• Da “sudditi coloniali” a partigiani d’Oltremare. Un’esperienza antirazzista della Resistenza

    Giunti in Italia per essere esposti nello “zoo umano” della #Mostra_triennale_delle_Terre_d’Oltremare nel 1940, ne uscirono dopo la guerra come partigiani liberatori. Lo storico Matteo Petracci ha il merito di aver riportato alla luce la vicenda di una dozzina di uomini e donne provenienti dal Corno d’Africa, membri della “#banda_Mario”. Dopo la Liberazione dovettero affrontare però l’“offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana”. L’abbiamo intervistato

    Arrivati in Italia come sudditi coloniali da esporre nello “zoo umano” della Mostra triennale delle Terre d’Oltremare nel 1940, ne uscirono anni dopo, terminata la Seconda guerra mondiale, come partigiani. Erano una dozzina di uomini e donne provenienti dal Corno d’Africa: lo storico Matteo Petracci ha riportato alla luce la loro vicenda unica con il libro “Partigiani d’oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana” (Pacini Editore, 2019).

    Le loro storie, insieme a quella dell’italo-etiope Giorgio Marincola e non solo, testimoniano la presenza nelle forze della Resistenza italiana di partigiani provenienti dal continente africano.

    Uno di loro era l’etiope Abbabulgù “Carlo” Abbamagal, che compare in due posizioni diverse nelle foto scattate ai partigiani della banda “Mario”, attiva nelle Marche nei mesi dell’occupazione nazista tra 1943 e 1944. Da queste immagini, conservate presso l’archivio fotografico Anpi di San Severino Marche (MC), prende avvio il nostro incontro con lo storico Matteo Petracci alla scoperta di un’esperienza intrinsecamente antirazzista e meticcia durante la Resistenza italiana.

    Come mai hanno voluto scattare e tramandare, con tutti i rischi che l’eventuale scoperta di quelle foto da parte dei nazifascisti avrebbe potuto comportare, due fotografie praticamente identiche? Che cosa ci rivelano quelle immagini?
    MP Sono state scattate in sequenza: la prima immortala il momento in cui, proprio mentre il gruppo partigiano è in posa su due file, passa il loro compagno etiope che, infatti, compare di striscio e seminascosto sullo sfondo. Decidono allora di farne una seconda, in cui il ragazzo africano si staglia al centro dell’immagine, in mezzo ai suoi compagni di lotta. Queste due foto sono la rappresentazione plastica delle motivazioni ideali che avevano portato queste persone ad armarsi e a lottare contro il progetto nazifascista: richiamando il compagno etiope e facendolo posare al centro della foto hanno voluto enfatizzare una visione del mondo antitetica a quella fascista, sottolineando il valore della solidarietà internazionale e il carattere autenticamente antirazzista della banda “Mario”.

    “A very mixed bunch”, la definì infatti un ex prigioniero inglese. Come mai? Che brigata partigiana era quella che accolse nei suoi ranghi le donne e gli uomini portati in Italia nel 1940 e fuggiti nel 1943 da Villa Spada nel Comune di Treia (MC) in cui erano confinati dopo il trasferimento da Napoli?
    MP La peculiarità di questa formazione partigiana, ovvero la sua composizione marcatamente internazionale, è stata resa possibile da una serie di fattori. In particolare, è stata fondamentale la presenza nei dintorni di diversi campi di prigionia e internamento realizzati dal fascismo nelle zone interne delle Marche e, più in generale, dell’Appennino. La notizia della firma dell’Armistizio l’8 settembre e il conseguente dissolvimento dei centri di comando spinse molti alla fuga, diretti verso le montagne. Qui trovarono dei validissimi alleati all’interno della popolazione contadina della zona: li nascosero, diedero loro da mangiare e fornirono loro le indicazioni necessarie a poter raggiungere i luoghi dove, nel frattempo, si stavano formando i primi gruppi partigiani intorno a figure carismatiche e con un’esperienza politica e militare tale da coagulare intorno a sé i fuggitivi. Mario Depangher era uno di questi: nato a Capodistria nel 1896, conosceva cinque lingue ed era fuggito anche lui dalle prigioni fasciste. Diventò nel giro di poco “la persona giusta nel posto giusto”, aggregando attorno a sé donne e uomini scappati dai campi di prigionia: militari sbandati, antifascisti della zona, preti e anche l’imprenditore Enrico Mattei. Alla banda “Mario” si unirono, dopo la fuga dalla struttura nel Comune di Treia, anche quattro etiopi, portati in Italia nel 1940 per la Mostra triennale delle Terre d’Oltremare e impossibilitati a tornare a casa con l’entrata dell’Italia in guerra. Per loro quattro, a cui si unirono, dopo l’attacco partigiano in cerca di armi a Villa Spada del 28 ottobre 1943, anche altri somali, eritrei ed etiopi, tra cui due donne, la partecipazione alla Resistenza fu una scelta del tutto volontaria e una forma di riscatto personale, ancora prima che politico.

    Nella banda “Mario” c’erano partigiani di tante nazionalità. Come gestivano una questione banale ma centrale nella vita di una qualunque organizzazione come le diversità linguistiche?
    MP Dalle testimonianze raccolte sia da alcuni partigiani sia nei documenti, pare che che ogni singolo gruppo nazionale utilizzasse la propria lingua al proprio interno, mentre l’italiano era una lingua franca, utilizzata e conosciuta da tutti. Molti combattenti della banda “Mario”, infatti, erano stati portati in Italia forzatamente e sapevano benissimo quanto fosse importante la conoscenza della lingua locale, soprattutto in caso di fuga. È curioso notare, però, come ogni tanto le persone che ho intervistato utilizzassero anche parole straniere per descrivere quanto successo in quei mesi nella banda “Mario”: ho immaginato che alcune espressioni, a prescindere dall’origine, fossero diventate di uso comune all’interno di questa formazione partigiana. È come se, in quei mesi, fosse nata una sorta di lingua universale composta da parole provenienti da lingue diverse: era una sorta di esperanto partigiano.

    La storia dei partigiani provenienti dal Corno d’Africa della banda “Mario” non si conclude, però, con la Liberazione. Quali altre sfide dovettero affrontare? Uno di loro si trovò anche sotto processo per omicidio. Ci può raccontare?
    MP Nel luglio del 1944 la zona dove operava il battaglione Mario venne liberata e in molti si trovarono di fronte al dilemma su cosa fare. Alcuni si arruolarono con il Corpo Volontario per la Libertà e continuarono a combattere fino alla Liberazione di Bologna. Con la fine delle ostilità, uno degli ex combattenti etiopi, però, si trovò addirittura a affrontare un processo per episodi successi durante l’esperienza partigiana. Erano gli anni della cosiddetta “offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana” e a farne le spese fu anche l’etiope Abbagirù Abbanagi, partigiano della banda “Mario”, arrestato con l’accusa di aver ucciso un milite fascista per rapina. Dal carcere, con l’aiuto di un amico italiano, cominciò a scrivere delle lettere alla neonata Anpi a Roma che, contattata la sezione locale, lo fece assistere dall’ avvocato antifascista Virginio Borioni, passato sia dalle galere fasciste sia dall’esperienza del confino. Alla fine, grazie al supporto dell’Anpi locale e dell’avvocato, il partigiano etiope venne prosciolto dall’accusa, uscì dal carcere e tornò nel suo Paese. Nel Corno d’Africa era tornato anche un altro dei combattenti africani della banda “Mario”, il somalo Aaden Shire Jamac. A Mogadiscio si iscrisse alla Lega dei Giovani Somali e prese parte al processo di decolonizzazione dell’ex colonia italiana: sarebbe diventato pochi anni dopo ministro nei governi dopo l’indipendenza del Paese.

    https://altreconomia.it/da-sudditi-coloniali-a-partigiani-doltremare-unesperienza-antirazzista-
    #Italie #colonialisme #Italie_coloniale #partisans #Résistance #WWII #seconde_guerre_mondiale #histoire_coloniale #zoo_humain #Carlo_Abbamagal #Abbabulgù_Abbamagal #photographie #Villa_Spada #Treia #montagne #Mario_Depangher #Enrico_Mattei #langue #Corpo_Volontario_per_la_Libertà #Abbagirù_Abbanagi #Aaden_Shire_Jamac #Lega_dei_Giovani_Somali

    • Partigiani d’oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana

      Napoli, 1940. L’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale sorprende un gruppo di somali, eritrei ed etiopi chiamati ad esibirsi come figuranti alla Mostra delle Terre d’Oltremare, la più grande esposizione coloniale mai organizzata nel Paese. Bloccati e costretti a subire le restrizioni provocate dalle leggi razziali, i “sudditi coloniali” vengono successivamente spostati nelle Marche dove, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e lo sfaldamento dello Stato, alcuni decidono di raggiungere i gruppi di antifascisti, militari sbandati, prigionieri di guerra e internati civili che si stanno organizzando nell’area del Monte San Vicino.

      Attraverso testimonianze, documenti e fotografie, l’autore ricostruisce il percorso di questi Partigiani d’Oltremare, raccontandone il vissuto, le possibili motivazioni alla base della loro scelta di unirsi alla Resistenza e la loro esperienza nella “Banda Mario”, un gruppo partigiano composto da donne e uomini di almeno otto nazionalità diverse e tre religioni: un crogiuolo mistilingue che trova nella lotta al fascismo e al nazismo una solida ragione unificante.

      https://www.youtube.com/watch?v=mdjLAqMB-p4


      https://www.pacinieditore.it/prodotto/partigiani-oltremare

      signalé ici aussi:
      https://seenthis.net/messages/1018245

      #livre

  • #Tanzania’s #marine_reserves offer long-term #benefits to #communities, study finds

    https://news.mongabay.com/2025/03/tanzanias-marine-reserves-offer-long-term-benefits-to-communities-stu

    #Marine_protected_areas in #Tanzania boosted living standards in nearby communities over a span of nearly 20 years, a recent study in Conservation Letters found.

    Near #MPAs, living standards improved, and there was a shift away from agricultural work, said study author #Julia_Girard, a Ph.D. student in #environmental_economics at the #University_of_Montpellier, France.

    How marine reserves fare in conservation and community development is an important question for Tanzania, where 20% of the population is heavily dependent on #fisheries for #food and #income.

    The country established five multiuse MPAs in the 1990s, which allow fishing with additional rules designed to promote sustainability. Scientists have identified MPAs where regulated fishing activity is permitted as powerful tools to help Tanzania and other nations protect 30% of their #oceans by 2030 without denying fishers their livelihoods.

    To see how these MPAs have impacted local development, the research team surveyed 840 households in 24 #villages in 2021, asking questions about employment, fishing history, standard of living, and perceptions about the marine reserves. They then compared the data with the results of a similar survey conducted in 2003. This is one of just a few studies documenting the #long-term_impacts of #multiuse_MPAs on #local_development.

  • How To Erase a People

    They did it to Native Americans, to Palestinians like my family in 1948, and now Trump wants to do it again in Gaza. It’s called ’forcible transfer,’ and it kills something much greater than any individual life.

    https://www.youtube.com/watch?v=IcVR3qwdkgM


    #peuples_autochtones #effacement #génocide #transferts_de_population #vidéo #Gaza #Trump #perte #Palestine #forêt #nakba #kibbutz #Kibboutz #destruction #Tlingit #langue #archipel_Alexandre #USA #Etats-Unis #saumon #Lakota #bisons #cherokee #irrigation #agriculture #Lakhota #nature #wilderness #histoire #Oklahoma #auto-suffisance #dépendance #enfants #assimilation #culture #expulsion #terre #fruits #légumes #oliviers #arbres #Israël #nettoyage_ethnique #réfugiés_palestiniens #camps_de_réfugiés #Liban #histoire_familiale #graines #semences #Cisjordanie #colonisation #écocide #pins #autochtonie
    ping @reka

    –—

    La réalisatrice fait référence à ce tableau intitulé « The immigrant » de #Sliman_Mansour :


    https://zawyeh.store/product-category/limited/sliman-mansour
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Sliman_Mansour

    #Piste_des_larmes (#trail_of_tears) :

    La Piste des larmes (en cherokee : Nunna daul Isunyi, « La piste où ils ont pleuré » ; en anglais : Trail of Tears) est le nom donné au #déplacement_forcé de plusieurs peuples natif américains par les États-Unis entre 1831 et 1838. Ces populations s’établissent à l’ouest du #Mississippi et leurs anciennes terres sont remises à des colons américains, en application de l’#Indian_Removal_Act, #loi proposée et signée par le président #Andrew_Jackson. Les Cherokees sont alors le plus important groupe autochtone de la zone impliquée.


    https://fr.wikipedia.org/wiki/Piste_des_larmes

    #Bruce_King :


    https://brucekingartist.weebly.com/smaller-paintings.html
    #art

    via @freakonometrics

  • https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2025/01/19/pierre-ferracci-president-du-paris-fc-et-homme-d-affaires-tout-terrain_65048

    #Pierre_Ferracci, président du Paris FC et homme d’#affaires tout-terrain
    Par #Yann_Bouchez

    PORTRAIT Le président du modeste #club_de_football sera-t-il le premier dirigeant à pouvoir rivaliser avec le #PSG dans la capitale ? L’accord conclu à l’automne avec la #famille_Arnault lui donne trois ans pour y travailler. Un joli coup pour cet homme de #réseaux qui s’apprêterait, à 72 ans, à passer les rênes du #groupe_Alpha, le #cabinet_de_conseil spécialisé dans les #relations_sociales qu’il a fondé.

    Présider un club de #Ligue_2, l’antichambre de l’#élite du football professionnel, n’est pas toujours une sinécure. Ce samedi 7 décembre au soir, il pleut à verse sur #Ajaccio. Dans les tribunes du stade Michel-Moretti, un millier de courageux, guère plus, est venu assister au match opposant l’#AC_Ajaccio au #Paris_FC (PFC). Entre deux chants corses couvrant le bruit de la pluie, des supporteurs locaux lancent, de temps à autre, des noms d’oiseaux visant les « Français » de l’équipe parisienne.

    A 72 ans, Pierre Ferracci en a vu d’autres. Veste grise sur jeans foncé, cheveux clairsemés, le patron du Paris Football Club, lui-même né à Ajaccio, suit la rencontre en tribunes. Il s’est assis entre son fils François, directeur sportif du PFC, et un ex-dirigeant de l’AC Ajaccio. Le voilà presque comme un spectateur lambda ; ce soir-là, il a ignoré la loge dévolue aux dirigeants du club visiteur, trop excentrée.

    Le plateau de coppa, lonzu et fromages corses est resté intact, tout comme la bouteille de champagne. Malgré tout, Pierre Ferracci, s’est régalé. Au coup de sifflet final, scellant une victoire des Parisiens sur deux buts gaguesques, il s’invite sur la pelouse. Sous la pluie battante, il serre des mains, tout sourire. A ses joueurs comme aux adversaires.

    Changement de dimension

    Pierre Ferracci est un patron de club heureux. Les récentes défaites n’y changeront rien. D’ailleurs, le PFC, actuel troisième du classement, peut toujours viser la montée en Ligue 1 en fin de saison. « Je suis heureux parce que j’ai l’impression d’avoir mis le club sur de bons rails », avançait-il, satisfait, avant le match face à Ajaccio. « De bons rails », l’expression frise la coquetterie. Car le septuagénaire, fondateur et dirigeant du groupe Alpha, spécialiste et leader du conseil en ressources humaines, vient sans doute de réussir l’un des plus beaux deals de sa carrière. Le plus retentissant, à coup sûr.

    L’information a d’abord fuité dans le quotidien sportif L’Equipe, le 9 octobre. Une semaine plus tard, confirmation officielle : le Paris FC, modeste club de Ligue 2, jusque-là aux mains de Pierre Ferracci, accompagné d’un pack d’actionnaires, est en passe d’être racheté par la famille Arnault. Promesse, avec ces milliardaires, d’un changement de dimension. Et si émergeait enfin un « deuxième club de la capitale » capable, qui sait, de rivaliser un jour avec le richissime Paris Saint-Germain, sous pavillon qatari ?

    Le 20 novembre, foin de bling-bling, c’est dans la cantine du centre de formation du PFC, à Orly (Val-de-Marne) que Pierre Ferracci et Antoine Arnault, patron de deux fleurons du groupe de luxe LVMH, le maroquinier Berluti et le spécialiste du cachemire de très grand luxe, commentent l’union. Face à eux, des dizaines de caméras et une centaine de journalistes. L’affluence, pour une conférence de presse du PFC, est inédite. L’aîné de la fratrie Arnault, 47 ans, fan de foot et… du PSG, prend des accents philanthropiques : « L’idée est de rendre à la société, à Paris, à notre pays, ce qui nous a été donné. » Une manière adroite, peut-être aussi, de faire oublier les dribbles du patriarche avec le fisc.

    Un carnet d’adresses bien fourni

    Pierre Ferracci savoure le moment. Avec gourmandise, il évoque les coulisses de l’opération, en se gardant de tout dévoiler. La décision prise « avec [ses] deux fils, à l’été 2023 », de « s’associer à des forces économiques plus puissantes que les [leurs] » pour viser la Ligue 1. La satisfaction d’avoir trouvé, ensuite, par le biais de la banque Rothschild, un investisseur français « alors qu’aujourd’hui les deux tiers des clubs de L1 et de L2 sont contrôlés par des capitaux étrangers ». « Un enjeu de souveraineté nationale », ose-t-il, tout en reconnaissant que ces dernières années, il avait réuni au capital du Paris FC, « à titre minoritaire » certes, des actionnaires venus de Bahreïn, des Etats-Unis, d’Arménie et du Sri Lanka.

    Du montant du rachat, il ne dit rien ou presque. Il conservera 30 % des parts jusqu’en 2027, date prévue de son départ de la présidence du club. Agache Sport, la holding des Arnault, possédera alors 85 % du PFC, contre 15 % pour Red Bull – sous réserve que BRI Sports Holding, l’actionnaire anglo-sri-lankais, le seul qui résiste, accepte de vendre ses parts (7 %).

    Jongler avec les sujets économiques, politiques et sportifs, voilà la marque de fabrique de cet homme de réseaux. Autoproclamé « de gauche » et « homme de compromis », ce patron tout-terrain évolue au carrefour de plusieurs mondes. L’entrepreneur, aujourd’hui à la tête d’un groupe fort d’un millier de collaborateurs et d’un chiffre d’affaires annuel supérieur à 140 millions d’euros, côtoie depuis des décennies le gratin des grands patrons, des syndicalistes, comme des dirigeants sportifs. Il déteste l’expression « homme d’affaires », trop « péjorative » à ses yeux.

    Ses différentes activités lui ont permis de se constituer l’un des carnets d’adresses les plus fournis du Tout-Paris. Depuis vingt ans, il loue, au travers de sa société Alpha, une loge VIP au Stade de France – compter environ 200 000 euros à l’année. Il y invite les huiles du monde patronal et syndical. « Le foot, résume-t-il, c’est le sport le plus populaire de la planète. Il fédère beaucoup de personnes, d’états d’esprit différents. J’aime ça. »

    « Il était très militant »

    Le sport, pourtant, a d’abord occupé une place annexe dans sa vie. Car, avant tout, il y eut les affaires. Certes, dans les années 1960, gamin à Ajaccio, Pierre Ferracci allait voir les matchs du Gazélec, le club de foot des gaziers et électriciens corses. S’il en est resté un « supporteur historique », cela relevait en partie, à l’époque, du tropisme héréditaire.

    Albert Ferracci, son père, instituteur et ancien résistant, fut une figure éminente en Corse du Parti communiste. Sa mère, Rose, également enseignante et syndicaliste, partageait les mêmes engagements. Le soutien au Gazélec s’est imposé comme une évidence. Mais, niveau loisirs, le petit Pierre préfère encore, durant ses vacances d’été, les parties de chasse sous-marine du côté de Suartone, un village dans le sud de l’île, près de Bonifacio, où habite la famille du côté paternel.

    Doué à l’école, Pierre Ferracci monte à la capitale et mène des études d’économie et d’expertise comptable à l’université Paris-Dauphine. L’un de ses profs s’appelle Jacques Attali – on y reviendra. Déjà, l’étudiant porte plusieurs casquettes. Il adhère aux Jeunesses communistes – il prendra vite ses distances avec le #PCF – et à l’#UNEF, syndicat étudiant marqué à gauche. « Il était très militant mais pas gauchiste du tout », se remémore Paul-Antoine Luciani, un ami de la famille, figure #communiste et ancien adjoint à la #mairie d’Ajaccio.

    Rapports cordiaux avec Vincent #Bolloré

    Le jeune homme tisse des liens avec la #CGT. La figure de son père, très respecté chez les communistes, est un atout qu’il n’est pas besoin d’inscrire sur son CV. Précieux pour lancer sa carrière. Au début des années 1980, il rejoint un petit cabinet d’expertise-comptable, Maréchal. Très vite, il grimpe les échelons, en prend la tête. Les #lois_Auroux, en 1982 et en 1983, favorisent les négociations salariales et élargissent le rôle des comités d’entreprise (CE). #Pierre_Ferracci flaire le bon filon.

    Son groupe, #Alpha, qui voit le jour en 1983, d’abord avec le cabinet #Secafi, s’impose assez vite sur cette niche très rentable ; la CGT deviendra un de ses principaux clients, avec le syndicat des cadres #CFE-CGC plus récemment. Le cabinet de conseil travaille aujourd’hui pour environ 2 000 comités sociaux et économiques (#CSE). Le groupe s’est diversifié : il s’occupe aussi du reclassement des salariés, après un plan de licenciement. Un conflit d’intérêts, s’offusquent des concurrents du secteur qui reprochent à Alpha de jouer sur les deux tableaux, #syndical et #patronal. « La plupart du temps, on modifie à la marge les plans de licenciement. Donc l’accompagnement des salariés licenciés, c’est la suite logique », répond Pierre Ferracci.

    Grâce à son activité, il est l’un des #patrons les mieux informés de l’état de santé des grandes entreprises françaises. L’expert du #dialogue_social cultive une proximité avec un nombre incalculable de patrons. Il y a eu les #Corses, comme Jean-Cyril Spinetta, PDG d’Air France (1997-2008), ou Jean-Marie Colombani, directeur du Monde (1994-2007). Et puis des figures du #CAC_40 et capitaines d’industrie, parmi lesquels le spécialiste du textile Maurice Bidermann (mort en 2020), l’ancien sidérurgiste et ex-ministre Francis Mer ou encore Vincent Bolloré.

    Pierre Ferracci connaît le milliardaire conservateur breton « depuis longtemps ». « Dans les années 1990, j’ai même réussi à lui faire rencontrer, lors d’un repas, Louis Viannet, le secrétaire général de la CGT. » Et d’ajouter, facétieux : « C’était à l’époque où Vincent Bolloré avait une image un peu plus sociale qu’aujourd’hui. » Il a conservé des rapports cordiaux avec l’industriel : « Mais on parle plus de football et de #Canal que du #JDD et de #CNews, si c’est ça que vous voulez savoir. »

    Donateur du candidat d’En marche !

    Pierre Ferracci n’a cessé de tisser son réseau, tous azimuts. Son étiquette d’expert des questions sociales est un précieux sésame. En 2007, au début de la présidence Sarkozy, il accepte d’être membre de la commission #Attali sur la libération de la croissance. Beaucoup, à la CGT, tiquent. Peu lui importe. Le Corse aime le rappeler aux journalistes : c’est Emmanuel Macron, alors banquier chez #Rothschild et rapporteur général adjoint de la commission, qui a glissé son nom. « Manu », comme il l’appelle en privé, le tutoyant, est depuis vingt ans l’un des amis de son fils aîné, #Marc_ferracci, économiste devenu ministre sous les gouvernements Barnier puis Bayrou.

    Etudiants à Sciences Po, Marc Ferracci et Emmanuel Macron ont préparé l’#ENA ensemble. Les révisions s’organisaient parfois dans le chic appartement que loue aujourd’hui encore Pierre Ferracci près du jardin du Luxembourg, à Paris. En 2017, l’homme d’affaires sera d’ailleurs l’un des donateurs du candidat d’En marche !, ce qui ne l’a pas empêché, par la suite, de critiquer publiquement l’actuel chef de l’Etat, avec qui il conserve des relations « respectueuses et amicales ». Insaisissable Pierre Ferracci. Sous la présidence #Hollande, en 2014, il est nommé à la tête du Conseil national éducation économie, une structure visant à favoriser le dialogue entre le système éducatif et les entreprises. Il a également été membre du Conseil d’orientation pour l’emploi.

    « Pierre, c’est un pont entre plusieurs mondes, courtois, bon vivant », résume le consultant en stratégie sociale Antoine Foucher, qui a appris à le connaître lorsqu’il travaillait au Medef, vers 2012-2013. « Je ne suis jamais pour la politique de la chaise vide, justifie Pierre Ferracci. Là où il y a moyen de faire passer ses idées, j’y vais. » Son mantra : que les choix économiques n’écrasent pas les questions sociales. Ses détracteurs dénoncent des compromissions, lui vante les « compromis équilibrés ».

    Débuts catastrophiques au Paris FC

    C’est le football qui va lui permettre d’étoffer encore ses réseaux. Au début des années 2000, le conseil général de Seine-Saint-Denis et la ville de Saint-Ouen demandent à son groupe un audit du Red Star, avant de le sonder pour qu’il reprenne les rênes du club. L’affaire n’est pas conclue, mais elle lui donne des idées. En 2007, Guy Cotret, dirigeant du Crédit foncier, fait entrer Pierre Ferracci dans l’actionnariat du Paris FC, alors en National, le troisième échelon français.

