfestival Brüssel, das Goethe Institut, die Prohelvetia, ARTE, das Schweizerische und das Deutsche Fernsehen, der Berliner Senat oder die Kulturstiftung des Bundes. Bisherige Projekt- und Essaybände des IIPM wurden mehrfach aufgelegt („Die letzten Tage der Ceausescus“, 2010), von der Bundeszentrale für Politische Bildung als Schulbücher nachgedruckt („Hate Radio“, 2014) und von der taz zum „Buch des Jahres“ gewählt („Was tun? Kritik der postmodernen Vernunft“, 2013). Für 2017 entstehen der ästhetiktheoretische Band „Wiederholung und Ekstase“ (Diaphanes Verlag, Abschlussband zu einem Forschungsprojekt, das das IIPM an der Zürcher Hochschule der Künste zum Realismus in den Künsten durchführte), die beiden Projektbände „Das Kongo Tribunal“ und „1917“ (beide Verbrecher Verlag) sowie das Manifest „Die Rückeroberung der Zukunft“ (Rowohlt Verlag).

      Seit der Gründung konzentriert sich das IIPM auf die multimediale Bearbeitung historischer oder gesellschaftspolitischer Konflikte: Unter anderem holte die Produktionsgesellschaft die Erschießung des Ehepaars Ceausescu („Die letzten Tage der Ceausescus“), den ruandischen Völkermord („Hate Radio“) und den norwegischen Terroristen Anders B. Breivik („Breiviks Erklärung“) auf die Bühne, boxte per Theaterperformance das Ausländerstimmrecht ins Parlament einer Schweizer Stadt („City of Change“), hob im Frühjahr 2013 mit zwei mehrtägigen Justiz-Spektakeln („Die Moskauer Prozesse“ und „Die Zürcher Prozesse“) ein völlig neues Theaterformat aus der Taufe und eröffnete mit „The Civil Wars“ (2014) das Großprojekt „Die Europa-Trilogie“, die mit „The Dark Ages“ (2015) fortgeführt wurde und 2016 mit „Empire“ ihren Abschluss fand. Mit „Five Easy Pieces“ (2016) und „Die 120 Tage von Sodom“ (2017) unterzogen Rau und das IIPM das Einfühlungs- und Darstellungsinstrumentarium des Theaters einer eingehenden Prüfung – das eine Mal mit minderjährigen, das andere mal mit behinderten Darstellern.

      Von Debatten weit über die Kunstwelt hinaus begleitet, wurden die vom IIPM produzierten Filme, Video-installationen, Peformances und Inszenierungen mit zahllosen Preisen weltweit ausgezeichnet. Die „zutiefst berührende“ (La Libre Belgique) Inszenierung „The Civil Wars“, von Publikum und Kritik euphorisch gefeiert, etwa wurde mit dem Jury-Preis der Theatertriennale „Politik im Freien Theater“ ausgezeichnet und von der Experten-Jury des Schweizer Fernsehens in die Liste der „5 besten Theaterstücke 2014“ gewählt. Außerdem wurde „The Civil Wars“ unter die „besten Stücke der Niederlande und Flanderns 2014/15″ ausgewählt. Die Inszenierung „Five Easy Pieces“ (2016) wurde mit dem Hauptpreis des belgischen „Prix de la Critique Théâtre et Danse“ ausgezeichnet. Zu den weiteren Auszeichnungen gehören Einladungen zum Berliner Theatertreffen oder ans Festival d’Avignon, der Schweizer Theaterpreis oder der Preis des Internationalen Theaterinstituts (ITI).

      „Mehr Wirkung kann Theater kaum provozieren“, urteilte die Basler Zeitung über die Lecture-Performance „Breiviks Erklärung“, die 2014 nach zahlreichen Stationen im EU-Parlament Brüssel zu sehen war. Die Produktion „Die Moskauer Prozesse“, zu der in Kooperation mit Fruitmarket Kultur und Medien GmbH eine Kinofassung und mit dem Verbrecher Verlag Berlin eine Buchfassung entstand, führte zu einer internationalen Debatte über Kunstfreiheit und Zensur. Die Kinofassung lief international in den Kinos und auf Festivals und wurde mit einer „Besonderen Auszeichnung“ am Festival des Deutschen Films 2014 geehrt.

      Zu den „Zürcher Prozessen“ entstand – wie auch zu den Produktionen „Die letzten Tage der Ceausescus“ und „Hate Radio“ – eine abendfüllende Filmfassung, die auf 3sat und im Schweizer Fernsehen ausgestrahlt wurde und in ausgewählten Kinos zu sehen war. Die Hörspielfassung von „Hate Radio“ wurde mit dem renommierten „Hörspielpreis der Kriegsblinden 2014“ ausgezeichnet.

      In der Spielzeit 2013/14 fand in den Sophiensaelen (Berlin) unter dem Titel „Die Enthüllung des Realen“ eine Retrospektive zur Arbeit des IIPM statt. Anlässlich der Ausstellung erschien im Verlag „Theater der Zeit“ eine gleichnamige Monographie mit Beiträgen von u. a. Elisabeth Bronfen, Heinz Bude, Alexander Kluge, Sandra Umathum, Michail Ryklin und Christine Wahl, die das Werk des IIPM aus verschiedenster Perspektive beleuchteten. Nach Einzelausstellungen in Österreich (Kunsthaus Bregenz 2011, Akademie der Bildenden Künste Wien, 2013) und der Schweiz (migrosmuseum für gegenwartskunst Zürich 2011, KonzertTheaterBern, 2013) handelte es sich dabei um die erste Retrospektive zur Arbeit Milo Raus und des IIPM in Deutschland, die in der Presse heiß diskutiert wurde.

      In der Saison 2014/15 folgten Werkschauen in Genf (Festival La Batie) und Paris (Théatre Nanterre-Amandiers), in der Saison 2015/16 in Gent (CAMPO). Die Live-Talkshowreihe „Die Berliner Gespräche“ (in Kooperation mit den Sophiensaelen und der Schweizerischen Botschaft Berlin) 2013/14 war der Startpunkt der Produktionsphase von Milo Raus Theaterinszenierung “The Civil Wars” (2014), dem ersten Teiler seiner „Europa Trilogie“. Die mit „The Dark Ages“ im Jahr 2015 weitergeführte und 2016 mit „Empire“ abgeschlossene, monumentale „Europa Trilogie“ – in der 13 Schauspieler aus 11 Ländern den Kontinent einer „politischen Psychoanalyse“ (Libération) unterziehen – führte zu euphorischen Reaktionen bei Presse und Publikum: „von der Intimität eines Kammerspiels und der Wucht einer griechischen Tragödie“, urteilte etwa das ORF über „Empire“.

      Zu einem weltweiten Medienecho führte auch das insgesamt 30stündige „Kongo Tribunal“, das Milo Rau und sein Team im Sommer 2015 in Bukavu und Berlin durchführten: ein Volkstribunal zur Verwicklung der internationalen Minenfirmen, der kongolesischen Regierung, der UNO, der EU und der Weltbank in den Bürgerkrieg im Ostkongo, der in 20 Jahren mehr als 5 Millionen Tote gefordert hat. Presse und Publikum verfolgten die „ungeheuerlich spannenden“ (taz) Verhöre atemlos. „Das ambitionierteste politische Theaterprojekt, das je inszeniert wurde“, urteilte die Zeitung THE GUARDIAN, und fügte hinzu: „Ein Meilenstein.“ „Ein Wahnsinnsprojekt“, schrieb die ZEIT: „Wo die Politik versagt, hilft nur die Kunst.“ Die belgische Zeitung LE SOIR schrieb: „Makellos. Milo Rau ist einer der freiesten und kontroversesten Geister unserer Zeit.“ Und die taz brachte es auf den Punkt: „Zum ersten Mal in der Geschichte wird hier die Frage nach der Verantwortung für Verbrechen gestellt.“ Mehr als hundert Journalisten aus der ganzen Welt nahmen an den Tribunalen in Ostafrika und Europa teil, um über das „größenwahnsinnigste Kunstprojekt unserer Zeit“ (Radio France Internationale – RFI) zu berichten.

      Als „ein Meisterwerk, brennend vor Aktualität“ (24 heures) und „atemraubend“ (NZZ) feierten Kritik und Publikum gleichermaßen Milo Raus Stück „Mitleid. Die Geschichte des Maschinengewehrs“ (Uraufführung Januar 2016, Schaubühne am Lehniner Platz Berlin), das seit seiner Uraufführung durch die Welt tourt und u. a. zum „Friedrich-Luft-Preis“ als bestes Stück der Saison in Berlin nominiert und in der Kategorie „Beste Schauspielerin“ (Hauptrolle: Ursina Lardi) in der Kritikerumfrage der Zeitschrift „Theater Heute“ auf den zweiten Platz gewählt wurde.

      Das im Frühjahr 2016 in Kooperation mit CAMPO Gent entstandne Stück „Five Easy Pieces“ war das erste IIPM-Projekt mit Kindern und Jugendlichen. Als „ganz großes Theater, menschlich, sensibel, intelligent und politisch“ beschrieb das belgische Fernsehen (RTBF) das Stück, das bereits durch halb Europa und bis Singapur tourte: „Ein Theaterstück jenseits aller bekannten Maßstäbe.“

      http://international-institute.de

      #art_et_politique

  • « L’aggravation récente des effets du réchauffement coïncide, et c’est une autre cause de sidération, avec un retour apparent du climatoscepticisme », Stéphane Foucart

    Il n’est pas possible de décrire en quelques lignes l’état de sidération dans lequel l’été qui s’achève a plongé les chercheurs en sciences du climat. A l’impressionnante succession de catastrophes visibles et d’événements extrêmes qui ont frappé (et continuent de frapper) les populations des deux hémisphères se sont ajoutés des phénomènes bien plus discrets, qui n’ont pas généré d’images spectaculaires, mais qui ont fortement impressionné les scientifiques.

    L’envolée des températures de l’Atlantique Nord, le défaut de reconstitution des glaces de mer autour de l’Antarctique, notamment, ont suscité chez nombre d’observateurs une terreur teintée d’incrédulité. Au premier coup d’œil sur les courbes de températures de l’océan, un chercheur confie avoir eu le réflexe de penser que les radiomètres du système de surveillance par satellite Copernicus étaient peut-être défectueux. Ce n’était – hélas – pas le cas.

    Cette aggravation récente des effets du réchauffement coïncide, et c’est une autre cause de sidération, avec un retour apparent du climatoscepticisme dans la conversation publique. Très marqués sur les réseaux sociaux ces derniers mois, les discours niant la réalité du changement climatique et/ou ses causes anthropiques seraient sur une pente ascendante depuis quelques années. Une enquête d’opinion internationale, coordonnée par EDF et l’institut Ipsos, suggère un essor du climatoscepticisme dans plusieurs grands pays entre 2019 et 2022. En France, selon ce sondage, environ 37 % de la population serait climatosceptique en 2022, en augmentation de huit points par rapport à l’année précédente.

    Mille nuances de scepticisme

    D’autres enquêtes, comme celle publiée en 2022 par l’Organisation de coopération et de développement économiques (OCDE), suggèrent des chiffres supérieurs : 43 % des Français estimeraient que la contribution humaine au réchauffement est nulle ou non déterminante. A l’inverse, le baromètre annuel de l’Ademe, mené avec l’institut OpinionWay, ne retrouve pas un tel niveau de défiance et évaluait l’an dernier à environ 81 % la proportion de Français convaincus par la réalité et les causes humaines du réchauffement. Fait remarquable : à l’inverse des précédentes études, ce baromètre met en évidence, ces dernières années, un accroissement de la confiance des Français dans le consensus scientifique sur la réalité et les causes du changement climatique.

    Une part de ces divergences s’explique probablement par la forme des questions posées, l’ordre dans lequel elles sont posées, le contexte général de chaque enquête, etc. Et même, peut-être, par la météo du jour, lorsque les participants ont répondu aux questionnaires. Aucune enquête d’opinion, si bien menée soit-elle, ne permet d’épuiser la question du climatoscepticisme. Et, si l’on étend sa définition à ce qu’elle devrait être – c’est-à-dire en tenant aussi compte de la perception de l’échelle des dégâts prévisibles du réchauffement et l’ampleur des transformations socio-économiques à accomplir pour les atténuer –, il est probable que le climatoscepticisme soit, en réalité, à peu près généralisé dans la société.

    Le monde politique en est le reflet. Il n’y existe aujourd’hui presque plus de déni pleinement assumé sur le sujet. Néanmoins, il persiste, à travers tout l’échiquier politique, une variété de prises de position ou de déclarations trahissant mille nuances de scepticisme. A commencer par le président de la République, qui, dans ses vœux pour l’année 2023, marquée par des températures caniculaires et la pire sécheresse depuis quatre siècles en Europe, s’est interrogé : « Qui aurait pu prédire (…) la crise climatique aux effets spectaculaires, cet été dans notre pays ? » Ce n’est pas un lapsus.

    Un tel texte n’a pas été prononcé sans avoir été méticuleusement relu par les collaborateurs d’Emmanuel Macron : que cette phrase, ignorant plus de trois décennies d’expertise internationale sur le changement climatique, ait pu être énoncée suggère une forme inconsciente de climatoscepticisme, non seulement chez le chef de l’Etat, mais dans tout son entourage.

