• Processo Open Arms, la città di Barcellona si costituisce parte civile contro Salvini

    Il consiglio comunale di Barcellona si costituirà parte civile nell’ambito del processo Open Arms contro l’ex ministro dell’interno italiano, Matteo Salvini.

    La sindaca di Barcellona, Ada Colau, lo ha confermato mercoledì nel corso di una visita alla nave di salvataggio della Ong. Il Comune si presenterà dunque come parte accusante nell’ambito del procedimento in cui Salvini potrebbe dover rispondere di sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio.

    Siamo ancora nelle fasi dell’udienza preliminare, al via lo scorso 9 gennaio nella città di Palermo.

    Salvini potrebbe andare a processo qualora il Gup, Lorenzo Jannelli, dovesse ritenere che l’ex ministro abbia violato le leggi italiane nel negare l’ingresso nel porto di Lampedusa alla nave di salvataggio spagnola Open Arms, con 163 persone a bordo, nell’agosto 2019.

    Il giudice ha ammesso al procedimento le accuse di 18 parti civili, tra cui 7 immigrati che viaggiavano sulla barca.

    Il Comune di Barcellona, nel 2019, ha siglato un accordo con la ONG, donandole circa mezzo milione di euro (quasi il 35% del totale del progetto), e conferendo all’organizzazione la medaglia d’oro per il merito civico.

    Per questo motivo, «il Comune può rivendicare contro Salvini un danno patrimoniale causato dal blocco della nave»; inoltre, indica l’ufficio del sindaco in un comunicato, sussisterebbe un danno d’immagine causato alla città di Barcellona.

    «Sia il governo spagnolo che quello italiano volevano farci una multa di un milione di euro. Ora però possiamo vedere, anzi, tutti possono vedere che si è trattato di un’infamia, che siamo stati vittime di un abuso di potere. Le persone che avevano bisogno di aiuto immediato sono state private della loro libertà, come dicono le convenzioni internazionali», spiega Oscar Camps, direttore della ONG, convinto che la sua organizzazione abbia agito nel rispetto dei trattati internazionali e del diritto del mare.

    Nei 21 giorni in cui alla barca è stato negato l’attracco, 14 persone si sono buttate in mare cercando di raggiungere terra a nuoto. Fu alla fine il procuratore di Agrigento a consentire lo sbarco dei migranti.

    Il procuratore ha parlato di una situazione «di grande disagio fisico e psicologico, di profonda angoscia psicologica, e di altissima tensione emotiva che avrebbe potuto provocare reazioni difficili da controllare, delle quali, inoltre, il tentativo di raggiungere l’isola a nuoto è stato solo un preludio».

    Salvini è già comparso in tribunale il 3 ottobre 2020, a Catania, nell’ambito dell’udienza preliminare sulla richiesta di rinvio a giudizio per il caso della nave Gregoretti e dei suoi 131 migranti a bordo. La ONG ritiene che il politico italiano abbia bloccato l’ingresso in porto alla Open Arms per un proprio tornaconto elettorale.

    L’avvocato di Salvini, Giulia Bongiorno, sostiene che la decisione sia stata presa in blocco da tutto il governo, e che non si sia trattata di un’iniziativa singola dell’allora ministro dell’Interno. Sottolinea inoltre che la Open Arms rifiutò altre alternative di porto di sbarco e che, avendo effettuato il salvataggio in acque libiche e maltesi, ed essendo imbarcazione battente bandiera spagnola, non avrebbe dovuto cercare un porto sicuro in Italia.

    L’udienza preliminare del processo Open Arms si è già tenuta, anche se brevemente; tuttavia, il magistrato ha deciso di rinviare la seduta al prossimo 20 marzo 2021. Il luogo scelto è stato simbolico, ovvero il bunker del carcere Ucciardone di Palermo, dove si tenne il maxiprocesso contro la mafia negli anni ’80.
    Cronologia dei fatti dell’agosto 2019

    Nell’agosto 2019, Salvini negò per 21 giorni lo sbarco ad Open Arms sull’isola di Lampedusa ai circa 160 migranti a bordo, salvati dalla Ong da un naufragio. Dopo una serie di evacuazioni parziali, per ragioni medico-sanitarie, rimasero alla fine a bordo 90 persone. Negli ultimi tre giorni, con la barca alla fonda a soli 800 metri dal porto, diversi migranti si buttarono in mare per raggiungere la terraferma.

    La prima offerta del governo spagnolo di concedere un porto di sbarco per i migranti arrivò dopo 17 giorni di odissea, ma la Open Arms si rifiutò di fare rotta verso i porti di Algeciras e Mahon, considerati troppo lontani.

    L’equipaggio giustificò la propria decisione per ragioni legate alla sicurezza di chi era a bordo e all’impossibilità per la barca di effettuare un viaggio così lungo. Open Arms denunciò anche lo stato di prostrazione fisica e psicologica sia dell’equipaggio sia dei migranti salvati a causa del lungo protrarsi del braccio di ferro politico e diplomatico.

    Madrid si decise ad inviare la nave della Marina spagnola «Audaz» per prendere in carico i migranti e scortare la «Open Arms» fino al porto di Maiorca, ma alla fine, nella notte del 20 agosto, la procura di Agrigento diede il via libera agli 83 migranti rimasti a bordo di sbarcare a Lampedusa, mettendo fine all’odissea.

    Il procuratore di Agrigento prese questa decisione dopo essere salito a bordo della nave spagnola, accompagnato da diversi medici, per verificare le condizioni dei migranti e la situazione a bordo.

    https://it.euronews.com/2021/01/27/processo-open-arms-la-citta-di-barcellona-si-costituisce-parte-civile-c

    #Barcelone #sauvetage #sauvetage_en_mer #migrations #réfugiés #partie_civile #procès #Open_Arms #Salvini #Italie #Ana_Colau #villes-refuge #justice #abus_de_pouvoir #port

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    Ajouté à la métaliste sur les villes-refuge:
    https://seenthis.net/messages/759145

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    • Barcelona se personará en el juicio en Italia contra Salvini por el bloqueo del Open Arms

      Barcelona se personará en el juicio en Italia contra Salvini por el bloqueo del Open Arms

      El Ayuntamiento de Barcelona ha iniciado los trámites para personarse como parte civil en el proceso penal que se sigue en Palermo (Italia) contra el exministro de Interior Matteo Salvini por impedir que el barco de rescate Open Arms desembarcara en el país con más de 130 personas a bordo en verano de 2019. "Nos personamos en esta causa judicial porque si atacan a Open Arms sentimos que atacan a toda la ciudad de Barcelona, una ciudad comprometida con la paz, los derechos humanos, la ...

      https://www.europapress.es/catalunya/noticia-barcelona-personara-juicio-italia-contra-salvini-bloqueo-open-ar

  • ATLAS D’UTOPIES. LES VILLES TRANSFORMATRICES ONT PRÉSENTÉ DES INITIATIVES

    À propos de l’Atlas des utopies

    « L’utopie est à l’horizon. Je fais deux pas en avant, elle s’éloigne de deux pas. Je fais dix pas de plus, l’horizon s’éloigne de dix pas. J’aurai beau marcher, je ne l’atteindrai jamais. A quoi sert l’utopie ? Elle sert à ça : à avancer. »
    – Fernando Birri, cité par Eduardo Galeano

    L’#Atlas_des_Utopies présente des #transformations collectives qui garantissent l’accès aux #droits_fondamentaux : #eau, #énergie, #logement et #alimentation.

    L’Atlas des Utopies rassemble les finalistes des trois éditions du Concours du Choix du Public des Villes Transformatrices qui vise à illustrer les villes et les collectifs travaillant sur des #solutions pour garantir l’accès à l’eau, à la #nourriture, à l’énergie et au logement.

    L’Atlas n’est en aucun cas une #cartographie exhaustive des #pratiques_transformatrices, mais un échantillon représentatif, résultat d’un processus d’évaluation effectué par des pairs, et mené par une équipe interdisciplinaire de chercheurs et chercheuses, de militant-e-s, de responsables politiques et de représentant-e-s d’ONG internationales.

    Partant de la conviction qu’il existe de nombreuses tentatives de transformation en cours - contrairement au mantra néolibéral d’ « il n’y a pas d’#alternative » - l’objectif de l’Atlas est de présenter celles qui, selon les critères d’évaluation du #Concours_des_Villes_Transformatrices, sont considérées comme uniques et particulièrement inspirantes. Tout comme un télescope se concentre sur certaines constellations au cœur de l’univers infini, l’Atlas signale certaines initiatives dans l’intention d’aider les technicien-ne-s et les étudiant-e-s à voguer sur les flots d’alternatives remarquables et stimulantes déjà en cours, afin de les découvrir.

    Les cas dévoilent comment les solutions publiques, fondées sur les principes de #coopération et de #solidarité plutôt que sur la concurrence et le profit privé, ont mieux réussi à répondre aux besoins fondamentaux des personnes et, ce qui est peut-être tout aussi important, à créer un esprit de #confiance et d’#autonomisation qui consolide les communautés pour de nombreux autres défis. Ces cas présentent des mouvements de la communauté de base à #Cochabamba et en #Palestine, mais aussi au cœur de villes mondiales comme #Paris ou #Barcelone, et ont vaincu les sociétés transnationales et les gouvernements nationaux hostiles pour apporter des solutions démocratiques, centrées sur la population, pour l’accès des communautés aux besoins fondamentaux, quelles que soient les différences de culture ou d’échelle entre les contextes géographiques variés. Tous les êtres humains ont besoin d’eau, de nourriture, d’énergie et de logement pour survivre, et l’Atlas montre des exemples extraordinaires d’organisations qui garantissent l’accès aux droits fondamentaux de leur intégrant-e-s.

    Ces initiatives démontrent en pratique qu’un autre monde est non seulement possible, mais qu’il est déjà en processus de réalisation !

    L’initiative Villes Transformatrices et Atlas des Utopies vise à attirer l’attention d’une ample gamme de groupes et d’organisations qui explorent ce qui fonctionne en termes de transformation des relations de pouvoir afin de garantir la justice sociale et écologique, et favoriser un apprentissage mutuel et une coopération à grande échelle.

    https://transformativecities.org/fr/atlas-of-utopias

    #atlas #utopie #villes #urban_matter #TRUST #Master_TRUST #droits_humains

  • Vers un #tournant_rural en #France ?

    En France, la seconde moitié du XXe siècle marque une accélération : c’est durant cette période que la population urbaine progresse le plus fortement pour devenir bien plus importante que la population rurale. À l’équilibre jusqu’à l’après-guerre, la part des urbains explose durant les « trente glorieuses » (1945-1973).