    Le Corse sympathise avec des dirigeants et des personnalités du ballon rond, comme le mythique entraîneur Arsène Wenger ou le journaliste Didier Roustan. « Le football lui a permis d’élargir son carnet d’adresses avec des personnalités qui ne sont pas forcément celles qu’il rencontrait habituellement à travers son activité », résume Guy Cotret. Qui, en 2012, se fait évincer par Pierre Ferracci de la tête du club. « Il avait mis au pot plus que moi, 1 million d’euros environ, se remémore le président déchu et fâché à l’époque. Il voulait garder la main. C’est un chef d’entreprise, il y a une part d’autoritarisme qui n’est pas anormale. Mais l’affaire s’est conclue en bonne intelligence. »

    Les débuts de la présidence Ferracci au Paris FC sont catastrophiques. Le club est relégué. Les entraîneurs valsent les uns après les autres. La venue comme conseiller de son ami le journaliste Charles Villeneuve, ex-président du PSG rencontré par l’intermédiaire d’#Alain_Minc, est un échec. Le projet, avec Jean-Marc Guillou, un ancien joueur de l’équipe de France qui a entraîné par la suite la Côte d’Ivoire, de faire venir des jeunes joueurs africains, ne prend pas non plus. « Ça m’a vacciné d’entrée, ça c’est sûr », observe Pierre Ferracci avec le recul. Depuis plus de dix ans, il ne jure plus que par la formation locale et la richesse du bassin parisien. « Il croit à ce projet et a une vision claire de ce qu’il veut faire », salue Jean-François Martins, ancien adjoint aux sports à la mairie de Paris.

    Accord critiqué avec le #Bahreïn

    En douze ans de présidence, Pierre Ferracci a professionnalisé le PFC. Sans parvenir à lui faire goûter à la Ligue 1. Un centre d’entraînement et de formation a été inauguré à Orly en 2019. Le budget du club, l’un des plus gros de Ligue 2, se situe désormais autour de 30 millions d’euros. Pierre Dréossi, figure connue de la Ligue 1 et manageur général du PFC de 2015 à 2020, loue un patron de club qui a su « trouver des partenaires financiers ».

    En 2015, ce fut d’abord Vinci comme sponsor – un groupe que le cabinet Secafi connaissait bien. Puis le Bahreïn en 2020, à l’époque pour 25 millions d’euros et 20 % du capital du club – et 2 millions d’euros annuels pour être sponsor maillot. L’accord a suscité son lot de critiques, d’autant que le prince Nasser Ben Hamed Al Khalifa, à la tête du fonds bahreïni, est accusé par plusieurs ONG d’actes de torture. « Vous avez au Bahreïn une synagogue, une église catholique, une église orthodoxe et beaucoup plus de liberté pour les femmes qu’au Qatar, donc je n’avais pas de problème avec le Bahreïn », balaie cet athée revendiqué – « je suis très croyant : je crois que Dieu n’existe pas » –, qui apprécie peu de recevoir des leçons.

    Pierre Ferracci reconnaît d’ailleurs sans mal avoir essayé, « dans les années 2014-2015 », de recruter le géant russe #Gazprom comme sponsor : « En octobre 2015, j’ai même eu un rapide échange avec #François_Hollande, #Vladimir_Poutine et #Alexandre_Orlov [ambassadeur de la Russie à Paris] à ce sujet. » Aucun accord n’a été trouvé, mais la rencontre lui a rappelé l’époque où Alpha avait des bureaux à Saint-Pétersbourg et à Moscou.

    Ces dernières années, avant le rachat par #les_Arnault, il a réussi, grâce à son seul entregent, quelques « coups ». Comme faire de Raï, l’ex-star brésilienne du PSG, pas vraiment désireuse de travailler avec les Qataris, un ambassadeur du PFC. Ou de rendre gratuite la billetterie du stade Charléty, l’enceinte du Paris FC, aux tribunes souvent aux trois quarts vides – cela a un peu changé ces derniers mois. Fin novembre 2024, il a nommé son ami #Michel_Denisot au conseil d’administration du PFC. L’homme de télé, ex-président du PSG, est aussi un ancien de Canal+. Le dirigeant du PFC milite d’ailleurs pour qu’un jour la #chaîne_cryptée et le football français renouent leur longue alliance, interrompue ces dernières années. En vain pour l’instant.

    L’affaire de ses villas

    Au cours des dernières semaines, la BBC, le New York Times ou le Washington Post l’ont sollicité pour des interviews. Flatteur, même pour cet habitué de la presse. S’il est intarissable sur les mille et une nuances du monde syndical, les petites ou grandes histoires du football européen, il l’est beaucoup moins, en revanche, sur ce qu’il considère relever de son intimité. De son goût pour les bolides, il n’a jamais rien dit. Rien non plus sur ses revenus – un peu plus de 750 000 euros déclarés auprès du fisc pour l’année 2018, selon nos informations.

    L’affaire de ses deux villas et de sa piscine près de #Suartone, en Corse, qui lui ont valu une longue bataille judiciaire et 1 #million_d’euros d’amende pour un permis de construire non respecté, l’agace encore. S’il a pu conserver les #villas, il n’a pas digéré les nombreux articles écrits. « Une conséquence de ma relation avec Emmanuel Macron », estime-t-il à propos de cette #attention_médiatique. Mais, même sur ces polémiques, le verbe s’emporte rarement. « Il est assez insondable, Pierre, observe Jean-François Martins, l’ex-adjoint parisien, c’est assez déroutant. Il n’est pas surexpressif, même s’il dit ce qu’il pense. »

    Le ton affable et le goût revendiqué pour le dialogue social de Pierre Ferracci ne convainquent pas tout le monde. Plusieurs ex-salariés du groupe Alpha décrivent, sous couvert d’anonymat, un patron « autocrate » et « un management de la tension ». Simple aigreur de collaborateurs licenciés ? Pas sûr : l’inspection du travail s’est émue, à plusieurs reprises, au mitan des années 2010, du manque de dialogue chez Secafi-Alpha lors de plans de réorganisation, avec des #syndicats_internes informés « au compte-goutte ».

    En 2015, un fichier des ressources humaines listant des dizaines de salariés avec des remarques désobligeantes et parfois personnelles fuite. #Scandale dans le groupe. « Il y a eu des sanctions, ces pratiques n’existent plus », assure Pierre Ferracci. Et d’ajouter : « Le groupe Alpha n’est ni une entreprise parfaite ni, compte tenu du modèle social qu’elle a mis en place, un groupe qui doit être l’objet de toutes les critiques, tant s’en faut. »

    Des mystères demeurent
    Au sein du Paris FC, depuis ses débuts compliqués, tout le monde reconnaît l’implication de Pierre Ferracci. Il assiste à la plupart des matchs. Mais quelques mystères demeurent. Combien d’argent a-t-il mis dans le club depuis près de quinze ans ? « Beaucoup, beaucoup », sourit-il. Mais encore ? « Ça, je ne le dirai jamais. » Malgré nos relances, il ne précise pas, non plus, à quel prix le club a été racheté – « ça n’a pas grande importance ». D’une formule, il reconnaît tout de même : « C’est une très belle #valorisation. » Et ajoute qu’il est « ravi que tous les actionnaires qui [l]’ont suivi depuis le départ n’ont pas perdu d’argent mais en ont gagné » avec la reprise par les Arnault. Lui compris, évidemment.

    Au sujet des nouveaux propriétaires, Pierre Ferracci l’assure : il ne connaissait pas personnellement la #famille_Arnault avant le printemps, au début des négociations. Avec son groupe Alpha, il avait pourtant eu à gérer, dans les années 2000, deux dossiers sensibles liés à LVMH. D’abord, la fermeture contestée de la Samaritaine, où son cabinet Secafi avait été très critiqué par des salariés l’accusant d’avoir joué le jeu de la direction. Ensuite, le rachat (d)#Les_Echos par #Bernard_Arnault.

    Antoine Arnault confirme n’avoir, avant le printemps 2024, que « croisé » le président du PFC « dans différentes réceptions ou événements liés à nos vies professionnelles ». Mais, depuis le printemps, ils ont appris à se connaître et à s’apprécier. Le patron de Berluti salue des #négociations menées « avec une grande intelligence et une grande patience ». « Après, nuance le nouveau propriétaire du Paris FC, c’est quelqu’un qui a aussi ses idées et qui n’en démord pas, et va négocier de manière extrêmement déterminée. Ce n’est pas un enfant de chœur, Pierre Ferracci. » C’est dit comme un compliment.

    Le casse-tête du stade

    Ces dernières semaines, Antoine Arnault, habitué aux tribunes VIP du Parc des Princes, a assisté à des matchs de son nouveau club. Même si l’enceinte du Paris FC n’a pas de loges, il a pu y côtoyer du beau monde. « Pierre Ferracci est quelqu’un qui a une très grande intelligence des gens et qui arrive à se les mettre dans la poche, jauge-t-il. Quand je vais à Charléty et que je croise aussi bien Philippe Martinez que Pascal Obispo… Il réussit à réunir des gens d’univers très différents et à les faire dialoguer. Dieu merci, avec Martinez, ce n’est pour l’instant que pour parler foot ! »

    Cette année, Pierre Ferracci a promis de passer la main à la présidence du groupe Alpha. D’ici à l’automne, il souhaite créer un fonds de dotation pour soutenir des actions liées à « l’éducation des tout-petits », un sujet cher à ce fils d’instits. Sa casquette de président du Paris FC, pour trois ans encore, devrait bien l’occuper.

    Les #chantiers ne manquent pas. Il y a cette montée en Ligue 1, dont il rêve depuis des années. L’agrandissement du centre d’entraînement, à #Orly, qui paraît sous-dimensionné au vu des ambitions des nouveaux propriétaires. Et puis, surtout, le casse-tête du stade. #Charléty, avec sa piste d’athlétisme et ses tribunes ouvertes aux quatre vents, n’est pas l’écrin rêvé. Il faudrait le réaménager, si la Ville de Paris l’accepte. Afin de pouvoir accueillir les célébrités qui devraient se presser en tribunes, pour voir jouer le club alliant désormais le savoir-faire du président Ferracci à l’argent des Arnault.

    #Yann_Bouchez

  • Habitat insalubre : le plus grand décasage de l’histoire de Mayotte va débuter ce lundi matin à Koungou
    https://la1ere.francetvinfo.fr/mayotte/habitat-insalubre-le-plus-grand-decasage-de-l-histoire-de-mayott

    Le #bidonville de Mavadzani doit être totalement rasé, à partir de ce matin, à Koungou, ce bidonville, au cours des années, est presque devenu un #village de plusieurs milliers d’habitants. Des centaines de forces de l’ordre, d’agents publics, d’engins de chantiers vont s’atteler à cette opération hors normes préparée depuis des mois voire des années.

    Cette opération, hors norme pour le territoire, est minutieusement préparée depuis près de 10 mois explique la préfecture et cela fait même presque deux ans que les plans de démantèlement sont dans les cartons.

    Ce matin, sur terre, dans les airs voire sur mer, des centaines de forces de l’ordre vont donc commencer à évacuer ce bidonville avant la destruction des 465 cases recensées, on peut estimer que cela va concerner entre 3500 et 4500 personnes voire plus, soit la population d’une ville moyenne.

    Pour mener à bien cette opération, deux escadrons de #gendarmerie sont arrivés en renfort il y a quelques jours investissant bon nombre d’hôtels du territoire, une opération très délicate car la population évacuée est composée de femmes, d’enfants, de personnes parfois âgées mais aussi de délinquants chefs de bande.

    #Mayotte #décasage

    • Le bilan de Le Monde au sud Liban, avec l’IDF

      Après la guerre entre Israël et le Hezbollah, des destructions massives dans le sud du Liban
      Par Hélène Sallon (Beyrouth, correspondante), Jean-Philippe Rémy (Jérusalem, correspondant) et Riccardo Pravettoni
      https://www.lemonde.fr/international/article/2024/11/27/la-frontiere-sud-du-liban-soumise-a-la-tactique-israelienne-de-la-terre-brul

      DÉCRYPTAGE Selon des données issues d’une analyse d’images satellites, près de 40 % des bâtiments de la région ont été détruits par l’armée israélienne, qui indique y avoir découvert un volume important d’armes et munitions.

      Perché sur une colline accolée à la frontière avec Israël, Mhaibib, l’un des plus petits villages du djebel Amil, au Liban sud, est devenu tristement célèbre, le 16 octobre, lorsque les images du dynamitage de celui-ci ont fait le tour du monde. Dans une vidéo postée sur les réseaux sociaux, des soldats israéliens se sont filmés exultant face à l’explosion simultanée des maisons. Mhaibib a été le premier village à subir des explosions contrôlées [sic] après le début de l’offensive terrestre israélienne, le 1er octobre. Aïta El-Chaab, Blida, Meiss El-Jabal ou encore Ramiyé : la liste des #villages_détruits de cette manière s’est allongée au fil de l’avancée des troupes de l’Etat hébreu, qui se sont enfoncées, par endroits, de plus de 5 kilomètres dans la bande frontalière.

      Ces destructions, combinées à treize mois de bombardements aériens, en réponse aux tirs de roquettes du Hezbollah sur Israël, ont dévasté le Liban sud. Une analyse du service infographie du Monde, faite à partir de données fournies par les chercheurs Corey Scher, de l’université de New York, et Jamon Van Den Hoek, de l’université d’Etat de l’Oregon, sur la base d’observations satellites de Sentinel-1 et d’informations de Microsoft building footprint, qui cartographie les constructions du monde entier, a dénombré, au 23 novembre, 9 644 bâtiments endommagés ou détruits dans les localités frontalières, soit 38 % du total des bâtiments.

      Une « offensive limitée »

      Démolies aux deux tiers, Kfar Kila et Aïta El-Chaab sont les deux localités les plus affectées par la guerre. Une douzaine d’autres sont détruites à 40 %, voire à 50 %, comme Dhaïra, Odaisseh, Ramiyé, Teir Harfa ou encore Yarine. La carte des destructions se superpose à celle de l’avancée terrestre israélienne. « Avec ce que les Israéliens appellent une “offensive limitée”, on a vu des villages totalement détruits, non par des frappes aériennes, mais par des maisons piégées. Ils détruisent tout : les quartiers anciens comme nouveaux, les maisons de plus de 200 ans comme celles d’à peine 5 ans, des sites touristiques et religieux, des mausolées et des cimetières », déplore Hussein Chaabane, journaliste d’investigation au sein de l’ONG de défense juridique libanaise Legal Agenda.

      [...]

      L’étendue de ces destructions a fait craindre, au #Liban, qu’#Israël ne cherche à créer une zone tampon, comme il l’a fait le long de sa frontière avec Gaza et dans le nord de cette enclave, ou bien à empêcher les habitants de retourner vivre dans la bande frontalière. L’armée israélienne s’en est défendue, disant mener des raids limités et localisés contre des cibles du Hezbollah et ses infrastructures implantées dans les villes, notamment des tunnels passant sous les maisons et des caches d’armes dans des bâtiments. L’objectif affiché du gouvernement israélien est de faire reculer le Hezbollah le plus loin de la ligne de démarcation entre Israël et le Liban, pour permettre aux 60 000 Israéliens déplacés du nord du pays de rentrer chez eux.

      « Des dizaines de sites de lancement »

      « Nous avons été surpris en découvrant à quel point ces villages voisins de la frontière étaient bourrés d’armes et de munitions. On savait qu’ils avaient fait des préparatifs de longue date, qu’ils avaient un dispositif solide, mais pas à ce point. De plus, l’armée n’avait pas le temps de tout détruire minutieusement. On a trouvé des dizaines et des dizaines de sites de lancement, de pas de tir, installés dans ces villages », dit une source militaire israélienne. « Par contre, si la question est : les destructions sont-elles menées dans l’idée de rester ? La réponse est clairement non », ajoute cette source.

      A la différence de la précédente guerre de 2006 entre Israël et le Hezbollah, l’avancée au sol des forces israéliennes a été lente. Au fur et à mesure de leur progression, les soldats ont planté des drapeaux sur les territoires conquis. Mais ils n’ont ni construit de bases ni maintenu de présence permanente dans les localités où ils ont pénétré. L’armée israélienne s’est contentée de brèves incursions suivies d’un retrait. Elle a reculé lorsque la résistance du Hezbollah était trop forte, comme à Khiam. Elle a évité de stationner des troupes pour ne pas en faire des cibles pour les combattants chiites.

      Les destructions de quartiers résidentiels, voire de villages entiers, se sont systématisées, sans pour autant s’étendre à l’ensemble de la bande frontalière. « Si la stratégie était de créer une zone tampon, cela aurait impliqué d’occuper la zone. Les Israéliens peuvent détruire autant de maisons qu’ils veulent, mais ils devront se retirer, et les maisons seront reconstruites », souligne Nicholas Blanford, un spécialiste du Hezbollah rattaché au cercle de réflexion Atlantic Council. La réinstallation des habitants au Liban sud pourrait rapidement se concrétiser si le fragile cessez-le-feu, entré en vigueur mercredi 27 novembre dans la nuit, est respecté par les belligérants.

      « L’ampleur des destructions vise à se débarrasser du Hezbollah, mais aussi à punir les Libanais du Sud qui ont permis au Hezbollah d’opérer dans leurs villages. Les Israéliens veulent leur infliger le plus de peines possible, même s’ils savent que ce sera reconstruit », estime M. Blanford. Cette stratégie de la terre brûlée a été documentée à Mhaibib et dans le village voisin de Blida, dans deux enquêtes que Hussein Chaabane a réalisées pour Legal Agenda, en s’appuyant sur des images satellites, des vidéos postées par l’armée israélienne et ses soldats, des communiqués officiels et des témoignages d’habitants.

      Des maisons piégées

      Selon Legal Agenda, la majeure partie de Mhaibib a été détruite par des explosions contrôlées de l’armée israélienne, dont la partie historique du village, où se trouvent des maisons traditionnelles en pierre, l’ancien et le nouveau cimetière, ainsi que le sanctuaire du prophète Mhaibib, éponyme de la localité. « Ils ont piégé les maisons et, en deux jours, ç’a été détruit », note M. Chaabane. Selon l’enquêteur, l’analyse des vidéos postées par l’armée israélienne et par des soldats atteste que la destruction a été menée au moyen d’explosifs placés au-dessus du sol.

      Cela fragilise, poursuit-il, l’affirmation du porte-parole de l’armée israélienne selon lequel les destructions résultent de la démolition d’un réseau de tunnels. « La destruction de Mhaibib est un crime clairement défini, un potentiel crime de guerre, car il visait des maisons, des biens civils, des monuments historiques et des lieux de culte, qu’il est interdit de prendre pour cible tant qu’ils ne constituent pas des cibles militaires légitimes, écrit M. Chaabane. En supposant qu’il existe une cible militaire légitime à cibler, le principe de proportionnalité doit être respecté. Les attaques causant des dommages civils dépassant l’avantage militaire concret et direct de l’attaque sont interdites. »

      Dans le village de Blida, connu pour son patrimoine architectural, Legal Agenda a établi que 14 des 21 quartiers ont été détruits par des bombardements, des explosions et le passage des bulldozers, soit environ 70 % du village, incluant les quartiers historiques et l’ancienne mosquée. Des vidéos publiées par des soldats israéliens ont documenté la destruction par un bulldozer de la majeure partie des tombes de l’ancien cimetière. Des opérations similaires de destruction de cimetières au bulldozer ont été observées dans plusieurs autres villages frontaliers, comme Mhaibib et Meiss El-Jabal.

      « Le ciblage systématique des maisons et l’acte de les piéger visent à complètement détruire des quartiers résidentiels. Cette destruction s’étend à des bâtiments d’importance culturelle, ce qui se répercute de façon considérable sur le paysage culturel et historique de la région », abonde Hicham Younès de l’ONG Green Southerners. Il dénonce aussi un « écocide » mené contre les terres agricoles et les oliveraies centenaires du Liban sud. Selon le CNRS-Liban, environ 2 000 hectares de terrains ont été brûlés durant la guerre. « Il s’agit d’une zone sinistrée, dégradée au point de devenir presque inhabitable. N’oublions pas que cette région a subi pendant un an des attaques au phosphore blanc et aux munitions incendiaires, qui en ont dévasté la végétation », dit-il, alertant sur les répercussions attendues à long terme, en matière de pollution environnementale.

  • 1000 Italiens à #Tripoli, près de #Vallorbe

    Le « #village_des_cantines » était un petit #village avec tellement de débits de boisson que l’on imaginait bien qu’il s’y tramait une activité extraordinaire. En effet, un millier d’Italiens ont été installés là pour construire entre autres choses le #Tunnel_du_Mont_d'Or, une opération mal perçue par les autochtones, selon Sylvie Costa Paillet, la co-commissaire de l’exposition « Losanna, Svizzera, 150 ans d’immigration italienne à Lausanne » au Musée d’histoire de Lausanne.

    https://notrehistoire.ch/entries/gVB0g6NjYD0
    #Suisse #immigrés_italiens #migrants_italiens #toponymie #toponymie_coloniale #toponymie_politique #ghetto #hébergement #racialisation

    –-

    On en parle ici aussi, à partir de la min. 3’56 :
    https://www.rts.ch/audio-podcast/2024/audio/comme-des-italiens-en-suisse-1-5-la-liberte-en-suisse-et-ailleurs-28688945.html
    https://seenthis.net/messages/1083994
    Selon ce qui est dit dans le reportage aussi, on l’appelait aussi #village_nègre #Negerdorf

  • Ma supérette 100 % automatique : « Pour les gens qui n’aiment pas les courses, c’est génial »
    https://www.lemonde.fr/m-perso/article/2024/10/05/ma-superette-100-automatique-pour-les-gens-qui-n-aiment-pas-les-courses-c-es

    En 2021, les compères apprennent que des minisupermarchés (Lifvs) en conteneurs, sans personnel, s’installent en rase campagne suédoise. Un « plop » de bouchon qui saute se produit dans leur esprit. Et s’ils ramenaient de cette façon, eux aussi, le commerce de proximité dans les villages français ?

    « On a agi très, très vite, témoigne Alex Grammatico, dont le regard clair, mais fatigué, accrédite le propos. On s’est plongés dans les fichiers Insee des besoins en équipements des 35 000 communes de France. On a cartographié ces données avec un data analyst, visualisé 26 500 villages dépourvus de magasin d’#alimentation. Et 2 000 d’entre eux, comptant plus de 750 habitants, situés à dix minutes au moins du premier supermarché. » Tel serait leur vaste terrain de jeu commercial.

    Commence alors une tournée des mairies concernées (d’autant plus fructueuse que la pandémie de Covid-19 a accru l’isolement et familiarisé avec le QR code). Puis des négociations avec la #grande_distribution. Jusqu’à l’accord avec Carrefour, capable de livrer en petites quantités partout en France, au même prix que dans ses supermarchés. Mais, pour cela, les fondateurs d’Api doivent commander en gros, donc ouvrir d’emblée une brochette d’épiceries, quand les banques ne prêtent pas. S’ensuit une levée de fonds express auprès d’actionnaires privés régionaux.

    https://justpaste.it/fltpx

    #commerce #commerce_de_proximité #villages #ruralité #voiture

    • Les personnes âgées qui ont du mal à se déplacer peuvent faire leurs courses sans solliciter les voisins ni la famille

      Voilà, c’est super. Besoin de personne. Le rêve ultime.

      Bon, si ça peut tuer les supermarchés, c’est intéressant. Parce-que là ça se répand dans les campagnes comme la misère sur le monde, mais, y’a aucune raison que ça ne « séduise » pas les urbains ensuite. Il paraît que les urbains, même dire bonjour au livreur deliveroo, c’est un contact humain éprouvant.

    • #numérique #QR_code #carrefour #supermarché

      c’est toujours eux derrière, avec que des produits industriels de centrale d’achat, sûrement avec des trucs de vaches et cochons en batterie et des trucs sucrés transformés plein d’huile de palme, comme partout ailleurs

      après purement comptablement, oui c’est mieux ça (un camion qui amène la marchandise à 700 personnes au centre du village), que chacun qui va loin faire des courses dans sa voiture tout seul (700 personnes qui conduisent jusqu’au supermarché à 15km), pour ce qui est de la pollution, du CO2 et de moins de monde sur les routes.

    • Moi, mon petit doigt qui vit à la campagne, me dit que ça ne produira pas moins de km bagnole et à mon avis au contraire plus (paradoxe de Jevons)

      « Il y a tout ce qu’il faut pour cuisiner un plat familial courant. J’y envoie mon mari, il trouve plus facilement ce que je lui demande. Parce qu’il y a toujours une bricole qui manque, à la maison. Quelqu’un vous tombe sur le dos pour l’apéro, un mot en appelle un autre, il reste manger…

      Question 1 : Les anciens kilomètres hebdomadaires pour aller au bourg centre à 15km en profitant de la voiture de la belle-sœur seront-ils supprimés ? Non. Car la belle-sœur continuera d’aller au bourg-centre pour sa séance de pilate et en profiter pour passer à la pharmacie et acheter des chrysanthèmes pour la tombe du frère pour pas avoir la honte le prochain 1er novembre.

