• Un caso nazionale di inquinamento e silenzi colpevoli a #Vado_Ligure

    L’impianto a carbone di Vado Ligure, in provincia di Savona, oggi è fermo, sotto sequestro giudiziario, ma arrivare a questo risultato è stata una storia lunga: ha coinvolto una rete di cittadini, medici, alcuni magistrati, e naturalmente amministratori locali e dirigenti d’azienda.

    La centrale termoelettrica è lì da quarantacinque anni, parte nel territorio di Vado, parte in quello di Quiliano, che poi sono una sola area urbana e fanno tutt’uno con Savona. La società Tirreno Power l’ha comprata dall’Enel nel 2003, con la liberalizzazione del mercato dell’energia (poi la francese Gaz de France-Suez, ribattezzata Engie, ha comprato metà di Tirreno Power): sono due gruppi a carbone da 330 megawatt ciascuno e uno più recente a metano, da 760 megawatt.

    Dalla collina che sovrasta la rada di Savona si vede bene l’impianto al centro dell’abitato, con i camini, i pennacchi di vapore e la grande macchia nera del carbonile scoperto. Accanto al muro della centrale ci sono case, giardinetti, scuole. Più giù i pontili del porto industriale; dall’altro lato la frazione Valleggia, poche centinaia di metri in linea d’aria dalle ciminiere. Il centro di Savona è pochi chilometri a est, appena al di là del torrente Quiliano: dalla fortezza del Priamàr, che chiude il vecchio porto, è impossibile non vedere le ciminiere.

    Oggi la centrale termoelettrica di Vado Ligure-Quiliano è al centro di un’indagine coordinata dalla procura della repubblica presso il tribunale di Savona. Il decreto di sequestro “preventivo”, firmato nel marzo 2014 dalla giudice per le indagini preliminari Fiorenza Giorgi, parla di “ingente danno alla salute” dei cittadini, di “decessi riconducibili direttamente alla presenza della centrale”, e di “reiterate inottemperanze alle prescrizioni” da parte dell’azienda.

    Tra il 2000 e il 2007, affermano gli inquirenti, non meno di 440 morti per malattie respiratorie e cardiache sono da attribuire “esclusivamente alle emissioni della centrale”. I magistrati si sono basati sulla perizia commissionata a due epidemiologi, insieme ai pareri dell’Istituto superiore di sanità e altri studi.

    Se e quando ci sarà, un processo per la centrale a carbone di Vado-Quiliano farà scalpore

    Ora anche l’indagine preliminare è conclusa: la relazione, “avviso agli indagati”, firmata dai pubblici ministeri Francantonio Granero e Chiara Maria Paolucci, depositata il 17 giugno scorso, ipotizza reati di “disastro ambientale doloso aggravato dal verificarsi dell’evento”, omicidio colposo plurimo, disastro sanitario colposo e abuso d’ufficio. Gli indagati sono 86 persone tra dirigenti della Tirreno Power e pubblici ufficiali; c’è l’intera giunta regionale ligure presieduta dal governatore Claudio Burlando, e in particolare la ex dirigente del dipartimento ambiente Gabriella Minervini, insieme agli ex sindaci di Vado e Quiliano.

    Gli interrogatori di garanzia sono cominciati in ottobre; per la fine dell’anno i magistrati potrebbero decidere sui rinvii a giudizio.

    Se e quando ci sarà, un processo per la centrale a carbone di Vado-Quiliano farà scalpore: una società italofrancese accusata di disastro e omicidio colposo con la connivenza di alti funzionari dello stato.

    Non esisteva un monitoraggio indipendente, le autorità pubbliche prendevano per buoni i dati forniti dall’azienda

    “Poi ci siamo messi a studiare”

    Tutto è cominciato quando Tirreno Power ha annunciato di voler potenziare la centrale. Gli abitanti di qui l’hanno sentito una sera al telegiornale. Era il maggio del 2007: “Parlavano di aggiungere un nuovo gruppo a carbone”, ricorda Gianfranco Gervino. Dicevano che il nuovo impianto avrebbe prodotto più energia inquinando meno, “e a noi sembrava incredibile”.