    Déclarations convenues

    Ce qui est vrai à l’Elysée l’est aussi à tous les niveaux de responsabilité, et à travers presque tout le spectre politique. De l’ancien président Nicolas Sarkozy, qui attribue la crise climatique à la démographie africaine, au député (RN) du Loiret Thomas Ménagé, qui estime que le Groupe d’experts intergouvernemental sur l’évolution du climat (GIEC) « exagère ». Dans des communes de la « banlieue rouge » de Paris, on fait arracher des arbres centenaires – un des meilleurs remparts contre les îlots de chaleur urbains – pour des aménagements urbains contingents, comme si la prochaine canicule était la dernière.

    Quant à Carole Delga, la présidente (PS) du conseil régional d’Occitanie, elle assure placer très haut la question climatique dans l’ordre de ses priorités, tout en soutenant l’abattage de centaines d’arbres et le bétonnage de plus de 300 hectares de terres agricoles pour construire l’A69, entre Castres et Toulouse.

    Faire de la politique, c’est bien sûr faire des choix et les assumer, en dépit de ce que peut être l’état de la connaissance. Mais ces arbitrages trahissent chez ceux qui les prennent, au-delà des déclarations convenues, un for intérieur profondément sceptique sur la réalité de la menace et tout son potentiel d’aggravation.

    « Nous sommes tous climatosceptiques », déclarait le philosophe australien Clive Hamilton, en 2018, dans un entretien au Monde. Deux records, tombés cet été, en offrent une saisissante illustration. Juillet a été le plus chaud jamais mesuré à la surface de la planète et, le 6 de ce mois-là, l’aviation commerciale battait son record, avec 134 386 liaisons effectuées au cours de cette seule journée.
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/09/10/l-aggravation-recente-des-effets-du-rechauffement-coincide-et-c-est-une-autr

    #déni #climat #réchauffement_climatique #écologie #climatoscepticisme #capitalocène

    • « Nous sommes tous des climatosceptiques », 2018.

      Pour le philosophe australien Clive Hamilton, il est « presque impossible d’accepter toute la vérité sur ce que nous avons fait subir à la Terre ».

      Pourquoi est-il si compliqué d’agir contre le changement climatique ?

      L’une des raisons réside dans le déni de la réalité scientifique. Aux Etats-Unis, le climatoscepticisme a été inventé et propagé par l’industrie des énergies fossiles dans les années 1990. Mais ensuite, la science climatique, à la fin des années 2000, a été intégrée à une guerre culturelle qui n’a plus rien à voir avec les faits ou les preuves.

      Pour les conservateurs, rejeter la science est devenu l’expression de leur identité. Ils considèrent que la science climatique est promue par l’#écologie_politique. Or ils combattent l’écologie, au même titre que tous les progrès sociaux survenus dans les années 1960 (l’émancipation des femmes, le mouvement des droits civiques, les mouvements LGBT ou encore le pacifisme) qui, selon eux, sapent les bases d’une société chrétienne. Pour les faire évoluer sur le changement climatique, il faudrait changer leur identité, leur conception d’eux-mêmes en tant qu’êtres politiques, ce qui est extrêmement difficile.


      Donald Trump montre, avec sa main, la faiblesse du réchauffement climatique qui est, selon lui, en cours, alors qu’il annonce le retrait des Etats-Unis de l’accord de Paris, le 1er juin 2017 à Washington. KEVIN LAMARQUE / REUTERS
      Le problème vient donc surtout des climatosceptiques américains ?

      Il serait facile de seulement rejeter la faute sur les climatosceptiques et sur le président américain Donald Trump, mais la réalité est que nous sommes tous climatosceptiques. Il est presque impossible d’accepter toute la vérité sur ce que nous avons fait subir à la Terre . C’est si radical, si choquant, qu’il est très difficile de vivre avec tous les jours, cela nous en demande trop d’un point de vue émotionnel. J’ai vu des gens vivre avec cette idée au quotidien, ils ont développé une forme de folie.

      Accepter la totalité du message des scientifiques sur le climat signifierait abandonner le principe fondamental de la modernité, c’est-à-dire l’idée d’un progrès. Cela signifie renoncer à l’idée selon laquelle le futur est toujours une version améliorée du présent, ce qu’il ne sera plus à l’avenir. Il faudrait au contraire se résigner à un changement de vie radical. Or même ceux qui critiquent le capitalisme en sont dépendants.
      https://www.lemonde.fr/climat/article/2018/11/19/nous-sommes-tous-des-climatosceptiques_5385641_1652612.html
      https://justpaste.it/czmpt

      #climatologie #vérité #capitalisme

    • Accepter la totalité du message des scientifiques sur le climat signifierait abandonner le principe fondamental de la modernité, c’est-à-dire l’idée d’un progrès. Cela signifie renoncer à l’idée selon laquelle le futur est toujours une version améliorée du présent, ce qu’il ne sera plus à l’avenir. Il faudrait au contraire se résigner à un changement de vie radical. Or même ceux qui critiquent le capitalisme en sont dépendants.

      #progressisme #parle_pour_toi :p

    • @RastaPopoulos, un article pour toi :

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/09/10/hartmut-rosa-la-logique-moderne-est-intrinsequement-agressive_6188676_3232.h

      Dans Pourquoi la démocratie a besoin de la religion, vous considérez que notre société est captive de « l’accélération » et qu’elle a « perdu le sens du mouvement ». Quelle est la nature de la « situation de crise » qui en découle ?

      Cette formule renvoie à notre expérience quotidienne. Depuis le XVIIIe siècle, la conviction que demain serait meilleur qu’hier guidait chacun : nous allions vers plus de liberté, de savoir, de confort. La sensation d’aller de l’avant dérivait de trois facteurs, que sont la croissance économique, l’accélération technologique et l’innovation culturelle. C’est cette combinaison qui donne la caractéristique première de nos sociétés que j’appelle la « stabilisation dynamique », c’est-à-dire qu’elles sont vouées à accélérer pour maintenir leur équilibre. Nous devons nous développer, innover toujours plus vite pour rester exactement là où nous sommes, coincés dans ce que j’appelle une « immobilité frénétique ». A l’exception de notre société moderne, née au XVIIIe siècle, aucune civilisation n’a jamais vécu dans un tel schéma.
      Lire aussi l’entretien (2016) Hartmut Rosa : « Plus on économise le temps, plus on a la sensation d’en manquer »

      Longtemps, cet imaginaire du progrès a justifié de travailler dur pour que ses enfants aient une vie meilleure. Désormais, cet élan est perdu. Je situerais le point de rupture autour de l’an 2000. Les données montrent que l’écrasante majorité des Américains, des Européens, mais aussi des Coréens et des Japonais avaient perdu la foi de leurs parents. L’objectif est alors devenu que la situation de ses enfants ne recule pas.

      La nouveauté de cette crise n’est donc pas l’accélération, intrinsèque à la modernité, mais la perte du « sens du mouvement », autrement dit du sentiment d’aller de l’avant. Ainsi, les automobiles sont nocives pour l’environnement, mais nous continuons à en fabriquer toujours plus, car le système économique allemand repose sur cette industrie. Nous avons suffisamment de voitures, d’ordinateurs et de vêtements, mais nous devons continuer à en concevoir pour ne pas nous effondrer : sans cela, nous ne pouvons pas maintenir les hôpitaux, payer les retraites, financer les écoles.

    • Hartmut Rosa, penseur de l’accélération : « L’accélération conduit à un état d’agressivité, particulièrement sensible chez les individus des sociétés occidentales »
      https://justpaste.it/ava7d
      in Le Monde des religions et des spiritualités
      heureusement qu’on trouve des gens intelligents pour nous expliquer autrement que "nous ne pouvons pas maintenir les hôpitaux, payer les retraites, financer les écoles" sans le capitalisme.

      #foi #résonance

    • #qui_aurait_pu_predire : que cette phrase, ignorant plus de trois décennies d’expertise internationale sur le changement climatique, ait pu être énoncée suggère une forme inconsciente de climatoscepticisme, non seulement chez le chef de l’Etat, mais dans tout son entourage.

      Forme inconsciente ??? Ça euphémise carrément au Monde.

    • la chose foireuse dans cette phrases c’est le timing (3 décennies, on rigole). quant à la puissance du déni, du refus de reconnaître la réalité d’une perception, d’un savoir, d’un fait traumatisants, c’est un mécanisme de défense du moi, bien ordinaire.
      qu’il s’agisse de la pandémie, du réchauffement climatique ou, plus proche de ce qui se manifeste ici même, de l’antisémitismedegauche, le mensonge s’impose pour sauver le moi et pas simplement comme fruit d’un calcul, comme tant de mensonges. nos maîtres sont des gens biens ordinaires, dans une aliénation transcendantale qui tutoie la folie.

  • #Francesco_Sebregondi : « On ne peut pas dissocier les violences policières de la question du racisme »

    Après avoir travaillé pour #Forensic_Architecture sur les morts d’#Adama_Traoré et de #Zineb_Redouane, l’architecte #Francesco_Sebregondi a créé INDEX, pour enquêter sur les #violences_d’État et en particulier sur les violences policières en #France et depuis la France. Publié plusieurs semaines avant la mort de Nahel M., cet entretien mérite d’être relu attentivement. Rediffusion d’un entretien du 22 avril 2023

    C’est en 2010 que l’architecte, chercheur et activiste Eyal Weizman crée au Goldsmiths College de Londres un groupe de recherche pluridisciplinaire qui fera date : Forensic Architecture. L’Architecture forensique avait déjà fait l’objet d’un entretien dans AOC.

    Cette méthode bien particulière avait été créée à l’origine pour enquêter sur les crimes de guerre et les violations des droits humains en utilisant les outils de l’architecture. Depuis, le groupe a essaimé dans différentes parties du monde, créant #Investigative_Commons, une communauté de pratiques rassemblant des agences d’investigation, des activistes, des journalistes, des institutions culturelles, des scientifiques et artistes (la réalisatrice Laura Poitras en fait partie), etc. Fondé par l’architecte Francesco Sebregondi à Paris en 2020, #INDEX est l’une d’entre elles. Entre agence d’expertise indépendante et média d’investigation, INDEX enquête sur les violences d’État et en particulier sur les violences policières en France et depuis la France. Alors que les violences se multiplient dans le cadre des mouvements sociaux, comment « faire en sorte que l’État même s’équipe de mécanismes qui limitent les excès qui lui sont inhérents » ? Si la vérité est en ruines, comment la rétablir ? OR

    Vous avez monté l’agence d’investigation INDEX après avoir longtemps travaillé avec Forensic Architecture. Racontez-nous…
    Forensic Architecture est né en 2010 à Goldsmiths à Londres. À l’origine, c’était un projet de recherche assez expérimental, pionnier dans son genre, qui cherchait à utiliser les outils de l’architecture pour enquêter sur les violations des #droits_humains et en particulier du droit de la guerre. La période était charnière : avec l’émergence des réseaux sociaux et des smartphones, les images prises par des témoins étaient diffusées très rapidement sur des réseaux souvent anonymes. La quantité d’#images et de #documentation_visuelle disponible commençait à augmenter de manière exponentielle et la démocratisation de l’accès à l’#imagerie_satellitaire permettait de suivre d’un point de vue désincarné l’évolution d’un territoire et les #traces qui s’y inscrivaient. La notion de #trace est importante car c’est ce qui nous relie à la tradition de l’enquête appliquée plus spécifiquement au champ spatial. Les traces que la #guerre laisse dans l’#environnement_urbain sont autant de points de départ pour reconstruire les événements. On applique à ces traces une série de techniques d’analyse architecturale et spatiale qui nous permettent de remonter à l’événement. Les traces sont aussi dans les documents numériques, les images et les vidéos. Une large partie de notre travail est une forme d’archéologie des pixels qui va chercher dans la matérialité même des documents numériques. On peut reconstituer les événements passés, par exemple redéployer une scène en volume, à partir de ses traces numériques en image.

    Quels en ont été les champs d’application ?
    À partir du travail sur les conflits armés, au sein de Forensic Architecture, on a développé une série de techniques et de recherches qui s’appliquent à une variété d’autres domaines. On commençait à travailler sur les violences aux frontières avec le projet de Lorenzo Pezzani et Charles Zeller sur les bateaux de migrants laissés sans assistance aux frontières méditerranéennes de l’Europe, à des cas de #violences_environnementales ou à des cas de violences policières… L’origine de notre approche dans l’enquête sur des crimes de guerre faisait qu’on avait tendance à porter un regard, depuis notre base à Londres, vers les frontières conflictuelles du monde Occidental. On s’est alors rendus compte que les violences d’État qui avaient lieu dans des contextes plus proches de nous, que ce soit en Grande-Bretagne, aux États-Unis ou en Grèce, pouvaient bénéficier d’un éclairage qui mobiliserait les mêmes techniques et approches qu’on avait à l’origine développées pour des situations de conflits armés. Tout cela est en lien assez direct avec la militarisation de la #police un peu partout dans le Nord global, le contexte occidental, que ce soit au niveau des #armes utilisées qu’au niveau des #stratégies employées pour maintenir l’ordre.

