• La valle che accoglie

    Viaggio nella più antica chiesa protestante italiana, minoranza un tempo perseguitata, che oggi è in prima linea nell’accoglienza dei migranti e nelle battaglie per i diritti delle donne e delle coppie omosessuali.

    Un corteo composto esce da un edificio giallo e bianco in stile inglese: religiosi e delegati marciano in silenzio. Davanti al gruppo, alcuni indossano delle toghe nere, gli abiti lunghi dei pastori; al collo le facciole, dei fiocchi bianchi, nonostante le temperature proibitive che stanno colpendo le Alpi e le prealpi italiane alla fine di agosto. Il corteo attraversa il giardino, poi la strada, quindi svolta per entrare in un altro edificio che ricorda una chiesa anglicana: il tempio di Torre Pellice, dove si svolgerà il rito che aprirà il sinodo annuale della più antica chiesa protestante italiana, la chiesa valdese, che è anche la più progressista del paese.

    Non è possibile sapere di cosa esattamente discuterà il sinodo prima che cominci, perché perfino l’ordine del giorno è deciso dai 180 delegati che da tutta Italia sono arrivati a Torre Pellice, una cittadina a 55 chilometri da Torino. “Abbiamo una maniera di decidere le cose molto democratica”, spiega la pastora e teologa Daniela Di Carlo, che si definisce “femminista, antispecista, ecologista” e cita più volte la femminista statunitense Donna Haraway e il filosofo spagnolo Paul B. Preciado.

    Un ruolo centrale

    È arrivata nella val Pellice da Milano, la città di cui è la guida spirituale per le chiese protestanti e responsabile dei rapporti con le altre religioni. “Al sinodo dei valdesi non partecipa solo il clero: dei 180 delegati solo novanta sono pastori, gli altri novanta sono fedeli, che sono eletti localmente dalle diverse chiese. Questo significa che l’assemblea può ribaltare i pronostici e non si può mai davvero prevedere quello che succederà durante la riunione. Se non si è d’accordo su qualcosa, si va avanti a discutere a oltranza”, assicura la pastora, seduta nella stanza rossa della Casa valdese, la sede della chiesa valdese e della sala del sinodo, circondata dai quadri che rappresentano i benefattori della chiesa.

    I valdesi hanno consacrato la prima pastora nel 1967 in un paese in cui la chiesa cattolica, che è maggioritaria, non riconosce il sacerdozio femminile. Di Carlo studiava architettura all’università, ma poi ha deciso di dedicare la sua vita alla chiesa negli anni ottanta, dopo un’esperienza di volontariato durante il terremoto in Irpinia. “Mi interessavano più le persone delle case”, scherza. “Nel Vangelo Gesù ha affidato alle donne l’annuncio della sua resurrezione, voleva per le donne un ruolo centrale”, continua.

    “Quando Gesù incontra le sorelle di Lazzaro, Marta e Maria, è molto chiaro. Marta si lamenta perché la sorella Maria si è messa ad ascoltare le sue parole, invece di aiutarla nelle faccende domestiche, ma Gesù le risponde di lasciarla stare, perché Maria si è seduta ‘nella parte buona, che non le sarà tolta’”, continua Di Carlo, secondo cui la possibilità di diventare pastore per le donne era presente già agli albori della chiesa valdese, addirittura prima che questa aderisse alla riforma protestante nel cinquecento, per essere prima abolita, quindi ripristinata nella seconda metà del novecento. Come guida spirituale della sua comunità non si sente discriminata in quanto donna. “Tranne nei casi in cui partecipo alle cerimonie ecumeniche, specialmente nel rito ortodosso ci sono molti limiti che ancora escludono le donne dalla liturgia”, spiega.

    I valdesi sono stati i primi a benedire le unioni tra persone dello stesso sesso e nel sinodo di quest’anno potrebbero discutere della gestazione per altri (gpa), una pratica riproduttiva che divide anche le femministe e per cui il governo italiano guidato da Giorgia Meloni ha proposto addirittura l’istituzione del “reato universale”. “Abbiamo affidato a una commissione l’indagine sul tema e ne dovremmo discutere. Potrebbero esserci delle divisioni, come avvenne al tempo del riconoscimento delle unioni civili, ma si troverà un accordo”, assicura Di Carlo. Nel sinodo di quest’anno si discuterà anche della mancata presa di distanza dal fascismo nel sinodo del 1943, che si svolse dal 6 al 10 settembre durante i giorni dell’armistizio dell’8 settembre. Nel sinodo, ancora oggi, alcuni vorrebbero che si chiedesse perdono per non aver preso una decisione netta in quell’occasione.

    “Noi siamo una chiesa che include: siamo impegnati contro l’omotransfobia, contro il razzismo, contro la violenza sulle donne”, continua. “Per noi Gesù è inclusione, è accoglienza. Crediamo in un Dio che è diventato uomo per amare e accogliere e la nostra missione è provare a essere come lui”, sottolinea. Proprio per questo motivo, racconta, le capita di incontrare nella chiesa di Milano persone che si convertono al protestantesimo, perché non si sentono accolte in altre chiese: “Arrivano da noi perché sono divorziati, oppure sono omosessuali e non si sentono accettati in altri contesti, ma sono religiosi e vogliono trovare un posto in cui possano esserlo insieme con gli altri”, conclude.

    L’Europa dei valdesi

    I valdesi prendono il loro nome da un mercante di tessuti del dodicesimo secolo chiamato Valdo, che viveva a Lione ed era diventato estremamente ricco con l’usura. “La sua storia è simile a quella di Francesco di Assisi”, assicura Davide Rosso, direttore della fondazione Centro culturale valdese, mentre fa strada, camminando su un sentiero nel villaggio di Angrogna, un paese di montagna a pochi chilometri da Torre Pellice, che nel cinquecento era diventato il centro più esteso nelle valli valdesi.

    Ad Angrogna è conservata una grotta, che è possibile visitare, in cui i valdesi delle origini si riunivano per celebrare il rito domenicale o si nascondevano quando erano perseguitati, la Gheisa d’la tana (la chiesta della tana). “Oggi è possibile visitare questi luoghi a piedi, perché sono stati riconosciuti come percorso turistico dal Consiglio europeo, che li considera costitutivi della storia europea”, spiega Rosso. Nel 2015 papa Francesco ha visitato per la prima volta un tempio valdese a Torino e ha chiesto perdono per le persecuzioni contro i valdesi, condotte dai cattolici nel corso dei secoli. In quell’occasione è stata Alessandra Trotta, moderatrice della Tavola valdese originaria di Palermo, a dare la benedizione finale a cui ha partecipato anche Bergoglio.

    All’inizio i valdesi, chiamati i “poveri di Lione”, furono tollerati dalle gerarchie ecclesiastiche romane: nel 1180 Valdo rinunciò a tutte le sue ricchezze, distribuì i beni ai poveri e cominciò a predicare e a mendicare. Quando gli chiedevano perché lo avesse fatto, rispondeva: “Se vi fosse dato di vedere e credere i tormenti futuri che ho visto e in cui credo, forse anche voi vi comportereste in modo simile”. Da subito ebbe dei seguaci che, come lui, abbandonavano le ricchezze e la vita mondana, per farsi poveri. Inizialmente erano appoggiati dal vescovo di Lione, ma poi furono scomunicati nel 1184 dal papa Lucio III, perché avevano la “presunzione” di predicare in pubblico pur non essendo consacrati e furono considerati eretici dalla chiesa di Roma.

    Molti valdesi dovettero fuggire dalle persecuzioni e si rifugiarono nelle valli delle alpi Cozie, tra l’Italia e la Francia. Quel territorio diventò una base del movimento religioso, durante secoli di pericoli. Nel sinodo valdese del 1532 proprio ad Angrogna la chiesa aderì alla riforma protestante. “Questo diede ai valdesi un appoggio importante dal punto di vista internazionale e anche una maggiore solidità dal punto di vista teologico”, spiega Rosso, mentre mostra il monumento di Chanforan, un obelisco eretto nei campi di Angrogna, che ricorda il luogo in cui si svolse quel sinodo.

    “In quel momento si decise di tradurre la Bibbia in francese e la traduzione fu affidata a Olivetano, con un grande sforzo economico da parte dei valdesi”, racconta Rosso. Con l’adesione alla riforma, i valdesi vennero allo scoperto e cominciarono a costruire anche dei templi, ma questo favorì le persecuzioni nei loro confronti da parte dei Savoia, spesso per ragioni meramente economiche e politiche.

    “Il seicento è stato un secolo particolarmente difficile: nel 1655 il duca di Savoia condusse una campagna, che aveva come obiettivo lo sterminio dei valdesi”, spiega Davide Rosso, mentre cammina tra le stradine di montagna in una giornata caldissima di agosto. “Le loro case furono distrutte, le persone massacrate o imprigionate e i loro beni confiscati. Molti furono costretti a fuggire in Svizzera o in Francia”. Della questione si occuparono anche i britannici Oliver Cromwell, lord protettore del Commonwealth, e il ministro degli affari esteri, il poeta John Milton, che inviò una serie di lettere ai sovrani e ai governi europei per chiedere che si interessassero della causa valdese.

    Cromwell scrisse addirittura al re di Francia, Luigi XIV, minacciando di interrompere le trattative di amicizia in corso con il Regno Unito, se il re francese non avesse fatto pressione sui Savoia per far ottenere ai valdesi la libertà di culto. Ma solo nel 1848 il re Carlo Alberto di Savoia concesse i diritti civili e politici al gruppo. “Tuttavia la libertà di culto vera e propria è arrivata solo nel 1984, con la firma delle intese con lo stato italiano, anche se era già prevista in teoria dall’articolo 8 della costituzione”, spiega Rosso. Fu la prima intesa di questo tipo firmata in Italia con una minoranza religiosa.

    Per lo storico valdese è importante comprendere i legami dei valdesi con le altre chiese protestanti e i loro rapporti internazionali che gli hanno permesso di sopravvivere pur essendo una minoranza perseguitata. Non è un caso, dice Rosso, che “Altiero Spinelli abbia pronunciato a Torre Pellice il suo primo discorso europeista, dopo la scrittura del manifesto di Ventotene”. Il teorico del federalismo europeo era sfollato a Torre Pellice, a casa di una famiglia valdese di Milano, e Rosso sostiene che in parte sia stato influenzato dall’atmosfera cosmopolita di queste valli.

    “Per decenni i valdesi non hanno potuto studiare, frequentare le scuole pubbliche, perché non avevano diritti civili, quindi era normale per loro trasferirsi in altri paesi europei per studiare. Parlavano almeno tre lingue. Per sopravvivere hanno dovuto emigrare, spostarsi. Ma questo li ha resi poliglotti e gli ha permesso di sviluppare uno spirito europeo. Poi l’idea della federazione è tipica del protestantesimo: le chiese protestanti sono sorelle”, continua Rosso, che accompagnerà il presidente della repubblica italiana Sergio Mattarella nel suo viaggio a Torre Pellice, il 31 agosto. In quell’occasione sarà commemorato il discorso di Spinelli sull’Europa. “È interessante guardare alle elezioni europee del prossimo anno e a quel che rimane del progetto europeo da queste valli”, conclude Rosso.

    Dall’Afghanistan alla val Pellice

    Parwana Kebrit apre la porta di un appartamento luminoso al primo piano di un palazzo che ha le porte di ferro battuto. C’è molto caldo, ma l’interno della casa di Kebrit è fresco e in ombra. La donna è arrivata nella val Pellice cinque mesi fa dal Pakistan, insieme al marito Jawan, con un corridoio umanitario. Originaria di un piccolo paese dell’Afghanistan si è rifugiata in Pakistan per la prima volta nel 2001, insieme alla sua famiglia di origine.

    “È lì che io e le mie sorelle siamo andate a scuola per la prima volta, in Afghanistan la maggior parte delle ragazze non poteva studiare. E al di là dei taliban, il 90 per cento degli afgani pensa che per le donne non sia giusto studiare”, racconta. Poi con la famiglia è tornata a Kabul, dove ha frequentato l’università ed è diventata un’attivista per i diritti delle donne. Ma con il ritorno dei taliban nella capitale afgana nell’agosto del 2021, Kebrit e il marito sono stati costretti a scappare di nuovo. “Per noi non era sicuro rimanere nel paese”, racconta.

    Dal Pakistan è arrivata in Piemonte, accolta dalla Diaconia valdese, che la sta aiutando a riprendere gli studi e a imparare l’italiano, oltre che a farsi riconoscere i titoli di studio del paese di origine. Ha una grande passione per il disegno e la pittura e mostra orgogliosa i suoi quadri, esposti uno vicino all’altro. Uno di questi, l’unico dipinto con i colori a olio, l’ha portato con sé nel viaggio dal Pakistan. Mostra delle donne afgane con i pugni alzati che marciano tenendo una bandiera e schiacciano degli uomini. “Sono le donne che combattono per i loro diritti”, spiega. In un disegno che ha realizzato in Italia, invece, si vedono sei gabbie con dentro degli uccelli, una delle gabbie è rossa ed è aperta, l’uccello è volato via. Nel quadro successivo l’uccello rosso vola dopo essersi liberato. Parwana Kebrit si sente così, finalmente libera. La sua intenzione ora è quella di continuare a studiare. Il suo inglese è fluente e i suoi occhi brillano di fiducia.

    “Amo l’Italia, sono stati tutti gentili e disponibili con noi. Voglio rimanere qui”, assicura. Dal 2016 i valdesi sono promotori, insieme alla Federazione delle chiese evangeliche in Italia e alla comunità di sant’Egidio dei cosiddetti corridoi umanitari, dei ponti aerei che hanno permesso di portare legalmente in Italia 4.244 rifugiati dall’Afghanistan, dal Libano e dalla Libia, in accordo con lo stato italiano. Nove persone arrivate in Italia con i corridoi umanitari sono al momento ospitati nella val Pellice, grazie alla Diaconia valdese. “Si tratta di due famiglie afgane”, spiega Alice Squillace, responsabile dell’accoglienza per la Diaconia. La famiglia di Kebrit e quella di Abdul Mutaleb Hamed, un medico afgano che lavorava con un’ong italiana, il Cospe. “Lavoriamo molto sulla loro inclusione e il rapporto con la comunità ospitante”, assicura. E negli anni non ci sono mai stati grandi problemi.

    “In questo momento in cui si torna a parlare di emergenza migranti in Italia (sono stati superati i centomila arrivi nel 2023, ndr), ci sembra che tutto sia strumentale. Guardare per esempio all’esperienza dei corridoi umanitari mostra che lavorare in maniera umana con piccoli gruppi di persone non produce mai situazioni difficili o ingestibili”, conclude. “Siamo stati rifugiati come valdesi in Svizzera e in Germania e sappiamo quali siano le sofferenze del viaggio e della cattiva accoglienza”, assicura Francesco Sciotto, pastore della chiesa valdese di Messina e presidente della Diaconia valdese, seduto ai tavolini del bar, allestito dalla chiesa valdese durante il sinodo, nel giardino del quartier generale di Torre Pellice. “Per questo i valdesi sono particolarmente impegnati nell’accoglienza e per questo vogliono evitare che altri subiscano le conseguenze di una cattiva accoglienza”.

    Oggi in Italia vivono circa ventimila valdesi e la maggioranza è concentrata nelle tre valli del Piemonte: la val Chisone, la valle Germanasca e la val Pellice. “Come tutte le chiese, anche i valdesi hanno una crisi di fedeli e di vocazioni. Sono sempre di meno i ragazzi e le ragazze che decidono di diventare pastori”, racconta Michel Charbonnier, pastore di Torre Pellice.