    Dalla collina ora scendiamo verso l’abitato, passiamo davanti ai cancelli della centrale, poi una piazza con giardinetti e altalene, tra i caseggiati su cui incombono le ciminiere: “E quell’edificio, vedi? È un ricovero per anziani”. Molti qui ricordano gli sbuffi “di giorno usciva vapore bianco, ma di notte a volte era scuro, denso”. Da anni ormai tra Vado e Quiliano si parlava di inquinamento, tumori, malattie respiratorie: “Che il carbone inquini non era certo un segreto”, dice Gervino. “Insomma, quando abbiamo sentito che volevano potenziare la centrale, ci siamo chiesti: chi controlla cosa esce da questi camini?”.

    È così che un gruppo di cittadini ha cominciato a cercare informazioni. Un dipendente delle ferrovie in pensione, commercianti, un ex operaio portuale, insegnanti, professionisti: tutti abitanti nei comuni di Vado Ligure e Quiliano, cioè intorno alla centrale. Hanno organizzato una prima assemblea pubblica in quella primavera 2007; in meno di due mesi hanno raccolto diecimila firme contro il potenziamento della centrale.

    “Poi ci siamo messi a studiare”, raccontano (a tante voci: ma preferiscono non essere citati per nome, così nomineremo solo il portavoce). Hanno costituito un’associazione chiamata Uniti per la salute”. Hanno raccolto dati, interpellato esperti: “Siamo diventati un po’ avvocati, un po’ medici, un po’ ricercatori”.

    “Ci siamo costituiti in associazione perché, quando chiedevamo risposte precise sulle emissioni della centrale, ci rispondevano ‘non vi preoccupate, fidatevi’”, ricorda Gianfranco Gervino: e a loro questa risposta proprio non andava giù.

    “Noi pensiamo che i cittadini abbiano il diritto di sapere e ci siamo assunti il compito di cercare spiegazioni, informare”, continua. Hanno frugato tra i dati pubblici, perfino commissionato in proprio analisi e perizie, “a volte ci abbiamo messo le nostre tredicesime”: ormai sul loro sito hanno raccolto una notevole quantità di studi sull’impatto della centrale e la salute dei cittadini, “solo dati certi e da fonti ufficiali, non vogliamo lasciarci screditare”. Gervino racconta di quando hanno chiesto dati sulle emissioni dai camini della centrale, o gli scarichi nel torrente Quiliano: «La provincia ci ha risposto che l’impianto funziona in regime di autocontrollo”. Ovvero non esisteva un monitoraggio indipendente, le autorità pubbliche prendevano per buoni i dati forniti dall’azienda.

    I medici hanno avuto un ruolo importante in questa storia

    Il portavoce dell’associazione “Uniti per la salute” riassume un quadro allarmante. Mostra una mappa della “sofferenza lichenica” nella regione. I licheni sono microrganismi estremamente sensibili alla qualità dell’aria, quindi ottimi bioindicatori, e i numerosi monitoraggi commissionati dalla regione Liguria negli ultimi vent’anni mostrano che la “sofferenza” dei licheni è più alta proprio intorno alle tre centrali a carbone liguri, La Spezia, Genova e Vado-Quiliano: nella conurbazione di Savona si parla di “deserto lichenico”.

    Poi cita il Piano per la qualità dell’aria della regione Liguria, 2006, secondo cui la centrale è la prima fonte di emissioni di ossidi di azoto, particolato (pm10), ossidi di zolfo, composti organici volatili. Cita monitoraggi sui sedimenti marini: alla foce del torrente Quiliano si trovano concentrazioni di metalli pesanti e policlorobifenili parecchie volte più alte dei limiti ammessi.