    La France vous a ensuite semblé être un pays depuis lequel enquêter ?
    Je suis revenu vivre en France en 2018 en plein milieu de la crise sociale autour du mouvement des Gilets jaunes et de son intense répression policière. Dès ce moment-là, il m’a semblé important d’essayer d’employer nos techniques d’enquête par l’espace et les images pour éclairer ce qui était en train de se passer. On en parlait aussi beaucoup. En 2020, j’ai dirigé les enquêtes sur la mort d’Adama Traoré et de Zineb Redouane pour le compte de Forensic Architecture depuis la France avec une équipe principalement française. C’était une période d’incubation d’INDEX en quelque sorte. Ces enquêtes ont initié notre travail sur le contexte français en rassemblant des moyens et une équipe locale.
    On est aujourd’hui dans un rapport de filiation assez clair avec Forensic Architecture même si INDEX est structurellement autonome. Les deux organisations sont très étroitement liées et entretiennent des relations d’échange, de partage de ressources, etc. Tout comme Forensic Architecture, INDEX est l’une des organisations du réseau international Investigative Commons qui fédère une douzaine de structures d’investigation indépendantes dans différents pays et qui travaillent à l’emploi des techniques d’enquêtes en sources ouvertes dans des contextes locaux.

    Il existe donc d’autres structures comme INDEX ?
    Elles sont en train d’émerger. On est dans cette phase charnière très intéressante. On passe d’une organisation reconnue comme pionnière dans l’innovation et les nouvelles techniques d’enquête à tout un champ de pratiques qui a encore beaucoup de marge de développement et qui, en se frottant à des contextes locaux ou spécifiques, vient éprouver sa capacité à interpeller l’opinion, à faire changer certaines pratiques, à demander de la transparence et des comptes aux autorités qui se rendent responsables de certaines violences.

    On utilise depuis toujours le terme d’enquête dans les sciences humaines et sociales mais l’on voit aujourd’hui que les architectes, les artistes s’en emparent, dans des contextes tous très différents. Qu’est-ce que l’enquête pour INDEX ?
    On emploie le terme d’#enquête dans un sens peut-être plus littéral que son usage en sciences humaines ou en recherche car il est question de faire la lumière sur les circonstances d’un incident et d’établir des rapports de causalité dans leur déroulement, si ce n’est de responsabilité. Il y a aussi cette idée de suivre une trace. On travaille vraiment essentiellement sur une matière factuelle. L’enquête, c’est une pratique qui permet de faire émerger une relation, un #récit qui unit une série de traces dans un ensemble cohérent et convaincant. Dans notre travail, il y a aussi la notion d’#expertise. Le nom INDEX est une contraction de « independant expertise ». C’est aussi une référence à la racine latine d’indice. Nous cherchons à nous réapproprier la notion d’expertise, trop souvent dévoyée, en particulier dans les affaires de violences d’État sur lesquelles on travaille.

    Vos enquêtes s’appuient beaucoup sur les travaux d’Hannah Arendt et notamment sur Vérité et politique qui date de 1964.
    On s’appuie beaucoup sur la distinction que Hannah Arendt fait entre #vérité_de_fait et #vérité_de_raison, en expliquant que les vérités de fait sont des propositions qui s’appuient sur l’extérieur, vérifiables, et dont la valeur de vérité n’est possible qu’en relation avec d’autres propositions et d’autres éléments, en particuliers matériels. La vérité de raison, elle, fait appel à un système de pensée auquel on doit adhérer. C’est à partir de cette distinction qu’Arendt déploie les raisons pour lesquelles #vérité et #politique sont toujours en tension et comment la pratique du politique doit s’appuyer sur une série de vérités de raison, sur l’adhésion d’un peuple à une série de principes que le pouvoir en place est censé incarner. Ainsi, le pouvoir, dépendant de cette adhésion, doit tenir à distance les éléments factuels qui viendraient remettre en cause ces principes. C’est ce qu’on essaye de déjouer en remettant au centre des discussions, au cœur du débat et de l’espace public des vérités de fait, même quand elles sont en friction avec des « #vérités_officielles ».
    Du temps d’Hannah Arendt, le politique avait encore les moyens d’empêcher la vérité par le régime du secret. C’est beaucoup moins le cas dans les conditions médiatiques contemporaines : le problème du secret tend à céder le pas au problème inverse, celui de l’excès d’informations. Dans cet excès, les faits et la vérité peuvent se noyer et venir à manquer. On entend alors parler de faits alternatifs, on entre dans la post-vérité, qui est en fait une négation pure et simple de la dimension sociale et partagée de la vérité. Si on veut résister à ce processus, si on veut réaffirmer l’exigence de vérité comme un #bien_commun essentiel à toute société, alors, face à ces défis nouveaux, on doit faire évoluer son approche et ses pratiques. Beaucoup des techniques développées d’abord avec Forensic Architecture et maintenant avec INDEX cherchent à développer une culture de l’enquête et de la #vérification. Ce sont des moyens éprouvés pour mettre la mise en relation de cette masse critique de données pour faire émerger du sens, de manière inclusive et participative autant que possible.

    L’#architecture_forensique, même si elle est pluridisciplinaire, s’appuie sur des méthodes d’architecture. En quoi est-ce particulièrement pertinent aujourd’hui ?
    L’une des techniques qui est devenue la plus essentielle dans les enquêtes que l’on produit est l’utilisation d’un modèle 3D pour resituer des images et des vidéos d’un événement afin de les recouper entre elles. Aujourd’hui, il y a souvent une masse d’images disponibles d’un événement. Leur intérêt documentaire réside moins dans l’individualité d’une image que sur la trame de relations entre les différentes images. C’est la #spatialisation et la #modélisation en 3D de ces différentes prises de vue qui nous permet d’établir avec précision la trame des images qui résulte de cet événement. Nous utilisons les outils de l’architecture à des fins de reconstitution et de reconstruction plus que de projection, que ce soit d’un bâtiment, d’un événement, etc.

    Parce qu’il faut bien rappeler que vos enquêtes sont toujours basées sur les lieux.
    L’environnement urbain est le repère clé qui nous permet de resituer l’endroit où des images ont été prises. Des détails de l’environnement urbain aussi courants qu’un passage piéton, un banc public, un kiosque à journaux ou un abribus nous permettent de donner une échelle pour reconstituer en trois dimensions où et comment une certaine scène s’est déroulée. Nous ne considérons pas l’architecture comme la pratique responsable de la production de l’environnement bâti mais comme un champ de connaissance dont la particularité est de mettre en lien une variété de domaines de pensées et de savoirs entre eux. Lorsqu’on mobilise l’architecture à des fins d’enquête, on essaye de faire dialoguer entre elles toute une série de disciplines. Nos équipes mêmes sont très interdisciplinaires. On fait travailler des vidéastes, des ingénieurs des matériaux, des juristes… le tout pour faire émerger une trame narrative qui soit convaincante et qui permette de resituer ce qui s’est passé autour de l’évènement sous enquête.

    L’historienne Samia Henni qui enseigne à Cornell University aux États-Unis, et qui se considère « historienne des environnements bâtis, détruits et imaginés », dit qu’apprendre l’histoire des destructions est aussi important que celles des constructions, en raison notamment du nombre de situations de conflits et de guerres sur la planète. Quand on fait du projet d’architecture, on se projette en général dans l’avenir. En ce qui vous concerne, vous remodélisez et reconstituez des événements passés, souvent disparus. Qu’est-ce que ce rapport au temps inversé change en termes de représentations ?
    Je ne suis pas sûr que le rapport au temps soit inversé. Je pense que dans la pratique de l’enquête, c’est toujours l’avenir qui est en jeu. C’est justement en allant chercher dans des événements passés, en cherchant la manière précise dont ils se sont déroulés et la spécificité d’une reconstitution que l’on essaye de dégager les aspects structurels et systémiques qui ont provoqué cet incident. En ce sens, ça nous rapproche peut-être de l’idée d’#accident de Virilio, qui est tout sauf imprévisible.
    L’enjeu concerne l’avenir. Il s’agit de montrer comment certains incidents ont pu se dérouler afin d’interpeller, de demander des comptes aux responsables de ces incidents et de faire en sorte que les conditions de production de cette #violence soient remises en question pour qu’elle ne se reproduise pas. Il s’agit toujours de changer les conditions futures dans lesquelles nous serons amenés à vivre ensemble, à habiter, etc. En cela je ne pense pas que la flèche du temps soit inversée, j’ai l’impression que c’est très proche d’une pratique du projet architectural assez classique.

    Vous utilisez souvent le terme de « violences d’État ». Dans une tribune de Libération intitulée « Nommer la violence d’État » en 2020, encore d’actualité ces temps-ci, l’anthropologue, sociologue et médecin Didier Fassin revenait sur la rhétorique du gouvernement et son refus de nommer les violences policières. Selon lui, « ne pas nommer les violences policières participe précisément de la violence de l’État. » Il y aurait donc une double violence. Cette semaine, l’avocat Arié Alimi en parlait aussi dans les colonnes d’AOC. Qu’en pensez-vous ?
    Je partage tout à fait l’analyse de Didier Fassin sur le fait que les violences d’État s’opèrent sur deux plans. Il y a d’une part la violence des actes et ensuite la violence du #déni des actes. Cela fait le lien avec l’appareil conceptuel développé par Hannah Arendt dans Vérité et politique. Nier est nécessaire pour garantir une forme de pouvoir qui serait remise en question par des faits qui dérangent. Cela dit, il est important de constamment travailler les conditions qui permettent ou non de nommer et surtout de justifier l’emploi de ces termes.

    Vous utilisez le terme de « violences d’État » mais aussi de « violences policières » de votre côté…
    Avec INDEX, on emploie le terme de « violences d’État » parce qu’on pense qu’il existe une forme de continuum de violence qui s’opère entre violences policières et judiciaires, le déni officiel et l’#impunité de fait étant des conditions qui garantissent la reproduction des violences d’État. Donc même si ce terme a tendance à être perçu comme particulièrement subversif – dès qu’on le prononce, on tend à être étiqueté comme militant, voire anarchiste –, on ne remet pas forcément en question tout le système d’opération du pouvoir qu’on appelle l’État dès lors qu’on dénonce ses violences. On peut évoquer Montesquieu : « Le #pouvoir arrête le pouvoir ». Comment faire en sorte que l’État même s’équipe de mécanismes qui limitent les excès qui lui sont inhérents ? Il s’agit a minima d’interpeller l’#opinion_publique sur les pratiques de l’État qui dépassent le cadre légal ; mais aussi, on l’espère, d’alimenter la réflexion collective sur ce qui est acceptable au sein de nos sociétés, au-delà la question de la légalité.

    Ce que je voulais dire c’est que Forensic Architecture utilise le terme de « violences d’État » ou de « crimes » dans un sens plus large. Sur le site d’INDEX, on trouve le terme de « violences policières » qui donne une information sur le cadre précis de vos enquêtes.
    On essaye d’être le maillon d’une chaîne. Aujourd’hui, on se présente comme une ONG d’investigation qui enquête sur les violences policières en France. Il s’agit d’être très précis sur le cadre de notre travail, local, qui s’occupe d’un champ bien défini, dans un contexte particulier. Cela reflète notre démarche : on est une petite structure, avec peu de moyens. En se spécialisant, on peut faire la lumière sur une série d’incidents, malheureusement récurrents, mais en travaillant au cœur d’un réseau déjà constitué et actif en France qui se confronte depuis plusieurs décennies aux violences d’État et aux violences policières plus particulièrement. En se localisant et étant spécifique, INDEX permet un travail de collaboration et d’échanges beaucoup plus pérenne et durable avec toute une série d’acteurs et d’actrices d’un réseau mobilisé autour d’un problème aussi majeur que l’usage illégitime de la force et de la violence par l’État. Limiter le cadre de notre exercice est une façon d’éprouver la capacité de nos techniques d’enquête et d’intervention publique à véritablement amorcer un changement dans les faits.

    On a parfois l’impression que la production des observateurs étrangers est plus forte, depuis l’extérieur. Quand la presse ou les observateurs étrangers s’emparent du sujet, ils prennent tout de suite une autre ampleur. Qu’en pensez-vous ?
    C’est sûr que la possibilité de projeter une perspective internationale sur un incident est puissante – je pense par exemple à la couverture du désastre du #maintien_de_l’ordre lors de la finale de la Ligue des champions 2022 au Stade de France qui a causé plus d’embarras aux représentants du gouvernement que si le scandale s’était limité à la presse française –, mais en même temps je ne pense pas qu’il y ait véritablement un gain à long terme dans une stratégie qui viserait à créer un scandale à l’échelle internationale. Avec INDEX, avoir une action répétée, constituer une archive d’enquêtes où chacune se renforce et montre le caractère structurel et systématique de l’exercice d’une violence permet aussi de sortir du discours de l’#exception, de la #bavure, du #dérapage. Avec un travail au long cours, on peut montrer comment un #problème_structurel se déploie. Travailler sur un tel sujet localement pose des problèmes, on a des difficultés à se financer comme organisation. Il est toujours plus facile de trouver des financements quand on travaille sur des violations des droits humains ou des libertés fondamentales à l’étranger que lorsqu’on essaye de le faire sur place, « à la maison ». Cela dit, on espère que cette stratégie portera ses fruits à long terme.

    Vous avez travaillé avec plusieurs médias français : Le Monde, Libération, Disclose. Comment s’est passé ce travail en commun ?
    Notre pratique est déjà inter et pluridisciplinaire. Avec Forensic Architecture, on a souvent travaillé avec des journalistes, en tant que chercheurs on est habitués à documenter de façon très précise les éléments sur lesquels on enquête puis à les mettre en commun. Donc tout s’est bien passé. Le travail très spécifique qu’on apporte sur l’analyse des images, la modélisation, la spatialisation, permet parfois de fournir des conclusions et d’apporter des éléments que l’investigation plus classique ne permet pas.