    Dans les analyses de l’occupation humaine du territoire national, l’#exode_rural – ce phénomène qui désigne l’abandon des campagnes au profit des centres urbains – a marqué l’histoire de France et de ses territoires. En témoigne nombre de récits et d’études, à l’image des travaux de Pierre Merlin dans les années 1970 et, plus proches de nous, ceux de Bertrand Hervieu.

    Ce long déclin des campagnes est documenté, pointé, par moment combattu. Mais depuis 1975, et surtout après 1990, des phénomènes migratoires nouveaux marquent un renversement. Le #rural redevient accueillant. La #périurbanisation, puis la #rurbanisation ont enclenché le processus.

    La période actuelle marquée par un contexte sanitaire inédit questionne encore plus largement. N’assisterait-on pas à un #renversement_spatial ? La crise en cours semble en tous cas accélérer le phénomène et faire émerger une « #transition_rurale ».

    Si cette hypothèse peut être débattue au niveau démographique, politique, économique et culturel, elle nous pousse surtout à faire émerger un nouveau référentiel d’analyse, non plus pensé depuis l’#urbanité, mais depuis la #ruralité.


    https://twitter.com/afpfr/status/1078546339133353989

    De l’exode rural…

    Dans la mythologie moderne française, l’exode rural a une place reconnue. Les #campagnes, qui accueillent jusque dans les années 1930 une majorité de Français, apparaissent comme le réservoir de main-d’œuvre dont l’industrie, majoritairement présente dans les villes a alors cruellement besoin. Il faut ainsi se rappeler qu’à cette époque, la pluriactivité est répandue et que les manufactures ne font pas toujours le plein à l’heure de l’embauche en période de travaux dans les champs.

    Il faudra attendre l’après-Seconde Guerre mondiale, alors que le mouvement se généralise, pour que la sociologie rurale s’en empare et prenne la mesure sociale des conséquences, jusqu’à proclamer, en 1967 avec #Henri_Mendras, « la #fin_des_paysans ».

    L’#urbanisation constitue le pendant de ce phénomène et structure depuis la géographie nationale. Dans ce contexte, la concentration des populations à l’œuvre avait déjà alerté, comme en témoigne le retentissement de l’ouvrage de Jean‑François Gravier Paris et le désert français (1947). Quelques années plus tard, une politique d’#aménagement_du_territoire redistributive sera impulsée ; elle propose une #délocalisation volontaire des emplois de l’#Ile-de-France vers la « #province », mais sans véritablement peser sur l’avenir des campagnes. Le temps était alors surtout aux métropoles d’équilibre et aux grands aménagements (ville nouvelle – TGV – création portuaire).

    https://www.youtube.com/watch?v=JEC0rgDjpeE&feature=emb_logo

    Pour la France des campagnes, l’exode rural se traduisit par un déplacement massif de population, mais aussi, et surtout, par une perte d’#identité_culturelle et une remise en cause de ses fondements et de ses #valeurs.

    Le virage de la #modernité, avec sa recherche de rationalité, de productivité et d’efficacité, ne fut pas négocié de la même manière. Les campagnes reculées, où se pratique une agriculture peu mécanisable, subirent de plein fouet le « progrès » ; tandis que d’autres milieux agricoles du centre et de l’ouest de la France s’en tirèrent mieux. L’#exploitant_agricole remplace désormais le #paysan ; des industries de transformation, notamment agroalimentaires, émergent. Mais globalement, le rural quitta sa dominante agricole et avec elle ses spécificités. La campagne, c’était la ville en moins bien.

    Ce référentiel, subi par les populations « restantes », structurait la #vision_nationale et avec elle les logiques d’action de l’État. Cette histoire se poursuivit, comme en témoignent les politiques actuelles de soutien à la #métropolisation, heureusement questionnées par quelques-uns.

    … à l’exode urbain !

    Le recensement de 1975 marque un basculement. Pour la première fois, la population rurale se stabilise et des migrations de la ville vers ses #périphéries sont à l’œuvre.

    Le mouvement qualifié de « périurbanisation » puis de « rurbanisation » marquait une continuité, toujours relative et fixée par rapport à la ville. La « périurbanisation » exprimait les migrations en périphéries, un desserrement urbain. La « rurbanisation », la généralisation du mode de vie urbain, même loin d’elle. Le processus n’est pas homogène et il explique pour une grande part la #fragmentation contemporaine de l’#espace_rural en y conférant des fonctions résidentielles ou récréatives, sur fond d’emplois agricoles devenus minoritaires. Ainsi, la banlieue lyonnaise, l’arrière-pays vauclusien et la campagne picarde offrent différents visages de la ruralité contemporaine.

    Parallèlement, dans les territoires les plus délaissés (en Ardèche, dans l’Ariège, dans les Alpes-de-Haute-Provence par exemple), un « #retour_à_la_terre » s’opère. Si le grand public connaît ces nouveaux résidents sous l’appellation de « #néo-ruraux », des moments successifs peuvent être distingués.

    La chercheuse Catherine Rouvière s’intéressa à ce phénomène en Ardèche ; elle le décrypte en 5 moments.

    Les premiers, avec les « #hippies » (1969-1973), marquèrent culturellement le mouvement, mais peu l’espace, à l’inverse des « néo-ruraux proprement dits » (1975-1985) qui réussirent plus largement leur installation. Plus tard, les « #travailleurs_à_la_campagne » (1985-1995) furent les premiers à faire le choix d’exercer leur métier ailleurs qu’en ville. Enfin, les politiques néolibérales engagèrent dans ce mouvement les « personnes fragiles fuyant la ville » (1995-2005) et mirent en action les « #altermondialistes » (2005-2010). Le départ de la ville est donc ancien.

    https://www.youtube.com/watch?v=NcOiHbvsoA0&feature=emb_logo

    Jean‑Paul Guérin, voit déjà en 1983 dans ce phénomène d’exode urbain une opportunité pour les territoires déshérités de retrouver une élite. Ce qu’on qualifie aujourd’hui d’émigration massive avait ainsi été repéré depuis près de 30 ans, même si l’Insee l’a toujours méthodiquement minoré.

    Vers une transition rurale ?

    Présenter ainsi l’histoire contemporaine des migrations françaises de manière symétrique et binaire est pourtant trompeur.

    Tout comme l’exode rural est à nuancer, l’exode urbain engagé il y a des décennies mérite de l’être aussi. Les relations ville-campagne sont bien connues, la ruralité se décline dorénavant au pluriel et de nouveaux équilibres sont souvent recherchés. Malgré cela, la période actuelle nous oblige à poser un regard différent sur cette histoire géographique au long cours. La crise de la #Covid-19 marque une accélération des mouvements.

    Aujourd’hui, quelques auteurs s’interrogent et proposent des ajustements. En appelant à une Plouc Pride, une marche des fiertés des campagnes, Valérie Jousseaume nous invite ainsi collectivement à nous questionner sur la nouvelle place de la ruralité.

    https://www.youtube.com/watch?v=agAuOcgcOUQ&feature=emb_logo

    Et si, au fond, cette tendance témoignait d’un basculement, d’une transition, d’un tournant rural, démographique, mais aussi et surtout culturel ?

    La période rend en effet visible « des #exilés_de_l’urbain » qui s’inscrivent clairement dans un autre référentiel de valeurs, dans la continuité de ce qui fut appelé les migrations d’agrément. Celles-ci, repérées initialement en Amérique du Nord dans les années 1980 puis en France dans les années 2000, fonctionnent sur une logique de rapprochement des individus à leurs lieux de loisirs et non plus de travail.

    L’enjeu pour ces personnes consiste à renoncer à la ville et non plus de continuer à en dépendre. Dans la ruralité, de nombreux territoires conscients de ce changement tentent de s’affirmer, comme la Bretagne ou le Pays basque.

    Pourtant ils versent souvent, à l’image des métropoles, dans les politiques classiques de #compétitivité et d’#attractivité (#marketing_territorial, politique culturelle, territoire écologique, créatif, innovant visant à attirer entrepreneurs urbains et classes supérieures) et peu s’autorisent des politiques non conventionnelles. Ce phénomène mimétique nous semble d’autant plus risqué que dès 1978, Michel Marié et Jean Viard nous alertaient en affirmant que « les villes n’ont pas les concepts qu’il faut pour penser le monde rural ». Mais alors, comment penser depuis la ruralité ?

    https://www.youtube.com/watch?v=YOEyqkK2hTQ&feature=emb_logo

    Il s’agit d’ouvrir un autre référentiel qui pourrait à son tour servir à relire les dynamiques contemporaines. Le référentiel urbain moderne a construit un monde essentiellement social, prédictif et rangé. Ses formes spatiales correspondent à des zonages, des voies de circulation rapides et de l’empilement. Ici, l’#artificialité se conjugue avec la #densité.

    Le rural accueille, en coprésence, une diversité de réalités. Ainsi, la #naturalité se vit dans la #proximité. Ce phénomène n’est pas exclusif aux territoires peu denses, la naturalisation des villes est d’ailleurs largement engagée. Mais l’enjeu de l’intégration de nouveaux habitants dans le rural est d’autant plus fort, qu’en plus de toucher la vie des communautés locales, il se doit de concerner ici plus encore qu’ailleurs les milieux écologiques.

    Le trait n’est plus alors celui qui sépare (la #frontière), mais devient celui qui fait #lien (la #connexion). La carte, objet du géographe, doit aussi s’adapter à ce nouvel horizon. Et la période qui s’ouvre accélère tous ces questionnements !

    L’histoire de la civilisation humaine est née dans les campagnes, premiers lieux défrichés pour faire exister le monde. La ville n’est venue que plus tard. Son efficacité a par contre repoussé la limite jusqu’à dissoudre la campagne prise entre urbanité diffuse et espace naturel. Mais face aux changements en cours, à un nouvel âge de la #dispersion, la question qui se pose apparaît de plus en plus : pour quoi a-t-on encore besoin des villes ?

    https://theconversation.com/vers-un-tournant-rural-en-france-151490
    #villes #campagne #démographie #coronavirus #pandémie

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    ajouté à la métaliste « #géographie (et notamment #géographie_politique) et #coronavirus » :
    https://seenthis.net/messages/852722

  • #Urbanisme. Dans les #villes sud-africaines, les fantômes de l’#apartheid

    Jusque dans leur #architecture et leur organisation, les villes sud-africaines ont été pensées pour diviser #Noirs et #Blancs. Vingt ans après la fin de l’apartheid, des activistes se battent pour qu’elles soient enfin repensées.