      Question 2 : Puisqu’avec ces nouvelles supérettes, on peut oublier tout, au lieu de devenir prévoyant et/ou de dire « bah tant pis on va faire sans beurre » et/ou de dire « chéri, va demander à la voisine si elle aurait pas deux œufs à me passer pour la gougère, je lui rendrai samedi », les ruraux ne vont-ils pas surtout découvrir le luxe d’avoir un « arabe du coin » ?

      Point subsidiaire 3 : Les campagnards ne vivent pas tous en centre-village. Dans mon village, c’est 1/5. Les 4/5 sont dans des hameaux/fermes. Et pour venir au village, ils font 2 ou 3km ou 5km en bagnole (même 500m en fait, et même parfois 100m...). En rural, ce serait une erreur de croire qu’on va aller « à l’arabe du coin » à pied.

    • Uhuh, dans un coin des corbières dans le canton de mouthoumet pour être précise, les politiques locaux avaient tenté d’imposer une distribution d’épicerie. Il suffisait que les vieux qui en avaient besoin (donc sans avoir à solliciter leurs voisins) se servent d’internet pour commander, dommage ils ne savaient pas. Dans chaque village avaient été installés à grand coût d’argent public des lieux dédiés avec frigo. Marrant hein, sans aucune étude sur les besoins locaux, ben ça a capoté.

      Ce qui marche bien c’est le marché organisé une fois par semaine des producteurs locaux, musiques, chants, boire un coup ce soir là est devenu un petit rituel bien plus sympathique.

    • Un marché, sauf si le bled est assez grand, il faut que des clients roulent 15 bornes pour que ça dépote assez pour pour les commerçants. Quand au système camion avec bref passage hebdo (boulangerie, boucherie, ...), il me semble que c’est devenu rarissime, et puis c’est le plus souvent une gamme limitée, une spécialité. D’ailleurs il y a des supermarkets toutes les 20 bornes et les gens y achètent, le pain, le journal et les pellets aussi, éventuellement en taillant la bavette avec la caissière.
      J’ai l’impression que ces nouveaux sous-traitants de Carouf ont de l’avenir.

    • Sinon, un truc vraiment super de la part de Clément, le maraicher du coin des corbières avec des villages entre 10 et 100 habitants, pas plus, soit je crois 5h/km2. Clément installe tous les matins ses fruits légumes, des fleurs et des plantes dans une cabane au bord de la route puis s’en va.
      On vient se servir, on met les sous dans la caisse, y’a pas d’ordi, rien, juste la confiance. Ça fait 4 ans qu’il fait comme ça, tu pèses toi même et si l’envie te prend tu lui laisses un petit mot de remerciement.

  • À #Genève, un musée met en débat la restitution d’œuvres

    Le musée d’ethnographie de Genève met au jour ses errements passés, dans une exposition stimulante consacrée au rôle joué par la ville suisse dans le monde colonial. Et envisage, sur un registre apaisé, la restitution de pans de sa collection.

    La manœuvre n’est pas si fréquente : à Genève, un vénérable musée a décidé de faire en grand son autocritique, et d’égratigner la légende de ses pères fondateurs. À travers l’exposition « Mémoires. Genève dans le monde colonial », le musée d’Ethnographie (MEG), inauguré en 1901, interroge ses collections sous le prisme colonial. Il pose aussi de manière subtile l’enjeu des restitutions, non sans écho avec le film de Mati Diop Dahomey, qui sort en salles mercredi 11 septembre.

    Sur le parcours conçu dans l’immense sous-sol sombre du musée, une vitrine est consacrée à l’un des glorieux donateurs de l’établissement, le peintre suisse Émile Chambon (1905-1993), qui avait amassé un millier de pièces d’Afrique et d’Océanie : il surgit dans un autoportrait de 1931, portant le casque et l’uniforme de son oncle, qui fut administrateur colonial en Afrique équatoriale française. C’est de cet oncle qu’il avait hérité les premiers artefacts africains de sa collection.

    Un artiste contemporain, Mathias Pfund, a inversé les bordures du cadre de cette peinture malaisante, l’un des cœurs malades de cette exposition : une discrète intervention, qui signale que quelque chose s’est déréglé. Face aux objets personnels de Chambon, qui traduisent sa fascination pour l’Afrique, ont été rassemblés, dans une autre vitrine, certains de ses dons au musée : des statues de cuivre ou de fer qui représentent des gardiens de reliquaires kotas, sur les territoires du Gabon et de la République du Congo.

    Lorsque des missionnaires ont arraché ces figures au XIXe siècle, ils se sont débarrassés, en les brûlant ou en les cachant en forêt, des corbeilles d’os qu’elles surveillaient. Depuis, le MEG les a exposées comme de simples statues africaines. Cette fois, le musée a sculpté de nouvelles urnes funéraires glissées au pied de leurs gardiens, avec l’aide de visiteurs réguliers du MEG d’origine kota, pour tenter de rendre à ces objets une forme d’intégrité.

    « Dans l’exposition, les objets n’illustrent pas les discours. Les propos historiques viennent étoffer, dans un deuxième temps, l’histoire de ces objets. C’est pourquoi il y a beaucoup de choses que nous ne disons pas, sur le colonialisme à Genève et en Suisse, parce que les objets de notre collection ne le racontent pas », précise la Française Floriane Morin, commissaire de l’exposition.
    Le colonialisme suisse

    La Suisse, puissance coloniale ? L’affirmation peut surprendre, en particulier depuis la France. Dans l’exposition, une carte interactive relaie les conclusions d’un rapport de 2022 sur « l’héritage raciste et colonial dans l’espace public genevois ». « L’État suisse n’a pas conquis de territoires ni administré directement de colonies, explique Fabio Rossinelli, l’un des historiens qui ont travaillé sur l’exposition, rattaché aux universités de Lausanne et de Genève. Mais des sociétés suisses se sont formées spontanément, en Égypte ou encore au Brésil, qui étaient reconnues par le corps consulaire, et entretenaient des relations avec Berne. »

    Il poursuit, soucieux de « ne pas dédouaner l’État de ses responsabilités » : « L’État était bien présent, mais plutôt un peu à l’arrière-plan, en cachette. Prenez la Société de géographie de Genève [fondée en 1858 – ndlr]. C’était une société privée. Des collaborations avec l’État avaient lieu, des subventions étaient au besoin octroyées. On voulait favoriser l’intégration du pays dans le monde impérial et colonial. » Beaucoup des missionnaires suisses partis à cette époque, soutenus par cette société, ont rapporté des objets qui constituent le socle des collections actuelles du MEG.

    Quant à l’implication de la Suisse dans la traite négrière, elle est, là encore, bien réelle. D’après l’historienne Béatrice Veyrassat, la participation suisse à la traite, d’une manière « active » (des commerçants suisses qui recourent à l’esclavage dans leurs plantations aux Amériques) ou « indirecte » (via des investissements dans des compagnies maritimes dotées de bateaux négriers) « est estimée entre 1 % et 2 % de l’ensemble des Africain·es déplacé·es vers les Amériques ».

    Avec Nantes, Genève fut aussi, à partir des années 1670, l’un des centres de production des « indiennes », ces tissus fabriqués à partir de coton importé des comptoirs d’Inde (les collections suisses d’indiennes sont accrochées au château de Prangins, on ne voit que des reproductions frustrantes dans l’exposition genevoise). Ces indiennes pouvaient servir de monnaie d’échange des Européens contre des êtres humains mis en esclavage dans les ports africains, lors du commerce triangulaire. En 1785, pas moins de 20 % de la population active à Genève travaille pour une dizaine d’« indienneries ».
    Objets éclatés

    À bien des endroits, l’exposition est coupante et inconfortable, en particulier lorsqu’elle revient de manière très précise sur le travail problématique des équipes passées du MEG. Alors que Genève organise une « exposition nationale suisse » en 1896, dotée en son sein d’un « village noir », dans la sinistre tradition des zoos humains, le MEG achète à l’époque 85 artefacts fabriqués par ces captifs africains, majoritairement venus du Sénégal et de Gambie. Mais les experts du musée gomment ensuite leur origine et les font passer pour des objets fabriqués en Afrique de l’Ouest.

    Autre silence complice : une sublime coiffure de femme faite de cuir et de fer, attribuée à une femme d’origine herero, rapportée de Namibie par un couple de collectionneurs en 1906. Au même moment se déroule, de 1904 à 1908, le génocide des Herero (et des Nama), premier génocide commis par l’Allemagne. « La datation de ces objets laisse peu de doutes quant au contexte génocidaire et d’extrêmes violences qui a rendu leur acquisition possible », tranche un cartel de l’exposition.

    Une vitrine montre encore un ustensile aux allures de fouet, utilisé pour repousser les mouches, dans le Ghana du XIXe siècle. Ce chasse-mouches, peut-être détenu par un roi, avait aussi valeur de talisman coranique. À une date inconnue, des employés du musée l’ont éventré pour lui retirer sa charge magique, constituée notamment d’une lame de couteau – disparue – et de cinq feuillets de prières, retrouvés des décennies plus tard dans un tiroir du musée. « Comment perdre l’intégrité d’un objet au musée ? », s’interroge un cartel.

    L’exposition revient aussi sur l’essor de l’anthropologie telle qu’elle est enseignée à Genève à partir de 1860, discipline qui s’est distinguée en justifiant l’impérialisme occidental et en décrétant la supériorité européenne. C’est le point d’ancrage morbide des premières collections d’objets amassées à Genève, qui, là encore, alimenteront les réserves du MEG. Dans les années 1920, Eugène Pittard, fondateur du musée, tire aussi profit du trafic de restes humains dans les colonies britanniques.
    « Ramatriement »

    Floriane Morin assume cette approche « incisive » vis-à-vis de l’histoire de son musée, « parce qu’elle est la seule condition à la possibilité d’une réparation ». Mais est-il encore possible de décoloniser un musée construit sur des mensonges aussi lourds ? Même si le MEG s’est doté d’un nouveau bâtiment en 2014, en forme de pirogue blanche spectaculaire et facile à reconnaître dans le paysage genevois, ne faudrait-il pas plutôt fermer ses portes à jamais ?

    L’un des espaces les plus originaux de l’exposition prouve en tout cas que le musée a encore des choses à dire, et des chantiers à mener. « Nous ne parviendrons pas à décoloniser notre musée, à redéfinir l’institution, sans engager des relations sur le temps long, avec des personnes qui sont le plus à même [originaires des pays et populations concernés – ndlr] de reconsidérer ces collections et de réfléchir à leur avenir », avance encore Floriane Morin.

    Cinq « capsules » ont été aménagées, comme autant de cocons qui posent la question de la restitution d’objets aux populations qui les réclament. Dans ces salles, des registres de paroles se mêlent – juridiques, historiques, administratifs, intimes, mais aussi depuis le Nord et les Suds –, pour restituer le dialogue entretenu au fil des décennies entre le MEG et des populations autochtones.

    Ici, des objets déjà restitués à une communauté autochtone du Canada – un « ramatriement » plutôt qu’un rapatriement, précise le cartel – sont représentés par de simples silhouettes de papier noir sur le mur. On prend des nouvelles de leur vie d’après, réintégrés à des cérémonies rituelles. Ailleurs, un réseau de huit musées suisses négocie directement avec le Nigeria, pour le retour de biens originaires de l’ancien royaume du Bénin.

    L’histoire de deux mâts-totems est sans doute la plus emblématique. Achetés en 1955 par un collectionneur suisse dans une ville du sud-est de l’Alaska, les deux immenses totems aux motifs d’oiseaux ont été plantés dans le jardin du musée suisse pendant trente-quatre ans. Stockés par la suite dans des entrepôts dans un souci de protection, ils ont été remplacés par des copies. Mais ils sont restés des emblèmes de ce quartier de Genève au fil des années. L’exposition donne la parole aux descendants du sculpteur de ces mâts, qui disent leur sensation de manque et l’importance qu’ils revêtent encore pour eux, mais décrit aussi l’attachement de générations de Genevois·es à ces objets aux pouvoirs manifestement actifs des deux côtés de l’Atlantique.

    « Il y a une histoire qui se crée après la restitution, insiste Floriane Morin. Les restitutions ne sont pas la fin de quelque chose. Rendre un objet n’est pas fermer la porte, mais entamer une nouvelle histoire avec des personnes qui nous font confiance, cela crée plein de choses, déclenche de nouveaux projets, et c’est aussi ce que nous avons voulu raconter dans cette exposition. »

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/100924/geneve-un-musee-met-en-debat-la-restitution-d-oeuvres

    #Suisse #Suisse_coloniale #colonialisme_suisse #MEG #exposition
    #oeuvres_d'art #art #décolonial #Afrique #pillage #musées #colonisation #Emile_Chambon #Océanie #héritage #Société_de_géographie_de_Genève #missionnaires #objets #traite_négrière #indiennes #tissus #industrie_textile #coton #esclavage #exposition_nationale_suisse #village_noir #zoo_humain #ramatriement #réparation #mensonges

    ping @reka @cede

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    ajouté à la métaliste sur le #colonialisme_suisse :
    https://seenthis.net/messages/868109

  • 40 manteaux et un bouton

    Été 1942. Quarante enfants juifs débarquent à la gare de #Nonantola, dans la province de Modène. Ils ont fui l’Allemagne nazie grâce à une organisation d’#entraide. Accueillis dans une vaste propriété, la #villa_Emma, ces jeunes déracinés se lient d’amitié et se créent un monde moins menaçant que la réalité.

    Natan est l’un d’eux. Rongé par le souvenir de son père arrêté une nuit d’hiver, de sa mère et son jeune frère qu’il a dû abandonner à Berlin, ce garçon sauvage ne parvient pas à renoncer à sa méfiance. Pourtant, ici, il n’y a ni étoiles jaunes, ni ghetto, ni rafles. C’est un lieu où les paysans partagent leur nourriture, où un menuisier construit les lits qui manquent aux pensionnaires, où chacun peut apporter sa pierre à l’édifice. Mais le 8 septembre 1943, les troupes nazies atteignent Nonantola, et les occupants de la villa Emma doivent fuir à nouveau. Cette fois, ils ne sont plus seuls : un village entier est prêt à se battre pour eux.

    Inspiré de faits réels, un magnifique récit d’#héroïsme_collectif et de #solidarité vu à travers les yeux d’un enfant.

    https://www.albin-michel.fr/40-manteaux-et-un-bouton-9782226473080

    #livre #Italie #WWII #seconde_guerre_mondiale #réfugiés #sauvetage #histoire #résistance

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    voir aussi:
    Maria Bacchi e Nella Roveri, L’età del transito e del conflitto. Bambini e adolescenti tra guerre e dopoguerra 1939-2015, Il Mulino


    https://seenthis.net/messages/566930

    • 40 cappotti e un bottone

      Estate 1942. A Nonantola, Modena, arrivano quaranta ragazzi e bambini ebrei. Sono scappati dalla Germania nazista e, grazie all’organizzazione di Recha Freier, stanno cercando di arrivare in Palestina. Ora, sistemati a Villa Emma, sembra che il peggio sia passato. Tra di loro c’è anche Natan, che inizialmente vede tutta questa attenzione con sospetto. Bruciano ancora il ricordo del padre trascinato via nella notte, l’addio della madre e del fratello più piccolo. Eppure, qui sembra di essere in un mondo completamente nuovo. Finché con l’otto settembre del 1943, a Nonantola iniziano ad accamparsi le truppe naziste e per i ragazzi di Villa Emma c’è una nuova fuga da organizzare. Questa volta, però, non sono soli, hanno un intero paese a lottare per loro. Ivan Sciapeconi è insegnante di scuola primaria a Modena. Ha pubblicato libri di narrativa per bambini (Zezè e Cocoricò, Raffaello Editore; Un dicembre rosso cuore, Einaudi Ragazzi; Come mettere il mondo a testa in giù, Giunti) e testi per la scuola (Erickson Edizioni, Rizzoli). 40 cappotti e un bottone è il suo primo romanzo.

      https://www.edizpiemme.it/libri/40-cappotti-e-un-bottone

    • « 40 manteaux et un bouton », des villageois italiens au secours d’#enfants_juifs allemands

      Pendant la guerre en Italie, les habitants de Nonantola ont permis l’exfiltration vers la Suisse d’enfants juifs venus d’Allemagne et d’Autriche. Ivan Sciapeconi consacre à cet épisode héroïque de l’Histoire un premier roman

      (#paywall)

      https://www.letemps.ch/culture/livres/40-manteaux-et-un-bouton-des-villageois-italiens-au-secours-d-enfants-juifs-

  • #Saint-Denis va, elle aussi, tester la #vidéosurveillance_algorithmique

    La sous-préfecture, qui accueille le #village_olympique, le #Stade_de_France et le #Centre_aquatique_olympique, a discrètement acquis un logiciel de vidéosurveillance algorithmique. Sans appel d’offres, sans délibération du conseil municipal ni étude d’impact, et sans en avoir tenu informé le collège d’éthique de la vidéosurveillance.

    La ville de Saint-Denis a déboursé 118 000 euros pour acquérir un logiciel de vidéosurveillance algorithmique (#VSA) de la société #Two-i, révèle Mediapart (https://www.mediapart.fr/journal/france/300724/en-catimini-saint-denis-achete-un-logiciel-de-surveillance-algorithmique).

    La loi #Jeux_olympiques autorise en effet, jusqu’en mars 2025, les polices nationale et municipales, la gendarmerie ainsi que les services de sécurité de la SNCF et de la RATP à coupler des #intelligences_artificielles (#IA) à des #caméras de « #vidéoprotection ». Cette #expérimentation se limite à huit situations prédéfinies, dont la présence d’objets abandonnés, un mouvement de foule, une densité de personnes trop importante ou le port d’une arme, lors d’événements sportifs et culturels.

    « Alors que, durant les #JO, ces algorithmes sont utilisés par la #RATP et la #SNCF dans plus de cinquante gares d’Île-de-France, Saint-Denis est l’une des premières municipalités à affirmer sa volonté d’y avoir recours », relève Mediapart.

    Pas de délibération au conseil municipal, ni contrat ni étude d’impact

    « Les JO ont motivé cet achat, notamment avec les flots de population qu’ils vont générer », précise à Mediapart la ville de Saint-Denis. Elle espère « que le #logiciel sera opérationnel pour les paralympiques, une fois que les agents y auront été formés ». Elle disposera alors de cinquante licences, qui pourront être couplées au même nombre de caméras.

    « Il n’y a eu aucune délibération du conseil municipal. Nous n’avons eu accès à aucune étude d’impact ni contrat », regrette de son côté Sophie Rigard. Élue de l’opposition, elle a appris l’existence de ce logiciel lors d’une réunion avec le directeur de la police municipale.

    Gwenaëlle Badufle-Douchez, adjointe à la sécurité, justifie de son côté l’absence d’appel d’offres par le fait que Saint-Denis avait acquis le logiciel via l’Union des groupements d’achats publics (Ugap), la centrale d’achat publique française.

    Membre du mouvement citoyen La Seine-Saint-Denis au cœur, mais aussi et surtout du collège d’éthique de la vidéosurveillance de Saint-Denis, Bakary Soukouna n’a pas non plus été sollicité. La Charte d’Éthique de la #vidéoprotection des #espaces_publics de la Ville de Saint-Denis précise pourtant qu’ « il est informé des projets en cours et à venir décidés par la Ville de Saint-Denis ».

    450 caméras ayant coûté 6,7 millions d’euros en 4 ans

    Le maire socialiste de Saint-Denis, #Mathieu_Hanotin, qui a « fortement développé l’usage des caméras », souligne Mediapart, s’est de son côté voulu rassurant. Il a évoqué une vidéosurveillance « dont l’#efficacité ne fait plus débat ».

    « Selon le dernier rapport d’orientation budgétaire de Saint-Denis, la ville a dépensé, entre 2020 et 2024, 6,7 millions d’euros dans la vidéosurveillance, portant le nombre de caméras dans la ville à 450 », rapporte Mediapart

    La ville dénombrait 230 caméras en 2023. Le 11 juillet dernier, son conseil municipal adoptait, à l’unanimité des 51 membres présents ou représentés, une demande de #subvention (.pdf) de 318 354 euros au #Fonds_Interministériel_de_Prévention_de_la_Délinquance (#FIPD) au titre de l’année 2024. La délibération précise que ce montant correspond à 50 % des 636 708 euros qu’elle prévoit de dépenser cette année en matière de « vidéoprotection ».

    De la « #détection_d’émotions » à la « #sécurité_préventive »

    Sur son site web, Two-i se présente comme « une plateforme d’analyse vidéo exhaustive » qui permet la mise en place de « mesures de #sécurité et de #sûreté préventives », et « apporte de la valeur à vos investissements en sécurité en transformant vos vidéos en données actionnables, traçables et pertinentes ».

    « En cas de survenue d’événements imprévisibles », Two-i propose aussi une solution de traitement d’images et d’analyse qui « optimise le temps passé à revoir et inspecter des vidéos issues des caméras de surveillance ».

    Dans son rapport sur la VSA, La Quadrature du Net relève que Two-I s’était d’abord lancée dans la « détection d’émotions », qu’elle avait expérimentée dans des gendarmeries et tenté d’utiliser dans les tramways niçois. Elle avait ensuite testé la reconnaissance faciale sur des supporters de football à Metz, avant de se concentrer sur des applications moins sensibles comme du comptage statistique en matière de « villes intelligentes ».

    Le site Technopolice, émanation de La Quadrature du Net, rappelle que Two-I s’était aussi fait connaître, dans le cadre de l’épidémie de Covid-19, en proposant d’identifier le non-respect des règles de distanciation sociale entre personnes.

    La start-up avait aussi été sélectionnée lors d’un appel d’offre en prévision des Jeux olympiques avec la « solution mobile de #contrôle_des_foules » #Mobil_Security de #BEHM. Censée permettre d’effectuer des contrôles sécurité « sans contact », elle visait à « contrôler 1 500 personnes à l’heure avec 4 agents » :

    « En intégrant la solution d’analyse vidéo de Two-i, qui détecte à l’avance les sacs, les personnes à mobilité réduite et les individus/véhicules non autorisés (…), les agents de sécurité disposent d’un outil puissant pour orienter proactivement le contrôle d’accès des foules. »

    https://next.ink/145459/saint-denis-va-elle-aussi-tester-la-videosurveillance-algorithmique
    #algorithme #vidéosurveillance #France #test #coût #budget

  • “Sotto l’acqua”. Le storie dimenticate dei borghi alpini sommersi in nome del “progresso”

    I grandi invasi per la produzione di energia idroelettrica hanno segnato nei primi decenni del Novecento l’inizio della colonizzazione dei territori montani. #Fabio_Balocco, giornalista e scrittore di tematiche ambientali, ne ha raccolto le vicende in un libro. Un lavoro prezioso anche per comprendere l’attuale dibattito su nuove dighe e bacini a favore di agricoltura intensiva e innevamento artificiale

    Un campanile solitario emerge dalle acque del Lago di Rèsia, in Val Venosta, un invaso realizzato per produrre energia idroelettrica. Quella che per i turisti di oggi è una curiosa attrazione, è in realtà ciò che rimane di una borgata alpina sommersa in nome del “progresso”. Quella del campanile che sorge dalle acque è un’immagine iconica che in tanti conoscono. Ma non si tratta di un caso isolato: molti altri abitati alpini furono sommersi nello scorso secolo, sacrificati sullo stesso altare. Soprattutto nel Piemonte occidentale, dove subirono la sorte le borgate di Osiglia, Pontechianale, Ceresole Reale, Valgrisenche, e un intero Comune come Agàro, nell’Ossola. A raccontare queste storie pressoché dimenticate è il giornalista e scrittore Fabio Balocco nel suo recente saggio “Sotto l’acqua. Storie di invasi e di borghi sommersi” pubblicato da LAReditore.

    Balocco, perché ha scelto di raccontare queste storie?
    FB Tutto è iniziato con un’inchiesta per la rivista Alp (mensile specializzato in montagna e alpinismo, chiuso nel 2013, ndr) che feci a metà anni Novanta, incentrata proprio su queste storie dei borghi sommersi per produrre energia. Un fenomeno che caratterizzò soprattutto gli anni Venti e Trenta del Novecento per alimentare le industrie della pianura. Sono sempre stato attratto dalle storie “minime”, quelle dei perdenti, in questo caso le popolazioni alpine sacrificate appunto sull’altare dello sviluppo. È quella che io chiamo “la storia con la esse minuscola”. La nascita del libro è dovuta sia al fatto che siamo sulla soglia del secolo da quando iniziarono i primi lavori e sia dal ritorno nel dibattito politico del tema di nuovi invasi. Infine, penso sia necessario parlarne per ricordare che nessuna attività umana è esente da costi ambientali e talvolta anche sociali, come in questi casi che ho trattato.

    Nel libro afferma che l’idroelettrico ha portato ai primi conflitti nelle terre alte, tradendo la popolazione alpina. In che modo è successo?
    FB I grandi invasi per produzione di energia idroelettrica hanno segnato l’inizio della colonizzazione dei territori montani, che fino ad allora non erano stati intaccati dal punto di vista ambientale e sociale da parte del capitale della pianura. Queste opere costituirono l’inizio della colonizzazione di quelle che oggi vengono anche definite “terre alte”, colonizzazione che è proseguita soprattutto con gli impianti sciistici e le seconde case. Vale poi la pensa di sottolineare che almeno due invasi, quello di Ceresole Reale e quello di Beauregard, in Valgrisenche, comportarono la sommersione di due dei più suggestivi paesaggi delle Alpi occidentali.