    “È una crisi che in larga parte dipende dalla secolarizzazione e che noi vediamo di più in queste valli che nelle chiese delle città in giro per l’Italia”. Secondo Charbonnier, in val Pellice molte persone di famiglia valdese hanno smesso di frequentare la chiesa, ma è un processo che va avanti da decenni.

    “Ne parleremo anche nel sinodo. Ma per certi versi per i valdesi questo è un problema meno urgente che per altre chiese: per noi infatti tutti possono predicare e siamo abituati a essere in pochi”. La chiesa è molto più impegnata nelle questioni di tipo sociale che nelle questioni meramente religiose. “Fermo restando la separazione netta tra lo stato e la chiesa in cui crediamo”, conclude Charbonnier. “Sappiamo che si può incidere, anche se siamo in pochi”.

    https://www.internazionale.it/essenziale/notizie/annalisa-camilli/2023/08/24/valdesi-sinodo-torre-pellice

    #vaudois #église_vaudoise #Italie #protestantisme #sinodo #Val_Pellice #religion #accueil #réfugiés #histoire #Angrogna #réforme_protestante #Olivetano #persécution #extermination #Savoie #minorité_religieuse #minorités #corridor_humanitaire #diaconia_valdese #val_Chisone #valle_Germanasca

  • Arrestation de Jawid, réfugié afghan, par les autorités vaudoises (#Suisse)

    Le canton de #Vaud continue de renvoyer des réfugié·es afghan·es !
    Jeudi matin 4 novembre, notre ami Jawid a été arrêté par la police vaudoise. Originaire d’Afghanistan, il a fui son pays de naissance en quête de protection en Europe. Il a d’abord atterri en #Suède, avant d’atteindre il y a une année la Suisse, pour y rejoindre sa sœur qui y vit. Mais voilà, qui dit Suède dit accords #Dublin, et les autorités ont décidé que c’est dans ce pays qu’il doit rester, alors même que la Suède n’accorde que très difficilement l’asile aux personnes afghanes.

    Nous ne savons à l’heure actuelle pas où est Jawid, s’il est déjà dans un avion pour la Suède ou encore emprisonné en Suisse.

    Ce que nous savons en revanche, c’est que les autorités vaudoises, en particulier Philippe Leuba, en charge de l’asile, ne reculent devant aucune hypocrisie dans la question des refugié·es afghan·es. Le 20 octobre 2021, Philippe Leuba se gargarisait dans la presse de son geste humanitaire en faveur de vingt cyclistes afghanes, exfiltrées et arrivées en Suisse pour obtenir l’asile. La préparation de l’arrestation de Jawid se faisait en parallèle.

    Comble de l’ironie, les député·es du Grand Conseil ont voté le 12 octobre 2021 une résolution (21_RES_14) demandant au Conseil d’Etat de soutenir les personnes réfugiées afghanes. Pour notre part, mardi 2 novembre, nous avons déposé une pétition munie de 823 signatures demandant aux autorités vaudoises de tout faire pour faciliter l’accueil des réfugié·es afghan·es, y compris de suspendre tous les renvois prévus. Mais apparemment le Conseil d’Etat et l’administration vaudoise restent de marbre.

    Nous sommes inquiètes pour Jawid, fragilisé par des années de procédures et de pression (comme il l’explique dans son témoignage en pièce jointe) et demandons la suspension immédiate de son renvoi, ou son retour en Suisse. Les autorités helvétiques doivent lui accorder la protection à laquelle il a droit et arrêter de persécuter les réfugié·es afghan·es dont le sort émeut tout le monde sans pour autant donner lieu à un accueil digne de ce nom.

    Collectif Droit de rester, Lausanne, 4 novembre 2021

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    Témoignage de Jawid Y. : débouté, #Non-entrée_en_matière Dublin, à l’#aide_d’urgence depuis le 10 juin 2021. En Suisse depuis le 1er octobre 2020, il est menacé de renvoi Dublin en Suède, d’où il est menacé de renvoi en Afghanistan car il a été débouté en Suède où il avait demandé l’asile à son arrive en Europe. Quand il a quitté l’Afghanistan mi-2015, il avait 21 ans. Aujourd’hui il a 27 ans.

    « I want to be free ! »

    I want to live like a normal person, I want to have the same rights, I want to study, I want to work.

    I want to speak to my family (in Tadjikistan now) and not lie to them.

    Since 6 years I’m lying to them because I don’t want to tell them what I’m going through.

    It would destroy them. My mom would be destroyed if she knew what I’m going through.

    I say that I’m fine, that I’m waiting for my asylum answer, that I’m ok, that I have French courses…

    My dream is to have a normal life. I don’t demand anything else, just to have a normal life. I don’t want to live in a refugee camp anymore.

    I just want to do things that I want.

    I don’t want every night security guards knock on my door and check if I’m here.

    I don’t want to be forced to go to SPOP and EVAM offices every day, or every two days…and to wait there for the white paper and to get 9.- CHF per day to survive here.

    My dream in Afghanistan was to get a diploma in IT ingeniring. I was studying IT in Kaboul Technic University and I liked it. I studied 2 and ½ years at this University.

    But I was forced to live my country very quickly.

    I even could not say good-bye to my family before leaving Kaboul because they live in the countryside.

    During all this years in Sweden, I was studying.

    I studied hard Swedish language. I passed the Swedish test in 1 and 1/2 year. Usually people need 4 to 5 years to succeed with this Swedish test.
    I went to school in Sweden.

    I was just ready to start University there.

    I had every possibility to enter to University…expect the permit.

    Now I don’t have the energy anymore to study.

    I want to stop.

    I question myself. Is this life really fair to stress myself…and to try to survive here…

    I don’t have hope anymore.

    I even committed suicide while in Bex.

    I see the doctor once a week and I see the psychologist from the hospital every day in Bex. It’s boring to see them, to talk to them, knowing that nothing will change.

    And the doctor, what they can do? When they ask me how I am feeling, I answer: « Well, I’m pissed of like all the other days ».

    I asked them not to come on Friday. But they say “No”, because their boss took the decision that the doctor have to see me every day.

    I don’t see any light. For me, my life is like walking in a dark room and I don’t know when I’ll crash the wall.

    (AF, récit récolté le 4.10.21, Lausanne, pour DDR)

    Message reçu via la mailing-list du collectif Droit de rester pour tou.te.s Lausanne, 04.11.2021

    #renvois #expulsions #réfugiés_afghans #asile #migrations #réfugiés #renvois_Dublin #NEM

  • Une vie tronquée

    #Abdoul_Mariga, 30 ans, est mort le 17 octobre dernier à #Conakry, un peu de l’#hépatite_B, beaucoup de la politique suisse en matière de migration. Ce jeune homme vivait depuis dix ans en #Suisse, où il exerçait le métier de cuisinier, lorsque les autorités fédérales l’ont expulsé, le 6 novembre 2019, probablement déjà malade, vers la Guinée, pays dans lequel il n’avait pas d’attaches. Ses proches le disaient intégré, le canton de #Vaud le jugeait intégré, le Tribunal fédéral l’admettait intégré, mais pas suffisamment, pas assez pour qu’il puisse poursuivre le cours de son existence.

    Seul à Conakry, sans documents d’identité que lui refusent les autorités guinéennes, Abdoul Mariga est livré au harcèlement policier et, dans l’incapacité de travailler, voit son pécule s’envoler. Sa santé décline également.

    A Berne, le Secrétariat d’Etat aux migrations (SEM) est prévenu de sa situation en mars. L’administration fédérale sait que la Guinée, Etat vers lequel elle l’a expédié de force, refuse de le régulariser, le maintenant dans une situation dramatique. Les documents en notre possession sont formels. Mais Berne refuse de prendre ses responsabilités.

    « Ma santé ne va pas bien. Mes bras et mes jambes s’endorment. […] J’ai des vertiges et parfois je perds l’équilibre et je tombe. […] J’ai pris un traitement quelque temps, mais maintenant c’est fini, je n’ai plus de médicaments et plus de soins. Même me loger devient très difficile. […] Je suis complètement bouleversé, des fois, je ne mange pas. Je paie seulement l’hôtel. C’est trop difficile pour moi », témoignait-il1 encore en septembre, avant que ses amis suisses ne perdent le contact.

    Après onze mois de descente aux enfers, M. Mariga s’est éteint le 17 octobre 2020, seul, dans un hôpital de Conakry. « Sans ce renvoi décidé par le SEM, Abdoul Mariga serait certainement encore en vie, et travaillerait aujourd’hui encore au CHUV », résume le collectif Droit de rester qui, durant des mois, a vainement tenté de s’opposer au Moloch bureaucratique. Comment ne pas partager leur colère. Et l’exigence que Berne rende aujourd’hui des comptes sur les manquements qui ont conduit à ce drame.

    https://lecourrier.ch/2020/12/14/une-vie-tronquee

    #Guinée_Conakry #réintégration #intégration #asile #migrations #réfugiés #morts #décès #SEM #Guinée

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    Ajouté à la métaliste sur les exilés décédés en Suisse
    https://seenthis.net/messages/687445

    ping @isskein @karine4

    • Faire-part

      Arrivé à 19 ans en Suisse en octobre 2009, où il avait déposé une demande d’asile, Abdoul Mariga, titulaire d’un CFC en restauration, travaillait comme cuisiner au Centre Hospitalier Universitaire Vaudois (CHUV). Son employeur le décrivait comme un jeune homme exigeant, soigneux, respectueux, de très bonne sociabilité, apprécié de son entourage et investi dans son travail, « un collaborateur sur qui nous pouvons pleinement compter ». D’après d’autres témoignages de son entourage, Abdoul était persévérant, déterminé dans ses apprentissages et il avait montré beaucoup de courage pour mener à bien sa formation professionnelle, réussie avec succès.

      Renvoyé en Guinée par la force le 6 novembre 2019, Abdoul Mariga s’est retrouvé seul à Conakry, sans logement et rapidement désargenté. Il a survécu sur place grâce à son dernier salaire du CHUV puis grâce à l’aide privée d’amis suisses. Sa santé s’est vite dégradée et il n’a pas pu avoir accès aux soins médicaux. Il a été hospitalisé alors qu’il se trouvait au plus mal et est décédé quelques jours plus tard, seul, sans l’accompagnement d’aucun proche. Cette terrible nouvelle nous laisse dans l’incrédulité et la colère, ainsi que dans une profonde tristesse.

      Voici un témoignage d’Abdoul Mariga qui décrit sa situation et sa détresse à Conakry :

      « Ma santé ne va pas bien. Mes bras et mes jambes s’endorment. Ça a commencé pendant ma détention en Suisse, avant l’exécution du renvoi, et maintenant c’est de plus en plus fréquent. J’ai des vertiges et parfois je perds l’équilibre et je tombe. J’ai été à l’hôpital au début, mais je n’ai plus accès, faute d’argent. J’ai pris un traitement quelque temps, mais maintenant c’est fini, je n’ai plus de médicaments et plus de soins.

      Même me loger devient très difficile. Je suis là avec beaucoup d’angoisses parce que les prochains jours, je ne sais pas comment je vais être. Je vis très difficilement ici et chaque fois que la police me contrôle, ils me prennent tout l’argent que j’ai sur moi. Chaque sortie est risquée et me fait perdre encore mes moyens pour vivre.

      Le ministre de la sécurité a refusé de me donner un document de circulation. Je n’ai pas la nationalité guinéenne et pas de papier d’identité et je risque à tout moment d’être expulsé. J’ai pris un avocat pour avoir un permis de circulation. Mon avocat a saisi la Présidente du Tribunal de première instance de Kaloum. Mardi 25 février 2020, j’ai été convoqué devant le juge du tribunal de Kaloum. Actuellement, la procédure n’a pas abouti et je n’ai plus de moyen de recours et plus d’argent pour payer mon avocat.

      Je suis malade je ne dors plus. Partout quand je vais dans les hôtels on me demande un passeport et si je sors pour manger, je risque de me faire arrêter par la police et racketter. Pour le logement, on me demande de payer 8 à 12 mois d’avance, ce que je ne peux pas. Je suis complètement bouleversé, des fois, je ne mange pas. Je paie seulement l’hôtel. C’est trop difficile pour moi. »

      Sans ce renvoi décidé par le SEM, Abdoul Mariga serait certainement toujours en vie et contribuerait aujourd’hui encore aux services essentiels du CHUV, tant estimé en ces temps de pandémie. Son destin était dans vos mains. Nous vous tenons responsables de ce décès. Malgré les interventions de son avocate, vous avez persisté dans votre décision alors même que le canton de Vaud vous avait demandé de lui accorder un permis pour cas de rigueur après 10 ans de séjour en Suisse.

      Pourquoi lui avoir refusé ce permis ?

      http://droit-de-rester.blogspot.com/2020/12/arrive-19-ans-en-suisse-en-octobre-2009.html

  • Canton de #Vaud (Suisse) : #ZAD_de_la_Colline, orchidées contre béton armé
    https://fr.squat.net/2020/10/22/canton-de-vaud-suisse-zad-de-la-colline-orchidees-contre-beton-arme

    Une Zone A Défendre a commencé à #Eclepens sur la colline du Mormont (canton de Vaud) contre l’extension de la carrière de la cimenterie Holcim, menaçant la destruction d’un haut lieu de biodiversité et de terres cultivées ! Après plusieurs années de recours d’associations locales et d’ONGs pour préserver cette forêt classée, cette entreprise écocidaire qui […]

    #arbres #Suisse

  • Exilia | Anna : 10 années d’aide d’urgence en centre collectif d’hébergement – Podcast
    https://asile.ch/2020/06/26/exilia-anna-10-annees-daide-durgence-en-centre-collectif-dhebergement-podcast

    Anna vit depuis 13 années en Suisse. Elle est requérante d’asile déboutée. Elle reçoit l’aide d’urgence pour se nourrir, qui est une aide extrêmement précaire, distribuée en nature. Elle n’a aucune autonomie économique, est dans l’incapacité de se constituer un réseau social, d’entreprendre des activités et de mener sa vie. Elle n’a pas le droit […]

  • #Exilia_Films | #Témoignage : vivre dans un #foyer au temps du Covid-19

    Alex vit dans un foyer pour requérant-e-s d’asile de quelque 125 places dans le canton de #Vaud. Il a #peur pour sa santé car la #vie_en_communauté ne permet pas de respecter les règlement d’#hygiène par rapport au coronavirus. Son témoignage #audio, recueilli par Exilia films, laisse entendre ses #craintes, le sentiment que l’information n’est pas suffisante, son #impuissance.

    https://asile.ch/2020/04/08/exilia-films-temoignages-vivre-dans-un-foyer-au-temps-du-covid-19
    https://www.youtube.com/watch?v=4_F-9osgZmw


    #Suisse #covid-19 #foyer #coronavirus #témoignage #asile #migrations #réfugiés #distanciation_sociale

    ping @thomas_lacroix @karine4 @isskein

  • Femmes nigérianes prostituées à #Lyon : « payer l’enfer pour rester en enfer »

    Lors du procès d’un vaste réseau de prostitution de femmes Nigérianes qui a pris fin vendredi 15 novembre à Lyon, aucune des dix-sept victimes n’a témoigné à la barre. Mais lors de leurs plaidoiries, les avocats des parties civiles ont levé le voile sur le parcours de vie de ces femmes. Des récits glaçants, qui les mènent de #Benin_City à la traversée de la Libye et de la Méditerranée, jusqu’aux trottoirs de Lyon.