    I medici hanno avuto un ruolo importante in questa storia. Nel dicembre 2010 l’ordine dei medici della provincia di Savona ha pubblicato un documento da lasciare senza fiato. Dicevano che la centrale di Vado-Quiliano è una “minaccia reale e consistente per la salute e la vita dei cittadini della provincia di Savona”.

    Il dovere deontologico di intervenire e informare

    Per la prima volta un intervento così ufficiale metteva malattie e morti in relazione alla centrale a carbone: riprendeva i dati Istat sulla mortalità nel savonese, che risulta decisamente più elevata rispetto alla media regionale e nazionale, uomini e donne, sia la mortalità generale sia quella per tumori e per malattie cardiache e cerebrovascolari. Il documento parlava di emissioni di metalli pesanti, sostanze cancerogene, e discuteva di particolato e polveri fini (pm2,5), tralasciate da altri monitoraggi. Concludeva che per tutelare la salute pubblica era meglio chiudere quei gruppi a carbone.

    “I dati sui decessi combaciavano con quelli dei biomonitoraggi disponibili, e questo ci aveva colpito”, mi dice il dottor Ugo Trucco, cardiologo e presidente dell’ordine dei medici di Savona, che ho raggiunto al telefono. Intervenire era “un dovere deontologico», dice: “Il medico è tenuto a considerare l’ambiente in cui la persona vive e lavora quale fattore determinante della salute dei cittadini”, spiega citando il Codice di deontologia medica aggiornato nel 2006. “Noi avevamo il dovere di segnalare il pericolo per la salute rappresentato dall’inquinamento”. Il dottor Trucco insiste sul “dovere di informare”: l’ordine dei medici è intervenuto solo in sedi istituzionali, con la cittadinanza. “Abbiamo cominciato un percorso con gruppi di cittadini che chiedevano di essere informati”.

    Il documento dell’ordine dei medici ha avuto un peso determinante, “mi ha convinto a prestare attenzione anche alle segnalazioni che venivano dai cittadini”, dirà il procuratore della Repubblica Francantonio Granero durante un’audizione parlamentare lo scorso gennaio).

    ‘Ci siamo resi conto che tutto ciò che veniva architettato e deciso era fatto per eludere, non per risolvere’

    “Pensavamo che con tutta questa documentazione, l’impianto a carbone non sarebbe mai stato autorizzato”, prosegue Gianfranco Gervino: “Ma ci sbagliavamo”.

    Nel 2011 infatti la regione Liguria ha concesso la sua autorizzazione alla società Tirreno Power, con un parere favorevole “in blocco” al nuovo impianto progettato dall’impresa e ai vecchi gruppi già in funzione. Pochi mesi dopo, marzo 2012, il ministero dello sviluppo economico ha dato l’autorizzazione finale. E il caso è scoppiato.

    Da tempo cittadini, associazioni e comitati si erano coordinati dando vita a una Rete savonese fermiamo il carbone, che riunisce comitati locali e associazioni come Uniti per la salute, Arci e organizzazioni ambientaliste nazionali come Legambiente, Wwf e Greenpeace.

    Un impianto “in regime di autocontrollo”

    La rete di cittadini si è sentita “tradita” dai suoi amministratori. Nonostante i problemi ormai evidenti le autorità avevano autorizzato un impianto carente sotto molti aspetti: “Non hanno mai neppure ricoperto il carbonile, per fermare almeno le polveri sollevate dal vento”. Eppure nel 2011 la società ha distribuito 700 milioni in dividendi, “davvero non potevano investire per un’opera muraria? Hanno guadagnato sulla nostra pelle”, sento dire durante un’assemblea pubblica nella sala del consiglio comunale di Savona.

    Ormai la vicenda del carbone a Vado Ligure era diventata un caso nazionale. Cittadini e ambientalisti hanno firmato ricorsi e presentato esposti alla magistratura. E anche la procura della repubblica è scesa in campo.