    Lors de la dernière nuit que Sophie Rubins a passée dans son taudis de tôle rouillée, au début du mois de septembre, la première pluie du printemps s’est abattue sur son toit. De son lit, elle l’a regardée s’infiltrer dans les interstices des parois. Les fentes étaient si grandes qu’on pouvait « voir les étoiles », dit-elle, et en entrant, l’eau faisait des flaques sur le sol, comme à chaque fois qu’il avait plu durant les trente dernières années.

    Mme Rubins avait passé la majeure partie de sa vie dans ce « zozo » - une bicoque en tôle - situé dans une arrière-cour d’Eldorado Park. Ce #township de la banlieue sud de #Johannesburg avait été construit pour abriter un ensemble de minorités ethniques désigné dans la hiérarchie raciale de l’apartheid sous le nom de « communauté de couleur ». Les emplois et les services publics y étaient rares. La plupart des postes à pourvoir se trouvaient dans les secteurs « blancs » de la ville, où l’on parvenait après un long trajet en bus.

    Mais cette nuit était la dernière qu’elle y passait, car, le lendemain matin, elle déménageait de l’autre côté de la ville, dans un appartement qui lui avait été cédé par le gouvernement. Cela faisait vingt-quatre ans qu’elle figurait sur une liste d’attente.

    Je pensais avoir ce logement pour y élever mes enfants, soupire-t-elle, mais je suis quand même contente car j’aurai un bel endroit pour mourir."

    Construits pour diviser

    Quand la #ségrégation a officiellement pris fin en Afrique du Sud au milieu des années 1990, les urbanistes ont été confrontés à une question existentielle : comment réunir les communautés dans des villes qui avaient été construites pour les séparer ?? Pendant des décennies, ils l’avaient esquivée pour se concentrer sur une question plus vaste encore : comment fournir un #logement décent à des gens entassés dans des quartiers pauvres, isolés et dépourvus de services publics ?? Depuis la fin de l’apartheid, le gouvernement a construit des logements pour des millions de personnes comme Mme Rubins.

    Mais la plupart sont situés en #périphérie, dans des quartiers dont l’#isolement contribue à accroître les #inégalités au lieu de les réduire. Ces dernières années, des militants ont commencé à faire pression sur les municipalités pour qu’elles inversent la tendance et construisent des #logements_sociaux près des #centres-villes, à proximité des emplois et des écoles. D’après eux, même s’ils ne sont pas gratuits, ces logements à loyer modéré sont un premier pas vers l’intégration de la classe populaire dans des secteurs de la ville d’où elle était exclue.

    Le 31 août, un tribunal du Cap a donné gain de cause à ces militants en décrétant que la ville devait annuler la vente d’un bien immobilier qu’elle possédait près du quartier des affaires et y construire des logements sociaux. « Si de sérieux efforts ne sont pas faits par les autorités pour redresser la situation, stipule le jugement, l’#apartheid_spatial perdurera. » Selon des experts, cette décision de justice pourrait induire une réaction en chaîne en contraignant d’autres villes sud-africaines à chercher à rééquilibrer un statu quo très inégalitaire.

    Ce jugement est important car c’est la première fois qu’un tribunal estime qu’un logement abordable et bien placé n’est pas quelque chose qu’il est bon d’avoir, mais qu’il faut avoir", observe Nobukhosi Ngwenya, qui poursuit des recherches sur les inégalités de logements à l’African Centre for Cities [un centre de recherches sur l’urbanisation] du Cap.

    Près de la décharge

    Cet avis va à contre-courant de l’histoire mais aussi du présent. L’appartement dans lequel Mme Rubins a emménagé au début de septembre dans la banlieue ouest de Johannesburg a été construit dans le cadre du #Programme_de_reconstruction_et_de_développement (#PRD), un chantier herculéen lancé par le gouvernement dans les années 1990 pour mettre fin à des décennies - voire des siècles en certains endroits - de ségrégation et d’#expropriation des Noirs. Fondé sur l’obligation inscrite dans la Constitution sud-africaine d’"assurer de bonnes conditions de logement" à chaque citoyen, ce programme s’engageait à fournir un logement gratuit à des millions de Sud-Africains privés des services essentiels et de conditions de vie correctes par le gouvernement blanc.

    Le PRD a été dans une certaine mesure une réussite. En 2018, le gouvernement avait déjà livré quelque 3,2 millions de logements et continuait d’en construire. Mais pour réduire les coûts, la quasi-totalité de ces habitations ont été bâties en périphérie des villes, dans les secteurs où Noirs, Asiatiques et métis étaient naguère cantonnés par la loi.

    Le nouvel appartement de Mme Rubins, par exemple, jouxte la décharge d’une mine, dans un quartier d’usines et d’entrepôts construits de manière anarchique. Le trajet jusqu’au centre-ville coûte 2 dollars, soit plus que le salaire horaire minimum.

    Cet #éloignement du centre est aussi un symbole d’#injustice. Sous l’apartheid, on ne pouvait accéder à ces #banlieues qu’avec une autorisation de la municipalité, et il fallait souvent quitter les lieux avant le coucher du soleil.

    « Il y a eu beaucoup de luttes pour l’accès à la terre dans les villes sud-africaines et elles ont été salutaires », souligne Mandisa Shandu, directrice de Ndifuna Ukwazi, l’association de défense des droits au logement qui a lancé l’action en #justice au Cap pour que la vente immobilière de la municipalité soit annulée. « Ce que nous avons fait, c’est réclamer que l’#accès mais aussi l’#emplacement soient pris en considération. »

    Au début de 2016, l’association a appris que la municipalité du Cap avait vendu une propriété située dans le #centre-ville, [l’école] Tafelberg, à une école privée locale. Alors que l’opération avait déjà eu lieu, l’association a porté l’affaire devant les tribunaux en faisant valoir que ce bien n’était pas vendable car la ville était tenue d’affecter toutes ses ressources à la fourniture de #logements_sociaux.

    Après quatre ans de procédure, le tribunal a décidé d’invalider la vente. Les autorités ont jusqu’à la fin de mai 2021 pour présenter un plan de logements sociaux dans le centre du Cap. « Je pense que ce jugement aura une influence majeure au-delà du Cap, estime Edgar Pieterse, directeur de l’African Centre for Cities. Il redynamisera le programme de logements sociaux dans tout le pays. »

    Fin de « l’#urbanisme_ségrégationniste »

    Cependant, même avec cette nouvelle impulsion, le programme ne répondra qu’à une partie du problème. Selon M. Pieterse, le gouvernement doit trouver des moyens pour construire des #logements_gratuits ou à #loyer_modéré pour faire des villes sud-africaines des endroits plus égalitaires.

    Ainsi, à Johannesburg, la municipalité a passé ces dernières années à améliorer le réseau des #transports_publics et à promouvoir la construction le long de liaisons qui avaient été établies pour faciliter les déplacements entre des quartiers coupés du centre-ville par un urbanisme ségrégationniste.

    Quand Mme Rubins a emménagé dans son nouvel appartement, elle ne pensait pas à tout cela. Pendant que l’équipe de déménageurs en salopette rouge des services publics déposait ses étagères et ses armoires, dont les pieds en bois étaient gauchis et gonflés par trente ans de pluies torrentielles, elle a jeté un coup d’oeil par la fenêtre de sa nouvelle chambre, qui donnait sur un terrain jonché de détritus.

    Sa nièce, June, qui avait emménagé à l’étage au-dessus une semaine plus tôt, l’aidait à trier les sacs et les cartons. Mme Rubins s’est demandé à haute voix s’il y avait de bonnes écoles publiques dans le coin et si les usines embauchaient. Elle l’espérait, car le centre-ville était à trente minutes en voiture.

    Si tu es désespérée et que Dieu pense à toi, tu ne dois pas te plaindre. Tu dois juste dire merci", lui a soufflé June.

    https://www.courrierinternational.com/article/urbanisme-dans-les-villes-sud-africaines-les-fantomes-de-lapa
    #Afrique_du_Sud #division #séparation #Segregated_By_Design #TRUST #master_TRUST

    ping @cede

  • "Nous, élus, avons décidé de soutenir SOS Méditerranée" : l’appel de 28 collectivités pour « l’#inconditionnalité_du_sauvetage_en_mer »"

    Ces élus, maires et présidents d’intercommunalités, de conseils départementaux et régionaux ont décidé, avec leurs assemblées locales, d’apporter un #soutien_moral et financier à #SOS_Méditerranée, qui vient en aide aux migrants.

    Vingt-huit maires ou présidents de collectivités lancent un appel dans une tribune publiée sur franceinfo.fr jeudi 21 janvier pour soutenir SOS Méditerranée et pour "affirmer collectivement l’inconditionnalité du sauvetage en mer". La Méditerranée est "la route migratoire la plus meurtrière au monde", rappellent les signataires, parmi lesquels figurent la maire de Paris, Anne Hidalgo, les maires de Lyon (Grégory Doucet), Marseille (Benoît Payan), Lille (Martine Aubry), Bordeaux (Pierre Hurmic) ou Grenoble (Eric Piolle). Ils appellent les villes, intercommunalités, départements et régions de France à apporter "leur soutien moral et financier" aux trois missions poursuivies par l’association SOS Méditerranée : secourir les personnes en détresse en mer, protéger les rescapés et témoigner.

    Nous ne pourrons pas dire que nous ne savions pas et appelons les villes, intercommunalités, départements et régions de France à soutenir SOS Méditerranée.

    Plus de 20 000 personnes ont péri noyées ces six dernières années en tentant de traverser la Méditerranée sur des embarcations de fortune. L’Organisation internationale des migrations a dénombré 1 224 morts sur la seule année 2020, dont 848 sur l’axe reliant la Libye à l’Europe. Faute de témoins, le nombre de naufrages et de victimes est en réalité bien plus élevé.

    Ainsi, aux portes de l’Europe, la Méditerranée confirme son terrible statut de route migratoire la plus meurtrière au monde.
    "L’assistance, une obligation morale"

    Pourtant, l’assistance aux personnes en détresse en mer est non seulement une obligation morale, valeur cardinale chez les marins, mais aussi un devoir inscrit dans les textes internationaux et dans le corpus législatif français. Pourtant, l’Europe dispose de tous les moyens techniques, financiers et humains pour sauver ces vies.

    Or, face à cette tragédie au long cours, les États européens se sont progressivement soustraits à leur obligation de secours en mer et de débarquement des rescapés en lieu sûr. Les navires de l’opération Mare Nostrum ont d’abord été retirés. Puis la coordination des opérations de recherche et de sauvetage en Méditerranée centrale a été déléguée à la Libye, un pays dont les garde-côtes ne disposent ni des moyens ni des compétences pour assumer une telle mission, et qui en aucun cas ne peut être considéré comme sûr pour le débarquement des personnes secourues.