    Che ruolo hanno avuto le dighe nello spopolamento delle terre alpine?
    FB È bene ricordare che nell’arco alpino occidentale lo spopolamento era già in atto agli inizi del Novecento in quanto spesso per gli abitanti delle vallate alpine era più facile trovare lavoro oltreconfine. Un caso esemplare è quello della migrazione verso la Francia che caratterizzò la Val Varaita, dove fu realizzato l’invaso di Pontechianale. Le dighe non contribuirono in modo diretto allo spopolamento ma causarono l’allontanamento di centinaia di persone dalle loro case che venivano sommerse dalle acque, e molti di questi espropriati non ricevettero neppure un compenso adeguato a comprare un nuovo alloggio, oppure persero tutto il denaro a causa dell’inflazione, come accadde a Osiglia, a seguito dello scoppio Seconda guerra mondiale. Queste popolazioni subirono passivamente le imposizioni, senza mettere in atto delle vere e proprie lotte anche se sapevano che avrebbero subito perdite enormi. Ci furono solo alcuni casi isolati di abitanti che furono portati via a forza. Questo a differenza di quanto avvenuto in Francia, a Tignes, negli anni Quaranta, dove dovette intervenire l’esercito per sgomberare la popolazione. Da noi il sentimento comune fu di rassegnazione.

    Un’altra caratteristica di queste storie è lo scarso preavviso.
    FB Tutto l’iter di approvazione di queste opere avvenne sotto traccia e gli abitanti lo vennero a sapere in modo indiretto, quasi di straforo. Semplicemente si accorgevano della presenza di “stranieri”, spesso tecnici venuti a effettuare lavori di prospezione, e solo con un passaparola successivo venivano a conoscenza dell’imminente costruzione della diga. Anche il tempo a loro lasciato per abbandonare le abitazioni fu di solito molto breve. Le imprese della pianura stavano realizzando degli interessi superiori e non erano interessate a informare adeguatamente le popolazioni coinvolte. Le opere furono realizzate da grandi imprese specializzate che si portavano dietro il loro personale. Si trattava di lavori spesso molto specialistici e solo per le mansioni di bassa manovalanza venne impegnata la popolazione locale. D’altra parte, questo incontro tra il personale delle imprese e i locali portò a conseguenze di carattere sociale in quanto i lavori durarono diversi anni e questa intrusione portò anche alla nascita di nuovi nuclei familiari.

    Differente è il caso di Badalucco, dove negli anni Sessanta gli abitanti riuscirono a opporsi alla costruzione della diga. In che modo?
    FB Badalucco è sempre un Comune alpino, sito in Valle Argentina, in provincia di Imperia e anche lì si voleva realizzare un grande invaso all’inizio degli anni Sessanta. Ma qui le cose andarono in maniera diversa, sicuramente anche perché nel 1959 c’era stata una grave tragedia in Francia quando la diga del Malpasset crollò provocando la morte di quasi 500 persone. A Badalucco ci fu quindi una vera e propria sollevazione popolare guidata dallo stesso sindaco del Comune, sollevazione che, anche attraverso scontri violenti, portò alla rinuncia da parte dell’impresa. L’Enel ha tentato di recuperare il progetto (seppure in forma ridotta) nei decenni successivi trovando però sempre a una forte opposizione locale, che dura tuttora.

    Il governo promette di realizzare nuove dighe e invasi. È una decisione sensata? Che effetti può avere sui territori montani?
    FB A parte i mini bacini per la produzione di neve artificiale nelle stazioni sciistiche, oggi vi sono due grandi filoni distinti: uno è il “vecchio” progetto “Mille dighe” voluto da Eni, Enel e Coldiretti con il supporto di Cassa depositi e prestiti, che consiste nella realizzazione di un gran numero di piccoli invasi a sostegno soprattutto dell’agricoltura, ma anche per la fornitura di acqua potabile. Poi vi sono invece i progetti di nuovi grandi sbarramenti, come quello previsto lungo il torrente Vanoi, tra Veneto e Trentino, o quelli di Combanera, in Val di Lanzo, e di Ingria, in Val Soana, in Piemonte. Come dicevo, oggi l’esigenza primaria non è tanto la produzione di elettricità quanto soprattutto l’irrigazione e, in minor misura, l’idropotabile. Si vogliono realizzare queste opere senza però affrontare i problemi delle perdite degli acquedotti (che spesso sono dei colabrodo) né il nostro modello di agricoltura. Ad esempio, la maggior parte dell’acqua utilizzata per i campi finisce in coltivazioni, come il mais, per produrre mangimi destinati agli allevamenti intensivi. Questo senza considerare gli impatti ambientali e territoriali che le nuove opere causerebbero. In buona sostanza, bisognerebbe ripensare il nostro modello di sviluppo prima di tornare a colonizzare nuovamente le terre alte.

    https://altreconomia.it/sotto-lacqua-le-storie-dimenticate-dei-borghi-alpini-sommersi-in-nome-d

    #montagne #Alpes #disparitions #progrès #villages #barrages #barrages_hydro-électriques #énergie_hydro-électrique #énergie #colonisation #industrialisation #histoire #histoires #disparition #terre_alte #Badalucco #Osiglia #Pontechianale #Ceresole_Reale #Valgrisenche #Agàro #Beauregard #Ceresole_Reale #Mille_dighe #Vanoi #Combanera #Ingria

    • Sotto l’acqua. Storie di invasi e di borghi sommersi

      Circa un secolo fa iniziò, nel nostro paese, il fenomeno dell’industrializzazione. Ma questo aveva bisogno della forza trainante dell’energia elettrica. Si pensò allora al potenziale rappresentato dagli innumerevoli corsi d’acqua che innervavano le valli alpine. Ed ecco la realizzazione di grandi bacini di accumulo per produrre quella che oggi chiamiamo energia pulita o rinnovabile. Ma qualsiasi azione dell’uomo sull’ambiente non è a costo zero e, nel caso dei grandi invasi idroelettrici, il costo fu anche e soprattutto rappresentato dal sacrificio di intere borgate o comuni che venivano sommersi dalle acque. Quest’opera racconta, tramite testimonianze, ricordi e fotografie, com’erano quei luoghi, seppur limitandosi all’arco alpino occidentale. Prima che se ne perda per sempre la memoria.

      https://www.ibs.it/sotto-acqua-storie-di-invasi-libro-fabio-balocco/e/9791255450597

      #livre

  • #villa_san_giovanni. #corteo_no_ponte
    https://radioblackout.org/2024/05/villa-san-giovanni-corteo-no-ponte

    L’idea di realizzare un ponte che unisse la Sicilia alle coste della Calabria venne per primo al re Ferdinando II delle Due Sicilie. Restò solo un’idea, della quale si continuò a parlare anche dopo l’unità d’Italia, quando si valutò anche la possibilità di un collegamento sottomarino, analogo a quello che Napoleone immaginava di realizzare sotto […]

    #L'informazione_di_Blackout #no_ponte #stretto_di_messina
    https://cdn.radioblackout.org/wp-content/uploads/2024/05/2024-05-14-sturniolo-no-ponte.mp3

  • #Villa_del_seminario”, la storia rimossa del campo di concentramento in #Maremma

    Nella frazione #Roccatederighi del Comune di #Roccastrada tra la fine del 1943 e la metà del 1944 vi fu un “campo di concentramento ebraico”, come scrissero i fascisti nel contratto di affitto con un vescovo vicino al regime. Da lì si partiva per #Fossoli, direzione Auschwitz. Il romanzo dello scrittore Sacha Naspini smuove la polvere.

    Roccatederighi, frazione del Comune di Roccastrada, in Maremma, tra il 28 novembre del 1943 e il 9 giugno del 1944 ospitò un campo di concentramento: vi furono rinchiusi un centinaio di ebrei, 38 dei quali poi deportati verso la Germania, da cui ritornarono solo in quattro. La struttura che ospitò il campo è la sede estiva del seminario vescovile di Grosseto, la “Villa del seminario” che dà il titolo all’ultimo romanzo di Sacha Naspini, scrittore grossetano che a Roccatederighi (che diventa Le Case in questo e in altri dei suoi libri) ha passato l’infanzia nella casa dei nonni materni.

    Che cosa ti ha spinto ad affrontare la vicenda del campo di concentramento della Villa del seminario?
    SN In qualche modo vengo da lì e fin da ragazzino sentivo girare per casa questa faccenda: il seminario sono due grossi edifici all’imbocco del paese, dicevano là sono successe delle cose, ma erano discorsi che sfumavano nel nulla. Prima del 2008, quando in occasione della Giornata della memoria fu messa lì una lastra commemorativa, la villa del seminario era usata per fare le scampagnate, anche le braciate del 25 aprile o del 1 maggio. Ricordo io e mio fratello, con i miei nonni che andavamo nel giardino del vescovo. Pochi sapevano, così quando è uscito il libro ho ricevuto molti messaggi o mail, da parte di persone che magari oggi hanno 75 anni, che sono nate e vivono a Roccatederighi e che di quella vicenda non ne avevano mai sentito parlare. Un uomo, che abita sulla provinciale, a cento metri dal seminario e mi ha proprio scritto: “Davvero vivo davanti a un campo di concentramento?”. Perché da lì si partiva per Fossoli (Modena), proseguendo poi per Auschwitz. E negli anni Ottanta e Novanta lì i giovani della Diocesi, anche quelli della mia generazione, facevano i campi estivi.

    Sei cresciuto a Grosseto: manca ancora o si è sviluppata una memoria condivisa rispetto a quell’evento? Nel libro scrivi che la strada verso quell’edificio ormai diroccato è ancora oggi via del Seminario.
    SN C’è un rimosso, io vengo da quei massi, quella bella cartolina di Maremma, rude e vera, ma anche da quel silenzio. Non tutti i rocchigiani hanno accolto bene il mio romanzo, fa parte della mentalità di paese il sentirsi attaccati o in qualche modo svestiti, spogliati da una serie di costruzioni e difese che la gente prende nei confronti dello stare al mondo in quella routine. Questo però è un caso unico nel mondo, perché nel contratto di affitto tra Alceo Ercolani (prefetto di Grosseto per la Repubblica sociale italiana) e Paolo Galeazzi, vescovo fascista, si parla apertamente di “campo di concentramento ebraico”, cose che danno un certo sgomento. Come ricordo nelle ultime pagine del romanzo, a febbraio 2022, nel giorno in cui ho chiuso le bozze del mio libro, il sindaco di Grosseto Antonfrancesco Vivarelli Colonna inaugurava la piazza in ricordo di Galeazzi, di cui si ricordano pastorali di chiaro stampo fascista e passeggiate a braccetto di Benito Mussolini.

    La memoria, quindi, non è né può essere condivisa.
    SN Il mio libro è stato un po’ come andare a muovere polvere sotto il tappeto. C’è anche chi mi ha detto “Io non lo sapevo, quindi non è vero”, ma la realtà è che una storica, Luciana Rocchi (dal 1993 al 2016 è stata Direttrice dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea, ndr) ha scoperto negli archivi della Diocesi il contratto d’affitto, che non può essere nascosto. La notizia, frutto del lavoro di una storica, resta un po’ sottotono, in sordina. Finché un libro, “Il muro degli ebrei”, di Ariel Paggi, una ricognizione su 175 ebrei di Maremma, molti dei quali passano anche da via del Seminario, mi ha dato le mappe per scrivere davvero questa storia.
    Altri particolari sono frutto della storia familiare: mia nonna mi ha raccontato in tutte le salse l’inverno durissimo del 1943, che già da novembre si annunciava così; poi la guerra, com’era avvertita in paese, con la febbre che si alzava sempre di più man mano che avanzavano gli alleati, l’organizzazione delle prime bande partigiane, ma anche le privazioni, il razionamento. Nel dicembre del 1943 il babbo della mia nonna materna è morto di “deperimento organico”, praticamente di fame, in casa. I bottegai di Roccatederighi probabilmente non ne sapevano niente, ma hanno visto arrivare intere famiglie che si facevano auto-internare, con l’idea di trascorrere alla villa del seminario quel momento particolare, lasciar passare la guerra e tornare a casa. Il vescovo è rimasto lì per tutto il tempo, scegliendo solo alla fine di salvare alcuni ebrei, tra i più benestanti, probabilmente per ottenere una “carta verde” dal nuovo governo, a cui ha poi chiesto gli arretrati per l’affitto non pagato.
    Anche dopo il 2008, quand’è stata apposta la lastra, non c’è la giusta attenzione. Sono emersi negli anni alcuni progetti di rivalutazione dello stabile, per farne un albergo o un istituto per malati di Alzheimer, ma la villa resta in abbandono. È cambiata la sacralità del luogo: dormiresti in un albergo sapendo che è stato un campo di concentramento?

    Uno dei protagonisti della vicenda è Boscaglia, giovanissima guida di una banda partigiana.
    SN La storia di Guido Radi, “Boscaglia”, è legata a quella della partigiana Norma Parenti, due persone che vibrano ancora. Lui venne ucciso a 19 anni, il suo corpo straziato trascinato fino a Massa Marittima, dove lei andò a recuperarlo, per darne sepoltura. Sono storie che potete ritrovare, perché tutto ciò che racconto è vero, a partire dalla morte di Edoardo, il figlio di Anna, in una vicenda che richiama la strage di Istia d’Ombrone, quando 11 ragazzi vennero assassinati per rappresaglia nel marzo del 1944. All’ultima commemorazione, nel 2023, il sindaco Vivarelli Colonna, che si è presentato senza fascia tricolore, è stato contestato da cittadini che hanno assistito al comizio del sindaco girati di spalle, in silenzio.

    La storia è narrata da René, un ciabattino di 50 anni che ha perso tre dita al tornio da ragazzino. Nel libro racconti la sua rivoluzione.
    SN Presa coscienza del grande lavoro di Paggi ho voluto scrivere una storia creando questo cinquantenne fuori dai giochi, che ingoia tutta le cattiverie del paese a partire dai nomignoli per la sua menomazione, da Pistola a Settebello. L’ho voluto ciabattino, perché quello è un pezzo di guerra che si è combattuta tanto con i piedi. È una storia che potrei aver ascoltato in paese e che ho ritrovato in un libro di Cazzullo, “Mussolini il capobanda”, che parla di un ciabattino storpio di Roccastrada che ha fatto la Resistenza. Ho voluto raccontare la trasformazione di un personaggio passivo, spettatore del mondo, dovuto all’impatto con la storia con la “s” maiuscola: il suo impatto vero è quando uccidono Edoardo, suo figlioccio, quando l’amica amata Anna decide di andare nei boschi per continuare l’impegno di suo figlio e lascio a lui un compito. Per la prima volta si trova a modificare il suo sguardo sulle cose e su stesso. È un’epopea interiore. Si chiede che cosa vedano i ragazzi che vanno nei boschi, che cosa intuiscono, elementi che tornano anche nel personaggio di Simone.

    Simone, che diventa amico di Renè, è un giovane soldato che pare appoggiare la resistenza. Come l’hai costruito?
    SN Per costruire il suo personaggio mi sono agganciato alle testimonianze dei ragazzi che si ritrovavano ingabbiati in un’uniforme che non sentivano più loro. Il calvario di Simone lo porta a dire “preferisco morire dalla parte sbagliata”. Oggi mi piace trasmettere questi fuochi, quella brama di futuro ai ragazzi che incontro nelle scuole, che si infervorano di fronte a vicende che riguardano loro coetanei. Ogni romanzo offre un’immersione in una circostanza accompagnata da un’emotività particolare. “Boscaglia” aveva 19 anni quando è morto, 18 quando era andato in montagna, non lascia indifferente un ragazzo di quinta superiore.

    https://altreconomia.it/villa-del-seminario-la-storia-rimossa-del-campo-di-concentramento-in-ma
    #Italie #camp_de_concentration #deuxième_guerre_mondiale #seconde_guerre_mondiale #shoah #histoire #déportation #Auschwitz #mémoire

    • Villa del seminario

      Una storia d’amore, riscatto e Resistenza.
      Maremma toscana, novembre ’43. Le Case è un borgo lontano da tutto. René è il ciabattino del paese. Tutti lo chiamano Settebello, nomignolo che si è tirato addosso in tenera età, dopo aver lasciato tre dita sul tornio. Oggi ha cinquant’anni – schivo, solitario, taciturno. Niente famiglia. Ma c’è Anna, l’amica di sempre, che forse avrebbe potuto essere qualcosa di più... René non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi. Poi ecco la guerra, che cambia tutto. Ecco che Settebello scopre la Resistenza. Possibile che una rivoluzione di questo tipo possa partire addirittura dalla suola delle scarpe?
      Villa del seminario evoca fatti realmente accaduti: Grosseto fu l’unica diocesi in Europa ad aver stipulato un regolare contratto d’affitto con un gerarca fascista per la realizzazione di un campo d’internamento. A Roccatederighi, tra il ’43 e il ’44, nel seminario del vescovo furono rinchiusi un centinaio di ebrei italiani e stranieri destinati ai lager di sterminio. Soprattutto Auschwitz.

      Maremma toscana, novembre ’43. Le Case è un borgo lontano da tutto. Vista da lì, anche la guerra ha un sapore diverso; perlopiù attesa, preghiere, povertà. Inoltre si preannuncia un inverno feroce... Dopo la diramazione della circolare che ordina l’arresto degli ebrei, ecco la notizia: il seminario estivo del vescovo è diventato un campo di concentramento.

      René è il ciabattino del paese. Tutti lo chiamano Settebello, nomignolo che si è tirato addosso in tenera età, dopo aver lasciato tre dita sul tornio. Oggi ha cinquant’anni. Schivo, solitario, taciturno. Niente famiglia. Ma c’è Anna, l’amica di sempre, che forse avrebbe potuto essere qualcosa di più... René non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi. In realtà, non ha mai avuto il coraggio di fare niente. Le sue giornate sono sempre uguali: casa e lavoro. Rigare dritto.

      Anna ha un figlio, Edoardo, tutti lo credono al fronte. Un giorno viene catturato dalla Wehrmacht con un manipolo di partigiani e fucilato sul posto. La donna è fuori di sé dal dolore, adesso ha un solo scopo: continuare la rivoluzione. Infatti una sera sparisce. Lascia a René un biglietto, poche istruzioni. Ma ben presto trapela l’ennesima voce: un altro gruppo di ribelli è caduto in un’imboscata. Li hanno rinchiusi là, nella villa del vescovo. Tra i prigionieri pare che ci sia perfino una donna... Settebello non può più restare a guardare.

      https://www.edizionieo.it/book/9788833576053/villa-del-seminario
      #Sacha_Naspini

  • Le #village_sous_la_forêt, de #Heidi_GRUNEBAUM et #Mark_KAPLAN

    En #1948, #Lubya a été violemment détruit et vidé de ses habitants par les forces militaires israéliennes. 343 villages palestiniens ont subi le même sort. Aujourd’hui, de #Lubya, il ne reste plus que des vestiges, à peine visibles, recouverts d’une #forêt majestueuse nommée « Afrique du Sud ». Les vestiges ne restent pas silencieux pour autant.

    La chercheuse juive sud-africaine, #Heidi_Grunebaum se souvient qu’étant enfant elle versait de l’argent destiné officiellement à planter des arbres pour « reverdir le désert ».

    Elle interroge les acteurs et les victimes de cette tragédie, et révèle une politique d’effacement délibérée du #Fonds_national_Juif.

    « Le Fonds National Juif a planté 86 parcs et forêts de pins par-dessus les décombres des villages détruits. Beaucoup de ces forêts portent le nom des pays, ou des personnalités célèbres qui les ont financés. Ainsi il y a par exemple la Forêt Suisse, le Parc Canada, le Parc britannique, la Forêt d’Afrique du Sud et la Forêt Correta King ».

    https://www.villageunderforest.com

    Trailer :

    https://www.youtube.com/watch?v=ISmj31rJkGQ

    #israel #palestine #carte #Israël #afrique_du_sud #forêt #documentaire

    #film #documentaire #film_documentaire

    (copier-coller de ce post de 2014 : https://seenthis.net/messages/317236)

    • Documentary Space, Place, and Landscape

      In documentaries of the occupied West Bank, erasure is imaged in the wall that sunders families and communities, in the spaces filled with blackened tree stumps of former olive groves, now missing to ensure “security,” and in the cactus that still grows, demarcating cultivated land whose owners have been expelled.

      This materiality of the landscape becomes figural, such that Shehadeh writes, “[w]hen you are exiled from your land … you begin, like a pornographer, to think about it in symbols. You articulate your love for your land in its absence, and in the process transform it into something else.’’[x] The symbolization reifies and, in this process, something is lost, namely, a potential for thinking differently. But in these Palestinian films we encounter a documenting of the now of everyday living that unfixes such reification. This is a storytelling of vignettes, moments, digressions, stories within stories, and postponed endings. These are stories of interaction, of something happening, in a documenting of a being and doing now, while awaiting a future yet to be known, and at the same time asserting a past history to be remembered through these images and sounds. Through this there arises the accenting of these films, to draw on Hamid Naficy’s term, namely a specific tone of a past—the Nakba or catastrophe—as a continuing present, insofar as the conflict does not allow Palestinians to imagine themselves in a determinate future of place and landscape they can call their own, namely a state.[xi]

      In Hanna Musleh’s I’m a Little Angel (2000), we follow the children of families, both Muslim and Christian, in the area of Bethlehem affected by the 2000 Israeli armed forces attacks and occupation.[xii] One small boy, Nicola, suffered the loss of an arm when he was hit by a shell when walking to church with his mother. His kite, seen flying high in the sky, brings delighted shrieks from Nicola as he plays on the family terrace from which the town and its surrounding hills are visible in the distance. But the contrast between the freedom of the kite in this unlimited vista and his reduced capacity is palpable as he struggles to control it with his remaining hand. The containment of both Nicola and his community is figured in opposition to a possible freedom. What is also required of us is to think not of freedom from the constraints of disability, but of freedom with disability, in a future to be made after. The constraints introduced upon the landscape by the occupation, however, make the future of such living indeterminate and uncertain. Here is the “cinema of the lived,”[xiii] of multiple times of past and present, of possible and imagined future time, and the actualized present, each of which is encountered in the movement in a singular space of Nicola and his kite.


      http://mediafieldsjournal.squarespace.com/documentary-space-place-and-la/2011/7/18/documentary-space-place-and-landscape.html;jsessioni
      #cactus #paysage

    • Memory of the Cactus

      A 42 minute documentary film that combines the cactus and the memories it stands for. The film addresses the story of the destruction of the Palestinian villages of Latroun in the Occupied West Bank and the forcible transfer of their civilian population in 1967. Over 40 years later, the Israeli occupation continues, and villagers remain displaced. The film follows two separate but parallel journeys. Aisha Um Najeh takes us down the painful road that Palestinians have been forcefully pushed down, separating them in time and place from the land they nurtured; while Israelis walk freely through that land, enjoying its fruits. The stems of the cactus, however, take a few of them to discover the reality of the crime committed.

      https://www.youtube.com/watch?v=DQ_LjknRHVA

    • Aujourd’hui, j’ai re-regardé le film « Le village sous la forêt », car je vais le projeter à mes étudiant·es dans le cadre du cours de #géographie_culturelle la semaine prochaine.

      Voici donc quelques citations tirées du film :

      Sur une des boîtes de récolte d’argent pour planter des arbres en Palestine, c’est noté « make wilderness bloom » :

      Voici les panneaux de quelques parcs et forêts créés grâce aux fonds de la #diaspora_juive :

      Projet : « We will make it green, like a modern European country » (ce qui est en étroit lien avec un certaine idée de #développement, liée au #progrès).

