• Trieste. In #Via_Gioia uno spazio di accoglienza negato a due passi dal Silos

    Oggi l’edificio è stato aperto per mostrare l’assurdità di tenere questo spazio chiuso.

    Un’iniziativa che vuole denunciare una situazione paradossale e vergognosa. A poche centinaia di metri dal Silos, dove le persone vivono in condizioni inumane e degradanti, c’è un edificio caldo e asciutto, abbandonato da oltre 15 anni. Gli allacciamenti alle reti elettrica e idrica sono pronti all’uso, ci sono bagni e docce e decine di stanze. Gli spazi per accogliere a Trieste ci sono, basta volerlo.

    A Trieste, città di frontiera che non si riconosce tale, vogliamo mostrare che trovare uno spazio dove accogliere le persone migranti è possibile. Troppo spesso il destino delle centinaia di edifici abbandonati della città è stato ingrassare gli speculatori, non vogliamo che questo accada di nuovo.

    https://www.youtube.com/watch?v=MYfuRm6Duo8

    Conosciamo tutti, più o meno direttamente, le condizioni di vita di chi arriva dalla cosiddetta “rotta balcanica” e trova rifugio nel Silos, un edificio abbandonato a pochi passi dalla stazione centrale. Qui centinaia di persone resistono tenacemente tra fango, topi e rifiuti. Conosciamo anche l’ostilità delle istituzioni locali, regionali e nazionali verso queste persone, così come verso chi vive in strada.

    Negli ultimi cinque anni l’unica misura a sostegno delle persone senzatetto che frequentano Piazza Libertà è stata l’installazione di quattro bagni nelle vicinanze.

    Al contempo sono stati chiusi l’help center in stazione, un sottopasso dove molti trovavano riparo dalla pioggia e dal freddo e le aiuole circostanti la statua di Sissi. Anche il centro diurno di Via Udine è rimasto chiuso per due anni con il pretesto del Covid.
    Non sono però mancate le ronde di polizia, le identificazioni e le multe per bivacco date a persone in stato di necessità. Per noi è evidente che chi gestisce la città mette il decoro urbano davanti ai bisogni primari e ai diritti umani.

    https://www.youtube.com/watch?v=meQT7gz8630

    Nell’ottobre del 2022 il Comune ha annunciato l’apertura di un dormitorio da quasi 100 posti in via Flavio Gioia, un edificio contiguo al Silos.

    Una misura minima, che solo poche settimane dopo è stata scartata come risultato dei giochi di potere seguiti alla vittoria elettorale delle destre. È stata la dimostrazione che neanche un minimo di decenza ha più casa nella furia autoritaria di chi governa questa città.

    Trieste è stata così privata di uno spazio di accoglienza, mentre continua a contare centinaia di spazi abbandonati e inutilizzati. Noi lo spazio di Via Gioia lo abbiamo visto, ci siamo entrati e abbiamo verificato che, contrariamente al Silos, è caldo e asciutto, che non ci sono ratti e che gli allacciamenti alle reti elettrica e idrica sono pronti all’uso. Ci sono bagni e docce. Ci sono decine di stanze. Abbiamo fatto foto e video di questo luogo, stupidamente abbandonato da oltre quindici anni, per mostrare a tutti e tutte che, volendo, gli spazi per accogliere a Trieste ci sono.

    Riteniamo inaccettabile che un posto come questo rimanga chiuso, ancora di più trovandosi a pochi metri di distanza dalle rovine del Silos. Poco più in là, c’è un centro città che risucchia gran parte degli investimenti pubblici al fine di creare una vetrina più facilmente sfruttabile da chi controlla i business legati al turismo. Mentre avanzano i grandi piani della città gentrificata (il rifacimento in grande stile di Porto Vecchio, l’ovovia, i centri commerciali, le lucette e la grandeur…), c’è un problema evidente che, nonostante sia sotto gli occhi di tutti, la giunta e la prefettura decidono di trascurare.

    Davanti a tutto questo, chiediamo che:
    – venga aperto lo spazio di Via Gioia per dare riparo a chi ne ha bisogno nell’immediato;
    – anche il Comune e la Prefettura riconoscano il carattere di frontiera della città di Trieste e prendano iniziativa per evitare l’abbandono di persone in stato di necessità.

    Finisca questa vergogna, libertà di movimento e diritto all’abitare per tutte e tutti!

    https://www.meltingpot.org/2024/03/trieste-in-via-gioia-uno-spazio-di-accoglienza-negato-a-due-passi-dal-si

    #Trieste #Italie #frontière_sud-alpine #accueil #réfugiés #asile #migrations #Silos #hébergement #dortoir

  • Un anno di osservazione sul CPR di Via Corelli, Milano

    Il report-denuncia di Naga e Rete Mai più Lager - No ai CPR

    «Al di là di quella porta. Un anno di osservazione dal buco della serratura del Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Milano» è il titolo del report 1 realizzato dall’associazione Naga e della Rete Mai Più Lager – No ai CPR (di qui in avanti “Rete”).

    Il risultato di un monitoraggio multi livello 2 durato un anno che tuttavia, lascia l’impressione di aver giusto sbirciato “dal buco della serratura” di quel CPR.

    La diversità di fonti e metodi riflette infatti la difficoltà che si riscontra quando si vuole rompere il muro di oscurità che avvolge via Corelli e tutti gli altri centri d’Italia. La maggior parte delle informazioni raccolte sono infatti il frutto delle segnalazioni arrivate al centralino telefonico “SOS CPR Naga” o alle pagine social di Naga e Rete dai cellulari personali dei trattenuti.

    Un monitoraggio che solleva l’angosciante interrogativo su quanto accade negli altri Centri di permanenza per i rimpatri (CPR) d’Italia.

    Il CPR di Milano infatti è l’unico, insieme a quello di Gradisca d’Isonzo, in cui, grazie a una sentenza sul ricorso ASGI del 20213, i trattenuti possono detenere i propri telefoni cellulari. Questa possibilità, a garanzia del diritto alla libera corrispondenza di fatto negata negli altri CPR, ha plausibilmente l’effetto di limitare gli abusi da parte di forze dell’”ordine” e operatorə del centro, consapevoli inoltre della presenza di associazioni e reti di solidali ben radicate sul territorio.

    Se le atrocità osservate a Milano sono il frutto di un relativo contegno che le autorità si impongono in Via Corelli, qual è invece la realtà quotidiana degli altri CPR, esclusi da un accorto e costante monitoraggio? Il titolo infatti rende perfettamente idea di quanto è nascosto agli occhi quando si cerca di osservare la totalità di una stanza dal piccolo spiraglio della serratura.
    “Accedere al CPR: una lunga storia”

    Naga accede regolarmente alle carceri ordinarie, mentre nei Centri di permanenza per i rimpatri la Prefettura nega l’autorizzazione in modo quasi sistematico e spesso senza neanche fornire una motivazione dettagliata. Eppure la possibilità di accesso è formalmente prevista dalla Direttiva Lamorgese e spesso viene fatta valere solo in seguito a un ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale. Non prima, dunque, di spendere tempo, energie e risorse per fare ricorso contro il diniego.

    “La battaglia per visitare il CPR è durata oltre un anno, ha visto impegnati due avvocati e una decina tra attiviste e attivisti. Istanze, memorie, accessi agli atti, un’ordinanza e una sentenza” 4. Tutta questa fatica per due ore di sopralluogo all’interno del centro, in cui la delegazione è stata accompagnata – o, per meglio dire, scortata – lungo tutto il tragitto.
    Gli accessi civici agli atti e i dati quantitativi del report

    Un intero capitolo del dossier è dedicato a dettagliare le richieste di accesso civico generalizzato agli atti 5 che hanno spesso ottenuto dinieghi, risposte glissate, parziali, contraddittorie 6, a volte nessuna risposta affatto. Dalle risposte ottenute il rapporto riesce a ricostruire qualche dato quantitativo.

    In un anno sono state deportate da via Corelli verso il paese d’origine 7 238 persone, ovvero il 44% dei trattenuti (dove la media nazionale si attesta tra il 49 e il 50%).

    “L’82% dei rimpatriati proviene dal nord Africa. Del resto, il 65% dei trattenimenti ha riguardato persone provenienti da Egitto, Marocco e Tunisia. I dati della Prefettura confermano che sono soprattutto tunisini a popolare il CPR.” (Naga, 2023, p.137)

    In assenza di dati ufficiali sui motivi di rilascio diversi dalla deportazione nel paese di origine, Naga e Rete riportano a tal proposito i dati in loro possesso. Dei 24 casi di rilasci ottenuti grazie all’assistenza legale Naga, la maggior parte erano motivati dalle condizioni di salute dei trattenuti.

    Secondo l’ATS (Agenzia di Tutela della Salute), dal 1°marzo 2022 al 28 marzo 2023 sono stati emessi 203 codici STP. (Naga, 2023, p.167).

    A tutti i trattenuti però dovrebbe essere assegnato un codice STP (Straniero Temporaneamente Presente) al momento dell’ingresso. Considerando che il numero di trattenuti per lo stesso periodo è di 544, lo scarto è di ben 341 codici. Sul perché a questi individui non sia stato assegnato alcun codice STP non è dato avere spiegazione.

    Sul numero di trattenuti sottoposti a Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), l’ATS non ha fornito alcuna risposta. La Prefettura sostiene di non avere tale informazione e, anche avendola, non la comunicherebbe in quanto relativa a dati “sensibilissimi”. Invece il Comune di Milano, che sotto la firma del suo Sindaco Giuseppe Sala dispone i TSO, ha riferito che nel periodo di riferimento dell’istanza ci sono stati due TSO sullo stesso cittadino. Risulta poi che questi trattamenti si riferiscono a due distinti periodi di trattenimento in CPR: questo significa, ancora una volta, che nonostante i gravi problemi psichiatrici è stato dichiarato idoneo al trattenimento ed è finito poi per subire un ulteriore TSO.
    La visita d’idoneità

    Una visita medica deve accertare l’idoneità alla vita in comunità ristretta entro le 48h dall’ingresso della persona in un CPR. Secondo la normativa, la visita d’idoneità deve svolgersi all’esterno del Centro e dev’essere obiettiva. Secondo le raccomandazioni del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (di qui in avanti abbreviato “Garante Nazionale”), per essere obiettiva la visita dev’essere svolta da medici del Servizio Sanitario Pubblico in una struttura pubblica.

    Invece, sin dalla sua apertura e con l’eccezione di una sola breve parentesi, le visite di idoneità per l’ingresso nel CPR di Via Corelli sono state svolte sempre dagli stessi due medici. Non si tratta di dipendenti dell’ASL, ma di medici in libera professione vincitori di concorsi che sembrano istituiti ad-hoc per affidare loro le visite d’idoneità. Inoltre, nel primo anno di apertura del centro, questi due medici lavoravano anche privatamente per l’ente gestore dell’epoca, la R.T.I. Luna S.c.s. – Versoprobo S.c.s. (oggi a gestire il Centro di Via Corelli è Martinina S.r.l.) in evidente conflitto d’interesse.

    Alcuni trattenuti riferiscono di non essere mai stati visitati al di fuori del centro o di aver svolto la visita in Questura. Tutti ad ogni modo sono stati visitati in presenza di agenti di polizia e le visite consistono nella compilazione di un modulo a crocette, nella somministrazione di un test COVID, nella dichiarazione di assenza di sintomi da Tubercolosi, ma senza disponibilità di strumenti diagnostici né la previsione di esami di approfondimento. Dunque si è idonei solo se si è ritenuti approssimativamente e a vista d’occhio “sani”.

    “Nel periodo tra maggio 2022 e marzo 2023 sono pervenute al centralino SOS CPR del Naga diverse segnalazioni di problematiche sanitarie che potrebbero porre qualche dubbio sulle idoneità rilasciate. Ricordiamo almeno 4 casi di trattenuti affetti da epilessia, 8 con gravi problemi psichiatrici e psicologici, diverse decine di persone che praticavano autolesionismo, 9 portatori di malattie croniche, gravi o comunque difficilmente compatibili con le modalità di trattenimento (sempre che queste si possano considerare compatibili con qualsiasi essere umano)” – Naga, 2023 (p. 84)
    “Il battesimo d’ingresso”

    Una volta all’interno del CPR, i trattenuti sono sottoposti a una seconda “visita”, quella di presa in carico 8. I neo arrivati vengono portati in infermeria, denudati integralmente di fronte a medici e, anche qui, ad agenti di polizia e obbligati a fare flessioni per espellere eventuali oggetti nascosti nell’ano.

    “Un trattamento umiliante dalla dubbia utilità pratica, stigmatizzato in infinite occasioni dai tribunali perché riservato, per legge, ai soggetti più pericolosi solo in caso di estrema necessità. Questo trattamento viene risparmiato solo ai soggetti provenienti direttamente dal carcere, quindi “puliti” in ragione della loro provenienza. A volte neanche a loro.” – Naga, 2023 (p.26)

    Al termine di questa visita viene refertata una scheda medica di ingresso, senza data e con la sezione “anamnesi” quasi sempre barrata. Nessun accertamento dettagliato sulla salute psichica dei trattenuti, seppur previsto dall’offerta tecnica con la quale Martinina S.r.l. vince l’appalto.

    Finita questa umiliante prassi di sottomissione, i trattenuti vengono spogliati anche della loro stessa umanità e identità personale. Viene loro consegnato un cartellino identificativo con un codice numerico progressivo (arrivato il 28 luglio 2023 al numero 1566) che di lì in avanti sostituirà il loro nome nelle interazioni con il personale all’interno del centro.

    Uno spettro agghiacciante dei metodi nazisti, in cui la deumanizzazione degli internati era funzionale al loro soggiogamento e all’annientamento di ogni guizzo di resistenza attiva alle ingiustizie e violenze subite.
    La vita nei blocchi: squallore e “zombizzazione”

    Secondo il monitoraggio di Naga e Rete, nel CPR di Via Corelli risultano agibili solo due moduli abitativi – spesso definiti “blocchi” dai trattenuti – ciascuno per 28 persone.

    “Per ogni trattenuto il gestore percepisce, come da appalto, un compenso di 40,16 euro al giorno. A loro disposizione un “kit di ingresso” (per il quale il gestore percepisce un compenso a parte) miserrimo e un cambio di vestiti (biancheria intima compresa) già usati da altri, che nella maggioranza dei casi vengono rifiutati.” – Naga, 2023 (p. 26)

    Le squallide condizioni di vita all’interno dei CPR sono ormai largamente documentate. Le pagine social della Rete pubblicano quasi quotidianamente foto e video inviati dai trattenuti raffiguranti locali non idonei, sporcizia, degrado, sangue, violenze e sofferenza diffusa.

    Uno scenario post-apocalittico all’interno del quale gli avvocati e le avvocate Naga raccontano di una veloce degenerazione psicofisica dei loro clienti, che colloquio dopo colloquio, vedono progressivamente diventare come zombie.

    “Giovani sani e forti si trasformano in poche settimane in zombie scoloriti e disorientati dagli psicofarmaci, drogati di e per disperazione, o più semplicemente per mantenere l’ordine all’interno del centro senza alcun dispendio di forze, energie e personale: sedandoli” – Naga, 2023 (p.28)
    Mai più distante dalla realtà: il capitolato d’appalto di Martinina S.r.l. tra servizi non erogati e protocolli falsi

    Nel CPR di Milano, come negli altri CPR d’Italia, i trattenuti non hanno la possibilità di svolgere alcuna attività ricreativa. Eppure Martinina S.r.l. avrebbe ottenuto in gestione via Corelli – con un appalto di 1,2 milioni di euro! – sulla base delle “proposte migliorative” dell’offerta tecnica.

    Il rapporto di Naga e Rete documenta dettagliatamente come quanto formalmente previsto dal capitolato non corrisponde a un servizio effettivo e/o di qualità 9. Ma ancor più grave è quanto emerso dalla recente inchiesta di Luca Rondi e Lorenzo Figoni per Altraeconomia: «Inchiesta sul gestore del Cpr di Milano: tra falsi protocolli e servizi non erogati».

    Interpellando le associazioni e Ong iscritte negli accordi che Martinina S.r.l. ha presentato in gara d’appalto hanno scoperto che questi protocolli d’intesa sono falsi. Altri ancora sono siglati con soggetti che non risultano da nessuna parte online, di cui di fatto non è possibile verificare la veridicità. Un accordo è addirittura firmato dal solo ente gestore, Martinina S.r.l. Tra questi le società che dovrebbero provvedere alla realizzazioni di attività ricreative e migliorative del tempo trascorso dai trattenuti all’interno del Centro.

    i trattenuti nei CPR non hanno nemmeno la possibilità di tenersi carta e penna. La giustificazione? La prima perché infiammabile e la seconda perché passibile di uso improprio. Il divieto di circolazione di carta tra i detenuti però inficia gravemente anche sul loro diritto all’informazione legale e di reclamo diretto al Garante Nazionale.

    Secondo l’offerta tecnica, Martinina S.r.l. fornisce consulenti legali interni che dovrebbero consegnare una “carta dei diritti dei trattenuti”, che però non può circolare nel CPR perché, appunto, di carta. Senza carta e penna é inoltre inverosimile che i trattenuti possano scrivere reclami diretti al Garante Nazionale. In occasione dell’accesso fisico la delegazione Naga ha potuto constatare inoltre che il vademecum che dovrebbe informarli sulle modalità di invio riporta informazioni errate: istruiscono per l’invio di reclami al Garante territoriale, che a Milano manca. Esiste un Garante Comunale che tuttavia non segue il CPR di Via Corelli per mancanze di risorse e personale e che consiglia di riferirsi alla Procura della Repubblica o al Garante Nazionale, per cui le modalità d’invio, tuttavia, richiedono procedure differenti. A queste mancanze cercano di sopperire Naga e Rete mandando costanti segnalazioni al Garante. Nel rapporto forniscono qualche dato sulle segnalazioni inviate.

    “Quale difesa?”

    Ai trattenuti viene sistematicamente limitato il diritto alla difesa. La nomina di unə avvocatə di fiducia è condizionata alle risorse economiche disponibili: quando sono scarse o ormai esaurite, non resta che l’avvocatə di ufficio. I detenuti dovrebbero poterne scegliere unə da una lista fornita dall’ente gestore. Questa, in quanto cartacea, non può circolare all’interno del CPR e quindi di fatto l’assegnazione avviene in maniera casuale. Anche quando un detenuto è assistito da unə avvocatə di fiducia, questə viene convocatə in ore serali, tarde o non viene convocatə affatto.

    Lə rappresentante legale spesso non conosce il caso, non ha avuto accesso al fascicolo, non ha nemmeno mai visto o parlato con il trattenuto. Se d’ufficio, poi, il suo incarico si limita a una singola udienza. Le udienze durano in media 6 minuti e sono svolte online: oltre alla pessima connessione internet, l’avvocatə deve decidere se presenziare di fronte al giudice o collegarsi online con la persona assistita, con ulteriori gravi implicazioni sulla qualità della difesa.

    L’impedimento al diritto di difesa viene esercitato anche in occasione dei colloqui individuali. A differenza del carcere ordinario, nei CPR questi avvengono alla presenza degli agenti di polizia. Il rapporto riporta un episodio particolarmente grave del 3 agosto 2023, in cui all’avv. Simona Stefanelli e all’interprete di fiducia che l’accompagnava, é stato inizialmente negato negato l’accesso al CPR, nonostante regolare nomina di incarico per diversi assistiti. È stato poi concesso alla sola avvocata di parlare con un solo assistito e per 30 minuti, dopodiché è stata fatta uscire sul pretesto che ci sarebbero stati altri appuntamenti per i quali doveva essere lasciata libera la stanza. Il direttore avrebbe inoltre sequestrato alcuni documenti dell’assistito impedendole di fatto di preparare un’adeguata difesa.
    L’interprete

    Fino a giugno 2022 l’interprete di fiducia poteva accedere al CPR, previa comunicazione del nominativo all’ente gestore, come anche presenziare alle udienze presso il Giudice di pace. Ora invece serve l’autorizzazione della Prefettura, che oppone dinieghi ostinati e strumentali anche in presenza di professionistə competenti e qualificatə.

    All’interprete che accompagnava l’avv. Stefanelli è stato opposto un diniego perché non aveva presentato documentazione atta a dimostrare la sua qualifica di mediatrice culturale. Quando questa è stata presentata, le si è opposto che la qualifica di per sé non fosse sufficiente, ma doveva dimostrare di svolgere “ordinariamente attività come traduttrice o mediatrice culturale a supporto di studi legali, o comunque in contesti peculiari come quello dei CPR” 10. Nel diniego si aggiungeva inoltre che l’interprete di fiducia risultava superfluo data la presenza di personale di mediazione professionista garantita dall’ente gestore.

    Non solo dal rapporto emerge come l’unico mediatore “professionista” di Martinina S.r.l. mai incontrato abbia candidamente ammesso di essere un autodidatta. In base ai protocolli presentati in gara d’appalto sarebbe Ala Milano Onlus a fornire servizi di mediazione linguistico-culturale nel CPR di Milano. Peccato che il suo presidente, intervistato da Luca Rondi e Lorenzo Figoni nell’ambito della già citata inchiesta su Altraeconomia, dichiara di non aver mai siglato quell’accordo.
    Il diritto alla salute e gli “scheletri nell’armadio”

    Il grosso del dossier riguarda i dati medici e parla di un vero e proprio ostruzionismo da parte di Prefettura ed ente gestore, vinto ancora una volta soltanto in sede di ricorso. L’ostruzionismo viene esercitato su voluti fraintendimenti tra le “cartelle cliniche” e i “diari clinici” dei trattenuti.

    Quando lə avvocatə chiede per iscritto “le cartelle cliniche” dell’assistito, l’ente gestore invia le cartelle cliniche refertate da ospedali qualora si siano verificati dei ricoveri, ma non quello che loro chiamano il “diario clinico”. Quest’ultimo è un fascicolo che l’ente gestore dovrebbe aggiornare lungo tutto il periodo di trattenimento, tra l’altro avvalendosi di un software gestionale online che comunicherebbe alla prefettura ogni aggiornamento su base quotidiana. Questo diario non viene rilasciato, come ricostruisce dettagliatamente il rapporto, neanche quando esplicitamente ordinato da sentenza del giudice su ricorso.

    Non è chiaro poi se questo software gestionale esista davvero: la documentazione ottenuta risulta scritta a mano, spesso in maniera illeggibile; inoltre anche il “registro degli eventi critici”, che da offerta tecnica dovrebbero essere registrati e comunicati informaticamente, è un quaderno da cartoleria ad anelli, “dal quale possono essere agilmente strappati fogli scomodi, non numerati né tanto meno vidimati” – Naga, 2023 (p.147)

    Quando si è riusciti ad ottenere la documentazione sanitaria di alcuni trattenuti sono emersi dei veri e propri “scheletri nell’armadio”. Ne è un esempio la storia di J.M., dettagliata nel rapporto.

    Lamentando gravi mal di testa, J.M. viene visitato in ospedale perché non era disponibile un medico nel centro; il suo referto medico viene sequestrato al rientro nel centro e il suo compagno di stanza chiama il centralino del Naga perché lo vede fortemente turbato. Lə attivistə di Naga e Rete riescono a risalire all’Ospedale dov’era stato ricoverato e scoprono che una TAC aveva rilevato una neoplasia cerebrale. Viene invece dimesso con diagnosi di crisi da verosimile astinenza da cocaina e riportato nel CPR come se nulla fosse. Il legale fa allora richiesta ufficiale della sua cartella clinica e soltanto allora J.M. viene rilasciato dal centro: più precisamente, viene abbandonato in mezzo alla strada, nonostante non fosse nemmeno in grado di camminare, e senza ricevere la sua cartella clinica.
    La non-assistenza psico-sociale in Via Corelli

    L’offerta tecnica di Martinina S.r.l prevede personale e locali adibiti ai colloqui psicologici, che però si svolgono in presenza degli agenti di polizia, in totale violazione della privacy necessaria. Nell’accesso fisico alla struttura, la delegazione Naga ha constatato che a tale servizio sarebbero incaricate due persone, di cui una si è presentata come coordinatrice del servizio. Interrogata su tecniche e modalità impiegate nel suo lavoro dimostrava gravi mancanze e ammetteva di non affiancarsi di personale di mediazione linguistico-culturale.

    Il suo nome é stato poi nominato da svariati trattenuti, che però la identificavano come l’operatrice che si occupa dei cartellini identificativi con il numero progressivo. Lə avvocatə che collaborano con Naga riportano inoltre che sarebbe sempre lei a rispondere alle email di nomina di legali di fiducia. Mansioni che non sembrano c’entrare nulla con l’incarico di psicologa.

    In assenza di un supporto psicologico adeguato la prassi è una diffusa somministrazione di psicofarmaci a fini sedativi 11, così che le condizioni psicofisiche dei trattenuti deteriorano progressivamente e velocemente. Uno non-luogo di abbandono e brutalizzazione costante.
    La storia di H.B.

    Nessuna legge vieta un ulteriore periodo di detenzione, rendendone i “termini massimi” stabiliti per legge meno effettivi. Dalle testimonianze delle persone che si sono rivolte al centralino “SOS CPR Naga”, è evidente poi che il trattenimento viene imposto e reiterato anche quando la deportazione non è attuabile, in completa violazione del Testo Unico Immigrazione 12. Inoltre, spesso vengono trasferite da un CPR a un altro in ottica punitiva e strumentale.

    Tutte queste dimensioni discriminanti possono verificarsi per una stessa persona con effetti devastanti, come esemplificato nella storia di H.B., dettagliata nel report di Naga e Rete.

    H.B. non è registrato all’anagrafe del paese di origine e dunque, poiché quest’ultimo non lo riconosce come proprio cittadino, non è deportabile. Per questo stesso motivo era stato rilasciato dal suo primo trattenimento nel CPT di Bologna, salvo poi venir messo dentro a Via Corelli a Milano. Da qui, salito sul tetto in atto di protesta contro la convocazione di un avvocato sconosciuto per la sua udienza 13, viene trasferito per punizione al CPR di Ponte Galeria a Roma, ma solo dopo due episodi di violenza da parte di almeno 6 agenti di polizia, che gli causano una ferita aperta in testa, perdite di sangue e siero da orecchie e bocca, vista offuscata e torsione del braccio.

    Perché a Ponte Galeria? Per recidere i suoi rapporti e contatti con lə attivistə di Milano, non potendo nel CPR di Roma tenere il suo cellulare personale. Invece lə avvocatə NAGA hanno continuato a seguirlo, e l’hanno poi fatto rilasciare da Ponte Galeria, proprio perché le gravi lesioni inflittegli in Via Corelli lo rendevano evidentemente inidoneo al trattenimento in CPR 14.

    Anche nel caso di H.B. il rilascio ha equivalso a un abbandono in mezzo alla strada. Lə attivistə NAGA perdono le sue tracce per un certo periodo e lo ritrovano nuovamente rinchiuso, questa volta al CPR di Gradisca d’Isonzo. Non sapendo che fare, era tornato a Bologna dove si era presentato in Questura per domandare protezione internazionale in ragione della sua apolidia. Qui non solo gli viene negato l’accesso alla domanda 15, ma nuovamente lo rinchiudono nel Centro nonostante l’ingessatura al braccio per la quale doveva risultare inidoneo. Nuovamente lə avvocatə NAGA ottengono il suo rilascio, questa volta sulla base del comprovato tentativo di domandare la protezione internazionale e presentano una denuncia per tortura, lesioni, omissione di soccorso e falso nei confronti di agenti, direttore e medico del CPR di Milano e Roma, di cui seguiamo con ansia gli esiti.
    Pratiche di deportazione, morti di Stato e morti invisibili

    Sulla base delle testimonianze di ex-trattenuti deportati e dell’ultima relazione del Garante Nazionale 16, le modalità di esecuzione delle deportazioni implicano regolarmente l’uso della violenza e dell’inganno.

    Le forze di polizia fanno irruzione nella stanza di notte, mentre tutti dormono; immobilizzano e prelevano di forza il deportando, se serve lo sedano contro la sua volontà o a sua insaputa. In alternativa usano la “trappola dell’infermeria” 17, la bugia del trasferimento in un altro centro, o ancora si fa loro credere che verranno portati dal console a cui in ultimo spetta la decisione, quando invece tutto è ormai definitivo.

    Lo stesso Garante Nazionale evidenzia gli abusi della forza da parte degli agenti, in media tre per ogni deportato: a prescindere dall’eventuale resistenza opposta dai deportandi, questi vengono immobilizzati con fascette di velcro o altri dispositivi “con modalità considerate eccezionali anche nell’ambito del regime penitenziario con il rischio di incidere fortemente sulla dignità delle persone straniere” (…) “In talune occasioni i monitor hanno constatato che i dispositivi non sono stati levati nemmeno per consentire la consumazione del pasto e durante la fruizione dei servizi igienici” 18.

    Di questo sistema di violenza e razzismo istituzionale, amministrativa e fisica le persone ci muoiono: nascosti negli impenetrabili CPR o lontano dagli occhi e dai confini territoriali.

    Naga ha domandato al Dipartimento di Pubblica Sicurezza, che fa capo al Ministero dell’Interno, quante morti fossero avventue nei CPR d’Italia negli ultimi 5 anni: sono 14, età media di 33 anni.