    Pour pallier cette défaillance des États, des citoyennes et des citoyens décidés à agir afin de ne plus laisser mourir des milliers de femmes, hommes et enfants affrètent des navires et leur portent secours. Ainsi a été créée en 2015 SOS Méditerranée. Bien implantée en France et labellisée en 2017 “Grande cause nationale" par l’État, l’association a, depuis cinq ans, sauvé 31 799 personnes, avec l’Aquarius les premières années, puis avec l’Ocean-Viking à compter d’août 2019.

    Pour SOS Méditerranée comme pour toutes les ONG de sauvetage intervenant en Méditerranée centrale, l’année 2020 aura été des plus éprouvantes. Au printemps, les ports fermés d’une Europe confinée les ont amenées à suspendre leurs missions de sauvetage, tandis que les départs depuis la Libye se poursuivaient. Au déconfinement, à peine avaient-elles repris la mer qu’un véritable harcèlement administratif s’est abattu sur elles, aggravant là des pratiques observées depuis 2017 et avec pour seul résultat de les empêcher de rejoindre les zones de secours. Les navires humanitaires ne sont d’ailleurs plus les seules cibles de ce cynisme depuis que, en août dernier, le pétrolier Maersk-Etienne a été empêché par les autorités maltaises de débarquer les naufragés qu’il avait auparavant recueillis à la demande de ces mêmes autorités… De son côté, poursuivant son leitmotiv de respect du droit, qui est au fondement même de sa mission, il aura fallu cinq mois à SOS Méditerranée afin de satisfaire aux exigences zélées des autorités italiennes et lever la détention dont a été victime l’Ocean-Viking pour, enfin, reprendre ses opérations en mer le 11 janvier dernier.
    "Nous ne pourrons pas dire que nous ne savions pas"

    Parce qu’elle nous montre le cap du refus de l’indifférence et que nous ne pourrons pas dire que nous ne savions pas, en cohérence avec les actions déjà menées par nos collectivités pour l’accueil et l’intégration des personnes exilées, nous, élu·e·s, maires et président·e·s d’intercommunalités, de conseils départementaux et régionaux avons décidé, avec nos assemblées locales, de soutenir SOS Méditerranée et d’affirmer collectivement l’inconditionnalité du sauvetage en mer.

    Nous appelons aujourd’hui tou·te·s les maires et président·e·s des villes, intercommunalités, départements et régions de France à rejoindre la plateforme des collectivités solidaires avec SOS Méditerranée, lancée ce 21 janvier 2021, et à apporter leur soutien moral et financier aux trois missions poursuivies par cette association  :

    • Secourir les personnes en détresse en mer grâce à ses activités de recherche et de sauvetage

    • Protéger les rescapés, à bord de son navire ambulance, en leur prodiguant les soins nécessaires jusqu’à leur débarquement dans un lieu sûr

    • Témoigner du drame humain qui se déroule en Méditerranée centrale

    De la plus petite à la plus grande, du littoral et de l’intérieur, du Centre, du Sud, du Nord, de l’Est et de l’Ouest, toutes nos collectivités sont concernées, chacune à la mesure de ses moyens. Il s’agit de sauver des vies, sans distinction, et de faire vivre la devise républicaine qui fait battre le cœur de nos territoires  : liberté, égalité, fraternité. Il s’agit de sauver nos valeurs et d’assumer la part qui est la nôtre dans ce qui est l’honneur de notre pays.

    Tant que les États européens se soustrairont à leurs devoirs, nous serons là pour nous mobiliser et les rappeler à leurs responsabilités, nous serons aux côtés des citoyennes et des citoyens de SOS Méditerranée pour faire vivre sa mission vitale de sauvetage en mer.

    >>> La plateforme des collectivités solidaires françaises

    Les signataires :

    Anne Hidalgo, maire de Paris, Philippe Grosvalet, président du département de Loire-Atlantique, Carole Delga, présidente de la région Occitanie, Georges Meric, président du département de Haute-Garonne, Michael Delafosse, maire de Montpellier, président de Montpellier Méditerranée Métropole, Serge De Carli, maire de Mont-Saint-Martin, président de la communauté d’agglomération de Longwy, Cédric Van Styvendael, maire de Villeurbanne, Loïg Chesnais-Girard, président de la région Bretagne, Nathalie Sarrabezolles, présidente du département du Finistère, Bertrand Affile, maire de Saint-Herblain, Jean-Luc Chenut, président du département d’Ille-et-Vilaine, Pierrick Spizak, maire de Villerupt, David Samzun, maire de Saint-Nazaire, Thomas Dupont-Federici, maire de Bernières-sur-Mer, Martine Aubry, maire de Lille, Hermeline Malherbe, présidente du département des Pyrénées-Orientales, Bertrand Kern, maire de Pantin, Grégory Doucet, maire de Lyon, Pierre Hurmic, maire de Bordeaux
    Benoît Payan, maire de Marseille, Hélène Sandragne, présidente du département de l’Aude, Eric Piolle, maire de Grenoble, Nathalie Appéré, maire de Rennes, présidente de Rennes Métropole, Hervé Neau, maire de Rezé, Kléber Mesquida, président du département de l’Hérault, Alain Lassus, président du département de la Nièvre, Johanna Rolland, maire de Nantes, Pierre Laulagnet, maire d’Alba-la-Romaine.

    https://www.francetvinfo.fr/monde/europe/migrants/tribune-nous-elus-avons-decide-de-soutenir-sosmediterranee-lappel-de-28
    #soutien_financier #solidarité #France #migrations #asile #réfugiés #frontières #villes-refuge

    La version française du #From_Sea_to_Cities :
    https://seenthis.net/messages/759145#message885662

  • Sur les nouvelles formes d’inégalités urbaines #post-Covid

    Quel sera le visage de la #ville_post-Covid ? Le sociologue italien Giovanni Semi partage ses premières réflexions sur le futur de la gentrification et des espaces publics, à l’heure de la distanciation sociale, de l’effondrement du tourisme et du renforcement probable du rôle des plateformes en ligne.

    La crise que nous sommes en train de vivre pose différentes questions sur la ville post-Covid, notamment sur les modes de relations sociales, et de manière plus générale sur ce que sera la vie urbaine. Beaucoup pensent que la pandémie va marquer une rupture nette entre tout ce qui s’est passé avant février-mars 2020 et ce qui se passera dans un « après » difficile à déterminer. Il y a pourtant de nombreuses raisons de penser que la discontinuité ne sera pas si radicale, et que l’on ne repartira pas d’une tabula rasa mais au contraire d’un modèle profondément ancré dans l’histoire (et à historiciser) et dans l’espace (et à spatialiser), qui continuera donc à agir dans le futur. Je veux dire par là que les événements passés et leurs effets spatiaux ne seront pas complètement effacés par la pandémie : s’ils seront dans certains cas profondément perturbés, ils risquent d’être accentués dans d’autres.

    En partant de cette idée que le passé n’est jamais complètement effacé mais qu’il continue à agir dans le présent et même dans le futur, je vais essayer de définir certains éléments de ce passé, puis d’esquisser ce qui nous attend.
    Le monde urbain dont nous avons hérité

    Deux éléments sont centraux dans le monde que nous avons reçu en héritage. D’un côté, ce que Neil Brenner et d’autres ont appelé l’« urbanisation planétaire », c’est-à-dire l’extension d’infrastructures et de logiques capitalistes sur toute la surface de la terre (Brenner et Schmid 2013 ; Brenner 2018). C’est Saskia Sassen qui me semble avoir le mieux décrit la logique de cette diffusion mondiale de l’urbanisation, fondée sur des « formations prédatrices », c’est-à-dire des assemblages autour d’instruments financiers d’acteurs variés comme les États et les entreprises globales (Sassen 2014). Le second élément concerne les modalités opératoires de ces formations prédatrices, et en particulier le lien entre les instruments financiers (et les logiques de financiarisation) et les mécanismes d’extraction de la valeur, qu’il s’agisse de la rente foncière ou de ressources naturelles.

    Pour le dire de manière plus simple, les vingt dernières années nous ont montré de différentes manières comment la relation entre homme, société et environnement s’articule de plus en plus autour de pratiques d’extraction. Les citadins ont désespérément besoin de revenus pour pouvoir se sentir intégrés, et pour cette raison se louent eux-mêmes, ainsi que leurs propriétés, pour obtenir un salaire qui provenait autrefois de rapports de travail (Boltanski et Chiapello 1999). Les populations habitent toujours davantage en milieu urbain, où le maintien des organisations est là aussi lié à des impératifs d’extraction et de concurrence entre territoires (Boltanski et Esquerre 2017). Leurs pratiques de vie et de consommation, à leur domicile mais aussi en déplacement lorsqu’ils deviennent des touristes, s’orientent toujours davantage vers l’extraction d’expériences que vers la production de nouvelles formes de vivre ensemble.

    Avant février-mars 2020, la géographie des villes était caractérisée par des phénomènes que nous avons appris à bien connaître, comme la gentrification, la stigmatisation territoriale des espaces dont les marges d’extraction sont faibles, et de manière plus générale des formes de ségrégation variées, notamment de classe et de race (Arbaci 2019). Même les plus critiques d’entre nous s’étaient habitués à un modèle d’apartheid soft, souvent masqué par le rideau de fumée de la méritocratie et des responsabilités individuelles, et par un darwinisme social dans le cadre duquel il était devenu presque impossible de débattre du caractère normal et naturel des inégalités sociales. Les répertoires de légitimité et d’illégitimité diffèrent selon les sociétés nationales, mais le profil social des gagnants et des perdants reste grosso modo toujours le même.

    Dans mon pays, l’Italie, il y avait une acceptation diffuse de l’immobilité sociale, et il était presque impossible de lancer un débat public sur la rente, sur la propriété, sur toutes les ressources qui par définition biaisent les règles du jeu et permettent à certains de partir largement avantagés. Il était ainsi « naturel » que quelqu’un puisse naître en disposant de deux, trois, quatre appartements de famille, par exemple dans les centres historiques des plus belles villes touristiques italiennes, comme il était « naturel » que les habitants des quartiers populaires de Milan, Naples ou Palerme « méritent » de vivre dans des quartiers sans infrastructures ni services, et où l’État ne se montre qu’en uniforme ou en tenue de travailleur social. Souvent, les premiers étaient aussi ceux qui, comme dans le célèbre roman dystopique de Young sur la méritocratie (1958), parlaient de cosmopolitisme, de démocratie et de révolution digitale, accusant les seconds d’être analphabètes, incivils et réactionnaires.