    Pas une n’aura témoigné à la barre, ou dans la presse. Les dix-sept femmes Nigérianes victimes d’un vaste #réseau_de_prostitution ont été les grandes absentes du procès qui s’est ouvert au tribunal correctionnel de Lyon mercredi 6 novembre et qui doit se terminer vendredi.

    « On préfère qu’elles ne soient pas là, pour les protéger », explique à Infomigrants, Anne Portier, avocate d’Équipes d’action contre le #proxénétisme (EACP), l’une des deux associations qui s’est constituée partie civile aux côtés des victimes. L’avocate évoque ainsi « la #peur » de ces jeunes femmes dont certaines ont d’ailleurs retiré leur #plainte et « les risques de pressions » dans une petite communauté « où l’information circule vite ». De fait, 23 des 24 prévenus poursuivis pour aide au séjour irrégulier, proxénétisme aggravé, traite d’êtres humains, association de malfaiteurs et blanchiment d’argent en bande organisée sont, comme les victimes, originaires du Nigéria.

    Les avocats des parties civiles se sont donc succédé, mercredi 13 novembre, pour retracer par fragments la trajectoire de vie de chacune de ces femmes aujourd’hui âgées de 17 à 38 ans et qui tentent de reconstruire leur vie à l’étranger, en région parisienne ou encore en Isère.

    De Benin City à Lyon, le même piège pour toutes

    De prime abord, leurs parcours se ressemblent jusqu’à se confondre : une jeune femme, originaire de Benin City dans l’État nigérian d’Edo, peu éduquée et parfois en rupture avec ses parents, à qui une connaissance fait miroiter le rêve d’une vie meilleure en Europe. S’ensuit, avant le départ, le rite #vaudou du « #juju » au cours duquel la jeune femme s’engage à rembourser une #dette de plusieurs dizaines de milliers d’euros au titre de sa migration. Un montant dont il est difficile de prendre la mesure, 30.000 nairas nigérians équivalant à environ 80 euros.

    Vient ensuite la traversée de la Libye puis de la Méditerranée et l’arrivée en Europe, souvent en Italie, avant le passage en France et « la prise en charge » par une « mama » proxénète (10 des prévenus sont des femmes). La routine infernale s’enclenche alors avec les passes à 10 ou 30 euros dans une camionnette stationnée dans les quartiers lyonnais de Perrache ou Gerland. Au-delà de la dette de 30.000 ou 50.000 euros à rembourser, les femmes prostituées doivent encore payer un loyer de plusieurs centaines d’euros par mois. Tout est d’ailleurs prétexte pour leur facturer davantage, même la clé perdue de leur camionnette. « Payer l’enfer pour rester en enfer », résumera un des avocats des parties civiles.

    Détails de vie terribles

    Au fil des plaidoiries, la singularité des histoires, des parcours et des personnalités apparaît et des détails terribles surgissent. Il y a E. et M., aujourd’hui âgées de 23 ans, et compagnes de voyage et d’infortune dans leur périple jusqu’en France. L’une travaillait dans un salon de coiffure, l’autre rêvait de devenir couturière en Europe lorsqu’on leur propose de quitter le Nigeria. L’espoir tournera vite au cauchemar en Libye lorsque E. sera violée par trois gardiens sous les yeux de M., après s’être interposée pour défendre cette dernière. « Quand on les rencontre aujourd’hui, elles ont une attitude forte. Mais dès que l’on gratte, ça s’effondre », résume leur avocate.

    Il y a E., 17 ans et demi, la plus jeune victime de cette affaire. Son avocat la décrit comme une jeune fille « sous la coupe de la sorcellerie auquel s’ajoute un lien de famille (la jeune fille a été prostituée par sa propre mère NDLR) qui vient sceller un quasi silence ». Et l’avocat d’insister sur le serment quasi sacré qui la liait du fait du ‘juju’ : « Même longtemps après, dans un lieu de confiance, devant des associatifs, elle n’en parlait jamais. Cela dit bien le poids que cela peut représenter ».

    Il y a C. qui a contracté une dette de 70.000 euros, « à 30 euros la passe, cela représente 2.300 passes », relève son avocate. Frappée lorsqu’elle ose s’opposer à son proxénète, sa situation irrégulière la retiendra longtemps de se présenter aux services de police.

    Il y a J., vierge à son arrivée en France, et violée par son proxénète avant d’être prostituée.

    Il y a E. dont l’avocate raconte qu’un de ses clients lui a, un jour, posé un mouchoir sur le nez et qu’elle ne se souvient pas de ce qui s’est passé ensuite. « Elle a été dépossédée de son corps pendant 5 heures », dit l’avocate.

    Il y aussi Cynthia. Son statut dans cette affaire est particulier : à la fois prévenue et victime, elle a témoigné à la barre vendredi dernier. "Cynthia a été un an la prostituée d’Helen (une des « mamas » proxénètes NDLR) et un an son affranchie", a expliqué son avocate. Alors que les écoutes téléphoniques indiquent qu’une fois « affranchie » après avoir honoré sa dette en 14 mois en « travaillant tous les jours », Cynthia a fait venir, à son tour, une jeune Nigériane pour l’exploiter. « Monter en grade », est souvent la seule issue pour ces femmes qui ne parlent pas français, selon les associations de lutte contre la prostitution.

    « Qui est le propriétaire de X ? »

    « On se passe ces femmes comme des objets, on parle d’elles comme de choses », dénoncera une des avocates des parties civiles en appelant à condamner les passeurs. L’avocate d’Équipes d’action contre le proxénétisme (EACP) citera, elle, dans sa plaidoirie les expressions révélatrices utilisée par les proxénètes sur écoute téléphonique : « qui est le propriétaire de X ? », « dans le lot »…

    Alors que des prévenus sont poursuivis pour « traite d’êtres humains », Anne Portier dénoncera dans sa plaidoirie un #esclavage du 21ème siècle où les bateaux pneumatiques traversant la Méditerranée ont remplacé les navires négriers traversant l’Atlantique et où les champs de coton sont désormais des camionnettes où se succèdent les clients.

    Le ministère public a requis dix ans de prison pour les deux chefs du réseau et diverses peines allant de six à dix ans pour les maillons.

    https://www.infomigrants.net/fr/post/20877/femmes-nigerianes-prostituees-a-lyon-payer-l-enfer-pour-rester-en-enfe
    #prostitution #France #migrations #Nigeria #traite_d'êtres_humains #néo-esclavage #exploitation #esclavage_moderne

  • Chaque expulsion est violente ; à quand un retournement de cette violence contre l’État ?

    16 avril, à l’aube, les flics débarquent dans un appartement de Leysin pour emmener de force une famille toute entière, grands-parent.es, parent.es, et enfant.es. Une expulsion forcée vers la géorgie, après des années de vie dans ce village.

    Des médecins avaient averti : « Nous relevons une importante anxiété et des angoisses massives en lien avec sa situation administrative, à tel point que Monsieur D. n’envisage pas d’autres solutions que de se tuer s’il devait être renvoyé de Suisse… Nous ne pouvons exclure un passage à l’acte suicidaire en cas de renvoi ». Ce qu’il fait, en pleine arrestation, en s’entaillant profondément les avant-bras à quatre reprises. Les flics lui scotchent des bandages sur les blessures, avant de l’embarquer de force et de l’attacher dans une ambulance. Il est transporté comme ça jusqu’à l’aéroport de Genève, où une personne qu’il ne pense pas être du corps médical lui recoud les plaies, si mal qu’à Tbilissi, un médecin constate qu’un bras est déjà infecté.

    La mère est ligotée aux jambes et aux poignets, un masque sur la tête, jusqu’à l’aéroport où elle est attachée sur une chaise roulante. Dans l’avion, une autre famille de 4 personnes, le reste est rempli de flics. Les enfant.es, tous les trois né.es ici, sont aujourd’hui traumatisé.e.s, iels ne dorment et ne mangent plus.

    Les parent.e.s et grand-parent.e.s, yézidis, étaient arrivé.e.s en suisse en 2011. Le couple avait été tabassé en géorgie jusqu’à ce que la femme perde le bébé qu’elle portait dans son ventre.

    Les soi-disant « suicides » dans les camps (« centre pour requérant.es d’asile ») ou n’importe ou ailleurs, c’est des meurtres commis par l’état. La lente dégradation de la santé mentale des personnes racisées, causée par leurs conditions de vie et le racisme quotidien, c’est une manière de les tuer à petit feu, de s’en débarrasser, quand iels ne sont pas enfermé.es ou expulsé.es.

    Les soi-disant « retours volontaires », c’est littéralement avec ces flingues sur la tempe qu’ils sont obtenus, ceux qui servent aux expulsions de force. Quelles autres violences faut-il encore laisser faire pour que chacun.e.x s’empare réellement des « armes de l’état » et rétorque ? Pas celles qu’il prétend magnanimement concéder à travers ses pantin.es politicien.nes, mais celles qu’il utilise concrètement contre les gens…

    La violence coloniale et post-coloniale n’a pas de frontières.

    Il en faut au moins autant pour détruire les frontières que les états construisent à travers leurs systèmes de fichage, leur idéologie raciste, leurs barbelés, leurs camps, leurs flics, leurs entreprises dévouées, leurs fonctionnaires bien appliqué.es.
    Témoignage d’un voisin ami de la famille

    Le 16 avril vers 6 heures du matin, nous entendons des cris provenants de la maison. Je monte voir et rencontre un grand nombre de policiers à l’entrée et dans l’appartement de la famille D. Ils me disent de redescendre dans mon appartement. Je leur demande s’ils ont un mandat de perquisition. Un des policiers qui à l’air d’être en charge, sort trois feuilles où, après avoir demandé mon nom, l’écrit sur une d’elles et signe lui-même, sans que j’aie pu lire quoi que ce soit. Est-ce que ce papier aurait dû être donné aux Davrishyan le 5 avril pour qu’ils aient ces 10 jours mentionnés pour faire recours ? Si c’est le cas, aucun d’eux n’a rien reçu. Toujours est-il qu’il est mentionné que le soussigné, (moi-même), certifie avoir notifié la présente ordonnance à E. alors que je n’ai ni pu lire ce papier et qu’il a été signé par ce policier et que je n’ai pu ni voir ni parler à Erik. Lorsque je demande justement à voir E., on me l’interdit.

    J’entend ensuite les cris de M. qui appelle mon nom avec dans sa voix une telle détresse qui me pousse à aller voir ce qui se passe. La police me prend avec force. Un ordre est donné à deux policiers de me ramener dans mon appartement. Lorsque je demande au moins de pouvoir leur dire au revoir après 6 années d’amitié entre nous, ils me l’interdisent à nouveau. J’entrevois passer E., tout ensanglanté et groggy, puis M. et sa belle-mère, en pyjama, criant à la mort. Ligotée aux jambes et aux poignets, un masque sur la tête, M. restera ainsi jusqu’à Genève où elle sera attachée sur une chaise roulante. Les 3 enfants, dont l’un d’eux atteint d’autisme, sont témoins de cette scène de violence digne de l’arrestation des plus grands meurtriers de la planète, envers leur parents dont le plus grand crime est celui d’éviter qu’un autre crime soit commis contre eux, comme ils en ont déjà été victimes et qui hantent leurs cauchemars au point de préférer ôter leur vie plutôt que de retourner dans l’enfer qu’ils ont connu et qui les attend là-bas.

    Les D. sont d’une extrême gentillesse, ils sont toujours prêts à rendre service. Nos 3 enfants mutuels ont grandi ensemble, les 2 plus grands étant dans la même classe d’école. Ils sont Yézidis, minorité religieuse persécutée. Ils ont un système de castes et n’ont pas le droit de se marier hors caste. Ce qui a été le cas d’E. qui se marie par amour et s’enfuient pour ne pas avoir de problèmes. Sa femme est tellement mise sous pression par sa propre famille qu’elle rentre à la maison. Divorce. Lui se fait tabasser et fait de la prison. Lorsqu’il rentre en relation avec M., son épouse actuelle, elle se fait elle même tabasser par les membres de la famille de l’ex-femme, elle perd l’enfant qu’elle avait en elle et ils lui disent qu’elle n’aura jamais de descendance. C’est pour ça qu’elle a vécu un tel stress depuis, avec cette peur constante d’être renvoyée a l’horreur, et cette angoisse que ses enfants subissent le même sort que son premier. Lorsqu’elle reçoit récemment l’information à nouveau qu’ils vont être renvoyés, elle passe 2 semaines à Nant, en hôpital psychiatrique. Les médecins de famille sont consultés au niveau de leur santé et les 2 préconisent de ne pas les renvoyer au vu de leur santé. Ils suspectent que le cas d’autisme d’un de leur enfants se soit aggravé lors du renvoi de la grand maman, et que le renvoi de la famille lui fait risquer une décompensation. Les rapports médicaux de médecin de l’institut psychiatrique de « Nant » stipulent qu’E. suite à ses problèmes d’anxiétés dû à ce qu’il a vécu en Géorgie et à la peur de devoir y retourner, risque de passer à l’acte suicidaire s’il devait être déporté. Ils n’ont ni famille ni maison en Géorgie. Trois enfants en bas âge qui ont vécu uniquement en Suisse depuis 8 ans. Leur seule famille et à Leysin, le frère d’E. et sa famille qui sont en situation légale, réfugiés pour les mêmes raisons, mais ayant pu avoir le statut avant le durcissement des lois. E. a été rembarqué, les bras lacérés, et c’est seulement à Genève qu’ils lui ont recousu sommairement les bras. Ils sont arrivé en Géorgie et un médecin lui demande qui lui avait fait un aussi mauvais travail et que la plaie était déjà infectée…

    Un avion spécial attendait leur famille et une autre de 4 personnes à destination de la Géorgie "Tout le reste du Boeing était rempli par des policiers..."

    https://renverse.co/CHAQUE-EXPULSION-EST-VIOLENTE-A-QUAND-UN-RETOURNEMENT-DE-CETTE-VIOLENCE-CON
    #renvois #expulsions #asile #réfugiés #Leysin #Géorgie #Suisse #Vaud

    • PÉTITION POUR LE RETOUR EN SUISSE DE LA FAMILLE DAVRISHIYAN

      La #famille #Davrishyan (Erik et Marina,, Alexander (7), Emily (4) et Miron (2), ainsi que les grands-parents) ont été renvoyés en Géorgie par vol spécial le 16 avril 2019, après presque 8 ans de séjour en Suisse.

      En 2011, ils avaient demandé l’asile en Suisse en raison de risques pour leurs vies suite à un mariage hors caste dans leur communauté Yézidi. Erik a dû fuir car sa vie ainsi que celle de sa femme étaient menacées. Enceinte de huit mois, celle-ci a été battue et a perdu son enfant, son mari a échappé de peu à la mort grâce à l’intervention de tiers.

      Les autorités suisses ont prononcé plusieurs fois des avis négatifs face à leur demande d’asile et aux multiples demandes de réexamen qui mettaient en valeur les aspects médicaux.

      Ce renvoi violent a été effectué malgré les avis médicaux confirmant que les deux parents n’étaient pas en état d’être renvoyés, étant les deux dans un état anxio-dépressif « Nous ne pouvons exclure un passage à l’acte suicidaire en cas de renvoi » Le fils aîné a été diagnostiqué autiste. Sa prise en charge thérapeutique à Leysin lui a permis de progresser au point de suivre la 3ème année à l’école publique. Le rapport médical atteste qu’il est vulnérable, gravement déstabilisé par les changements et qu’il court un grave risque de décompensation sans continuité dans sa prise en charge. Malgré ces avis médicaux et un passage de Marina à l’hôpital juste quelques jours plus tôt, ils ont été renvoyés en Géorgie.