    Ce ne sont pas des compétences dont ces médias disposent en interne ?
    Non mais cela ne m’étonnerait pas que ça se développe. On l’a vu avec le New York Times. Les premières collaborations avec Forensic Architecture autour de 2014 ont contribué à donner naissance à un département qui s’appelle Visual Investigations qui fait maintenant ce travail en interne de façon très riche et très convaincante. Ce sera peut-être aussi l’avenir des rédactions françaises.

    C’est le cas du Monde qui a maintenant une « cellule d’enquête vidéo ».
    Cela concerne peut-être une question plus générale : ce qui constitue la valeur de vérité aujourd’hui. Les institutions qui étaient traditionnellement les garantes de vérité publique sont largement remises en cause, elles n’ont plus le même poids, le même rôle déterminant qu’il y a cinquante ans. Les médias eux-mêmes cherchent de nouvelles façons de convaincre leurs lecteurs et lectrices de la précision, de la rigueur et de la dimension factuelle de l’information qu’ils publient. Aller chercher l’apport documentaire des images et en augmenter la capacité de preuve et de description à travers les techniques qu’on emploie s’inscrit très bien dans cette exigence renouvelée et dans ce nouveau standard de vérification des faits qui commence à s’imposer et à circuler. Pour que les lecteurs leur renouvellent leur confiance, les médias doivent aujourd’hui s’efforcer de convaincre qu’ils constituent une source d’informations fiables et surtout factuelles.

    J’aimerais que l’on parle du contexte très actuel de ces dernières semaines en France. Depuis le mouvement contre la réforme des retraites, que constatez-vous ?
    On est dans une situation où les violences policières sont d’un coup beaucoup plus visibles. C’est toujours un peu pareil : les violences policières reviennent au cœur de l’actualité politique et médiatique au moment où elles ont lieu dans des situations de maintien de l’ordre, dans des manifestations… En fait, quand elles ne touchent plus seulement des populations racisées et qu’elles ne se limitent plus aux quartiers populaires.

    C’est ce que disait Didier Fassin dans le texte dont nous parlions à l’instant…
    Voilà. On ne parle vraiment de violences policières que quand elles touchent un nombre important de personnes blanches. Pendant la séquence des Gilets jaunes, c’était la même dynamique. C’est à ce moment-là qu’une large proportion de la population française a découvert les violences policières et les armes dites « non létales », mais de fait mutilantes, qui sont pourtant quotidiennement utilisées dans les #quartiers_populaires depuis des décennies. Je pense qu’il y a un problème dans cette forme de mobilisation épisodique contre les violences policières parce qu’elle risque aussi, par manque de questionnements des privilèges qui la sous-tendent, de reproduire passivement des dimensions de ces mêmes violences. Je pense qu’au fond, on ne peut pas dissocier les violences policières de la question du racisme en France.
    Il me semble aussi qu’il faut savoir saisir la séquence présente où circulent énormément d’images très parlantes, évidentes, choquantes de violences policières disproportionnées, autour desquelles tout semblant de cadre légal a sauté, afin de justement souligner le continuum de cette violence, à rebours de son interprétation comme « flambée », comme exception liée au mouvement social en cours uniquement. Les enquêtes qu’on a publiées jusqu’ici ont pour la plupart porté sur des formes de violences policières banalisées dans les quartiers populaires : tirs sur des véhicules en mouvement, situations dites de « refus d’obtempérer », usages de LBD par la BAC dans une forme de répression du quotidien et pas d’un mouvement social en particulier. Les séquences que l’on vit actuellement doivent nous interpeller mais aussi nous permettre de faire le lien avec la dimension continue, structurelle et discriminatoire de la violence d’État. On ne peut pas d’un coup faire sauter la dimension discriminatoire des violences policières et des violences d’État au moment où ses modes opératoires, qui sont régulièrement testés et mis au point contre des populations racisées, s’abattent soudainement sur une population plus large.

    Vous parlez des #violences_systémiques qui existent, à une autre échelle…
    Oui. On l’a au départ vu avec les Gilets jaunes lorsque les groupes #BAC ont été mobilisés. Ces groupes sont entraînés quotidiennement à faire de la #répression dans les quartiers populaires. C’est là-bas qu’ils ont développé leurs savoirs et leurs pratiques particulières, très au contact, très agressives. C’est à cause de cet exercice quotidien et normalisé des violences dans les quartiers populaires que ces unités font parler d’elles quand elles sont déployées dans le maintien de l’ordre lors des manifestations. On le voit encore aujourd’hui lors de la mobilisation autour de la réforme des retraites, en particulier le soir. Ces situations évoluent quotidiennement donc je n’ai pas toutes les dernières données mais la mobilisation massive des effectifs de police – en plus de la #BRAV-M [Brigades de répression des actions violentes motorisées] on a ajouté les groupes BAC –, poursuivent dans la logique dite du « contact » qui fait souvent beaucoup de blessés avec les armes utilisées.

    Avez-vous été sollicités ces temps-ci pour des cas en particulier ?
    Il y aura tout un travail à faire à froid, à partir de la quantité d’images qui ont émergé de la répression et en particulier des manifestations spontanées. Aujourd’hui, les enjeux ne me semblent pas concerner la reconstitution précise d’un incident mais plutôt le traitement et la confrontation de ces pratiques dont la documentation montre le caractère systémique et hors du cadre légal de l’emploi de la force. Cela dit, on suit de près les blessures, dont certaines apparemment mutilantes, relatives à l’usage de certaines armes dites « non létales » et en particulier de #grenades qui auraient causé une mutilation ici, un éborgnement là… Les données précises émergent au compte-goutte…
    On a beaucoup entendu parler des #grenades_offensives pendant le mouvement des Gilets jaunes. Le ministère de l’Intérieur et le gouvernement ont beaucoup communiqué sur le fait que des leçons avaient été tirées depuis, que certaines des grenades le plus souvent responsables ou impliquées dans des cas de mutilation avaient été interdites et que l’arsenal avait changé. En fait, elles ont été remplacées par des grenades aux effets quasi-équivalents. Aujourd’hui, avec l’escalade du mouvement social et de contestation, les mêmes stratégies de maintien de l’ordre sont déployées : le recours massif à des armes de l’arsenal policier. Le modèle de grenade explosive ou de #désencerclement employé dans le maintien de l’ordre a changé entre 2018 et 2023 mais il semblerait que les #blessures et les #mutilations qui s’ensuivent perdurent.

    À la suite des événements de Sainte-Soline, beaucoup d’appels à témoins et à documents visuels ont circulé sur les réseaux sociaux. Il semblerait que ce soit de plus en plus fréquent.
    Il y a une prise de conscience collective d’un potentiel – si ce n’est d’un pouvoir – de l’image et de la documentation. Filmer et documenter est vraiment devenu un réflexe partagé dans des situations de tension. J’ai l’impression qu’on est devenus collectivement conscients de l’importance de pouvoir documenter au cas où quelque chose se passerait. Lors de la proposition de loi relative à la sécurité globale, on a observé qu’il y avait un véritable enjeu de pouvoir autour de ces images, de leur circulation et de leur interprétation. Le projet de loi visait à durcir l’encadrement pénal de la capture d’image de la police en action. Aujourd’hui, en voyant le niveau de violence déployée alors que les policiers sont sous les caméras, on peut vraiment se demander ce qu’il se passerait dans la rue, autour des manifestations et du mouvement social en cours si cette loi était passée, s’il était illégal de tourner des images de la police.
    En tant que praticiens de l’enquête en source ouverte, on essaye de s’articuler à ce mouvement spontané et collectif au sein de la société civile, d’utiliser les outils qu’on a dans la poche, à savoir notre smartphone, pour documenter de façon massive et pluri-perspective et voir ce qu’on peut en faire, ensemble. Notre champ de pratique n’existe que grâce à ce mouvement. La #capture_d’images et l’engagement des #témoins qui se mettent souvent en danger à travers la prise d’images est préalable. Notre travail s’inscrit dans une démarche qui cherche à en augmenter la capacité documentaire, descriptive et probatoire – jusqu’à la #preuve_judiciaire –, par rapport à la négociation d’une vérité de fait autour de ces évènements.

    Le mouvement « La Vérité pour Adama », créé par sa sœur suite à la mort d’Adama Traoré en 2016, a pris beaucoup d’ampleur au fil du temps, engageant beaucoup de monde sur l’affaire. Vous-mêmes y avez travaillé…
    La recherche de la justice dans cette appellation qui est devenue courante parmi les différents comités constitués autour de victimes est intéressante car elle met en tension les termes de vérité et de justice et qu’elle appelle, implicitement, à une autre forme de justice que celle de la #justice_institutionnelle.
    Notre enquête sur la mort d’Adama Traoré a été réalisée en partenariat avec Le Monde. À la base, c’était un travail journalistique. Il ne s’agit pas d’une commande du comité et nous n’avons pas été en lien. Ce n’est d’ailleurs jamais le cas au moment de l’enquête. Bien qu’en tant qu’organisation, INDEX soit solidaire du mouvement de contestation des abus du pouvoir policier, des violences d’État illégitimes, etc., on est bien conscients qu’afin de mobiliser efficacement notre savoir et notre expertise, il faut aussi entretenir une certaine distance avec les « parties » – au sens judiciaire –, qui sont les premières concernées dans ces affaires, afin que notre impartialité ne soit pas remise en cause. On se concentre sur la reconstitution des faits et pas à véhiculer un certain récit des faits.

    Le comité « La Vérité pour Adama » avait commencé à enquêter lui-même…
    Bien sûr. Et ce n’est pas le seul. Ce qui est très intéressant autour des #comités_Vérité_et_Justice qui émergent dans les quartiers populaires autour de victimes de violences policières, c’est qu’un véritable savoir se constitue. C’est un #savoir autonome, qu’on peut dans de nombreux cas considérer comme une expertise, et qui émerge en réponse au déni d’information des expertises et des enquêtes officielles. C’est parce que ces familles sont face à un mur qu’elles s’improvisent expertes, mais de manière très développée, en mettant en lien toute une série de personnes et de savoirs pour refuser le statu quo d’une enquête qui n’aboutit à rien et d’un non-lieu prononcé en justice. Pour nous, c’est une source d’inspiration. On vient prolonger cet effort initial fourni par les premiers et premières concernées, d’apporter, d’enquêter et d’expertiser eux-mêmes les données disponibles.

    Y a-t-il encore une différence entre images amateures et images professionnelles ? Tout le monde capte des images avec son téléphone et en même temps ce n’est pas parce que les journalistes portent un brassard estampillé « presse » qu’ils et elles ne sont pas non plus victimes de violences. Certain·es ont par exemple dit que le journaliste embarqué Rémy Buisine avait inventé un format journalistique en immersion, plus proche de son auditoire. Par rapport aux médias, est-ce que quelque chose a changé ?
    Je ne voudrais pas forcément l’isoler. Rémy Buisine a été particulièrement actif pendant le mouvement des Gilets jaunes mais il y avait aussi beaucoup d’autres journalistes en immersion. La condition technique et médiatique contemporaine permet ce genre de reportage embarqué qui s’inspire aussi du modèle des reporters sur les lignes de front. C’est intéressant de voir qu’à travers la militarisation du maintien de l’ordre, des modèles de journalisme embarqués dans un camp ou dans l’autre d’un conflit armé se reproduisent aujourd’hui.

    Avec la dimension du direct en plus…
    Au-delà de ce que ça change du point de vue de la forme du reportage, ce qui pose encore plus question concerne la porosité qui s’est établie entre les consommateurs et les producteurs d’images. On est dans une situation où les mêmes personnes qui reçoivent les flux de données et d’images sont celles qui sont actives dans leur production. Un flou s’opère dans les mécanismes de communication entre les pôles de production et de réception. Cela ouvre une perspective vers de formes nouvelles de circulation de l’information, de formes beaucoup plus inclusives et participatives. C’est déjà le cas. On est encore dans une phase un peu éparse dans laquelle une culture doit encore se construire sur la manière dont on peut interpréter collectivement des images produites collectivement.

    https://aoc.media/entretien/2023/08/11/francesco-sebregondi-on-ne-peut-pas-dissocier-les-violences-policieres-de-la-

    #racisme #violences_policières

    ping @karine4

    • INDEX

      INDEX est une ONG d’investigation indépendante, à but non-lucratif, créée en France en 2020.

      Nous enquêtons et produisons des rapports d’expertise sur des faits allégués de violence, de violations des libertés fondamentales ou des droits humains.

      Nos enquêtes réunissent un réseau indépendant de journalistes, de chercheur·es, de vidéastes, d’ingénieur·es, d’architectes, ou de juristes.

      Nos domaines d’expertise comprennent l’investigation en sources ouvertes, l’analyse audiovisuelle et la reconstitution numérique en 3D.

      https://www.index.ngo

  • Marche pour Adama Traoré : une procédure engagée contre sa sœur, l’un de ses frères interpellé
    https://www.bfmtv.com/police-justice/en-direct-mort-de-nahel-et-d-adama-traore-des-marches-de-deuil-et-colere-cont

    Une policière va déposer plainte pour violences contre les forces de l’ordre à l’encontre du frère d’Adama Traoré, a-t-on appris de sources concordantes, ce samedi.