    Vittime immolate in nome del culto dei confini, del razzismo, del profitto senza scrupoli che riduce le persone in corpi senza storia e senza identità, solo numeri.

    Numeri a cui Naga cerca di dare un nome, che qui riportiamo per rispetto della loro dignità, confidando che ci legge non ce ne vorrà se anche il resoconto del rapporto risulta molto lungo.

    • Donna – 46 anni – Ucraina – CPR di Ponte Galeria (Roma) il 13 novembre 2018. Di lei il Naga e la Rete Mai più Lager – No ai CPR non sanno nulla, nemmeno il suo nome.

    • Harry – 20 anni – Nigeria – CPR di Brindisi Restinco – 2 giugno 2019

    • Hossain Faisal – 31 anni – Bangladesh – CPR di Torino – 8 luglio 2019

    • Ayman Mekni – 33 anni – Tunisia – CPR di Pian del Lago – Caltanissetta – 12 gennaio 2020

    • Vakthange Enukidze – 39 anni – Georgia – CPR di Gradisca d’Isonzo – gennaio 2020

    • Orgest Turia – 29 anni – Albania – CPR di Gradisca d’Isonzo – 14 luglio 2020

    • Moussa Balde – 23 anni – Nuova Guinea – CPR di Torino – maggio 2021

    • Wissem Abdel Latif – 26 anni – Tunisia – CPR di Ponte Galeria – 28 novembre 2021

    • Ezzedine Anani – 41 anni – Marocco – CPR di Gradisca di Isonzo – 6 dicembre 2021

    • Uomo: – 36 anni – Nigeria – CPR di Brindisi Restinco – 4 agosto 2022.

    • Uomo – 34 anni – Bangladesh – CPR di Ponte Galeria – 22 agosto 2022.

    • Arshad Jahangir – 28 anni – Pakistan- CPR di Gradisca d’Isonzo – 31 agosto 2022

    • Uomo – 44 anni – Nigeria – CPR di Palazzo San Gervasio – 7 ottobre 2022.

    • Nome non trapelato – 38 anni – Marocco – CPR di Brindisi Restinco – 19 dicembre 2022 (Naga, 2023, pp.175-176)

    Di questi 14 morti di stato, 5 rimangono senza nome. Morti invisibili, o meglio invisibilizzate. Le loro morti come anche le loro vite: costrette, negate, taciute. Così nella depredazione dell’Occidente a danno dei paesi resi a basso reddito, ma in realtà di estremo valore estrattivo e umano; così nel Mar Mediterraneo, ormai stabilmente rotta migratoria più mortale sul pianeta; così anche sul territorio italiano, nei campi di sfruttamento, nelle carceri, nei CPR. E di quanti morti ancora non è dato sapere, una volta che queste persone vengono espulse e allontanate dagli occhi e dalla nostra coscienza.

    Vite di cui Naga, come le altre realtà sul territorio italiano, cercano di ricostruire l’identità, per rispetto, per dignità, ma anche per offrire un’occasione a eventuali familiari delle vittime di reclamare giustizia – se davvero così può essere chiamata – sistematicamente violata nel sistema CPR d’Italia.

    https://www.meltingpot.org/2023/11/un-anno-di-osservazione-sul-cpr-di-via-corelli-milano

    #détention_administrative #rétention #asile #migrations #réfugiés #Italie #CPR #décès #morts #mourir_en_rétention #via_Corelli #Milan #rapport

    • Firme false e assistenza inesistente per i reclusi: la Procura indaga sul Cpr di Milano

      Il primo dicembre la Guardia di Finanza ha perquisito la struttura per acquisire documentazione. Il reato ipotizzato per l’ente gestore #Martinina è frode in atto pubblico. Un’inchiesta di Altreconomia aveva svelato le “false promesse” della società alla prefettura di Milano

      Servizi di mediazione e assistenza sanitaria “gravemente deficitari”, ausilio psicologico e psichiatrico “largamente insufficiente” e poi cibo “spesso maleodorante, avariato e scaduto”, mancanza di medicinali e informativa legale. Sono queste le basi su cui la Procura di Milano ha dato mandato alla Guardia di Finanza per l’ispezione dei locali del Cpr di via Corelli del primo dicembre. I reati ipotizzati per i rappresentanti della Martinina Srl, la società che si è aggiudicata l’appalto da 1,2 milioni di euro per la gestione del centro nell’ottobre 2022, sarebbero frode nelle pubbliche forniture e turbata libertà degli incanti. Le prime informazioni confermerebbero quanto emerso dalle inchieste di Altreconomia sulle presunte “false promesse” della società alla prefettura e sull’abuso di psicofarmaci.

      Sono due, infatti, i profili al vaglio degli inquirenti. Da un lato c’è la turbativa d’asta legata ai servizi promessi da Martina Srl e mai realizzati. Alessandro Forlenza, gestore del centro e Consiglia Caruso, amministratrice unica della società, avrebbero commesso “frode nell’esecuzione del contratto di appalto” ponendo in essere “espedienti maliziosi e ingannevoli idonei a far apparire l’esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti”. Da un lato quindi i servizi, come detto, “gravemente deficitari” riguardanti mediazione culturale e assistenza sanitaria e informativa legale e poi, in sede di aggiudicazione dell’appalto pubblicato dalla prefettura di Milano, la presenza di protocolli falsi siglati da Consiglia Caruso, all’epoca rappresentante legale della società, con organizzazioni della società civile (ignare) per migliorare l’offerta tecnica al fine di vincere la gara.

      “In concorso con persone non identificate mediante la presentazione documentazione contraffatta e apocrifa turbava la gara d’appalto”, si legge nel decreto con cui il pubblico ministero ha chiesto la possibilità di ispezionare il Corelli. I protocolli, come raccontato anche su Altreconomia, sarebbero dieci in totale. Addirittura due riguarderebbero contratti d’acquisto per distributori di tabacchi e snack. “Servizi mai resi”, sempre secondo l’accusa. Protocolli forniti ovviamente in sede di gara ed esaminati dalla Commissione giudicatrice della prefettura, la quale, nella decisione di assegnare l’appalto alla società domiciliata in provincia di Salerno, sottolineava l’importanza del “valore delle proposte migliorative dell’offerta tecnica”.

      C’è poi il capitolo sanitario. Nell’inchiesta “Rinchiusi e sedati” avevamo dato conto di un acquisto spropositato di psicofarmaci destinati al Cpr di Milano. Il pubblico ministero scrive di “visite di idoneità alla vita in comunità ristretta assolutamente carenti” con ospiti trattenuti affetti da “epatite, gravi patologie psichiatriche, tossicodipendenti, persone con tumori al cervello” a cui si aggiungono servizi di ausilio psichiatrico e psicologico “largamente insufficienti” con colloqui svolti senza i mediatori culturali. “Con le persone trattenute si capiva sulla base del feeling”, avrebbe spiegato la psicologa del centro. Sono state acquisite “copie delle cartelle cliniche e della documentazione sanitaria (attuali e passati)”.

      Martinina Srl ha attualmente altre due sedi attive: una a Palazzo San Gervasio, a Potenza, dove è arrivata seconda nella gara di assegnazione della nuova gestione del Cpr precedentemente dalla Engel, vinto da Officine Solidali nel marzo 2023, un’altra a Taranto, per la gestione del Cas Mondelli che accoglie minori stranieri non accompagnati. L’ultimo bilancio disponibile è del 31 dicembre 2021 con importi ridottissimi: appena 2.327 euro di utili “portati a nuovo”. A quella data ancora non era attivo il Cpr di via Corelli. C’è un terzo soggetto, però, nella “sfera Martinina” con ben altri risultati: si tratta della Engel Family Srl nata nell’ottobre 2020 con in “dotazione” 250mila euro derivanti da Engel Srl. Paola Cianciulli è nuovamente amministratrice e socia unica della società che si occupa di “locazione immobiliare di beni propri o in leasing” che al 31 dicembre 2021 (l’ultimo disponibile) conta un valore della produzione complessivo di poco superiore a 372mila euro.

      Anche l’avvicendamento delle società gestite dall’imprenditore Alessandro Forlenza è rilevante. Lui, nel 2012 fonda la Engel Italia Srl, ex gestore del “Corelli” di Milano e del Cpr di Palazzo San Gervasio a Potenza: oggi quella società non esiste più perché il 20 ottobre 2023 è stata definitivamente “inglobata” nella Martinina Srl, a cui inizialmente era stato ceduto il ramo d’azienda che si occupava della detenzione amministrativa. La società è formalmente in mano a Paola Cianciulli, moglie di Forlenza, che è attualmente l’amministratrice unica dopo l’uscita di scena di Consiglia Caruso (la firmataria di tutti i protocolli d’intesa sopra citati), che il 31 agosto 2023 ha ceduto i mille euro di capitale sociale. A lei restano intestate due società con sede a Milano: l’Edil Coranimo Srl, che si occupa di costruzioni, e dal febbraio 2023 l’Allupo Srl che ha sede proprio in via Corelli, nel numero civico successivo al Centro per il rimpatrio. Una dinamica che desta interesse: l’oggetto sociale della Allupo Srl è molto diversificato e oltre alla ristorazione in diverse forme (da asporto o somministrazione diretta) è inclusa anche la possibilità di “gestione di case di riposo per anziani, case famiglia per minori, Cas, Sprar, Cara e Cpr”. Forse nel tentativo di togliere di mezzo il nome di Martinina per altri eventuali bandi.

      In questo quadro c’è poi il problematico ruolo giocato dalla prefettura. In una nota rilanciata da diverse agenzie di stampa, l’ufficio territoriale del Viminale ha fatto sapere che “aveva già avviato un procedimento amministrativo per la contestazione di condotte ritenute contrarie agli obblighi contrattuali a seguito di alcune criticità gestionali emerse nei mesi scorsi” che si sarebbe concluso con “l’irrogazione della massima sanzione prevista”. Non è chiaro a quando risalgano queste contestazioni. Ma ci sono alcuni elementi noti. Secondo i dati consultati da Altreconomia il primo settembre 2023, tre mesi fa, quando l’indagine della Procura era presumibilmente già in corso, la stessa prefettura ha bonificato a Martinina 80mila euro come rimborso per la gestione della struttura di marzo 2023, una cifra in linea con quelle riconosciute per i mesi precedenti per un totale di quasi un milione di euro dall’inizio del contratto (943mila euro).

      Il 10 novembre poi, quattro giorni prima dell’uscita della nostra inchiesta su Martinina, la prefettura ha pubblicato tutta la documentazione relativa al contratto aggiudicato da Engel nel 2021, sempre per la gestione del Cpr, da cui emerge che già in quell’offerta alcuni dei protocolli d’intesa sono siglati con le stesse realtà che dichiarano di non aver mai avuto rapporti né con l’ente gestore né con il Cpr. Un eccesso di trasparenza -mai vista quando si tratta di Cpr (per ottenere l’attuale contratto d’appalto è stato necessario un ricorso al Tar da parte dell’associazione Naga)- che nei fatti si è tradotto in un’autodenuncia. “La prefettura ha provveduto a informare ‘immediatamente’ gli uffici della locale Procura sugli esiti della propria attività, ‘trasmettendole’ anche la relativa documentazione e fornendo la propria massima collaborazione”, hanno spiegato da corso Monforte.

      Dai verbali delle ispezioni prefettizie consultati da Altreconomia, però, non emergerebbe una verifica dettagliata di quanto avviene nella struttura. In uno di questi, per esempio, alla domanda “La fornitura degli effetti letterecci avviene regolarmente e secondo le tempistiche e modalità previste dallo Schema di Capitolato vigente?”, il funzionario della prefettura barra “Sì”. Ma nella nota integrativa sottostante, riportata in calce al verbale, si legge che “ai 25 trattenuti non viene richiesto di firmare la consegna/ritiro degli effetti letterecci”. Risultano perciò incomprensibili le basi su cui viene affermata l’effettiva consegna di questi oggetti. La condizione dei reclusi e l’assistenza inesistenti dell’ente gestore non sono certo una notizia di attualità, così come i protocolli falsi, chiusi nei cassetti della prefettura da più di un anno.

      https://altreconomia.it/firme-false-e-assistenza-inesistente-per-i-reclusi-la-procura-indaga-su
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    • Il CPR di via Corelli a Milano sotto indagine della Procura

      Indagati gli amministratori di Martinina srl, Consiglia Caruso e Alessandro Forlenza

      La gestione del CPR di via Corelli è ufficialmente sotto inchiesta della Procura di Milano, che venerdì 1 dicembre ha disposto un’ispezione a sorpresa nel centro da parte degli agenti della Guardia di Finanza. Perquisita la documentazione dell’ente gestore all’interno della struttura e acquisite immagini e video delle condizioni del centro.

      Locali sporchi, “bagni in condizioni vergognose”, cibo “maleodorante, avariato, scaduto”. I servizi, pur previsti dal capitolato d’appalto con i quali la società si è aggiudicata ben 4,4 milioni di euro, risultano carenti o del tutto assenti. Mancate cure e visite specialistiche necessarie ai trattenuti “per il rifiuto del gestore di pagare”. Gli stessi dipendenti del centro hanno segnalato agli inquirenti mancati pagamenti del Tfr, dello stipendio e pagamenti tardivi. Visite di idoneità sommarie che hanno dichiarato idonei anche individui “affetti da epilessia, epatite, tumore al cervello, patologie psichiatriche, tossicodipendenti”. Assistenza psicologica inadeguata, assenza di informativa legale ai trattenuti, nessuna attività ricreativa né luoghi di culto.

      È quanto osservato dagli inquirenti e contenuto nel decreto di ispezione della Procura, che ipotizza i reati di frode nelle pubbliche forniture e turbativa d’asta. Tra gli indagati, oltre alla società stessa, Consiglia Caruso, firmataria di tutti i protocolli d’intesa scoperti falsi nell’inchiesta pubblicata da Altraeconomia 1, e il figlio, Alessandro Forlenza, gestore della struttura di via Corelli.

      Una “gestione familiare” (l’attuale amministratrice di via Corelli 28 è infatti Paola Cianciulli, moglie di Forlenza) già al centro delle denunce di giornalisti e associazioni presenti sul territorio, che adesso trovano seguito nelle verifiche della Procura.

      Quanto riportato dalla Procura descrive infatti lo stesso quadro dettagliato nel report-denuncia recentemente pubblicato dall’associazione Naga in collaborazione con la Rete Mai più lager – No ai CPR 2, che ha dedicato ampio spazio alle incongruenze tra capitolato d’appalto e servizi erogati, nonché alle grave mancanze del presidio sanitario. Contestualmente, tra la documentazione perquisita dagli inquirenti nel centro figurerebbero anche le cartelle cliniche dei trattenuti, che di fatto vengono sequestrate dall’ente gestore che rifiuta sistematicamente di consegnarle ai diretti interessati o ai loro rappresentanti legali.

      L’inchiesta della Procura sembra dunque una buona notizia, che ripaga almeno in parte gli sforzi, le energie e delle risorse impegnate in inchieste, impervie azioni di monitoraggio e denuncia. Che accende la speranza che responsabilità e colpe vengano finalmente stabilite e sanzionate, arginando l’impunità dilagante in cui si muovono gli enti gestori con beneplacito delle Prefetture.

      Come espresso dall’avvocato ASGI, Nicola Datena ai giornalisti di Altraeconomia, “Il monitoraggio da parte della società civile si conferma essere uno strumento fondamentale. Se quanto emerso verrà confermato nelle sedi opportune viene da chiedersi chi controlla i controllori”.

      La Prefettura di Milano, preso atto dell’ispezione nel centro da parte della Procura, ha tempestivamente emesso un comunicato per chiarire che “aveva avviato a carico dell’ente gestore un procedimento amministrativo per la contestazione di talune condotte ritenute contrarie agli obblighi contrattuali”. Un tentativo di migliorare la propria posizione di fronte alle gravi irregolarità sulle quali non ha vegliato o ha soprasseduto. Irregolarità che poi si osservano da parte della Prefettura stessa, che, tra le altre, non ha ancora formalizzato alcuna proroga dell’incarico di gestione di Martinina s.r.l., nonostante l’appalto sia formalmente scaduto il 31 di ottobre.

      “Come Rete Mai più Lager – No ai CPR teniamo a ricordare che la situazione di Corelli non è isolata, e che questo tipo di controlli andrebbe fatto a tappeto in tutti i centri che purtroppo sono ancora aperti in Italia. Ma soprattutto, teniamo a ricordare che le responsabilità vanno ricercate a tutti i livelli. E quindi non solo nei disservizi causati dagli inadempimenti dei gestori, ma anche nelle Prefetture che selezionano i candidati vittoriosi dei bandi e dovrebbero monitorarne l’attività, come anche in chi, sapendo e vedendo, tace”, scrive la Rete in un comunicato pubblicato sulle sue pagine social 3.

      Quanto emerge dalle inchieste su via Corelli non può essere ridotto a un semplice caso di malagestione e oltre alle responsabilità penali vanno messe in luce anche quelle politiche. Perché non si tratta solo di illeciti amministrativi nelle gare d’appalto, ma di gravissime e sistematiche violazioni di diritti fondamentali e della dignità delle persone.

      Quanto emerge sulla gestione del CPR di Milano non riflette un caso isolato. É un esempio di quanto accade in tutti i luoghi di detenzione amministrativa in Italia, che oggi si vogliono rafforzare e ampliare sul territorio. In tutti i CPR d’Italia le persone si ammalano, si aggravano, soffrono, si intossicano, subiscono abusi e violenze indicibili. Nei CPR d’Italia le persone muoiono. Morti di Stato e morti invisibilizzate che rimangono senza giustizia.

      I CPR vanno chiusi non perché gestiti male, ma perché sono illegittime istituzioni totali che investono risorse pubbliche nella produzione di marginalizzazione, violenza e oppressione; perché sono incarnazione di una pericolosa sospensione di principi fondamentali, che mette a rischio diritti e libertà di tuttə; perché sono massima espressione di un razzismo istituzionale e di una necropolitica che si accanisce sulle persone straniere razzializzate, martoriandone corpo, spirito e dignità.
      Un sistema di violenza razziale inaccettabile, che va superato e che chiama in causa la responsabilità politica, sociale e storica dell’intera comunità.

      https://www.meltingpot.org/2023/12/il-cpr-di-via-corelli-a-milano-sotto-indagine-della-procura

    • Milano: la vergogna del Cpr di via Corelli. Niente cure e cibo scaduto

      L’ispezione della Guardia di finanza al cpr di via Corelli a Milano nell’ambito dell’indagine per frode in pubblica fornitura. Sotto accusa la società salernitana La Martinina srl che gestisce il centro per conto della Prefettura di Milano e del ministero dell’Interno. L’inchiesta della Procura di Milano parte anche dalle segnalazioni dell’ex senatore De Falco che fece due ispezioni: «Il gestore del centro ha tutto l’interesse a trattenere il maggior numero di persone perché è pagato per quello. Se nessuno controlla può succedere qualsiasi cosa, e infatti succede»

      Ora si accende anche il faro della Procura sul Cpr di via Corelli a Milano. A far scattare l’indagine dei magistrati hanno contribuito le innumerevoli denunce pubbliche fatte in questi anni da attivisti antirazzisti, giornalisti e alcuni politici.

      Nelle carte infatti c’è tutto il corollario di cose dette in questi anni da coloro che si sono occupati dei centri di permanenza per il rimpatrio: trattamenti disumani, cibo scadente, abuso di farmaci, impossibilità di comunicare con l’esterno, assistenza sanitaria negata. I Cpr sono questo e ora su quello di Milano c’è anche la parola dei magistrati.

      NELL’INCHIESTA VIENE citata la visita effettuata dall’associazione Naga e dalla rete Mai Più Lager-No ai Cpr il 2 marzo 2023 e l’ispezione del 29 maggio 2022 dell’ex senatore del M5S Gregorio de Falco.

      L’indagine è dei pm Giovanna Cavalleri e Paolo Storari che ieri mattina hanno mandato i militari della Guardia di finanza a perquisire il centro. L’ipotesi di reato è frode in pubbliche forniture e turbativa d’asta nei confronti degli amministratore della società La Martinina srl che gestisce il Cpr per conto della Prefettura di Milano e del ministero dell’Interno. A ottobre 2022 la società aveva vinto la gara d’appalto da 4,4 milioni di euro per gestire il centro per un anno dopo alcuni passaggi societari sui cui i magistrati vogliono fare chiarezza.

      A settembre 2021 il bando era stato vinto dalla Engel Italia di Salerno, il 10 ottobre 2022 era passato alla Martinina di Pontecagnano, sempre con sede a Salerno. A novembre 2022 la Engel Italia finiva in concordato e si fondeva nella Martinina srl. Le quote delle due società fanno capo alla stessa persona, Paola Cianciulli, moglie del gestore del Cpr milanese Alessandro Forlenza, figlio dell’amministratrice della Martinina srl Consiglia Caruso.

      Dall’indagine emerge che la società vincitrice del bando aveva promesso di tutto per aggiudicarsi l’appalto: dal cibo biologico ai mediatori culturali, dall’assistenza sanitaria di qualità alle attività religiose, sociali e ricreative. E invece nulla di tutto ciò è stato fatto. Nell’assenza di controlli e di occhi indipendenti, in quei luoghi di segregazione può avvenire di tutto. E avviene.

      Da oggi però sappiamo che, almeno qui a Milano, le denunce pubbliche fatte da attivisti, associazioni e da quei pochi parlamentari che ispezionano i centri non sono cadute nel vuoto.

      SCRIVONO I PM che «il presidio sanitario con medici e infermieri era assolutamente inadeguato», mancavano medicinali e visite di idoneità alla vita nel centro per chi aveva «epilessia, epatite, tumore al cervello» e altre gravi patologie. Il supporto psicologico e psichiatrico era «largamente insufficiente e fornito da personale che non conosceva la lingua» degli immigrati trattenuti. Le camere erano «sporche», i bagni «in condizioni vergognose», il cibo «maleodorante, avariato e scaduto».

      La Martinina srl avrebbe anche prodotto documenti «contraffatti». Dagli esponenti della maggioranza di governo, che vorrebbe moltiplicare e esternalizzare oltre i confini nazionali i Cpr, non sono arrivati commenti.

      SI DIRÀ CHE QUESTI gestori di via Corelli sono delle mele marce e si proverà a difendere l’indifendibile. Dal centrosinistra in tanti hanno chiesto la chiusura del centro o la riconversione in struttura d’accoglienza, dal Pd, all’Alleanza Verdi Sinistra, a Rifondazione Comunista, al Patto Civico lombardo.

      «Da tempo chiedo la chiusura del Cpr di via Corelli, come peraltro ha fatto mesi fa il consiglio comunale di Milano» ha commentato il responsabile nazionale del Pd per le politiche migratorie Pierfrancesco Majorino.

      Quando era assessore al welfare a Milano Majorino era riuscito a convincere l’allora governo a convertire il Cpr in centro d’accoglienza. Per gli attivisti e le associazioni che si oppongono ai Cpr il problema è politico e riguarda tutte le strutture aperte in Italia.

      Dice Riccardo Tromba del Naga: «Ci aspettiamo che i magistrati abbiano trovato quello che denunciamo da tempo, in quel centro non c’era nulla di quanto promesso dal gestore. Noi ci opponiamo da sempre al trattenimento dei migranti, dal 1998 quando li istituì un governo di centrosinistra».

      Per la rete Mai Più Lager-No ai Cpr «la situazione di Corelli non è isolata, questo tipo di controlli andrebbero fatti a tappeto in tutti i centri che purtroppo sono ancora aperti in Italia. Le responsabilità vanno ricercate a tutti i livelli, quindi non solo nei disservizi causati dagli inadempimenti dei gestori, ma anche nelle prefetture che selezionano i candidati vittoriosi dei bandi e dovrebbero monitorarne l’attività, come anche in chi, sapendo e vedendo, tace».

      RESPINGE LE ACCUSE la Prefettura di Milano: «Nei mesi scorsi erano emerse criticità gestionali, era quindi stato avviato a carico dell’ente gestore un procedimento amministrativo ed era stata informata la Procura».

      De Falco: «Nel cpr vidi il degrado, colpa della gestione privata e dello Stato che nasconde»

      Gregorio De Falco, quando è stato senatore del M5S nel Cpr di via Corelli ha fatto due ispezioni. L’inchiesta della Procura di Milano parte anche dalle sue segnalazioni, cos’ha pensato questa mattina?

      Finalmente. Perché fin dall’esito della prima ispezione, quella del 5-6 giugno 2021, avendo fatto un esposto alla Procura della Repubblica mi aspettavo che qualcosa succedesse. Poi c’è stata la seconda ispezione, quella del 29 maggio 2022. Era chiara la condizione di assoluto abbandono nella quale vivevano e vivono tutt’ora le persone trattenute all’interno e mi aspettavo che qualcuno avviasse indagini. Oggi quindi dico: finalmente la giustizia si muove.

      Qual era l’obbiettivo delle sue ispezioni?

      Era quello di verificare le condizioni di vita dei trattenuti e quindi se lo Stato, attraverso le sue funzioni amministrative come la Prefettura, esercitasse il trattenimento con criteri minimi di dignità e umanità. Quello che abbiamo visto è stata invece una condizione diffusa di degrado. Le persone vengono trattenute in modo brutale perché senza aver commesso reati sono costrette a stare in un centro equivalente al carcere, ma a differenza dei carcerati a loro non è concesso il diritto di difesa, non possono fare nulla. Spesso le visite mediche sono fatte da operatori pagati dalle società di gestione, non va bene. Il gestore del centro ha tutto l’interesse a trattenere il maggior numero di persone perché è pagato per quello. Se nessuno controlla può succedere qualsiasi cosa, e infatti succede. Dal cibo avariato, all’abuso di farmaci, all’impedimento a comunicare con l’esterno. E lo Stato tiene nascosto tutto ciò.

      Il controllo del lavoro delle società che vincono gli appalti di gestione dei Cpr spetterebbe al ministero dell’Interno e alle prefetture. Avviene?

      Guardi, in quegli anni ho fatto interrogazioni parlamentari all’allora ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e le risposte che ho avuto sono sempre state sconfortanti. Una volta avevo chiesto di entrare nel Cpr di Roma insieme a una mia collaboratrice. All’epoca il prefetto di Roma era Matteo Piantedosi. Bene, mi fu negato il permesso perché Piantedosi aveva fatto fare delle indagini sulla mia collaboratrice e non risultava essere la mia assistente legislativa parlamentare. Ma io avevo chiesto proprio a lei di accompagnarmi perché era una persona che parlava l’arabo e si occupava di immigrazione. E invece no, Piantedosi impiegò il suo tempo per fare indagini sulla mia collaboratrice e negarmi l’ingresso al Cpr.

      Oggi Piantedosi è ministro dell’Interno di un governo che i Cpr li vuole moltiplicare, persino fuori dai confini nazionali…

      Moltiplicare ed esternalizzare. Con l’idea di costruire Cpr fuori dal territorio nazionale vogliono evitare che i parlamentari possano esercitare la loro funzione di controllo su queste strutture. È gravissimo, ma penso che il piano del governo sia fallimentare perché ancora c’è una Costituzione che anche loro devono rispettare. Il livello di civiltà non può tornare indietro.

      https://www.osservatoriorepressione.info/milano-la-vergogna-del-cpr-via-corelli-niente-cure-cibo-sc

    • Condizioni disumane nel Cpr di Milano ma la Prefettura rinnova il contratto a Martinina

      La Procura di Milano ha chiesto il sequestro preventivo d’urgenza della struttura per il concreto rischio che i gravissimi reati ipotizzati continuino. L’ha fatto anche perché l’attuale gestore si era visto prolungare di un altro anno l’incarico dalla prefettura. Alle violazioni dei diritti umani si affianca l’opacità dell’impianto amministrativo

      “Era un vero e proprio lager, neanche i cani sono trattati così nei canili: gli psicofarmaci vengono dati come fossero caramelle, in alti dosaggi, con uno smodato uso di Rivotril. I medici erano razzisti: ‘meglio che muori, torna al tuo Paese’, dicevano. La pulizia? Erano posti pieni di piccioni, nutriti dagli stessi trattenuti e, com’è noto, i piccioni portano malattie. Vi era spazzatura ovunque, le stanze erano lorde, piene di mozziconi, le lenzuola erano sporche, fatte di tessuto non tessuto e non venivano ovviamente cambiate tutti i giorni. Durante l’estate poteva capitare che il sapone, pur presente, non veniva dato ai trattenuti per cui di fatto le docce non venivano fatte”.

      Questo era ed è il Cpr di via Corelli a Milano nelle parole di un lavoratore di Martinina Srl, società che gestisce la struttura dall’ottobre 2022 grazie a “promesse” false di servizi forniti ai reclusi, come anticipato nell’inchiesta di Altreconomia. Non è una dichiarazione isolata: leggere le 164 pagine con cui i sostituti procuratori Giovanna Cavalleri e Paolo Storari, il 13 dicembre 2023, hanno argomentato la richiesta di sequestro preventivo d’urgenza del ramo d’azienda che gestisce il centro, permette di ricostruire nel dettaglio l’orrore del “Corelli”. Sono gli stessi magistrati a scrivere che i reclusi “sono ridotti in condizioni che non pare esagerato definire disumane”.