      Le 16 avril au matin, après que la Police aie enfoncée la porte, Erik s’est tailladé profondément les avant-bras qui saignaient abondamment. Son épouse se débattait en criant, elle essayait de résister face à une multitude de policiers. Les enfants étaient en pleurs. Marina, en pyjama, s’est vue ligotée aux pieds et aux mains et mettre un masque sur la tête. Erik à été ligoté dans l’ambulance se plaignant fortement de douleurs aux bras et ce n’est qu’à Genève, que quelques points de suture lui sont fait, alors qu’il en aurait eu besoin de bien plus. Dans l’appartement, les policiers ont rempli les valises à la va-vite, saisissant ce qui leur tombait sous la main. A Genève un avion spécial les attendait ainsi qu’une autre famille de 4 personnes à destination de la Géorgie. Tout le reste du Boeing était rempli par des policiers.

      Arrivés sur place, ils n’ont pas de logement régulier et les plaies d’Erik sont déjà infectées. Ils ont consulté plusieurs institutions sur place pour poursuivre le traitement d’Alexander, le fils autiste, mais les soins leur sont refusés, sous prétexte qu’il ne parle pas la langue du pays. Il est complètement perturbé, ne parle pas, ne mange pas et se cache sous la table. Nous sommes très inquiets pour la situation actuelle de détresse de la famille.

      Nous dénonçons cette violence envers cette famille et craignons pour le bien-être des enfants comme des parents. Il s’agit d’une violation des articles 3 et 23 de la Convention relative aux Droits de l’Enfant de l’ONU.

      Nous soussigné-e-s, demandons au Grand Conseil du canton de Vaud et au Conseil d’État qu’ils fassent toutes les démarches nécessaires pour le retour de la famille DAVRISHIYAN en Suisse et pour l’attribution d’un permis de séjour stable.

      http://petitiondavrishiyan.strikingly.com
      #pétition

  • Le Centre Wiesenthal à l’école de formation d’enseignants de Lausanne : « Annulez cette session haineuse qui enseigne la délégitimation d’Israël. » - Centre Simon Wiesenthal | CSW Europe

    Il s’agit d’un cours où je suis invité à animer une conférence et un atelier carto.

    Dans une lettre adressée à Guillaume Vanhulst, recteur de la Haute école pédagogique du canton de Vaud (HEP) de Lausanne, Shimon Samuels, directeur des Relations internationales du Centre Simon Wiesenthal, s’est dit scandalisépar une campagne haineuse en trois étapes, intrinsèquement anti-juive, orchestrée les 29 et 30 avril prochain sur le campus de la HEP :

    Et comme le ridicule ne tue pas, vous savourez ce passage inouï qui m’aurait fait exploser de rire s’il n’était pas aussi pitoyable :

    Le Centre demandait instamment à la HEP « de ne pas accueillir cette initiative éminemment politique, composée d’activistes – en lieu et place d’universitaires de renom – déterminés à mener une campagne regorgeant d’antisémitisme ».

    La lettre remarquait en outre que, « ironie du sort, ‘‘Hep-Hep’’ était au XIXe siècle le cri de ralliement des émeutiers allemands qui lançaient des pogroms meurtriers contre les Juifs. Ces émeutes ont commencé à Wurzbourg en 1819 et se sont propagées dans les villes de Rhénanie et de Bavière. ‘‘Hep’’ serait l’acronyme du latin Hierosolyma est perdita(« Jérusalem est perdue »), utilisé auparavant par les Croisés ».

    http://www.wiesenthal-europe.com/fr/news-releases-2019/485-le-centre-wiesenthal-a-l-ecole-de-formation-d-enseignants-de-

    Le Centre Wiesenthal à l’école de formation d’enseignants de Lausanne : « Annulez cette session haineuse qui enseigne la délégitimation d’Israël. »

  • 24 Heures | Vaud renvoie de plus en plus de femmes et d’enfants de force
    https://asile.ch/2018/10/18/24-heures-vaud-renvoie-de-plus-en-plus-de-femmes-et-denfants-de-force

    La journaliste Camille Kraft a mené une enquête journalistique sur la pratique des autorités vaudoises concernant l’évolution des pratiques de renvoi. De son analyse ressort que l’expulsion des femmes et enfants a beaucoup augmenté ces dernières années. Ce constat est-il en lien avec les pressions récentes émises par Berne induisant des coupes dans les subventions […]

  • #Amanil, âgé de 20 mois et né en #Suisse a été renvoyé par #vol_spécial ce matin à 6h45 vers la #Grèce.

    Amanil est né en Suisse le 1er décembre 2016. Sa maman est originaire d’Erythrée, où elle a rencontré son papa, avec qui elle s’est mariée en 2013. Le couple a fuit l’Erythrée et après un long voyage est arrivé en Grèce. La maman d’Amanil y a obtenu l’asile, mais pas son papa. La maman d’Amanil a eu la chance d’être ponctuellement aidée par une église éthiopienne, mais elle n’avait pas de logement, ni argent, ni accès aux soins, ni nourriture. Lorsqu’elle est tombée enceinte d’Amanil, elle a décidé de quitter le pays et de demander l’asile en Suisse où Amanil est né il y a presque deux ans.

    La maman d’Amanil a voulu éviter à son fils de connaître la précarité de la rue. C’est pourquoi elle s’opposait à son renvoi à Athènes. La Suisse a en effet refusé d’entrer en matière sur sa demande, au prétexte qu’elle avait le statut de réfugiée en Grèce – les persécutions subies en Érythrée ont en effet été reconnues et la Grèce a admis qu’elle ne pouvait pas rentrer dans son pays d’origine.

    Le HCR, Amnesty International, Human Rights Watch et MSF dénoncent régulièrement la situation des réfugié∙e∙s en Grèce. Les services d’aide aux réfugiés étant extrêmement précaires en Grèce, la plupart des réfugié∙e∙s n’ont ni logement ni travail et vivent dans la rue. C’est le cas non seulement des demandeurs d’asile, mais aussi des personnes qui ont obtenu la reconnaissance de leur statut de réfugié.

    Amanil ne connait ni l’Érythrée ni la Grèce. Il ne connait pas non plus son papa, dont la trace s’est perdue en Grèce. Il ne connait que le foyer EVAM d’Ecublens. Mais aujourd’hui, ce matin à 4h, il a été réveillé par une dizaine de policiers ; il a vu sa maman pleurer et il a été obligé de partir avec elle.

    À l’heure actuelle, nous sommes sans nouvelle d’Amanil et de sa maman, qui doivent pourtant être arrivés à Athènes. Nous exigeons de savoir où est la famille, quelle a été leur prise en charge à leur arrivée, et s’il est garanti qu’Amanil et sa maman auront un toit pour vivre et une aide sur le long terme en Grèce. Nous avons malheureusement de bonnes raisons d’en douter.

    Mais aussi nous voulons savoir pourquoi les autorités vaudoises s’acharnent ainsi sur les plus faibles, renvoient des familles, des petits enfants ; comment est-il possible de ne pas comprendre qu’une jeune mère souhaite à son bébé de ne pas grandir dans la rue ? comment est-il possible de parler d’un renvoi « sans contrainte » (communication du spop), lorsqu’il y a une dizaine de policiers pour embarquer une jeune femme, des cris, des larmes, et ceci devant témoins ? Les autorités vaudoises ont apparemment perdu tout sens des notions de bienveillance, d’accueil,et refusent de reconnaître la violence d’une expulsion par vol spécial. Ont-elles aussi perdu tout sens des responsabilités en renvoyant ainsi une maman et son fils de 20 mois dans les rues athéniennes ?

    Nous exigeons des réponses et l’arrêt de tous les renvois mettant en cause des enfants.

    Collectif Droit de rester, 4 septembre 2018

    reçu via la newsletter du refuge de Lausanne, avec ces deux photos en pj :

    #renvois #expulsions #asile #migrations #réfugiés #Vaud #réfugiés_érythréens #mineurs #enfants #enfance
    cc @isskein

    • Chronique d’un énième et triste renvoi

      Ce matin à 4h45, la police est arrivée au foyer de l’EVAM à Ecublens. Deux fourgonnettes et deux voitures de police, en total une dizaine de policiers en uniforme et en civil, un médecin de l’entreprise privée OSEARA et une employée du Service de la Population (SPOP).
      Ils ont arrêté et emmené D et M pour un vol de ligne Genève - Düsseldorf. Un couple qui vient de Géorgie et qui est arrivé en Suisse en septembre 2018. D souffre d’un cancer de la lymphe, sous une forme très agressive. Il a un suivi intensif au CHUV avec des séances de chimiothérapie tous les 21 jours et des contrôles plurihebdomadaires. Son prochain rendez-vous au CHUV devait avoir lieu ce jeudi 14 février à 14h pour une séance de chimio.
      Ils ont laissé en Géorgie leurs trois enfants, D veut continuer à lutter contre sa maladie. Il veut continuer à vivre, rien de plus. Le traitement contre le cancer de D n’était pas disponible en Géorgie. D et M se sont endettés et ont fait une demande de visa en Allemagne, où ils on dû payer pour avoir un traitement qui n’était pas suffisamment efficace. Finalement, c’est au CHUV qu’il a enfin pu obtenir un nouveau traitement qui semble faire effet et lui donner un peu d’espoir pour poursuivre sa lutte contre la maladie.
      L’expulsion d’aujourd’hui constitue un énième acte de violence d’État contre des réfugiés, contre des personnes vulnérables.
      Ce matin, D est monté dans sa chambre entouré de policiers, il est redescendu une dizaine des minutes plus tard, un des policiers portait une valise. D a été forcé sur le siège arrière gauche de la première fourgonnette et n’a eu plus aucun contact direct avec sa femme.
      On entendait les cris de M en provenance de la fenêtre de leur chambre, jusque devant l’entrée du foyer. Elle ne voulait pas partir, elle résistait. Les policiers ont avancé l’autre fourgonnette devant la porte du centre : Environ une demi-heure plus tard, M est descendue entourée de cinq policiers, les mains derrière le dos, peut être menottée. Elle nous a crié « Qu’est-ce que je dois faire ? Aidez-moi ! », ce à quoi nous avons répondu : « Essaie de résister, ne prends pas l’avion, c’est un avion de ligne. »
      Le médecin de l’OSEARA réagi alors en rétorquant : « Qu’est que vous faites ? Vous voyez bien que ça se passe assez bien, la prochaine fois, ce serait un vol spécial, bien pire donc. »
      Comment un médecin peut-il faire un tel commentaire ? L’on pourrait croire qu’il s’agit d’un acte routinier d’un médecin qui a visiblement l’habitude des vols spéciaux en tant que caution médicale. Dans ce contexte, la médecine privée assume un rôle bien particulier.
      5h24, les fourgonnettes démarrent.
      Il nous a été notifié que D et M ont effectivement été forcés à prendre l’avion de 9h pour Düsseldorf, d’une manière illégale. Contrairement aux affirmations avec beaucoup d’assurance du policier devant le centre, nous avons appris de sources sûres qu’aucun suivi médical n’est assuré sur place. En effet, le Service Social International a confirmé hier, au SPOP, qu’à l’heure actuelle rien n’était prévu au niveau de l’organisation des soins médicaux pour D.
      La vie d’un être humain est sciemment mise en danger pour faire fonctionner les rouages de la machine à broyer « asile ».
      Et pourtant, les médecins du CHUV ont averti les autorités fédérales et cantonales qu’une interruption des soins médicaux, même provisoire, est susceptible d’entraîner une aggravation de la maladie, une nouvelle résistance au traitement et un décès. En l’absence de soins médicaux, il peut décéder des suites de sa maladie à bref ou moyen terme.
      Et la réponse des autorités à cela ? Une arrestation et une expulsion !
      Accords de Dublin, expulsion et droits humains bafoués. Le SEM, le SPOP, la police et les médecins collaborateurs du système anéantissent les personnes. Les réfugiés sont devenus des numéros et objets à renvoyer.
      Ce renvoi constitue une mise en danger de la vie d’autrui et donc une violation de la convention européenne des droits de l’homme (CDEH) signée par la Suisse. Il est contraire aux engagements de la Suisse en matière de respect des droits de l’homme, en particulier parce que le renvoi a été exécuté sans assurances que le traitement médical pourra être poursuivi sans délai de carence.
      D’autre part, nous ferons tout pour suivre ce couple et savoir ce qu’il lui adviendra en Allemagne. Pour établir un contact entre ses médecins au CHUV et des médecins allemands. Si l’Allemagne ne peut pas garantir un traitement équivalent à ce père de famille, elle n’a qu’à le renvoyer en Suisse pour délégation de traitement.

      Collectif R, le 12 .02.2019

      Reçu par email du Collectif R

  • Le canton de #Vaud déclare la guerre aux publicités sexistes

    Le Conseil d’Etat vaudois veut interdire toute forme de publicité sexiste dans l’espace public. Il a proposé lundi au Grand Conseil de modifier la loi sur les procédés de réclame.

    http://www.rts.ch/info/regions/vaud/9689661-le-canton-de-vaud-declare-la-guerre-aux-publicites-sexistes.html
    #suisse #publicité #interdiction #sexisme #femmes #publicité #espace_public #affiches

    signalé par @albertocampiphoto

    • Pendant ce temps là à Vaud : Pascal Jeannerat/gax - 2 Juillet 2018 - RTS
      http://www.rts.ch/info/regions/vaud/9647441-la-rie-iii-vaudoise-sourit-deja-aux-actionnaires.html

      L’introduction anticipée dans le canton de Vaud du taux maximum d’imposition du bénéfice des entreprises à 13,79% dès 2019 permet déjà aux sociétés de dissoudre et distribuer aux actionnaires une partie de leurs provisions.

      La décision du Conseil d’Etat vaudois le 1er novembre d’introduire dès 2019 la baisse du taux ordinaire sans attendre la réforme fédérale (PF17) a eu des conséquences dès le bouclement des comptes 2017 de certaines entreprises. Romande Energie par exemple a inscrit « la reconnaissance d’un crédit d’impôts différés de 45 millions de francs », indiquait un communiqué du groupe le 16 avril.

      Du moment que le taux annoncé d’imposition du bénéfice n’est plus de 20,8% mais de 13,7%, les provisions pour la fiscalisation des réserves latentes peuvent être réduites, a expliqué Romande Energie au 19h30 de la RTS. Le groupe a notamment dissous 27 millions provisionnés qui ont contribué à rehausser son bénéfice net 2017 à 121 millions de francs et permis de verser un dividende de 36 francs par action.

      Cadeau aux actionnaires ?  
      La dissolution de provisions crée de facto du bénéfice comptable pour les entreprises, explique Daniel Spitz, responsable fiscalité suisse au sein de RSM Switzerland à Lausanne. « Il y a certes plus de fonds propres disponibles pour la distribution de dividendes, mais pour distribuer, il faut encore avoir le cash correspondant », tempère-t-il.
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      Vaud seul devant
      Cet effet anticipé s’ajoute à l’attractivité fiscale déjà forte du canton de Vaud avec l’introduction dès 2019 du taux de 13,79% pour l’imposition du bénéfice des entreprises. Baisse que le canton de Vaud est le seul de Suisse à avoir décidé d’introduire et qui réduira de 309 millions de francs ses recettes fiscales en 2019.
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  • Le renvoi d’une famille scandalise les professionnels de la santé

    Le médecin traitant et la psychologue d’une requérante déboutée sortent de leur réserve pour dénoncer son expulsion.