    Deux personnes ont été interpellées, dont Youssouf Traoré, le frère d’Adama Traoé, au rassemblement parisien, en marge de la dispersion pour violences sur personne dépositaire de l’autorité publique, selon la préfecture de police de Paris.

    "Le frère d’Adama arrêté c’est une honte. Il n’y avait aucune raison. Tout se passait très bien. La manifestation était en train de se disperser dans le calme à l’appel d’Assa Traore. J’étais à proximité rien ne justifie ce qui s’est passé", a réagi la députée Nupes de Paris Sandrine Rousseau.

    edit placage ventral, de Youssouf Traoré, selon les moments, deux ou trois flics de la #Brav_M sur le dos


    lors de sa GAV, il a été transféré à l’hosto sur un brancard

    #police #vérité_et_justice_pour_Adama_Traoré #Youssouf_Traoré

  • Kaoutar Harchi, écrivaine, sur la mort de Nahel M. : “Si eux vont sans honte, nous n’irons pas sans révolte”
    https://www.telerama.fr/debats-reportages/kaoutar-harchi-ecrivaine-sur-la-mort-de-nahel-si-eux-vont-sans-honte-nous-n

    Le Président Emmanuel Macron parlait, il y a peu, de la « décivilisation » de la société française. Le ministre de l’Intérieur Gérald Darmanin évoquait, lui, son « ensauvagement ». Désormais, face aux caméras, ça prend un air grave, ça présente ses condoléances aux proches de Nahel, ça veut montrer que ça a du cœur. Ça sait, surtout, que le monde entier a vu la vidéo du meurtre de Nahel. Ça ne peut plus miser sur le doute et le mensonge.

  • Adrien D., De la difficulté d’élever des enfants en milieu industriel, 2022
    https://sniadecki.wordpress.com/2023/02/09/adriend-enfants

    Peut-être simplement dire la vérité : « Le secret c’est de tout dire ». Leur dire ce qu’il y a derrière ces jeux, ces objets, ces bolides, ces aliments. Tant pis pour le père Noël. Prendre le temps de ridiculiser ces icônes frelatées et rire de la bêtise d’un Thomas Pesquet ou d’un Elon Musk et de leur obsession pour une planète morte. Rire de ce voisin et de sa voiture électronucléaire équipée d’un écran géant alors que passent à la radio des publicités pour la sécurité routière contre l’usage des écrans au volant. Débloquer les imaginaires, leur montrer la nature sauvage ou ce qu’il peut en rester, et les laisser imaginer un univers dans un monde qui ne les sollicite pas continuellement. Les inviter à jouer à partir de peu comme ces enfants qui ont préféré jouer pendant des heures avec un carton le soir de Noël alors qu’ils avaient reçu un nombre indécent de cadeaux. Leur raconter des histoires subversives dans lesquelles les héros ne sont pas ceux ou celles qui ont la plus grosse technologie. Les laisser s’ennuyer, les laisser imaginer d’autres mondes loin des écrans, loin du monde médiatique. Pour que revienne chez eux le goût de l’imagination, certes, mais aussi, et surtout, que revienne celui de l’empathie afin qu’ils puissent se représenter ces enfants, ces personnes qui, parfois de l’autre côté de la planète, se crèvent ou s’intoxiquent pour leur confort. Les marquer d’une autre empreinte que celle du monde industriel, celui de la réalité matérielle de nos vies, que la sensation qu’ils aient en plus haute estime soit un jour celle de la dignité pour soi et pour les autres et qu’ils ne se réfugient pas dans une raison cynique qui permet de rendre supportable notre régression technophile.

    #enfants #éducation #critique_techno #anti-industriel #capitalisme #exploitation #vérité

  • Forensic Architecture : Mapping is Power

    https://vimeo.com/711628232

    “The truth is in the error.” Meet the head of Forensic Architecture, Eyal Weizman, in this fascinating in-depth interview about his work and the potential of architecture as a critical tool for understanding the world.

    “Since I remember myself, I have wanted to be an architect.” Eyal Weizman grew up in Haifa, Israel, and from early on developed an understanding of “the political significance of architecture”:

    “I could see the way that neighbourhoods were organized. I could see the separation. I could see the frontier areas between the Palestinian community and the Jewish majority.”

    Forensic Architecture is far from a traditional architectural company. It is a multidisciplinary research group investigating human rights violations, including violence committed by states, police forces, militaries, and corporations. It includes not only architects but also artists, software developers, journalists, lawyers and animators. Working with grassroots activists, international NGOs and media organisations, the team carries out investigations on behalf of people affected by political conflict, police brutality, border regimes and environmental violence.
    Forensic Architecture uses architectural tools and methods to conduct spatial and architectural analysis of particular incidents in the broadest possible sense. Visualising and rendering in 3D, they not only reconstruct a space but also document what happened in it.
    “People mistake architecture to be about building buildings. Architecture is not that. Architecture is the movements and the relations that are enabled by the way you open, close and channel functions, people, and movements within that. The minute that you understand that architecture is about the incident, about the event, about social relations that happen within it, it enables you to understand social relations and events in a much better way. In fact, in a very unique way”, says Eyal Weizman.

    Forensic Architecture gives a voice to materials, structures and people by translating and disseminating the evidence of the crimes committed against them, telling their stories in images and sound. When an incident of violence and its witnessing are spatially analysed, they acquire visual form. Accordingly, Forensic Architecture is also an aesthetic practice studying how space is sensitised to the events that take place within it. The investigation and representation of testimony depend on how an event is perceived, documented and presented.

    “There is a principle of Forensic investigation called the “look hard principal” – and it claims that every contact leaves a trace. Because many of the crimes that Forensic Architecture is looking at today happen within cities, happen within buildings, architecture becomes the medium that conserves those traces.”

    Unlike established forms of crime and conflict investigation, Forensic Architecture employs several unconventional and unique methods to shed light on events based on the spaces where they took place. They also invest much attention in mapping and understanding concepts like witness, testimony and evidence, and their interrelations. Witness testimony, which sits at the centre of human rights discourse, can be more than viva voce, oral testimony in a court. Any material, like leaves, dust and bricks, can bear witness.

    Forensic Architecture investigates and gives a voice to material evidence by using open-source data analysed using cutting-edge methods partly of their own design. Using 3D models, they facilitate memory recollection from witnesses who have experienced traumatic events. The objective is to reconstruct the ‘space’ in which the incident in question took place and then re-enact the relevant events within this constructed model.
    The most important sources tend to be public: social media, blogs, government websites, satellite data sources, news sites and so on. Working with images, data, and testimony and making their results available online while exhibiting select cases in galleries and museums, Forensic Architecture brings its investigations into a new kind of courtroom.
    “Our work is about care. It is about attention. It is about developing and augmenting the capacity to notice, to register those traces. But that’s not all. Then we need to connect them – one trace to the other. In that sense, our work is like a detective. We look at the past in order to transform the future.”
    Eyal Weizman was interviewed by Marc-Christoph Wagner at Forensic Architecture’s studio in London in April 2022.

    #Eyal_Weizman #forensic_architecture #architecture_forensique #vidéo #interview #architecture #traces #preuves #vérité #esthétique

  • Wikipédia : enquête sur la fabrique quotidienne d’un géant encyclopédique
    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/231222/wikipedia-enquete-sur-la-fabrique-quotidienne-d-un-geant-encyclopedique

    Malgré les bonnes volontés affichées et des efforts visant à réduire les biais systémiques, la politique éditoriale de Wikipédia l’amène inexorablement à privilégier l’idéologie dominante. Pour paraphraser Lissell Quiroz, sa neutralité est un lieu de pouvoir qui, dans un mouvement commun avec les champs du savoir hégémonique, minore certaines formes d’existence et de mobilisation. Il existe évidemment des îlots de résistance qui tentent de faire vivre le potentiel révolutionnaire de ce projet, mais ils restent marginaux.

    • La communauté répond généralement à ces critiques en indiquant que l’encyclopédie n’est que « le reflet de la société », qu’elle « représente le monde tel qu’il est ». En réalité, elle représente le monde tel qu’il est construit d’une part par la communauté wikipédienne, qui n’est ni « représentative » sociologiquement ni « neutre » idéologiquement, et d’autre part par les champs scientifique, politique et médiatique occidentaux, qui sont comme les autres travaillés par des jeux de domination et de pouvoir.

      On aurait tort cependant de croire qu’elle n’est qu’un réceptacle passif. Étant donné la circularité de l’information et la reprise des savoirs proposés par Wikipédia, l’encyclopédie en ligne est aujourd’hui également coproductrice des savoirs élaborés dans d’autres champs. Sa responsabilité est donc immense. Elle l’est d’autant plus que, contrairement à d’autres supports, son caractère encyclopédique lui vaut une grande confiance populaire.

      Il ne s’agira donc pas de conclure ici en prônant un rejet total de l’encyclopédie numérique. Au contraire. S’il nous semble essentiel de rester prudent dans son utilisation et critique sur son fonctionnement, nous pensons, à l’instar des contributrices de Noircir Wikipédia, que l’encyclopédie numérique est un « espace à investir ». Et à révolutionner. Il nous faudra, pour ce faire, renforcer les batailles dans les champs scientifique et médiatique.

    • Un exemple (ci-dessous) avec Pinochet, à qui est dénié dans une seule phrase l’appellation de #dictateur. Et donc, on peut trouver accolés dans sa fiche les termes « dictature militaire » et « sauveur » mais à aucun moment le mot « dictateur » n’est utilisé dans sa page wikipédia (25 décembre 2022), tu ne le trouveras que dans les références.

      La présidence de Pinochet est dénoncée dans son ensemble comme une période de dictature militaire, par de nombreux médias et ONG ainsi que par ses opposants3,4,5,6,7,8,9,10. Elle est décrite comme telle par les historiens ; la qualification de dictature est également reprise par le rapport Valech, publié au Chili en 200411. Ses partisans chiliens considèrent au contraire qu’il a « sauvé » le pays en l’empêchant d’adopter le communisme12,13.

      #wikipédia

  • Quand la vérité s’arme de mensonge
    https://laviedesidees.fr/Gunther-Anders-La-Catacombe-de-Molussie.html

    À propos de : Günther Anders, La Catacombe de Molussie, L’échappée. “Moi aussi, je suis la vérité”, “la vérité rend libre”, tels sont les deux mensonges que doit concéder toute #résistance. Dans son roman écrit contre Mein Kampf, inédit jusqu’en 1992 et tout juste traduit en français, Anders met en scène les conditions limites de la lutte et enseigne sa complexité.

    #Philosophie #vérité #nazisme #corruption #fiction #idéologie
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20220715_anders.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20220715_anders.docx

  • Lecture d’un extrait du livre « Les sables » de Basile Galais, paru chez Actes Sud, en 2022.

    http://liminaire.fr/radio-marelle/article/les-sables-de-basile-galais

    Dans une ville portuaire à l’atmosphère d’intranquillité, déstabilisante et déroutante, le paysage donne le vertige autant qu’il inquiète avec son climat mystérieux tout en clair-obscur. L’information sur les réseaux de la mort du Guide désole la foule éplorée des habitants, très vite démentie, transformée en fake news qui tourne en boucle sur les chaînes d’informations en continu. Chaque personnage livre à distance sa version imparfaite des faits, parcellaire. Leurs relations se tissent au fil des chapitres « dans des couches de réalités indistinctes. » Sans doute est-ce dans cette instabilité constante que se construit cette histoire de disparition et d’oubli, ce roman sur le temps et la mémoire, insaisissable et mouvant comme les sables. (...) #Radio_Marelle / #Écriture, #Langage, #Livre, #Lecture, #Art, #En_lisant_en_écrivant, #Podcast, #Voix, #Littérature, #Vérité, #Réel, #FakeNews (...)

    http://liminaire.fr/IMG/mp4/en_lisant_les_sables_basile_galais.mp4

    https://www.actes-sud.fr/catalogue/litterature/les-sables

  • La mentalité conspirationniste
    https://laviedesidees.fr/Dieguez-Delouvee-Le-complotisme.html

    À propos de : Sébastian Dieguez, Sylvain Delouvée, 2021, Le complotisme. Cognition, culture société, Bruxelles, Mardaga. On ne naît pas complotiste, mais on choisit de le devenir. La thèse défendue par S. Dieguez et S. Delouvée est forte, à rebours des interprétations très répandues qui voient dans le conspirationnisme un effet de l’ignorance ou de la crédulité. Cette recension est suivie d’une réponse des deux auteurs.

    #Société #vérité #post-vérité
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20220708_conspiration.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20220708_conspiration.docx

    • Pour Delouvée et Dieguez, « les théories “critiques” du monde social, après tout, ont du succès précisément par leur capacité à “révéler” des processus cachés et ignorés des acteurs ordinaires (et ces processus sont efficients précisément parce qu’ils sont cachés et ignorés). La raison de ce succès est donc la même que pour celui du complotisme » (p. 316). Pour Delouvée et Dieguez, voir dans le complotisme une forme de prise de conscience collective – certes fondamentalement erronée dans la mesure où le complotisme se trompe en les imputant à l’action de groupes d’individus secrets alors que leurs causes et leurs effets sont le produit multifactoriel de structures sociales qui échappent largement aux titulaires du pouvoir – des maux sociaux qui traversent nos régimes représentatifs revient à l’excuser, si ce n’est même à le légitimer. Telle est la position anti- sociologique développée par les deux chercheurs qui rejettent toute approche compréhensive du complotisme.