    L’indagine coordinata dal procuratore Francantonio Granero segue due binari paralleli: il danno provocato dalle emissioni del carbone alla salute dei cittadini (le ipotesi di disastro ambientale e omicidio colposo plurimo), e le violazioni che hanno permesso alla società di eludere le norme (riassunte nell’ipotesi di abuso d’ufficio).

    I magistrati hanno considerato gli anni dal 2000 al 2007 perché sono quelli su cui esistono dati sanitari più completi, e si sono limitati alle malattie respiratorie e cardiovascolari, senza dubbio attribuibili alla centrale: non hanno contato i tumori perché, sebbene sia assolutamente certo che le emissioni del carbone provocano diversi tumori, è impossibile collegare con certezza la malattia a una singola causa.

    La storia delle autorizzazioni integrate ambientali (Aia) aiuta a capire. Nel 2007 è entrato in vigore un nuovo regime di autorizzazioni e Tirreno Power ha dovuto chiedere una “autorizzazione integrata ambientale” per l’impianto che comprendeva il turbogas e i due vecchi gruppi a carbone. Poco dopo ha chiesto anche di autorizzare il potenziamento della centrale con un nuovo impianto a carbone, che a quanto pare avrebbe usato una tecnologia ultramoderna.

    I vecchi gruppi erano ancora quelli degli anni settanta e difficilmente sarebbero stati autorizzati, certo non senza ampi interventi per limitare le emissioni. Poi però le due richieste sono state unificate, e la “Aia” è stata concessa per l’impianto esistente insieme a quello da costruire: l’azienda dichiarava che i gruppi più vecchi sarebbero stati smantellati con l’arrivo del nuovo. Di fatto, un impianto obsoleto ha avuto in regalo altri sei anni di vita (l’autorizzazione è stata poi revocata dopo il sequestro giudiziario).

    Certo, quell’autorizzazione era condizionata. Ma qui il meccanismo descritto dagli inquirenti diventa perverso. Le autorità dettano alcune condizioni (“prescrizioni”), e danno all’azienda una scadenza temporale per mettersi in regola. Quando i termini di una prescrizione stanno per scadere, l’azienda presenta una nuova domanda e ottiene una nuova autorizzazione che implica nuove prescrizioni e nuove scadenze. Di coprire il carbonile per esempio si parlava dal 2002, la prescrizione formale è del 2012, ma a tutt’oggi il carbone resta scoperto.

    Questo meccanismo funziona, ovviamente, se le autorità pubbliche prendono per buoni gli impegni dichiarati dall’azienda e concedono dilazioni. E secondo la procura della repubblica di Savona, è proprio ciò che è accaduto a Vado Ligure.

    Se il ministero scrive “una porcata”

    “La vera controparte, insieme all’azienda, sono diventati la regione, i comuni, la provincia”, ha detto il procuratore Granero durante una audizione parlamentare nel gennaio scorso: “Ci siamo resi conto che tutto ciò che veniva architettato e deciso era fatto per eludere, non per risolvere”.

    Dall’esame dei verbali del consiglio d’amministrazione di Tirreno Power, ha aggiunto il magistrato, si capisce che l’azienda non aveva mai davvero pianificato di investire nel nuovo gruppo a carbone: “È stato usato come specchietto per le allodole per consentire il prolungamento del funzionamento dei due gruppi vetusti”. Da quei verbali risulta inoltre che l’azienda aveva previsto fin dal 2012 di ridurre l’organico di 160 dipendenti, “non è a causa del sequestro dell’impianto che sono stati licenziati”.