    Le renvoi récent d’une maman d’origine bosniaque, avec ses deux enfants, suscite de vives critiques sur la façon dont l’opération a été menée. Dénoncée dans un premier temps par deux associations de défense des réfugiés (notre édition du 25 mai), l’action policière fait sortir de sa réserve le médecin traitant de la famille. « Je ne suis pas d’accord qu’on leur inflige un tel traitement, tonne le docteur Laurent Lob.

    On peut être d’accord ou pas avec la loi, mais il y a la manière dont on l’applique. » La psychologue chargée de cette mère de famille tempête elle aussi. Le récit qu’elle donnera après avoir contacté sa patiente à son arrivée à Sarajevo suscite l’inquiétude des professionnels de la santé. Ils déplorent le manque de considération pour des personnes à la #santé_mentale fragilisée par leur vécu. Les propos de Laurent Lob confirment la version dénoncée en premier lieu par le collectif Droit de rester.

    Il rappelle que la mère de famille a perdu son mari pendant la guerre en ex-Yougoslavie. En Suisse depuis neuf ans avec son second mari, elle a donné naissance à un garçon (15 ans) et une fille (7 ans), née en Suisse. L’incertitude sur leur statut de réfugié, qui s’est ajoutée au #traumatisme du passé, a débouché sur des problèmes psychologiques qui ont mené le père à Cery. C’est là qu’il était lorsque les forces de l’ordre ont emmené le reste de la famille. « Les deux enfants portent déjà en eux cette #angoisse_familiale, dit le docteur Lob.

    La façon dont ils ont été expulsés ajoute une #agression : on ne peut pas faire irruption à 3 h du matin chez eux, on ne peut pas les séparer de leur mère ! »

    Aller simple pour Sarajevo

    « Son fils n’arrête pas de répéter : « Maman est-ce que je rêve ? Je crois que j’ai rêvé. » La petite, quant à elle, dira : « Maman, on peut rentrer à la maison maintenant ? Qu’est-ce qu’on fait là, où est-ce qu’on est ? » C’est ainsi que la psychologue Sabina Herdic Schindler a retranscrit les propos de la mère de famille, qu’elle a pu joindre juste après son arrivée à Sarajevo. Elle s’en veut d’avoir tenté de rassurer sa patiente. « J’ai cru à tort qu’ils n’avaient pas de crainte à avoir, dit-elle. Des enfants mineurs, un père hospitalisé, pas d’assignation à résidence et un dossier en cours de réexamen à Berne. » Elle se remémore un cas similaire, où les policiers venus expulser une famille ont tourné les talons en constatant que le père était absent. « Dans le cas présent, il n’y avait même pas un interprète et la dizaine de personnes qui sont entrées à la lumière de lampes de poche ne se sont pas présentées », dénonce la psychologue. La retranscription de la conversation entre la mère et sa psychologue dépeint le vécu traumatisant de cette expulsion.

    Il commence au moment où la #police fait irruption dans ce logement de Prilly. Les forces de l’ordre ont obtenu de l’EVAM les clés de l’appartement. Il est 3 h du matin environ : « C’est à ce moment que les policiers en uniforme, sans allumer la lumière, vont réveiller Madame avec des lampes torches. Elle n’arrête pas de demander : « Qu’est-ce qui se passe ? » Mais n’arrive pas à comprendre ce qu’on lui dit. Elle se souvient de mots comme partir, police, Sarajevo.

    Très agitée et prise de panique, elle cherche à se lever, prendre un médicament (ndlr : un calmant), mais on lui ordonne de rester assise et de ne pas faire de bruit. (...) Les enfants sont réveillés par les personnes présentes, pas par leur mère. Ils ne comprennent strictement rien. Le garçon me dira qu’il était pris de #peur et de #panique (...) il croit que c’est lui qu’on est venu chercher. (...) À chaque fois que Madame essayait de parler à ses enfants pour les rassurer ou leur expliquer ce qui se passe, on lui interdisait de parler. » La suite du récit se déroule sur quatre pages. Emmenés à l’aéroport, leurs téléphones confisqués, le garçon placé dans une autre voiture que sa mère et sa sœur, sans qu’elles sachent où il se trouve. C’est un #vol_spécial qui les attend, avec des escales à Tirana, Pristina, Belgrade et Sarajevo. C’était leur première fois en avion.

    Surveillance aux WC

    Entre Prilly, Genève et Sarajevo, divers épisodes semblent douloureux, comme les entraves à la communication entre la mère et ses enfants, tous séparés par des accompagnants. Ou humiliant, comme cette scène où la mère, malade, doit faire ses besoins en présence de deux personnes. « Elle avait la diarrhée, ça sentait très fort et elle était observée par deux personnes », relate Sabina Herdic Schindler. La petite fille de 7 ans n’échappera pas non plus à cette surveillance aux toilettes. À l’aéroport de Sarajevo, les policiers rendront les téléphones confisqués, assortis d’une enveloppe de 500 francs en guise d’adieux.

    « La façon dont cela s’est passé est grave, dit la psychologue. L’intégrité de la famille n’a pas été respectée et on n’a fait preuve d’aucun #respect pour leur détresse, sans tenir compte de leur situation médicale. » Le médecin de famille n’est pas loin de comparer les méthodes employées aux rafles opérées pendant la Seconde Guerre mondiale. « C’est irresponsable car cette intervention laissera des séquelles, dit Laurent Lob. Mais je ne jette pas la pierre aux intervenants car certains souffrent aussi de ces opérations : je suis deux policiers, dont l’un a quitté la police... Ils ne vont pas bien psychologiquement non plus. »

    Réactions tous azimuts •
    Les associations de défense des réfugiés ont été les premières à dénoncer une intervention « inhumaine ». Les professionnels de la santé ont emboîté le pas en parlant ouvertement de leur patiente - avec son accord.

    En outre, un courrier de psychiatres et psychologues circule dans le milieu afin de récolter des signatures. Ces professionnels s’inquiètent « des séquelles psychologiques et des traumas provoqués par de tels événements sur des enfants et des parents, déjà traumatisés par un passé de guerre ». Dénonçant « l’irrespect du droit fondamental de l’être humain d’être bien traité et soigné », ils demandent le retour de la famille « afin que les soins médicaux en cours soient poursuivis pour chacun dans des conditions de sécurité et de dignité humaine ». Ce courrier sera adressé au Tribunal administratif où un recours a été déposé, dans l’espoir de réunir à nouveau la famille en Suisse. Le Parti socialiste a aussi relayé le cas devant le Grand Conseil en déposant une interpellation demandant des éclaircissements au Conseil d’État.

    « Il y a dans cette affaire des éléments choquants, incompréhensibles, qui dépassent la ligne rouge fixée lors des débats que nous avons tenus à propos de la loi sur les étrangers », commente Gaétan Nanchen, secrétaire général du PS Vaud. Les enseignants de Prilly, où étaient scolarisés les deux enfants, ont adressé un courrier courroucé au conseiller d’État Philippe Leuba. Enfin, les élèves et amis des deux enfants expulsés leur ont adressé des messages de soutien et d’espoir.

    Conseiller d’État à la tête du Département de l’économie, de l’innovation et du sport, Philippe Leuba dirige le Service de la population (SPOP) chargé de la mise en œuvre des lois fédérales et cantonales en matière de migration. Face à la critique des médecins, il réagit en précisant que le SPOP n’a pas de compétence médicale.

    « C’est l’organisation #OSEARA, sur mandat du Secrétariat d’État aux migrations, qui garantit les conditions sanitaires du renvoi ; elle est habilitée à annuler un départ si la santé d’une personne frappée d’une décision de renvoi est enjeu. Sur la base des documents médicaux que les milieux médicaux ont bien voulu donner, l’OSEARA n’a pas relevé de contre-indication médicale au retour. Par ailleurs, un représentant de la Commission nationale de prévention de la torture est systématiquement présent pour chaque vol spécial. » Le ministre insiste : « Personne ne procède à un renvoi de gaieté de cœur. » La famille ayant refusé toutes les aides au retour, « le vol spécial est légalement la seule option pour effectuer un renvoi.

    L’organisation du vol spécial est de la compétence de la Confédération. » Si la famille a été réveillée en pleine nuit, c’est en raison du #plan_de_vol. « L’horaire est dicté par un impératif lié au pays d’accueil. On ne peut pas prévoir un vol qui arriverait tard dans la journée, au moment où les instances chargées d’accueillir les personnes ne travaillent plus. » Le conseiller d’État souligne que le renvoi s’est déroulé « sans recours à la force, sans détention et sans assignation à résidence préalable ».

    Et d’ajouter : « De tous les cantons, Vaud est celui qui a mis en place des procédures les moins contraignantes pour les familles. ».

    https://www.24heures.ch/vaud-regions/renvoi-famille-scandalise-professionnels-sante/story/30928044
    #expulsions #renvois #asile #migrations #réfugiés #débouté #Vaud #Suisse

    #à_vomir

    cc @isskein

  • UN SCANDALE DE PLUS, UNE VIOLENCE ETATIQUE DE PLUS, UN RENVOI DE PLUS, DES DROITS HUMAINS NIÉS.
    Hier matin (17 mai), les polices lucernoises et vaudoises sont venues chercher une femme nigériane et son bébé de 3 mois (assignés au canton de Lucerne) afin de procéder à leur renvoi en Italie selon les Accords Dublin.
    Les polices cantonales se sont mobilisées pour aller chercher cette femme et son bébé jusqu’à Renens (Canton de Vaud), débarquant au domicile du compagnon de Madame et père de l’enfant, lui-même en possession d’un permis B de réfugié, érythréen et vivant en Suisse depuis 3 ans ! Une véritable traque…
    Une demande de reconsidération auprès du Secrétariat d’Etat aux Migrations (SEM) et une démarche de reconnaissance en paternité sont pourtant en cours pour faire valoir leur droit à rester auprès de leur compagnon et père… Mais cela n’a pas empêché les autorités cantonales et fédérales en matière de migration de faire exécuter cette déportation immonde et cela n’a pas empêché non plus les 8 policiers d’emmener Madame et de les mettre elle et son bébé dans un avion à destination de Florence, tout en précisant qu’elle pourrait revenir en Suisse une fois la #reconnaissance_de_paternité avérée... !
    Selon les dernières informations, Madame et son fils sont arrivés à Florence et ont été placés dans un camp, partageant une chambre avec trois autres personnes. Le bébé se porte bien.
    Cependant des questions subsistent face à la violence de ces pratiques et de ces agissements :
    Comment le SEM, le SPOP, Mme Sommaruga, etc. justifient-ils cette violence d’Etat ?
    Comment justifient-il de séparer cette famille, d’arracher ce bébé de 3 mois et cette femme à leur compagnon/père ?
    Comment les autorités justifient-elles d’aller jusqu’à traquer ce bébé et sa mère jusqu’au domicile du père pour effectuer un tel renvoi et de passer outre les démarches juridiques en cours ??
    Pourquoi cet acharnement, y compris sur des personnes extrêmement vulnérables ?
    Dans quelques mois, la reconnaissance en paternité sera terminée, le regroupement familial sera validé et Madame pourra revenir vivre en Suisse. Mais le trauma de son arrestation par 8 policiers, de sa déportation et de son placement dans un camp à Florence se sera ajouté aux autres horreurs subies lors de son parcours migratoire et restera indélébile. Violence gratuite, #violence d’Etat. Envers des hommes, des femmes et enfants. Au nom de quoi ?
    Nous n’avons que très peu de mots pour dire…
    Les lois suisses semblent devenues des passe-droit pour violer les droits humains en toute impunité ! Par leurs pratiques, Le SEM, le SPOP, Sommaruga, et la police, sont aujourd’hui des criminel.le.s !
    Ces décisions, ces pratiques et ces violences ne font que nourrir notre révolte. Nous résisterons ! Nous continuerons sans cesse de porter la voix d’une société civile qui se veut solidaire !
    Le collectif R

    –-> Reçu par email via le collectif R : http://desobeissons.ch

    #renvois #expulsions #réfugiés #asile #migrations #renvoi_Dublin #Italie #Suisse #Vaud #vie_familiale #it_has_begun #déshumanisation #regroupement_familial #vulnérabilité
    cc @isskein

    • Y., arrêté dans les locaux du Service de la Population en vue d’une deuxième expulsion vers l’Italie

      L’acharnement n’a pas de limite dans un contexte de guerre sans complexe contre des êtres humains qui osent franchir des frontières

      Y. est d’origine érythréenne et a déposé une demande d’asile fin 2016. Il a reçu rapidement une décision de renvoi vers l’Italie : la machine Dublin employée par les autorités comme un « bon débarras ». Au même moment, beaucoup de compatriotes venus de l’Italie dans le cadre de contingents – que Y. côtoie et à qui il donne quelques coups de main, pour des traductions par exemple - reçoivent des statuts de séjour en Suisse ( La situation la plus symptomatique de ces absurdités est celle de Mme S. qui a été traquée par la police et a dû vivre cachée pendant de longs mois avec son fils pour fuir un renvoi vers l’Italie alors que son frère était au même moment relocalisé en Suisse par un programme de l’UE et recevait un permis de réfugié !). Absurdités bureaucratiques qui nourrissent notre rage. Y. passe alors un moment au refuge du collectif R.
      Fin 2017, après un an passé en Suisse dans l’espoir de voir sa procédure d’asile ré-ouverte, il est arrêté et mis en détention pour être renvoyé vers l’Italie. Une arrestation qui le marquera pour toujours. Des traitements dégradants… l’argent qu’il a sur lui est saisi sans reçu, il est menotté aux mains et aux pieds lors de chacun des transferts effectués (malgré les engagements des autorités cantonales vaudoises à ne plus procéder ainsi, après quelques scandales similaires), déshabillé intégralement à plusieurs reprises sans explication dans les locaux de la police cantonale (bien connue pour ses pratiques immondes) puis renvoyé comme un sac poubelle à Rome

      Sa compagne, au bénéfice d’un permis B (vivant en Valais), ses proches et ses amis habitent tou.te.s dans le canton de Vaud, où il s’était installé et où il a appris et enseigné le français. Il a créé des amitiés fortes avec des familles suisses grâce à son envie d’intégration sans failles. Peu de temps après son renvoi, début 2018, Y. revient évidemment en Suisse, puisque c’est là qu’il a construit des liens et un petit bout de vie… Il dépose une nouvelle demande d’asile. Sans surprise, les autorités n’en ont rien à faire de sa situation personnelle et prononcent une nouvelle décision de renvoi, suite à quoi il est arrêté par la police, le vendredi 8 juin au SPOP. Il est à nouveau menotté et emmené en détention. Un nouveau renvoi en perspective, aveugle, violent comme toujours, et absurde.

      Y. se trouve extrêmement traumatisé et affecté psychologiquement, en lien avec les humiliations qu’il a vécues et qu’il vit à répétition entre les mains de la police. Il n’en dort plus et décrit à quel point il se sent atteint au plus profond de son humanité : ces traitements et cette négation de sa situation, la perspective d’un nouveau renvoi malgré les liens créés ici, la si longue durée de sa lutte personnelle (survie dans l’attente d’une régularisation).