      Témoignage d’une femme palestinienne :

      « Ils ont planté des arbres partout qui cachaient tout »

      Ilan Pappé, historien israëlien, Université d’Exter :

      « ça leur a pris entre 6 et 9 mois poru s’emparer de 80% de la Palestine, expulser la plupart des personnes qui y vivaient et reconstruire sur les villes et villages de ces personnes un nouvel Etat, une nouvelle #identité »

      https://socialsciences.exeter.ac.uk/iais/staff/pappe

      Témoignage d’un palestinien qui continue à retourner régulièrement à Lubya :

      « Si je n’aimais pas cet endroit, est-ce que je continuerais à revenir ici tout le temps sur mon tracteur ? Ils l’ont transformé en forêt afin d’affirmer qu’il n’y a pas eu de village ici. Mais on peut voir les #cactus qui prouvent que des arabes vivaient ici »

      Ilan Pappé :

      « Ces villages éaient arabes, tout comme le paysage alentour. C’était un message qui ne passait pas auprès du mouvement sioniste. Des personnes du mouvement ont écrit à ce propos, ils ont dit qu’ils n’aimaient vraiment pas, comme Ben Gurion l’a dit, que le pays ait toujours l’air arabe. (...) Même si les Arabes n’y vivent plus, ça a toujours l’air arabe. En ce qui concerne les zones rurales, il a été clair : les villages devaient être dévastés pour qu’il n’y ait pas de #souvenirs possibles. Ils ont commencé à les dévaster dès le mois d’août 1948. Ils ont rasé les maisons, la terre. Plus rien ne restait. Il y avait deux moyens pour eux d’en nier l’existence : le premier était de planter des forêts de pins européens sur les villages. Dans la plupart des cas, lorsque les villages étaient étendus et les terres assez vastes, on voit que les deux stratégies ont été mises en oeuvre : il y a un nouveau quartier juif et, juste à côté, une forêt. En effet, la deuxième méthode était de créer un quartier juif qui possédait presque le même nom que l’ancien village arabe, mais dans sa version en hébreu. L’objectif était double : il s’agissait d’abord de montrer que le lieu était originellement juif et revenait ainsi à son propriétaire. Ensuite, l’idée était de faire passer un message sinistre aux Palestiniens sur ce qui avait eu lieu ici. Le principal acteur de cette politique a été le FNJ. »

      #toponymie

      Heidi Grunebaum, la réalisatrice :

      « J’ai grandi au moment où le FNJ cultivait l’idée de créer une patrie juive grâce à la plantation d’arbres. Dans les 100 dernières années, 260 millions d’arbres ont été plantés. Je me rends compte à présent que la petite carte du grand Israël sur les boîtes bleues n’était pas juste un symbole. Etait ainsi affirmé que toutes ces terres étaient juives. Les #cartes ont été redessinées. Les noms arabes des lieux ont sombré dans l’oubli à cause du #Comité_de_Dénomination créé par le FNJ. 86 forêts du FNJ ont détruit des villages. Des villages comme Lubya ont cessé d’exister. Lubya est devenu Lavie. Une nouvelle histoire a été écrite, celle que j’ai apprise. »

      Le #Canada_park :

      Canada Park (Hebrew: פארק קנדה‎, Arabic: كندا حديقة‎, also Ayalon Park,) is an Israeli national park stretching over 7,000 dunams (700 hectares), and extending from No man’s land into the West Bank.
      The park is North of Highway 1 (Tel Aviv-Jerusalem), between the Latrun Interchange and Sha’ar HaGai, and contains a Hasmonean fort, Crusader fort, other archaeological remains and the ruins of 3 Palestinian villages razed by Israel in 1967 after their inhabitants were expelled. In addition it has picnic areas, springs and panoramic hilltop views, and is a popular Israeli tourist destination, drawing some 300,000 visitors annually.


      https://en.wikipedia.org/wiki/Canada_Park

      Heidi Grunebaum :

      « Chaque pièce de monnaie est devenue un arbre dans une forêt, chaque arbre, dont les racines étaient plantées dans la terre était pour nous, la diaspora. Les pièces changées en arbres devenaient des faits ancrés dans le sol. Le nouveau paysage arrangé par le FNJ à travers la plantation de forêts et les accords politiques est celui des #parcs_de_loisirs, des routes, des barrages et des infrastructures »

      Témoignage d’un Palestinien :

      « Celui qui ne possède de #pays_natal ne possède rien »

      Heidi Grunebaum :

      « Si personne ne demeure, la mémoire est oblitérée. Cependant, de génération en génération, le souvenir qu’ont les Palestiniens d’un endroit qui un jour fut le leur, persiste. »

      Témoignage d’un Palestinien :

      "Dès qu’on mange quelque chose chez nous, on dit qu’on mangeait ce plat à Lubya. Quelles que soient nos activités, on dit que nous avions les mêmes à Lubya. Lubya est constamment mentionnées, et avec un peu d’amertume.

      Témoignage d’un Palestinien :

      Lubya est ma fille précieuse que j’abriterai toujours dans les profondeurs de mon âme. Par les histoires racontées par mon père, mon grand-père, mes oncles et ma grande-mère, j’ai le sentiment de connaître très bien Lubya.

      Avi Shlaim, Université de Oxford :

      « Le mur dans la partie Ouest ne relève pas d’une mesure de sécurité, comme il a été dit. C’est un outil de #ségrégation des deux communautés et un moyen de s’approprier de larges portions de terres palestiniennes. C’est un moyen de poursuivre la politique d’#expansion_territoriale et d’avoir le plus grand Etat juif possible avec le moins de population d’arabes à l’intérieur. »

      https://www.sant.ox.ac.uk/people/avi-shlaim

      Heidi Grunebaum :

      « Les petites pièces de la diaspora n’ont pas seulement planté des arbres juifs et déraciné des arbres palestiniens, elles ont aussi créé une forêt d’un autre type. Une vaste forêt bureaucratique où la force de la loi est une arme. La règlementation règne, les procédures, permis, actions commandées par les lois, tout régulé le moindre espace de la vie quotidienne des Palestiniens qui sont petit à petit étouffés, repoussés aux marges de leurs terres. Entassés dans des ghettos, sans autorisation de construire, les Palestiniens n’ont plus qu’à regarder leurs maisons démolies »

      #Lubya #paysage #ruines #architecture_forensique #Afrique_du_Sud #profanation #cactus #South_african_forest #Galilée #Jewish_national_fund (#fonds_national_juif) #arbres #Palestine #Organisation_des_femmes_sionistes #Keren_Kayemeth #apartheid #résistance #occupation #Armée_de_libération_arabe #Hagana #nakba #exil #réfugiés_palestiniens #expulsion #identité #present_absentees #IDPs #déplacés_internes #Caesarea #oubli #déni #historicisation #diaspora #murs #barrières_frontalières #dépossession #privatisation_des_terres #terres #mémoire #commémoration #poésie #Canada_park

    • The Carmel wildfire is burning all illusions in Israel

      “When I look out my window today and see a tree standing there, that tree gives me a greater sense of beauty and personal delight than all the vast forests I have seen in Switzerland or Scandinavia. Because every tree here was planted by us.”

      – David Ben Gurion, Memoirs

      “Why are there so many Arabs here? Why didn’t you chase them away?”

      – David Ben Gurion during a visit to Nazareth, July 1948


      https://electronicintifada.net/content/carmel-wildfire-burning-all-illusions-israel/9130

      signalé par @sinehebdo que je remercie

    • Vu dans ce rapport, signalé par @palestine___________ , que je remercie (https://seenthis.net/messages/723321) :

      A method of enforcing the eradication of unrecognized Palestinian villages is to ensure their misrepresentation on maps. As part of this policy, these villages do not appear at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. Likewise, they do not appear on first sight on Google Maps or at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. They are labelled on NGO maps designed to increase their visibility. On Google Maps, the Bedouin villages are marked – in contrast to cities and other villages – under their Bedouin tribe and clan names (Bimkom) rather than with their village names and are only visible when zooming in very closely, but otherwise appear to be non-existent. This means that when looking at Google Maps, these villages appear to be not there, only when zooming on to a very high degree, do they appear with their tribe or clan names. At first (and second and third) sight, therefore, these villages are simply not there. Despite their small size, Israeli villages are displayed even when zoomed-out, while unrecognized Palestinian Bedouin villages, regardless of their size are only visible when zooming in very closely.


      http://7amleh.org/2018/09/18/google-maps-endangering-palestinian-human-rights
      Pour télécharger le rapport :
      http://www.7amleh.org/ms/Mapping%20Segregation%20Cover_WEB.pdf

    • signalé par @kassem :
      https://seenthis.net/messages/317236#message784258

      Israel lifted its military rule over the state’s Arab community in 1966 only after ascertaining that its members could not return to the villages they had fled or been expelled from, according to newly declassified archival documents.

      The documents both reveal the considerations behind the creation of the military government 18 years earlier, and the reasons for dismantling it and revoking the severe restrictions it imposed on Arab citizens in the north, the Negev and the so-called Triangle of Locales in central Israel.

      These records were made public as a result of a campaign launched against the state archives by the Akevot Institute, which researches the Israeli-Palestinian conflict.

      After the War of Independence in 1948, the state imposed military rule over Arabs living around the country, which applied to an estimated 85 percent of that community at the time, say researchers at the NGO. The Arabs in question were subject to the authority of a military commander who could limit their freedom of movement, declare areas to be closed zones, or demand that the inhabitants leave and enter certain locales only with his written permission.

      The newly revealed documents describe the ways Israel prevented Arabs from returning to villages they had left in 1948, even after the restrictions on them had been lifted. The main method: dense planting of trees within and surrounding these towns.

      At a meeting held in November 1965 at the office of Shmuel Toledano, the prime minister’s adviser on Arab affairs, there was a discussion about villages that had been left behind and that Israel did not want to be repopulated, according to one document. To ensure that, the state had the Jewish National Fund plant trees around and in them.

      Among other things, the document states that “the lands belonging to the above-mentioned villages were given to the custodian for absentee properties” and that “most were leased for work (cultivation of field crops and olive groves) by Jewish households.” Some of the properties, it adds, were subleased.

      In the meeting in Toledano’s office, it was explained that these lands had been declared closed military zones, and that once the structures on them had been razed, and the land had been parceled out, forested and subject to proper supervision – their definition as closed military zones could be lifted.

      On April 3, 1966, another discussion was held on the same subject, this time at the office of the defense minister, Levi Eshkol, who was also the serving prime minister; the minutes of this meeting were classified as top secret. Its participants included: Toledano; Isser Harel, in his capacity as special adviser to the prime minister; the military advocate general – Meir Shamgar, who would later become president of the Supreme Court; and representatives of the Shin Bet security service and Israel Police.

      The newly publicized record of that meeting shows that the Shin Bet was already prepared at that point to lift the military rule over the Arabs and that the police and army could do so within a short time.

      Regarding northern Israel, it was agreed that “all the areas declared at the time to be closed [military] zones... other than Sha’ab [east of Acre] would be opened after the usual conditions were fulfilled – razing of the buildings in the abandoned villages, forestation, establishment of nature reserves, fencing and guarding.” The dates of the reopening these areas would be determined by Israel Defense Forces Maj. Gen. Shamir, the minutes said. Regarding Sha’ab, Harel and Toledano were to discuss that subject with Shamir.

      However, as to Arab locales in central Israel and the Negev, it was agreed that the closed military zones would remain in effect for the time being, with a few exceptions.

      Even after military rule was lifted, some top IDF officers, including Chief of Staff Tzvi Tzur and Shamgar, opposed the move. In March 1963, Shamgar, then military advocate general, wrote a pamphlet about the legal basis of the military administration; only 30 copies were printed. (He signed it using his previous, un-Hebraized name, Sternberg.) Its purpose was to explain why Israel was imposing its military might over hundreds of thousands of citizens.

      Among other things, Shamgar wrote in the pamphlet that Regulation 125, allowing certain areas to be closed off, is intended “to prevent the entry and settlement of minorities in border areas,” and that “border areas populated by minorities serve as a natural, convenient point of departure for hostile elements beyond the border.” The fact that citizens must have permits in order to travel about helps to thwart infiltration into the rest of Israel, he wrote.

      Regulation 124, he noted, states that “it is essential to enable nighttime ambushes in populated areas when necessary, against infiltrators.” Blockage of roads to traffic is explained as being crucial for the purposes of “training, tests or maneuvers.” Moreover, censorship is a “crucial means for counter-intelligence.”

      Despite Shamgar’s opinion, later that year, Prime Minister Levi Eshkol canceled the requirement for personal travel permits as a general obligation. Two weeks after that decision, in November 1963, Chief of Staff Tzur wrote a top-secret letter about implementation of the new policy to the officers heading the various IDF commands and other top brass, including the head of Military Intelligence. Tzur ordered them to carry it out in nearly all Arab villages, with a few exceptions – among them Barta’a and Muqeible, in northern Israel.

      In December 1965, Haim Israeli, an adviser to Defense Minister Eshkol, reported to Eshkol’s other aides, Isser Harel and Aviad Yaffeh, and to the head of the Shin Bet, that then-Chief of Staff Yitzhak Rabin opposed legislation that would cancel military rule over the Arab villages. Rabin explained his position in a discussion with Eshkol, at which an effort to “soften” the bill was discussed. Rabin was advised that Harel would be making his own recommendations on this matter.

      At a meeting held on February 27, 1966, Harel issued orders to the IDF, the Shin Bet and the police concerning the prime minister’s decision to cancel military rule. The minutes of the discussion were top secret, and began with: “The mechanism of the military regime will be canceled. The IDF will ensure the necessary conditions for establishment of military rule during times of national emergency and war.” However, it was decided that the regulations governing Israel’s defense in general would remain in force, and at the behest of the prime minister and with his input, the justice minister would look into amending the relevant statutes in Israeli law, or replacing them.

      The historical documents cited here have only made public after a two-year campaign by the Akevot institute against the national archives, which preferred that they remain confidential, Akevot director Lior Yavne told Haaretz. The documents contain no information of a sensitive nature vis-a-vis Israel’s security, Yavne added, and even though they are now in the public domain, the archives has yet to upload them to its website to enable widespread access.

      “Hundreds of thousands of files which are crucial to understanding the recent history of the state and society in Israel remain closed in the government archive,” he said. “Akevot continues to fight to expand public access to archival documents – documents that are property of the public.”

    • Israel is turning an ancient Palestinian village into a national park for settlers

      The unbelievable story of a village outside Jerusalem: from its destruction in 1948 to the ticket issued last week by a parks ranger to a descendent of its refugees, who had the gall to harvest the fruits of his labor on his own land.

      Thus read the ticket issued last Wednesday, during the Sukkot holiday, by ranger Dayan Somekh of the Israel Nature and Parks Authority – Investigations Division, 3 Am Ve’olamo Street, Jerusalem, to farmer Nidal Abed Rabo, a resident of the Jerusalem-area village of Walaja, who had gone to harvest olives on his private land: “In accordance with Section 228 of the criminal code, to: Nidal Abed Rabo. Description of the facts constituting the offense: ‘picking, chopping and destroying an olive tree.’ Suspect’s response: ‘I just came to pick olives. I pick them and put them in a bucket.’ Fine prescribed by law: 730 shekels [$207].” And an accompanying document that reads: “I hereby confirm that I apprehended from Nidal Abed Rabo the following things: 1. A black bucket; 2. A burlap sack. Name of the apprehending officer: Dayan Somekh.”

      Ostensibly, an amusing parody about the occupation. An inspector fines a person for harvesting the fruits of his own labor on his own private land and then fills out a report about confiscating a bucket, because order must be preserved, after all. But no one actually found this report amusing – not the inspector who apparently wrote it in utter seriousness, nor the farmer who must now pay the fine.

      Indeed, the story of Walaja, where this absurdity took place, contains everything – except humor: the flight from and evacuation of the village in 1948; refugee-hood and the establishment of a new village adjacent to the original one; the bisection of the village between annexed Jerusalem and the occupied territories in 1967; the authorities’ refusal to issue blue Israeli IDs to residents, even though their homes are in Jerusalem; the demolition of many structures built without a permit in a locale that has no master construction plan; the appropriation of much of its land to build the Gilo neighborhood and the Har Gilo settlement; the construction of the separation barrier that turned the village into an enclave enclosed on all sides; the decision to turn villagers’ remaining lands into a national park for the benefit of Gilo’s residents and others in the area; and all the way to the ridiculous fine issued by Inspector Somekh.

      This week, a number of villagers again snuck onto their lands to try to pick their olives, in what looks like it could be their final harvest. As it was a holiday, they hoped the Border Police and the parks authority inspectors would leave them alone. By next year, they probably won’t be able to reach their groves at all, as the checkpoint will have been moved even closer to their property.

      Then there was also this incident, on Monday, the Jewish holiday of Simhat Torah. Three adults, a teenager and a horse arrived at the neglected groves on the mountainside below their village of Walaja. They had to take a long and circuitous route; they say the horse walked 25 kilometers to reach the olive trees that are right under their noses, beneath their homes. A dense barbed-wire fence and the separation barrier stand between these people and their lands. When the national park is built here and the checkpoint is moved further south – so that only Jews will be able to dip undisturbed in Ein Hanya, as Nir Hasson reported (“Jerusalem reopens natural spring, but not to Palestinians,” Oct. 15) – it will mean the end of Walaja’s olive orchards, which are planted on terraced land.

      The remaining 1,200 dunams (300 acres) belonging to the village, after most of its property was lost over the years, will also be disconnected from their owners, who probably won’t be able to access them again. An ancient Palestinian village, which numbered 100 registered households in 1596, in a spectacular part of the country, will continue its slow death, until it finally expires for good.

      Steep slopes and a deep green valley lie between Jerusalem and Bethlehem, filled with oak and pine trees, along with largely abandoned olive groves. “New” Walaja overlooks this expanse from the south, the Gilo neighborhood from the northeast, and the Cremisan Monastery from the east. To the west is where the original village was situated, between the moshavim of Aminadav and Ora, both constructed after the villagers fled – frightened off by the massacre in nearby Deir Yassin and in fear of bombardment.

      Aviv Tatarsky, a longtime political activist on behalf of Walaja and a researcher for the Ir Amim nonprofit organization, says the designated national park is supposed to ensure territorial contiguity between the Etzion Bloc and Jerusalem. “Since we are in the territory of Jerusalem, and building another settler neighborhood could cause a stir, they are building a national park, which will serve the same purpose,” he says. “The national park will Judaize the area once and for all. Gilo is five minutes away. If you live there, you will have a park right next door and feel like it’s yours.”

      As Tatarsky describes the blows suffered by the village over the years, brothers Walid and Mohammed al-‘Araj stand on a ladder below in the valley, in the shade of the olive trees, engrossed in the harvest.

      Walid, 52, and Mohammed, 58, both live in Walaja. Walid may be there legally, but his brother is there illegally, on land bequeathed to them by their uncle – thanks to yet another absurdity courtesy of the occupation. In 1995, Walid married a woman from Shoafat in East Jerusalem, and thus was able to obtain a blue Israeli ID card, so perhaps he is entitled to be on his land. His brother, who lives next door, however, is an illegal resident on his land: He has an orange ID, as a resident of the territories.

      A sewage line that comes out of Beit Jala and is under the responsibility of Jerusalem’s Gihon water company overflows every winter and floods the men’s olive grove with industrial waste that has seriously damaged their crop. And that’s in addition, of course, to the fact that most of the family is unable to go work the land. The whole area looks quite derelict, overgrown with weeds and brambles that could easily catch fire. In previous years, the farmers would receive an entry permit allowing them to harvest the olives for a period of just a few days; this year, even that permit has not yet been forthcoming.

      The olives are black and small; it’s been a bad year for them and for their owners.

      “We come here like thieves to our own land,” says Mohammed, the older brother, explaining that three days beforehand, a Border Police jeep had showed up and chased them away. “I told him: It’s my land. They said okay and left. Then a few minutes later, another Border Police jeep came and the officer said: Today there’s a general closure because of the holiday. I told him: Okay, just let me take my equipment. I’m on my land. He said: Don’t take anything. I left. And today I came back.”

      You’re not afraid? “No, I’m not afraid. I’m on my land. It’s registered in my name. I can’t be afraid on my land.”

      Walid says that a month ago the Border Police arrived and told him he wasn’t allowed to drive on the road that leads to the grove, because it’s a “security road.” He was forced to turn around and go home, despite the fact that he has a blue ID and it is not a security road. Right next to it, there is a residential building where a Palestinian family still lives.

      Some of Walaja’s residents gave up on their olive orchards long ago and no longer attempt to reach their lands. When the checkpoint is moved southward, in order to block access by Palestinians to the Ein Hanya spring, the situation will be even worse: The checkpoint will be closer to the orchards, meaning that the Palestinians won’t be permitted to visit them.

      “This place will be a park for people to visit,” says Walid, up on his ladder. “That’s it; that will be the end of our land. But we won’t give up our land, no matter what.” Earlier this month, one local farmer was detained for several hours and 10 olive trees were uprooted, on the grounds that he was prohibited from being here.

      Meanwhile, Walid and Mohammed are collecting their meager crop in a plastic bucket printed with a Hebrew ad for a paint company. The olives from this area, near Beit Jala, are highly prized; during a good year the oil made from them can fetch a price of 100 shekels per liter.

      A few hundred meters to the east are a father, a son and a horse. Khaled al-‘Araj, 51, and his son, Abed, 19, a business student. They too are taking advantage of the Jewish holiday to sneak onto their land. They have another horse, an original Arabian named Fatma, but this horse is nameless. It stands in the shade of the olive tree, resting from the long trek here. If a Border Police force shows up, it could confiscate the horse, as has happened to them before.

      Father and son are both Walaja residents, but do not have blue IDs. The father works in Jerusalem with a permit, but it does not allow him to access his land.

      “On Sunday,” says Khaled, “I picked olives here with my son. A Border Police officer arrived and asked: What are you doing here? He took pictures of our IDs. He asked: Whose land is this? I said: Mine. Where are the papers? At home. I have papers from my grandfather’s time; everything is in order. But he said: No, go to DCO [the Israeli District Coordination Office] and get a permit. At first I didn’t know what he meant. I have a son and a horse and they’ll make problems for me. So I left.”

      He continues: “We used to plow the land. Now look at the state it’s in. We have apricot and almond trees here, too. But I’m an illegal person on my own land. That is our situation. Today is the last day of your holiday, that’s why I came here. Maybe there won’t be any Border Police.”

      “Kumi Ori, ki ba orekh,” says a makeshift monument in memory of Ori Ansbacher, a young woman murdered here in February by a man from Hebron. Qasem Abed Rabo, a brother of Nidal, who received the fine from the park ranger for harvesting his olives, asks activist Tatarsky if he can find out whether the house he owns is considered to be located in Jerusalem or in the territories. He still doesn’t know.

      “Welcome to Nahal Refaim National Park,” says a sign next to the current Walaja checkpoint. Its successor is already being built but work on it was stopped for unknown reasons. If and when it is completed, Ein Hanya will become a spring for Jews only and the groves on the mountainside below the village of Walaja will be cut off from their owners for good. Making this year’s harvest Walaja’s last.

      https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-israel-is-turning-an-ancient-palestinian-village-into-a-national-p
      https://seenthis.net/messages/807722

    • Sans mémoire des lieux ni lieux de mémoire. La Palestine invisible sous les forêts israéliennes

      Depuis la création de l’État d’Israël en 1948, près de 240 millions d’arbres ont été plantés sur l’ensemble du territoire israélien. Dans l’objectif de « faire fleurir le désert », les acteurs de l’afforestation en Israël se situent au cœur de nombreux enjeux du territoire, non seulement environnementaux mais également identitaires et culturels. La forêt en Israël représente en effet un espace de concurrence mémorielle, incarnant à la fois l’enracinement de l’identité israélienne mais également le rappel de l’exil et de l’impossible retour du peuple palestinien. Tandis que 86 villages palestiniens détruits en 1948 sont aujourd’hui recouverts par une forêt, les circuits touristiques et historiques officiels proposés dans les forêts israéliennes ne font jamais mention de cette présence palestinienne passée. Comment l’afforestation en Israël a-t-elle contribué à l’effacement du paysage et de la mémoire palestiniens ? Quelles initiatives existent en Israël et en Palestine pour lutter contre cet effacement spatial et mémoriel ?

      https://journals.openedition.org/bagf/6779

    • Septembre 2021, un feu de forêt ravage Jérusalem et dévoile les terrassements agricoles que les Palestinien·nes avaient construit...
      Voici une image :

      « La nature a parlé » : un feu de forêt attise les rêves de retour des Palestiniens

      Un gigantesque incendie près de Jérusalem a détruit les #pins_européens plantés par les sionistes, exposant ainsi les anciennes terrasses palestiniennes qu’ils avaient tenté de dissimuler.

      Au cours de la deuxième semaine d’août, quelque 20 000 dounams (m²) de terre ont été engloutis par les flammes dans les #montagnes de Jérusalem.

      C’est une véritable catastrophe naturelle. Cependant, personne n’aurait pu s’attendre à la vision qui est apparue après l’extinction de ces incendies. Ou plutôt, personne n’avait imaginé que les incendies dévoileraient ce qui allait suivre.

      Une fois les flammes éteintes, le #paysage était terrible pour l’œil humain en général, et pour l’œil palestinien en particulier. Car les incendies ont révélé les #vestiges d’anciens villages et terrasses agricoles palestiniens ; des terrasses construites par leurs ancêtres, décédés il y a longtemps, pour cultiver la terre et planter des oliviers et des vignes sur les #pentes des montagnes.

      À travers ces montagnes, qui constituent l’environnement naturel à l’ouest de Jérusalem, passait la route Jaffa-Jérusalem, qui reliait le port historique à la ville sainte. Cette route ondulant à travers les montagnes était utilisée par les pèlerins d’Europe et d’Afrique du Nord pour visiter les lieux saints chrétiens. Ils n’avaient d’autre choix que d’emprunter la route Jaffa-Jérusalem, à travers les vallées et les ravins, jusqu’au sommet des montagnes. Au fil des siècles, elle sera foulée par des centaines de milliers de pèlerins, de soldats, d’envahisseurs et de touristes.

      Les terrasses agricoles – ou #plates-formes – que les agriculteurs palestiniens ont construites ont un avantage : leur durabilité. Selon les estimations des archéologues, elles auraient jusqu’à 600 ans. Je crois pour ma part qu’elles sont encore plus vieilles que cela.

      Travailler en harmonie avec la nature

      Le travail acharné du fermier palestinien est clairement visible à la surface de la terre. De nombreuses études ont prouvé que les agriculteurs palestiniens avaient toujours investi dans la terre quelle que soit sa forme ; y compris les terres montagneuses, très difficiles à cultiver.

      Des photographies prises avant la Nakba (« catastrophe ») de 1948, lorsque les Palestiniens ont été expulsés par les milices juives, et même pendant la seconde moitié du XIXe siècle montrent que les oliviers et les vignes étaient les deux types de plantation les plus courants dans ces régions.