    Tra le prove raccolte dai pm ci sono le intercettazioni telefoniche e ambientali fatte dai carabinieri del Nucleo operativo ecologico. Come quella in cui due dirigenti del ministero dell’ambiente discutono di scrivere un’ordinanza che permetta il dissequestro la centrale, aggirando la legge che impone di coprire il carbone: “Cerchiamo di fare una porcata… che almeno sia leggibile”, si dicono. “Un porcellum”. E ancora: “Abbiamo una porcata da fare in trenta minuti scritta da loro, dallo sviluppo economico”. “Se si volesse fare una cosa pulita”… “questa pulita non potrà mai essere”.

    “Le azioni dei funzionari pubblici hanno sempre avuto un input politico”, ha osservato Francantonio Granero durante una nuova audizione presso la camera dei deputati, l’8 settembre scorso: dove il magistrato, ormai da alcuni giorni in pensione e non più titolare dell’inchiesta, è stato davvero esplicito (si può ascoltare qui). Ha parlato di “torsioni amministrative”, di una pubblica amministrazione “vassallo del mondo finanziario”, “mi sono sentito dire ‘queste norme le scrivono le aziende’”, e di pressioni.

    La capacità installata in Italia è nettamente superiore al consumo di energia elettrica

    Dopo il sequestro dell’impianto, Tirreno Power ha “avviato un frenetico lavorio” per ottenere la riapertura: “Un’azione di lobby intensa, a tutti i livelli, senza lasciare nulla di intentato”, ha detto il magistrato. Il vertice aziendale ha cercato per esempio di far aprire un provvedimento disciplinare nei suoi confronti, come risulta dall’intercettazione in cui Massimiliano Salvi, allora direttore di Tirreno Power, chiede a un dirigente del ministero dell’ambiente: “Ma non si può fare un esposto al Csm? Non si può far aprire un’indagine al ministero della giustizia?”. Una cosa simile avrebbe messo fine all’indagine. La manovra, osserva Granero, “mi ha solo rafforzato nella convinzione di essere nel giusto: avevamo toccato qualcosa di molto grave”.

    Tirreno Power sull’orlo della bancarotta

    Il sequestro dei gruppi a carbone della centrale di Vado-Quiliano è stato un colpo pesante per Tirreno Power. La società oggi appartiene al 50 per cento a Engie, più nota con il vecchio nome Gaz de France-Suez (controllata dallo stato francese), e per l’altra metà a Energia italiana, consorzio in cui Sorgenia (gruppo De Benedetti) ha il 78 per cento, con Hera e Iren quali azionisti minori.

    Tirreno Power rischia la bancarotta. Non è riuscita a far certificare il bilancio 2013, ma nel gennaio del 2015 ha ottenuto una ristrutturazione del debito (concessa da Unicredit, Bnp-Paribas e Mediobanca). Non è bastato però, e nel luglio 2015 l’azienda ha ottenuto una seconda ristrutturazione: stavolta da un pool di dieci banche tra cui la Cassa depositi e prestiti.

    “La realtà è che Tirreno Power era già in difficoltà sul mercato dell’energia ancora prima del sequestro»”, dice Antonio Tricarico, direttore di Re:Common, associazione che insieme a Legambiente, Greenpeace e Wwf sostiene la Rete dei cittadini contro il carbone. Del resto, la chiusura dei gruppi a carbone nell’ultimo anno e mezzo “ha dimostrato che quell’energia non è affatto necessaria”, fa notare Legambiente: la capacità installata in Italia è nettamente superiore al consumo di energia elettrica.

    Le banche hanno rifinanziato il debito dell’azienda, per la secnda volta in pochi mesi, sulla base di un piano industriale depositato in luglio presso il tribunale fallimentare di Roma: “Tutt’ora però nessuno lo ha visto, benché in teoria sia un atto pubblico”, sottolinea Tricarico.

    Le banche dovrebbero fare attenzione a finanziare Tirreno Power, aggiunge: “Crediamo che l’impianto di Vado Ligure sia uno stranded asset, destinato alla chiusura definitiva. E troviamo preoccupante che tra le banche finanziatrici ci sia anche la Cassa depositi e prestiti, che gestisce i risparmi dei cittadini raccolti da Poste italiane”.