      Sa situation nous rappelle celle de bien d’autres personnes rencontrées, renvoyées à plusieurs reprises et victimes d’une violence sans relâche de la part des autorités. Par exemple, I., un jeune afghan qui a de la famille en Suisse et qui survit depuis 2012 à la violence d’état : les autorités fédérales ont toujours refusé d’examiner ses motifs d’asile, rejetant indéfiniment la responsabilité de sa prise en charge à l’Italie. Les autorités vaudoises ont exécuté 3 fois son renvoi de Suisse, dont deux par vols spéciaux (entraves intégrales et lourds effectifs policiers) !!! Il est anéanti psychologiquement.

      Ces vols spéciaux et ces renvois sont des non-sens évidents, ils ont des conséquences énormes sur des êtres humains. Ils détruisent des personnes qui, en l’espace de quelques jours et malgré l’intensité de cette violence, sont pourtant de retour en Suisse car la force de leurs aspirations est plus forte. Parce qu’elles demandent l’asile ici et non ailleurs, parce qu’elles ont de la famille ici et non ailleurs, parce qu’elle se sont enfin posées, ici et non ailleurs.

      Quand est-ce que ces calvaires et ces acharnements meurtriers s’arrêteront-ils ? Quand est-ce que cet entêtement absurde et contraire à toute logique responsable et humaine s’arrêtera-t-il ?

      Nous sommes extrêmement inquiet.e.s de cette violence raciste et impérialiste croissante un peu partout en Europe et de la manière dont la Suisse, le Canton, la ville, à chaque échelon, y contribuent.

      Ces énormes souffrances et ces dégâts humains subis par Y. et les autres sont graves et leur portée est immense.

      Dans cette chaîne, chacun.e est responsable et nous appelons à refuser de tolérer les dangereux « nous devons exécuter les décisions » ,« nous ne faisons que notre travail » et autres « nous ne disposons d’aucune marge de manœuvre ».

      Nous ne cesserons de témoigner et de dénoncer le caractère colonialiste, impérialiste et raciste de ces frontières et de ces politiques qui détruisent des vies sans limite. Car dans ce système où l’argent à plus de valeur que la vie (des non-blancs), la mort des un.e.s n’est que la conséquence logique du maintien des privilèges des autres.

      Reçu via mail du Collectif R, le 18.06.2018

  • SSI | Mineur-e-s non accompagné-e-s : l’intégration durable reléguée au second plan
    https://asile.ch/2018/05/15/ssi-mineur-e-s-non-accompagne-e-s-lintegration-durable-releguee-au-second-plan

    La prise en charge des mineur-e-s non accompagné-e-s (MNA) dans le domaine de l’asile varie considérablement d’un canton à l’autre. Le Service social international propose désormais une cartographie de la prise en charge des mineur-e-s non accompagné-e-s (MNA) par les différents cantons suisses, qui se veut un point de départ vers une harmonisation de cet accompagnement. […]

    • Encadrement | Des #disparités_cantonales conséquentes

      Avec des demandes d’asile en hausse en 2015 et 2016, les cantons ont dû adapter leurs structures pour offrir aux requérants d’asile mineurs non accompagnés (RMNA) un accueil adapté à leur vulnérabilité. Le Service Social International (SSI) a réédité en 2017 son « Manuel de prise en charge » centré autour de l’enfant, de ses droits, et de sa nécessaire protection. Il y rappelle que ces jeunes sont « d’abord des enfants avant d’être des réfugié-e-s ». Dans la lignée, le SSI a effectué un recensement cartographié des pratiques cantonales en matière d’hébergement, de soins, de scolarisation, etc., à partir duquel il a rédigé un « Catalogue des bonnes pratiques [1] ». Son constat relève de grandes disparités de prise en charge, qui parfois « relèguent au second plan » l’intégration des mineurs isolés. Quelques illustrations cantonales.

      Le canton de #Berne a mis en place dès 2016 un « hébergement adapté durant la phase d’accueil et d’orientation, avec un accent sur l’identification des besoins, l’aide médicale, l’orientation et l’acquisition de compétences » selon le Catalogue de bonnes pratiques établis par le SSI.

      Cet encadrement engendre des coûts supplémentaires, jusque-là non couverts par le forfait de la Confédération. Le nouvel agenda intégration, qui sera mis en œuvre dès 2019, prévoit une part supplémentaire de financement aux cantons pour l’encadrement des RMNA. L’UDC a déjà demandé de réduire la part cantonale.

      Le canton de #Fribourg a réuni en mars 2017 des états généraux réunissant des acteurs des milieux scolaires, sanitaires, judiciaires et de l’asile. Un programme intitulé « Envole-moi » en a émergé en 2018. Ambitieux, il se focalise sur l’autonomisation et la prévention des comportements à risque pour dans un deuxième temps développer la responsabilisation des jeunes et les guider vers l’intégration sociale et professionnelle au moyen de la formation. Aspect innovant du projet : il pourra concerner des jeunes au-delà de la majorité, jusqu’à 25 ans.

      Dans le canton de #Vaud, la situation a été explosive en 2016, lorsque plusieurs jeunes d’un foyer MNA ont tenté de mettre fin à leurs jours. Dénonçant un encadrement socio-éducatif insuffisant notamment, les travailleurs sociaux employés dans ces foyers gérés par l’EVAM, soutenus par le syndicat SSP, obtiennent en janvier 2017 un renforce- ment de la présence éducative par le Conseil d’État. Suite à une année 2017 tendue entre la direction et ses employés, le SSP sollicite à nouveau le Conseil d’État. Celui-ci lui répond en janvier 2018 que l’égalité de traitement appliquée s’établit sur la norme des autres migrants et non plus sur celle des foyers pour mineurs : les jeunes arrivés en Suisse sans leur famille ne sont plus traités comme des enfants avant tout. En février 2018, l’annonce de la fermeture d’un des quatre foyers, engendrant de facto une augmentation du nombre d’enfants au sein des trois autres foyers, et la suppression de postes relatifs déclenchent une grève chez les travailleurs. À ce jour, les revendications concernant l’amélioratio

      https://asile.ch/2018/12/10/encadrement-des-disparites-cantonales-consequentes

    • MNA : catalogue de #bonnes_pratiques

      Des différences significatives en matière d’hébergement, d’encadrement et de formation pour les mineurs non accompagnés (MNA) persistent dans les cantons. Inégalités de traitement et défis liés au respect des droits de l’enfant en sont les conséquences.

      Le catalogue de bonnes pratiques aborde la problématique de ces disparités cantonales : il met en lumière les principales offres existantes et montre des pistes de solutions qui prennent en compte le besoin de protection spécifique des MNA. Son ambition est d‘illustrer comment une prise en charge de ces jeunes, centrée sur leurs besoins et intérêts, est possible malgré les différentes structures et ressources cantonales. Le projet a ainsi pour but de contribuer à harmoniser la qualité de l’encadrement et le respect des droits de l’enfant à l’échelle nationale, selon les recommandations de la CDAS et du Manuel de prise en charge des enfants séparés du Service Social International (SSI).

      Les fiches de bonnes pratiques décrivent des projets, services et initiatives prometteurs. Les pratiques évaluées comme « prometteuses » sont celles qui favorisent la prise en charge centrée sur l’enfant et le jeune dans les cantons, en présentant les caractéristiques suivantes : elles sont facilement réplicables ou particulièrement efficaces, favorisent le soutien individuel des MNA, sont inclusives en termes de statut ou de catégorie d’âge, encouragent la participation active des MNA et/ou incitent la mise en réseau des acteurs en charge de l’encadrement des MNA.

      Les pratiques documentées sont une sélection d’exemples non exhaustifs, se fondant sur une cartographie du SSI relative aux structures cantonales de prise en charge pour MNA (Mappings cantonaux). Au vu du caractère volatile du domaine de l’asile, beaucoup d’entre elles se trouvent encore en phase d’essai. De ce fait, et compte tenu du grand nombre d’autres « bonnes pratiques » existantes, le catalogue sera complété de façon continue.


      https://www.ssi-suisse.org/fr/mna-catalogue-de-bonnes-pratiques/155

    • La Suisse empruntée face à des mineurs étrangers isolés

      Entre 2016 et 2018, plus de 3000 mineurs isolés ont demandé l’asile en Suisse. À cette population, s’ajoutent des centaines de jeunes venus seuls du Maghreb. Genève est la première touchée par cette migration. Les autorités sont accusées d’inertie.

      Les mineurs qui arrivent seuls en Suisse se divisent en deux catégories. Ceux qui sont éligibles à l’asile en raison de leur pays d’origine sont considérés comme des requérants d’asile mineurs non accompagnés (RMNA). Ils ont accès à un toit, à des repas, à une scolarisation et à des prestations sociales. En 2015, ils furent 2700 à déposer une demande d’asile, dont une majorité de garçons de 16 à 17 ans originaires d’Érythrée.

      Les autres sont des mineurs non accompagnés (MNA), non éligibles à l’asile en raison de leur pays d’origine, comme par exemple, le Maroc. Ils ne reçoivent pas d’aide sociale et manquent d’un socle de vie. « Les requérants mineurs ont en général grandi avec leur famille, explique Sylvia Serafin, co-directrice de Païdos, association qui offre aux MNA un suivi psychopédagogique et un repas quotidien. En revanche, les MNA sont des adolescents qui ont fui très tôt des situations de rupture familiale. Ils ont vécu des expériences dramatiques durant leur exil et sont, pour la plupart, en situation de stress post-traumatique. Ils nécessitent un accompagnement adapté. » La majorité de ces jeunes proviennent d’Algérie et du Maroc. Ils présentent des carences psychologiques. Ils souffrent aussi de maux liés à leur errance : dents en mauvais état, blessures, affections de la peau. En trois ans, certains sont passés par plus de 15 villes en Europe, relève l’association française Trajectoires.
      Suicide d’un jeune dans un foyer

      En Suisse, Genève concentre l’essentiel des MNA. Deux facteurs explicatifs sont cités : la proximité avec la France et l’usage du français à Genève. Ce phénomène nouveau vient s’ajouter à une autre situation, celle qui a trait aux RMNA. Leur accompagnement subit depuis 2018 le feu des critiques de la part d’associations et de professionnels du social. Au cœur des récriminations : le grand foyer de l’ Étoile, géré par l’Hospice général, où un jeune Afghan s’est suicidé en mars dernier. « Ce suicide d’un jeune est l’événement redouté, mais pas incompréhensible, qui suit quatre années d’épuisement et d’instabilité », ont écrit dans une lettre au Parlement des éducateurs de ce lieu. Le foyer, qui a accueilli jusqu’à 200 requérants d’asile mineurs, a été comparé à une prison. Promiscuité, bruit, chaleur et froid, manque de suivi éducatif, les lieux ne sont pas adaptés. « Ce n’est pas un foyer, dit un témoignage recueilli par la Haute école de travail social auprès d’une jeune requérante, c’est un camp ».

      Selon les associations, dont la Ligue des droits de l’homme, l’ État ne fait pas le nécessaire pour reconnaître et protéger les droits spécifiques de ces mineurs, comme le prévoit la Convention internationale des droits de l’enfant. Créé en 2018, le Collectif Lutte des MNA relève l’absence de procédure et de prestations communes pour ces jeunes. Étudiante en sciences sociales à Lausanne, Julie, 25 ans, a participé à son lancement. « Les MNA sont récupérés dans la rue et sont logés dans des hôtels, gérés par des gens qui ne sont pas formés pour les accueillir et qui les expulsent en cas de problème, raconte-t-elle. Le soir, ils ont droit à un sandwich, le matin, à un petit-déjeuner. Ils ne sont pas scolarisés et les curateurs censés les suivre sont dépassés par le nombre de dossiers. »
      Pas de scolarisation pour les MNA

      Le Département de l’instruction publique précise qu’en règle générale, les mineurs sont logés dans des foyers et que les hôtels ne représentent qu’une solution d’urgence. Début octobre, il a confirmé qu’aucun MNA n’était scolarisé. Le collectif pointe aussi des mises en garde-à-vue « inutiles », quand des jeunes sans papiers d’identité sont appréhendés par la police. Si le problème est uniquement lié au séjour illégal, le Tribunal des mineurs décide en principe de ne pas les poursuivre et les libère, indique une source judiciaire. Avocate, Sophie Bobillier estime qu’il ne peut être reproché à un mineur de séjourner illégalement en Suisse. « Le devoir de protection de l’enfant doit l’emporter », dit-elle. Reçu cet été par une délégation du Conseil d’État, le collectif a demandé aux autorités de fournir à ces jeunes un document reconnu par la police. L’ État a reconnu qu’il était peu souhaitable que des mineurs sous tutelle soient régulièrement condamnés à une infraction de la loi sur les étrangers.
      Des mineurs qui dorment dans la rue

      L’irruption de MNA dans les rues de Genève date du printemps 2018. En mars, des mineurs qui logeaient dans un abri PC d’hiver géré par l’Armée du salut se sont retrouvés sur le pavé. Certains ont été placés à l’hôtel ; d’autres ont dormi dehors ou ont quitté le territoire, rapporte Païdos. Le flux a recommencé. Courant septembre 2019, une vingtaine de nouveaux jeunes ont été accueillis dans des hôtels, selon le Collectif MNA et Païdos. Entre l’été 2018 et 2019, le Service de protection des mineurs rapporte avoir suivi 200 dossiers de jeunes sous curatelle.

      En juin, le Parlement cantonal a soutenu une motion en faveur de l’accueil de ces jeunes. Elle a été votée par la gauche et les partis bourgeois. L’UDC l’a refusée, par crainte d’un appel d’air si une aide était accordée. Responsable de l’Instruction publique, la conseillère d’ État Anne-Torracinta a dénoncé une attitude angélique de la part des associations vis-à-vis de ces migrants. « Ils commettent des délits. C’est une population qui ne veut a priori pas s’intégrer, qui pose énormément des problèmes », a déclaré la socialiste.
      L’ État ouvre un centre d’accueil pour les MNA

      Sous pression, le Canton a annoncé l’ouverture en octobre d’un centre de 25 places destiné à cette population. Il sera destiné à des mineurs de 15 ans à 18 ans. La prise en charge consistera en un accompagnement éducatif adapté. Chaque mineur bénéficiera d’un suivi médical. Dans la foulée, les autorités ont lancé un plan d’action en faveur des RMNA, visant à améliorer leur accueil et l’accès à une formation. Par ailleurs, toujours en octobre, six MNA ont reçu une promesse de scolarisation. C’est une première. Le Conseil d’État considère cependant que tous les MNA ne sont pas désireux d’aller à l’école et souligne qu’il existe des doutes sur leur identité et leur âge.

      En Valais, qui connaît très peu de cas de MNA, le chef du Service de la population se demande si ces mineurs ne seraient pas des résidents français. Dans le canton de Vaud, la question des MNA semble ne pas exister. Basé à Genève, le Service social international prévoit de consacrer sa prochaine conférence en Suisse latine à cette question. L’évènement aura lieu le 12 décembre. Il réunira des curateurs, des travailleurs sociaux et des médecins romands et tessinois.

      https://www.revue.ch/fr/editions/2019/06/detail/news/detail/News/la-suisse-empruntee-face-a-des-mineurs-etrangers-isoles-1

  • #Décès de #Mike

    Bonjour à toutes et tous,

    Comment exprimer un ressenti lorsque ce sont cent personnes qui parlent toutes en même temps, cent personnes qui vivent les choses, chacune à sa manière ? La mort de Mike laisse en chacune et chacun de nous une trace singulière, un vide ; que nous essayons ensemble et individuellement de ne pas laisser s’effondrer en trou noir. Colère rentrée, tristesse, sensation d’étouffer, incompréhension, sentiment d’#injustice : où se situer, quoi faire ?