      “Secondo te questi animali meritano una visita medica? Devono tornare alla giungla”. Lo avrebbe detto un medico del centro rivolgendosi a un operatore che accompagnava in ambulatorio un recluso. Il diritto alla salute sarebbe stato calpestato su più fronti. Per la necessità del gestore di risparmiare, Abdul, nome di fantasia, “non ha potuto effettuare una gastroscopia perché il gestore non pagava il ticket”; Amin, invece, pur avendo il piede fratturato non sarebbe stato visitato “per il rifiuto del gestore di pagare”.

      C’è poi, come abbiamo già raccontato, l’abuso di psicofarmaci. “Al centro ho visto dare quantità da 75 milligrammi a 300 milligrammi per tre volte al giorno di Lyrica, c’era una persona che assumeva circa 300 milligrammi di Lyrica per tre volte al giorno, cioè quasi un grammo, dose sostanzialmente fuori dosaggio”, racconta un’operatrice. “Vi era un uso smodato di Rivotril -racconta un’altra- Alcune volte venivano somministrati ad alcuni pazienti 100 gocce, io sono arrivata a diluire la boccetta con l’acqua per evitare effetti collaterali negativi”. “L’unico modo per gestire le criticità sanitarie era o lo psicofarmaco o la chiamata al 118”, ha dichiarato agli inquirenti Nicola Cocco, medico esperto di detenzione amministrativa.

      Nel centro c’erano persone che non avrebbero potuto esserci: gli inquirenti hanno ricostruito che le visite di idoneità alla comunità ristretta sono “assolutamente carenti”. Lo dimostrano la presenza all’interno del Centro di “ospiti affetti da epilessia, epatite, tumore al cervello, gravi patologie psichiatriche, tossicodipendenti” e, al momento della visita del primo dicembre, la presenza di una persona “cui sarebbe stata asportata la milza nel 2018”. “Vi erano numerosi malati psichiatrici all’interno”, racconta un’altra operatrice.

      Persone che vivevano in luoghi sudici. “Gli ambienti erano sporchi, c’erano anche dei topi all’interno delle diverse aree: le pulizie venivano svolte molto superficialmente, tanto che molti ospiti hanno avuto delle malattie epidermiche dovute alle scarse condizioni igieniche -racconta un dipendente-. Ci sono stati anche episodi di scabbia su più ospiti. Agli ospiti non è stato mai consegnato il kit per l’igiene personale, né saponi, né le lenzuola, dovevano arrangiarsi con quello che trovavano all’interno”. Ancora. “Gli ospiti vestivano sempre con la stessa tuta per l’intera giornata, sia di notte sia di giorno. Una volta a settimana avveniva il lavaggio della tuta e se qualcuno non aveva la possibilità di un cambio, restava seminudo fino a quando non venivano riconsegnata la tuta pulita”.

      E poi il cibo avariato: “Poiché erano avanzate delle vaschette di pasta, erano state offerte a noi dipendenti -si legge in una delle dichiarazioni rilasciate agli inquirenti-. A me sembrava pasta con il gorgonzola, in quanto aveva un odore rancido, poi mi sono accorta invece che era pasta con le zucchine andata a male. Ho cercato di evitare che venisse mangiata dai trattenuti, ma non sono arrivata in tempo, 40 persone hanno avuto un’intossicazione alimentare. Quasi tutti i giorni il cibo era scaduto o avariato”.

      Questo è il quadro, questo è il Cpr di via Corelli. L’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha pubblicato la scorsa settimana un dettagliato report sulle lacune nella gestione del Cpr, evidenziando anche l’immobilismo della prefettura di Milano. “Dai verbali trasmessi all’Asgi a seguito di accesso civico generalizzato riguardante i verbali delle visite di controllo effettuate dalla prefettura non emerge tuttavia alcuna verifica sul rispetto dei diritti fondamentali delle persone trattenute nel Cpr, né alcun rilievo da parte dell’amministrazione riguardo della corretta erogazione dei servizi previsti in offerta tecnica”, scrive l’associazione a margine del report. Un paradosso, a cui se ne aggiunge un altro.

      La richiesta dei Pm di sequestrare la struttura arrivata a sorpresa il 13 dicembre 2023 nasce da un motivo ben preciso. Il 17 novembre 2023 la società Martinina, gestita da Alessandro Forlenza (amministratore di fatto), accusato di frode insieme alla madre Consiglia Caruso (fino al 31 agosto amministratrice unica sostituita poi dalla moglie di Forlenza, Paola Cianciulli), si è vista rinnovare il contratto siglato con la prefettura di Milano per la gestione della struttura per un altro anno. La firma di Caruso sul rinnovo è del primo dicembre, il pomeriggio di quando la Gdf ha fatto l’accesso in struttura. Il “nuovo” contratto, pubblicato sul sito della Prefettura, ricalca quello precedente. Non si menziona nessuno dei problemi di gestione da parte di Martinina.

      Un paradosso. Anche perché, dall’ufficio territoriale del Viminale, in seguito alla perquisizione della Guardia di Finanza al centro del primo dicembre, avevano fatto sapere di aver “già avviato un procedimento amministrativo per la contestazione di condotte ritenute contrarie agli obblighi contrattuali a seguito di alcune criticità gestionali emerse nei mesi scorsi” che si sarebbe concluso con “l’irrogazione della massima sanzione prevista”. Ma il contratto è stato rinnovato, come detto, come se tutto fosse normale.

      A quali criticità potrebbe riferirsi la Prefettura? “Il verbale dell’ispezione del 18 aprile 2023 -si legge però nel report di Asgi- non viene trasmesso sostenendo di non volere compromettere le verifiche tutt’ora in corso, essendo in corso istruttoria in merito alle spese sostenute per il personale”. Una presunta “massima sanzione” quindi che potrebbe essere riferita a questo specifico punto. Anche perché il 13 novembre il contratto è stato rinnovato. Ecco perché i procuratori Storari e Cavalleri hanno sequestrato la struttura. “Gli elementi testimoniano una situazione di frode non soltanto a oggi in atto ma destinata a proseguire nel prossimo futuro -scrivono- tale situazione di illegalità non potrà prevedibilmente che protrarsi almeno per un ulteriore intero anno”.

      C’è poi un’altra stranezza: dopo che l’Asgi ha inviato il report all’Autorità nazionale anticorruzione, il 10 novembre 2023 la prefettura ha pubblicato il contratto del precedente appalto di gestione del Cpr (all’epoca la società gestita di fatto da Forlenza era la Engel Italia). Le associazioni Dianova, BeFree, l’organizzazione “Musica e Teatro” vengono citate tra i firmatari dei protocolli di intesa presentati anche nell’offerta tecnica di Engel Srl formulata il 26 maggio 2021 per l’aggiudicazione del bando precedente a quello in essere.

      La richiesta della Procura è quella, come detto, del sequestro del ramo d’azienda che gestisce la struttura “senza però determinare la cessazione del Cpr, con l’immissione in possesso di un amministratore”. I magistrati non stanno quindi chiedendo la chiusura del Centro -almeno per ora- ma non è chiaro che cosa succederà e come verrà gestita la struttura. Nel frattempo, venerdì 15 dicembre, si è svolta l’udienza di fronte al giudice per le indagini preliminari per decidere se Martinina potrà in futuro partecipare a bandi pubblici.

      Al di là dell’esito giudiziario della vicenda, si ha un’altra prova dell’orrore di quello che succede nel Corelli, come denunciano da anni diverse associazioni, dalla rete Mai più lager – No ai Cpr al Naga. E non solo. “Emerge il fallimento del sistema Cpr, incluso il caso di Milano -spiega Giulia Vicini, avvocata Asgi-. Si tratta di un fallimento che non riguarda solo le ormai croniche e documentate violazioni dei diritti fondamentali e l’inefficienza, ma anche l’opacità dell’impianto burocratico-amministrativo che concede in appalto la vita delle persone a società private”. “Si entra come persona -ha raccontato un’operatrice agli inquirenti-. Poi viene assegnato un tesserino di riconoscimento con un numero, e a quel punto si diventa numeri e si esce da zombie imbottiti di psicofarmaci”.

      https://altreconomia.it/la-disumanita-nel-cpr-di-milano-e-la-prefettura-rinnova-il-contratto-a-

    • Freddo, cibo scadente e nuovi ingressi. Al Cpr di Milano nulla è cambiato

      Da fine dicembre il centro di via Corelli è gestito da un amministratore giudiziario dopo l’inchiesta della Procura sui mancati servizi erogati dalla Martinina Srl. Un mese dopo manca un direttore e la condizione dei reclusi resta precaria. I nuovi ingressi, inoltre, non si fermano. Un appello chiede ai sanitari coinvolti di prendere posizione

      Riscaldamento rotto, mancanza di coperte, lenzuola di carta velina, cibo ancora scadente: il Cpr di Milano sembra essere lo stesso di sempre a un mese dalla nomina dell’amministratore giudiziario subentrato alla Martinina Srl, l’ente gestore sotto indagine della Procura per aver “promesso” servizi non erogati. “Ho constatato in prima persona che la società resta di fatto ancora alla guida della struttura -spiega Paolo Romano, consigliere regionale del Partito democratico che ha fatto visita al ‘Corelli’ il 17 gennaio- nonostante le accuse relative alla scarsa qualità del cibo, alla mancanza dei servizi psicologici e delle visite mediche. L’unica soluzione a questo punto è la chiusura”.

      Secondo diverse testimonianze raccolte da Altreconomia la situazione sarebbe ancora peggiore di prima. Gli stessi funzionari di polizia non saprebbero a chi rivolgersi quando ci sono problematiche nella struttura anche perché, fino al 17 gennaio, non era ancora stato nominato un direttore. I dipendenti operativi nella struttura sarebbero invece gli stessi. Inoltre, Martinina Srl non avrebbe liquidità per garantire i servizi basilari per le persone ristrette.

      Questa situazione non fermerebbe però i nuovi ingressi: anche perché, per le “regole di appalto”, al di sotto di un certo numero di ospiti, la gestione del centro è in perdita. Un settore della struttura rimane chiuso e di conseguenza la capienza massima è ridotta: una gestione che non vada in perdita taglierà là dove è possibile farlo. “L’affidamento del Cpr al ribasso a soggetti privati fa sì che si perdano anche i pochi servizi che dovrebbero essere garantiti e si aggravino così le violazioni dei diritti umani”, riprende il consigliere Romano.

      Il 29 dicembre 2023 la prefettura di Milano vista “l’assoluta urgenza ed ineluttabilità dell’intervento connesso alle esigenza di sicurezza ed igiene del Centro di accoglienza” ha affidato alla Sfhera Srl, azienda di Milano, lavori per più di 30mila euro destinati a “servizi di manutenzione ordinaria e obbligatoria della centrale termica, degli impianti di raffrescamento e dei presidi antincendio” per garantire “l’efficienza della struttura”. Un’urgenza tale che i lavori vengono affidati “anche nelle more dell’accreditamento dei fondi”. Ma le persone sarebbero ancora al freddo.

      Nel frattempo, l’azienda guidata dall’imprenditore Alessandro Forlenza ha fatto ricorso a inizio gennaio 2024 contro la decisione del Giudice per le indagini preliminari di metà dicembre 2023 di commissariare il Cpr, dandolo in gestione al commercialista Giovanni Falconieri e impedire così alla “sua” Martinina Srl di partecipare a bandi pubblici per un anno. Un provvedimento che si è reso necessario perché, nonostante le indagini e le gravi accuse rivolte alla “gestione” del centro, l’azienda si era vista rinnovare di un anno il contratto da parte della prefettura di Milano il 17 novembre 2023. A quel punto i pubblici ministeri titolari dell’indagine, Paolo Storari e Giovanna Cavalleri, avevano chiesto il sequestro preventivo d’urgenza, poi accolto dal gip Livio Cristofano, perché “gli elementi testimoniano una situazione di frode non soltanto a oggi in atto ma destinata a proseguire nel prossimo futuro -scrivevano- tale situazione di illegalità non potrà prevedibilmente che protrarsi almeno per un ulteriore intero anno”.

      Tra il 2021 e il 2022 in cinque mesi la spesa in psicofarmaci è superiore al 60% del totale, di cui oltre la metà ha riguardato il Rivotril (196 scatole)

      Il Cpr nelle parole delle persone sentite dalla Procura di Milano è stato descritto come “un vero e proprio lager” in cui “gli psicofarmaci vengono dati “come fossero caramelle, in alti dosaggi, con uno smodato uso di Rivotril”, come già documentato da Altreconomia nell’aprile 2023. E proprio il tema della salute resta un elemento centrale. Anche per questo motivo, a metà gennaio 2024 la Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm), “Mai più lager – No ai Cpr” e l’Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione (Asgi) hanno rivolto a tutto il personale sanitario un appello per una “presa di coscienza sulle condizioni e sui rischi per la salute delle persone migranti sottoposte a detenzione amministrativa”. Soprattutto per quanto riguarda la valutazione dell’idoneità a fare ingresso nel centro: un “compito” che spetterebbe ai medici del Servizio sanitario nazionale, con diversi profili problematici.

      Da un lato, si chiede ai medici “di attestare in pochi minuti lo stato di salute di persone di cui non conoscono la vita né il percorso migratorio, per l’invio in luoghi che non conoscono, in cui la salute è gestita da enti privati e che molteplici fonti attendibili hanno ormai certificato essere patogeni e rischiosi per la salute delle persone che vi vengono detenute”. Ma non solo. Entra in gioco anche il rispetto del codice di deontologia medica rispetto su diversi profili, tra cui l’obbligo per il medico di “protezione del soggetto vulnerabile” quando ritiene che l’ambiente in cui vive non sia idoneo a proteggere la sua salute, dignità e qualità di vita “come di fatto si può configurare il contesto dei Cpr”.

      “I Cpr rinchiudono senza diritti e senza motivazioni persone che non hanno commesso un reato con il solo risultato di togliere loro dignità e renderle vere e proprie bombe sociali. E l’attuale situazione di Milano è insostenibile” – Paolo Romano

      “Secondo te questi animali meritano una visita medica? Devono tornare alla giungla”. Lo avrebbe detto un medico del Cpr di Milano rivolgendosi a un operatore che accompagnava in ambulatorio un recluso. Il diritto alla salute sarebbe stato calpestato su più fronti. Per la necessità del gestore di risparmiare -sempre secondo le ricostruzioni delle persone sentite dalla Procura di Milano- un recluso “non ha potuto effettuare una gastroscopia perché il gestore non pagava il ticket”; un altro, invece, pur avendo il piede fratturato non sarebbe stato visitato “per il rifiuto del gestore di pagare”. Un contesto da tenere conto nel momento in cui si dà l’idoneità alla persona per far ingresso nel Cpr.

      Nel caso di Milano, come denunciato dalla rete “Mai più lager – No ai Cpr” a inizio gennaio di quest’anno, le visite sarebbero svolte da due medici che nel 2021 “comparivano non solo a libro paga di Ats ma anche operanti in questura e soprattutto collaboratori a partita Iva del gestore del Cpr”. Un altro cortocircuito. E con delibera del 29 dicembre 2023, denuncia sempre la rete di attivisti e attiviste, l’Ats di Milano ha nuovamente incaricato i due dottori fino a febbraio con un compenso di 30 euro all’ora. “Se redatta come superficiale nulla osta potrebbe essere contestata e il medico che l’ha firmato coinvolto in sede giudiziaria”, scrivono le organizzazioni nell’appello rivolto agli operatori sanitari. “In coscienza e con cognizione di causa -sottolineano- tenendo presenti i principi fondamentali dell’ordinamento e della deontologia professionale medica, nessuno può essere considerato idoneo ad esservi rinchiuso”. Invece al “Corelli” di Milano si continua ad entrare. Come se niente fosse.

      Il 29 dicembre 2023 la Prefettura di Milano ha saldato un pagamento di 170mila euro alla Martinina Srl che comprende anche un “acconto per l’amministratore giudiziario”. Non è però specificato a quanti e quali mesi di gestione si riferiscono e quindi è impossibile, ricostruire a quanto ammonta la “massima sanzione” che l’ufficio milanese del Viminale, a inizio dicembre, ha dichiarato di aver applicato per la “malagestione” del Cpr. “Va chiuso, lo ribadisco -conclude il consigliere Romano-. I Cpr rinchiudono senza diritti e senza motivazioni persone che non hanno commesso un reato con il solo risultato di togliere loro dignità e renderle vere e proprie bombe sociali. E l’attuale situazione di Milano è insostenibile”.

      https://altreconomia.it/freddo-cibo-scadente-e-nuovi-ingressi-al-cpr-di-milano-nulla-e-cambiato

    • Milano: Ancora violenze poliziesche nel cpr di via Corelli

      Ancora violenze di polizia contro i migranti reclusi nel Cpr di via Corelli, il centro permanenza e rimpatri finito sotto sequestro dopo un’inchiesta della procura di Milano che aveva certificato le condizioni disumane dei migranti all’interno. Nella serata di sabato una protesta contro le condizioni di reclusione, che nonostante il commissariamento avviato dopo l’azione della Procura non sono migliorate, ha preso vita nel cortile del centro, dove due persone si sono spogliate.

      Una volta rientrate nelle stanze è giunta la rappresaglia da parte di alcuni agenti della guardia di finanza che in assetto antisommossa, hanno punito a suon di manganellate i due migranti protagonisti della protesta che sono poi stati portati in infermeria: “uno con una gamba visibilmente rotta e l’altro, il più giovane, quasi esanime , in braccio”, afferma pubblicando un video la rete “Mai più lager – No ai Cpr” (https://www.facebook.com/watch/?v=1114485583309953). I due sono stati anche denunciati per resistenza a pubblico ufficiale.

      https://www.osservatoriorepressione.info/milano-ancora-violenze-poliziesche-nel-cpr-via-corelli

  • Inchiesta sul gestore del #Cpr di Milano: tra falsi protocolli e servizi non erogati

    Altreconomia ha potuto visionare l’offerta tecnica presentata dalla società Martinina Srl alla prefettura di Milano per aggiudicarsi l’appalto da oltre 1,2 milioni di euro per la gestione della struttura in #via_Corelli: alcuni degli accordi stretti con associazioni e Ong “esterne” per migliorare la vita dei trattenuti non sarebbero autentici

    Lenzuola non distribuite, raro utilizzo dei mediatori culturali, tutela legale inesistente, assistenza sanitaria carente. Ma soprattutto falsi protocolli d’intesa “siglati” per svolgere servizi e attività all’interno del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di via Corelli a Milano.

    Altreconomia ha potuto visionare l’offerta tecnica presentata dalla società Martinina Srl alla prefettura di Milano per aggiudicarsi l’appalto da oltre 1,2 milioni di euro per la gestione della struttura: oltre alla discordanza tra quanto scritto nei documenti e la realtà nella struttura di reclusione, alcuni degli accordi stretti con associazioni e Ong “esterne” per migliorare la vita dei trattenuti sarebbero falsi.

    Altri invece sarebbero stati siglati con soggetti di cui non è stato possibile trovare alcuna traccia online. “Viene da chiedersi in che cosa consista il controllo effettuato dalla prefettura, essendo risultata evidente l’assenza di servizi all’interno del centro oltre che palesi le incongruenze negli atti e nei documenti versati nella gara di appalto”, osserva l’avvocato Nicola Datena dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che ha visionato la documentazione insieme a chi scrive.

    Alcuni snodi temporali. Martinina Srl nell’ottobre 2022 si è aggiudicata l’appalto per un anno (scadenza il 31 ottobre 2023, rinnovabile di un anno in assenza di nuove gare pubbliche) indetto dalla prefettura di Milano presentando un’offerta in cui garantiva, tra le altre cose, la collaborazione con diverse associazioni e società profit, finalizzata ad assicurare l’erogazione di “servizi” da integrare nella gestione del Cpr.

    L’offerta tecnica consiste nella documentazione da presentare in sede di gara d’appalto che descrive come l’impresa intende eseguire il lavoro per l’ente che richiede la prestazione, ovvero il piano di lavoro, le fasi e le risorse impiegate, la durata e le ore di lavoro previste, eventuali migliorie richieste o proposte

    Protocolli forniti in sede di gara ed esaminati dalla Commissione giudicatrice, la quale, nella decisione di assegnare l’appalto alla società domiciliata in provincia di Salerno, sottolinea l’importanza del “valore delle proposte migliorative dell’offerta tecnica”. Un “dettaglio” sfugge però ai funzionari della prefettura: almeno otto sarebbero falsi. Eccoli.

    Secondo la documentazione contrattuale, il Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo), una delle più importanti organizzazioni del Terzo settore del nostro Paese, avrebbe firmato un protocollo con Martinina l’8 agosto 2022 volto alla formazione del personale del Cpr. Il nome del responsabile legale non corrisponde però ad alcun referente dell’organizzazione: “Ribadiamo l’assoluta estraneità del Vis e l’assenza di qualsiasi tipo di contatto o accordo, passato e presente, relativo alla gestione del Cpr di via Corelli. E ci tengo a precisare che come Ong salesiana abbiamo una visione della migrazione fondata sui diritti umani, distante dall’approccio applicato nei Cpr, con cui in ogni caso le nostre policy ci impedirebbero di collaborare”, spiega ad Altreconomia Michela Vallarino, presidente del Vis.

    Sono 59 invece le pagine dell’accordo tra Martinina e la cooperativa sociale BeFree, uno dei più importanti enti antitratta italiani con sede a Roma, per la realizzazione del progetto “Inter/rotte” per l’assistenza per vittime di tratta e violenza. “Non avremmo mai potuto firmare un simile protocollo -spiega Francesca De Masi (qui la sua presa di posizione integrale)- perché siamo fortemente critiche nei confronti della stessa esistenza dei Cpr”. Il presunto protocollo è talmente grossolano che il nome del legale rappresentante è sbagliato e di conseguenza anche il codice fiscale generato.

    Ala Milano Onlus secondo l’accordo dovrebbe invece garantire “prestazioni di natura di mediazione linguistica/culturale”. Il presidente, contattato da Altreconomia, dichiara però di non aver mai siglato quel protocollo. Così come Don Stefano Venturini, l’allora parroco della comunità pastorale delle parrocchie di San Martino in Lambrate e SS Nome di Maria, che si sarebbe impegnato, secondo le carte consultate, “a orientare, aiutare gli ospiti prestando attenzione specifica a quanto le persone esprimono”. “Ho incontrato una volta chi gestisce la struttura ma non ho mai siglato un protocollo”, spiega Venturini ad Altreconomia, aggiungendo, tra l’altro, come sia di competenza della curia diocesana un eventuale accordo formale. Nell’offerta inviata alla prefettura, Martinina ha allegato il decreto di nomina di Venturini emesso dall’arcivescovo Mario Enrico Delpini. “Non so come abbiano fatto ad averlo”, spiega ancora l’interessato.

    L’accordo con la società sportiva Scarioni 1925 risulta stipulato il 24 agosto 2022 dall’ex presidente, che però è morto nel febbraio 2020: un post sulla pagina Facebook della società stessa, datato 31 marzo 2020, porge le condoglianze alla famiglia per la sua scomparsa. Il Centro islamico di Milano e Lombardia avrebbe siglato un accordo con Martinina per garantire il sostegno spirituale all’interno del centro. “La carta intestata è di un centro di Roma, la firma del protocollo di un centro di Cologno Monzese -spiega il presidente Ali Abu Shwaima-. Noi non abbiamo mai visto quel protocollo”. L’associazione Dianova Onlus garantirebbe assistenza per i trattenuti con tossicodipendenza: la prefettura sembra non essersi accorta però che il protocollo risulta firmato nell’agosto 2022 solo da Martinina Srl. “Non ho mai sentito questa società -spiega il presidente Pierangelo Buzzo, a cui è intestato l’accordo- e tra l’altro dal febbraio 2021 siamo cooperativa sociale, non più associazione. Il protocollo è falso”.

    Diverso è il caso della Associazione di Volontariato “Il Paniere Alimentare”, dell’Organizzazione “Musica e Teatro” e dell’Associazione “Fiore di Donna”, dei quali non solo non è stato possibile riscontrare alcun riferimento online, ma di cui i codici fiscali inseriti nei protocolli risultano inesistenti, così come gli indirizzi mail di riferimento. La “Bondon grocery” dovrebbe riconoscere “agli ospiti del Cas e agli operatori della Martinina Srl che acquistano per conto delle persone trattenute nel Cpr uno sconto del 5% sulla spesa effettuata”: il protocollo firmato nell’agosto 2022 reca in intestazione la denominazione della società, che ha però cessato l’attività il primo luglio 2021.

    Dianova, BeFree, l’Organizzazione “Musica e Teatro” vengono citati tra i protocolli di intesa presentati anche nell’offerta tecnica presentata da Engel Srl il 26 maggio 2021 per l’aggiudicazione del bando precedente a quello in essere. La prefettura di Milano ha pubblicato i documenti integrali -contratto siglato dalla società e offerta tecnica- il 10 novembre 2023.

    Tornando ai protocolli siglati da Martinina Srl, questi danno uno spaccato della vita nel centro che appare molto distante della realtà. Attività ludico-ricreative, per “impegnare le giornate degli ospiti e rendere più piacevole il trascorrere del tempo”, cineforum, laboratori di teatro, musicali, sport. Addirittura “campagne di prevenzione della salute”. Ma niente di tutto questo si sarebbe mai verificato nella struttura. Sia per i numerosi report prodotti nel tempo da diversi soggetti, dall’Asgi al Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, fino agli stessi verbali delle visite di monitoraggio redatti proprio dalla prefettura.

    Così l’accesso ai servizi di mediazione linguistica-culturale, previsto nell’offerta, non si riscontra affatto nella realtà: in questo caso è l’Asgi, durante una delle visite d’accesso, a non incontrare alcun mediatore e dal Naga, che ha recentemente pubblicato un dettagliato report sulla situazione all’interno del centro. Oppure l’orientamento legale, anche questo assicurato sulla carta da Martinina Srl, addirittura con la “diffusione di materiale informativo tradotto nelle principali lingue parlate dagli stranieri presenti nel centro” ma che non trova riscontri. È il Garante, questa volta, a scrivere nel febbraio 2023 che l’informativa cartacea “non viene consegnata alle persone trattenute”. Problematico anche l’accesso ai servizi sanitari: nell’offerta tecnica si assicura “al ricorrere delle esigenze la somministrazione di farmaci e altre spese mediche” ma al di fuori degli psicofarmaci -che, come raccontato da Altreconomia nell’inchiesta “Rinchiusi e sedati”, su cinque mesi di spesa rappresentano il 60% degli acquisti in farmaci- sempre il Garante scrive che “l’assistenza sanitaria in caso di bisogno si limita alla distribuzione della tachipirina”. E c’è uno scarso accesso alle visite specialistiche. Emergono poi acquisti di distributori di tabacchi non presenti nel centro, colloqui con lo psicologo non documentati, addirittura la fornitura di “cestini da viaggio” in caso di trasferimenti da un Cpr all’altro, discrepanze anche relative alla qualità del cibo distribuito.

    All’impatto sulla vita delle persone se ne aggiunge uno di natura economica. Secondo dati inediti consultati Altreconomia, infatti, la prefettura di Milano avrebbe già versato a Martinina Srl oltre 943mila euro per la gestione della struttura di via Corelli. Ed è rilevante anche l’avvicendamento delle società gestite dall’imprenditore Alessandro Forlenza. Lui, nel 2012 fonda la Engel Italia Srl, ex gestore del “Corelli” di Milano e del Cpr di Palazzo San Gervasio a Potenza: oggi quella società non esiste più perché il 20 ottobre 2023 è stata definitivamente “inglobata” nella Martinina Srl, a cui inizialmente era stato ceduto il ramo d’azienda che si occupava della detenzione amministrativa. La società è formalmente in mano a Paola Cianciulli, moglie di Forlenza, che è attualmente l’amministratrice unica dopo l’uscita di scena di Consiglia Caruso (la firmataria di tutti i protocolli d’intesa sopra citati), che il 31 agosto 2023 ha ceduto i mille euro di capitale sociale. A lei restano intestate due società con sede a Milano: l’Edil Coranimo Srl, che si occupa di costruzioni, e dal febbraio 2023 l’Allupo Srl che ha sede proprio in via Corelli, nel numero civico successivo al Centro per il rimpatrio. Una dinamica che desta interesse: l’oggetto sociale della Allupo Srl è molto diversificato e oltre alla ristorazione in diverse forme (da asporto o somministrazione diretta) è inclusa anche la possibilità di “gestione di case di riposo per anziani, case famiglia per minori, Cas, Sprar, Cara e Cpr”.

    La Martinina Srl ha altre due sedi attive: una a Palazzo San Gervasio, a Potenza, dove è arrivata seconda nella gara di assegnazione della nuova gestione del Cpr precedentemente dalla Engel, vinto da Officine Solidali nel marzo 2023, un’altra a Taranto, per la gestione del Cas Mondelli che accoglie minori stranieri non accompagnati. L’ultimo bilancio disponibile è del 31 dicembre 2021 con importi ridottissimi: appena 2.327 euro di utili “portati a nuovo”. A quella data ancora non era attivo il Cpr di via Corelli. C’è un terzo soggetto, però, nella “sfera Martinina” con ben altri risultati: si tratta della Engel Family Srl nata nell’ottobre 2020 con in “dotazione” 250mila euro derivanti da Engel Srl. Paola Cianciulli è nuovamente amministratrice e socia unica della società che si occupa di “locazione immobiliare di beni propri o in leasing” che al 31 dicembre 2021 (l’ultimo disponibile) conta un valore della produzione complessivo di poco superiore a 372mila euro.