      Pour conclure, quel est _in fine l’objectif poursuivi par les auteurs de ce livre ? Il tient en trois mots : individualisation, dépolitisation et rappel à l’ordre. En cherchant à réduire le complotisme à des traits et dispositions individuels (paranoïa, schizothypie, narcissisme, manichéisme, etc.), les auteurs, qui s’inscrivent dans la droite ligne de la tradition cognitiviste, en arrivent, bien qu’ils s’en défendent, à pathologiser le conspirationnisme comme une forme de défiance illégitime et irrationnelle qu’il convient, non pas de _comprendre, mais de combattre. Cette approche qui tend à dépolitiser le complotisme, en refusant d’y voir une forme de défiance vis-à-vis des pouvoirs publics et une dénonciation, hasardeuse certes, des injustices et dysfonctionnements sociaux pourtant bien réels, n’en épuise pas pour autant la dimension politique. Bien au contraire, en renvoyant sans ménagement ces formes désordonnées et radicales de contestation dans les limbes de l’irrationalité et de l’illégitimité, Delouvée et Dieguez en viennent à naturaliser l’ordre sociopolitique tel qu’il est établi. Quiconque, en particulier leurs collègues sociologues, qui adopterait une approche compréhensive du complotisme serait alors suspect de complaisance ou de complicité.

      #complotisme

  • Que sommes-nous prêts à sacrifier pour aider les États-Unis à gagner une guerre de propagande contre Poutine ?
    https://caitlinjohnstone.com/2022/04/16/how-much-are-we-prepared-to-sacrifice-to-help-the-us-win-a-propaga

    Il y a une question très importante que nous devons tous nous poser à ce stade de l’histoire, et cette question est la suivante : que sommes-nous prêts, en tant que société, à sacrifier pour que le gouvernement américain puisse gagner une guerre de propagande contre Vladimir Poutine ?

    Laissez-moi vous expliquer.
    Un aspect très peu discuté de la dernière escalade de censure par la Silicon Valley, qui a commencé au début de la guerre en Ukraine, est le fait qu’il s’agit d’un niveau de censure sans précédent. Bien qu’elle puisse ressembler à toutes les autres vagues de purges sur les médias sociaux et aux nouvelles catégories de contenus interdits que nous connaissons depuis que la doctrine dominante, après l’élection américaine de 2016, est que les plateformes technologiques doivent réglementer strictement les discours en ligne, les justifications qui en découlent ont pris une déviation drastique par rapport aux modèles établis.


    Ce qui distingue cette nouvelle escalade de censure de ses prédécesseurs, c’est que cette fois personne ne prétend qu’elle est faite dans l’intérêt du peuple. Avec la censure des racistes, l’argument était qu’ils incitaient aux crimes haineux et au harcèlement racial. Avec la censure d’Alex Jones et de QAnon, l’argument était qu’ils incitaient à la violence. Quant à la censure des sceptiques du Covid, l’argument était qu’ils promouvaient une désinformation qui pouvait être mortelle. Même avec la censure de l’histoire de l’ordinateur portable de Hunter Biden, on a fait valoir qu’il était nécessaire de protéger l’intégrité des élections contre une désinformation d’origine potentiellement étrangère.

    Avec la censure relative à la guerre en Ukraine, il n’y a aucun d’argument pour prétendre qu’elle est faite pour aider le peuple. Rien ne prouve que le fait de laisser les gens dire des choses fausses sur cette guerre tue des Ukrainiens, des Américains ou qui que ce soit d’autre. Il n’y a aucune raison de penser que la contestation des allégations de crimes de guerre russes portera atteinte aux processus démocratiques américains. Le seul argument restant est « Nous ne pouvons pas laisser les gens dire des choses fausses sur une guerre, n’est-ce pas ? ».

    Plus d’escalade dans la censure en ligne
    « YouTube a supprimé des vidéos contestant le discours du gouvernement américain sur les crimes de guerre russes à Bucha. https://t.co/M7zupF8AMa
    Caitlin Johnstone (@caitoz) 15 avril 2022

    Demandez à un libéral au cerveau correctement lavé pourquoi il soutient la censure de quelqu’un qui conteste les récits américains sur les crimes de guerre russes à Bucha ou à Marioupol et il vous répondra probablement quelque chose comme « Eh bien, c’est de la désinformation ! » ou « Parce que c’est de la propagande ! » ou « Combien Poutine vous paie-t-il ? » . Mais ce qu’ils ne seront pas capables de faire, c’est d’articuler exactement quel préjudice spécifique est causé par un tel discours de la même manière qu’ils pouvaient défendre la censure des sceptiques du Covid ou des factions responsables de l’émeute de l’année dernière dans le bâtiment du Capitole [en référence aux partisans de Trump ayant pénétré au Capitole pour contester le résultat des élections présidentielles étasuniennes, NdT]

    Le seul argument que vous obtiendrez, si vous insistez vraiment sur la question, est que les États-Unis sont engagés dans une guerre de propagande contre la Russie et qu’il est dans l’intérêt de notre société que nos institutions médiatiques aident les États-Unis à gagner cette guerre de propagande. Une guerre froide est menée entre deux puissances nucléaires parce que la guerre chaude risquerait d’anéantir les deux nations, ce qui ne laisse d’autres formes de guerre que la guerre psychologique. Rien ne permet de dire que cette nouvelle escalade de censure sauvera des vies ou protégera des élections, mais il est possible de dire qu’elle peut contribuer à faciliter les programmes de guerre froide à long terme des États-Unis.

    Mais qu’est-ce que cela signifie exactement ? Cela signifie que si nous acceptons cet argument, nous consentons sciemment à une situation où tous les principaux médias, sites web et applications que les gens consultent pour s’informer sur le monde sont orientés non pas pour nous dire des choses vraies sur la réalité, mais pour battre Vladimir Poutine dans cette étrange guerre psychologique. Cela signifie qu’il faut abandonner toute ambition d’être une civilisation fondée sur la vérité et guidée par les faits, et accepter au contraire de devenir une civilisation fondée sur la propagande et visant à s’assurer que nous pensons tous des choses qui nuisent aux intérêts stratégiques à long terme de Moscou.

    Et c’est absolument effrayant que cette décision ait déjà été prise pour nous, sans aucune discussion publique pour savoir si oui ou non c’est le genre de société dans laquelle nous voulons vivre. Ils sont passés directement de « Nous censurons les discours pour vous protéger de la violence et des virus » à « Nous censurons les discours pour aider notre gouvernement à mener une guerre de l’information contre un adversaire étranger ». Et ce, sans la moindre hésitation.

    Ceux qui fabriquent le consentement de la population ont contribué à ouvrir la voie à cette transition en douceur avec leurs appels incessants et continus à toujours plus de censure, et depuis des années, nous voyons des signes qu’ils considèrent comme leur devoir de contribuer à faciliter une guerre de l’information contre la Russie.

    En 2018, nous avons vu un journaliste de la BBC réprimander un ancien haut fonctionnaire de la marine britannique pour avoir émis l’hypothèse que la prétendue attaque aux armes chimiques à Douma, en Syrie, était un faux-drapeau, une affirmation dont nous avons maintenant des montagnes de preuves qu’elle est probablement vraie grâce aux lanceurs d’alerte de l’Organisation pour l’interdiction des armes chimiques. La raison invoquée par la journaliste pour justifier son objection à ces commentaires est que « nous sommes dans une guerre de l’information contre la Russie » .

    « Étant donné que nous sommes dans une guerre de l’information avec la Russie sur tant de fronts, ne pensez-vous pas qu’il est peut-être déconseillé d’affirmer cela si publiquement étant donné votre position et votre profil ? Ne risquez-vous pas de brouiller les pistes ? » a demandé Annita McVeigh, de la BBC, à l’amiral Alan West après ses commentaires.

    Vous savez que vous avez des problèmes lorsque le militaire essaie de faire le travail du journaliste en posant des questions et en demandant des comptes au pouvoir… et que le journaliste essaie de l’en empêcher. « https://t.co/DVxR3JQ6S2
    Caitlin Johnstone (@caitoz) 18 avril 2018

    Nous avons vu une indication similaire dans les médias de masse quelques semaines plus tard, lors d’une interview de l’ancienne candidate du Parti vert, Jill Stein, qui a été admonestée par Chris Cuomo de CNN pour avoir souligné le fait totalement incontestable que les États-Unis sont un contrevenant extrêmement flagrant en matière d’ingérence dans les élections étrangères.

    « Vous savez, ce serait à la Russie de faire valoir cela, pas à un point de vue américain » , a déclaré Cuomo en réponse aux remarques tout à fait exactes de Stein. « Bien sûr, il y a de l’hypocrisie en jeu, beaucoup de grands acteurs étatiques différents font beaucoup de choses qu’ils ne veulent peut-être pas que les gens sachent. Mais laissons la Russie dire que les États-Unis nous ont fait ça, et voici comment ils l’ont fait, donc c’est fair-play. »

    Ce qui revient à dire : « Oubliez ce qui est factuellement vrai. Ne dites pas de choses vraies qui pourraient aider les intérêts russes. C’est le travail de la Russie. Notre travail ici sur CNN est de dire des choses qui nuisent aux intérêts russes. »

    On peut retracer la généralisation de l’idée que c’est le travail des médias occidentaux de manipuler l’information dans l’intérêt du public, plutôt que de simplement dire la vérité, à la victoire présidentielle de Donald Trump en 2016. Dans ce qui était sans doute le moment politique le plus important aux États-Unis depuis le 11 septembre et ses conséquences, ceux qui fabriquent le consentement ont décidé que l’élection de Trump n’était pas due à l’échec de la politique du statu quo, mais un échec du contrôle de l’information.

    En octobre 2020, pendant le scandale des ordinateurs portables de Hunter Biden, Stephen L Miller, du Spectator, a décrit comment le consensus s’est formé au sein de la presse grand public depuis la défaite de Clinton en 2016, selon lequel il était de leur devoir moral de cacher au public des faits qui pourraient conduire à la réélection de Trump.

    « Depuis presque quatre ans maintenant, les journalistes ont fait honte à leurs collègues et à eux-mêmes sur ce que j’appellerai le dilemme ‘mais ses emails’ », écrit Miller. « Ceux qui ont rendu compte consciencieusement de l’enquête fédérale inopportune sur le serveur privé d’Hillary Clinton et la divulgation d’informations classifiées ont été exclus et écartés de la table des journalistes cool. Le fait de se concentrer autant sur ce qui était, à l’époque, un scandale considérable, a été considéré par de nombreux médias comme une gaffe. Ils pensent que leurs amis et collègues ont contribué à placer Trump à la Maison Blanche en se concentrant sur le scandale de Clinton, alors qu’ils auraient dû mettre en avant les faiblesses de Trump. C’est une erreur qu’aucun journaliste ne veut répéter ».

    Une fois que les « journalistes » ont accepté que leur travail le plus important n’est pas de dire la vérité mais d’empêcher les gens d’avoir de mauvaises pensées sur le statu quo politique, il était inévitable qu’ils commencent à encourager avec enthousiasme une plus grande censure d’Internet. Ils considèrent que c’est leur devoir, et c’est pourquoi les principaux partisans de la censure en ligne sont maintenant des journalistes de médias grand public.

    Dénoncer Radio Sputnik. Une tâche intéressante pour un journaliste. https://t.co/JP8NNFxvI1
    Tim Shorrock (@TimothyS) 16 avril 2022

    Mais il ne devrait pas en être ainsi. Il n’y a aucune raison légitime pour que les mandataires de la Silicon Valley et du gouvernement le plus puissant de la planète censurent les gens qui ne sont pas d’accord avec ce gouvernement au sujet d’une guerre, et pourtant c’est exactement ce qui se passe, et de plus en plus. Nous devrions tous être alarmés par le fait qu’il devient de plus en plus acceptable de faire taire les gens, non pas parce qu’ils font circuler de la désinformation dangereuse, ni même parce qu’ils disent des choses qui sont fausses de quelque manière que ce soit, mais uniquement parce qu’ils disent des choses qui sapent la propagande de guerre américaine.

    Les gens devraient absolument être autorisés à dire des choses en désaccord avec l’empire le plus puissant de l’histoire à propos d’une guerre. Ils devraient même être autorisés à dire des choses effrontément fausses sur cette guerre, parce que sinon seuls les puissants seront autorisés à dire des choses effrontément fausses à son sujet.

    La liberté d’expression est importante, non pas parce qu’il est agréable de pouvoir dire ce que l’on veut, mais parce que la libre circulation des idées et des informations permet de contrôler les puissants. Elle donne aux gens la possibilité de demander des comptes aux puissants. C’est exactement pourquoi les puissants travaillent à l’éliminer.

    Nous devrions considérer comme un énorme, énorme problème le fait qu’une si grande partie du monde ait été regroupée sur ces plateformes d’expression monopolistiques géantes qui pratiquent une censure en parfait accord avec la structure de pouvoir la plus puissante du monde. C’est l’exact opposé de la mise en place d’un contrôle du pouvoir.

    Combien sommes-nous prêts, en tant que société, à abandonner pour que le gouvernement américain et ses alliés gagnent une guerre de propagande contre Poutine ? Sommes-nous prêts à nous engager à être une civilisation pour laquelle la considération première de toute donnée n’est pas de savoir si elle est vraie ou non, mais si elle contribue à saper la Russie ?