    Voilà le monde que nous avons, selon moi, laissé derrière nous. Un monde confortable pour certains mais dramatique pour la majorité, dans lequel les scénarios pour la suite étaient tout sauf rassurants. Il serait ainsi dangereux d’oublier que, sur de larges portions du territoire italien, nous nous étions habitués à cohabiter avec la sécheresse, interrompue par des phénomènes brefs et violents d’inondations, mais aussi à des niveaux élevés de pollution de l’air qui se maintenaient pendant plusieurs semaines et même parfois plusieurs mois, n’en déplaise aux négationnistes climatiques ou aux pragmatiques du type TINA (There is No Alternative), nombreux chez les industriels.

    Et puis la pandémie est arrivée. Je laisse aux climatologues, aux virologues et aux autres experts la lourde tâche de nous dire quelles sont les interactions entre l’homme et son environnement susceptibles d’expliquer la diffusion du Covid-19. Mais je peux essayer d’identifier quelques lignes de tension héritées du passé et autour desquelles se construira l’avenir des villes.
    Quel futur pour la gentrification ?

    Le débat sur la gentrification est désormais bien établi aussi bien en France qu’en Italie, et il n’est pas nécessaire de le synthétiser ici (voir notamment Chabrol et al. 2016, Semi 2015). On peut seulement rappeler qu’au cours des deux dernières années une thèse s’est diffusée selon laquelle la dernière vague de gentrification aurait été caractérisée par la financiarisation et par l’économie du tourisme, et donc marquée par le phénomène des locations de court terme symbolisées par la plateforme américaine Airbnb.

    Défendue notamment par Manuel Aalbers (2019), cette thèse nous disait que la nouvelle frontière d’expulsion et d’inégalité spatiale se situait sur le marché locatif, et que les nouveaux perdants étaient tous les ménages qui avaient besoin de se loger pour une durée supérieure à une semaine. L’industrie du tourisme et l’impressionnante accélération de l’usage temporaire de la ville avaient soustrait des logements aux résidents, rendu encore plus rigide le marché locatif, augmenté les loyers et contraint de nombreux ménages à s’éloigner des zones présentant la marge d’extraction la plus élevée. Cette forme de gentrification s’ajoute à toutes les précédentes, stade ultime d’un long processus d’éloignement des classes populaires vers les espaces les moins recherchés des grandes aires urbaines.

    Si cette thèse est assez crédible, avec plus ou moins de validité selon les lieux, le business des logements temporaires pour touristes a été rayé de la carte entre la fin du mois de février 2020 et le moment où j’écris ces lignes. Vols annulés, frontières fermées, populations immobilisées : les appartements concernés sont vides et une niche entière de l’économie a été interrompue en quelques jours.

    Que penser de cette tempête ? On débat depuis des semaines autour du caractère plus ou moins démocratique du virus, mais il ne fait aucun doute que les effets qu’il provoque ne le sont pas. Si on regarde le monde des plateformes de logement on observe que, même si elles ont subi un coup dur, ces dernières sont par nature très résistantes, qu’il s’agisse de Booking ou d’Airbnb. Leurs coûts fixes sont très bas, elles ont un nombre limité d’employés, et leur capacité de réaction est telle qu’entre mars et avril un colosse comme Airbnb a déjà pu compter sur deux augmentations de capital rapidement trouvées sur le marché international.

    Du côté des propriétaires de logements des plateformes, les grands investisseurs immobiliers ont tous les instruments légaux et financiers pour encaisser le coup, mais ce n’est pas le cas des particuliers qui affrontent la tempête dépourvus de moyens (Semi et Tonetta 2019). Les effets sont aussi très différents en fonction des échelles, selon qu’on se situe dans un appartement vide, à l’échelle d’un quartier, ou celle d’une ville entière. Les quartiers dont l’unique fonction était de servir des touristes qui ne restaient que quelques nuits se retrouvent ainsi aujourd’hui totalement vides. Au cours des deux prochaines années, la récession dans laquelle nous sommes déjà entrés se traduira par un choc de liquidités qui empêchera la renaissance du tourisme dans la forme que nous lui connaissions jusqu’ici, et aura des conséquences difficiles à prévoir aujourd’hui.

    On peut penser, en faisant preuve d’optimisme, que ce stock de logements retournera sur le marché locatif traditionnel. Mais la crise de liquidité concernera tout autant les touristes que les résidents (il s’agit souvent des mêmes personnes) et il n’est pas facile de savoir qui pourra se permettre de payer un loyer (et quel loyer ?) dans un quartier touristique sans touristes. Il est probable que les inégalités sociales et spatiales héritées du passé s’en trouvent pour certaines congelées, notamment dans les quartiers les plus riches, où les propriétaires aisés pourront retirer leurs biens du marché et conserver leur valeur, quand d’autres seront renforcées dans les quartiers les plus pauvres, où les petits propriétaires seront contraints de vendre, parfois à perte.
    Quel futur pour l’espace public ?

    Au cours des deux dernières décennies, l’espace public a suscité un regain d’intérêt, favorisé par les désirs et les angoisses produits par le néolibéralisme. L’espace public, tel qu’il était conçu jusqu’en février 2020, était principalement un lieu ouvert à des activités de consommation conviviales et non conflictuelles (Sorkin 1992, Mitchell 2003), très éloigné donc de la théorie de l’espace public élaborée par la philosophie politique et par la théorie sociale du XXe siècle (Habermas, Arendt, Sennett, Calhoun). L’espace public dont on parlait était en somme celui des places, avec leurs bars et restaurants en plein air, celui des waterfronts rénovés, celui des parcs aménagés pour des activités de plein air (celui des centres commerciaux, quoique très diffusé, était déjà en crise avant le Covid). Il s’agissait d’un vaste territoire de la ville où les architectes et les designers avaient dicté leur loi, imaginant des territoires conviviaux, smart, parfois soutenables, souvent très recherchés d’un point de vue esthétique (Semi et Bolzoni 2020). On pourrait discuter longuement des expérimentations politiques qui y ont été réalisées, comme dans le cas des POPS (Privately Owned Public Spaces), et de manière plus générale des accords néolibéraux dans le cadre desquels des acteurs privés se substituent aux acteurs publics pour assurer la gestion et l’exploitation de ces espaces. On pense par exemple aux Business Improvement Districts (BID), contrats de gestion d’espaces publics où l’acteur public attribue pour un temps déterminé toutes les fonctions de collecte des taxes, le contrôle de police et des normes d’hygiène à des unions de propriétaires (Zukin 2009).

    La logique organisationnelle de ces espaces était la suivante : leur fonction principale réside dans des formes de consommation légitimes et pacifiées, chapeautées par un fort contrôle social interpersonnel. Un peu comme dans les recettes de bon sens de Jane Jacobs (1961), le contrôle social reposait surtout sur la bonne éducation de consommateurs civils, ce qui permet facilement de comprendre qui étaient les exclus de ce modèle de vie urbaine : les sans-domicile, les toxicomanes, les Roms, les immigrés pauvres, les activistes et tous ceux qui n’étaient pas en mesure de consommer de façon adéquate. Cette logique s’enrayait parfois, comme dans le cas des conflits locaux générés par la vie nocturne dans de nombreuses villes européennes, ou dans celui des conflits entre touristes et populations locales.

    Quoi qu’il en soit, cet espace public fonctionnait et avait du succès car les personnes pouvaient se rassembler en grand nombre : le rassemblement de personnes a été un des moyens d’extraction urbaine les plus efficaces des dernières décennies.

    On comprend donc que le monde post-Covid, dans lequel la proximité physique entre les personnes est devenue, au moins de manière temporaire, l’ennemi public numéro un, met en crise de manière radicale ce type d’espace public. Il n’est pas possible de savoir aujourd’hui pour combien de temps, ni quel succès connaîtront les solutions que l’on évoque ces jours-ci (comme rouvrir les bars et les restaurants en respectant scrupuleusement les consignes de distanciation sociale), mais il est certain que nous allons assister à un renouvellement profond de ces espaces.
    Scénarios

    Il est possible que, dans un premier temps, l’espace public néolibéral redevienne plus semblable à celui que nous avons connu tout au long du XXe siècle, c’est-à-dire plus ouvert à la diversité des usages et à la conflictualité sociale. Il sera sans doute moins pacifié. Je laisse le lecteur décider du fait qu’il s’agisse d’un mal ou d’un bien, mais l’espace public sera probablement plus démocratique.

    Une autre voie, bien moins démocratique mais qui sera sans doute celle que l’on empruntera, concerne un secteur économique qui trouve son débouché physique dans l’espace public : l’offre commerciale, et en particulier la restauration. Ce monde dominait l’espace public néolibéral, notamment à travers ce que certains ont appelé la foodification, la gentrification alimentaire. Il s’agit d’un secteur très dynamique et constitué d’une grande variété d’acteurs qui ont durement lutté pour des marges de profit toujours plus limitées : un véritable marché caractérisé par une innovation faible et une concurrence forte. Un marché qui, comme celui des locations de court terme, s’est effondré au cours des deux derniers mois. En Italie, comme dans beaucoup d’autres pays occidentaux, ce secteur était lui aussi lié à la logistique des plateformes qui s’occupaient de la distribution par l’intermédiaire de cyclistes, comme Deliveroo, Glovo, Foodora, Uber Eats et d’autres. Là aussi, les plateformes se sont montrées plus flexibles et plus résistantes (elles ont été aidées en ce sens par des décisions politiques) et ont continué à fonctionner en dépit du lockdown. Elles seront des acteurs de premier plan du scénario post-Covid, sûrement plus centrales encore qu’avant, notamment car ce seront probablement elles qui maintiendront en vie un certain nombre de restaurants dont la clientèle ne pourra pas renoncer aux petits plats chinois ou mexicains à toute heure. Là encore, il y aura des perdants, sans doute surtout les restaurants traditionnels dont les produits et la clientèle ne passent pas à travers le filtre de la plateforme. Après une phase au cours de laquelle le restaurant traditionnel avait dû lutter contre le restaurant cosmopolite ou à la mode, ce protagoniste majeur de la culture urbaine occidentale, tout comme les cafés, va devoir affronter une épreuve majeure.
    Accélération ou refondation ?

    Il me semble que la pandémie va agir à la fois comme un accélérateur et comme une solution pour une série de conflits déjà visibles au cours des dernières décennies. Il s’agit de conflits organisationnels internes au capitalisme, où les plateformes, certaines plus que d’autres, vont se substituer à des filières de distribution traditionnelles et fourniront des services sur de nombreux marchés.