    Ai milioni di euro per la gestione se ne aggiungono altri (ne hanno parlato anche ActionAid e l’Università degli studi di Bari nel recente dettagliato rapporto “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri”) se si prende in considerazione, documenti ottenuti da Altreconomia alla mano, anche l’esborso dovuto alla costante manutenzione che si rende necessaria anche a causa delle ricorrenti proteste dei trattenuti. Da inizio 2020 al marzo 2023 in totale sono stati spesi più di 3,3 milioni di euro di cui il 58% è stato impiegato per lavori di adeguamento della struttura, manutenzione o interventi di ripristino dei luoghi danneggiati. Anche perché, spesso, le strutture già in partenza sono spesso fatiscenti: il 15 settembre 2021 Invitalia, l’Agenzia nazionale di proprietà del ministero dell’Economia (già attiva nel campo delle migrazioni sul “fronte libico”), ha pubblicato un bando da 11,3 milioni di euro su mandato del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, in seno al ministero dell’Interno, proprio per la manutenzione straordinaria dei Centri di permanenza per il rimpatrio di tutta Italia. Ad aggiudicarsi i lavori del Cpr di Milano in via Corelli -di cui abbiamo inserito le foto inserite nel progetto di ristrutturazione- è stata la Tek Infrastructure, società con sede a Palermo da 1,6 milioni di euro di fatturato nel 2021, con un ribasso del 20%. Ma tra i pagamenti effettuati dalla prefettura fino al marzo 2023 a fare da “padrona” sulle manutenzioni è la Masteri Srl -non è possibile escludere perciò un subappalto- con quasi 620mila euro ricevuti in tre anni.

    Fiumi di denaro pubblico che richiederebbero controlli estremamente approfonditi. Dai verbali delle ispezioni prefettizie, però, non emerge una verifica dettagliata di quanto avviene nella struttura. In uno dei verbali, infatti, alla domanda “La fornitura degli effetti letterecci avviene regolarmente e secondo le tempistiche e modalità previste dallo Schema di Capitolato vigente?”, il funzionario della prefettura barra “Sì”. Ma nella nota integrativa sottostante, riportata in calce al verbale, si legge che “ai 25 trattenuti non viene richiesto di firmare la consegna/ritiro degli effetti letterecci”. Risultano perciò incomprensibili le basi su cui viene affermata l’effettiva consegna di questi oggetti.

    Assente qualsiasi considerazione sul rispetto dei diritti fondamentali e sulla corretta esecuzione dei servizi presenti nell’offerta tecnica. “Il monitoraggio da parte della società civile si conferma essere uno strumento fondamentale. Se quanto emerso verrà confermato nelle sedi opportune viene da chiedersi chi controlla i controllori”, conclude l’avvocato Datena. Intanto, le claudicanti promesse di Martinina Srl hanno potuto circolare a piede libero, a differenza dei reclusi. Con il rischio che alla sofferenza si sia aggiunta la beffa del racconto di una quotidianità inesistente.

    https://altreconomia.it/inchiesta-sul-gestore-del-cpr-di-milano-tra-falsi-protocolli-e-servizi-
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  • Via Transilvanica, il cammino di Santiago romeno
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Via-Transilvanica-il-cammino-di-Santiago-romeno-227602

    Un nuovo itinerario ha messo la Romania sulla mappa dell’ecoturismo: la Via Transilvanica, progetto avviato nel 2018 da una ong locale, è la risposta romena al Cammino di Santiago e ad altri tragitti noti al mondo. Un percorso di 1420 km che unisce e attraversa dieci contee

  • Paysannes indiennes : une année de lutte intense

    Chukki Nanjundaswamy, de Via Campesina, a évoqué ce qui s’est passé après les mobilisations et les protestations des agricultrices et agriculteurs dans le pays

    Depuis novembre 2020, les paysannes indiennes se battent pour leurs droits, qui sont constamment menacés par le gouvernement autoritaire d’extrême droite dirigé par le Premier ministre Narendra Modi. Le pays lutte en partenariat avec des multinationales contre le programme de Modi, qui met en danger la vie de nombreux agriculteurs du pays, en particulier des femmes. 80% de la nourriture indienne est produite par des femmes. Elles sont majoritaires dans les champs et les plantations, même si elles ne sont pas officiellement considérées comme des agricultrices. Et ce sont elles qui souffrent le plus du manque de politiques publiques.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2022/04/23/paysannes-indiennes-une-annee-de-lutte-intense

    #international #inde

  • Rapid Response : Decolonizing Italian Cities

    Anti-racism is a battle for memory. Enzo Traverso well underlined how statues brought down in the last year show “the contrast between the status of blacks and postcolonial subjects as stigmatised and brutalised minorities and the symbolic place given in the public space to their oppressors”.

    Material traces of colonialism are in almost every city in Italy, but finally streets, squares, monuments are giving us the chance to start a public debate on a silenced colonial history.

    Igiaba Scego, Italian writer and journalist of Somali origins, is well aware of the racist and sexist violence of Italian colonialism and she points out the lack of knowledge on colonial history.

    “No one tells Italian girls and boys about the squad massacres in Addis Ababa, the concentration camps in Somalia, the gases used by Mussolini against defenseless populations. There is no mention of Italian apartheid (…), segregation was applied in the cities under Italian control. In Asmara the inhabitants of the village of Beit Mekae, who occupied the highest hill of the city, were chased away to create the fenced field, or the first nucleus of the colonial city, an area off-limits to Eritreans. An area only for whites. How many know about Italian apartheid?” (Scego 2014, p. 105).

    In her book, Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città (2014), she invites us to visually represent the historical connections between Europe and Africa, in creative ways; for instance, she worked with photographer Rino Bianchi to portray Afro-descendants in places marked by fascism such as Cinema Impero, Palazzo della Civiltà Italiana and Dogali’s stele in Rome.

    Inspired by her book, we decided to go further, giving life to ‘Decolonizing the city. Visual Dialogues in Padova’. Our goal was to question ourselves statues and street names in order to challenge the worldviews and social hierarchies that have made it possible to celebrate/forget the racist and sexist violence of colonialism. The colonial streets of Padova have been re-appropriated by the bodies, voices and gazes of six Italian Afro-descendants who took part in a participatory video, taking urban traces of colonialism out of insignificance and re-signifying them in a creative way.

    Wissal Houbabi, artist “daughter of the diaspora and the sea in between“, moves with the soundtrack by Amir Issa Non respiro (2020), leaving her poetry scattered between Via Cirenaica and Via Libia.

    “The past is here, insidious in our minds, and the future may have passed.

    The past is here, even if you forget it, even if you ignore it, even if you do everything to deny the squalor of what it was, the State that preserves the status of frontiers and jus sanguinis.

    If my people wanted to be free one day, even destiny would have to bend”.

    Cadigia Hassan shares the photos of her Italian-Somali family with a friend of hers and then goes to via Somalia, where she meets a resident living there who has never understood the reason behind the name of that street. That’s why Cadigia has returned to via Somalia: she wants to leave traces of herself, of her family history, of historical intertwining and to make visible the important connections that exist between the two countries.

    Ilaria Zorzan questions the colonial past through her Italo-Eritrean family photographic archive. The Italians in Eritrea made space, building roads, cableways, railways, buildings… And her grandfather worked as a driver and transporter, while her Eritrean grandmother, before marrying her grandfather, had been his maid. Ilaria conceals her face behind old photographs to reveal herself in Via Asmara through a mirror.

    Emmanuel M’bayo Mertens is an activist of the Arising Africans association. In the video we see him conducting a tour in the historic center of Padova, in Piazza Antenore, formerly Piazza 9 Maggio. Emmanuel cites the resolution by which the municipality of Padova dedicated the square to the day of the “proclamation of the empire” by Mussolini (1936). According to Emmanuel, fascism has never completely disappeared, as the Italian citizenship law mainly based on jus sanguinis shows in the racist idea of ​​Italianness transmitted ‘by blood’. Instead, Italy is built upon migration processes, as the story of Antenor, Padova’s legendary founder and refugee, clearly shows.

    Mackda Ghebremariam Tesfau’ questions the colonial map in Piazza delle Erbe where Libya, Albania, Ethiopia and Eritrea are marked as part of a white empire. She says that if people ignore this map it is because Italy’s colonial history is ignored. Moreover, today these same countries, marked in white on the map, are part of the Sub-saharan and Mediterranean migrant routes. Referring then to the bilateral agreements between Italy and Libya to prevent “irregular migrants” from reaching Europe, she argues that neocolonialism is alive. Quoting Aimé Césaire, she declares that “Europe is indefensible”.

    The video ends with Viviana Zorzato, a painter of Eritrean origin. Her house, full of paintings inspired by Ethiopian iconography, overlooks Via Amba Aradam. Viviana tells us about the ‘Portrait of a N-word Woman’, which she has repainted numerous times over the years. Doing so meant taking care of herself, an Afro-descendant Italian woman. Reflecting on the colonial streets she crosses daily, she argues that it is important to know the history but also to remember the beauty. Amba Alagi or Amba Aradam cannot be reduced to colonial violence, they are also names of mountains, and Viviana possesses a free gaze that sees beauty. Like Giorgio Marincola, Viviana will continue to “feel her homeland as a culture” and she will have no flags to bow her head to.

    The way in which Italy lost the colonies – that is with the fall of fascism instead of going through a formal decolonization process – prevented Italy from being aware of the role it played during colonialism. Alessandra Ferrini, in her ‘Negotiating amnesia‘,refers to an ideological collective amnesia: the sentiment of an unjust defeat fostered a sense of self-victimisation for Italians, removing the responsibility from them as they portrayed themselves as “brava gente” (good people). This fact, as scholars such as Nicola Labanca have explained, has erased the colonial period from the collective memory and public sphere, leaving colonial and racist culture in school textbooks, as the historian Gianluca Gabrielli (2015) has shown.

    This difficulty in coming to terms with the colonial past was clearly visible in the way several white journalists and politicians reacted to antiracist and feminist movements’ request to remove the statue of journalist Indro Montanelli in Milan throughout the BLM wave. During the African campaign, Montanelli bought the young 12-year-old-girl “Destà” under colonial concubinage (the so‑called madamato), boasting about it even after being accused by feminist Elvira Banotti of being a rapist. The issue of Montanelli’s highlights Italy’s need to think critically over not only colonial but also race and gender violence which are embedded in it.

    Despite this repressed colonial past, in the last decade Italy has witnessed a renewed interest stemming from bottom-up local movements dealing with colonial legacy in the urban space. Two examples are worth mentioning: Resistenze in Cirenaica (Resistances in Cyrenaica) in Bologna and the project “W Menilicchi!” (Long live Menilicchi) in Palermo. These instances, along with other contributions were collected in the Roots§Routes 2020 spring issue, “Even statues die”.

    Resistenze in Cirenaica has been working in the Cyrenaica neighbourhood, named so in the past due to the high presence of colonial roads. In the aftermath of the second world war the city council decided unanimously to rename the roads carrying fascist and colonial street signs (except for via Libya, left as a memorial marker) with partisans’ names, honouring the city at the centre of the resistance movement during the fascist and Nazi occupation. Since 2015, the collective has made this place the centre of an ongoing laboratory including urban walks, readings and storytelling aiming to “deprovincialize resistances”, considering the battles in the ex-colonies as well as in Europe, against the nazi-fascist forces, as antiracist struggles. The publishing of Quaderni di Cirene (Cyrene’s notebooks) brought together local and overseas stories of people who resisted fascist and colonial occupation, with the fourth book addressing the lives of fighter and partisan women through a gender lens.

    In October 2018, thanks to the confluence of Wu Ming 2, writer and storyteller from Resistenze in Cirenaica, and the Sicilian Fare Ala collective, a public urban walk across several parts of the city was organized, with the name “Viva Menilicchi!”. The itinerary (19 kms long) reached several spots carrying names of Italian colonial figures and battles, explaining them through short readings and theatrical sketches, adding road signs including stories of those who have been marginalized and exploited. Significantly, W Menilicchi! refers to Palermitan socialists and communists’ battle cry supporting king Menelik II who defeated the Italian troops in Aduwa in 1896, thus establishing a transnational bond among people subjected to Italian invasion (as Jane Schneider explores in Italy’s ‘Southern Question’: Orientalism in One Country, South Italy underwent a socio-economic occupation driven by imperial/colonial logics by the north-based Kingdom of Italy) . Furthermore, the urban walk drew attention to the linkage of racist violence perpetrated by Italians during colonialism with the killings of African migrants in the streets of Palermo, denouncing the white superiority on which Italy thrived since its birth (which run parallel with the invasion of Africa).

    These experiences of “odonomastic guerrillas” (street-name activists) have found creative ways of decolonising Italian history inscribed in cities, being aware that a structural change requires not only time but also a wide bottom-up involvement of inhabitants willing to deal with the past. New alliances are developing as different groups network and coordinate in view of several upcoming dates, such as February 19th, which marks the anniversary of the massacre of Addis Ababa which occurred in 1937 at the hands of Italian viceroy Rodolfo Graziani.

    References:
    Gabrielli G. (2015), Il curriculo “razziale”: la costruzione dell’alterità di “razza” e coloniale nella scuola italiana (1860-1950), Macerata: Edizioni Università di Macerata.
    Labanca, N. (2002) Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna: Il Mulino.
    Scego, I. (2014) Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Roma: Ediesse.
    Schneider J (ed.) (1998) Italy’s ‘Southern Question’: Orientalism in One Country, London: Routledge.

    https://archive.discoversociety.org/2021/02/06/rapid-response-decolonizing-italian-cities

    #décolonisation #décolonial #colonialisme #traces_coloniales #Italie #Italie_coloniale #colonialisme_italien #statues #Padova #Padoue #afro-descendants #Cadigia_Hassan #via_Somalia #Ilaria_Zorzan #Emmanuel_M’bayo_Mertens #Mackda_Ghebremariam_Tesfau #Piazza_delle_erbe #Viviana_Zorzato #Via_Amba_Aradam #Giorgio_Marincola #Alessandra_Ferrini

    ping @postcolonial @cede

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    ajouté à la métaliste sur l’Italie coloniale :
    https://seenthis.net/messages/871953

    • #Negotiating_Amnesia

      Negotiating Amnesia is an essay film based on research conducted at the Alinari Archive and the National Library in Florence. It focuses on the Ethiopian War of 1935-36 and the legacy of the fascist, imperial drive in Italy. Through interviews, archival images and the analysis of high-school textbooks employed in Italy since 1946, the film shifts through different historical and personal anecdotes, modes and technologies of representation.

      https://vimeo.com/429591146?embedded=true&source=vimeo_logo&owner=3319920



      https://www.alessandraferrini.info/negotiating-amnesia

      En un coup d’oeil, l’expansion coloniale italienne :

      #amnésie #film #fascisme #impérialisme #Mussolini #Benito_Mussolini #déni #héritage #mémoire #guerre #guerre_d'Ethiopie #violence #Istrie #photographie #askaris #askari #campagna_d'Africa #Tito_Pittana #Mariano_Pittana #mémoire #prostitution #madamato #madamisme #monuments #Romano_Romanelli #commémoration #mémoriel #Siracusa #Syracuse #nostalgie #célébration #Axum #obélisque #Nuovo_Impero_Romano #Affile #Rodolfo_Graziani #Pietro_Badoglio #Uomo_Nuovo #manuels_scolaires #un_posto_al_sole #colonialismo_straccione #italiani_brava_gente #armes_chimiques #armes_bactériologiques #idéologie

    • My Heritage ?

      My Heritage? (2020) is a site-specific intervention within the vestibule of the former Casa d’Italia in Marseille, inaugurated in 1935 and now housing the Italian Cultural Institute. The installation focuses on the historical and ideological context that the building incarnates: the intensification of Fascist imperial aspirations that culminated in the fascistization of the Italian diaspora and the establishment of the Empire in 1936, as a result of the occupation of Ethiopia. As the League of Nations failed to intervene in a war involving two of its members, the so-called Abyssinian Crisis gave rise to a series of conflicts that eventually led to the WW2: a ‘cascade effect’. On the other hand, the attack on the ‘black man’s last citadel’ (Ras Makonnen), together with the brutality of Italian warfare, caused widespread protests and support to the Ethiopian resistance, especially from Pan-African movements.

      Placed by the entrance of the exhibition Rue d’Alger, it includes a prominent and inescapable sound piece featuring collaged extracts from texts by members of the London-based Pan-African association International African Friends of Ethiopia - CLR James, Ras Makonnen, Amy Ashwood Garvey - intertwined with those of British suffragette Sylvia Pankhurst and Italian anarchist Silvio Corio, founders of the newspaper New Times and Ethiopian News in London.

      Through handwritten notes and the use of my own voice, the installation is a personal musing on heritage as historical responsibility, based on a self-reflective process. My voice is used to highlight such personal process, its arbitrary choice of sources (related to my position as Italian migrant in London), almost appropriated here as an act of thinking aloud and thinking with these militant voices. Heritage is therefore intended as a choice, questioning its nationalist uses and the everlasting and catastrophic effects of Fascist foreign politics. With its loudness and placement, it wishes to affect the visitors, confronting them with the systemic violence that this Fascist architecture outside Italy embodies and to inhibit the possibility of being seduced by its aesthetic.



      https://www.alessandraferrini.info/my-heritage

      #héritage

    • "Decolonizziamo le città": il progetto per una riflessione collettiva sulla storia coloniale italiana

      Un video dal basso in cui ogni partecipante produce una riflessione attraverso forme artistiche differenti, come l’arte figurativa, la slam poetry, interrogando questi luoghi e con essi “noi” e la storia italiana

      Via Eritrea, Viale Somalia, Via Amba Aradam, via Tembien, via Adua, via Agordat. Sono nomi di strade presenti in molte città italiane che rimandano al colonialismo italiano nel Corno d’Africa. Ci passiamo davanti molto spesso senza sapere il significato di quei nomi.

      A Padova è nato un progetto che vuole «decolonizzare la città». L’idea è quella di realizzare un video partecipativo in cui ogni partecipante produca una riflessione attraverso forme artistiche differenti, come l’arte figurativa, la slam poetry, interrogando questi luoghi e con essi “noi” e la storia italiana. Saranno coinvolti gli studenti del laboratorio “Visual Research Methods”, nel corso di laurea magistrale “Culture, formazione e società globale” dell’Università di Padova e artisti e attivisti afrodiscendenti, legati alla diaspora delle ex-colonie italiane e non.

      «Stavamo preparando questo laboratorio da marzo», racconta Elisabetta Campagni, che si è laureata in Sociologia a marzo 2020 e sta organizzando il progetto insieme alla sua ex relatrice del corso di Sociologia Visuale Annalisa Frisina, «già molto prima che il movimento Black Lives Matter riportasse l’attenzione su questi temi».

      Riscrivere la storia insieme

      «Il dibattito sul passato coloniale italiano è stato ampiamente ignorato nei dibattiti pubblici e troppo poco trattato nei luoghi di formazione ed educazione civica come le scuole», si legge nella presentazione del laboratorio, che sarà realizzato a partire dall’autunno 2020. «C’è una rimozione grandissima nella nostra storia di quello che ricordano questi nomi, battaglie, persone che hanno partecipato a massacri nelle ex colonie italiane. Pochi lo sanno. Ma per le persone che arrivano da questi paesi questi nomi sono offensivi».

      Da qui l’idea di riscrivere una storia negata, di «rinarrare delle vicende che nascondono deportazioni e uccisioni di massa, luoghi di dolore, per costruire narrazioni dove i protagonisti e le protagoniste sono coloro che tradizionalmente sono stati messi a tacere o sono rimasti inascoltati», affermano le organizzatrici.

      Le strade «rinarrate»

      I luoghi del video a Padova saranno soprattutto nella zona del quartiere Palestro, dove c’è una grande concentrazione di strade con nomi che rimandano al colonialismo. Si andrà in via Amba Aradam, il cui nome riporta all’altipiano etiope dove nel febbraio 1936 venne combattuta una battaglia coloniale dove gli etiopi vennero massacrati e in via Amba Alagi.

      Una tappa sarà nell’ex piazza Pietro Toselli, ora dedicata ai caduti della resistenza, che ci interroga sul legame tra le forme di resistenza al fascismo e al razzismo, che unisce le ex-colonie all’Italia. In Italia il dibattito si è concentrato sulla statua a Indro Montanelli, ma la toponomastica che ricorda il colonialismo è molta e varia. Oltre alle strade, sarà oggetto di discussione la mappa dell’impero coloniale italiano situata proprio nel cuore della città, in Piazza delle Erbe, ma che passa spesso inosservata.

      Da un’idea di Igiaba Scego

      Come ci spiega Elisabetta Campagni, l’idea nasce da un libro di Igiaba Scego che anni fa ha pubblicato alcune foto con afrodiscendenti che posano davanti ai luoghi che celebrano il colonialismo a Roma come la stele di Dogali, vicino alla stazione Termini, in viale Luigi Einaudi.

      Non è il primo progetto di questo tipo: il collettivo Wu Ming ha lanciato la guerriglia odonomastica, con azioni e performance per reintitolare dal basso vie e piazze delle città o aggiungere informazioni ai loro nomi per cambiare senso all’intitolazione. La guerriglia è iniziata a Bologna nel quartiere della Cirenaica e il progetto è stato poi realizzato anche a Palermo. Un esempio per il laboratorio «Decolonizzare la città» è stato anche «Berlin post colonial», l’iniziativa nata da anni per rititolare le strade e creare percorsi di turismo consapevole.

      Il progetto «Decolonizzare la città» sta raccogliendo i voti sulla piattaforma Zaalab (https://cinemavivo.zalab.org/progetti/decolonizzare-la-citta-dialoghi-visuali-a-padova), con l’obiettivo di raccogliere fondi per la realizzazione del laboratorio.

      https://it.mashable.com/cultura/3588/decolonizziamo-le-citta-il-progetto-per-una-riflessione-collettiva-sull

      #histoire_niée #storia_negata #récit #contre-récit

    • Decolonizzare la città. Dialoghi Visuali a Padova

      Descrizione

      Via Amba Alagi, via Tembien, via Adua, via Agordat. Via Eritrea, via Libia, via Bengasi, via Tripoli, Via Somalia, piazza Toselli… via Amba Aradam. Diversi sono i nomi di luoghi, eventi e personaggi storici del colonialismo italiano in città attraversate in modo distratto, senza prestare attenzione alle tracce di un passato che in realtà non è ancora del tutto passato. Che cosa significa la loro presenza oggi, nello spazio postcoloniale urbano? Se la loro origine affonda le radici in un misto di celebrazione coloniale e nazionalismo, per capire il significato della loro permanenza si deve guardare alla società contemporanea e alle metamorfosi del razzismo.

      Il dibattito sul passato coloniale italiano è stato ampiamente ignorato nei dibattiti pubblici e troppo poco trattato nei luoghi di formazione ed educazione civica come le scuole. L’esistenza di scritti, memorie biografiche e racconti, pur presente in Italia, non ha cambiato la narrazione dominante del colonialismo italiano nell’immaginario pubblico, dipinto come una breve parentesi storica che ha portato civiltà e miglioramenti nei territori occupati (“italiani brava gente”). Tale passato, però, è iscritto nella toponomastica delle città italiane e ciò ci spinge a confrontarci con il significato di tali vie e con la loro indiscussa presenza. Per questo vogliamo partire da questi luoghi, e in particolare da alcune strade, per costruire una narrazione dal basso che sia frutto di una ricerca partecipata e condivisa, per decolonizzare la città, per reclamare una lettura diversa e critica dello spazio urbano e resistere alle politiche che riproducono strutture (neo)coloniali di razzializzazione degli “altri”.

      Il progetto allora intende sviluppare una riflessione collettiva sulla storia coloniale italiana, il razzismo, l’antirazzismo, la resistenza di ieri e di oggi attraverso la realizzazione di un video partecipativo.

      Esso è organizzato in forma laboratoriale e vuole coinvolgere studenti/studentesse del laboratorio “Visual Research Methods” (corso di laurea magistrale “Culture, formazione e società globale”) dell’Università di Padova e gli/le artisti/e ed attivisti/e afrodiscendenti, legati alla diaspora delle ex-colonie italiane e non.

      Il progetto si propone di creare una narrazione visuale partecipata, in cui progettazione, riprese e contenuti siano discussi in maniera orizzontale e collaborativa tra i e le partecipanti. Gli/Le attivisti/e e artisti/e afrodiscendenti con i/le quali studenti e studentesse svolgeranno le riprese provengono in parte da diverse città italiane e in parte vivono a Padova, proprio nel quartiere in questione. Ognuno/a di loro produrrà insieme agli studenti e alle studentesse una riflessione attraverso forme artistiche differenti (come l’arte figurativa, la slam poetry…), interrogando tali luoghi e con essi “noi” e la storia italiana. I partecipanti intrecciano così le loro storie personali e familiari, la storia passata dell’Italia e il loro attivismo quotidiano, espresso con l’associazionismo o con diverse espressioni artistiche (Mackda Ghebremariam Tesfaù, Wissal Houbabi, Theophilus Marboah, Cadigia Hassan, Enrico e Viviana Zorzato, Ilaria Zorzan, Ada Ugo Abara ed Emanuel M’bayo Mertens di Arising Africans). I processi di discussione, scrittura, ripresa, selezione e montaggio verranno documentati attraverso l’utilizzo di foto e filmati volti a mostrare la meta-ricerca, il processo attraverso cui viene realizzato il video finale, e le scelte, di contenuto e stilistiche, negoziate tra i diversi attori. Questi materiali verranno condivisi attraverso i canali online, con il fine di portare a tutti coloro che sostengono il progetto una prima piccola restituzione che renda conto dello svolgimento del lavoro.

      Le strade sono un punto focale della narrazione: oggetto dei discorsi propagandistici di Benito Mussolini, fulcro ed emblema del presunto e mitologico progetto di civilizzazione italiana in Africa, sono proprio le strade dedicate a luoghi e alle battaglie dove si sono consumate le atrocità italiane che sono oggi presenze fisiche e allo stesso tempo continuano ad essere invisibilizzate; e i nomi che portano sono oggi largamente dei riferimenti sconosciuti. Ripercorrere questi luoghi fisici dando vita a dialoghi visuali significa riappropriarsi di una storia negata, rinarrare delle vicende che nascondono deportazioni e uccisioni di massa, luoghi di dolore, per costruire narrazioni dove i protagonisti e le protagoniste sono coloro che tradizionalmente sono stati messi a tacere o sono rimasti inascoltati.

      La narrazione visuale partirà da alcuni luoghi – come via Amba Aradam e via lago Ascianghi – della città di Padova intitolati alla storia coloniale italiana, in cui i protagonisti e le protagoniste del progetto daranno vita a racconti e performances artistiche finalizzate a decostruire la storia egemonica coloniale, troppo spesso edulcorata e minimizzata. L’obiettivo è quello di favorire il prodursi di narrazioni dal basso, provenienti dalle soggettività in passato rese marginali e che oggi mettono in scena nuove narrazioni resistenti. La riappropriazione di tali luoghi, fisica e simbolica, è volta ad aprire una riflessione dapprima all’interno del gruppo e successivamente ad un pubblico esterno, al fine di coinvolgere enti, come scuole, associazioni e altre realtà che si occupano di questi temi sul territorio nazionale. Oltre alle strade, saranno oggetto di discussione la mappa dell’impero coloniale italiano situata proprio nel cuore della città, in Piazza delle Erbe, e l’ex piazza Toselli, ora dedicata ai caduti della resistenza, che ci interroga sul legame tra le forme di resistenza al fascismo e al razzismo, che unisce le ex-colonie all’Italia.

      Rinarrare la storia passata è un impegno civile e politico verso la società contemporanea. Se anche oggi il razzismo ha assunto nuove forme, esso affonda le sue radici nella storia nazionale e coloniale italiana. Questa storia va rielaborata criticamente per costruire nuove alleanze antirazziste e anticolonialiste.

      Il video partecipativo, ispirato al progetto “Roma Negata” della scrittrice Igiaba Scego e di Rino Bianchi, ha l’obiettivo di mostrare questi luoghi attraverso narrazioni visuali contro-egemoniche, per mettere in discussione una storia ufficiale, modi di dire e falsi miti, per contribuire a dare vita ad una memoria critica del colonialismo italiano e costruire insieme percorsi riflessivi nuovi. Se, come sostiene Scego, occupare uno spazio è un grido di esistenza, con il nostro progetto vogliamo affermare che lo spazio può essere rinarrato, riletto e riattraversato.