    C’est une conversation qui devrait déjà avoir lieu dans les cercles traditionnels depuis un certain temps maintenant, mais elle n’a même pas commencé. Commençons-la.

    Caitlin Johnstone 16 avril 2022

    #censure #convormisme #propagande #manipulation #médias #histoire #russie #syrie #ukraine #politique #journalisme #racisme #guerre #fake_news #facebook  #presse #silicon_valley #youtube #vérité officielle

    • Explications sur le rappel massif de chocolats provoqué par une bactérie en @israël
      Information sans rapport avec le post précédent

      Le plus grand rappel de produits de l’histoire d’Israël est en cours, car de nombreuses lignes fabriquées par son plus grand producteur de confiseries, Elite, sont soupçonnées de contenir des salmonelles.

      Au moins deux enfants et deux adultes auraient consulté un médecin pour suspicion d’intoxication aux salmonelles après le rappel de produits Strauss, la société mère d’Elite, a annoncé le rappel dimanche. Aucun cas n’a été signalé chez les personnes âgées, chez qui les conséquences graves des salmonelles sont plus probables que chez les autres, et peuvent même être mortelles.

      Le ministre de la Santé, Nitzan Horowitz, a déclaré mardi que l’incident ferait l’objet d’une enquête approfondie et que l’usine ne serait pas autorisée à reprendre ses activités avant d’avoir été entièrement désinfectée. « La chocolaterie d’Elite-Strauss ne reprendra pas sa production tant que nous n’aurons pas l’assurance qu’elle est en mesure de fabriquer des produits sains, sans danger pour les consommateurs », a déclaré M. Horowitz.

      Les produits soupçonnés d’être contaminés sont le chocolat, la crème glacée, le pudding et les biscuits. Comment une telle contamination peut-elle se produire ? Est-il certain que la consommation de chocolat contaminé rend malade ? Et quels peuvent être les effets de la salmonelle ? Le Times of Israel s’est entretenu avec le professeur Daniel Cohen de la School of Public Health de l’Université de Tel Aviv, expert en épidémiologie et en médecine préventive.

      lA SUITE https://fr.timesofisrael.com/explications-sur-le-rappel-massif-de-chocolats-provoque-par-une-ba

      #salmonelle #empoisonnement #industrie_alimentaire #confiseries #Elite-Strauss

    • Shufersal rappelle des biscuits qui contiendraient des fibres de nylon

      Cette annonce suit un autre rappel du groupe Strauss, dont certains produits auraient été contaminés par des salmonelles
      La chaîne de supermarchés Shufersal a fait savoir, dimanche, qu’elle rappelait des biscuits commercialisés sous sa propre marque en raison de soupçons sur la présence de fibre de nylon dans ses produits de boulangerie.

      La chaîne a expliqué craindre que les fibres ne soient accidentellement entrées dans les biscuits pendant le processus de production et elle a préféré rappeler les produits « par mesure de précaution ».

      Les produits en question sont les biscuits de type « petit beurre » (paquet de 500 grammes) et de type « petit beurre au chocolat » (paquet de 500 grammes), dont la date limite de consommation est comprise entre le 1er et le 23 octobre 2022.

      « Les produits présentant d’autres dates d’expiration sont parfaitement sains et ils peuvent être consommés sans inquiétude », a déclaré l’entreprise.

      Ce rappel survient après un autre rappel qui avait été lancé par le groupe Strauss, l’un des plus importants producteurs de produits alimentaires israéliens.

      Certains produits du géant alimentaire avaient été contaminés à la salmonelle. La première annonce a été faite lundi et d’autres ont été faites les jours suivants, demandant aux clients de ramener une large gamme de chocolats, gaufres, biscuits, glaces, chewing-gums et autres caramels.

      Ce rappel serait l’un des plus importants de toute l’Histoire d’Israël.

      L’usine que possède le groupe Strauss à Nof Hagalil serait à l’origine de cette contamination. Jeudi dernier, le directeur général du ministère de la Santé, Nachman Ash, a annoncé que l’usine fermerait pendant trois mois, le temps qu’une enquête soit menée et que les mesures nécessaires soient prises pour assurer la sécurité alimentaire des clients.

      Dans un rapport publié dimanche, le ministère de la Santé a critiqué Strauss pour une série d’omissions et de défaillances responsables, selon lui, de la contamination à la salmonelle dans l’usine.

      Selon le ministère de la Santé, sur 300 échantillons prélevés jusqu’à présent dans l’usine en question, une trentaine contenaient des traces de salmonelle.

      Le ministère a évoqué une série de problèmes, parmi lesquels des travaux qui sont actuellement en cours à l’usine et qui ont été entrepris sans réfléchir à leur impact sur la production, la présence de pigeons dans l’usine, susceptibles d’avoir joué un rôle dans cette contamination, l’absence d’un directeur chargé de s’assurer de la salubrité des aliments et des conditions de décongélation inadéquates pour les matières grasses utilisées dans la production de chocolat.

      Il a également noté que dimanche matin, 21 personnes en Israël avaient signalé des symptômes de salmonellose suite à la consommation de produits affectés. Le ministère a déclaré avoir pris les tests de 16 de ces personnes dans l’attente des résultats, dans les prochains jours. Il a également déclaré que seulement six de ces 21 personnes avaient nécessité un traitement médical pour leurs symptômes.

      Le ministère de la Santé a déclaré qu’il n’y avait aucun lien entre la contamination aux salmonelles à l’usine Strauss et une contamination similaire en Belgique affectant les œufs en chocolat Kinder.

      L’article gratuit : https://fr.timesofisrael.com/shufersal-rappelle-des-biscuits-qui-contiendraient-des-fibres-de-n

  • MAP
    un #poème de #Wisława_Szymborska

    Flat as the table
    it’s placed on.
    Nothing moves beneath it
    and it seeks no outlet.
    Above—my human breath
    creates no stirring air
    and leaves its total surface
    undisturbed.

    Its plains, valleys are always green,
    uplands, mountains are yellow and brown,
    while seas, oceans remain a kindly blue
    beside the tattered shores.

    Everything here is small, near, accessible.
    I can press volcanoes with my fingertip,
    stroke the poles without thick mittens,
    I can with a single glance
    encompass every desert
    with the river lying just beside it.

    A few trees stand for ancient forests,
    you couldn’t lose your way among them.

    In the east and west,
    above and below the equator—
    quiet like pins dropping,
    and in every black pinprick
    people keep on living.
    Mass graves and sudden ruins
    are out of the picture.

    Nations’ borders are barely visible
    as if they wavered—to be or not.

    I like maps, because they lie.
    Because they give no access to the vicious truth.
    Because great-heartedly, good-naturedly
    they spread before me a world
    not of this world.

    https://geoawesomeness.com/map-poem-wislawa-szymborska

    #Wislawa_Szymborska
    #poésie #cartes #cartographie #mensonge #vérité #frontières #frontières_nationales

    Découvert grâce à une amie, #Lora_Sarliasan qui l’a utilisé pour terminer sa soutenance de thèse...
    https://webcolleges.uva.nl/Mediasite/Play/40e7eb3ee0164a4a95a1db6e7cc78e141d

    ping @visionscarto

  • Dans la ville libérée de Boutcha, l’horreur
    https://www.courrierinternational.com/article/guerre-en-ukraine-dans-la-ville-liberee-de-boutcha-l-horreur

    La construction de « vérités alternatives » est présente partout. Le refus des faits, arguant de la manipulation des images va devenir un élément majeur du conspirationnisme international. D’autant que les outils sont effectivement là pour truquer toutes les images. Pandore a ouvert la boîte.

    Le Kremlin nie toute participation

    La litanie des horreurs de Boutcha se répète dans d’autres localités nouvellement libérées autour de Kiev. D’après certains témoignages, des mères auraient été violées sous les yeux de leurs enfants, des familles en fuite auraient été assassinées dans leur voiture, des hommes en âge de combattre auraient été exécutés. Le ministère de la Défense russe nie toute participation aux atrocités de Boutcha. Il affirme que les photos et les vidéos de ces scènes sont “une nouvelle mise en scène du régime de Kiev à destination des médias occidentaux, comme cela a été le cas avec la maternité de Marioupol et dans d’autres villes”.

    Le ministère juge notamment suspect que les corps, sur ces séquences, ne soient pas devenus rigides, qu’ils ne présentent pas la décoloration de la peau typique de celle des cadavres et que du “sang non coagulé [apparaisse] dans les blessures”. Il soutient par ailleurs que les forces russes ont quitté la zone le 30 mars, ajoutant qu’Anatoly Fedorouk, le maire, avait confirmé le départ des Russes dans une vidéo du 31 mars, sans évoquer la moindre exécution.

    “Pour cette raison, il n’est pas étonnant que les prétendues preuves des crimes de Boutcha n’aient fait surface que quatre jours après l’arrivée d’officiers du SBU [service de renseignement ukrainien] et de membres de la télévision ukrainienne, poursuit le ministère. Pas un seul habitant n’a été victime d’agression pendant que la ville était sous le contrôle des forces armées russes.”

    #Fake_News #Post_truth #Vérités_alternatives

    • “C’étaient des jeunes et ils nous ont laissés tranquilles au début. Ensuite, ils ont commencé à venir frapper aux portes pour nous demander : ‘où sont les nazis ?’”

      Ce qui renvoie à l’entretien avec Greg Yudin signalé par @fil :
      https://www.akweb.de/politik/putin-war-in-ukraine-a-fascist-regime-looms-in-russia

      Finally, the most alarming element of this new potentially totalitarian setup is the ideological turn Putin has taken since the first days of war: his new narrative of the »denazification« of Ukraine. The accusation that the Ukrainian authorities are supporting the extreme right has been pervasive in Russian official discourse for some time – and not entirely unfounded. In February, however, it turned into purely essentialist rhetoric, implying that Ukrainian essence, which is allegedly Russian by nature, has been contaminated by some Nazi element. Therefore, it is the task of the Russian army to purge Ukraine from this Nazi element. The Russian Ministry of Defense is already talking about setting up »filtration« procedures in the occupied territories. And since Ukrainians are resisting stubbornly, the only possible explanation is that they were even more »nazified« than expected, which could easily lead to the conclusion that they deserve to be wiped out. The same »purity« narrative was used by Putin just a few days ago when he spoke of to the »enemy within«, the so-called »nation-traitors« who should be »spit out like a moth« by the Russian society in order to preserve its health.

      On signale également que RIA Novosti (l’agence de presse officielle russe) a publié un éditorial particulièrement violent et extrémiste :
      https://ria.ru/20220403/ukraina-1781469605.html

      Un article en français commente ce texte délirant aux tonalités génocidaires : Un analyste pro-Poutine détaille son plan brutal pour la « dénazification » de l’Ukraine - Infobae
      https://www.infobae.com/fr/2022/04/04/un-analyste-pro-poutine-detaille-son-plan-brutal-pour-la-denazification-de-

      Sergeitsev appelle les forces russes à éliminer les prétendus nazis au pouvoir en Ukraine et appelle à une punition exemplaire et brutale pour eux.

      « Il doit y avoir un nettoyage total. Toute organisation associée à la pratique du nazisme doit être liquidée et interdite », déclare Sergeitsev.

      Sergueïtsev, avec de fausses allégations sans aucun soutien et ne faisant qu’étendre la propagande russe absurde pour justifier son invasion, souligne qu’une proportion importante d’Ukrainiens sont des nazis passifs, et qu’eux aussi sont coupables de soutenir le « gouvernement nazi ».

      « La poursuite de la dénazification de cette masse de la population consiste en une rééducation, qui est réalisée grâce à la répression idéologique (suppression) des attitudes nazies et à une censure stricte, non seulement dans le domaine politique, mais aussi nécessairement dans le domaine de la culture et de l’éducation. C’est grâce à la culture et à l’éducation qu’une profonde nazification massive de la population a été préparée et réalisée, assurée par la promesse de dividendes de la victoire du régime nazi sur la Russie, de la propagande nazie, de la violence interne et de la terreur », écrit l’analyste russe.

  • Nécro (techno) logie : le transhumain Grichka Bogdanov n’a pas survécu au #Covid

    Mort de Grichka Bogdanoff : son frère Igor lui aussi hospitalisé - Gala
    https://www.gala.fr/l_actu/news_de_stars/mort-de-grichka-bogdanoff-son-frere-igor-lui-aussi-hospitalise_483713

    Le sort s’acharne sur les emblématiques présentateurs de l’émission de science-fiction « Temps X ». Alors que Grichka Bogdanoff a été emporté par le Covid-19, ce mardi 28 décembre, son frère Igor a été hospitalisé le même jour. Selon des informations du Monde, que Gala est en mesure de confirmer, l’animateur a été admis dans le même service que son frère décédé au sein de l’hôpital George-Pompidou « pour des raisons identiques ».

    Igor et Grichka Bogdanoff n’étaient pas vaccinés « contre le Covid-19 » a rapporté une source proche des deux frères au quotidien du soir. Une information que la famille de Grichka Bogdanoff se refuse de commenter. « La famille ne souhaite pas communiquer au-delà du texte transmis à l’AFP », a-t-elle déclaré dans un communiqué en réponse aux informations du Monde.