      Ces végétaux maintiennent l’humidité du sol et assurent la subsistance des populations locales. Les #oliviers, en particulier, aident à prévenir l’érosion des sols. Les oliviers et les #vignes peuvent également créer une barrière naturelle contre le feu car ils constituent une végétation feuillue qui retient l’humidité et est peu gourmande en eau. Dans le sud de la France, certaines routes forestières sont bordées de vignes pour faire office de #coupe-feu.

      Les agriculteurs palestiniens qui les ont plantés savaient travailler en harmonie avec la nature, la traiter avec sensibilité et respect. Cette relation s’était formée au cours des siècles.

      Or qu’a fait l’occupation sioniste ? Après la Nakba et l’expulsion forcée d’une grande partie de la population – notamment le nettoyage ethnique de chaque village et ville se trouvant sur l’itinéraire de la route Jaffa-Jérusalem –, les sionistes ont commencé à planter des #pins_européens particulièrement inflammables sur de vastes portions de ces montagnes pour couvrir et effacer ce que les mains des agriculteurs palestiniens avaient créé.

      Dans la région montagneuse de Jérusalem, en particulier, tout ce qui est palestinien – riche de 10 000 ans d’histoire – a été effacé au profit de tout ce qui évoque le #sionisme et la #judéité du lieu. Conformément à la mentalité coloniale européenne, le « milieu » européen a été transféré en Palestine, afin que les colons puissent se souvenir de ce qu’ils avaient laissé derrière eux.

      Le processus de dissimulation visait à nier l’existence des villages palestiniens. Et le processus d’effacement de leurs particularités visait à éliminer leur existence de l’histoire.

      Il convient de noter que les habitants des villages qui ont façonné la vie humaine dans les montagnes de Jérusalem, et qui ont été expulsés par l’armée israélienne, vivent désormais dans des camps et communautés proches de Jérusalem, comme les camps de réfugiés de Qalandiya et Shuafat.

      On trouve de telles forêts de pins ailleurs encore, dissimulant des villages et fermes palestiniens détruits par Israël en 1948. Des institutions internationales israéliennes et sionistes ont également planté des pins européens sur les terres des villages de #Maaloul, près de Nazareth, #Sohmata, près de la frontière palestino-libanaise, #Faridiya, #Kafr_Anan et #al-Samoui sur la route Akka-Safad, entre autres. Ils sont maintenant cachés et ne peuvent être vus à l’œil nu.

      Une importance considérable

      Même les #noms des villages n’ont pas été épargnés. Par exemple, le village de Suba est devenu « #Tsuba », tandis que #Beit_Mahsir est devenu « #Beit_Meir », #Kasla est devenu « #Ksalon », #Saris est devenu « #Shoresh », etc.

      Si les Palestiniens n’ont pas encore pu résoudre leur conflit avec l’occupant, la nature, elle, s’est désormais exprimée de la manière qu’elle jugeait opportune. Les incendies ont révélé un aspect flagrant des composantes bien planifiées et exécutées du projet sioniste.

      Pour les Palestiniens, la découverte de ces terrasses confirme leur version des faits : il y avait de la vie sur cette terre, le Palestinien était le plus actif dans cette vie, et l’Israélien l’a expulsé pour prendre sa place.

      Ne serait-ce que pour cette raison, ces terrasses revêtent une importance considérable. Elles affirment que la cause palestinienne n’est pas morte, que la terre attend le retour de ses enfants ; des personnes qui sauront la traiter correctement.

      https://www.middleeasteye.net/fr/opinion-fr/israel-jerusalem-incendies-villages-palestiniens-nakba-sionistes-reto

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      An Israeli Forest to Erase the Ruins of Palestinian Agricultural Terraces

      “Our forest is growing over, well, over a ruined village,” A.B. Yehoshua wrote in his novella “Facing the Forests.” The massive wildfire in the Jerusalem Hills last week exposed the underpinning of the view through the trees. The agricultural terraces were revealed in their full glory, and also revealed a historic record that Israel has always sought to obscure and erase – traces of Palestinian life on this land.

      On my trips to the West Bank and the occupied territories, when I passed by the expansive areas of Palestinian farmland, I was always awed by the sight of the long chain of terraces, mustabat or mudrajat in Arabic. I thrilled at their grandeur and the precision of the work that attests to the connection between the Palestinian fellah and his land. I would wonder – Why doesn’t the same “phenomenon” exist in the hills of the Galilee?

      When I grew up, I learned a little in school about Israeli history. I didn’t learn that Israel erased Palestinian agriculture in the Galilee and that the Jewish National Fund buried it once and for all, but I did learn that “The Jews brought trees with them” and planted them in the Land of Israel. How sterile and green. Greta Thunberg would be proud of you.

      The Zionist movement knew that in the war for this land it was not enough to conquer the land and expel its inhabitants, you also had to build up a story and an ethos and a narrative, something that will fit with the myth of “a people without a land for a land without a people.” Therefore, after the conquest of the land and the expulsion, all trace of the people who once lived here had to be destroyed. This included trees that grew without human intervention and those that were planted by fellahin, who know this land as they do their children and as they do the terraces they built in the hills.

      This is how white foreigners who never in their lives were fellahin or worked the land for a living came up with the national forestation project on the ruins of Arab villages, which David Ben-Gurion decided to flatten, such as Ma’alul and Suhmata. The forestation project including the importation of cypress and pine trees that were alien to this land and belong to colder climes, so that the new inhabitants would feel more at home and less as if they were in somebody else’s home.

      The planting of combustible cypresses and pines, which are not suited to the weather in this land, is not just an act of national erasure of the Palestinian natives, but also an act of arrogance and patronage, characteristics typical of colonialist movements throughout the world. All because they did not understand the nature, in both senses of the word, of the countries they conquered.

      Forgive me, but a biblical-historical connection is not sufficient. Throughout the history of colonialism, the new settlers – whether they ultimately left or stayed – were unable to impose their imported identity on the new place and to completely erase the place’s native identity. It’s a little like the forests surrounding Jerusalem: When the fire comes and burns them, one small truth is revealed, after so much effort went into concealing it.

      https://www.haaretz.com/opinion/.premium-an-israeli-forest-to-erase-the-ruins-of-palestinian-agricultural-t

      et ici :
      https://seenthis.net/messages/928766

    • Planter un arbre en Israël : une forêt rédemptrice et mémorielle

      Tout au long du projet sioniste, le végétal a joué un rôle de médiateur entre la terre rêvée et la terre foulée, entre le texte biblique et la réalité. Le réinvestissement national s’est opéré à travers des plantes connues depuis la diaspora, réorganisées en scènes signifiantes pour la mémoire et l’histoire juive. Ce lien de filiation entre texte sacré et paysage débouche sur une pratique de plantation considérée comme un acte mystique de régénération du monde.

      https://journals.openedition.org/diasporas/258

  • #José_Vieira : « La #mémoire des résistances face à l’accaparement des terres a été peu transmise »

    Dans « #Territórios_ocupados », José Vieira revient sur l’#expropriation en #1941 des paysans portugais de leurs #terres_communales pour y planter des #forêts. Cet épisode explique les #mégafeux qui ravagent le pays et résonne avec les #luttes pour la défense des #biens_communs.

    Né au Portugal en 1957 et arrivé enfant en France à l’âge de 7 ans, José Vieira réalise depuis plus de trente ans des documentaires qui racontent une histoire populaire de l’immigration portugaise.

    Bien loin du mythe des Portugais·es qui se seraient « intégré·es » sans le moindre problème en France a contrario d’autres populations, José Vieira s’est attaché à démontrer comment l’#immigration_portugaise a été un #exode violent – voir notamment La Photo déchirée (2001) ou Souvenirs d’un futur radieux (2014) –, synonyme d’un impossible retour.

    Dans son nouveau documentaire, Territórios ocupados, diffusé sur Mediapart, José Vieira a posé sa caméra dans les #montagnes du #Caramulo, au centre du #Portugal, afin de déterrer une histoire oubliée de la #mémoire_collective rurale du pays. Celle de l’expropriation en 1941, par l’État salazariste, de milliers de paysans et de paysannes de leurs terres communales – #baldios en portugais.

    Cette #violence étatique a été opérée au nom d’un vaste #projet_industriel : planter des forêts pour développer économiquement ces #territoires_ruraux et, par le même geste, « civiliser » les villageois et villageoises des #montagnes, encore rétifs au #salariat et à l’ordre social réactionnaire de #Salazar. Un épisode qui résonne aujourd’hui avec les politiques libérales des États qui aident les intérêts privés à accaparer les biens communs.

    Mediapart : Comment avez-vous découvert cette histoire oubliée de l’expropriation des terres communales ou « baldios » au Portugal ?

    José Vieira : Complètement par hasard. J’étais en train de filmer Le pain que le diable a pétri (2012, Zeugma Films) sur les habitants des montagnes au Portugal qui sont partis après-guerre travailler dans les usines à Lisbonne.

    Je demandais à un vieux qui est resté au village, António, quelle était la définition d’un baldio – on voit cet extrait dans le documentaire, où il parle d’un lieu où tout le monde peut aller pour récolter du bois, faire pâturer ses bêtes, etc. Puis il me sort soudain : « Sauf que l’État a occupé tous les baldios, c’était juste avant que je parte au service militaire. »

    J’étais estomaqué, je voulais en savoir plus mais impossible, car dans la foulée, il m’a envoyé baladé en râlant : « De toute façon, je ne te supporte pas aujourd’hui. »

    Qu’avez-vous fait alors ?

    J’ai commencé à fouiller sur Internet et j’ai eu la chance de tomber sur une étude parue dans la revue de sociologie portugaise Análise Social, qui raconte comment dans les années 1940 l’État salazariste avait pour projet initial de boiser 500 000 hectares de biens communaux en expropriant les usagers de ces terres.

    Je devais ensuite trouver des éléments d’histoire locale, dans la Serra do Caramulo, dont je suis originaire. J’ai passé un temps fou le nez dans les archives du journal local, qui était bien sûr à l’époque entièrement dévoué au régime.

    Après la publication de l’avis à la population que les baldios seront expropriés au profit de la plantation de forêts, plus aucune mention des communaux n’apparaît dans la presse. Mais rapidement, des correspondants locaux et des éditorialistes vont s’apercevoir qu’il existe dans ce territoire un malaise, qu’Untel abandonne sa ferme faute de pâturage ou que d’autres partent en ville. En somme, que sans les baldios, les gens ne s’en sortent plus.

    Comment sont perçus les communaux par les tenants du salazarisme ?

    Les ingénieurs forestiers décrivent les paysans de ces territoires comme des « primitifs » qu’il faut « civiliser ». Ils se voient comme des missionnaires du progrès et dénoncent l’oisiveté de ces montagnards peu enclins au salariat.

    À Lisbonne, j’ai trouvé aussi une archive qui parle des baldios comme étant une source de perversion, de mœurs légères qui conduisent à des enfants illégitimes dans des coins où « les familles vivent presque sans travailler ». Un crime dans un régime où le travail est élevé au rang de valeur suprême.

    On retrouve tous ces différents motifs dans le fameux Portrait du colonisé d’Albert Memmi (1957). Car il y a de la part du régime un vrai discours de colonisateur vis-à-vis de ces régions montagneuses où l’État et la religion ont encore peu de prise sur les habitants.

    En somme, l’État salazariste veut faire entrer ces Portugais reculés dans la modernité.

    Il y a eu des résistances face à ces expropriations ?

    Les villageois vont être embauchés pour boiser les baldios. Sauf qu’après avoir semé les pins, il faut attendre vingt ans pour que la forêt pousse.

    Il y a eu alors quelques histoires d’arrachage clandestin d’arbres. Et je raconte dans le film comment une incartade avec un garde forestier a failli virer au drame à cause d’une balle perdue – je rappelle qu’on est alors sous la chape de plomb du salazarisme. D’autres habitants ont aussi tabassé deux gardes forestiers à la sortie d’un bar et leur ont piqué leurs flingues.

    Mais la mémoire de ces résistances a peu été transmise. Aujourd’hui, avec l’émigration, il ne reste plus rien de cette mémoire collective, la plupart des vieux et vieilles que j’ai filmés dans ce documentaire sont déjà morts.

    Comment justement avez-vous travaillé pour ce documentaire ?

    Quand António me raconte cette histoire d’expropriation des baldios par l’État, c’était en 2010 et je tournais un documentaire, Souvenirs d’un futur radieux. Puis lorsqu’en 2014 un premier incendie a calciné le paysage forestier, je me suis dit qu’il fallait que je m’y mette.

    J’ai travaillé doucement, pendant trois ans, sans savoir où j’allais réellement. J’ai filmé un village situé à 15 kilomètres de là où je suis né. J’ai fait le choix d’y suivre des gens qui subsistent encore en pratiquant une agriculture traditionnelle, avec des outils de travail séculaires, comme la roue celte. Ils ont les mêmes pratiques que dans les années 1940, et qui sont respectueuses de l’écosystème, de la ressource en eau, de la terre.

    Vous vous êtes aussi attaché à retracer tel un historien cet épisode de boisement à marche forcée...

    Cette utopie industrialiste date du XIXe siècle, des ingénieurs forestiers parlant déjà de vouloir récupérer ces « terres de personne ». Puis sous Salazar, dans les années 1930, il y a eu un débat intense au sein du régime entre agrairistes et industrialistes. Pour les premiers, boiser ne va pas être rentable et les baldios sont vitaux aux paysans. Pour les seconds, le pays a besoin de l’industrie du bois pour décoller économiquement, et il manque de bras dans les villes pour travailler dans les usines.

    Le pouvoir central a alors même créé un organisme étatique, la Junte de colonisation interne, qui va recenser les baldios et proposer d’installer des personnes en leur donnant à cultiver des terres communales – des colonies de repeuplement pour résumer.

    Finalement, l’industrie du bois et de la cellulose l’a emporté. La loi de boisement des baldios est votée en 1938 et c’est en novembre 1941 que ça va commencer à se mettre en place sur le terrain.

    Une enquête publique a été réalisée, où tout le monde localement s’est prononcé contre. Et comme pour les enquêtes aujourd’hui en France, ils se sont arrangés pour dire que les habitants étaient d’accord.

    Qu’en est-il aujourd’hui de ces forêts ? Subsiste-t-il encore des « baldios » ?

    Les pinèdes sont exploitées par des boîtes privées qui font travailler des prolos qui galèrent en bossant dur. Mais beaucoup de ces forêts ont brûlé ces dernière décennies, notamment lors de la grande vague d’incendies au Portugal de 2017, où des gens du village où je filmais ont failli périr.

    Les feux ont dévoilé les paysages de pierre qu’on voyait auparavant sur les photos d’archives du territoire, avant que des pins de 30 mètres de haut ne bouchent le paysage.

    Quant aux baldios restants, ils sont loués à des entreprises de cellulose qui y plantent de l’eucalyptus. D’autres servent à faire des parcs d’éoliennes. Toutes les lois promues par les différents gouvernements à travers l’histoire du Portugal vont dans le même sens : privatiser les baldios alors que ces gens ont géré pendant des siècles ces espaces de façon collective et très intelligente.

    J’ai fait ce film avec en tête les forêts au Brésil gérées par les peuples autochtones depuis des siècles, TotalEnergies en Ouganda qui déplace 100 000 personnes de leurs terres pour du pétrole ou encore Sainte-Soline, où l’État aide les intérêts privés à accaparer un autre bien commun : l’eau.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/021223/jose-vieira-la-memoire-des-resistances-face-l-accaparement-des-terres-ete-

    #accaparement_de_terres #terre #terres #dictature #histoire #paysannerie #Serra_do_Caramulo #communaux #salazarisme #progrès #colonisation #colonialisme #rural #modernité #résistance #incendie #boisement #utopie_industrialiste #ingénieurs #ingénieurs_forestiers #propriété #industrie_du_bois #Junte_de_colonisation_interne #colonies_de_repeuplement #cellulose #pinèdes #feux #paysage #privatisation #eucalyptus #éoliennes #loi #foncier

  • « Plus haute #ZAD d’Europe » : faut-il encore aménager les #glaciers alpins ?

    Du 8 au 10 novembre, la France accueille le #One_Planet#Polar_Summit, premier sommet international consacré aux glaciers et aux pôles, pour appeler à une mobilisation exceptionnelle et concertée de la communauté internationale. Dans les #Alpes, les projets d’aménagements des glaciers à des fins touristiques ou sportives sont pourtant toujours en cours malgré leur disparition annoncée. C’est le cas par exemple dans le massif des Écrins (#Hautes-Alpes), sur le glacier de la #Girose où il est prévu d’implanter depuis 2017 le troisième tronçon du téléphérique de la #Grave.

    Du 7 au 13 octobre dernier, les #Soulèvements_de_la_Terre (#SLT) ont occupé le chantier afin d’en bloquer les travaux préparatoires. Ce nouvel aménagement a pour objectif de prolonger les deux tronçons existant, qui permettent depuis 1978 d’accéder au #col_des_Ruillans à 3 221 mètres et ainsi rallier à terme le #Dôme_de_La_Lauze à 3559 mètres. Porté par la #Société_d’aménagement_touristique_de_la_Grave (#SATG) et la municipalité, ce projet est estimé à 12 millions d’euros, investissement dont le bien fondé divise les habitants de #La_Grave depuis cinq ans.

    En jeu derrière ces désaccords, la direction à donner à la transition touristique face au changement climatique : renforcement ou bifurcation du modèle socio-économique existant en montagne ?

    Une #occupation surprise du glacier

    Partis du village de La Grave à 1 400 mètres dans la nuit du 6 au 7 octobre, une quinzaine de militants des SLT ont gravi 2 000 mètres de dénivelé avec des sacs à dos de 15 à 20 kg. Au terme de 12 heures d’ascension, ils ont atteint le haut d’un rognon rocheux émergeant du glacier de la Girose où doit être implanté un pylône du nouveau téléphérique. Ils y ont installé leur camp de base dans l’après-midi, avant d’annoncer sur les réseaux sociaux la création de « la plus haute zone à défendre (ZAD) d’Europe ».

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    Par cette mobilisation surprise, les SLT ont montré qu’ils pouvaient être présents sur des terrains où ils ne sont pas forcément attendus et que pour cela :

    - ils disposent de ressources logistiques permettant d’envisager une mobilisation de type occupationnelle de plusieurs jours à 3 400 mètres d’altitude

    - ils maîtrisent les techniques d’alpinisme et l’engagement physique qu’implique la haute montagne.

    Sur le glacier de la Girose, les conditions de vie imposées par le milieu n’ont en effet rien à voir avec celles des autres ZAD en France, y compris celles de La Clusaz (en novembre 2021 et octobre 2022), premières du type en montagne, dans le bois de la Colombière à 1 400 mètres d’altitude. Au cours de la semaine d’occupation, les températures étaient toutefois clémentes, oscillant entre -7° à 10 °C, du fait d’un automne anormalement chaud.
    Une communication bien rodée

    Très rapidement, cette occupation du glacier a donné un coup de projecteur national sur ce projet controversé d’aménagement local. Dès son annonce publique, les articles se sont succédés dans les médias nationaux à partir des éléments de communication (photographies, vidéos, communiqués de presse, live sur les réseaux sociaux) fournis par les SLT depuis le glacier de la Girose. Les militants présents disposaient en effet des compétences et du matériel nécessaires pour produire des contenus professionnels à 3400 mètres. Ils ont ainsi accordé une attention particulière à la mise en scène médiatique et à sa dimension esthétique.

    Bien qu’inédite par sa forme ainsi que les lieux et les moyens mobilisés, cette mobilisation s’inscrit dans une grammaire politique partagée faisant référence au bien commun ainsi qu’aux imaginaires et narratifs habituels des SLT, qu’elle actualise à partir de cette expérience en haute montagne. Elle est visible dans les stratégies de communication mobilisées : les références à la ZAD, à la stratégie du désarmement, l’apparition masquée des militants, les slogans tels que la « lutte des glaces », « nous sommes les glaciers qui se défendent » et « ça presse mais la SATArde ». Une fois déployée, cette grammaire de la mobilisation est aisément reconnaissable par les publics, qu’ils y soient favorables ou non.
    Une plante protégée sur le chantier

    Cette occupation du glacier a été imaginée dans l’urgence en quelques jours par les SLT pour répondre au début des travaux préliminaires entrepris par la SATG quelques jours auparavant. Son objectif était de stopper ces derniers suite à la décision du tribunal administratif de Marseille de rejeter, le 5 octobre, un référé liberté demandant leurs interruptions d’urgence. Déposé le 20 septembre par les associations locales et environnementales, ce dernier visait notamment à protéger l’androsace du Dauphiné présente sur le rognon rocheux.

    Cette plante protégée, dont la découverte formelle ne remonte qu’à 2021, a été identifiée le 11 juillet sur les lieux par deux scientifiques du Laboratoire d’écologie alpine (CNRS, Université Grenoble Alpes et Université Savoie Mont Blanc) et certifiée par l’Office français de la biodiversité (OFB). Leur rapport d’expertise écologique a été rendu public et remis aux autorités administratives le 18 juillet : il montre qu’il existe plusieurs spécimens de l’androsace du Dauphiné dans un rayon de moins de 50 mètres autour du projet d’implantation du pylône. Or, elle ne figure pas dans l’étude d’impact et le bureau d’étude qui l’a réalisée affirme l’avoir cherchée sans la trouver.

    Deux jours après le début de l’occupation, la SATG a demandé à la préfecture des Hautes-Alpes l’évacuation du campement des SLT afin de pouvoir reprendre au plus vite les travaux. Le 10 octobre, la gendarmerie s’est rendue sur le glacier pour notifier aux militants qu’un arrêté municipal interdisant le bivouac jusqu’au printemps avait été pris. Et que le campement était illégal, et donc passible de poursuites civiles et pénales.

    En réponse, un nouveau recours « référé-suspension » en justice a été déposé le lendemain par les associations locales et environnementales pour stopper les travaux… à nouveau rejeté le 30 octobre par le tribunal administratif de Marseille. Cette décision s’appuie sur l’avis de la Direction régionale de l’environnement, de l’aménagement et du logement (DREAL) et du préfet des Hautes-Alpes qui estiment que le risque d’atteinte à l’androsace du Dauphiné n’était pas suffisamment caractérisé. MW et LGA envisagent désormais de former un recours en cassation devant le Conseil d’État.

    Entre-temps, les SLT ont décidé de redescendre dans la vallée dès le 13 octobre, leur présence n’étant plus nécessaire pour empêcher le déroulement des travaux, puisque les conditions météorologiques rendent désormais leur reprise impossible avant le printemps 2024.

    https://twitter.com/lessoulevements/status/1712817279556084122

    Bien qu’illégale, cette occupation « à durée déterminée » du glacier pourrait permettre à la justice d’aboutir à un jugement de fond sur l’ensemble des points contestés par les associations locales et environnementales. En ce sens, cette occupation a permis de faire « gagner du temps » à Mountain Wilderness (MW) et à La Grave Autrement (LGA) engagées depuis cinq ans contre le projet. Leurs actions menées depuis le 3 avril dernier, date du permis de construire accordée par la mairie de la Grave à la SATG, n’ont jusqu’alors pas été en mesure d’empêcher le début des travaux… alors même que leurs recours juridiques sur le fond ne vont être étudiés par la justice que l’année prochaine et que les travaux auraient pu avoir lieu en amont.

    Cette mobilisation des SLT a aussi contraint les promoteurs du projet à sortir du silence et à prendre position publiquement. Ils ont ainsi dénoncé « quatorze hurluberlus qui ne font rien de leur vie et entravent ceux qui travaillent », ce à quoi la presse montagne a répondu « les glaciers disent merci aux hurluberlus ».
    Sanctuarisation et manque de « cohérence »

    En Europe, cette mobilisation des SLT en haute montagne est inédite dans l’histoire des contestations socio-environnementales du tourisme, et plus largement dans celles des mouvements sociaux. Cela lui confère une forte dimension symbolique, en même temps que le devenir des glaciers est lui-même devenu un symbole du changement climatique et que leur artificialisation à des fins touristiques ou sportives suscite de plus en plus de critiques dans les Alpes. Dernier exemple en date, le creusement d’une piste de ski dans un glacier suisse à l’aide de pelles mécaniques afin de permettre la tenue d’une épreuve de la coupe du monde de ski.

    Une telle situation où un engin de travaux publics brise de la glace pour l’aplanir et rendre possible la pratique du ski alpin a déjà été observée à la Grave en septembre 2020. L’objectif était alors de faire fonctionner le vieux téléski du glacier de la Girose, que le troisième tronçon du téléphérique entend remplacer à terme… sauf que l’objectif de ce dernier est d’accroître le nombre de skieurs alpins sur un glacier qui subit de plein fouet le réchauffement climatique, ce qui impliquera ensuite la mise en place d’une sécurisation des crevasses à l’aide de pelleteuses. Dans ce contexte, la question que pose la mobilisation des SLT peut donc se reformuler ainsi : ne faut-il pas désormais laisser le glacier de la Girose libre de tout moyen de transport pour en faire un avant-poste de la transition touristique pour expérimenter une nouvelle approche de la montagne ?