      Il progetto vuole porsi in continuità con quanto avvenuto sabato 20 giugno, quando a Padova, nel quartiere Palestro, si è tenuta una manifestazione organizzata dall’associazione Quadrato Meticcio a cui hanno aderito diverse realtà locali, randunatesi per affermare la necessita’ di decolonizzare il nostro sguardo. Gli interventi che si sono susseguiti hanno voluto riflettere sulla toponomastica coloniale del quartiere Palestro, problematizzandone la presenza e invitando tutti e tutte a proporre alternative possibili.

      https://cinemavivo.zalab.org/progetti/decolonizzare-la-citta-dialoghi-visuali-a-padova

      https://www.youtube.com/watch?v=axEa6By9PIA&t=156s

    • Stanze – di Gianluca e Massimiliano De Serio – Videoinstallazione – Italia 2010

      Il diritto d’asilo calpestato, poesia civile sulle tracce delle “catene poetiche” della tradizione orale somala. E i muri, e le vicende, dell’ex caserma La Marmora di via Asti, a Torino, autentica «centrifuga» simbolica della storia d’Italia.

      «Quanto è sconnessa la terra sotto i miei piedi,/ quanto è vasta la sabbia,/ andavo avanti sballottato e dappertutto le dune si moltiplicavano».

      «Mi hanno preso le impronte, non sono più come i miei coetanei./ Mi hanno reso povero in tutto, sono senza prospettiva di vita qui in via Asti./ Chi ci ha respinto ci ha fatto restare sul marciapiede in mezzo a una strada, ci ha relegato a dormire lungo i muri./ Ci obbligano a tornare indietro,/ non possono capire che il trattato di Dublino è il colonialismo: a chi possiamo denunciarlo?».

      In Stanze si respira la vertigine deserto, si intuisce la fatica del viaggio. Si ascolta una madre che teme per il figlio emigrato. Si sente sotto i piedi la lastra nera del mare. Si impara che cosa sia il bisogno di fuggire da una terra invivibile, ma anche la disillusione per essere finiti in un Paese diverso da come lo si sognava. Si diventa testimoni della miseria e dell’indifferenza vissuti in Italia. E si è inchiodati alla denuncia: «Gli italiani non hanno mantenuto la promessa fatta», quella di un’accoglienza che dia un minimo di sostanza al diritto d’asilo concesso sulla carta.

      Nato come videoinstallazione, Stanze è stato girato con un gruppo di giovani rifugiati somali che sono stati “ospiti” degli spogli locali dell’ex caserma La Marmora di via Asti, a Torino. Le riprese, senza luce artificiale, si sono svolte in un’unica giornata ma la preparazione è durata mesi, in collaborazione con la mediatrice culturale e scrittrice Suad Omar. In questo «film di parola e non di azione» (è la definizione dei fratelli De Serio) gli attori, a turno, narrano le loro storie per circa un’ora, fermi davanti alla camera da presa, in versi somali con sottotitoli in italiano.

      La forma recupera e riattualizza il genere della “catena poetica” (una serie di liriche collegate fra loro, strumento di dibattito pubblico e politico nella tradizione orale della Somalia). Mentre, nei contenuti, la cronaca e la testimonianza si fanno poesia civile, con un’asprezza senza tempo che ricorda a tratti i salmi più scabri e le denunce più dure dei profeti dell’Antico Testamento.

      Una parte dei testi proposti dal gruppo di giovani rifugiati non si limitano alla situazione del diritto d’asilo ma “interpretano” anche la storia dell’ex caserma La Marmora, decifrando in quelle mura «una vera e propria centrifuga della storia italiana», come ricorda l’associazione di “mutuo soccorso cinematografico” Il Piccolo Cinema di Torino: «Fondata durante il primo periodo coloniale italiano nel corno d’Africa, la caserma è poi diventata sede, durante il fascismo, della Guardia nazionale repubblicana e vi si sono consumate torture e fucilazioni dei partigiani prigionieri». Da qui la ripresa in Stanze (stanze come strofe poetiche, stanze di mattoni) di alcuni stralci degli atti del processo che, nel 1946, vide alla sbarra alcuni fascisti che “lavorarono” in via Asti. Ancora Il Piccolo Cinema: «Nel film gli ex abitanti della caserma, attraverso un percorso di sdoppiamento storico ed esistenziale, si fanno carico della nostra stessa storia e delle sue mancanze».

      Prodotto per la prima edizione del “Premio Italia Arte Contemporanea” del Maxxi di Roma, Stanze ha ottenuto la menzione speciale della giuria «per l’uso innovativo del linguaggio filmico nel rappresentare la condizione umana di sofferenza e di oppressione che attraversa la nostra storia».

      Alcune scene e una presentazione del video da parte di Gianluca e Massimiliano De Serio sono presenti su You Tube: https://www.youtube.com/watch?v=GvWW0Ui7Nr0

      Il sito Internet dei fratelli De Serio è: www.gmdeserio.com
      https://viedifuga.org/stanze

    • Intervista a Gianluca e Massimiliano De Serio - Quella stanza fuori dall’Africa

      Quella stanza fuori dall’Africa Teresa Macri ROMA Incontro con i gemelli De Serio, menzione speciale della giuria per il Premio Italia Arte Contemporanea al Maxxi. «Abbiamo girato un film-catena poetica che recupera la tradizione orale somala, prima dell’avvento della scrittura. Nel nostro caso, la narrazione orchestrata dalla poetessa Suad Omar è declinata da alcuni rifugiati politici che interpretano le loro storie di esiliati» Gianluca e Massimiliano De Serio con il mediometraggio Stanze, si sono aggiudicati una menzione speciale da parte della giuria e una passione smodata da parte del pubblico. Sarebbe stato un esemplare epilogo se, nel catastrofico crinale italiano come quello che stiamo attraversando, la giuria avesse inviato un chiaro segno politico puntando sul loro film che riesce a coagulare paradigma storico, displacement, soggettività e funzione del linguaggio poetico attraverso i racconti di alcuni politici somali in Italia. Comunque sia i fratelli De Serio (Torino, 1978) sono stati appena premiati alla 28ma edizione di Torino Film Festival con il documentario Bakroman sui ragazzi di strada del Burkina Faso. Fin dal 1999, i gemelli indagano senza tregua e senza alcun rigurgito ideologico sui temi dell’identità culturale, «negoziata», fluida e in divenire nell’epoca tardo-capitalista, sui conflitti tra urbanità e minoranze etniche che stanno ridefinendo le nostre società occidentali. La loro è una ricerca «etica», indirizzata sullo scontro degli spazi sociali e sul disagio dell’estetica, nei confronti della politica. Una ricerca in con-trotendenza con l’immaginario simulacra-le così ripercorso dalla loro stessa I-Generation. Ragione dei numerosissimi riconoscimenti internazionali ricevuti finora: Nastro d’Argento per il miglior cortometraggio (2004), il festival di Edimburgo (2006), Oberhausen (2006), Stoccarda (2005), Vendó me (2005 e 2006) e, come miglior film italiano, per tre anni consecutivi al Tff. L’asserzione dell’artista Francis Alys «a volte fare qualcosa dl poetico può diventare politico e a volte fare qualcosa dl politico può diventare poetico» sembra descrivere li vostro film. Come è nata e si è sviluppata l’idea dl «Stanze»? Poesia e politica non sono per forza estranee. Al contrario. Cosl come l’estetica può veicolare un contenuto etico, il rapporto fra le due sfere deve essere il più coerente possibile. In particolare, Stanze è un lavoro che si sviluppa in entrambe le direzioni. E un film/catena poetica che recupera la tradizione orale somala prima dell’avvento della scrittura. La poesia era lo strumento di discussione etica e politica della società somala, con essa si creavano catene poetiche attraverso le quali si dibatteva: venivano apprese a memoria dalla società e servivano per un dibattito pubblico, sublimato dalla bellezza e dal rigore della metrica. Nel nostro caso, le poesie, create sotto la maestria della poetessa Suad Omar, sono declinate da un gruppo di rifugiati politici che interpretano le loro storie di esiliati e si fanno carico della nostra storia e delle nostre mancanze.
      «Stanze» è centrato sulle forme di potere autoritarie: dal colonialismo italiano In Africa al fascismo del ventennio fino all’attuale stato dl diritto discrezionale... Il film è un lento scivolare dalla diaspora dei somali all’inadeguatezza del nostro paese nell’accoglierli secondo le regole internazionali. Progressivamente, i rifugiati arrivano ad interpretare stralci del processo, del 1946 nella caserma di via Asti di Torino, in cui vennero condannate alcune guardie nazionali repubblicane fasciste, colpevoli di sevizie, di torture e uccisioni di numerosi partigiani (tutti amnistiati, creando in questo modo un vuoto storico e giudiziario). I somali, figli indiretti della nostra storia e delle colpe coloniali e fasciste e oggi rifiutati dalla nostra società, prendono la voce dei testimoni del processo, attuando una sorta di sdoppiamento storico ed esistenziale che incolpa prima di tutto l’Italia e ne riempie il vuoto morale e politico. I luoghi di ogni «stanza poetica» sono alcune sale della tremenda caserma di via Asti, che paradossalmente è stata un provvisorio posto di accoglienza di centinaia di rifugiati politici somali nel 2009, alcuni dei quali protagonisti del film. Lo sradicamento del soggetto post-coloMale è al centro delle vostre analisi sia In «Zakarla» che in «Stanze». In ciò conta molto l’humus torinese dove vivete? Torino è una città che ha visto nascere i movimenti di potere, ma anche di protesta e di avanguardia in Italia. E un luogo di spe:
      * rimentazione sociale dove si cerca di supplire alle mancanze del govemo in materia di rifugiati politici. Molte delle nostre storie nascono e si creano nel nostro quartiere o nella nostra città. Qui ha sede il Centro Studi Africani, dove ha avuto inizio la ricerca per realizzare Stanze. Il presidente, ora purtroppo scomparso, era Mohamed Aden Sheickh, ex ministro somalo che è stato sei anni in cella di isolamento sotto la dittatura di Siad Barre ed è a lui e ai rifugiati politici che dedichiamo il lavoro. Grazie a lui abbiamo incontrato Abdullahi, Suad Omar e tutti i rifugiati politici protagonisti. La necessità dl ritornare su accadimenti passati della storia Italiana (come II film dl Martone "Nol credevamo») è un meccanismo dl presa di coscienza del presente attraverso una di logica della memoria? Il nostro è un tentativo di creare una nuova immagine del presente, fuori da ogni formato e da ogni cliché, capace di farsi carica di significato e di aprirsi a riflessioni future e a ri-letture del passato, sotto una nuova estetica e rinnovati punti di vista. Stanze, per esempio, parte dalle storie della diaspora presente, dalle torture in Libia e dai respingimenti, dai non diritti dei rifugiati, che si perpetuano tutti i giorni tra Africa e Italia, fin dentro il nostro stesso paese. Questa diaspora ha radici profonde e interpella la nostra storia più nera, sconosciuta o opportunisticamente dimenticata, quella del colonialismo, degli eccidi in Somalia da parte degli italiani, delle colpe dei fascisti, mai pagate fino in fondo come ci insegna via Asti. C’è nella vostra ricerca una attenzione alla struttura metrica che stabilisce anche Il ritmo del film. II riferimento è alla catena poetica dl Stanze», alla rima del rappers in «Shade ? Da anni onnai lavoriamo sul tentativo, di volta di volta diverso, di creare una «nuova oralità». La trilogia dedicata a Shade era un lungo flusso di coscienza in freestyle, che abbandonava le classiche regole del genere per farsi nuova parola e immagine, icona, memoria di se stessa. In Stanze abbiamo spazializzato il suono, lo abbiamo reso scultura, capace di riflettersi su un’immagine aderente al concetto di catena poetica e in grado di farsi bella, perfetta, ipnotica, sia nella metrica e nel suono, ma anche nei colori e nelle luci. Solo così crediamo si possa restituire la dignità e il coraggio di mettersi in gioco dei nostri protagonisti: ognuno con i suoi strumenti, in un dialogo continuo che si fa scambio, dialettica, alleanza.
      PREMIO ITALIA ARTE Rossella Biscotti presenta il suo «Processo» dopo il 7 aprile L’artista Rossella Biscotti è la vincitrice della prima edizione del Premio Italia Arte Contemporanea, curato da Bartolomeo Pietromarchi e organizzato dal Mani per sostenere e promuovere l’arte italiana rigosamente under 40. «II Processo», realizzato dalla Biscotti (Molfetta, 1978, ma vive in Olanda) consta in una installazione molto formale di architetture residuali in cemento armato ispirate alla conversione logistica subita dalla razionalista palestra della scherma realizzata da Luigi Moretti al Foro Italico in aula bunker durante i processi politici degli anni di piombo, tra cui quelli legati al caso Moro. Parallelamente e più pregnantemente un audio, disseminato nel museo, invia le registrazioni del famoso processo .7 Aprile». A colpire la giuria è stata «l’intensità del lavoro e il forte legame che l’artista ha saputo costruire fra l’architettura del museo e quella dell’opera». L’installazione sarà acquisita dal Marci e verrà pubblicata una monografia dell’artista. Tre gli altri finalisti in lizza: Rosa Barba (Agrigento, 1972) con il suo museo nascosto» nei depositi; Piero Golia (Napoli 1974) che cerca di confondere lo spettatore spostando continuamente il punto di vista, e i gemelli De Serio, menzione speciale per il loro mediometraggio «Stanze».

      https://archive.ph/Ob2nj#selection-68.0-68.2

    • Italy’s De Serio Brothers on CineMart-Selected Colonial-Era Drama ‘Prince Aden’ (EXCLUSIVE)

      Gianluca and Massimiliano De Serio, the Italian directing duo best known internationally for their Locarno premiere “Seven Acts of Mercy,” are developing a colonial-era drama that they’re presenting during the Rotterdam Film Festival’s CineMart co-production market.

      “Prince Aden” begins in 1935, when a 16-year-old Somali boy passes the test to become a dubat, a soldier in the Italian army that has invaded Ethiopia on the orders of Mussolini. Aden Sicré is sent to the frontlines, but after being injured on his first day of service he’s forced to return home – where he is unexpectedly hailed as a war hero by the Fascist regime.

      Five years later, Aden is recruited to take part in a recreation of the daily life of an African village at the newly built Mostra d’Oltremare exhibition center in Naples. But when Italy enters the Second World War, the “human zoo” suddenly closes, stranding Aden and the other African inhabitants for three years as Allied bombs destroy the city around them.

      Inspired by the book “Partigiani d’Oltremare,” by the Italian historian Matteo Petracci, the film follows the unexpected turns in the years after, as Aden and other African fighters play a pivotal role in the partisan struggle against fascism in Europe, and the would-be shepherd is hailed as the film’s titular prince.

      “Prince Aden” sheds light on an “unknown story” that helped shape the course of Italy in the 20th century, according to Gianluca. Yet it’s a story that’s become increasingly relevant against the backdrop of modern-day Europe.

      “We found that this story is not so far from those of thousands of young people who leave their homeland and come to Italy and Europe to find a new life today,” he said. “There is a kind of mirror” with current events.

      Massimiliano said that “this story is a contemporary story, not only a story of our recent past,” which reflects how events between the colonial era and the present day are connected.

      “We need to talk about not only our origin [as colonizers and fascists], but also we need to talk about the importance of Africa to our story, and also the importance of the Italian story to the African one,” he added. “The film will not only be a film about colonialism, because everything starts from there, but also about post-colonialism.”

      The De Serio Bros. addressed similar topics in their 2010 film installation “Stanze” (Rooms) (pictured), which looked at issues of colonialism, post-colonialism and their consequences on the condition of migrants today.

      Central to “Prince Aden” will be an interrogation of the ways in which the Fascist regime exploited the image of its young African hero for its own purposes. The brothers will also examine the role played by the Mostra d’Oltremare, as well as the Italian film industry, in promoting the propaganda of the Fascist government, raising questions of how history is staged and narratives framed.

      It’s a timely subject in an era when previously marginalized voices across the world are struggling to reclaim their own stories. Massimiliano noted how an increasing number of young Italian writers, artists and musicians with African roots have in recent years begun to produce art that echoes their own experiences as second- and third-generation Italians.

      However, he said, “there is not a real debate in Italy’s culture about our colonialism and the ashes of this colonialism after the ‘60s” similar to how the Black Lives Movement has cast fresh light on race history in the U.S.

      That lack of accountability or reflection extends to cinema, which “didn’t really face up to colonialism” after the fall of the fascist regime, Massimiliano said. That, in turn, has had a profound effect on Italian culture today.

      “Cinema works with images. It gives visibility to something, and it hides something else,” said Gianluca. “For us, cinema is a responsibility…. It’s a choice. It’s close to the work of archaeologists: going under the surface and looking for pieces of our identity that are hidden not only in the past, also in the present.”

      The De Serio Brothers’ debut feature, “Seven Acts of Mercy,” made a splash on the festival circuit after premiering in competition in Locarno in 2011. The brothers later premiered in the Venice Film Festival in 2016 with the documentary “River Memories,” about one of the largest shanty towns in Europe. Two years ago, they bowed “The Stonebreaker,” starring “Gomorrah’s” Salvatore Esposito, in the festival’s Venice Days strand.

      “Prince Aden” is produced by Alessandro Borrelli for La Sarraz Pictures. As the filmmakers search for potential co-producing partners during CineMart, Massimiliano stressed that their film is inherently a “European project” that is “important for Europe.”

      “We are the doors of Europe in the Mediterranean today,” he said, “and I think that this project could be a way for Europe to understand better the European roots that are not only the European, Christian roots, but also the roots of our tragic and somehow also beautiful links [and] violent links with Africa. The film will be violent and tender at the same time.”

      https://variety.com/2022/film/global/rotterdam-cinemart-de-serio-brothers-prince-aden-1235167410

    • La macabra storia dell’ex Caserma La Marmora di Torino

      Ormai in disuso, la vecchia Caserma La Marmora dal ’43 al ’45 fu luogo di detenzione e di tortura, dove persero la vita molti italiani.

      Al giorno d’oggi, al civico numero 22 di via Asti a a Torino si trova l’ex #Caserma_Dogali, ora Caserma La Marmora.

      La struttura militare fu il centro di terribili atti di tortura e fucilazione durante il Secondo conflitto mondiale.

      Alle origini, la caserma di via Asti divenne la sede di un Reggimento di fanteria.

      Costruita dal 1887 al 1888, il progetto della struttura fu opera del capitano del Genio, #Giuseppe_Bottero.

      Inizialmente, all’inaugurazione si scelse il nome di caserma “Dogali” di Torino (solo in futuro poi prenderà il nome “La Marmora”).

      Questa denominazione in particolare, richiama l’infausta battaglia di Dogali, la quale ebbe luogo in corrispondenza della costruzione dell’edificio.

      Al tempo, il corpo si spedizione italiano era impegnato nel Corno d’Africa, in Eritrea, per portare avanti le pretese coloniali del governo #Depretis.

      Risaputa è la sconfitta dell’esercito italiano, che proprio durante la battaglia di Dogali del 26 gennaio del 1887 venne piegato da un’impensabile esercito etiope.

      La disfatta coprì di vergogna l’Italia agli occhi delle potenze mondiali.

      In seguito, il ministro Depretis diede le dimissioni a distanza di poche settimane.

      Indubbiamente, il catastrofico evento generò clamore in tutta la penisola.

      Nel capoluogo piemontese si prese la decisione di intitolare una via con il nome del tenente colonnello Tommaso De Cristoforis, casalese di origini che perse la vita durante la campagna africana.

      Mentre, invece la nuova caserma prese il nome dell’infima battaglia.

      Come primo impiego militare, si ospitarono al suo interno due reggimenti di fanteria.

      Mentre dal luglio del 1912, fu sede del comando del Battaglione Aviatori della neo-aeronautica militare italiana.

      Nel 1920, su richiesta dell’Alto Comando militare, la caserma ospitò un reggimento di Bersaglieri, il IV.

      Mentre l’anno successivo cambiò nome, diventando Caserma “La Marmora”, in onore di #Alfonso_La_Marmora, generale e politico de Regno di Sardegna, ideatore dell’unità dei bersaglieri.

      Purtroppo, nel 1943 la Caserma La Marmora divenne il centro di terribili avvenimenti.

      Dopo l’armistizio dell’ 8 settembre 1943, i partigiani, grazie all’appoggio degli alleati, misero a ferro e fuoco il Piemonte.

      Così si decise di riconvertire la caserma come quartier generale dell’#Ufficio_Politico_Investigativo (l’#Upi).

      Sotto la gestione della #Guarda_Nazionale della neo-nata #Repubblica_Sociale.

      Il nuovo incarico era quello di reprimere ed eventualmente annichilire ogni forma di lotta clandestina partigiana, con ogni maniera necessaria.

      Nelle camere della caserma, sotto il comando del colonnello #Giovanni_Cabras e del maggiore #Gastone_Serloreti, si rinchiudevano e si interrogavano i partigiani catturati.

      Gli interrogatori venivano portati avanti attraverso spietate torture psicologiche e fisiche.

      Che si concludevano con la fucilazione o con la deportazione in Germania dei ribelli, in accordo con i nazisti.

      Tra la notte del 27 e del 28 gennaio però, un’incursione partigiana, comandata da #Livio_Scaglione, riuscì ad occupare la caserma e liberare i prigionieri.

      Con la fine della guerra, l’ex struttura militare cadde inevitabilmente nella desuetudine, che continua fino ai giorni nostri.

      Tuttavia nel 1962, in ricordo degli eroi che persero la vita, venne posta una lapide nella caserma, esattamente nel luogo in cui avvennero le esecuzioni.

      https://mole24.it/2021/05/05/la-macabra-storia-dellex-caserma-la-marmora-di-torino
      #partisans

  • #Guerriglia_odonomastica: una rivolta contro i nomi che abitiamo, per conoscere le nostre città

    Cos’è la «guerriglia odonomastica»? Su Giap, negli ultimi anni, abbiamo fatto diversi esempi. Si tratta di azioni e performances il cui scopo è reintitolare dal basso vie e piazze delle nostre città – o aggiungere informazioni ai loro nomi per cambiare senso all’intitolazione.

    Una via può essere reintitolata alla luce del sole, durante cortei o altre iniziative pubbliche, oppure col favore delle tenebre, a opera dei «soliti ignoti» o «solite ignote».

    I nomi di vie e piazze – tecnicamente, gli «odonimi» – sono simboli, ma spesso sono anche sintomi. Sintomi di malattie che affliggono la memoria pubblica, sindromi causate dalla cattiva coscienza, da rimozioni e ipocrisie, da un mancato fare i conti col passato.

    Nelle nostre città e paesi abbondano gli odonimi che celebrano il fascismo e il colonialismo, celebrano crimini politici, coloniali e di guerra. Odonimi razzisti, nomi che omaggiano gli oppressori e glorificano l’oppressione. È su questi che si sono concentrati gli interventi recenti. Su Giap abbiamo raccontato dei progetti Resistenze in Cirenaica (Bologna) e Viva Menilicchi! (Palermo).

    Cambiare i nomi che abitiamo è cambiare il modo in cui pensiamo alla città. Attirando improvvisamente l’attenzione sul senso del nome di una via o piazza, la guerriglia odonomastica ci addestra a non dare per scontato il luogo stesso. Non dandolo per scontato, cominciamo a riappropriarcene.

    Quanto conosciamo le nostre città?

    Uno dei più celebri passi di Furio Jesi è tratto dal suo scritto postumo Spartakus. Simbologia della rivolta, terminato il 12 dicembre 1969 – poche ore prima della strage di Piazza Fontana – e uscito soltanto nel 2000:

    «Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’haut-lieu e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli altri; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città.»

    Jesi si riferiva tanto alla rivolta spartachista nella Berlino del 1919, di cui ricorreva il cinquantennale, quanto alle sommosse urbane del 1968 e dintorni, che erano parte della sua esperienza.

    La pratica del conflitto insegna a non fuggire in modo prevedibile, e quindi a esplorare lo spazio urbano, a scoprire nuovi luoghi e nuovi tragitti. È quello che Belbo insegna a Casaubon nel capitolo 15 de Il pendolo di Foucault di Umberto Eco:

    «Mi trovai a fuggire per via Larga […] Sull’angolo di via Rastrelli, Belbo mi afferrò per un braccio: “Per di qua, giovanotto”, mi disse. Tentai di chiedere perché, via Larga mi pareva più confortevole e abitata, e fui preso da claustrofobia nel dedalo di viuzze tra via Pecorari e l’Arcivescovado. Mi pareva che, dove Belbo mi stava conducendo, mi sarebbe stato più difficile mimetizzarmi nel caso che la polizia ci venisse incontro da qualche parte. Mi fece cenno di stare zitto, girò due o tre angoli, decelerò gradatamente, e ci trovammo a camminare, senza correre, proprio sul retro del Duomo, dove il traffico era normale e non arrivavano echi della battaglia che si stava svolgendo a meno di duecento metri […] “Vede, Casaubon,” mi disse allora Belbo,”non si scappa mai in linea retta […] Quando si partecipa a un raduno di massa, se non si conosce bene la zona il giorno prima si fa una ricognizione dei luoghi, e poi ci si colloca all’angolo da dove si dipartono le strade più piccole.”»

    Impossibile non pensare a tutto questo vedendo che in Francia, dopo settimane di rivolte, l’intelligenza collettiva ha inventato MediaManif, applicazione per smartphone che si appoggia a OpenStreetMap ed è stata subito chiamata «il Waze degli scontri». Come spiega il sito lundi.am, MediaManif è

    «una mappa interattiva del mondo e dunque di ogni città, ogni via, ogni rotatoria sulla quale è possibile segnalare la presenza di gruppi più o meno significativi di gilet gialli, ma anche degli immediati pericoli che ogni cittadino potrà quindi schivare o aggirare. Chi non vorrebbe, in questi tempi agitati, poter attraversare la sua città evitando le nubi di lacrimogeni?»

    La cartografia della sommossa e la guerriglia odonomastica hanno in comune l’intento di riscoprire la città a uso del conflitto e dunque della vera vita, oltre la mera sopravvivenza, il tran tran, i tragitti soliti, l’uso passivo dello spazio urbano.

    Non è casuale che la guerriglia odonomastica porti a scoprire le rivolte urbane del passato. Il progetto Viva Menilicchi! prende il nome dal grido che socialisti e anarchici lanciarono a Palermo il 2 marzo 1896, durante una protesta contro la guerra d’Abissinia che sfociò in cariche di polizia, scontri e arresti.

    Ecco, queste note servono a introdurre un importante testo di Mariana E. Califano, pubblicato sul blog di Resistenze in Cirenaica.

    Si intitola Della guerriglia odonomastica ed è la riflessione più approfondita uscita sinora su questi temi.

    https://www.wumingfoundation.com/giap/2018/12/guerriglia-odonomastica
    #guerrilla_toponymique #toponymie #Italie #toponymie_politique #guérilla_odonymique

    • Guerriglia Odonomastica

      […] Non ho altra malattia che le mura del campo attorno. Le nere guardie. Il filo spinato che ci separa dalla strada del ritorno.

      ‘Canto del campo di al-‘Aqila’ di Rajab Bu-Huwayish

      La necessità di comunicare ci ha portato ad assegnare nomi a cose, oggetti, concetti e luoghi che abbiano un significato condiviso e questo naturalmente vale anche per le strade. Quando nel medioevo si rogava l’acquisto di un immobile, i notai dovevano annotare dove si trovasse. Per farlo, esso veniva identificato attraverso i luoghi confinanti. I nomi di questi luoghi venivano codificati solo nell’uso comune di cui erano oggetto: per esempio tutti sapevano dov’era il Trivio di Porta Ravegnana, l’attuale piazza di Porta Ravegnana, attraverso la quale, percorrendo la strada San Vitale, si raggiungeva – e si raggiunge tuttora – Ravenna.

      Se avete preso un taxi in Giappone saprete che da quelle parti le cose funzionano ancora più o meno così… ma qui, la necessità di dare stabilità a un’odonomastica tramandata oralmente ha portato alla produzione di documenti che descrivono le vie della città attraverso i loro nomi.

      Da qualche anno l’Università di Tor Vergata ha istituito un laboratorio internazionale di onomastica (LIOn) a cui lavorano glottologi, linguisti, dialettologi e altri esperti. Tra i vari progetti portati a termine c’è anche un censimento a tappeto dello stradario nazionale.

      MA CHE COS’È L’ODONOMASTICA?

      L’odonomastica è lo studio storico-linguistico dei nomi delle aree di comunicazione di un centro urbano, delle sue vie e delle sue piazze (dal greco hodós, via, strada e onomastikòs, onomastica: studio dei nomi propri, delle loro origini e dei processi di denominazione nell’ambito di una o più lingue o dialetti).

      Si tratta di un ambito più ristretto e specifico della toponomastica (dal greco tòpos, luogo e onomastikòs), che si occupa dello studio storico-linguistico dei nomi dei luoghi geografici. L’odonomastica, in breve, è la toponomastica stradale.

      COSA CI DICONO I NOMI DELLE STRADE?

      I nomi delle vie, delle piazze e dei vicoli raccontano la storia di un paese, perché nella maggioranza dei casi ricordano luoghi, fatti e personaggi.

      Un tempo le strade portavano i nomi delle famiglie che ci abitavano o possedevano proprietà in loco come via de’ Castagnoli o piazza de’ Calderini; dei mestieri e delle botteghe che le animavano come via dei Falegnami, via degli Orefici o via Calzolerie. In altri casi le vie dovevano i loro toponimi ai santi ai quali le chiese erano dedicate come via Santo Stefano o alle caratteristiche del paesaggio come nel caso di via Frassinago e via Nosadella per i frassini e i noci.