    (...)

    Parallèlement, nous avons rendu plusieurs visites aux pompes funèbres et à l’ambassade du Nigeria, afin de préparer le transport du corps de Mike. Pour assurer sa conservation, il a été embaumé, un processus rendu plus difficile (et plus coûteux) par l’autopsie approfondie qui a été menée par la médecine légale. Son #corps se trouve maintenant en réfrigération, à #Lausanne.

    Le transport doit quant à lui être encore autorisé par les autorités nigérianes, lesquelles exigent un certificat spécifiant la cause exacte du décès — un document que nous ne pourrons obtenir qu’une fois établi par le médecin légiste le rapport définitif d’autopsie (et les analyses toxicologiques, notamment, peuvent encore prendre du temps). Ce n’est que depuis l’année passée que le Nigeria demande un tel document, après qu’un corps atteint par le virus Ebola a été introduit sans contrôle dans le pays. Nous espérons quant à nous que ce processus ira au plus vite, afin que le corps de Mike puisse être restitué à sa famille et enterré selon les rites qui ont accompagné sa vie.

    Nous demandons une fois de plus humblement votre aide pour faire face aux coûts de la garde du corps et de son rapatriement. Les Pompes Funèbres Générales ont établi un devis de CHF 9’136 (pdf joint à ce message). Nous leur avons déjà versé CHF 3’000 à titre d’acompte et avons envoyé CHF 500 à la compagne de Mike, à Valencia en Espagne. Heureusement, nous avons déjà reçu de nombreux dons et voulons dire un grand merci à toutes celles et ceux qui en sont la source : à travers le compte ouvert par Droit de Rester et deux soirées de soutien à Neuchâtel et à Lausanne, pas loin de CHF 3’500 nous sont arrivés. Restent donc un peu plus de CHF de 5’500 à rassembler. Pourriez-vous s’il-vous-plaît faire suivre ce message autour de vous, afin que d’autres personnes sensibles à cette situation puissent faire peut-être elles aussi un don de 50 ou 100 francs ? Les petits cours d’eau font les grandes rivières.

    CCP : 17-549478-7 / Coordination Asile Lausanne, Case Postale 5744, 1002 Lausanne / IBAN : CH21 0900 0000 1754 9478 7 / Mention : « Mike »

    Sur un autre plan, l’avocat engagé par la famille de Mike avec notre soutien, Me Simon Ntah, s’est saisi de l’affaire avec sérieux. Au cours des semaines qui ont suivi la mort de Mike, plusieurs témoins sont apparus, les policiers ont été auditionnés par le Ministère public en présence de l’avocat, un rapport préliminaire d’autopsie a été rendu. Les informations relatives à ces derniers points ont été relatées par la presse : nous vous renvoyons à l’article du 24Heures ci-dessous et au 19h30 de la RTS du 21 mars.

    https://www.24heures.ch/vaud-regions/lausanne-region/policiers-lausannois-feront-face-justice/story/29578626

    https://www.rts.ch/play/tv/19h30/video/vd--deces-dun-nigerian-des-agents-de-police-sont-entendus-comme-prevenus?id=9429

    Le relatif soulagement qu’on peut ressentir à l’annonce de ces nouvelles – savoir que ces 6 policiers ont effectivement été prévenus d’#homicide par négligence – ne change cependant rien au fait que de nombreux autres événements impliquant racisme et violence ont pu et, à n’en pas douter, se sont produits dans le plus complet silence. L’ignorance dans laquelle se trouvent la plupart des gens, en Suisse, quant à ce qui se passe sous leurs fenêtres, de jour comme de nuit, est alarmante. Le déni de racisme, brandi encore par M. Hildebrand dans le Lausanne Cité la semaine dernière, doit interpeller et ne pas être laissé sans réponse. Le #racisme prospère précisément par le bais des institutions : la stigmatisation des personnes migrantes et en particulier des personnes racisées est renforcée par les directives et l’autorité du Secrétariat d’Etat aux Migrations, par les politiques cantonales de chasse aux personnes sans-papiers et, sur un autre plan, de chasse aux travailleurs précarisés de la drogue, dans les rues de Lausanne et ailleurs. Ne pas reconnaître qu’il existe des béances dans l’égalité d’accès aux droits pour des personnes étrangères précarisées et/ou racisées en Suisse est inadmissible.

    Face à ce déni, on se rend compte à quel point il est essentiel de pouvoir compter sur les oreilles et les voix de nombreuses personnes, qu’elles soient politisées ou non. À commencer par toutes celles et ceux qui sont venu-e-s à la manifestation du 10 mars, puis au rassemblement du 20 mars. Et ce sont aussi des soutiens politiques : il y a dix jours, David Payot, Karine Clerc, Didier Divorne et Marc Vuilleumier – pour le groupe POP & Gauche en mouvement – ont ainsi cosignés un communiqué qui rejoint certaines de nos prises de position et assume une ligne claire.

    http://www.popvaud.ch/2018/03/29/communique-deces-de-mike-a-lausanne

    Ce ne sont pas les seuls. Au cours du mois de mars, nous avons à nouveau joint nos forces avec SolidaritéS Vaud, le Collectif Afro-Swiss, l’Alliance contre le profilage racial, Droit de Rester, le groupe Ensemble à Gauche, le Collectif R ainsi que la Ligue suisse des droits de l’Homme section vaudoise, sans oublier le Collectif St-Martin ni l’association du Sleep-In ainsi que le Collectif Outrage. Et bien d’autres sont venus, des personnes nigérianes vivant à Lausanne ou ailleurs en Suisse, et des personnes suisses qui ne tolèrent pas que de tels actes de la part des forces de police puissent avoir lieu. Nous souhaitons que ces rassemblements portent des fruits et qu’ils se propagent à l’avenir au-delà des frontières du canton et de la Suisse. Together we stand.

    C’est un combat de longue haleine. La façon dont le postulat d’Ensemble à Gauche au Conseil communal a été repoussé le 27 mars le montre assez. Nous saluons la manière dont Pierre Conscience a défendu ce postulat, ainsi que les interventions de Claude Calame et le soutien d’une partie des Verts. Il est frappant de voir à quel point la majorité du Conseil refuse de considérer les problèmes de racisme et d’#abus_policier dans leur dimension systémique, à l’horizon de la politique suisse en matière d’immigration et d’asile, des rapports économiques et politiques de domination qui existent entre l’Europe et l’Afrique, ainsi qu’à l’intérieur des frontières de la Suisse. Pour les personnes que cela intéresse, il est possible de regarder l’enregistrement vidéo de ce débat sur internet : http://www.sonomix.ch/live/lausanne/996

    C’est un combat dont la valeur pour la vie s’éprouve au jour le jour et c’est là que nous trouvons nos forces. En continuant de rassembler des témoignages sur les discriminations, les #violences et/ou les abus policiers ; en communiquant, en refusant de fermer sa gueule, en écrivant aux journaux, en réagissant via des courriers de lecteur ou des lettres à la rédaction lors du traitement racisant de certains sujets ; en ne se laissant pas prendre au jeu de la haine sur les réseaux sociaux tout en dénonçant les cas de racisme, voire en portant plainte ; en prêtant attention à ce qui se passe autour de nous dans la rue, dans les magasins, sur les lieux de travail, dans les institutions, dans les milieux culturels ; en ouvrant de nouveaux lieux d’accueil respectueux et dignes ; en donnant la voix à ceux et celles qui en sont privés ; en s’investissant pour créer le changement.

    Merci pour votre lecture, et en vous souhaitant plein de bonnes choses pour ce début de printemps !!!

    Les membres du Collectif Jean Dutoit

    #police #violences_policières #Suisse #Vaud #asile #migrations #réfugiés #mourir_dans_la_forteresse_Europe

    Message reçu d’un membre du collectif Jean Dutoit, par email.

    • Communiqué sur le décès de Mike à Lausanne

      Le 28 février, Mike décédait dans une intervention de police. Les agents ont-ils une responsabilité dans ce décès ? L’enquête le dira d’ici quelques mois. Ce qu’il est possible de dire aujourd’hui, c’est que la réponse doit être politique et non judiciaire. Le combat contre le deal mérite mieux qu’une chasse aux petits trafiquants, et les difficultés de beaucoup de migrants africains ne résultent pas des écarts d’un ou de plusieurs policiers. Tant que ces migrants seront vus comme un problème à traiter par la répression, tant que nous n’aborderons pas les problèmes qu’eux-mêmes rencontrent et qui les amènent à Lausanne, notre politique restera largement inefficace.

      Ces personnes ont fui l’Afrique pour des motifs sociaux, politiques ou économiques ; elles ont passé des années sur le chemin vers l’Europe en y investissant souvent les ressources de tout leur entourage. Elles cherchent ici de la sécurité, un moyen de vivre, et de rembourser les dettes contractées sur leur chemin. La Suisse leur offre peu de possibilités d’asile – les accords de Dublin en sont la première cause – mais la situation est généralement pire dans les pays qu’ils ont traversé. Ils n’ont pas accès au logement ni au travail ; ils vivent donc là où ils risquent le moins d’être chassé, et assurent leur subsistance au mieux du travail au noir, au pire du trafic de drogue. Ils sont amendés lorsqu’ils dorment dans la rue, lorsqu’ils sont pris en train de travailler, ou lorsqu’ils trafiquent ; parfois emprisonnés selon la gravité des faits et la place dans les prisons. Si ces sanctions sont inefficaces, c’est surtout parce qu’ils ne trouvent pas d’alternative.

      Nous avons besoin d’une politique qui s’adresse aux problèmes de ces migrants africains, et qui ne se contente pas de les traiter comme un problème. Qui permette au plus grand nombre de vivre dans leur pays d’origine. Qui leur assure des conditions d’asile décentes dans les pays du Sud de l’Europe. Qui permette à ceux qui demandent l’asile en Suisse de vivre et de gagner leur vie, plutôt que de leur interdire le séjour et le travail.

      Ces problèmes ne trouveront pas leur solution à la seule échelle d’une ville ou d’un canton. Mais ces problèmes sont devant nous, et ils ne disparaîtront pas si nous fermons les yeux. Demander à la police de les résoudre par la seule répression, c’est mettre la police en échec, et c’est mettre encore plus de danger ou de précarité sur des personnes qui la fuient.

      Pour le POP
      David Payot, Municipal Lausanne
      Karine Clerc, Municipale Renens
      Didier Divorne, Municipal Renens
      Marc Vuilleumier, ancien Municipal Lausanne

      http://www.popvaud.ch/2018/03/29/communique-deces-de-mike-a-lausanne

    • Message du collectif Jean Dutoit (09.06.2018):

      C’est avec soulagement que nous vous annonçons que le corps de notre père, mari, frère et ami Mike Ben Peter Amadasun a été retourné à sa famille, à Benin City au Nigeria. Il est arrivé hier soir à Lagos, d’où il a été emmené jusqu’au lieu de son dernier séjour. La famille Amadasun se rassemble aujourd’hui et demain pour la veillée funèbre et l’enterrement.

      Nous aimerions exprimer notre profonde gratitude envers tou-te-s celles et ceux qui nous ont apporté leur aide et leur soutien pendant ces temps difficiles. Durant trois mois, depuis que Mike a perdu la vie, nous nous sommes attelés à rassembler tous les papiers nécessaires, et la pensée que Mike n’avait pas encore trouvé la paix fut pénible. Nombre d’entre vous ont été présent-e-s à un moment ou à un autre, et c’est grâce à votre solidarité, votre amitié et votre amour que ce jour est aujourd’hui réalité. Vos donations ont par ailleurs permis de rassembler suffisamment d’argent pour payer les services funéraires, la garde du corps, son transport par avion ainsi que les voyages de la famille. Nous en publierons ultérieurement un compte-rendu.

      Nous remercions en particulier son frère Roger, qui s’est tant investi entre la Suisse et l’Italie ; sa femme Bridget à Valencia, en Espagne, et leurs deux enfants, Nelly et Divine, qui ce mercredi sont venus et ont participé à la veillée funèbre de leur père à Lausanne ; tous les membres de la communauté Edo à Jean Dutoit, ainsi qu’ailleurs en Suisse et en Europe ; tous les membres du Collectif Jean Dutoit, qui ont donné le meilleur d’eux-elles-mêmes pour rendre ce retour possible ; Mme Luinetti aux Pompes Funèbres Générales à Lausanne, pour son aide et son soutien au long de tous ces mois ; toutes les personnes de Suisse et d’ailleurs qui ont partagé nos messages et nous ont envoyé leur dons, leurs mots de soutien, leur amour et leur amitié.

      QUE SON ÂME REPOSE EN PAIX

  • #Droit_d’asile : entre #répression policière et #chantage financier

    OPINION. La politique d’asile restrictive menée par le Département fédéral de justice et police dirigé par la socialiste Simonetta Sommaruga est injustifiable, estime le professeur honoraire de l’Université de Lausanne Claude Calame.

    Par la presse, nous avons appris que depuis le 1er octobre 2016 le Département fédéral de justice et police a jugé opportun de punir le Canton de Vaud. Son Secrétariat d’Etat aux migrations a supprimé, dans plus d’une centaine de cas, la subvention accordée aux cantons pour l’aide sociale, l’assurance maladie obligatoire et l’encadrement des requérantes et requérants d’asile ; en l’occurrence la somme en jeu tourne apparemment autour du million de francs.

    La cheffe du département a justifié cette mesure de #rétorsion en invoquant l’une des dispositions qu’elle a introduites dans la dernière version de la loi sur l’asile, entrée en vigueur le 1er octobre 2016. Le nouvel article 89.b.2 précise : « Si le fait de ne pas remplir ses obligations en matière d’exécution comme le prévoit l’art. 46 ou de ne les remplir que partiellement entraîne une prolongation de la durée du séjour de l’intéressé en Suisse, la Confédération peut renoncer à verser au canton les indemnités forfaitaires. » La Confédération « peut » et non pas « doit ». Une fois encore, Mme Simonetta Sommaruga donne des textes de #loi l’interprétation la plus restrictive et en exige l’application la plus sévère qui soit.

    Traumatisme des renvois

    Certes, cela ne nous a pas échappé : au lendemain même de l’acceptation en juin 2016, par voie de référendum, d’une loi qui avait été donnée comme favorable aux requérant.es d’asile par l’accélération prévue du traitement des demandes, Simonetta Sommaruga s’est permis de tancer en particulier le Canton de Vaud. Celui-ci manquerait à son devoir d’expulsion des déboutées et déboutés de l’asile, toutes catégories confondues.

    Les conséquences de cet avertissement ne se sont pas fait attendre : interventions brutales de la gendarmerie dans les centres de l’EVAM, séparation arbitraire de familles en vue de l’expulsion, comparution de #déboutés les fers aux pieds devant le juge de paix, arrestations de réfugiés en pleine rue, #assignations_à_résidence en vue du renvoi, mesures d’intimidation auprès des personnes qui tentent de soutenir les « #dublinés ». Ils ne sont autres que des demandeurs d’asile, qu’au mépris de la #clause_de_souveraineté offerte par les accords de Dublin III signés par la Suisse, on renvoie dans le pays où ils ont été enregistrés à l’occasion de leur entrée dans l’Union européenne ; il s’agit en général de l’Italie ou de la Grèce qui sont contraintes d’assumer des dizaines de milliers de demandeuses et demandeurs d’asile.
    Aux traumatismes subis dans le pays d’origine par les faits de guerre ou par les violences qui provoquent l’exil, aux traumatismes endurés dans des parcours terrestres puis maritimes marqués par des rackets, viols, réduction en esclavage, enfermement en camp de concentration, sinon par la mort dans le naufrage d’embarcations de fortune, s’ajoutent, par la politique inflexible conduite par le SEM sous la direction de Simonetta Sommaruga, ministre socialiste, les traumatismes de #renvois et d’#expulsions marqués par la contrainte et le mépris : exécutés dans des conditions indignes de la personne humaine à l’issue d’arrestations musclées, certains « vols spéciaux » ont débouché sur la mort de personnes qui, pour seul délit, ont tenté de fuir une situation de précarité physique et psychique extrême et de trouver un abri en Suisse.