    Cette question résonne avec la position du gouvernement français au One Planet Summit sur la nécessaire sanctuarisation des écosystèmes que représentent les glaciers… dont le projet d’aménagement du glacier de la Girose représente « quelques accrocs à la cohérence », reconnaît Christophe Béchu, ministre de la Transition écologique, du fait d’un dossier complexe.
    Un dialogue à rouvrir pour avancer

    Au lendemain de la fin de l’occupation du glacier par les SLT, le 14 octobre, une manifestation a été organisée à l’initiative des Enseignes de La Meije (association des commerçants de la Grave) pour défendre l’aménagement du troisième tronçon du téléphérique. Pour eux, comme pour la SATG et la municipalité, l’existence de la station est en péril sans celui-ci, ce que conteste LGA dans son analyse des retombées économiques sur le territoire. Le bureau des guides de la Grave est lui aussi divisé sur le sujet. Le débat ne se résume donc pas à une opposition entre les amoureux du glacier, là-haut, et ceux du business, en bas ; entre ceux qui vivent sur le territoire à l’année et les autres qui n’y sont que quelques jours par an ; entre des « hurluberlus qui ne font rien de leur vie » et ceux qui travaillent, etc.

    Comme partout en montagne, le débat à la Grave est plus complexe qu’il n’y paraît et appelle à rouvrir le dialogue si l’on prend au sérieux l’inévitable bifurcation du modèle de développement montagnard face aux effets du changement climatique. Considérer qu’il n’y a pas aujourd’hui deux montagnes irréconciliables n’implique pas d’être d’accord sur tout avec tout le monde en amont. Les désaccords peuvent être féconds pour imaginer le devenir du territoire sans que l’artificialisation du glacier soit l’unique solution pour vivre et habiter à La Grave.

    Si les travaux du troisième tronçon du #téléphérique étaient amenés à reprendre au printemps prochain, les SLT ont d’ores et déjà annoncé qu’ils reviendront occuper le glacier de la Girose.

    https://theconversation.com/plus-haute-zad-deurope-faut-il-encore-amenager-les-glaciers-alpins-
    #tourisme #aménagement_du_territoire #résistance

    • Écologie : dans un village des Hautes-Alpes, le #téléphérique de la discorde

      À La Grave, dans les Hautes-Alpes, des habitants se mobilisent contre la construction d’un téléphérique, vu comme un levier de #tourisme_de_masse. Éleveurs, mais aussi artisan ou guide de haute montagne, ils défendent un mode de vie alternatif et adapté à la crise climatique.

      Comme tous les matins d’hiver, Agathe Margheriti descend à ski, avec précaution, le sentier enneigé et pentu qui sépare sa maison de la route. Son sac à dos est chargé d’une précieuse cargaison : les œufs de ses 200 poules, qu’elle vend au porte-à-porte, une fois par semaine, aux habitant·es de la vallée de la Romanche. Chaque jour, elle descend la ponte du jour et la stocke dans des boîtes isothermes dans sa camionnette qui stationne en bord de route, au pied du chemin.

      Il y a six ans, cette jeune femme a fait un choix de vie radical. Avec son compagnon Aurélien Routens, un ancien snowboardeur professionnel, elle a acheté un hameau en ruine, le #Puy_Golèfre, dans le village de La Grave (Hautes-Alpes). « Pour 140 000 euros, c’est tout ce que nous avons trouvé à la portée de nos moyens. Il n’y a ni eau ni électricité, et il faut 20 minutes pour monter à pied depuis la route, mais regardez cette vue ! », montre Agathe, rayonnante.

      La petite maison de pierre retapée par le couple, orientée plein sud, chauffée au bois et dotée d’énergie solaire, offre un panorama époustouflant sur la face nord de la Meije, la plus impressionnante montagne des Alpes françaises, toute de glace et de roche, qui culmine à 3 983 mètres.

      Son sommet occupe une place à part dans l’histoire de l’alpinisme : il n’a été atteint qu’en 1877, un siècle après le mont Blanc. L’autre originalité du lieu, à laquelle Agathe et Aurélien tiennent tant, c’est que La Grave est le seul village d’Europe à être doté d’un téléphérique dont la gare d’arrivée, à 3 200 mètres d’altitude, débouche sur un domaine skiable sauvage. Ni piste damée ni canon à neige, mais des vallons de neige vierge aux pentes vertigineuses, paradis des snowboardeurs freeride qui font leurs traces dans la poudreuse.

      Ce paradis, Agathe et Aurélien veulent le préserver à tout prix. Avec une poignée d’amis du village, ils luttent depuis trois ans contre un projet qu’ils jugent aussi inutile qu’anachronique : la construction d’un troisième tronçon de téléphérique par son exploitant, le groupe #SATA, qui permettrait de monter jusqu’au #dôme_de_la_Lauze, à 3 559 mètres. Ce nouvel équipement, d’un coût de 14 millions d’euros (dont 4 millions d’argent public), permettrait de skier sur le #glacier de la #Girose, actuellement doté d’un #téléski vieillissant, dont l’accès est devenu problématique en raison du réchauffement climatique.

      Un téléphérique sur un glacier, alors que les Alpes se réchauffent deux fois plus vite que le reste de la planète et que les scientifiques alertent sur la disparition de la moitié des glaciers de montagne d’ici à 2100 ?

      Pour tenter d’empêcher la réalisation de ce projet fou, des habitant·es de la Grave, constitué·es dans le collectif #La_Grave_autrement, luttent sur deux fronts : judiciaire et médiatique. Deux recours ont été déposés devant le tribunal administratif pour contrer le projet de la SATA, un groupe qui exploite aussi les domaines skiables de l’Alpe d’Huez et des Deux-Alpes, emploie 800 personnes et réalise un chiffre d’affaires de 80 millions d’euros. Les jugements au fond n’interviendront pas avant le printemps 2024… Trop tard, peut-être, pour empêcher le démarrage des travaux.

      Alors, parallèlement, des militant·es se sont activé·es sur le terrain : en octobre, l’association #Mountain_Wilderness a déployé une banderole sur le glacier, puis #Les_Soulèvements_de_la_Terre ont symboliquement planté leurs tentes sur le rognon rocheux situé au milieu du glacier, sur lequel doit être édifié le pylône du téléphérique et où des botanistes ont découvert une plante rare et protégée, l’#androsace_du_Dauphiné.

      Enfin, en novembre, des habitant·es de La Grave, accompagné·es de la glaciologue Heidi Sevestre, ont symboliquement apporté un gros morceau de glace de la Girose à Paris, le jour de l’ouverture du One Planet-Polar Summit, et interpellé le gouvernement sur l’urgence de protéger les glaciers.

      Depuis, la neige est tombée en abondance sur la Meije et dans la vallée. À La Grave et dans le village voisin de Villar d’Arène, les opposant·es au projet prouvent, dans leur vie quotidienne, qu’une #alternative au tout-ski est possible et que la vallée peut se réinventer sans porter atteinte à ce milieu montagnard si menacé.

      Thierry Favre, porte-parole de La Grave autrement, vit dans une ancienne bergerie, au cœur du hameau des Hières, à 1 800 mètres d’altitude, qu’il a achetée il y a trente ans, après être tombé amoureux du site pour la qualité de sa neige et la verticalité de ses pentes. Après avoir travaillé dans l’industrie de la soierie à Lyon et à Florence, il a fondé ici sa propre entreprise de création d’étoffes, #Legend’Enhaut, qui fabrique des tissus haut de gamme pour des décorateurs. « Nous sommes bien situés, sur un grand axe de circulation entre Grenoble et Briançon. Nous avons l’immense chance de ne pas avoir vu notre cadre de vie massacré par les ensembles immobiliers qui défigurent les grandes stations de ski des Alpes. Mais il faut être vigilants. La Grave compte déjà 75 % de #résidences_secondaires. Et le projet de nouveau téléphérique s’accompagnera inévitablement de la construction d’une résidence de tourisme. Il y a urgence à proposer un autre modèle pour l’avenir. »

      À 60 ans, Thierry Favre s’applique à lui-même ce souci de sobriété dans son activité professionnelle. « Mon entreprise marchait bien mais j’ai volontairement mis le pied sur le frein. Je n’ai conservé que deux salariés et deux collaborateurs extérieurs, pour préserver ma qualité de vie et garder du temps pour militer. »

      À deux kilomètres de là, à la ferme de Molières, Céline Gaillard partage la même philosophie. Après avoir travaillé à l’office du tourisme de Serre-Chevalier et à celui de La Grave, cette mère de deux enfants s’est reconvertie dans l’élevage de chèvres. Elle et son mari Martin, moniteur de ski trois mois par an, exploitent un troupeau de 50 chèvres et fabriquent des fromages qu’ils vendent sur place. Pendant les six mois d’hiver, les bêtes vivent dans une vaste chèvrerie, où elles ont de l’espace pour bouger, et en été, elles paissent sur les alpages voisins. « Je ne veux pas en avoir plus de cinquante, par souci du bien-être animal. Nous pourrions produire plus de fromages, car la demande est forte. Mais le travail saisonnier de Martin nous apporte un complément de revenus qui nous suffit. »

      Avec les œufs de ses poules, Agathe fait le même constat : « Je pourrais en vendre dix fois plus. L’an dernier, nous avons planté de l’ail et des framboisiers : nous avons tout vendu très vite. Ce serait bien que d’autres éleveurs s’installent. Si nous avions une production locale plus fournie, nous pourrions ouvrir une épicerie coopérative au village. »

      Contrairement à Agathe qui milite dans le collectif La Grave autrement, Céline, la chevrière, ne s’oppose pas ouvertement au nouveau téléphérique. Mais elle n’est « pas d’accord pour se taire » : « Nous n’avons pas pu avoir un vrai débat sur le projet. Il faudrait un moratoire, le temps d’échanger avec la population. Je ne comprends pas cette volonté d’exploiter la montagne jusqu’à son dernier souffle. »

      Céline et Martin Gaillard ne sont pas seuls à pratiquer l’élevage autrement dans le village. Au hameau des #Cours, à #Villar_d’Arène, un autre jeune couple, originaire de l’ouest de la France, s’est installé en 2019. Sylvain et Julie Protière, parents d’un enfant de 4 ans, ont repris la ferme du Lautaret, dans laquelle ils élèvent 35 vaches d’Herens, une race alpine particulièrement adaptée à la rudesse du climat montagnard.

      Alors que la plupart des fermiers traditionnels de La Grave et de Villar d’Arène élèvent des génisses qu’ils revendent à l’âge de 3 ans et n’exploitent donc pas le lait, Sylvain et Julie traient leurs vaches et fabriquent le fromage à la ferme. Cela leur procure un meilleur revenu et leur permet de fournir en fromage les consommatrices et consommateurs locaux. « Nous vendons toute notre production aux restaurants, refuges et gîtes dans un rayon de 5 kilomètres, et nous n’en avons pas assez pour satisfaire la demande », témoigne Sylvain.

      À mesure que le combat des opposants et opposantes au nouveau téléphérique se médiatise et se radicalise, les tensions s’avivent au sein de la communauté villageoise. Les partisans du téléphérique accusent les opposants de vouloir la mort de l’économie de la vallée. Selon eux, sans le troisième tronçon, le téléphérique actuel n’est plus viable.

      Aucun·e des opposant·es que Mediapart a rencontré·es, pourtant, ne souhaite l’arrêt des remontées mécaniques. Benjamin Ribeyre, guide de haute montagne et cofondateur du collectif La Grave autrement, pense au contraire que l’actuel téléphérique pourrait servir de base à un développement touristique tourné vers la transition écologique. « L’actuelle plateforme d’arrivée, à 3 200 mètres, permet un accès facile au glacier de la Girose. C’est unique en France, bien mieux que la gare du Montenvers de Chamonix, d’où l’on ne voit de la mer de glace que des moraines grises. Ici, grâce au téléphérique, nous pourrions proposer des sorties d’éducation au climat, en particulier pour les enfants des écoles. Le réchauffement climatique bouleverse notre activité de guides de haute montagne. Nous devons d’urgence nous réinventer ! »

      Niels Martin, cofondateur de La Grave autrement, conteste, pour sa part, les calculs économiques des promoteurs du projet. Père de deux jeunes enfants, il partage sa vie entre La Grave et la Savoie, où il travaille dans une institution de la montagne. « Ce troisième tronçon n’est pas indispensable à la survie du téléphérique. Le fait que La Grave soit restée à l’écart des grands aménagements du plan neige des années 1970 doit devenir son principal attrait. » Au nom du collectif, Niels vient d’envoyer une lettre au préfet coordonnateur du massif des Alpes dans laquelle il propose que le village devienne en 2024 un site pilote des États généraux de la transition du tourisme en montagne, où se concoctent des solutions d’avenir pour faire face au réchauffement climatique dans les Alpes. Les Soulèvements de la Terre, eux, n’ont pas dit leur dernier mot. Dès la fonte des neiges, ils ont promis de remonter sur le glacier de la Girose.

      https://www.mediapart.fr/journal/ecologie/251223/ecologie-dans-un-village-des-hautes-alpes-le-telepherique-de-la-discorde

    • #Guillaume_Gontard : Glacier de la #Girose - La #Grave :

      J’ai interrogé le ministre @Ecologie_Gouv sur l’avenir du glacier de la #Girose dans les #Alpes.
      Ce lieu unique est menacé par un projet de prolongation d’un téléphérique permettant de skier sur un glacier dont les jours sont comptés.

      https://twitter.com/GuillaumGontard/status/1740306452957348349

  • En Sardaigne, le voile se lève sur la mystérieuse civilisation des nuraghes


    Vue aérienne d’un village nuragique, sur le site archéologique Su Nuraxi, à Barumini, en Sardaigne, en Italie. BRIDGEMAN IMAGES

    Durant mille ans, de 1800 à 800 av. J.-C., la culture nuragique a dominé l’île italienne. Ce peuple méconnu, car sans écriture, a laissé peu de traces de son existence, sauf 8 000 grandes tours rondes en pierre, disséminées sur le territoire. A la découverte de cette civilisation des #villages, loin des autres cultures méditerranéennes.

    Au début, on n’y prend pas garde. Et puis, petit à petit, à parcourir en voiture les routes de #Sardaigne sous un soleil qui joue les prolongations d’octobre, le regard s’aiguise, l’œil s’exerce, et l’on finit par les voir partout. Postés au loin comme des sentinelles de pierre, certains encore fièrement dressés, d’autres écroulés mais toujours là, défiant les millénaires. Eux, ce sont les nuraghes. Qu’on ne s’y trompe pas : malgré leur air de tours de château fort, ces édifices monumentaux – dont la silhouette orne des étiquettes de pecorino sarde ou de bouteilles de vin – ne renvoient pas au Moyen Age. Non, ces constructions sont les symboles d’une civilisation mystérieuse bien plus ancienne qui, mille ans durant, de 1800 à 800 av. J.-C., à cheval sur l’âge du bronze et celui du fer, domina la Sardaigne.

    Archéologue en France à l’Institut national de recherches archéologiques préventives, Isabelle Catteddu, de père sarde, a fait ses premières armes ici et y revient tous les étés. Elle, dont le grand-père abritait ses moutons dans l’un des huit mille nuraghes qui subsistent, avait alors pour but de « comprendre comment le territoire avait évolué jusqu’à la période romaine où on a réutilisé les sites nuragiques ».

    .... Quand on monte à l’étage, la vue est dégagée à 180 degrés et l’on peut apercevoir, dans le lointain, la #Méditerranée. Et aussi un autre nuraghe, qui lui-même a vue sur un troisième… Un réseau se dessine et, par endroits, les tours se font écho tous les 500 à 1 000 mètres. « Un peu plus loin, précise Isabelle Catteddu, on a une concentration incroyable, avec deux ou trois nuraghes au kilomètre carré. » Dans cet univers à la fois rural et polycentrique, on est loin des cultures orientales de la même époque, avec villes et pouvoir centralisé.

    .... L’habitat se retrouve à l’extérieur, dans des villages encore lisibles dans le paysage, car leurs « cabanes », comme les archéologues les appellent, rondes, avaient une base en pierre. Au-dessus devait être disposé un toit conique fait de roseaux.
    La vie est donc hors les nuraghes – la mort aussi. Petit détour par le site d’Imbertighe, en pleine campagne, où se trouve une « tombe de géant ». Pourquoi ce nom ? Parce qu’il s’agit d’une immense tombe collective. Au premier plan, un espace cultuel délimité par un muret en forme de deux cornes de taureau au milieu desquelles s’élève une grande porte en pierre d’un seul bloc, qui sépare les vivants des morts. Derrière, ceux-ci reposent dans un long couloir autrefois couvert de dalles. « La technique de dépôt consistait à soulever une dalle et à glisser le défunt dans la tombe, précise Isabelle Catteddu. Ces tombes sont là depuis le début de l’âge nuragique. Elles contiennent parfois plus de cent squelettes. Une population sans distinction de sexe, d’âge ou de classe sociale. » Les tombes individuelles n’apparaîtront qu’à la fin de la civilisation.

    https://www.lemonde.fr/sciences/article/2023/11/06/en-sardaigne-le-voile-se-leve-sur-la-mysterieuse-civilisation-des-nuraghes_6

    https://archive.ph/ZPjZX

    #Nuragiques #nuraghes #archéologie

  • Un mégaprojet de #Tony_Parker dans une #station_de_ski fait tourner la tête d’élus du #Vercors

    La mairie de #Villard-de-Lans s’apprête à céder un terrain à l’ancien international de basket pour une vaste #résidence_hôtelière quatre étoiles dans le massif isérois. Une #mobilisation citoyenne s’organise, qualifiée de « ski-bashing » par des élus locaux contrariés.

    « Mais le projet de Tony Parker, ce n’est pas le projet de Tony Parker. Il n’y est pour rien, lui ! Il ne met pas un centime sur les projets immobiliers. Vous croyez qu’il a les moyens de mettre 100 millions sur la table ? Il faut arrêter..., s’agace Guillaume Ruel, ex-élu de #Corrençon-en-Vercors (Isère) devenu partenaire d’une société de l’ancien basketteur. Grâce à Tony, on a réussi à attirer l’attention de gestionnaires et de promoteurs, mais aujourd’hui, rien n’est fait. »

    Rien n’est fait, et pourtant, le massif du Vercors retient son souffle. Jeudi soir, le maire de Villard-de-Lans, #Arnaud_Mathieu, doit proposer à son conseil municipal une #résolution pour autoriser la vente d’un immense #parking_public de 350 places à une société contrôlée par Tony Parker (la Société d’équipement de Villard-de-Lans et Corrençon-en-Vercors, #SEVLC) pour qu’il mette en œuvre un projet de résidence hôtelière quatre étoiles sur 12 100 mètres carrés, comprenant 132 suites-appartements, soit neuf cents lits touristiques, un « espace de bien-être de 800 mètres carrés » (avec un solarium et deux piscines), et une zone de commerce, selon la dernière version présentée à l’autorité environnementale en 2023. Le projet aurait été depuis réduit à cent suites-appartements, soit 550 lits, plus les lits d’appoint.

    Mobilisée depuis un an contre le projet, l’association #Vercors_Citoyens appelle à manifester devant la salle du conseil municipal de Villard pour dénoncer la cession du parking et le fait « qu’aucune communication » n’ait prévenu les habitant·es de « cette étape cruciale ». Il s’agit, pour l’association, de « demander (a minima) le report du vote après reprise de la concertation publique ». « C’est un #mégaprojet d’ampleur, explique Loïs Habert, président de Vercors Citoyens. Ça mérite une concertation. Si le terrain est vendu, ça devient un projet privé. Nous demandons d’abord que le projet soit présenté. Or le maire ne communique absolument pas. »

    En outre, la présentation par le maire de Villard-de-Lans des délibérations concernant les cessions mutuelles de terrains entre la ville et la SEVLC pourrait se heurter à une difficulté juridique. En effet, l’épouse du maire est cadre administrative et financière au sein de la SEVLC, un lien d’intérêt qui aurait pu – ou dû – conduire Arnaud Mathieu à se déporter. « Je n’ai pas l’intention de me déporter, explique-t-il à Mediapart. Je n’ai rien contre la transparence de la vie publique, et je ne suis pas soumis à la déclaration d’intérêts en tant que maire. On va laisser l’administration faire. Je ne vois rien d’anormal ni d’illégal. Mais si c’est le cas, je me mettrai en retrait. »
    Avis critique de l’Autorité environnementale

    Venu sur le plateau du Vercors peu avant sa retraite de joueur, l’ancien meneur des San Antonio Spurs (Texas) a pris le contrôle de la station de ski en 2019, en rachetant pour 9 millions d’euros les parts des fondateurs de la SEVLC, Daniel et Victor Huillier. Tony Parker a ainsi pris les clés d’un #domaine_skiable qui compte 125 kilomètres de pistes de ski alpin, 110 kilomètres de ski nordique, et 21 remontées mécaniques, mais aussi d’un terrain agricole devenu constructible en bordure de Villard-de-Lans, lui permettant déjà d’imaginer une opération immobilière d’envergure.

    Dans Le Parisien, il annonce alors qu’il « adore l’univers du ski », ou qu’il « apprécie aussi la raclette et la fondue ». Et s’il n’a « jamais skié de sa vie », il a « hâte de commencer ». Son train de vie, sa propriété à San Antonio au Texas, ou son yacht Infinity Nine s’affichent dans les magazines et rassurent probablement les élus locaux, peu nombreux à se questionner ouvertement. Tony est vu comme un futur ambassadeur de la neige, une tête de gondole des stations. Selon Le Dauphiné libéré, il serait « sur le point d’investir dans les stations des Gets et de Morzine en Haute-Savoie ». Une information non confirmée par le groupe.

    En octobre 2022, Tony Parker dévoile l’opération de Villard-de-Lans, « #Ananda_Ressort », lors d’une conférence de presse dans les locaux lyonnais de sa société. Il n’y a pas encore de maquette, seulement un dessin d’architecte qui positionne une barre d’immeubles, non plus sur le terrain agricole mais sur le parking « P1 » de la station de Villard, devant les « Balcons de Villard », un long bâtiment des années 1970. À la surprise générale, deux élus encadrent Tony Parker dans ses locaux : le maire de Villard-de-Lans, Arnaud Mathieu, et celui de Corrençon-en-Vercors, Thomas Guillet.

    Le scénario est précisé : Villard-de-Lans compte vendre son parking à Parker, et celui-ci vendra en retour sa parcelle agricole à la mairie. Une façon d’éviter qu’on artificialise davantage les terres, à condition de rendre à nouveau inconstructible la parcelle agricole. Les journalistes présents à la conférence de presse découvrent « un projet à 96 millions pour Tony Parker dans le Vercors ». Leurs articles laissent planer l’idée que le basketteur investit son propre argent. À tort.

    « Les gens disent “les 100 millions de Tony Parker”, mais ce ne sont pas les 100 millions de Tony Parker, précise à Mediapart Marie-Sophie Obama, une proche du basketteur, dirigeante du club professionnel #Lyon-ASVEL_Féminin, et d’#Infinity_Nine_Mountain (#INM), la société qui investit pour lui en #montagne. À INM, on est coordinateur de ce projet qui implique différentes parties prenantes : un futur gestionnaire qui exploitera la structure hôtelière, des investisseurs qui vont aménager, construire, revendre à une foncière, et une foncière qui louera à ce gestionnaire. Nous, on n’est aucune de ces parties, mais on essaye de fédérer ces acteurs-là. »

    Selon la dirigeante, le groupe de Tony Parker a pris en compte l’avis très critique rendu par l’Autorité environnementale en mai dernier. « On s’est réunis, avec les services techniques de la ville de Villard, de la communauté de communes, et les services de l’État pour revoir un peu la voilure, expose-t-elle. On a fait de nouvelles propositions communiquées à la commune. Quant à l’opposition au projet, nous, on l’entend, et ça a permis de réajuster. Mais ce ne sont pas les seuls acteurs qui s’expriment, même s’ils font parfois le plus de bruit. Il y a d’autres acteurs du territoire avec lesquels on a essayé de repenser tout ça. Je ne vais pas donner leurs noms parce qu’ils ne se sont pas exprimés publiquement. »

    Bien que gestionnaire de la station, le groupe de Tony Parker n’a pas franchi le pas de rencontrer la population. « On nous demande de communiquer sur des choses qui ne sont pas encore déterminées, se défend Marie-Sophie Obama. Ça laisse peut-être un vide, mais on est encore à l’étape de l’avant-projet. Les objections, on les entend. Mais on est un acteur privé. On n’est pas un acteur public ou politique. On fait une proposition de projet. Je n’ai pas de problème avec le fait que les gens ne soient pas d’accord. Le temps viendra où on précisera tout ça. Ce n’est pas le moment aujourd’hui. »
    L’invention du « ski-bashing »

    « Il y a un état de droit, argumente de son côté Arnaud Mathieu auprès de Mediapart. Le plan local d’urbanisme intercommunal (PLUI) a été adopté à l’unanimité. Il n’y a pas eu de recours. On a un investisseur, M. Parker, qui a été accueilli à bras ouverts sur notre territoire. Dans ce projet, il y avait cette résidence hôtelière, un projet de télécabine qui allait du village à la station, et 200 lits supplémentaires. Voilà ce qui a été vendu à M. Parker, voilà pourquoi il a acheté. »

    Élu aux municipales de 2020, le maire n’a fait que reprendre un dossier engagé par sa prédécesseure. Rapidement, après son élection, il affirme « partager la même vision » que les associés de Tony Parker, mais c’est lui qui le contraint de déplacer son projet sur l’emprise urbaine, pour éviter l’artificialisation. À l’entendre, la survie de la station de ski est en jeu.