      Si racconta poi che alcune vie debbano i loro nomi a usi più triviali, come via Centotrecento per le tariffe del quarto d’ora di piacere che un tempo ci si poteva concedere da quelle parti o via Ca’ Selvatica in cui, nel 1521, vennero trasferite le meretrici.

      Dopo l’Unità d’Italia e sul finire dell’Ottocento prese piede l’uso di intitolare le vie a personaggi di rilievo come Luigi Zamboni, protomartire del Risorgimento italiano che a Bologna nel 1794 guidò una sommossa contro lo Stato Pontificio e morì in una cella nota come Inferno nelle carceri del Torrone.

      All’epoca si diffuse anche l’uso di intitolare le strade a eventi storici come il XX Settembre che ricorda la presa di Roma, la famosa breccia di Porta Pia, il nodo gordiano risorgimentale che sancì la fine dello Stato Pontificio e l’annessione della futura capitale al Regno d’Italia.

      PERCHÉ GLI ODONIMI RIPORTANO NOMI, DATE O SIMBOLI?

      La tendenza che prese piede dopo l’Unità d’Italia di chiamare le vie con date di fatti storici importanti o con nomi di personaggi illustri deriva, palesemente, dal bisogno di ‘fare gli italiani’. In questo paese, gli odonimi contribuirono – e contribuiscono – alla costruzione dell’identità nazionale, carattere intimamente legato alla storia di un popolo e, pertanto, in continua trasformazione.

      Si rende omaggio a patrioti, letterati, scienziati, ecc. che si sono distinti in grandi imprese o si ricordano determinati momenti storici per costruire, imporre o consolidare un racconto che si vuole sia o divenga collettivo e condiviso.

      Sappiamo bene, però, che la memoria collettiva è la memoria di un determinato gruppo di appartenenza, un gruppo ristretto rispetto all’insieme della popolazione.

      A Bologna la riuscita dell’impresa coloniale in Tripolitania e Cirenaica venne celebrata nel 1913 con la delibera del Consiglio Comunale che approvava gli odonimi via Tripoli, via Bengasi, via Libia, via Due Palme, ecc. per il reticolo di strade fuori porta comprese tra via San Donato e via San Vitale.

      Nel 1938, in pieno ventennio fascista invece venne edificato il Villaggio della Rivoluzione, un quartiere nato per ospitare le famiglie dei caduti, dei feriti e dei mutilati per la causa della rivoluzione fascista e le strade presero i nomi dei simboli del regime. Così fecero capolino via delle Camicie Nere, via dello Squadrista, via del Legionario.

      Colonialismo e fascismo non finirono con la Liberazione e continuano a vivere negli spazi costruiti, negli usi di quegli spazi, nei significati e in quell’insieme attraverso il quale il potere politico – e simbolico – si esprime nella vita quotidiana di una città.

      Nel caso del rione Cirenaica, per esempio, la celebrazione del colonialismo persiste tuttora in via Libia che né il trattato di Pace del 1947 che privava l’Italia delle sue colonie né l’approvazione della proposta della Commissione Consultiva per la denominazione delle vie del 1949 riuscirono o vollero modificare.

      GLI ODONIMI COME LUOGHI DELLA MEMORIA

      L’espressione ‘luoghi della memoria’ rimanda a una pluralità di situazioni e significati la cui indagine consente una pluralità di approcci.

      Sono luoghi della memoria Porta Lame a Bologna, dove il 7 novembre 1944 i partigiani della 7ª GAP combatterono un’importante battaglia o il parco storico di Monte Sole, il colle dove i nazisti compirono una feroce strage tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944.

      Anche i nomi delle vie sono ‘luoghi della memoria’ come via Caduti di Amola: una frazione di S. Giovanni in Persiceto in cui Il 5 dicembre 1944 le SS e i paracadutisti della divisione Göring, grazie ai fascisti locali, circondarono il rifugio dei partigiani della 63^ brigata Bolero Garibaldi e rastrellarono circa trecento persone. Molti di loro vennero fucilati a Sabbiuno del Monte a Paderno, mentre altri furono trasferiti al lager di Bolzano e da lì deportati a Mauthausen.

      Un luogo della memoria non è solo un luogo fisico ma, come spiega lo storico Mario Isnenghi, può contenere dati materiali e simbolici, richiamare eventi o figure e partecipare al consolidamento e alla diffusione di miti e riti collettivi.

      I luoghi della memoria indicano chi e cosa ricordare, sono il riflesso dell’anima di un paese, della sua comunità. L’odonomastica quindi è uno dei tanti specchi in cui il paese e la sua storia si riflettono, sono ‘supporti memoriali’ – come li definisce la professoressa Patrizia Violi – di un passato che si vuole tramandare.

      POLITICHE DELLA MEMORIA E DELL’OBLIO E TRASFORMAZIONI DELL’IDENTITA’ NAZIONALE.

      La memoria è una narrazione con carattere retrospettivo e a livello soggettivo seleziona e assimila ciò che ha senso in funzione del proprio presente e del proprio futuro.

      Questo vale anche per la memoria istituzionale, costruita dallo Stato e dal governo in carica. La sostanziale differenza è che nel caso della memoria istituzionale si tratta di memoria che diventa Storia e che viene trasmessa alle generazioni future attraverso l’educazione scolastica. La storia da tramandare è, pertanto, il risultato di una scelta politica e il revisionismo, per esempio, è uno dei vari strumenti con il quale l’avvicendarsi di governi di diversi orientamenti cercano di modificare le interpretazioni ormai consolidate dei più importanti avvenimenti storici per mitigare le memorie in conflitto, sopratutto in relazione al fascismo, alla Resistenza e alla shoah.

      Sempre Isnenghi, intervistato da Barbara Bertoncin nel 2016 a proposito dell’opportunità di fare un museo nella casa del fascio di Predappio, ci ricorda che «Nel ’45 molte di queste case del fascio sono diventate case del popolo, come a suo tempo le case del popolo erano diventate case del fascio; questo fa parte della guerriglia politica. Nelle nostre città, che lo sappiamo o no, ci aggiriamo continuamente fra le macerie di antiche guerriglie politiche, guerre semiologiche in cui gli ex conventi sono stati espropriati dal benemerito Napoleone e sono diventate caserme o scuole, magari intitolandosi a Giordano Bruno o a Paolo Sarpi o a Galileo Galilei, all’interno cioè di una lotta dello stato laico contro la tradizione clericale. Questo è fisiologico. Naturalmente spetta poi agli storici contribuire alla costruzione di una coscienza pubblica diffusa di questo processo dentro cui molti nostri concittadini si possono aggirare senza averne piena coscienza, così come ci aggiriamo in una nomenclatura viaria che via via perde di significato. Un mucchio di gente certamente si aggira nelle vie Battisti senza sapere chi fosse, confondendolo col cantante o peggio.»

      Se ci fosse qualche improbabile dubbio, ricordiamo che le strade sono intitolate a Cesare Battisti, il politico socialista e irredentista che si batté per l’autonomia del Trentino dall’Impero austro-ungarico e che durante la Grande guerra si arruolò come volontario negli alpini. Catturato dall’esercito austriaco, fu processato e impiccato per alto tradimento.

      La scelta di chi o cosa ricordare comporta di conseguenza la decisione di chi o cosa dimenticare. Le politiche della memoria e dell’oblio dunque hanno un ruolo determinante nella costruzione dell’identità nazionale, intesa come progetto in divenire.
      In History as Social Memory, lo storico britannico Peter Burke ricorda che la parola ‘amnesia’ è etimologicamente imparentata con la parola ‘amnistia’ (dal greco amnestía cioè oblio e questo da amnestèo cioè dimenticare: da A negativo e dalla radice mnéme, memoria) e che l’‘amnistia’ è un atto di oblio volontario e al tempo stesso una cancellazione ufficiale della memoria.

      La delibera del Consiglio Comunale di Bologna del 1949 segnò un cambio d’indirizzo, in tutti i sensi: il racconto condiviso dalla collettività non doveva più celebrare i luoghi del colonialismo fascista, ma onorare gli uomini che avevano contribuito a liberare la città dall’occupante.

      Così i nomi delle strade della Cirenaica cambiarono e oggi ricordano alcuni partigiani: via Tripoli divenne via Paolo Fabbri, via Bengasi divenne via Giuseppe Bentivogli, via Zuara prese il nome di via Massenzio Masia, via Due Palme quello del comandante Lupo, Mario Mussolesi, ecc.

      L’odonimo di #via_Libia, invece, rimase immutato.

      Perché? Cosa si è scelto di ricordare e cosa si è pensato di cancellare? La risposta più ovvia sembra riguardare l’intenzione di condannare il colonialismo di stampo fascista, ma non il colonialismo in tutte le sue espressioni, visto che le aspirazioni di ottenere il proprio posto al sole dell’Italia risalgono agli anni che seguono l’Unità e l’occupazione della Libia al finire dell’età giolittiana.

      Uno dei problemi più importanti delle società contemporanee è quello d’imparare a elaborare il passato nel rispetto di quell’etica che si trova alla radice di storia e memoria.

      Come sostiene Paolo Jedlowski nell’introduzione a Memoria e storia: il caso della deportazione di Anna Rossi-Doria: «[…] Ricordare è infatti serbare traccia non solo di ciò che genericamente ‘è stato’, ma anche e sopratutto di ciò che siamo stati: per questa via è accrescimento della consapevolezza di sé. La consapevolezza è responsabilità nel senso etimologico del termine: capacità di rispondere dei nostri atti; ricordare ciò che siamo stati serve a assumere la responsabilità di ciò che abbiamo compiuto… Ricordare i torti che abbiamo subito è cosa da poco: ma la memoria e la storia mostrano tutta la loro carica etica quando ricordiamo i torti che abbiamo inflitto.»

      DI ODONIMI DISCUTIBILI E DI STRUMENTI CHE FANNO CILECCA

      A nessuno verrebbe in mente di rispolverare i nomi delle vie del Villaggio della Rivoluzione perché renderebbe evidente il reato di apologia del fascismo da cui la Legge Scelba (legge n. 645 del 20 giugno 1952) cercò di tutelarci. Senza molto successo, verrebbe da aggiungere, data la diffusione del saluto romano e di altre amenità nelle sempre più frequenti manifestazioni neofasciste.

      Isnenghi ci viene ancora una volta in aiuto fornendoci una spiegazione del perché la sola legge non potè né può tutelarci.

      «… il Movimento Sociale c’era ed era anche un partito in grado di accogliere un bel po’ di voti. Teoricamente la Costituzione non avrebbe permesso l’esistenza di un simile partito; di fatto era così grosso che sarebbe stato un bel problema politico concretizzare il discorso giuridico costituzionale e metterlo fuorilegge.

      «Tant’è vero che nel secondo dopoguerra non mancavano le forze (oltreoceano, ma anche all’interno del paese) che casomai avrebbero preferito mettere fuorilegge il PCI e non il MSI [il Movimento Sociale Italiano confluito poi in Alleanza Nazionale]. Così stavano realisticamente le cose.

      «Stando così le cose, si capisce che anche le sinistre antifasciste abbiano infine accettato questo tran tran parlamentare, purché il MSI se ne stesse nelle sue ridotte.»

      La proibizione per legge del neofascismo fu un provvedimento che si rivelò puramente di facciata, una strategia che finì per deludere le aspettative di molti perché a decidere furono i rapporti di forza e gli accomodamenti tra partiti.

      Ma quanto è diffusa l’intitolazione di vie a personaggi e luoghi che celebrano il fascismo o il colonialismo? Per farsene un’idea basta realizzare una ricerca in rete.

      Prendiamo, per esempio, la recente diatriba sull’intitolazione di una via di Roma a Giorgio Almirante, senza dimenticare che di vie a lui dedicate ne esistono a Foggia, Agrigento, Aversa, Fiumicino, Molfetta, Lecce, Trani, San Severo, Rieti, Francavilla Fontana, Viterbo e solo per citarne alcune.

      Ma chi era costui? Basti ricordare che aderì al fascismo quando era ancora un liceale e non rinnegò mai la sua lealtà al regime e al Duce. Nel 1938 fu tra i firmatari del Manifesto della razza e collaborò alla rivista La difesa della razza come segretario di redazione.

      Allo scoppio della Seconda guerra mondiale ottenne una promozione come corrispondente di guerra e partì per la Libia al seguito della Divisione 23 marzo delle Camicie Nere, una divisione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale che scelse il nome del giorno della fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento, avvenuta per l’appunto il 23 marzo 1919.

      Nel 1944 aderì alla RSI, dove ricoprì la carica di capo gabinetto del ministero della Cultura Popolare e firmò un manifesto ritrovato negli archivi di Massa Marittima in cui ordinava di passare per le armi i renitenti alla leva della Repubblica di Salò.

      Nel dopoguerra partecipò alla riunione costitutiva del MSI di cui fu segretario e nel 1972 fu accusato di voler ricostituire il partito fascista, mentre nel 1986 fu rinviato a giudizio per favoreggiamento aggravato verso i due terroristi di Ordine Nuovo colpevoli della strage di Peteano e poi venne amnistiato.

      Dopo aver ricordato chi era Giorgio Almirante, sorge spontaneo domandarsi: chi vorrebbe intitolargli una via? E la risposta più ovvia potrebbe essere: un fascista, un neofascista, uno stragista. Allora com’è possibile che diversi politici avanzino proposte di questo genere? Non possiamo certo dire che si tratti di stragisti o terroristi neri.

      La risposta va cercata altrove.

      Come abbiamo accennato, oltre a essere un provvedimento generale di clemenza con cui lo Stato rinuncia alla punizione di un determinato numero di reati, l’amnistia è un atto di oblio volontario e al tempo stesso una cancellazione ufficiale della memoria.

      La proposta di intitolazione di una via a Giorgio Almirante non lascia alcun dubbio sul potere amnesico dell’amnistia.

      È proprio nell’ambito di ciò che è stato dimenticato, scordato, obliato, rimosso, che si gioca un’importante battaglia politica, in cui gli odonimi rappresentano solo uno dei tanti indicatori dello stato delle cose e cioè dell’affermarsi e del consolidarsi di un’immagine annacquata ed edulcorata del fascismo e dei suoi crimini, dell’idea stessa degli italiani brava gente.

      Il punto di vista sempre più diffuso; veicolato, ahimè, anche da molti soggetti che dovrebbero vegliare e contribuire alla costruzione della coscienza pubblica; è quello di un fascismo bonario che, in fin dei conti, non ha commesso gli orrendi crimini contro l’umanità di cui si è macchiato il nazismo.

      Ma un’affermazione simile non solo pecca di amnesia perché cancella con un colpo di spugna lo squadrismo; le marce forzate, la deportazione e i campi di concentramento in Libia ancor prima che Hitler diventasse cancelliere del Reich; l’uso di gas e armi chimiche in violazione dell’allora
      recente Protocollo di Ginevra del 1925; il primo bombardamento aereo di un ospedale della croce rossa nel 1935 a Malca Dida; le leggi razziali e la deportazioni degli ebrei, per citare solo le atrocità più note, ma assolve e amnistia tutti noi da ciò che siamo stati, dispensandoci dal compito di accrescere la nostra consapevolezza e, pertanto, dalla gravosa assunzione di responsabilità dei nostri atti.

      Forse lo storico statunitense di origine ebraica Yosef Hayim Yerushalmi con le sue Riflessioni sull’oblio, può darci una mano a capire il problema davanti al quale ci troviamo.

      Prendendo spunto dall’Ebraismo, lo studioso propone un’analisi che pone l’accento sulle dinamiche della trasmissione e della ricezione della memoria.

      Per lo storico, a rigor di logica gli individui possono dimenticare solo i fatti che sono avvenuti nel corso della loro esistenza. Quando si dice che un popolo ricorda, in realtà prima si afferma che il passato viene attivamente trasmesso alle generazioni contemporanee attraverso i canali e i ricettacoli della memoria – i ‘luoghi della memoria’ di Pierre Nora – e dopo si sostiene che quel passato che è stato trasmesso è stato anche ricevuto.

      Pertanto, secondo Yerushalmi, un popolo dimentica quando la generazione che ha vissuto il passato non lo trasmette a quella successiva o quando quest’ultima rifiuta ciò che le è stato trasmesso o smette di trasmetterlo a sua volta.

      «L’oblio in senso collettivo compare quando certi gruppi umani non riescono – volontariamente o passivamente, per rifiuto, indifferenza o indolenza o per una catastrofe storica che ha interrotto il trascorrere dei giorni e delle cose – a trasmettere alla posterità ciò che hanno imparato del passato…»

      Se condividiamo le affermazioni di Yerushalmi, l’affievolirsi di una condanna del fascismo potrebbe derivare dall’incapacità volontaria e/o passiva, da un rifiuto, dall’indifferenza, dall’indolenza e aggiungerei dall’assenza di un linguaggio che abbia un significato condiviso tra generazioni e, più probabilmente, dall’insieme di tutte queste ragioni.

      Ascoltando le dichiarazioni sul fascismo dell’attuale classe politica risulta evidente che la trasmissione e la ricezione del passato hanno fatto cilecca e ci hanno condotti a una de-responsabilizzazione per cui, oltre a chiederci come, quando e perché sia successo, dobbiamo trovare un modo di ristabilire la trasmissione e garantire la ricezione.

      Lo storico continua segnalando che la fenomenologia della memoria e dell’oblio collettivi sono essenzialmente gli stessi in tutti i gruppi sociali e che a cambiare sono solo i dettagli.

      Yerushalmi spiega che non c’è popolo per il quale alcuni elementi del passato, siano essi storici o mitici o una combinazione di entrambi, non diventino una ‘Torah’, cioè un insieme di insegnamenti e precetti riconosciuti, e pertanto condivisi, trasmessi oralmente o in forma scritta che hanno bisogno di consenso.

      Secondo lo storico ebreo, questi insegnamenti possono sopravvivere solo nella misura in cui diventano una tradizione. Lo studioso crede che ogni gruppo, ogni popolo ha la sua ‘halakhah’, la sua Legge intesa come tradizione normativa che include anche usi e costumi.

      «La parola ebrea deriva da halakh, che significa ‘camminare’, halakhah pertanto è il cammino sul quale si procede, il Cammino, la Via, il Tao, quell’insieme di riti e credenze che danno a un popolo il senso della sua identità e del suo destino. Del passato solo si trasmettono gli episodi che si giudicano esemplari o edificanti per l’halakhah di un popolo tale e quale la si vive nel presente.»

      Yerushalmi, quindi, oltre ad affermare che l’identità di un popolo sia il risultato di un processo di selezione e assimilazione di ciò che ha senso in funzione del presente e del futuro, ci mette in guardia da un pericolo: se del passato si trasmettono solo gli episodi che si giudicano esemplari o edificanti, non è probabile che quelli riprovevoli, col passare del tempo, vengano edulcorati se non dimenticati?

      E allora, l’accento messo sulla lotta partigiana potrebbe in qualche modo aver contribuito a mettere in ombra i crimini del fascismo? E ancora, perché la memoria e la storia sprigionino tutta la loro carica etica non dovremmo ricordare anche i torti che abbiamo inflitto?

      D’altro canto, lo studioso ci indica anche una strada da percorrere: per sopravvivere, gli elementi del passato che compongono la ‘Torah’ devono diventare una ‘tradizione’.

      Ma, come e cosa fare? Come potete immaginare gli ambiti sui quali lavorare e gli strumenti da utilizzare per riprenderci dall’amnesia sono molteplici.

      RISVEGLIARE GLI ANTICORPI DELLA SOCIETÀ: STRUMENTI.

      Tra i tanti mezzi su cui contare per ripristinare la ‘trasmissione’, favorire la ricezione, creare o ristabilire una ‘tradizione’ e/o vegliare sulla memoria da tramandare, ne esistono alcuni promossi dal basso che si propongono di ristabilire la verità per rendere giustizia e che risultano utili sopratutto quando le istituzioni o gli organi competenti per convenienza, impossibilità, pigrizia o incapacità non si adoperano in tal senso.

      A metà degli anni Novanta, in Argentina nacque H.I.J.O.S. (Hijos por la Identidad y la Justicia contra el Olvido y el Silencio), un’organizzazione che radunò – e raduna – i figli di desaparecidos che si battono per l’identità e la giustizia, contro l’oblio e il silenzio dei crimini dell’ultima dittatura.

      H.I.J.O.S. ha ideato e promosso una modalità inedita con cui affrontare l’impunità dei militari: l’‘Escrache’, che in spagnolo significa ‘sputtanamento’, e che consisteva nell’organizzare delle manifestazioni presso le abitazioni degli individui direttamente compromessi col regime.

      Le loro abitazioni venivano ‘marchiate’ col lancio di un palloncino pieno di vernice rossa.

      Lo scopo dell’‘Escrache’ non era solo quello di sopperire alle mancanze della giustizia, ma anche di avvertire i vicini che un complice del regime viveva tra loro, promuovendo così una sorta di giustizia popolare o sociale.

      I marchiati, condannati all’infamia, non erano più benaccetti nei luoghi pubblici, il panettiere non gli vendeva il pane, i vicini gli toglievano il saluto , ecc.

      Luoghi e spazi pubblici e di socialità dell’intero paese diventavano per loro una prigione fatta di disprezzo e condanna sociale.

      Queste politiche ebbero successo e, col passare del tempo, vennero applicate anche in altri ambiti non necessariamente legati alla dittatura militare. Vennero utilizzate infatti per denunciare ogni tipo di reato e contribuirono a sviluppare anticorpi nel tessuto sociale della comunità.

      In Italia, quale antidoto all’amnesia, il collettivo Resistenze in Cirenaica, noto con l’acronimo RIC, ha scelto di rispolverare la tradizione folclorica dei cantastorie e, come annota Wu Ming 1 nell’articolo in uscita su Linus, in particolare «A Bologna e in Emilia, negli anni si è sviluppata una peculiare forma di reading-concerto, di declamazione narrativa su musica. L’esperienza dei CCCP ha influenzato le sperimentazioni di band come Massimo Volume, Starfuckers, Offlaga Disco Pax; sperimentazioni che a loro volta si sono ibridate con l’approccio alla lettura scenica di vari scrittori (su tutti Stefano Tassinari), teatranti, di musicisti provenienti dal jazz e dal punk. RIC ha ripreso questa tradizione, fondando una vera e propria officina di reading.»

      Lo strumento di cui RIC spesso si è avvalso è una miscela di performance artistica, trekking urbano, reading-concerto e guerriglia odonomastica.

      DI ASSEGNAZIONE DI ODONIMI A VIE E PIAZZE

      Nel caso delle grosse città, l’iter amministrativo che porta all’assegnazione di un odonimo a una strada è subordinato al parere di una commissione composta di solito da rappresentanti del Comune e dell’ufficio toponomastica.

      La delibera della commissione deve essere sottoposta al vaglio della giunta comunale e al prefetto per l’autorizzazione definitiva.

      Nella scelta dell’odonimo, la commissione tiene conto della toponomastica preesistente e della particolare storia di un quartiere. Può prendere in considerazione segnalazioni di comitati di cittadini, associazioni pubbliche o private. A loro sta il compito di raccogliere e presentare la documentazione sul personaggio a cui si desidera dedicare una via. In questi casi la persona deve essere morta da almeno dieci anni, fatta salva qualche personalità di spicco.

      Nel caso di piccoli centri urbani, l’iter prevede il coinvolgimento della polizia municipale e dell’urbanistica, sempre previa approvazione della giunta comunale.

      Alcune delle amministrazioni più ‘illuminate’ hanno preso coscienza della capacità degli odonimi di riflettere l’anima di un paese e della sua comunità e sono intervenute per modificare l’intitolazione di vie a personaggi e luoghi del fascismo e del colonialismo.

      A Madrid, grazie a una legge del governo spagnolo del 2007, sono state sostituite una cinquantina di odonimi dedicati a Franco e ad altri gerarchi franchisti, mentre a Berlino, sempre
      nell’aprile di quest’anno, i nomi di personaggi legati al colonialismo africano sono stati sostituiti con nomi di combattenti per la liberazione.

      In Italia un’esempio è stato quello della commissione alla toponomastica di Udine che, nel 2011 ha deciso di cambiare il nome di piazza Luigi Cadorna, il cui conclamato disprezzo per la vita dei soldati impiegati al fronte offende non solo la memoria dei tanti caduti sotto il suo comando, ma quella di chiunque ricordi il suo spocchioso agire alla testa delle truppe. La piazza oggi si chiama ‘piazzale Unità d’Italia’.

      Il 27 settembre 2015 il collettivo Resistenze in Cirenaica, il cantiere culturale permanente che si è proposto di fare del rione Cirenaica un laboratorio di memoria storica per riportare alla luce il rimosso coloniale, unificare le resistenze, opporsi all’antirazzismo e all’antifascismo ed essere solidale coi migranti e profughi, ha fatto un primo intervento di rinominazione dal basso di via Libia coprendo i cartelli stradali ufficiali con quelli recanti l’odonimo Vinka Kitarovic.

      Per l’intera giornata, e fino a quando le autorità e qualche solerte cittadino con ‘poca simpatia per l’iniziativa’, non hanno rimosso i cartelli, la via è stata intitolata a una partigiana croata di Šibenik deportata in Italia nel 1942 che, dopo essere stata rinchiusa nell’istituto per la rieducazione delle minorenni traviate in via Viola a Borgo Panigale, nel 1943 divenne staffetta della 7^ GAP, adottando il nome di Lina.

      Da allora, molto altri cartelli in diverse città d’Italia sono stati ‘hackerati’ o ‘aumentati’. In via Libia a Bologna e in via Tripoli a Casalecchio, per fare degli esempi locali, sotto il nome della strada è apparsa la scritta Luogo di crimini del colonialismo italiano, o in via Vittorio Bottego, sempre in città: esploratore e pluriomicida.

      La guerriglia odonomastica è uno strumento per riscuoterci dall’amnesia, un atto di resistenza con valore contro-informativo che contribuisce a smontare le false credenze e a mettere in rilievo storie accantonate o ignorate.

      È un gesto di riappropriazione degli spazi cittadini, dell’ambiente circostante; è un atto di consapevolezza e di coscienza per ricordare ciò che siamo stati e assumerci la responsabilità di ciò che abbiamo compiuto.

      Perché sapere ciò che è stato in passato, alla luce di ciò che siamo oggi, permette di promuovere il dibattito sulle figure ignobili della nostra storia. La guerriglia odonomastica pertanto è un atto politico.

      LA NASCITA DI RIC, DELLA GUERRIGLIA ODONOMASTICA E NON SOLO.

      Come già detto RIC è un cantiere culturale permanente con l’obiettivo di liberarsi di ogni sguardo italocentrico ed eurocentrico, che si propone di leggere le resistenze europee come parte di un ciclo più lungo e d’inserirle in un contesto planetario, quello della lotta anticoloniale attraverso la valorizzazione del ‘rovescio’ del Discorso sul colonialismo di Aimé Césaire: «se il progetto hitleriano, all’osso, consisté nell’aver applicato all’Europa metodi colonialistici che fino a quel momento avevano subito solo gli arabi d’Algeria, i coolies dell’India e i negri dell’Africa», allora la resistenza al nazifascismo fu anche una guerra anticoloniale nel cuore d’Europa.

      RIC crede che si possa e si deva ‘sprovincializzare’ e ‘creolizzare’ la narrazione delle guerre partigiane e i doppi nomi delle vie della Cirenaica gli hanno fornito un utilissimo spunto narrativo, che si integra alla perfezione col fatto che durante l’occupazione, nel rione si trovasse una tipografia clandestina e la sede del CUMER, il comando militare della Resistenza in Emilia-Romagna.

      Il 27 settembre 2015, oltre all’intitolazione dal basso a di via Libia a Vinka Kitarovic, a conclusione di un’intera giornata di reading, storie musica e performance, RIC insieme a centinaia di persone ha reso omaggio a Lorenzo Giusti con una targa col suo nome e la scritta ‘ferroviere anarchico’ nel giardino a lui dedicato e strappato alla speculazione edilizia grazie a un movimento di cittadini dal basso.

      La giornata è cominciata al Vag61 con un pranzo seguito da un trekking urbano per le vie del rione in cui Wu Ming 2 ha fatto tappa nella già via Rodi per raccontare la storia della famiglia Rossi e dei due fratelli, Giovanni detto Gianni e Gastone un coraggioso partigiano morto a soli sedici anni.

      La passeggiata è proseguita e, all’imbocco dell’’ex via Zuara, si è narrata la storia di Massenzio Masia, che si distinse tra le altre cose per aver messo in salvo dalla requisizione nazi-fascista la dotazione di radio custodita all’ospedale Sant’Orsola.

      In via Mario Musolesi grandi e piccoli hanno ascoltato la storia del comandante Lupo e della brigata Stella Rossa. Le soste sono state introdotte dal canto delle giovani voci del coro R’esistente, mentre le camminate erano accompagnate dalla musica delle Brigate Sonore.