    Il s’agit d’une transformation qui ne frappera pas seulement les villes, même si elle y sera plus visible qu’ailleurs, mais qui agira sur l’ensemble de l’urbanisation planétaire. Beaucoup de commentateurs soutiennent que cette crise va mettre un frein à la globalisation. Je ne le crois pas. Je pense qu’aux côtés de dynamiques nationalistes, elles aussi déjà visibles au cours des vingt dernières années, nous assisterons à de nouvelles accélérations globales, en particulier du fait de l’action des plateformes.

    La logique prédatrice de fond du capitalisme est intacte, et n’est pas mise en discussion, même s’il est probable que beaucoup des formes qu’elle avait revêtues au tournant du XXIe siècle soient destinées à évoluer. Il y a du travail en perspective pour les chercheurs en sciences sociales, mais encore davantage pour les activistes et pour tous ceux qui croient que ce moment représente une opportunité pour repenser de manière radicale le monde dont nous avons hérité.

    https://metropolitiques.eu/Sur-les-nouvelles-formes-d-inegalites-urbaines-post-Covid.html

    #inégalités #inégalités_urbaines #covid-19 #coronavirus #villes #géographie_urbaine #urban_matter #gentrification #espaces_publics #tourisme #distanciation_physique #distanciation_sociale #TRUST #mater_TRUST #ressources_pédagogiques

    #ressources_pédagogiques

  • Young children are intuitive urban planners — we would all benefit from living in their ‘care-full’ cities

    In an age of climate crisis, unaffordable housing and increasing disparities of wealth, the livability and functionality of our cities are more important than ever. And yet, important voices are missing from urban planning debates — the voices of those who will one day inherit those cities.

    According to the United Nations Convention on the Rights of the Child and the UNICEF child-friendly cities initiative, children of any age or ability have the right to use, create, transform and develop their urban environments.

    Despite this, the commonly held view is that preschool children lack the competency to reflect on environments beyond their playgrounds or kindergartens. Young, pre-literate children are denied meaningful participation in city design.

    But our work — the Dunedin preschooler study — shows we need to include the voices of these intuitive city planners who think holistically about what a city needs to function well and be safe, healthy and fun.

    Considerate and thoughtful planners

    The project involved 27 children aged between two and five from three kindergartens in Dunedin. The children engaged in a variety of exercises, including mapping their ideal city using picture tiles, and group discussions with researchers.

    The children also took us around their neighbourhoods to provide firsthand insights into what they liked and didn’t like about their local area. A very clear picture soon emerged: young children were considerate and future-oriented planners.

    The mapping exercise showed children thought about their own needs but also those of other city dwellers and family members. They expected cities to have at least the basic amenities of a child-friendly city.

    The children wanted health services and facilities that stimulate mind and body, such as libraries, natural environments and gathering places — 78% of children listed playgrounds as important.

    While 66% included a supermarket in their design, 59% included a hospital, 48% a fire engine and 41% a coffee shop — as one child observed, their grandma and grandad would use it.

    Safety and fun for all

    Children also viewed a safe city as important, with 56% placing police cars on their map to symbolise being protected from burglars, “naughty” and drunken people and speeding drivers. They regarded lampposts, pedestrian crossings and traffic lights as essential safety infrastructure.

    On neighbourhood walks the children frequently pointed out aesthetically pleasing places — areas with colourful flowers or playful spaces with kōwhai seeds that can be turned into pretend helicopters.

    The children also warned us about toadstools, prickly bushes, glass on footpaths or other rubbish they were concerned could hurt animals. One child revealed she “hated the pile of rubbish […] because it can go into the water and kill all the animals when they eat”.

    By including the often overlooked needs of non-human things, such as sea creatures and plants, the children demonstrated an awareness of the links between environmental protection, conservation and livability.

    Cities as happy places

    The children not only created child-friendly cities, but care-full ones that work for all people, animals and plants. Their model cities were safe, socially and physically connected, with destinations, services and amenities available which people of all ages and abilities could get to safely.

    More importantly perhaps, they created cities with physical and social elements designed to make people happy.

    In creating these worlds for our research, the children showed deep, inclusive and emotional connections. We saw they cared for their local environment and felt a responsibility to all living and non-living things.

    But children’s voices are still just a whisper in urban and policy debates. This is a shame, because how young people are treated by their city inevitably influences their life chances. Their well-being as young children has obvious implications for being and feeling well later in life.

    Our research identifies the need for communities, planners and urban policymakers to ensure young children can participate and help make the most of their cities in a safe, inclusive way.

    The challenge for all of us is to develop the right tools for integrating young children’s views, experiences and suggestions. We can then move towards designing more intuitive, care-full cities — ones we would all benefit from living in.

    https://theconversation.com/young-children-are-intuitive-urban-planners-we-would-all-benefit-fr

    #enfants #urbanisme #aménagement_du_territoire #villes #urban_matter

  • « En quête d’hospitalité(s) » - #LALCA

    En quête d’hospitalité(s) est une #traversée de la métropole lyonnaise, à l’écoute des lieux et des personnes en situation d’errance et de précarité. LALCA interroge l’hospitalité par le prisme de l’habiter, et principalement de cet habiter qui se fragmente dans la ville lorsque l’on dort dehors ou dans un logement non conventionnel, et qui impose de se déplacer pour subvenir à l’ensemble de ses #besoins_fondamentaux.
    Cet #essai_radiophonique part donc à la rencontre de quelques lieux d’hospitalité : les #Bains-douches_Delessert, la #péniche-accueil #Balajo, #Ensemble_pour_un_repas, la #Bibliothèque_municipale de Lyon et le #CADA Forum Réfugiés de #Villeurbanne pour tenter de construire ensemble une définition en mouvement de l’hospitalité.

    https://soundcloud.com/radio-traces/en-quete-dhospitalites-lalca

    #Lyon #hospitalité #bains_douche #bains_douches #bains-douche #habiter #se_laver #audio #SDF #sans-abrisme #sans-abris #urban_matter #villes #géographie_urbaine #pauvreté #miroir #douches #hygiène #lieu-ressource #lieu-répit #répit #confinement #solidarité #nourriture #repas #alimentation #femmes #femmes_à_la_rue

  • EU Commission and CoR Partnership Launched to Support EU Local Authorities in Migrant Integration Efforts

    A new partnership to assist cities and regions across the EU to receive additional support in their work to integrate migrants has been announced as part of the 141st plenary meeting of the European Committee of the Regions, held virtually from Brussels, this week. The European Commission and the European Committee of the Regions (CoR) are set to join forces in the development of the New Pact on Migration and Asylum.

    The European Commission’s proposal for a New Pact on Migration and Asylum is a “welcome and necessary” initiative that would – if approved – help build resilient communities as well as manage migration, according to the President of the European Committee of the Regions, #Apostolos Tzitzikostas. He was speaking in a debate in which European_Commissioner #Ylva_Johansson urged regions and cities to make use of increased EU funding available to support the integration of immigrants.

    A central pillar of the New Pact on Migration and Asylum, first presented in September 2020, is an Action Plan on Integration and Inclusion for the period 2021-2027, drafted in November.

    The partnership will build on the well-established cooperation between the European Commission and the European Committee of the Regions under the Cities and Regions for Integration initiative, launched by the CoR in 2019 to offer a political platform for European mayors and regional leaders to share information and showcase positive examples of integration of migrants and refugees.

    The new partnership will support cities and regions in the EU through three main strands of work:

    - Building an open and regular dialogue between EU institutions and local and regional authorities on integration
    – Building capacity and promoting exchange of experiences for local and regional authorities
    - Improving evidence and data on integration at a local level.

    Apostolos Tzitzikostas (EL/EPP), President of the European Committee of the Regions and Governor of Central Macedonia, said, “Migration is not a challenge just for a few Member States, it is a matter for the whole of the European Union. The EU must support regions, cities and islands – such as Lesbos, Lampedusa and the Canary Islands – that are in the frontline to provide support, integration and other services to newly arrived migrants. While local authorities have put in place many successful and innovative practices for integration, they still face challenges in accessing funding, data and knowledge, in particular in small towns and rural areas. The partnership will support their efforts and show concretely that the EU is by their side in addressing the many challenges they are faced with.”

    The latest tranche of funding available from the EU, totalling €37.2 million, was published in late November and will support projects that help migrant children and victims of trafficking, ease access to basic services, include migrants in the design and implementation of integration policies, and support the development of multi-stakeholder partnerships.

    The CoR will agree its recommendations on the #New_Pact_on_Migration_and_Asylum at its plenary session in March 2021.

    https://www.european-views.com/2020/12/eu-commission-and-cor-partnership-launched-to-support-eu-local-autho
    #villes #urban_matter #asile #migrations #réfugiés #pacte #nouveau_pacte #Comité_européen_des_régions (#CdR) #intégration #inclusion

    ping @karine4 @isskein

  • Les « #instant_cities » – Villes réimaginées sans histoire, sans avenir

    Le thème des « instant cities », ces villes bâties du jour au lendemain, revient dans les débats des urbanistes et architectes, inspirés par l’expérience des campements et autres zones à défendre (ZAD). L’anthropologue #Michel_Agier nous entretient du sujet dans un texte publié sur le site AOC : https://aoc.media/opinion/2020/09/28/utopie-dystopie-non-fiction-faire-ville-faire-communaute-3-3

    #Utopie, #dystopie, #non-fiction#Faire_ville, faire communauté

    Le thème des « instant cities », ces villes bâties du jour au lendemain, revient dans les débats des urbanistes et architectes d’aujourd’hui, inspirés par l’expérience des #campements et autres #ZAD. La ville est ré-imaginée sans histoire et sans avenir, comme marquée d’abord par l’#immédiateté, l’#instantanéité et la #précarité. Des réflexions qui rejoignent celles de l’ethnologue qui se demande ce que « faire ville » veut dire, elles permettent de penser la ville en se libérant de la contrainte du réel et du présent, comme le font le plus librement les fictions post-catastrophe.

    Avec la montée des #incertitudes et des formes de vie précaires dans toutes les régions du monde et plus particulièrement dans les contextes migratoires, le thème des instant cities (villes « instantanées », bâties « du jour au lendemain ») revient dans les débats des urbanistes et architectes d’aujourd’hui, et peuvent aider à penser la ville de demain en général. Le thème est ancien, apparu dans les années 1960 et 1970, d’abord avec l’histoire des villes du #far_west américain, nées « en un jour » et très vite grandies et développées comme le racontent les récits de #San_Francisco ou #Denver dans lesquels des migrants arrivaient et traçaient leurs nouvelles vies conquises sur des espaces nus.