    « La moyenne montagne est fragilisée par le réchauffement climatique, admet-il. Mais il y a un système de neige de culture qui fonctionne. Il y a des ressources en eau [des réserves ont été créées en altitude – ndlr]. L’objectif, c’est d’avoir une résidence hôtelière sur quatre saisons, pour réaliser une transition douce. Qu’est-ce qui devrait obliger les élus de montagne à porter le deuil précoce d’une activité qui fait vivre des centaines de personnes ? C’est ce que j’appelle du “ski-bashing”. »

    « Il y a un clivage sur la pratique de la montagne, rétorque Loïs Habert. Ceux qui ne vivent que du ski ne sont pas dans notre camp. On a du mal à se parler. Certains élus pensent qu’on a encore trente ans devant nous ! Aujourd’hui, on en est à plastifier des pistes pour que des gens glissent sur des bouées ! »

    Thomas Guillet, maire de Corrençon-en-Vercors, est lui aussi engagé contre le « ski-bashing ». « La neige, c’est chaotique chez nous, explique-t-il. Mais elle représente encore 70 à 80 % du chiffre d’affaires du plateau du Vercors. Moi, je ne suis pas pour le catastrophisme. S’il y a du soleil, on crie à la sécheresse, et s’il se met à pleuvoir, on crie aux inondations. On stigmatise. Les piscines consomment beaucoup plus d’eau que la neige de culture. »

    « La neige fait toujours partie du projet, abonde Marie-Sophie Obama. On ne découvre pas le réchauffement climatique et cet aléa. On a des études qui présentent des perspectives d’enneigement jusqu’à 2050. Elles disent que l’on va pouvoir continuer à skier de manière régulière au-delà de 1 500 mètres et qu’en dessous, il allait falloir repenser les choses. »
    Du business pour des élus

    Dans son avis, la mission de l’Autorité environnementale a recommandé au porteur de projet de « reprendre son bilan » sur la ressource en eau, afin de présenter sa dynamique d’évolution, « en prenant en compte les effets du changement climatique ». Elle a aussi pointé la faiblesse de son étude sur les travaux nécessaires à l’assainissement des eaux usées, et lui a demandé de préciser « les flux routiers actuels » et les futures modalités d’accès au site. Parmi les habitats naturels à préserver, on relève une zone humide à une centaine de mètres du projet, la présence d’espèces protégées (chevreuil ou renard roux, entre autres) à proximité du site.

    Enfin, la mission a recommandé d’élargir l’évaluation environnementale à « l’ensemble du projet de développement de la station », en incluant « les développements immobiliers » à Corrençon-en-Vercors.

    Située en contrebas, cette commune a elle aussi confié ses installations de remontées mécaniques à la SEVLC – en vertu d’une délégation de service public (DSP) – quelques années avant l’arrivée de Tony Parker.

    À Corrençon-en-Vercors, Parker est arrivé par un des sponsors du Lyon basket féminin (LDLC-ASVEL), Ruben Jolly, patron du promoteur Federaly, qui négocie alors l’achat d’un terrain constructible sur un autre site, le Clos de la Balme, sur lequel il a un projet de six cents lits sur 8 000 mètres carrés de plancher. Il s’associe donc à Parker dans la reprise de la station, et il débauche un jeune élu, adjoint au maire de Corrençon, Guillaume Ruel.

    « En tant qu’élu, j’ai aidé à trouver un promoteur et un gestionnaire pour le Clos de la Balme », admet Guillaume Ruel. « Un projet mairie », dit-il. Par la suite, il fait le lien entre Ruben Jolly et les frères Huillier, alors propriétaires majoritaires de la SEVLC.

    « Quand Tony Parker est arrivé sur le Vercors, c’est Guillaume qui lui a fait visiter le territoire, parce qu’il le connaît très bien, comme passionné de montagne et comme adjoint, raconte Thomas Guillet. Il l’avait emmené visiter le domaine. »

    Compte tenu du statut de la société, délégataire de service public, les élus de Corrençon-en-Vercors comme ceux de Villard sont appelés à donner un avis pour valider la cession des parts de la SEVLC à Tony Parker. Aussitôt le rachat signé, Guillaume Ruel est propulsé président de la SEVLC et démissionne de ses fonctions d’élu. Il prend aussi des parts dans l’entreprise. « Quand on a racheté les remontées mécaniques, je ne savais pas quelle place j’allais avoir », se justifie-t-il aujourd’hui. « Ça faisait aussi partie du deal d’avoir des acteurs locaux au conseil d’administration », commente le maire de Corrençon-en-Vercors. Ruel est présenté comme « l’enfant du pays » choisi pour diriger la station.

    Déjà gérant de deux magasins Sport 2000 sur Villard et Corrençon, Thomas Guillet a aussi racheté une entreprise gestionnaire de remontées mécaniques et de plusieurs golfs, le groupe Loisirs Solutions, en 2020, avec… l’adjointe aux finances du maire de Villard, Christelle Cuioc. Cette femme d’affaires avait candidaté à la reprise de la SEVLC avant son rachat par Tony Parker – sur une proposition inférieure à celle du basketteur.

    Le maire de Corrençon-en-Vercors a décidé de revendre ses parts et de quitter l’entreprise par crainte… d’un conflit d’intérêts. Ses partenaires au sein de Loisirs Solutions envisagent en effet désormais de candidater à la reprise de la délégation de service public des remontées mécaniques de Villard-de-Lans, qui doit être renouvelée en 2026. « Je n’étais pas favorable à ce positionnement. Et en tant que maire de la commune voisine, j’ai souhaité sortir pour éviter qu’il y ait un conflit d’intérêts. »

    L’adjointe au maire, Christelle Cuioc, reconnaît l’existence de ce projet de reprise, qui l’opposerait au groupe de Tony Parker. « C’est dans un coin de notre tête, confirme-t-elle à Mediapart. Mais d’ici là, il faudra que j’abandonne ma fonction à la mairie. On ne peut pas cumuler un poste à la mairie et une délégation de service public, c’est soit l’un, soit l’autre. »

    https://www.mediapart.fr/journal/france/261023/un-megaprojet-de-tony-parker-dans-une-station-de-ski-fait-tourner-la-tete-
    #ski #aménagement_du_territoire #Isère #résistance

  • La #géographie, c’est de droite ?

    En pleine torpeur estivale, les géographes #Aurélien_Delpirou et #Martin_Vanier publient une tribune dans Le Monde pour rappeler à l’ordre #Thomas_Piketty. Sur son blog, celui-ci aurait commis de coupables approximations dans un billet sur les inégalités territoriales. Hypothèse : la querelle de chiffres soulève surtout la question du rôle des sciences sociales. (Manouk Borzakian)

    Il y a des noms qu’il ne faut pas prononcer à la légère, comme Beetlejuice. Plus dangereux encore, l’usage des mots espace, spatialité et territoire : les dégainer dans le cyberespace public nécessite de soigneusement peser le pour et le contre. Au risque de voir surgir, tel un esprit maléfique réveillé par mégarde dans une vieille maison hantée, pour les plus chanceux un tweet ironique ou, pour les âmes maudites, une tribune dans Libération ou Le Monde signée Michel Lussault et/ou Jacques Lévy, gardiens du temple de la vraie géographie qui pense et se pense.

    Inconscient de ces dangers, Thomas Piketty s’est fendu, le 11 juillet, d’un billet de blog sur les #inégalités_territoriales (https://www.lemonde.fr/blog/piketty/2023/07/11/la-france-et-ses-fractures-territoriales). L’économiste médiatique y défend deux idées. Premièrement, les inégalités territoriales se sont creusées en #France depuis une génération, phénomène paradoxalement (?) renforcé par les mécanismes de #redistribution. Deuxièmement, les #banlieues qui s’embrasent depuis la mort de Nahel Merzouk ont beaucoup en commun avec les #petites_villes et #villages souffrant de #relégation_sociospatiale – même si les défis à relever varient selon les contextes. De ces deux prémisses découle une conclusion importante : il incombe à la #gauche de rassembler politiquement ces deux ensembles, dont les raisons objectives de s’allier l’emportent sur les différences.

    À l’appui de son raisonnement, le fondateur de l’École d’économie de Paris apporte quelques données macroéconomiques : le PIB par habitant à l’échelle départementale, les prix de l’immobilier à l’échelle des communes et, au niveau communal encore, le revenu moyen. C’est un peu court, mais c’est un billet de blog de quelques centaines de mots, pas une thèse de doctorat.

    Sus aux #amalgames

    Quelques jours après la publication de ce billet, Le Monde publie une tribune assassine signée Aurélien Delpirou et Martin Vanier, respectivement Maître de conférences et Professeur à l’École d’urbanisme de Paris – et membre, pour le second, d’ACADIE, cabinet de conseil qui se propose d’« écrire les territoires » et de « dessiner la chose publique ». Point important, les deux géographes n’attaquent pas leur collègue économiste, au nom de leur expertise disciplinaire, sur sa supposée ignorance des questions territoriales. Ils lui reprochent le manque de rigueur de sa démonstration.

    Principale faiblesse dénoncée, les #données, trop superficielles, ne permettraient pas de conclusions claires ni assurées. Voire, elles mèneraient à des contresens. 1) Thomas Piketty s’arrête sur les valeurs extrêmes – les plus riches et les plus pauvres – et ignore les cas intermédiaires. 2) Il mélange inégalités productives (le #PIB) et sociales (le #revenu). 3) Il ne propose pas de comparaison internationale, occultant que la France est « l’un des pays de l’OCDE où les contrastes régionaux sont le moins prononcés » (si c’est pire ailleurs, c’est que ce n’est pas si mal chez nous).

    Plus grave, les géographes accusent l’économiste de pratiquer des amalgames hâtifs, sa « vue d’avion » effaçant les subtilités et la diversité des #inégalités_sociospatiales. Il s’agit, c’est le principal angle d’attaque, de disqualifier le propos de #Piketty au nom de la #complexité du réel. Et d’affirmer : les choses sont moins simples qu’il n’y paraît, les exceptions abondent et toute tentative de catégoriser le réel flirte avec la #simplification abusive.

    La droite applaudit bruyamment, par le biais de ses brigades de twittos partageant l’article à tour de bras et annonçant l’exécution scientifique de l’économiste star. Mais alors, la géographie serait-elle de droite ? Étudier l’espace serait-il gage de tendances réactionnaires, comme l’ont laissé entendre plusieurs générations d’historiens et, moins directement mais sans pitié, un sociologue célèbre et lui aussi très médiatisé ?

    Pensée bourgeoise et pensée critique

    D’abord, on comprend les deux géographes redresseurs de torts. Il y a mille et une raisons, à commencer par le mode de fonctionnement de la télévision (format, durée des débats, modalité de sélection des personnalités invitées sur les plateaux, etc.), de clouer au pilori les scientifiques surmédiatisés, qui donnent à qui veut l’entendre leur avis sur tout et n’importe quoi, sans se soucier de sortir de leur champ de compétence. On pourrait même imaginer une mesure de salubrité publique : à partir d’un certain nombre de passages à la télévision, disons trois par an, tout économiste, philosophe, politologue ou autre spécialiste des sciences cognitives devrait se soumettre à une cérémonie publique de passage au goudron et aux plumes pour expier son attitude narcissique et, partant, en contradiction flagrante avec les règles de base de la production scientifique.

    Mais cette charge contre le texte de Thomas Piketty – au-delà d’un débat chiffré impossible à trancher ici – donne surtout le sentiment de relever d’une certaine vision de la #recherche. Aurélien Delpirou et Martin Vanier invoquent la rigueur intellectuelle – indispensable, aucun doute, même si la tentation est grande de les accuser de couper les cheveux en quatre – pour reléguer les #sciences_sociales à leur supposée #neutralité. Géographes, économistes ou sociologues seraient là pour fournir des données, éventuellement quelques théories, le cas échéant pour prodiguer des conseils techniques à la puissance publique. Mais, au nom de leur nécessaire neutralité, pas pour intervenir dans le débat politique – au sens où la politique ne se résume pas à des choix stratégiques, d’aménagement par exemple.

    Cette posture ne va pas de soi. En 1937, #Max_Horkheimer propose, dans un article clé, une distinction entre « #théorie_traditionnelle » et « #théorie_critique ». Le fondateur, avec #Theodor_Adorno, de l’#École_de_Francfort, y récuse l’idée cartésienne d’une science sociale détachée de son contexte et fermée sur elle-même. Contre cette « fausse conscience » du « savant bourgeois de l’ère libérale », le philosophe allemand défend une science sociale « critique », c’est-à-dire un outil au service de la transformation sociale et de l’émancipation humaine. L’une et l’autre passent par la #critique de l’ordre établi, dont il faut sans cesse rappeler la contingence : d’autres formes de société, guidées par la #raison, sont souhaitables et possibles.

    Quarante ans plus tard, #David_Harvey adopte une posture similaire. Lors d’une conférence donnée en 1978 – Nicolas Vieillecazes l’évoque dans sa préface à Géographie de la domination –, le géographe britannique se démarque de la géographie « bourgeoise ». Il reproche à cette dernière de ne pas relier les parties (les cas particuliers étudiés) au tout (le fonctionnement de la société capitaliste) ; et de nier que la position sociohistorique d’un chercheur ou d’une chercheuse informe inévitablement sa pensée, nécessitant un effort constant d’auto-questionnement. Ouf, ce n’est donc pas la géographie qui est de droite, pas plus que la chimie ou la pétanque.

    Neutralité vs #objectivité

    Il y a un pas, qu’on ne franchira pas, avant de voir en Thomas Piketty un héritier de l’École de Francfort. Mais son texte a le mérite d’assumer l’entrelacement du scientifique – tenter de mesurer les inégalités et objectiver leur potentielle creusement – et du politique – relever collectivement le défi de ces injustices, en particulier sur le plan de la #stratégie_politique.

    S’il est évident que la discussion sur les bonnes et les mauvaises manières de mesurer les #inégalités, territoriales ou autres, doit avoir lieu en confrontant des données aussi fines et rigoureuses que possible, ce n’est pas manquer d’objectivité que de revendiquer un agenda politique. On peut même, avec Boaventura de Sousa Santos, opposer neutralité et objectivité. Le sociologue portugais, pour des raisons proches de celles d’Horkheimer, voit dans la neutralité en sciences sociales une #illusion – une illusion dangereuse, car être conscient de ses biais éventuels reste le seul moyen de les limiter. Mais cela n’empêche en rien l’objectivité, c’est-à-dire l’application scrupuleuse de #méthodes_scientifiques à un objet de recherche – dans le recueil des données, leur traitement et leur interprétation.

    En reprochant à Thomas Piketty sa #superficialité, en parlant d’un débat pris « en otage », en dénonçant une prétendue « bien-pensance de l’indignation », Aurélien Delpirou et Martin Vanier désignent l’arbre de la #rigueur_intellectuelle pour ne pas voir la forêt des problèmes – socioéconomiques, mais aussi urbanistiques – menant à l’embrasement de banlieues cumulant relégation et stigmatisation depuis un demi-siècle. Ils figent la pensée, en font une matière inerte dans laquelle pourront piocher quelques technocrates pour justifier leurs décisions, tout au plus.

    Qu’ils le veuillent ou non – et c’est certainement à leur corps défendant – c’est bien la frange réactionnaire de la twittosphère, en lutte contre le « socialisme », le « wokisme » et la « culture de l’excuse », qui se repait de leur mise au point.

    https://blogs.mediapart.fr/geographies-en-mouvement/blog/010823/la-geographie-cest-de-droite

  • I #villani

    2018, dans un monde dominé par l’agriculture et la pêche industrielle, nous allons suivre aux quatre coins de l’Italie, quatre #paysans et deux #pêcheurs qui ont décidé de pratiquer leur métier comme autrefois, dans le respect de la nature. Depuis #Alcamo en #Sicile nord occidentale avec Salvatore, à #Baselice au cœur de la #Campanie avec Modesto, à #Trambileno dans le #Trentin avec Luigina, jusqu’au port du vieux #Tarente avec les frères Galasso, nous découvrons des réalités d’aujourd’hui qui nous sont totalement inconnues. Des paysans libres qui ne suivent pas les règles imposées par l’Union européenne et ses lois liberticides qui assassinent la biodiversité, pour produire leurs fromages, leurs tomates, leurs confitures ou bien leurs moules. Le point commun entre tous ces travailleurs, c’est cette volonté de bien faire, cet amour pour leur métier, ce respect pour la nature dont ils dépendent ainsi que les conditions de vie bien difficiles qui en découlent. Il y a en filigrane la voix off de ce vigneron Lombard, Lino Maga, qui relie les destins croisés de ces survivants dont il faut espérer qu’ils feront des émules.

    « Pour bien manger, il faut respecter un certain rythme : celui de la cuisine, des saisons. Il faut aussi respecter la terre et la mer, tout ce que la modernité en réalité ne fait plus. C’est ainsi que naît cette nouvelle exigence : vivre comme autrefois dans notre temps présent. En quinze ans de travail, à travers mes livres et mes spectacles, j’ai essayé de montrer les liens entre la cuisine et l’art, de dire ce que représentait pour moi la cuisine. Ce qui m’émeut et que je veux partager, c’est l’existence de ces personnes qui sont capables de créer des gestes et de construire autour un savoir vivant. Leur existence est primordiale. Le documentaire est l’instrument qui peut permettre que cette rencontre se réalise : je ne renonce pas à mon point de vue mais celui-ci se fond dans leur réalité. »

    https://festival-villerupt.com/title-item/i-villani

    #film #documentaire #film_documentaire
    #Italie #agriculture #portraits #

  • Le #Lyon-Turin menace les #sources de la #Maurienne

    Sources taries, #nappes_phréatiques en baisse soudaine… Les travaux de la #ligne_ferroviaire Lyon-Turin entraînent des perturbations du #cycle_de_l’eau en Maurienne, ce qui inquiète les montagnards et les écologistes.

    Les orages sont fréquents en cette mi-juin en #Haute-Maurienne. L’herbe y est d’un vert profond, complétée par des touches de couleurs des coquelicots et autres fleurs de cette fin de printemps. Le débit de l’#Arc, la #rivière qui creuse lentement le fond de vallée, est important. Et pourtant la possibilité d’un manque d’eau inquiète, en raison des travaux du #tunnel_ferroviaire Lyon-Turin.

    Cette angoisse remonte à 2003. Il y a 20 ans, les premières galeries commençaient à être creusées dans la #montagne, des descenderies qui doivent permettre de ventiler, d’assurer la maintenance ou de servir d’issues de secours. De petits travaux en comparaison aux grands tubes qui permettront de faire passer les trains. Mais qui ont suffi à tarir d’un coup une source du village de #Villarodin-Bourget.

    « Pour ramener l’eau dans les fontaines du village, les promoteurs ont dû réaliser un captage et construire 5 kilomètres de tuyauterie », explique Gilles Margueron, le maire de la commune depuis 2008. Évidemment, l’eau de la source n’a pas disparu. En l’état actuel des travaux, elle ressort dans l’Arc, juste en dessous du village.

    « Mais quand les travaux seront achevés et le tunnel creusé, l’eau ressortira à #Saint-Jean-de-Maurienne, [à 30 kilomètres de là]. En gros, l’eau qui était chez nous ne sera plus chez nous. » La #qualité_de_l’eau en prend aussi un coup, l’eau de source étant de meilleure qualité que l’eau de l’Arc.

    Depuis 2003, le sujet de l’eau est parfois tombé presque dans l’oubli, avant de ressurgir avec plus de force encore au fur et à mesure que le dérèglement climatique resserre son emprise en montagne. Actuellement, la végétation est resplendissante, sans que ce soit le signe de nappes phréatiques pleines ni d’absence de difficultés cet été.

    « L’été dernier, nous avons eu des restrictions d’eau avec interdiction d’arroser les jardins en journée, rappelle Brigitte [*], venue voir l’avancée des travaux sur les bords de l’Arc. Alors quand on voit que les travaux assèchent des sources… » Quant aux glaciers, ces véritables réservoirs d’eau pour l’été ne cessent de se réduire avec l’augmentation des températures.

    Ces inquiétudes ont bien été cernées par les organisateurs de la manifestation du 17 et 18 juin contre la liaison ferroviaire Lyon-Turin. Sur leur site, les Soulèvements de la Terre, l’une des associations organisatrices, tape fort : « Le #drainage de 100 millions de m³ [d’eau] souterraine chaque année [est] à prévoir, asséchant de façon irrémédiable la montagne. Si l’eau c’est la vie, alors c’est bien au droit à vivre des populations locales que ce projet s’attaque… »

    Un mot d’ordre partagé par Philippe Delhomme, président de l’association locale #Vivre_et_Agir_en_Maurienne. « En mettant en avant ce thème de l’eau, on peut toucher plus de monde », renchérit-il, en ne décollant presque pas les yeux de son téléphone portable, qui vibre continuellement au gré des messages et appels qu’il reçoit pour l’organisation de la manifestation.

    « C’est un thème que nous avons en commun avec les Soulèvements de la Terre, qui se sont fait connaître sur des thèmes liés à l’agriculture, notamment les mégabassines », continue-t-il.

    Déboucher la baignoire

    Pour bien faire comprendre comment un réseau de galeries fait craindre un #assèchement de la montagne, une comparaison circule beaucoup dans la vallée : imaginez que vous remplissiez une baignoire bouchée de pierres et de gravats, puis que vous y mettiez de l’eau. Quand le niveau est bas, l’eau reste invisible. Ce n’est que quand elle a rempli tous les interstices et qu’elle déborde de la baignoire qu’on peut la voir.

    C’est la même chose en montagne : les sources sont la manifestation de ce trop plein. Mais si vous enlevez le bouchon au fond de la baignoire, l’eau va être drainée. Adieu les sources. Plusieurs habitants craignent que les tunnels du Lyon-Turin produisent le même effet.

    Un tiers d’eau en moins dans la #nappe_phréatique

    D’autant que ce phénomène est bien connu des chercheurs et des industriels qui travaillent sur des tunnels. Si chaque montagne est différente, quasiment toutes regorgent d’eau, notamment dans des failles que le tunnel peut traverser et qui, si elles ne sont pas bouchées, peuvent agir comme ce bouchon qu’on enlève au fond de la baignoire.

    Une véritable vidange qui se serait produite à #Orelle, un village de la vallée, situé entre Saint-Michel-de-Maurienne et Modane. Selon le maire de Villarodin-Bourget, Gilles Margueron, le niveau d’une nappe phréatique dans laquelle le village puise son eau potable aurait diminué d’un tiers, sans autre explication. Si ce n’est que le creusement des tunnels progresse.

    Jean-Louis est installé un peu plus loin dans la vallée. Il possède des terres à Bramans et emmène ses 80 vaches laitières, productrices de lait à Beaufort, dans des alpages sur les pentes du Mont Cenis. Le tunnel doit passer juste en dessous.

    « J’ai deux chalets alimentés par des sources qui sont au niveau du tracé, raconte l’agriculteur. On ne sait pas d’où proviennent ces sources exactement. On a donc très peur qu’elles se tarissent quand le tunnel arrivera à notre niveau. Et je ne pense pas qu’ils pourront résoudre le problème par un captage plus haut, comme à Villarodin-Bourget, car cela voudrait dire réaliser des dizaines de kilomètres de tuyaux. »

    L’eau, « une ressource à protéger »

    Si le promoteur du projet, #Telt, pour #Tunnel_euralpin_Lyon-Turin, assure sur son site que l’eau « est une ressource à protéger » et qu’une cartographie a été mise en place pendant la phase de conception pour limiter les dégâts, les opposants l’accusent de ne pas faire assez.

    « Depuis 2003, les dégâts sur l’eau ont été systématiquement minimisés. En vue des mesures qui sont faites, on ne peut pas dire que ces travaux vont tarir toutes les sources. Ni dire qu’il n’y aura aucun problème. Selon moi, le principe de précaution doit donc s’appliquer », explique longuement un scientifique local, qui préfère rester anonyme. Un signe des tensions qui traversent la vallée sur le sujet du Lyon-Turin.

    « Les défenseurs du Lyon Turin pointent parfois les changements climatiques comme cause de la baisse d’une nappe ou du débit d’un ruisseau. Si on avait des données globales qui montrent que ce niveau baisse dans toute la vallée, pourquoi pas, continue ce scientifique. Mais quand une source se tarit d’un coup, ce n’est pas la même chose. »

    « Si, à la rigueur, il n’y avait pas de ligne ferroviaire déjà existante pour traverser les Alpes… Mais il y en a déjà une ! » rappelle Yann, un habitant brin défaitiste, rencontré en train de siroter une bière à un bar non loin du chantier. « Jusqu’à pas longtemps, je me sentais hyper protégé du dérèglement climatique en montagne. Mais là, quand je vois les difficultés qu’on a déjà et celles ajoutées par le Lyon-Turin… »

    https://reporterre.net/L-eau-preoccupation-centrale-du-Lyon-Turin
    #no_TAV #no-tav #eau

  • Assises « Vers des Villes sans Voitures »
    http://carfree.fr/index.php/2023/05/26/assises-vers-des-villes-sans-voitures

    En octobre 1997, environ 65 militants provenant de 21 pays différents se sont retrouvés durant une semaine à #lyon en France pour organiser les « Assises Vers des Villes sans Voitures. » Lire la suite...

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