      L’ultima tappa del trekking è stata in via Libia, ovviamente dedicata alla storia di Vinka. A seguire, tutti si sono spostati al Giardino Lorenzo Giusti per lo spettacolo della Compagnia Fantasma, che ha messo in scena il processo al capo della resistenza libica Omar al-Mukhtār; per il reading di Kai Zen J con il Buthan Clan sul bombardamento aereo dell’ospedale della Croce Rossa nei pressi di Malca Dida, per quello di Wu Ming 1 su Ilio Barontini, l’antifascista internazionalista per eccellenza conosciuto col nome di battaglia ‘Paulus’ e quelli di Valerio Monteventi su Paolo Fabbri, il figlio di mezzadri che dedicò anima e corpo alle lotte contadine, subì la galera e il confino e si uni ai partigiani e infine quello di Serafino D’Onofri su Lorenzo Giusti, il ferroviere anarchico che combatté in Spagna e partecipò alla resistenza nell’imolese.

      A questa giornata inaugurale ne sono seguite molte altre a Bologna e in altre città tra cui Ferrara e Bolzano. La più recente si è svolta lo scorso ottobre a Palermo nell’ambito della dodicesima edizione di Manifesta, la biennale nomade europea di arte contemporanea, che ha ospitato la più grossa iniziativa di guerriglia odonomastica, intitolata Viva Menilicchi!, descritta con estro in un post su Giap, il blog di Wu Ming Foundation.

      Resistenze in Cirenaica pubblica a cadenza irregolare i Quaderni di Cirene che riportano queste e altre esperienze oltre a saggi e interventi esterni.

      https://resistenzeincirenaica.com/della-guerriglia-odonomastica

  • Roma, la fermata della metro C #Amba_Aradam cambia nome: approvata l’intitolazione al partigiano #Marincola. Il vox tra i cittadini

    E’ stata approvata questo pomeriggio la mozione che impegna l’amministrazione capitolina ad intitolare la futura fermata della Metro C Amba Aradam al partigiano italo-somalo #Giorgio_Marincola. Mentre nell’Aula Giulio Cesare l’assemblea capitolina votava la mozione, appoggiata dalla sindaca Virginia Raggi, per cambiare quel nome simbolo del colonialismo italiano e di una delle peggiori stragi compiute dal regime fascista in Africa, i residenti che abitano nel quartiere vicino l’omonima via Amba Aradam, nell’area di San Giovanni, si dividono sull’iniziativa.


    C’è chi difende l’iniziativa del Campidoglio. Chi vuole conservare il vecchio nome scelto per la stazione metro C di Roma, ‘Amba Aradam‘, affinché “anche gli errori e le atrocità non vengano dimenticate”. Ma anche chi rivendica che “la storia non si debba cambiare”, quasi ‘nostalgico’ del periodo coloniale di matrice fascista.

    Lì, dove è in costruzione una nuova fermata della metropolitana (che dovrebbe essere ultimata entro il 2024, ndr) erano state le azioni dimostrative degli attivisti di #Black_Lives_Matter, seguite da appelli della società civile, a porre il problema di quella controversa toponomastica. Chiedendo di sostituire quel nome e di rendere invece omaggio al partigiano Marincola. Figlio di un soldato italiano e di una donna somala, da giovanissimo scelse di combattere per la Resistenza, contro l’occupazione nazifascista, ucciso dalle SS in Val di Fiemme il 4 maggio 1945.

    “Una scelta giusta, omaggiare un partigiano di colore può essere un atto di grande valore simbolico”, c’è chi spiega. Altri concordano: “Perché no?”. Una proposta che ha anche permesso di conoscere una storia spesso dimenticata: “Non lo conoscevo, ho letto sui giornali. Ma ora sono convinto che sia giusto dedicargli questo riconoscimento”, spiega una ragazza.

    Altri invece sono contrari: “Deve restare il nome ‘Amba Aradam’, si è sempre chiamata così anche la via”. Eppure, tra i sostenitori del vecchio nome (ma non solo), quasi nessuno conosce la storia della strage fascista che si consumò nel massiccio montuoso a nord di Addis Abeba, lungo il Tigre, quando, nel 1936, le truppe del maresciallo Badoglio e l’aviazione italiana massacrarono 20mila etiopi, compresi civili, donne e bambini, usando gas vietati già allora dalle convenzioni internazionali, come l’iprite. Altre centinaia persero la vita tre anni più tardi, all’interno di una profonda grotta dell’area, con le truppe fasciste che fecero uso di gas e lanciafiamme contro la resistenza etiope, per poi murare vivi gli ultimi sopravvissuti.

    Una storia che quasi nessuno conosce, anche chi difende il nome ‘Amba Aradam’. Certo, chi concorda con la nuova intitolazione è convinto che, al di là dei simboli, siano necessarie altre azioni concrete sul tema immigrazione, compreso il diritto alla cittadinanza per chi nasce, cresce e studia in Italia: “Ius soli e Ius culturae? Sono favorevole”, spiegano diversi residenti. Ma non solo: “Serve anche ripartire dalle scuole e dalla formazione per debellare il razzismo”.

    https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/08/04/roma-la-fermata-della-metro-c-di-via-amba-aradam-sara-intitolata-al-partigiano-marincola-il-vox-tra-i-residenti-sulliniziativa-del-campidoglio/5889280
    #toponymie #toponymie_politique #Italie #colonialisme #Rome #partisans #métro #station_de_métro #colonialisme_italien #passé_colonial #mémoire #guerre_d'Ethiopie #Ethiopie #massacre #Badoglio

    –-

    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

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    • Prossima fermata: Giorgio Marincola

      Sulla scia di Black Lives Matter, un piccolo movimento d’opinione ha proposto di rinominare una stazione della metro C in costruzione. Sarà intitolata al partigiano nero che morì combattendo i nazisti in val di Fiemme.

      La zona intorno a via dell’Amba Aradam a Roma, alle spalle della basilica di San Giovanni in Laterano, è da tempo sottosopra per la presenza di un grande cantiere. Sono i lavori della linea C della metropolitana: uno dei tanti miti romani che si spera possa un giorno, chissà, diventare realtà. Se tutto andrà bene, nel 2024 la città avrà una fermata della nuova metro chiamata per l’appunto «Amba Aradam».

      Anzi, non più. Martedì 4 agosto l’Assemblea capitolina ha approvato – con l’appoggio della sindaca Virginia Raggi – una mozione che vincola l’Amministrazione cittadina a cambiare quel nome. Niente Amba Aradam: la stazione si chiamerà «Giorgio Marincola». Alla grande maggioranza degli italiani nessuno di questi due nomi – di luogo il primo, di persona il secondo – dice alcunché. Il primo è da tempo dimenticato dai più; il secondo nemmeno l’hanno mai sentito. Eppure la decisione di sostituire l’uno con l’altro, maturata nelle settimane recenti sulla scia del movimento Black Lives Matter e delle sue ripercussioni in Italia, è una svolta importante, di rilevante significato politico. Certifica l’opposta curva che la reputazione, l’eco dei due nomi percorre nella coscienza dei contemporanei.

      L’Amba Aradam, gruppo montuoso della regione del Tigrè, fu teatro a metà febbraio 1936 di una battaglia nel corso dell’aggressione fascista all’Etiopia. All’epoca venne celebrata in Italia come una grande vittoria, tacendo che era stata ottenuta con l’uso massiccio e indiscriminato di gas asfissianti proibiti dalla Convenzione di Ginevra. Ventimila morti tra combattenti e civili inermi abissini: una strage, un crimine di guerra per il quale nessuno è mai stato processato. Il Negus, costretto all’esilio, denunciò l’accaduto dalla tribuna della Società delle Nazioni, attirando sull’Italia l’obbrobrio delle democrazie. Oggi gli italiani in massima parte non sanno o non vogliono sapere. Restano i nomi di strade e piazze in varie località del Paese e un’espressione, «ambaradàn», di cui s’è scordata l’origine e che sta a significare una gran confusione.

      All’epoca della battaglia Giorgio Marincola aveva 12 anni e mezzo e frequentava la scuola media a Roma. La sua esistenza, sia prima che dopo, non ebbe nulla dell’apparente banalità che sembrano indicare queste scarne notizie. E merita di essere raccontata, perché troppo pochi ancora la conoscono.

      Giorgio era nato in Somalia nel settembre del ’33. Suo padre Giuseppe era un maresciallo maggiore della Regia Fanteria; sua madre, Askhiro Hassan, era somala; la sua pelle era color caffellatte. Prendere una concubina del posto, per gli italiani che a vario titolo si trovavano nella colonia somala era, all’epoca, comportamento diffuso. Per niente diffusa, viceversa, la scelta di riconoscere i figli nati da quelle unioni: ma Giuseppe Marincola volle comportarsi così, e li portò con sé in Italia. Giorgio, negli anni dell’infanzia, fu affidato a una coppia di zii che vivevano in Calabria e non avevano figli. La sorellina Isabella, di due anni più giovane, crebbe invece presso il padre e la moglie italiana che Giuseppe aveva nel frattempo sposato. Questa precoce separazione segnò le vite dei bambini: il maschio fu avvolto dall’affetto degli zii come fosse figlio loro; Isabella fu respinta dalla cattiveria e dai maltrattamenti di una matrigna che non l’amava. (La sua storia è narrata nel bel libro di Wu Ming 2 e Antar Mohamed Timira, pubblicato da Einaudi nel 2012, dal quale sono tratte la maggior parte delle informazioni qui riferite).

      Adolescente, Giorgio Marincola fu riunito alla sua famiglia a Roma. Negli anni del liceo, iscritto all’Umberto I, ebbe come insegnante di Storia e Filosofia Pilo Albertelli, al quale quello stesso istituto scolastico è oggi dedicato. Il professor Albertelli, partigiano, eroe della Resistenza, medaglia d’oro al valor militare, fu arrestato il primo marzo del ’44 mentre faceva lezione, torturato, infine trucidato tra i martiri dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. A quel punto Giorgio, che nel frattempo aveva terminato le superiori e si era iscritto a Medicina, ne aveva già seguito l’esempio unendosi ai gruppi partigiani legati a Giustizia e Libertà attivi a Roma e nel Lazio.

      Nel giugno del ’44 i tedeschi lasciarono Roma e i compagni d’avventura di Giorgio, deposte le armi, si apprestarono a tornare all’università. Lui volle invece continuare a combattere: raggiunse la Puglia, dove ricevette una sommaria formazione da parte delle forze speciali alleate, e qualche settimana dopo fu paracadutato sul Biellese. Si unì alle formazioni partigiane di GL in Piemonte, finché non fu catturato. I fascisti repubblichini usavano costringere i prigionieri a lanciare appelli dalla loro emittente Radio Baita, affinché convincessero i compagni a deporre le armi. Messo davanti al microfono, Marincola pronunciò invece parole che andrebbero riportate su ogni manuale scolastico di storia: «Sento la patria come una cultura e un sentimento di libertà, non come un colore qualsiasi sulla carta geografica… La patria non è identificabile con dittature simili a quella fascista. Patria significa libertà e giustizia per i popoli del mondo. Per questo combatto gli oppressori…».

      Così il giovane eroe fu consegnato ai tedeschi, che lo deportarono nel campo di transito di Gries, alle porte di Bolzano. Lì lo raggiunse la Liberazione, all’indomani del 25 aprile 1945. La guerra in Italia era finita ma ancora una volta Giorgio si mise a disposizione dei comandi militari di Giustizia e Libertà. Insieme ad altri cinque o sei ragazzi, fu incaricato di presidiare un bivio in località Stramentizzo in Val di Fiemme, poco a nord di Trento, sulla strada della ritirata delle colonne tedesche le quali, in base agli accordi di resa, avevano avuto concesso libero transito verso il loro Paese. Per evitare incidenti, la piccola unità partigiana aveva ricevuto ordine di non portare le armi: si trattava insomma soltanto di dirigere il traffico.

      Alle prime ore di una bella mattina di maggio, il giorno 5, una colonna di SS si presentò all’incrocio, preceduta da bandiere bianche. I soldati scesero dai camion e fecero fuoco. Poi procedettero verso il paese di Stramentizzo, seminando morte tra le case: fu l’ultima strage nazista in territorio italiano. L’episodio è stato variamente raccontato: sta di fatto che così finì la giovane vita di Giorgio Marincola, a 22 anni non ancora compiuti. Quando i comandi di GL ricevettero le prime confuse notizie dell’accaduto, furono informati che tra i morti c’era un ufficiale di collegamento americano: nessuno immaginava che un uomo dalla pelle nera potesse essere italiano.

      Da molti decenni Stramentizzo non esiste più: alla metà degli anni Cinquanta finì sul fondo del lago artificiale creato dalla diga costruita sul corso del torrente Avisio. A Marincola fu conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria; nel ’46 l’Università di Roma gli attribuì la laurea in Medicina honoris causa. Poi il suo nome finì nel dimenticatoio: una via a Biella, nelle cui vicinanze aveva combattuto; un’aula della scuola italiana a Mogadiscio, in Somalia, in seguito demolita. Nient’altro. Finché, piano piano, con una lotta sorda e ostinata per salvarne la memoria, si è tornati a parlare di lui: un libro, Razza partigiana, di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio; l’aula di Scienze del liceo Albertelli di Roma, dove oggi ai ragazzi viene raccontata la sua storia. E, nel prossimo futuro, una stazione delle metropolitana, affinché i romani ricordino.

      https://www.azione.ch/attualita/dettaglio/articolo/prossima-fermata-giorgio-marincola.html

    • Metro C, nuova stazione Amba Aradam-Ipponio sarà intitolata a partigiano Giorgio Marincola

      Approvata in Campidoglio una mozione per intitolare la futura fermata della metro C Amba Aradam/Ipponio al partigiano antifascista Giorgio Marincola. Figlio di un sottufficiale italiano e di una donna somala, vissuto a Roma nel quartiere di Casalbertone, scelse di contribuire alla liberazione d’Italia nel periodo della Resistenza. Morì in Val di Fiemme nel maggio 1945.

      L’iniziativa per l’intitolazione era stata lanciata, nelle scorse settimane, con una petizione su change.org che ha raccolto numerose adesioni.

      https://www.comune.roma.it/web/it/notizia/metro-c-nuova-stazione-amba-aradam-ipponio-sara-intitolata-a-partigiano-

      –—

      Le texte de la motion:
      Mozione n.68 del 4agosto 2020
      https://www.carteinregola.it/wp-content/uploads/2016/09/moz68-20-intitolazione-stazione-metro-marincola.pdf

    • La pétition sur change.org:
      Fanpage - "Perché intitolare al partigiano meticcio Marincola la stazione della metro C Amba Aradam

      «Giorgio Marincola, figlio di una madre somala e di un soldato italiano, è stato un partigiano che ha combattuto da Roma al Nord Italia fino agli ultimi giorni della Liberazione. Sarebbe meglio intitolare la nuova stazione della metro C a lui, piuttosto che con il nome Amba Aradam, che ricorda uno degli episodi più atroci dell’occupazione italiana in Etiopia. La proposta, rilanciata anche da Roberto Saviano, ora è diventata una petizione online rivolta alla sindaca Virginia Raggi.»

      https://www.change.org/p/virginia-raggi-intitoliamo-la-stazione-della-metro-c-di-via-dell-amba-aradam-a-giorgio-marincola/u/27093501

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      Perché intitolare al partigiano meticcio Giorgio Marincola la stazione della metro C di Amba Aradam

      Giorgio Marincola, figlio di una madre somala e di un soldato italiano, è stato un partigiano che ha combattuto da Roma al Nord Italia fino agli ultimi giorni della Liberazione. Sarebbe meglio intitolare la nuova stazione della metro C a lui, piuttosto che con il nome Amba Aradam, che ricorda uno degli episodi più atroci dell’occupazione italiana in Etiopia. La proposta, rilanciata anche da Roberto Saviano, ora è diventata una petizione online rivolta alla sindaca Virginia Raggi.

      Nella notte tra giovedì e venerdì un’azione da parte di un gruppo di attivisti antirazzisti ha portate anche nella capitale la mobilitazione che, partita dagli Stati Uniti e allargatasi all’Europa e non solo, mette in discussione i simboli del passato coloniale e schiavista, siano essi statue, targhe, intitolazioni di vie e piazze. A Milano a finire (di nuovo) nel mirino è stata la statua dedicata al giornalista Indro Montanelli. A Roma, con l’hashtag Black Lives Matter, a essere presa di mira è stata la statua del generale #Antonio_Baldissera, protagonista degli orrori dell’avventura coloniale fascista, il cui busto al Pincio è stato coperto di vernice. Contemporaneamente largo dell’Amba Aradam e via dell’Amba Aradam venivano reintitolati a #George_Floyd e a #Bilal_Ben_Messaud. «#Nessuna_stazione_abbia_il_nome_dell'oppressione», con questo cartello gli attivisti hanno posto il problema del nome della stazione della Metro C di prossima apertura, che richiama uno degli episodi più sanguinosi e brutali della repressione della resistenza etiope all’occupazione italiana.

      Una questione, quella del nome della nuova stazione, che ha visto un’apertura da parte dell’assessore ai Trasporti di Roma Capitale Pietro Calabrese. “Ci stavamo già pensando, anche perché, al di là di tutto, la stazione non è su viale dell’Amba Aradam”, ha dichiarato al Fatto Quotidiano. Intanto in rete ha cominciato a circolare una proposta: perché non intitolarla al partigiano Giorgio Marincola? Figlio di un soldato italiano e di una donna somala, il padre Giuseppe Marincola era stato caporale maggiore e, decise di riconoscere i due figli avuti dall’unione con Askhiro Hassan.

      Una proposta che è stata rilanciata da Roberto Saviano e che è diventata ora una petizione su Change.org indirizzata alla sindaca Virginia Raggi, lanciata dal giornalista Massimiliano Coccia: «La fermata della Metro C di Roma che sorge a ridosso di Porta Metronia in via dell’Amba Aradam sia intitolata a Giorgio Marincola, partigiano nero, nato in Somalia e ucciso dai nazisti in Val di Fiemme. Giorgio liberò Roma e scelse di liberare l’Italia. Una storia spesso dimenticata dalla storiografia attuale ma che racconta una pagina generosa della nostra Resistenza». Sarebbe questa una scelta simbolica certo, ma di grande impatto, per affrontare la questione del colonialismo italiano e cominciare a fare i conti con il mito degli «italiani brava gente» che, appunto altro non è che un mito. Giorgio Marincola non è stato solo una partigiano, ma la vicenda della sua famiglia già dagli anni ’20 del secolo pone la questione dell’esistenza di una black Italy misconosciuta e negata.
      La storia di Giorgio e Isabella Marincola è la storia di un’Italia meticcia

      Giorgio Marincola arriva in Italia poco dopo la sua nascita e si iscrisse nel 1941 alla facoltà di Medicina cominciando ad avvicinarsi al Partito d’Azione con cui poi decise di partecipare alla Resistenza, prima a Roma poi nel Nord Italia. Catturato dalle SS fu tradotto dopo percosse e torture in carcere a Torino e poi a Bolzano. Qui fu liberato dagli Alleati ma invece di portarsi in Svizzera con un convoglio della Croce Rossa, decise di proseguire la Resistenza in Val di Fiemme e qui sarà ucciso il 4 maggio 1945 a un posto di blocco dai soldati tedeschi ormai in rotta. Alla sua storia è stato dedicato un libro «Razza Partigiana», che è anche un sito internet, scritto da Carlo Costa e Lorenzo Teodonio ed edito da Iacobelli. Anche la storia della sorella di Giorgio, Isabella Marincola, è entrata in un libro scritto dal figlio Antar Mohamed e dallo scrittore Wu Ming 2, è intitolato «Timira. Romanzo Meticcio» (Einaudi) e indaga attraverso il caleidoscopio biografico di Isabella e di Antar la storia coloniale italiana e il suo presente di rimozione, una storia che attraversa tutto il Novecento e l’inizio del nuovo secolo attraverso la vicenda a tratti incredibile di una «italiana nera».

      https://roma.fanpage.it/perche-intitolare-al-partigiano-meticcio-giorgio-marincola-la-stazione-

    • Il blitz: via Amba Aradam intitolata a George Floyd e Bilal Ben Messaud

      Raid antirazzista nella notte in via dell’Amba Aradam in zona San Giovanni a Roma. Cartelli della toponomastica modificati con fogli con su scritto il nome di George Floyd e Bilal Ben Messaud ed esposto uno striscione con su scritto «Nessuna stazione abbia il nome dell’oppressione» firmato Black Lives Matter. Sul posto la polizia. Inoltre, sempre durante la notte, il busto di Antonio Baldissera, generale a capo delle truppe italiane in Eritrea, è stata imbrattata con vernice rossa. I raid antirazzisti sono stati messi a segno dal gruppo Restiamo umani. «Smantelleremo i simboli del colonialismo nella Capitale», annunciano su Facebook dando «il sostegno ai manifestanti che a partire da Minneapolis hanno riempito le piazze di decine di città del mondo» e rifiutando «ogni contestualizzazione storica». I componenti del gruppo Restiamo umani dunque prendono come bersaglio «le strade che richiamano stragi vergognose compiute dai soldati italiani in Etiopia, come via dell’Amba Aradam» o i «monumenti che conferiscono invece gloria eterna a uomini colpevoli delle peggiori atrocità verso il genere umano: tra gli “illustri” della storia italiana al Pincio c’è un busto di Antonio Baldissera, generale a capo delle truppe italiane in Eritrea e successivamente governatore della colonia italiana di Eritrea alla fine del XIX secolo, quasi che il passato coloniale italiano fosse un lustro invece che un crimine che come tale va ricordato».

      https://video.corriere.it/blitz-via-amba-aradam-intitolata-george-floyd-bilal-ben-messaud/bd76d308-b20b-11ea-b99d-35d9ea91923c

    • Fantasmi coloniali

      Nella notte di giovedì 18 giugno, la Rete Restiamo Umani di Roma ha compiuto un’azione di #guerriglia_odonomastica in alcuni luoghi della città che celebrano gli orrori del colonialismo italiano in Africa. In particolare sono stati colpiti la via e il largo «dell’Amba Aradam», insieme alla futura stazione «Amba Aradam/Ipponio» sulla linea C della metropolitana.

      Le targhe stradali sono state modificate per diventare «via George Floyd e Bilal Ben Messaud», mentre lungo le barriere che delimitano il cantiere della nuova fermata sotterranea sono comparsi grandi manifesti con scritto: «Nessuna stazione abbia il nome dell’oppressione».

      Il gesto degli attivisti romani intende denunciare la rimozione, il silenzio e la censura sui crimini del colonialismo, poiché questi contribuiscono a rafforzare e legittimare il razzismo di oggi. Amba Aradam è infatti il nome di un’altura dell’Etiopia dove l’esercito italiano, guidato da Pietro Badoglio, sconfisse i soldati di Hailé Selassié, sparando anche 1.367 proietti caricati ad arsine, un gas infiammabile e altamente tossico, in aperta violazione del Protocollo di Ginevra del 1925, contro l’impiego in guerra di armi chimiche.

      Nei giorni successivi, l’aviazione italiana bombardò le truppe nemiche in fuga. Nella sua relazione al Ministero delle Colonie, Badoglio scrisse che: «in complesso 196 aerei sono stati impiegati per il lancio di 60 tonnellate di yprite (sic) sui passaggi obbligati e sugli itinerari percorsi dalle colonne».

      La strada si chiama così dal 21 aprile 1936, quando venne inaugurata da Mussolini in persona. Il suo nome precedente era «Via della Ferratella», forse per via di una grata, nel punto in cui il canale della Marana passava sotto Porta Metronia. Per non cancellare quell’odonimo, venne ribattezzata «via della Ferratella in Laterano» una strada subito adiacente.

      Negli ultimi anni, molte azioni di guerriglia odonomastica si sono ripetute nelle città italiane, dimostrando che i simboli del passato parlano al presente anche quando li si vorrebbe anestetizzare e seppellire nell’indifferenza. L’intervento di giovedì scorso ha avuto grande risonanza non perché sia il primo di questo genere, ma in quanto si collega esplicitamente alle proteste per l’assassinio di George Floyd, al movimento Black Lives Matter e al proliferare di attacchi contro statue e targhe odiose in tutto il mondo.

      Tanta attenzione ha prodotto, come primo risultato, la proposta di intitolare la nuova stazione della metro Ipponio/Amba Aradam al partigiano italo-somalo Giorgio Marincola, con tanto di petizione on-line alla sindaca Raggi. Quest’idea ci rende ovviamente felici, perché da oltre dieci anni ci sforziamo di far conoscere la storia di Giorgio e di sua sorella Isabella, con libri, spettacoli, ricerche, interventi nelle scuole e progetti a più mani.

      Ci sembra anche molto significativo che un luogo sotterraneo porti il nome di Giorgio Marincola, dal momento che la sua resistenza fu ancor più clandestina di quella dei suoi compagni, visto il colore molto riconoscibile della sua pelle, specie quando agiva in città, nelle file del Partito d’Azione. E d’altra parte, la miglior memoria della Resistenza è quella che si esprime dal basso, underground, senza bisogno di grandi monumenti, riflettori e alzabandiera: una memoria tuttora scomoda, conflittuale, che fatica a vedere la luce del sole.

      Ben venga quindi la stazione “Giorgio Marincola” della Metro C, ma ci permettiamo di suggerire che quell’intitolazione sia vincolata a un’altra proposta. Non vorremmo infatti che il nome di Giorgio facesse dimenticare quell’altro nome, Amba Aradam. Non vorremmo che intitolare la stazione a un “bravo nero italiano” finisse per mettere tra parentesi la vera questione, quella da cui nasce la protesta della Rete Restiamo Umani, ovvero la presenza di fantasmi coloniali nelle nostre città: una presenza incontestata, edulcorata e in certi casi addirittura omaggiata. Non vorremmo che uscendo dalla stazione Giorgio Marincola si continuasse a percorrere, come se niente fosse, via dell’Amba Aradam. Sarebbe davvero un controsenso.

      Roberto Saviano, appoggiando l’idea della “stazione Giorgio Marincola” ha scritto: «la politica sia coraggiosa, almeno una volta». Ma che coraggio ci vuole per intitolare una fermata della metro a un italiano morto per combattere il nazifascismo? Davvero siamo arrivati a questo punto? Siamo d’accordo con Saviano, c’è bisogno di gesti coraggiosi, non di gesti spacciati per coraggiosi che ci esimano dall’avere coraggio.

      Sappiamo che cambiare ufficialmente il nome a via dell’Amba Aradam sarebbe molto difficile, anche se l’esempio di Berlino dimostra che quando davvero si vuole, certe difficoltà si superano: nella capitale tedesca, tre strade intitolate a protagonisti del colonialismo in Africa sono state dedicate a combattenti della resistenza anti-coloniale contro i tedeschi.

      Ci piacerebbe allora che la stazione “Giorgio Marincola” venisse inaugurata insieme a un intervento “esplicativo” su via dell’Amba Aradam, come si è fatto a Bolzano con il bassorilievo della Casa Littoria e con il Monumento alla Vittoria. Si potrebbero affiggere alle targhe stradali altri cartelli, che illustrino cosa successe in quel luogo e in quale contesto di aggressione; si potrebbe aggiungere una piccola chiosa, sul cartello stesso, sotto il nome della via: «luogo di crimini del colonialismo italiano», o qualunque altro contributo che risvegli i fantasmi, che li renda ben visibili, che non ci lasci tranquilli e pacificati, convinti che l’ambaradan sia solo un ammasso di idee confuse.

      https://comune-info.net/che-il-colonialismo-non-riposi-in-pace
      #guerilla_toponymique #Via_della_Ferratella #fascisme #via_della_Ferratella_in_Laterano #Indro_Montanelli #Partito_d’Azione #Francesco_Azzi #Azzi #Magliocco

    • Siamo molto content* che l’amministrazione capitolina abbia scelto di dedicare a Giorgio Marincola la stazione inizialmente nominata «Amba Aradam», e siamo content* che il processo che ha portato a questa scelta sia iniziato grazie alla nostra azione del 18 giugno scorso. Crediamo però che questo sia solo un primo passo. La via e il largo di fronte alla stazione, dedicati all’ignobile eccidio compiuto dal nostro esercito colonizzatore in Etiopia devono al più presto seguire la stessa strada e cambiare nome. Il percorso per decolonizzare la toponomastica razzista e colonialista ancora presente nella nostra città ha avuto solo un inizio e deve necessariamente continuare. Lo dobbiamo a chi è morto per le atrocità compiute dall’esercito tricolore, lo dobbiamo a chi è discriminato per razzismo oggi, lo dobbiamo a chi muore in mare per l’ignavia del nostro governo. Ricordiamo che il governo Conte e la sua maggioranza hanno vergognosamente confermato gli accordi con le milizie libiche responsabili di atroci violazioni a diritti umani della popolazione migrante africana. In forme diverse e più mediate, ma la violenza coloniale e razzista del nostro paese continua tutt’oggi e non smetteremo di lottare perché abbia fine.

      https://www.facebook.com/ReteRestiamoUmani

    • Why a Somali-born fighter is being honoured in Rome

      Rome’s city council voted earlier this month to name a future metro station in the Italian capital in honour of Giorgio Marincola, an Italian-Somali who was a member of the Italian resistance.