    À la même époque, des architectes anglais (Peter Cook et le groupe #Archigram) s’inspiraient des lieux de #rassemblements et de #festivals_précaires comme #Woodstock pour imaginer des villes elles-mêmes mobiles – une utopie de ville faite plutôt d’objets, d’images et de sons transposables que de formes matérielles fixes. Troisième forme desdites instant cities, bien différente en apparence, celle qui est allée des villes de l’instant aux « #villes_fantômes », à l’instar des utopies graphiques des #villes_hors-sol construites en Asie, dans le Golfe persique et au Moyen-Orient principalement, sur le modèle de #Dubaï.

    Nous sommes aujourd’hui dans une autre mise en œuvre de ce modèle. En 2015, la Cité de l’architecture et du patrimoine montrait l’exposition « Habiter le campement » qui réincarnait très concrètement le concept à travers les rassemblements festivaliers (la « ville » de trois jours du festival #Burning_Man aux États-Unis), mais aussi les campements de #yourtes pour les #travailleurs_migrants, les #campings et #mobile_homes pour touristes et travellers, ou les #camps-villes pour réfugiés. Allant plus loin dans la même démarche, le groupe #Actes_et_Cité publie en 2018 l’ouvrage La ville accueillante où, inspirées de l’expérience du « #camp_humanitaire » de la ville de #Grande-Synthe, différentes solutions d’espaces d’#accueil sont étudiées (quartiers d’accueil, squats, campements aménagés, réseau de maisons de migrants, etc.), leur rapidité de mise en œuvre (quelques semaines) et leur coût réduit étant des critères aussi importants que leur potentiel d’intégration et d’acceptation par la population établie.

    On pourrait encore ajouter, pour compléter ce bref tour d’horizon, le géant suédois du meuble #Ikea qui, après une tentative d’implantation dans le marché des abris pour camps de réfugiés en association avec le HCR dans les années 2010-2015, a lancé en 2019 « #Solarville », un projet de #Smartcity fondé sur l’architecture en bois et l’énergie solaire.

    L’idée de la #table_rase permet de penser la ville en se libérant de la contrainte du réel et du présent, comme le font le plus librement les fictions post-catastrophes.

    Le point commun de toutes ces expériences d’instant cities est leur ambition de réduire, voire de supprimer l’écart entre le #temps et l’#espace. Immédiateté, instantanéité et #précarité de la ville, celle-ci est ré-imaginée sans histoire et sans avenir. Sans empreinte indélébile, la ville se pose sur le sol et ne s’ancre pas, elle est associée à la précarité, voire elle-même déplaçable. Ce seraient des villes de l’instant, des #villes_présentistes en quelque sorte. Dans tous les cas, l’idée de la table rase, image du rêve extrême de l’architecte et de l’urbaniste, permet de penser la ville en se libérant de la contrainte du réel et du présent, comme le font le plus librement les #fictions_post-catastrophes. Dans leur excentricité même, ces images et fictions dessinent un horizon de villes possibles.

    C’est cette ville à venir que j’aimerais contribuer à dessiner, non pas pourtant à partir de la table rase de l’architecte, mais à partir de l’ethnographie d’une part au moins du présent. Un présent peut-être encore marginal et minoritaire, et donc hors des sentiers battus, quelque chose d’expérimental pour reprendre le mot très pragmatique de Richard Sennett, peu visible encore, mais qui a toutes les chances de s’étendre tant il sait répondre à des besoins croissants, dans cet avenir qui nous inquiète.

    C’est dans un « #présent_futuriste » que j’ai trouvé quelques éléments de réponse, un futur déjà là, quelque peu anachronique donc, mais aussi inédit, tout à fait décentré de la ville historique, notamment européenne, à laquelle nous nous référons encore trop souvent pour penser l’universalité des villes. Je me suis familiarisé avec la vie quotidienne des zones de #marges ou frontières, de #borderlands, et avec celles et ceux qui les habitent ou y passent. Rien d’exotique dans cela, rien d’impossible non plus, ce sont des lieux quelconques réinvestis, détournés, occupés pour un temps plus ou moins long, des déplacements et des attachements plus ou moins profonds aux lieux de résidence, de passage ou de refuge, et ce sont des événements – politiques, catastrophiques ou artistiques, prévus ou fortuits – créateurs d’échanges, éphémères ou non, et nous faisant occuper et donner un sens à des lieux parfois inconnus. Ces formes sociales, ces moments partagés, toutes ces situations rendent les espaces fréquentés plus familiers, partagés et communs, même sans en connaître le devenir.

    Loin d’être exceptionnelle, cette expérience de recherche m’a semblé expérimentale et exemplaire d’un certain futur urbain. Cela résonne avec les propos des urbanistes rebelles qui pensent comme #Jane_Jacob ou #Richard_Sennett un urbanisme pratique – ou « pragmatique », dit lui-même Sennett, qui ancre depuis longtemps sa réflexion dans l’#homo_faber, dans le faire de l’humain. Il faut, écrit-il, « placer l’homo faber au centre de la ville ». C’est ce que je ferai ici, en poursuivant cette interrogation sur le faire-ville dans sa double dimension, qui est de faire communauté, créer ou recréer du commun, et de faire la ville, c’est-à-dire l’inventer et la fabriquer.

    Une écologie et une anthropologie urbaines sont tout à inventer pour le monde à venir.

    C’est un présent futuriste fait d’étranges établissements humains : des armatures flexibles, modelables à volonté, des murs transparents, des cubes réversibles ou transposables. Curieusement, ces lieux font d’emblée penser à une ville mais précaire et #démontable, ce sont des #agglomérations_temporaires dont la matière est faite de murs en toile plastifiée, de charpentes en planches, en tubes métalliques ou en branchages, de citernes d’eau en caoutchouc, de canalisations et latrines en prêt-à-monter, prêt-à-défaire, prêt-à-transporter.

    Les lumières de la ville sont intermittentes et blafardes, fournies par des moteurs électrogènes mis en route à chaque nouvelle arrivée (fruit d’un désordre ou d’une catastrophe), devenue elle-même prévisible tout comme ses conséquences techniques – ruptures dans les flux et les stocks d’énergie, de nourriture ou de services. Les va-et-vient incessants de camions blancs bâchés emmènent des grandes quantités de riz, de boulgour et de personnes déplacées. Parfois, sur quelques terrains vagues, d’autres enfants jouent au football, ou bien des adultes inventent un terrain de cricket.

    À partir de la matière première disponible dans la nature (terre, eau, bois de forêt) ou de la matière résiduelle de produits manufacturés disponible (planches, palettes, bâches plastifiées, toiles de sac, feuilles métalliques d’emballage, plaques de polystyrène), des habitants bricolent et pratiquent une #architecture_adaptative, réactive, avec les moyens du bord, comme ailleurs ou autrefois une architecture des #favelas ou des #bidonvilles. Des maisons en pisé côtoient d’autres constructions en tissus, carton et tôle. Cette matérialité est en constante transformation.

    Malgré la surprise ou la perplexité qu’on peut ressentir à l’énumération de ces étranges logistiques urbaines, ce n’est pas de la fiction. Ce sont mes terrains d’#ethnographie_urbaine. On y verra sans doute une #dystopie, un mélange cacophonique de prêt-à-monter, de #récupérations et de #bricolages, j’y vois juste l’avenir déjà là, au moins sur les bords, dans un monde certes minoritaire (en Europe au moins), frontalier, à la fois mobile et précaire, mais terriblement efficace et qui a toutes les chances de s’étendre. #Ville_en_kit serait le nom de ce modèle qui viendrait après celui de la ville historique et rejoindrait, « par le bas », celui de la ville générique, dont il serait l’envers moins visible.

    Une écologie et une anthropologie urbaines sont tout à inventer pour le monde à venir, nous n’en connaissons encore presque rien si ce n’est qu’elles seront marquées par une culture de l’#urgence, du présent et de l’#incertitude, organisant et meublant des espaces nus ou rasés ou abandonnés, pour des durées inconnues. Ce qui est marquant est la répétition du #vide qui prévaut au premier jour de ces fragiles agglomérations, mais aussi la résurgence rapide de la #vie_sociale, de la #débrouille_technique, d’une #organisation_politique, et de la quête de sens. Cette ville en kit semble plus périssable, mais plus adaptable et « résiliente » aussi que la ville historique, qu’il nous faut donc oublier. Celle-ci était délimitée dans des enceintes visibles, elle était en dur, elle se développait de plus en plus à la verticale, avec ses voies goudronnées vite saturées de véhicules et de bruits. Cette ville historique maintenant implose, pollue et expulse les malchanceux au-delà de ses limites, mais elle continue de fournir le modèle de « la ville » dans le monde. Pourtant, le modèle s’écarte des réalités.

    On peut s’interroger sur le caractère utopique ou dystopique des #imaginaires_urbains qui naissent de l’observation des contextes dits « marginaux » et de leur permanence malgré leurs destructions répétées partout. Faut-il opposer ou rapprocher une occupation de « ZAD », une invasion de bidonvilles et une installation de migrants sans abri devenue « #jungle », selon le pourquoi de leur existence, toujours spécifique, ou selon le comment de leur processus, toujours entre résistance et adaptation, et les possibles qu’ils ont ouverts ? Si ces établissements humains peuvent être considérés, comme je le défends ici, comme les tout premiers gestes d’un processus urbain, du faire-ville dans son universalité, alors il convient de s’interroger sur ce qu’ils ouvrent, les décrire en risquant des scénarios.

    Ce partage d’expériences suppose une prise de conscience de l’égalité théorique de toutes les formes urbaines.

    Comment passe-t-on de cette #marginalité qui fait #désordre à de la ville ? Une pensée concrète, une #architecture_an-esthétique, un #habitat_minimal, évolutif, peuvent rendre #justice à ces situations et leur donner une chance d’inspirer d’autres expériences et d’autres manières de faire ville. Je reprends là en partie quelques-uns des termes de l’architecte grec et français #Georges_Candilis (1913-1995), pour qui l’observation directe, au Pérou, dans la périphérie de Lima, au début des années 70, d’un processus d’installation et construction d’une « #invasión » fut un choc. Dans la nuit, « des milliers de personnes » avaient envahi un terrain vague « pour construire une nouvelle ville », l’alerta son collègue péruvien.