    Diminution drastique des demandes

    La conséquence est double. D’une part, cette politique répressive a conduit à une diminution drastique des demandes d’asile en Suisse : 39 523 demandes déposées au SEM en 2015 (sans battre le « record » de 1999 : plus de 46 000), 27 207 en 2016, 18 088 en 2017 (avec un taux d’acceptation de 25% seulement) ! En contraste, les étrangers fortunés continuent à être accueillis sans la moindre question posée sur l’origine de leur patrimoine ; ils continuent à pouvoir acquérir les appartements de luxe érigés à leur intention sur les rives de nos lacs, profitant du fait que l’investissement dans l’immobilier n’est pas soumis à la (faible) loi contre le blanchiment de l’argent sale.

    D’autre part, Mme Simonetta Sommaruga, par une politique d’asile axée sur l’expulsion, est parvenue à aider l’UDC à dresser la population contre les réfugiées et réfugiés, tout en faisant fi des droits élémentaires d’hommes, de femmes et d’enfants en état de grande précarité. La Suisse a pourtant tous les moyens, financiers, politiques et moraux, pour les accueillir.

    https://www.letemps.ch/opinions/2018/01/30/droit-dasile-entre-repression-policiere-chantage-financier
    #Suisse #renvois #Vaud

  • OSAR | Dailly est trop isolé pour un centre fédéral
    https://asile.ch/2017/12/28/osar-dailly-isole-centre-federal

    Situé à 1250 m d’altitude, le site militaire de Dailly dans le canton de Vaud (commune de Lavey-Morcles) est trop isolé pour accueillir un centre fédéral destiné au traitement des procédures d’asile accélérées. Installer les requérant-e-s d’asile dans cet endroit non desservi par les transports publics reviendrait à les isoler complètement. Il serait nettement préférable […]

  • Erreurs de la part des autorités et risques dans le cadre d’un renvoi Dublin : Non au renvoi imminent d’un réfugié afghan !

    Muslem a fui l’Afghanistan, sentant sa vie et son intégrité sérieusement menacée en lien avec divers événements. Il s’est d’abord rendu en Norvège où vit sa fiancée, mais les autorités norvégiennes n’ont pas pris au sérieux ses motifs d’asile. A défaut d’un mariage civil formalisant le lien avec sa fiancée (qui a obtenu un statut de réfugié), il n’a pas pu régulariser sa situation par ce biais non plus. Il a alors fui le pays pour éviter à tout prix d’être renvoyé vers l’Afghanistan.

    Après plusieurs mois passés en Turquie, il est venu en Suisse où trois de ses frères sont établis depuis longtemps, avec des titres de séjours. Muslem a déposé une demande d’asile à son arrivée, mais les autorités suisses ne sont pas entrées en matière (selon les accords Dublin) et ont prononcé une décision de renvoi vers la Norvège.

    Récemment, Muslem a été assigné à résidence par les autorités du canton de #Vaud (mesures prises pour assurer son renvoi), mais de peur d’être arrêté à tout moment, il n’a pas respecté cette décision. Le non-respect de l’assignation représente un délit, aux yeux de l’État, ce qui autorise la police à venir l’arrêter au sein même des locaux du Service de la Population (administration cantonale), où il est obligé de pointer régulièrement pour obtenir l’#aide_d’urgence. Jeudi 16 novembre, Muslem a été embarqué et mis en détention à la prison de la Favra, à Genève, en vue d’un renvoi forcé !

    Nous dénonçons fermement cette nouvelle décision de renvoi ainsi que son exécution par le canton de Vaud. Les autorités ferment les yeux sur plusieurs aspects importants de sa situation personnelle, et menacent gravement sa sécurité :

    1. Lors des auditions, Muslem a déclaré avoir passé plusieurs mois en Turquie avant de venir en Suisse. Or, quand une personne sort de l’espace Schengen durant plus de deux mois, la procédure Dublin est censée redémarrer à zéro : autrement dit, les autorités suisses ne peuvent légalement pas le renvoyer vers la Norvège. Elles auraient au moins dû l’entendre au sujet de ce séjour en Turquie, qu’il peut prouver par différents moyens, mais elles n’ont évidemment pas jugé utile de s’attarder sur ce « détail »… cela rendrait plus compliqué le refoulement en masse des pseudo-"cas Dublin" que pratique le SEM.

    2. Muslem risque un #renvoi_en_cascade vers l’Afghanistan, élément qui n’a pas du tout été pris en compte dans l’examen de sa situation. Pourtant, Amnesty International et la Cimade dénoncent vivement les renvois vers l’Afghanistan suite à l’issue qu’ont connu plusieurs réfugiés refoulés vers ce pays (1) et à ce titre, elles dénoncent également les renvois vers la Norvège après une demande d’asile déboutée et le risque de renvoi en cascade vers l’Afghanistan (2). Dans ce contexte, les autorités en Suisse avaient une responsabilité concernant la considération de sa situation et des risques encourus en cas de renvoi vers la Norvège, éléments qui n’ont évidemment pas été examinés.

    3. Muslem a trois frères ainsi qu’autres membres de sa famille en Suisse, raison pour laquelle il a finalement re-demandé l’asile ici. Le SEM, comme à l’accoutumée, n’a pas jugé nécessaire de prendre en compte cet élément dans le traitement de sa situation.

    Et finalement, comme d’habitude, le SPOP du Canton de Vaud a exécuté la décision de renvoi du SEM, froidement, automatiquement et aveuglément, sans se préoccuper de sa situation réelle. A nouveau, une succession de décisions et d’actes d’obéissance qui sont en train de broyer et d’envoyer une personne vers la mort. … la « banalité du mal » dans sa réalité brute.

    Actuellement, Muslem est en détention administrative à la Favra, il a commencé une grève de la faim dès son incarcération et son état de santé se dégrade de jour en jour. Sa famille et ses ami-e-s sont extrêmement inquièt-e-s pour lui.

    Nous appelons chacun et chacune à informer de cette situation alarmante les personnes que vous jugez utiles, pour que Muslem soit libéré, pour qu’il ne soit pas expulsé et refoulé vers la Norvège et ainsi probablement, vers l’Afghanistan !

    Quelques suggestions de personnes à contacter :

    Steve Maucci, Chef du Service de la Population (SPOP) : steve.maucci@vd.ch / Jean-Vincent Rieder, Chef de division asile du (SPOP) : jean-vincent.rieder@vd.ch
    Philippe Leuba, Conseiller d’Etat, Dép. économie et sport (y-c SPOP/asile) philippe.leuba@vd.ch
    Béatrice Métraux, Conseillère d’Etat, Dép. des institutions et de la sécurité : beatrice.metraux@vd.ch
    Nuria Gorrite, Présidente du Conseil d’Etat : nuria.gorrite@vd.ch

    Pierre-Yves Maillard, Conseiller d’Etat, dép. santé et action sociale : pierre-yves.maillard@vd.ch
    Cesla Amarelle, Conseillère d’Etat, Dép. formation jeunesse et culture (enfants scolarisés) : cesla.amarelle@vd.ch
    Jacqueline De Quattro, Conseillère d’Etat, dép. sécurité et environnement, jacqueline.dequattro@vd.ch
    Pascal Broulis, Conseiller d’Etat, dép. des finances et rel. extérieures pascal.broulis@vd.ch

    Denise Graf, coordinatrice asile à Amnesty International Suisse dgraf@amnesty.ch
    et autres ONG….
    (1) http://www.lacimade.org/wp-content/uploads/2017/10/Synthese_FR.pdf

    (2) https://passeursdhospitalites.wordpress.com/2017/05/10/alerte-nouvelles-expulsions-vers-la-norvege-risque-

    Reçu via la mailing-list du #Collectif_R (Lausanne, Suisse), le 29 novembre 2017
    #migrations #asile #réfugiés #réfugiés_afghans #Dublin #renvois #expulsions #Suisse #renvois_Dublin #migrerrance #détention_administrative #rétention #assignation_à_résidence

  • Genf und Zürich weisen am meisten Asylbewerber aus

    Die Kantone sind bei Rückreisen von abgewiesenen Asylbewerbern und Ausländern ohne Aufenthaltsrecht unterschiedlich effizient. Ursachen dafür sind nicht einfach zu finden.


    https://www.nzz.ch/schweiz/genf-und-zuerich-weisen-am-meisten-aus-ld.1315944
    #renvois #expulsions #asile #migrations #réfugiés #Suisse #cantons #statistiques #chiffres #Genève #Vaud #classement #efficacité

  • Collectif R | Vaud : Séparation d’une famille de quatre enfants lors d’un renvoi forcé
    https://asile.ch/2017/07/27/collectif-r-vaud-separation-dune-famille-de-quatre-enfants-lors-dun-renvoi-for

    « La police est entrée directement dans la chambre pendant que nous dormions. Elle a enlevé les enfants du lit et les a amenés dans les fourgons, ma femme a été menottée et enchaînée aux pieds et moi, j’étais entouré des 4 policiers et je n’ai pu rien faire pour protéger ma famille. C’est la police […]

  • Urgent Help | Une action pour dénoncer les conditions de vie dans les foyers
    https://asile.ch/2017/07/10/urgent-help-action-denoncer-conditions-de-vie-foyers

    Le 5 juillet 2017, une vingtaine de personnes à l’aide d’urgence se sont rendues au siège de l’EVAM (Etablissement vaudois d’accueil des migrant-e-s) pour alerter le directeur Erich Dürst de leurs conditions de vie. Coalisées sous le nom Urgent Help, elles attendent désormais une réponse de l’EVAM et du Conseil d’État.

  • #Le_refuge

    Der Dokumentarfilm „Le Refuge“ beleuchtet das Problem der Rückschaffungen im Dublin-System. Er portraitiert, wie die Soziale Bewegung „#Collectif_R“ und einige der von ihr beschützten Flüchtlinge damit umgehen. Ausgangslage für den Film ist eine in letzter Zeit stark kritisierte Dublin-Praxis, die für Asylsuchende immer wieder schwierige Lebenssituationen

    https://www.youtube.com/watch?v=PgTv2wdmiSg&feature=youtu.be

    #film #vidéo #refuge #Vaud #asile #migrations #réfugiés #désobéissance_civile #Dublin #renvois #expulsions #Suisse #documentaire #protection #Eglise

    –-> vous reconnaîtrez peut-être la personne qui est sur l’image qui s’affiche sur la page youtube ??

    • @aude_v Par défaut Youtube propose trois vignettes au hasard, on en choisi une ou sinon une deuxième étape permet de sélectionner une image déterminée.

    • Les raisons sont nombreuses et la réponse longue...

      La Grèce ne reçoit pas beaucoup de demandeurs d’asile en retour (on ne sait pas combien de temps encore, mais pour l’instant les renvois sont encore suspendus suite à une décision de la Cour européenne des droits de l’homme : http://w2eu.info/dublin2.fr/articles/dublin2.echr.fr.html)

      L’ Italie par contre... continue de recevoir beaucoup de demandeurs d’asile, notamment de la Suisse (https://asile.ch/2017/06/15/transferts-dublin-relocalisation-mythe-de-suisse-solidaire).
      La Suisse utilise depuis des années le Règlement Dublin comme régulateur des flux migratoires (#modèle_suisse). Les autres pays européens du nord (mais aussi la France) commencent depuis peu à faire la même chose... Les renvois Dublin depuis la France et l’Allemagne sont en forte augmentation.

      Voilà pour le tableau général.

      Les explications... Le règlement Dublin a été signé par tous les pays de l’UE dans un moment où les flux de réfugiés vers l’Europe étaient en forte baisse... personne ne pouvait imaginer que le moyen orient allait s’enflammer. Et de toute manière l’Italie et la Grèce n’avait pas la puissance économique pour se soustraire à cela (notamment la dette...).
      Du coup, ils avaient quand même un faible pouvoir de négociation.

      Ta question : pourquoi ils n’arrêtent pas de prendre les empreintes digitales ?
      L’Italie a essayé pendant quelques mois... puis... les hotspots ont été mis en place et Frontex est aller en Italie pour bien contrôler que les italiens faisaient leur travail... Et maintenant pratiquement toutes les personnes qui débarquent en Italie sont enregistrées dans Eurodac !
       :-(

      La Suisse fait encore mieux... renvoi en Italie même les personnes qui n’ont pas laissé les empreintes digitales... sur la base d’indices qui prouvent que la personne a transité par l’Italie (ou autre pays). Elle profite ainsi de son efficacité administrative, et de la faiblesse de l’Italie. Et des règles de Dublin qui dit : si l’Etat qui doit répondre à la reprise de la personne (l’Italie dans ce cas), ne répond pas dans les temps (2 mois si je ne me trompe pas), la Suisse peut renvoyer en Italie la personne soupçonnée d’avoir transité par l’Italie.

      C’est l’arme parfaite pour les pays du Nord... c’est bien pour cela qu’ils ne lâchent pas le morceau...

      La mise en place des hotspots a aussi été un truc très vache de la part des Etats du Nord. Ils ont promis à Grèce et Italie qu’ils allaient enregistrer tout le monde dans les hotspots mais que pour les personnes de nationalités qui ont un fort taux de reconnaissance (Syriens, Erythréens, etc.) ils les auraient relocalisés en Europe à travers un programme ad hoc. Résultat ? Les hotspots sont en place, les empreintes digitales prises systématiquement, mais aucun Etat répond au programme de relocalisation... comme cela les demandeurs d’asile attendent des mois et des mois dans les hotspots en attendant une relocalisation qui n’arrivera probablement pas.

      Un peu plus clair @aude_v ?

    • Les budgets de toute façon ne sont pas consacrés à l’accueil, mais aux contrôles frontaliers. Les budgets de la Suisse, mais aussi des autres pays européens (Italie y comprise)

    • swissinfo.ch | La Suisse trop rigoureuse dans l’application des accords de Dublin ?

      Ce qui est surprenant, en revanche, c’est que dans l’écrasante majorité des cas, la Suisse a cherché à renvoyer en Italie des migrants qui n’y avaient jamais été enregistrés. En d’autres termes, leurs empreintes digitales ne figuraient pas dans la banque de données Eurodac.

      https://asile.ch/2017/02/23/swissinfo-ch-suisse-rigoureuse-lapplication-accords-de-dublin

  • Collectif R | Intervention musclée et renvoi par vol spécial : séparation d’une famille de 4 enfants !
    https://asile.ch/2017/06/07/collectif-r-intervention-musclee-renvoi-vol-special-separation-dune-famille-de

    Ce matin, 4 fourgons et 20 policiers sont venus chercher la famille Hassani au Centre EVAM de Leysin en vue de leur renvoi par vol spécial vers la Norvège, sur demande du Service de la Population du Canton de Vaud (SPOP).