    Il portavoce dell’azienda, Giorgio Tedeschi, raggiunto al telefono, ci dice che il piano industriale resta riservato “perché le procedure della legge fallimentare sono in corso, c’è una procedura concorsuale che va conclusa”.

    Ma ha aggiunto che i piani aziendali sono legati alla possibilità di “trovare un’autorizzazione integrata ambientale che sia fattibile”, perché quella rilasciata dal ministero dell’ambiente “a nostro avviso detta condizioni tecnicamente impossibili” (Tirreno Power infatti ha presentato un ricorso), e comunque “il nuovo piano industriale non contempla più i vecchi gruppi a carbone”, quelli su cui ha indagato la procura di Savona.

    Aggiunge però, a scagionare l’azienda, che dopo un anno e mezzo di chiusura dell’impianto a carbone la concentrazione di polveri nocive a Vado-Quiliano non è sensibilmente migliorata. E che le accuse formulate dalla magistratura “sono di tipo statistico, cioè non ci sono vittime con nome e cognome ma solo una valutazione statistica sulla probabilità di decessi”. Già, si chiama epidemiologia – “il danno collettivo non è meno grave del danno a un singolo individuo”, mi aveva detto il dottor Trucco, “sappiamo che un dato numero di persone è destinato a morire a causa di quelle emissioni, anche se non sappiamo chi sono: continuare a inquinare significa condannarle”.

    Il carbone di Vado approda a Parigi

    Il partner francese di Tirreno Power, è consapevole di essere implicato in una vicenda giudiziaria – e in una impresa a rischio di bancarotta? Di sicuro ne è informata l’assemblée nationale, il parlamento francese, che nel giugno scorso ha invitato l’avvocato Matteo Ceruti, rappresentante legale delle associazioni savonesi che si battono contro la centrale di Vado-Quiliano.

    Così il caso di Vado Ligure è approdato oltralpe. Un sabato mattina, il 10 ottobre scorso, la sala del consiglio comunale di Savona ha ospitato un incontro pubblico convocato dalla Rete no al carbone. C’era anche Malika Peyraut, rappresentante di Amis de la terre, filiazione francese di una nota organizzazione ambientalista internazionale. “Tra poche settimane Parigi ospiterà la conferenza delle Nazioni Unite sul clima”, ha detto, “e il nostro presidente François Hollande chiede al mondo intero di impegnarsi contro i gas di serra, di decarbonizzare: com’è possibile che intanto lo stato investa su un impianto a carbone obsoleto? È inaccettabile, e noi ci batteremo perché Engie cominci a disinvestire dal carbone”.

    Il prossimo atto di questa storia si svolgerà in tribunale? Certo sarà un processo combattuto: Tirreno Power ha un collegio di difesa agguerrito, guidato dall’avvocata Paola Severino, ex ministra della giustizia.

    Intanto nella centrale di Vado-Quiliano il mucchio nero del carbonile è calato. Durante l’estate è scomparso anche il condotto sopraelevato che trasportava il carbone dal porto alla centrale, notano con sorpresa gli attivisti di Uniti per la salute, con cui ho visitato la zona. Filippo (nome fittizio, ndr), che abita a un centinaio di metri in linea d’aria dal muro di cinta, ricorda quando la centrale ha cominciato a funzionare, nel 1972: “Ero un bambino e per me quello era il panorama. Ci sono cresciuto. Quando tornavo da fuori, alla vista delle ciminiere pensavo ‘sono a casa’. Non immaginavo di convivere con il mostro. Non sapevo quanto avrebbe condizionato la mia salute, e ora quella di mio figlio”.

    Chissà se sta per vedere la fine del carbone a Vado Ligure.

    https://www.internazionale.it/reportage/2015/11/07/vado-ligure-carbone-inquinamento
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