    Le sort s’acharne ...
    Gala, la presse spécialisée dans les « sortilèges ». Toute la communauté éducative de Poudlard est en deuil.

    https://www.youtube.com/watch?v=Yn_uHvb5vPQ

  • Le théâtre intérieur
    https://laviedesidees.fr/Le-theatre-interieur.html

    En dialoguant avec des neuroscientifiques, Anouk Grinberg montre que le mentir-vrai des acteurs met en jeu des mécanismes cérébraux impliquant la mémoire, les émotions et le corps. La comédienne est plusieurs personnes à la fois, sans cesser d’être elle-même.

    #Arts #vérité #cinéma #Entretiens_vidéo #théâtre #sciences #fiction #mimétisme
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20211210_grinberg.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20211210_grinberg.docx

  • Le théorème de Gödel | Voyages au pays des maths | ARTE - YouTube
    https://www.youtube.com/watch?v=Brj1LC42vLM

    Dans cet épisode, on se penche sur le rapport entre maths et vérité. Les maths sont censées être le domaine de la certitude : soit c’est démontrable, soit c’est faux. Eh bien ce n’est pas si simple. Car le théorème de Gödel a prouvé qu’il existe des propositions « indécidables », qu’on ne peut ni prouver ni réfuter. Premier résultat limitant de l’histoire des mathématiques...

    Disponible jusqu’au 12/11/2026

  • Colloque Henri Guillemin 6 novembre 2021 à l’ENS de Paris : Enseignement de l’Histoire en péril Histoire politique, littéraire, économique
    http://www.henriguillemin.org/colloque-6-novembre-2021

    L’enseignement de l’Histoire en péril – histoire politique, littéraire, histoire de la pensée économique.
    Ce colloque, initialement prévu le 28 novembre 2020 et ajourné à cause de la crise sanitaire, aura bien lieu le 6 novembre 2021

    c’est à Paris le 6 Novembre 2021 ; à l’Ecole Normale Supérieure (ENS) salle Jean Jaures, 24, rue Lhomond 75005 paris

    Programme
    9h45 : Introduction du colloque
Edouard Mangin, Président de l’association Les Ami(e)s d’Henri Guillemin (LAHG)

    10h00 : « Ne pas se laisser monter sur la cervelle » : Guillemin face à l’enseignement de son temps
Patrick Berthier, Professeur émérite, ancien élève de l’ENS, agrégé de lettres, docteur d’Etat, co-fondateur de LAHG

    10h30 : Histoire littéraire, histoire légendaire
Yves Ansel, Agrégé ès lettres, docteur d’Etat, professeur émérite à l’Université de Nantes, spécialiste de la littérature française des XIXe et XXe siècles.

    11H00 : Sciences économiques : état des lieux de la discipline, de ses enseignements et de la recherche.
Rémy Herrera, Economiste, docteur d’État, chercheur au CNRS (UMR8174 – Centre d’économie Sorbonne). Enseigne à l’Université de Paris 1 Panthéon-Sorbonne.

    12h00 : Pause déjeuner

    14h30 : Comment enseigner l’histoire de la Révolution de 1789-1794 aujourd’hui ?
Florence Gauthier, Historienne, Maître de conférences en Histoire moderne – Université Paris VII-Denis Diderot

    15h00 : L’Histoire droitisée : le triomphe d’une vision réactionnaire du monde.
Fadi Kassem, Diplômé de Sciences Po, agrégé d’histoire, professeur d’histoire-géographie dans l’enseignement secondaire et dans les classes préparatoires au concours de Sciences Po. Enseignant en classes préparatoires aux grandes écoles (CPGE) de commerce au sein des lycées Stanislas de Paris et Sainte-Geneviève de Versailles et à Sciences Po Paris, membre du jury du CAPES d’histoire-géographie.

    15h30 : La catastrophe de l’enseignement académique de “l’histoire de l’Europe” 
Annie Lacroix-Riz, Historienne, ancienne élève de l’ENS, agrégée d’histoire, docteur d’Etat, professeure émérite d’histoire contemporaine à l’université Paris VII-Denis Diderot.

    16h00 : Echange avec le public : toutes questions auxquelles répondront les intervenants en fonction de leurs domaines d’intervention)

    Entretien vidéo n°1 Maxime Delprat
    https://www.youtube.com/watch?time_continue=70&v=c3IsFREN4og

    Entretien vidéo n°2 Léo Zaradzki
    https://www.youtube.com/watch?time_continue=8&v=doJmMlyAp7g

    #henri_guillem #histoire #France #guillemin #politique #Vérification #Vérité

  • Défense et illustration des libertés académiques : un eBook gratuit

    Mediapart propose sous la forme d’un livre numérique téléchargeable gratuitement les actes du colloque de défense des libertés académiques organisé par #Éric_Fassin et #Caroline_Ibos. Témoignant d’une alliance entre #journalistes et #intellectuels face à l’#offensive_réactionnaire contre le droit de savoir et la liberté de chercher, il sera présenté lors du débat d’ouverture de notre Festival, samedi 25 septembre.

    Dans un passage trop ignoré de ses deux conférences de 1919 réunies sous le titre Le Savant et le Politique, Max Weber plaide pour une sociologie compréhensive du #journalisme. Lui faisant écho à un siècle de distance, ce livre numérique à l’enseigne de La savante et le politique témoigne d’une alliance renouvelée entre intellectuels et journalistes, dans une #mobilisation commune en défense du #droit_de_savoir et de la #liberté_de_dire, de la #liberté_de_chercher et du #droit_de_déranger.

    Constatant que le journaliste, échappant « à toute classification sociale précise », « appartient à une sorte de #caste de #parias que la “société” juge toujours socialement d’après le comportement de ses représentants les plus indignes du point de vue de la #moralité », Max Weber en déduisait, pour le déplorer, que « l’on colporte couramment les idées les plus saugrenues sur les journalistes et leur métier ». Dans une réminiscence de son projet inabouti de vaste enquête sur la #presse, présenté aux « Journées de la sociologie allemande » en 1910, il poursuit : « La plupart des gens ignorent qu’une “œuvre” journalistique réellement bonne exige au moins autant d’“intelligence” que n’importe quelle autre œuvre d’intellectuels, et trop souvent l’on oublie qu’il s’agit d’une œuvre à produire sur-le-champ, sur commande, à laquelle il faut donner une efficacité immédiate dans des conditions de création qui sont totalement différentes de celles des autres intellectuels ».

    Ce plaidoyer en défense de l’artisanat du métier n’empêchait pas la lucidité sur les corruptions de la profession, avec un constat sans âge qui peut aisément être réitéré et actualisé : « Le #discrédit dans lequel est tombé le journalisme, ajoutait en effet Weber, s’explique par le fait que nous gardons en mémoire les exploits de certains journalistes dénués de tout sens de leurs #responsabilités et qui ont souvent exercé une influence déplorable. » De tout temps, le journalisme est un champ de bataille où s’affrontent l’idéal et sa négation, où la vitalité d’une discipline au service du public et de l’#intérêt_général se heurte à la désolation de sa confiscation au service d’intérêts privés ou partisans, idéologues ou étatiques. Tout comme, dressée contre les conservatismes qui voudraient l’immobiliser et la figer dans l’inéluctabilité de l’ordre établi, la République elle-même ne trouve son accomplissement véritable que dans le mouvement infini de l’émancipation, dans une exigence démocratique et sociale sans frontières dont l’égalité naturelle est le moteur.

    C’est ce combat qui réunit ici des journalistes et des intellectuels, le journal en ligne que font les premiers et le colloque qu’ont organisé les seconds. Si Mediapart publie en eBook, après l’avoir diffusé dans son Club participatif, les actes du colloque La savante et le politique organisé les 7-10 juin 2021 par Éric Fassin et Caroline Ibos, c’est tout simplement parce qu’à travers des métiers différents, avec leurs légitimités propres, leurs procédures universitaires pour les uns et leurs écosystèmes économiques pour les autres, intellectuels et journalistes sont aujourd’hui confrontés à la même menace : la fin de la #vérité. De la vérité comme exigence, recherche et audace, production et #vérification, #confrontation et #discussion. L’#assaut lancé contre les libertés académiques, sous prétexte de faire la chasse aux « pensées décoloniales » et aux « dérives islamo-gauchistes », va de pair avec l’offensive systématique menée contre l’#information indépendante pour la marginaliser et la décrédibiliser, la domestiquer ou l’étouffer.

    Les adversaires que nous partageons, qui voudraient nous bâillonner ou nous exclure en nous attribuant un « #séparatisme » antinational ou antirépublicain, sont en réalité les vrais séparatistes. Faisant sécession des causes communes de l’#égalité, où s’épanouit l’absence de distinction de naissance, d’origine, de condition, de croyance, d’apparence, de sexe, de genre, ils entendent naturaliser les #hiérarchies qui légitiment l’#inégalité de #classe, de #race ou de #sexe, ouvrant ainsi grand la porte aux idéologies xénophobes, racistes, antisémites, ségrégationnistes, suprémacistes, sexistes, homophobes, négrophobes, islamophobes, etc., qui désormais ont droit de cité dans le #débat_public. S’ils n’en ont pas encore toutes et tous conscience, nul doute que la nécrose des représentations médiatique et politique françaises à l’orée de l’élection présidentielle de 2022 leur montre déjà combien ils ont ainsi donné crédit aux monstres de la #haine et de la #peur, de la guerre de tous contre tous.

    Pour entraver ce désastre, nous n’avons pas d’autre arme que notre liberté, et la #responsabilité qui nous incombe de la défendre. Liberté de penser, d’informer, de chercher, de dire, de révéler, d’aller contre ou ailleurs, d’emprunter des chemins de traverse, de réfléchir en marge ou en dehors, de créer sans dogme, d’imaginer sans orthodoxie. Si la chasse aux dissidences et aux mal-pensances est le propre des pouvoirs autoritaires, elle est aussi l’aveu de leur faiblesse intrinsèque et de leur fin inévitable, quels que soient les ravages momentanés et désastres immédiats de leurs répressions.

    La richesse, la vitalité et la force des contributions de ce livre numérique ne témoignent pas seulement d’une résistance au présent. Elles proclament ce futur de l’#émancipation qui germe sur les ruines d’un ordre agonisant.

    Pour télécharger l’eBook :
    https://static.mediapart.fr/files/defense_et_illustration_des_libertes_academiques.epub

    https://blogs.mediapart.fr/edwy-plenel/blog/230921/defense-et-illustration-des-libertes-academiques-un-ebook-gratuit

    #livre #Caroline_Ibos #livre #liberté_académique #libertés_académiques #recherche #université #ESR #islamo-gauchisme

  • #Eyal_Weizman : « Il n’y a pas de #science sans #activisme »

    Depuis une dizaine d’années, un ensemble de chercheurs, architectes, juristes, journalistes et artistes développent ce qu’ils appellent « l’architecture forensique ». Pour mener leurs enquêtes, ils mettent en œuvre une technologie collaborative de la vérité, plus horizontale, ouverte et surtout qui constitue la vérité en « bien commun ». Eyal Weizman en est le théoricien, son manifeste La Vérité en ruines a paru en français en mars dernier.

    https://aoc.media/entretien/2021/08/06/eyal-weizman-il-ny-a-pas-de-science-sans-activisme-2

    #recherche #architecture_forensique #forensic_architecture #vérité #preuve #preuves #régime_de_preuves #spatialisation #urbanisme #politique #mensonges #domination #entretien #interview #espace #architecture #preuves_architecturales #cartographie #justice #Palestine #Israël #Cisjordanie #Gaza #images_satellites #contre-cartographie #colonialisme #Etat #contrôle #pouvoir #contre-forensique #contre-expertise #signaux_faibles #co-enquête #positionnement_politique #tribunal #bien_commun #Adama_Traoré #Zineb_Redouane #police #violences_policières #Rodney_King #Mark_Duggan #temps #Mark_Duggan #Yacoub_Mousa_Abu_Al-Qia’an #Harith_Augustus #fraction_de_seconde #racisme #objectivité #impartialité #faits #traumatisme #mémoire #architecture_de_la_mémoire #Saidnaya #tour_Grenfell #traumatisme #seuil_de_détectabilité #détectabilité #dissimulation #créativité #art #art_et_politique

    • La vérité en ruines. Manifeste pour une architecture forensique

      Comment, dans un paysage politique en ruines, reconstituer la vérité des faits ? La réponse d’Eyal Weizman tient en une formule-programme : « l’architecture forensique ». Approche novatrice au carrefour de plusieurs disciplines, cette sorte d’architecture se soucie moins de construire des bâtiments que d’analyser des traces que porte le bâti afin de rétablir des vérités menacées. Impacts de balles, trous de missiles, ombres projetées sur les murs de corps annihilés par le souffle d’une explosion : l’architecture forensique consiste à faire parler ces indices.
      Si elle mobilise à cette fin des techniques en partie héritées de la médecine légale et de la police scientifique, c’est en les retournant contre la violence d’État, ses dénis et ses « fake news ». Il s’agit donc d’une « contre-forensique » qui tente de se réapproprier les moyens de la preuve dans un contexte d’inégalité structurelle d’accès aux moyens de la manifestation de la vérité.
      Au fil des pages, cet ouvrage illustré offre un panorama saisissant des champs d’application de cette démarche, depuis le cas des frappes de drone au Pakistan, en Afghanistan et à Gaza, jusqu’à celui de la prison secrète de Saidnaya en Syrie, en passant par le camp de Staro Sajmište, dans la région de Belgrade.

      https://www.editionsladecouverte.fr/la_verite_en_ruines-9782355221446
      #livre