      He was killed at the age of 21 by withdrawing Nazi troops who opened fire at a checkpoint on 4 May 1945, two days after Germany had officially surrendered in Italy at the end of World War Two.

      The station, which is currently under construction, was going to be called Amba Aradam-Ipponio - a reference to an Italian campaign in Ethiopia in 1936 when fascist forces brutally unleashed chemical weapons and committed war crimes at the infamous Battle of Amba Aradam.

      The name change came after a campaign was launched in June, in the wake of Black Lives Matter protests around the world following the killing of African American George Floyd by US police.

      Started by journalist Massimiliano Coccia, he was supported by Black Lives Matter activists, other journalists and Italian-Somali writer Igiabo Scego and Marincola’s nephew, the author Antar Marincola.
      The ’black partisan’

      Activists first placed a banner at the metro site stating that no station should be named after “oppression” and pushed for Marincola’s short, but remarkable life to be remembered.

      He is known as the “partigiano neroor” or “black partisan” and was an active member of the resistance.

      In 1953 he was posthumously awarded Italy’s highest military honour, the Medaglia d’Oro al Valor Militare, in recognition of his efforts and the ultimate sacrifice he made.

      Marincola was born in 1923 in Mahaday, a town on the Shebelle River, north of Mogadishu, in what was then known as Italian Somaliland.

      His mother, Ashkiro Hassan, was Somali and his father an Italian military officer called Giuseppe Marincola.

      At the time few Italian colonists acknowledged children born of their unions with Somali women.

      But Giuseppe Marincola bucked the trend and later brought his son and daughter, Isabella, to Italy to be raised by his family.

      Isabella went on to become an actress, notably appearing in Riso Amaro (Bitter Rice), released in 1949.

      Giorgio Marincola too was gifted, excelling at school in Rome and went on to enrol as a medical student.

      During his studies he came to be inspired by anti-fascist ideology. He decided to enlist in the resistance in 1943 - at a time his country of birth was still under Italian rule.

      He proved a brave fighter, was parachuted into enemy territory and was wounded. At one time he was captured by the SS, who wanted him to speak against the partisans on their radio station. On air he reportedly defied them, saying: “Homeland means freedom and justice for the peoples of the world. This is why I fight the oppressors.”

      The broadcast was interrupted - and sounds of a beating could be heard.

      ’Collective amnesia’

      But anti-racism activists want far more than just the renaming of a metro stop after Marincola - they want to shine the spotlight on Italy’s colonial history.

      They want the authorities in Rome to go further and begin a process of decolonising the city.

      This happened unilaterally in Milan when, amid the Black Lives Matter protests, the statue of controversial journalist Indro Montanelli, who defended colonialism and admitted to marrying a 12-year-old Eritrean girl during his army service in the 1930s, was defaced.

      Yet to bring about true change there needs to be an awareness about the past.

      The trouble at the moment is what seems to be a collective amnesia in Italy over its colonial history.

      In the years I have spent reporting from the country I am always struck at how little most Italians seem to know about their colonial history, whether I’m in Rome, Palermo or Venice.

      The extent of Italy’s involvement in Eritrea, Somalia, Libya and Albania to Benito Mussolini’s fascist occupation of Ethiopia in the 1930s is not acknowledged.
      Somali bolognese

      Last month, Somalia celebrated its 60th anniversary of independence.

      Reshaped by 30 years of conflict, memories of colonial times have all been lost - except in the kitchen where a staple of Somali cuisine is “suugo suqaar”- a sauce eaten with “baasto” or pasta.

      But for this Somali bolognese, we use cubed beef, goat or lamb with our version of the classic Italian soffritto - sautéed carrots, onion and peppers - to which we add heady spices.

      I love to cook these dishes and last summer while I was in Palermo did so for Italian friends, serving it with shigni, a spicy hot sauce, and bananas.

      It was a strange pairing for Italians, though my friends tucked in with gusto - with only the odd raised eyebrow.

      And Somalis have also left their own imprint in Italy - not just through the Marincola siblings - but in the literature, film and sports.

      Cristina Ali Farah is a well-known novelist, Amin Nour is an actor and director, Zahra Bani represented Italy as a javelin thrower and Omar Degan is a respected architect.

      And today Somalis constitute both some of Italy’s oldest and newest migrants.

      In spring 2015 I spent a warm afternoon meandering throughout the backstreets near Rome’s Termini station meeting Somalis who had been in Italy for decades and Somalis who had arrived on dinghies from Libya.

      Those new to Italy called the older community “mezze-lira” - meaning “half lira” to denote their dual Somali-Italian identities.

      In turn they are called “Titanics” by established Somalis, a reference to the hard times most migrants have faced in making the perilous journey across the Mediterranean to reach Europe, and the lives they will face in Italy with the political rise of anti-migration parties.

      The naming of a station after Marincola is an important move for all of them - and a timely reminder for all Italians of the long ties between Italy and Somalia.

      https://www.bbc.com/news/world-africa-53837708

    • «La Casati era una delle varie imprese satelliti di una società, molto più grande, che da decenni dominava lo sviluppo urbanistico di Roma in serena continuità con il fascismo. Era già stata protagonista dello sviluppo della Città Eterna quando essa era diventata capitale dell’Italia unita, e aveva costruito interi quartieri in quella che un tempo era campagna. A molto delle nuove strade tracciate a inizio secolo e poi durante il Ventennio erano stati dati nomi coloniali - Viale Libia, via Eritrea, Via Dire Daua - che finita la guerra nessuno, nonostante la fine congiunta di fascismo e possedimenti d’oltremare, pensò di sostituire. Nemmeno quelli, come viale Amba Aradam, intitolati a carneficine».

      (pp.240-241)

      «In seguito certi soldati, quando furono tornati in Italia, presero a usare il nome di quel luogo come sinonimo dell’indescrivibile orrore. Come però succede da sampre i reduci di ogni guerra, non li capì nessuno. Chi non c’era stato non poteva immaginare il tappeto di carne che significavano quelle due parole: Amba Aradam. Anche perché il Duce le dichiarò il nome di una vittoria, qualcosa a cui intitolare piazze e strade. Gli italiani, come massaie che lavano imbarazzanti macchie dalle lenzuola prima di stenderle, ne eliminarono ogni retrogusto di orrore e le unirono in una sola dal suono buffo.
      ’Non fare questo ambaradam’ presero a dire le madri ai loro piccoli capricciosi’»

      (pp.354-355)

      in : #livre « #Sangue_giusto » de #Francesca_Melandri


      http://bur.rizzolilibri.it/libri/sangue-giusto-

  • #Bologne (Italie): #XM24 occupe l’ancienne caserne Sani
    https://fr.squat.net/2019/11/15/bologne-italie-xm24-occupe-lancienne-caserne-sani

    Cédez à celles et ceux qui voudraient que nous soyons éteint-e-s, exilé-e-s ou oublié-e-s : nous avons peut-être peu de sens, mais notre imagination est infinie ! Aujourd’hui, le XM24 réouvre un endroit fermé et abandonné depuis des décennies. Ce qui était autrefois la caserne Sani commence une nouvelle vie en tant que lieu d’autogestion, […]

    #ex_caserne_Sani #Italie #ouverture #Via_Ferrarese_199

  • Segnalò ebrei e aderì a #Salò: i leghisti gli dedicano una via

    Per il podestà fascista #Airoldi la mozione al Comune di #Erba. Alla proposta della destra per «meriti culturali» rispondono Anpi, sinistra e sindacati: lunedì presidio.

    Negli anni Novanta, quando giocava alla secessione, la Lega era solita sostituire i nomi delle vie che avevano riferimenti nazionali con quelli leghisti. Il più classico era la sostituzione di via Roma con #via_Padania o #via_Lega_Lombarda.

    Lo fecero anche a Erba, nel comasco, dove oggi la Lega «non più Nord», insieme a Forza Italia e liste civiche del sindaco, vorrebbe intitolare una via a un podestà fascista che collaborò con i nazisti e partecipò alla Repubblica Sociale Italiana: #Alberto_Airoldi. Tutto parte da un appello ospitato a inizio luglio dal quotidiano locale La Provincia dove l’autore, lo scenografo Ezio Frigerio, propone di intitolare una via al podestà fascista. Il motivo è culturale: Alberto Airoldi ha contribuito a fondare nel 1923 il teatro Licinium di Erba, ha animato la rivista Brianza e si è affermato come poeta brianzolo.

    Ma per questi meriti Erba lo ha già omaggiato anni fa intitolandogli il cippo al teatro Licinium, un omaggio esclusivamente culturale. A nessuno era venuto in mente di celebrare in altro modo e in altri ambiti colui che fu sì un personaggio della cultura locale, ma soprattutto un fascista che collaborò coi nazisti nella persecuzione degli ebrei.

    Dalle parole dell’appello ai fatti, la Lega e il resto del centrodestra hanno preso la palla al balzo e scritto una mozione che presenteranno il 15 luglio in consiglio comunale. «Il podestà Alberto Airoldi amava Erba e i suoi concittadini che ha sempre tutelato e difeso», ha detto il deputato leghista e consigliere comunale Eugenio Zoffili.

    «Me l’hanno raccontato i nostri anziani e chi l’ha conosciuto di persona. Per la Lega non ci sono dubbi: è doveroso dedicargli una piazza della nostra città, ma anche organizzare incontri culturali e iniziative nelle nostre scuole per farlo conoscere ai nostri ragazzi. Chi a sinistra è contrario perché era fascista, o chi tentenna e fa il democristiano manca di rispetto a Erba che ricorda la sua storia per crescere forte nel futuro con l’esempio di persone come Alberto Airoldi di cui siamo tutti orgogliosi».

    Tra gli anziani con cui Zoffili ha parlato non devono esserci stati gli anziani della famiglia Usiglio o delle altre di origine ebraica segnalate da Airoldi al ministero degli Interni fascista. «Al di là delle sue posizioni e delle sue scelte politiche, Airoldi è stato il protagonista indiscusso di una stagione esaltante di rinascita culturale per la città», ha detto la vicesindaca leghista Erica Rivolta.

    Il podestà applicò le leggi razziali in modo scrupoloso e secondo alcune ricostruzioni si spinse anche oltre. A Radio Popolare Manuel Guzzone dell’Anpi di Como, che ha studiato la figura di Airoldi, ha raccontato che nel 1939 il podestà scrisse un opuscolo dal titolo «Elenco di cognomi ebraici», dove elencò famiglie ebraiche del territorio comasco fuori dai confini del comune di sua competenza, Erba.

    «In un certo senso aiutò chi venne dopo di lui, i nazisti, nei rastrellamenti. Molte di quelle famiglie avevano lasciato Milano per oltrepassare il confine comasco verso la Svizzera. Lui non solo approvò le leggi razziali, ma diede un ulteriore aiuto ai nazisti indicando le famiglie ebraiche del territorio».

    Fu coinvolto nel processo al Primo partigiano della resistenza brianzola Giancarlo Puecher, fucilato il 23 dicembre 1943 a Erba. «Il ruolo di Airoldi fu determinate – racconta Guzzon – C’è un ulteriore particolare che risuona particolarmente inopportuno. La via che cambierà di nome dovrebbe essere un tratto di via Crotto Rosa, la stessa dove al civico 5 aveva vissuto per un periodo un componente della famiglia Usiglio, una delle famiglie ebraiche di Erba segnalate da Airoldi».

    La mozione che arriverà in consiglio comunale il 15 luglio è sostenuta da Lega, Forza Italia, lista civica Il Buonsenso e lista civica del sindaco Veronica Airoldi, nipote del podestà: un grande omaggio al nonno.
    Nel comune comasco, a solida maggioranza di destra, in tanti non ci stanno e lunedì manifesteranno dalle ore 20 fuori dal consiglio comunale.

    «Le adesioni stanno crescendo», dicono dall’Anpi di Monguzzo. Ci saranno Cgil, Cisl, Uil e delegazioni da alcune fabbriche del territorio, come il cementificio Holcim.

    E poi il Pd, Rifondazione, Sinistra italiana e una ventina di associazioni. «Non è sufficiente esibire meriti culturali per cancellare una macchia indelebile come la complicità attiva nel regime fascista; persino Hermann Goering, numero due del nazismo, aveva meriti culturali ed era uno dei più grandi collezionisti d’arte, ma nessuno in Germania si sognerebbe mai di intitolargli una via», scrive l’Anpi nell’appello. Una piccola storia locale, un podestà a cui verrà intitolata una via, ma che racconta come avviene la normalizzazione del fascismo.

    https://ilmanifesto.it/segnalo-ebrei-e-aderi-a-salo-i-leghisti-gli-dedicano-una-via
    #toponymie #noms_de_rue #Italie #fascisme

  • The United Nations backs seed sovereignty in landmark small-scale farmers’ rights declaration

    On Dec. 17, the United Nations General Assembly took a quiet but historic vote, approving the Declaration on the Rights of Peasants and other People Working in Rural Areas by a vote of 121-8 with 52 abstentions. The declaration, the product of some 17 years of diplomatic work led by the international peasant alliance La Via Campesina, formally extends human rights protections to farmers whose “seed sovereignty” is threatened by government and corporate practices.

    “As peasants we need the protection and respect for our values and for our role in society in achieving food sovereignty,” said #Via_Campesina coordinator Elizabeth Mpofu after the vote. Most developing countries voted in favor of the resolution, while many developed country representatives abstained. The only “no” votes came from the United States, United Kingdom, Australia, New Zealand, Hungary, Israel and Sweden.

    “To have an internationally recognized instrument at the highest level of governance that was written by and for peasants from every continent is a tremendous achievement,” said Jessie MacInnis of Canada’s National Farmers Union. The challenge, of course, is to mobilize small-scale farmers to claim those rights, which are threatened by efforts to impose rich-country crop breeding regulations onto less developed countries, where the vast majority of food is grown by peasant farmers using seeds they save and exchange.
    Seed sovereignty in Zambia

    The loss of seed diversity is a national problem in Zambia. “We found a lot of erosion of local seed varieties,” Juliet Nangamba, program director for the Community Technology Development Trust, told me in her Lusaka office. She is working with the regional Seed Knowledge Initiative (SKI) to identify farmer seed systems and prevent the disappearance of local varieties. “Even crops that were common just 10 years ago are gone.” Most have been displaced by maize, which is heavily subsidized by the government. She’s from Southern Province, and she said their survey found very little presence of finger millet, a nutritious, drought-tolerant grain far better adapted to the region’s growing conditions.

    Farmers are taking action. Mary Tembo welcomed us to her farm near Chongwe in rural Zambia. Trained several years ago by Kasisi Agricultural Training Center in organic agriculture, Tembo is part of the SKI network, which is growing out native crops so seed is available to local farmers. Tembo pulled some chairs into the shade of a mango tree to escape the near-100-degree Fahrenheit heat, an unseasonable reminder of Southern Africa’s changing climate. Rains were late, as they had been several of the last few years. Farmers had prepared their land for planting but were waiting for a rainy season they could believe in.

    Tembo didn’t seem worried. She still had some of her land in government-sponsored hybrid maize and chemical fertilizer, especially when she was lucky enough to get a government subsidy. But most of her land was in diverse native crops, chemical free for 10 years.

    “I see improvements from organic,” she explained, as Kasisi’s Austin Chalala translated for me from the local Nyanja language. “It takes more work, but we are now used to it.” The work involves more careful management of a diverse range of crops planted in ways that conserve and rebuild the soil: crop rotations; intercropping; conservation farming with minimal plowing; and the regular incorporation of crop residues and composted manure to build soil fertility. She has six pigs, seven goats, and 25 chickens, which she says gives her enough manure for the farm.

    She was most proud of her seeds. She disappeared into the darkness of her small home. I was surprised when she emerged with a large fertilizer bag. She untied the top of the bag and began to pull out her stores of homegrown organic seeds. She laughed when I explained my surprise. She laid them out before us, a dazzling array: finger millet; orange maize; Bambara nuts; cowpea; sorghum; soybeans; mung beans; three kinds of groundnuts; popcorn; common beans. All had been saved from her previous harvest. The contribution of chemical fertilizer to these crops was, clearly, just the bag.

    She explained that some would be sold for seed. There is a growing market for these common crops that have all but disappeared with the government’s obsessive promotion of maize. Some she would share with the 50 other farmer members of the local SKI network. And some she and her family happily would consume. Crop diversity is certainly good for the soil, she said, but it’s even better for the body.
    Peasant rights crucial to climate adaptation

    We visited three other Kasisi-trained farmers. All sang the praises of organic production and its diversity of native crops. All said their diets had improved dramatically, and they are much more food-secure than when they planted only maize. Diverse crops are the perfect hedge against a fickle climate. If the maize fails, as it has in recent years, other crops survive to feed farmers’ families, providing a broader range of nutrients. Many traditional crops are more drought-tolerant than maize.

    Another farmer we visited already had planted, optimistically, before the rains arrived. She showed us her fields, dry and with few shoots emerging. With her toe, she cleared some dirt from one furrow to reveal small green leaves, alive in the dry heat. “Millet,” she said proudly. With a range of crops, she said, “the farmer can never go wrong.”

    I found the same determination in Malawi, where the new Farm-Saved Seed Network (FASSNet) is building awareness and working with government on a “Farmers’ Rights” bill to complement a controversial Seed Bill, which deals only with commercial seeds. A parallel process is advancing legislation on the right to food and nutrition. Both efforts should get a shot in the arm with the U.N.’s Peasants’ Rights declaration.

    The declaration gives such farmers a potentially powerful international tool to defend themselves from the onslaught of policies and initiatives, led by multinational seed companies, to replace native seeds with commercial varieties, the kind farmers have to buy every year.

    Kasisi’s Chalala told me that narrative is fierce in Zambia, with government representatives telling farmers such as Tembo that because her seeds are not certified by the government, they should be referred to only as “grain.”

    Eroding protection from GMOs

    As if to illustrate the ongoing threats to farm-saved seed, that same week in Zambia controversy erupted over two actions by the government’s National Biosafety Board to weaken the country’s proud and clear stance against the use of genetically modified crops. The board quietly had granted approval for a supermarket chain to import and sell three products with GMOs, a move promptly criticized by the Zambian National Farmers Union.

    Then it was revealed that the board secretly was drawing up regulations for the future planting of GM crops in the country, again in defiance of the government’s approved policies. The Zambian Alliance for Agroecology and Biodiversity quickly denounced the initiative.

    The U.N. declaration makes such actions a violation of peasants’ rights. Now the task is to put that new tool in farmers’ hands. “As with other rights, the vision and potential of the Peasant Rights Declaration will only be realized if people organize to claim these rights and to implement them in national and local institutions,” argued University of Pittsburgh sociologists Jackie Smith and Caitlin Schroering in Common Dreams. “Human rights don’t ‘trickle down’ — they rise up!”

    https://www.greenbiz.com/article/united-nations-backs-seed-sovereignty-landmark-small-scale-farmers-rights-
    #ONU #semences #déclaration #souveraineté #souveraineté_semencière (?) #agriculture #paysannerie #Zambie #OGM #climat #changement_climatique
    ping @odilon

  • La casa dov’è: viaggio a Roma fra le occupazioni dei rifugiati

    Selam Palace, viale del Policlinico, via Collatina: occupazioni storiche di rifugiati e richiedenti asilo a Roma, una capitale europea dove l’emergenza casa non riguarda soltanto gli immigrati. Sempre col timore di essere sgomberate, sono comunità con una storia e un’identità, che attendono un futuro migliore. Eleonora Camilli e Federica Mameli sono riuscite a visitarle e a farsi raccontare le storie degli occupanti.


    https://openmigration.org/analisi/la-casa-dove-viaggio-a-roma-fra-le-occupazioni-dei-rifugiati
    #squat #occupation #logement #hébergement #Rome #Italie #asile #migrations #réfugiés #viale_del_Policlinico #Policlinico #via_Collatina #Selam_Palace

  • UN General Assembly adopts Peasant Rights declaration ! Now focus is on its implementation
    https://www.cetri.be/UN-General-Assembly-adopts-Peasant

    Today, 17 December 2018, the 73 Session of the United Nations General Assembly (UNGA 73) in New York adopted the UN Declaration on the Rights of Peasants and Other People Working in Rural Areas. Now that the declaration is an international legal instrument, La #Via_Campesina (LVC) and its allies will mobilise to support regional and national implementation processes. The final vote of today represents the culmination of a historic process for rural communities. With 121 votes in favour, 8 (...)

    #Southern_Social_Movements_Newswire

    / #Le_Sud_en_mouvement, Via Campesina, #Souveraineté_alimentaire, Agriculture & luttes pour la terre, (...)

    #Agriculture_&_luttes_pour_la_terre #Environnement

  • Roma. Le notti in strada dei profughi (in regola) sgomberati. «Dove andremo?» (VIDEO)

    L’operazione di sgombero compiuta senza predisporre ricoveri alternativi. Molti bambini e diversi anziani invalidi. Sono tutte persone accolte in Italia come rifugiati e con i documenti


    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/roma-le-notti-in-strada-dei-profughi-le-ong-a-comune-e-governo-serve-soluzi
    #logement #hébergement #asile #migrations #réfugiés #SDF #sans-abri #Rome #vidéo #clochardisation #expulsion

    Lien vers la vidéo:
    https://www.youtube.com/watch?v=3_uudBfC8Zo

  • La grande braderie de #terres agricoles roumaines
    http://fr.myeurop.info/2014/03/14/accaparement-des-terres-roumanie-13383

    myeurop

    Paradis agricole, la #Roumanie est de plus en plus convoitée par les investisseurs étrangers, au risque de voir ses #terres_arables lui échapper. Bruxelles nie tout #accaparement des terres, mais c’est bien une nouvelle forme de #spoliation qui s’est mise en place, avec la complicité du gouvernement roumain.

    En Roumanie, l’agriculture est faite de paradoxes. La terre roumaine est à la fois la plus riche et la moins chère d’Europe. lire la (...)

    #Environnement #Europe #agriculteurs #ONG_EcoRuralis #Via_Campesina

  • Somonte pour le peuple ! Que le monde le sache !
    Rencontres sur les terres occupées de Somonte
    en Andalousie, juillet 2013

    http://www.lavoiedujaguar.net/Somonte-pour-le-peuple-Que-le

    Lola est une femme andalouse, énergique et digne. Ses longs cheveux noirs comme ses yeux et son regard souriant mais ferme en imposent. Avec elle, nous rentrons tout de suite dans la discussion. Elle nous explique : en Andalousie, plus de la moitié des terres sont aux mains de quelques grands propriétaires — plus de cinquante pour cent des terres appartiennent à deux pour cent de propriétaires dont Mario Conde, ex-directeur de la Banque espagnole de crédit (Banesto) plusieurs fois condamné pour extorsion et détournement de fonds, et surtout la duchesse d’Albe — laissant des milliers de travailleurs agricoles sans accès à la terre. Et aujourd’hui, beaucoup de ces terres ne sont même plus cultivées. La lumière incandescente brillant au loin pendant le trajet qui mène à Somonte trouve ici son explication : il s’agit d’un champ de panneaux solaires qui renvoient sur une tour centrale la lumière et la chaleur captées. Nous avons eu d’ailleurs de nombreuses occasions de voir ce paysage inquiétant de champs stériles envahis par ces producteurs d’électricité. On est bien là sur une autre planète. (...)

    #Andalousie #occupation #terre #résistance #solidarité

  • Accaparements de #terres : La Via Campesina exhorte les Etats à agir
    http://farmlandgrab.org/post/view/20472

    Cette semaine, le Comité des Nations unies sur la Sécurité Alimentaire Mondial est réuni au cours d’une session spéciale visant à l’adoption formelle des Directives sur les régimes fonciers applicables aux terres, aux pêches et aux forêts dans le contexte de la sécurité alimentaire nationale, qui ont été récemment adoptées. Ces nouvelles directives pourraient constituer un petit - mais important - pas vers la réforme des politiques qui sont à l’origine de la crise alimentaire.

    Le mouvement paysan international La #Via_Campesina rappelle aux gouvernements que les directives ont été construites sur la base de principes de droits humains reconnus qui ne sont pas négociables. De fait, il est de la responsabilité des Etats de soutenir la mise en œuvre de ces directives et de respecter, protéger et réaliser les droits de leurs citoyennes et citoyens.

    C’est pourquoi La Via Campesina demande en urgence à tous les gouvernements de condamner la pratique des accaparements de terres, qui déplace actuellement des millions de paysannes et paysans partout dans le monde. Les accaparements de terres provoquent des violations massives des droits humains, tout en détruisant la terre, la société, l’environnement et la souveraineté alimentaire.

  • La Via Campesina en mouvement... Pour la Souveraineté Alimentaire !

    http://vimeo.com/27473807

    De ma nièce Dorothée :

    Voici une petite vidéo qui devrait titiller votre esprit..... prenez le temps de 20minutes ... 20 petites minutes pour vous convaincre de manger sainement !

    Vous verrez que manger bio, local et de saison ça rend la vie tellement plus naturelle !

    Non seulement vous permettrez à vos enfants, petits enfants , ...
    – de manger à leur faim (car le modèle alimentaire actuel, basé sur une agriculture intensive, industrielle et bourrée de pesticide à démontré son incapacité à nourrir la planète ! Projetons nous dans le futur ; A ce rythme là, en 2050 nous serons plus de 9milliard d’être humains sur terre, ce modèle industriel ne pourra pas nourrir autant de monde... autant dire qu’en 2050, si on continue comme cela on aura de gros soucis)
    – Mais aussi, de mieux manger (car les produits qu’ils consommeront seront cultiver sur des terrains sains, dans le cadre d’une agriculture biologique et naturelle sans rajout de produits chimiques pour augmenter la productivité et contribuer à plus de gaspillage par la meme ocassion....( il suffit d’aller jeter un coup d’oeil le soir derrière votre supermarché le nombre de produits jetés alors qu’il y a des milliers de personnes qui meurt de faim )
    – de voir une telle biodiversité (pas besoin de rappeler comment les gosses adorent les promenades dans les bois et découvrir une multitude de bestiaux et autres formes de vie en tout genre.. ; Or l’agriculture actuelle ne préserve en rien la biodiversité)
    – de préserver leur santé ( et oui si aujourd’hui vous vous demandez pour j’ai des problèmes de peau, pour j’ai dees allergies, pourquoi autant de gens attrapent des cancers et autres maladies du genre, c’est p-t parce que dans vos aliments que vous achetez au supermarché, il y a énormément de produits chimiques qui agressent votre corps.. le lait, les céréales, le pain, les fruits et légumes, la viande,... partout, ils en foutent partout !)
    – socialement, vous apprendrez aussi les valeurs de la solidarité à vos enfants ... Acheter de produits chez son fermier ou l’agriculteur bio du coin permettra à celui-ci de vivre de son travail plutot que de devoir écouler sa marchandise à un sous-prix au industries de l’agro-alimentaire.

    Bref tout cela pour vous dire, qu’il est préférable pour tous de manger des produits bio de votre région plutot que ceux du supermarché qui ont fait des km pour arriver là ! Il existe des Groupe d’achat commun partout en Belgique qui peuvent vous fournir en aliments sains et locaux. C’est par exemple, un fermier bio dans un village qui produits et vends sa production pour l’ensemble des villageois. Il vend des paniers de produits laitiers, légumes, fruits de saison et bio (cela dépends un peu de chaque producteurs). Vous savez d’ou vient votre bouffe, comment elle a été cultivé, vous pouvez aller visiter sa ferme et lui d’ailleurs doit avoir un label de certification. Et enfin vous bouffer sainement, pas de gaspillage car vous aller chercher votre panier toutes les semaines ou 2 semaines en fonction des menus que vous planifiez ! Si c’est pas top ca !

    ou alors, vous faites comme mon papa, vous faites votre potager ! Encore faut-il ne pas s’aider d’engrais chimique et choisir des semences certifiées bio et non des semences hybirdes industrielle dont la seule vocation est le meilleur rendement car plus résistante et réagissent mieux aux intrants chimique. En plus ces semences hybrides ne sont pas réutilisables, alors que celles des fermiers le sont. Les industries semencières sont en train de déposséder les fermiers de leur marché de semences !

    Attention, tous les produits bio ne sont pas top ! Au supermarché, vous pouvez effectivement trouvez des produits bio. C’est bien vous allez dans la bonne direction mais attention, acheter des pommes de terre bio en provenance du Pérou ne sert à rien ... non seulement vous contribuer à augmenter le CO2 dans l’atmosphère puisque ces pommes de terres sont arrivées en avion mais en plus le monde économique spécule sur les denrées alimentaires à l’importation et à l’exportation, vous ne rendez pas service à ce producteur de pommes de terre, qui plus est à du vendre tout son stock pour avoir de l’argent en retour et n’a plus rien pour sa propre consommation personnelle.

    Et puis aussi, pensez à manger moins de viande, l’élevage contribue intensivement au dérèglement climatique, cela nous évitera de vivre inondations, sécheresse, tempête et autres phénomène météorologique extrêmement du style !

    Comme quoi, il y en a des choses à faire !

    bonne journée !
    Excusez moi pour l’orthographe, je ne me suis pas relue, et je n’ai pas envie de me relire car j’ai du pain sur la planche !

    Dorothé

    #Via_Campesina, #souveraineté_alimentaire