    C’est moins l’invasion elle-même que la réaction de l’architecte européen qui m’intéresse ici. Longtemps collaborateur de Le Corbusier, Candilis a ensuite passé des années à concevoir, en Europe essentiellement, des très grands ensembles à bas prix, pour « les plus démunis ». Il voit dans le mouvement d’invasion urbaine à Lima un « raz de marée populaire », devant lequel les autorités cèdent et qui va « construire une maison, une ville, sans matériaux ni architectes, avec la seule force du Plus Grand Nombre et le seul espoir de survivre ». Le deuxième jour de l’invasion, sous les yeux de l’architecte devenu simple témoin, les maisons commencent à s’édifier avec des matériaux de récupération, des quartiers se forment et les habitants (« y compris les enfants ») votent pour désigner leurs responsables. « J’assistais émerveillé, écrit Candilis quelques années plus tard, à la naissance d’une véritable “communauté urbaine” », et il évoque, enthousiaste, « l’esprit même de la ville ».

    Je ne pense pas qu’il ait voulu dupliquer en France ce qu’il avait vu à Lima, mais certainement s’inspirer de ses principes. Il exprimait l’intense découverte que cet événement avait représentée pour lui, et surtout le fait que le faire-ville passe par un événement, qui est l’irruption d’un sujet citadin, porteur de l’esprit de la ville et faiseur de communauté urbaine. C’est ce sujet citadin et cette communauté urbaine qui font la ville et qui permettent de penser à nouveaux frais le modèle des instant cities, en le renversant sur lui-même en quelque sorte, contre l’idée qu’il puisse naître hors-sol et qu’il puisse produire des villes fantômes qui attendront leur peuplement.

    Ce partage d’expériences, pour devenir systématique et efficace sans être du mimétisme ni du collage formel, suppose une prise de conscience de l’égalité théorique de toutes les formes urbaines, que j’ai rappelée au tout début de cette réflexion. C’est une démarche qui ne demande ni exotisme ni populisme, mais une attention à ce qu’il y a de plus universel dans le #faire-ville, qui est une énergie de #rassemblement et de #mise_en_commun, dont la disparition, à l’inverse, engendre les étalements diffus et les ghettos qu’on connaît aussi aujourd’hui.

    https://formes.ca/territoire/articles/les-instant-cities-villes-reimaginees-sans-histoire-sans-avenir
    #villes_instantanées #urban_matter #urbanisme #présent #passé #futur

  • #Atlas des mondes urbains

    Aux sources classiques des organisations internationales et des réseaux de villes, les auteurs de cet Atlas des #mondes_urbains ont confronté l’éventail des nouvelles possibilités offertes par le #numérique, multiplié les échelles et se sont affranchis des spatialités territoriales usuelles. Voici une cartographie inédite de la planète des citadins.

    Sept humains sur dix vivent en ville. Des mégapoles se forment sur tous les continents. Partout le bâti s’étale et se standardise, les mondes ruraux disparaissent, les modes de vie s’uniformisent et, dans le même temps, les #inégalités se creusent. La généralisation de l’#urbain réchauffe la planète, détruit la biodiversité et nous rend encore plus vulnérables face au changement climatique. Mais les villes sont aussi notre #bien_commun. Elles sont des lieux de production de richesses, d’innovation, de création culturelle, de solidarité et de résilience. Elles fascinent par leur gigantisme, leurs foules et leurs innombrables activités, laissant dans l’ombre une autre réalité : la myriade de villes petites et intermédiaires qui composent l’essentiel des mondes urbains d’aujourd’hui. Celles des pays dits en développement, en particulier, dont les « basses technologies » sont loin d’affecter autant l’avenir de la planète que les métropoles mondialisées.

    http://www.pressesdesciencespo.fr/fr/book/?gcoi=27246100249530

    #ressources_pédagogiques #villes #urban_matter #cartographie #visualisation #livre #géographie_urbaine

    –—

    déjà signalé par @simplicissimus :
    https://seenthis.net/messages/885759
    et @marclaime :
    https://seenthis.net/messages/885729
    ... je remets ici en y ajoutant des mots-clé...

    • Comment les villes mutent avec le numérique

      Les #études_urbaines se renouvellent. Des #cartes étonnantes évoquent les sujets brûlants du moment sur les inégalités. Un #nouvel_ordre_urbain_local qui prospère face à la #mondialisation_métropolitaine émerge dans un atlas à nul autre pareil.

      Devant la lassitude à parler des villes et leurs inégalités et tous les maux qu’elles portent, Eric Verdeil et son équipe de l’atelier de cartographie de Sciences Po changent de ton : « les villes sont [aussi] notre bien commun ». Ils les étudient en « défrichant de multiples champs hétéroclites » en fouillant ce que le numérique fait aux échelles, comment « il affranchit les villes des spatialités territoriales usuelles ».

      Rien n’est simple, les méthodes de calcul variant d’un pays à l’autre. Représenter les « mondes urbains », c’est constater avec l’ONU que le Japon et la Jordanie sont les deux pays qui comptent plus de 90% de leurs habitants en villes (et le Burundi le moins urbanisé avec 12% de citadins). De là, faut-il parier de l’avènement « d’une ville-monde » dont les mégapoles ne sont plus européennes, les têtes étant en Chine, Corée du Sud, Japon, Indonésie, Thaïlande, Turquie, Afrique du Sud, Nigeria… Et ceci dans des configurations très étalées qui changent la nature de ce qu’on appelait jadis une ville en Europe, à l’inverse des petites villes se maintenant sur notre continent comme en Allemagne, en Italie, en Espagne.

      Julien Gracq aimait la « forme » des villes. Nos géographes tirent de leur formation initiale le goût des trames antiques et leur fascination pour l’étalement vertical ». Ils fouillent les sous-sols comme une « nouvelle frontière ». Ils guettent les signes qui marquent une différentiation dans un océan de standardisation. Ils ne regrettent pas la faible végétalisation des villes car ils calculent aussi la hauteur et le volume de verdure au détriment de la seule surface. Ils prennent en compte aussi les trames vertes, les jardins privés.
      100 villes détiennent la moitié de la richesse mondiale

      Le philosophe de l’urbain Thierry Paquot regrettait la démesure (Désastres urbains, 2015), les géographes déplorent, eux, le faible « ruissellement » de la prospérité économique des métropoles : 100 villes détiennent près de la moitié des richesses mondiales, alors qu’elles ne représentent que le quart de la population du globe. Les pires sont les villes « extraverties, artificielles, fragiles » type Dubai.

      La cartographie des « vies urbaines » est audacieuse : une carte du multilinguisme à Toronto, ville de forte diversité ethnique ; une carte sur l’accroissement des rythmes urbains dans les métropoles, produit « d’un capitalisme ne cessant d’étendre la sphère des besoins » à mettre en lien avec les confinements ; un remarquable document cartographique sur « l’insécurité perçue par les femmes » à Delhi ; sur les gentrifications, l’habitat indigne…

      Le #Policène ?

      La « Grande accélération » qui mène à l’anthropocène (qu’Eric Verdeil verrait mieux désignée par « Policène », l’époque de la ville) est l’occasion de montrer une « géologie de dépotoir », des sols remaniés, des matériaux déplacés, des villes qui « ont faim », polluées par les particules fines, menacées par la hausse du niveau des mers, par les pandémies.

      Y a-t-il des pilotes ? Oui, ce sont des Etats qui y ont prospéré, des oligarchies qui en confisquent les aménités mais aussi des démocraties participatives (d’échelon urbain) comme à Surabaya, en Indonésie, des municipalités qui se préoccupent d’approvisionnement en eau, d’ordre social (milices contre les violences). Les querelles d’échelle sont un sujet hautement inflammable car les juridictions locales peuvent faire échec à des politiques urbaines d’inspiration néolibérale. Quelles solutions ? Les réseaux ? La chasse aux automobiles (impossible aux Etats-Unis), le « verdissement », les « smart cities », le recours aux low tech ? L’informel ? En somme, toute une palette qui transforme constamment la géographie des villes. Sur ces questions ouvertes, l’atlas ne prend pas parti, montrant combien les acteurs peuvent répondre à une demande locale sans intégration aux collectifs déjà en place.

      Incontestablement, l’Atlas des mondes urbains (et non des villes) ouvre un nouveau chapitre des études urbaines. Les géographes gardent une place forte dans le maniement des cartes qui sont l’un des instruments du pouvoir politique sur les villes. Un instrument puissant pour la décision et des gouvernances au plus près du local.

      http://geographiesenmouvement.blogs.liberation.fr/2020/11/09/comment-les-villes-mutent-avec-le-numerique

  • Dans la nasse
    https://visionscarto.net/dans-la-nasse

    Description en images des techniques utilisées par la police pour perturber, casser, pourrir les manifestations. par Le Pantale Sortir de chez soi pour défendre ses idées ne relève plus du parcours de manifestation mais du parcours du combattant. Les forces de l’ordre développent des tactiques pour surveiller, maîtriser, réprimer les corps indésirables ; c’est cet art d’imaginer des dispositions dans l’espace pour y manifester son pouvoir qui m’intéresse. Dans cette série, j’ai tenté de poser des (...) #Billets

  • Repenser les conditions d’accueil des arbres dans la ville de demain

    Un des enseignements de l’histoire des arbres en ville

    Dans la troisième édition du Traité pratique et didactique de l’art des jardins : paru en 1886, le Baron Enouf et Adolphe Alphand citent les 7 principales essences d’arbres des promenades de Paris :

    le platane, le marronnier, le vernis, l’orme, l’acacia, l’érable et le paulownia.

    Force est de constater que les quatre premières sont aujourd’hui dans une situation délicate dans les villes. Soit elles y dépérissent (platane, marronnier), soit elles en ont pratiquement disparu (orme), soit elles en sont bannies (ailante).

    Je ne vais pas détailler ici l’histoire récente de ces essences, je voudrais juste pointer du doigt les enseignements de l’histoire : En fait, la sur-utilisation en alignements monospécifiques de ces essences mais aussi les itinéraires techniques de plantation et d’entretien, ne sont pas étrangers, on le voit, à cette situation de grande vulnérabilité.

    L’histoire des ormes (Ulmus sp) est en cela éclairante.

    Massivement plantés dans les villes dès le XVIe siècle, arbres majestueux s’il en est, les ormes ont presque disparu d’Europe à la suite de propagation fulgurante de la graphiose, maladie fongique causée par un champignon ascomycète, Ophiostoma ulmi, lui-même disséminé par divers colépotères de la sous-famille des Scolytinae.

    Rien, ni personne, n’a vraiment pu venir à bout de cette épidémie dont les prémisses survinrent à Paris dans les années 1970.

    Aurait-elle eu le même impact si les acteurs de la filière horticole de cette époque avaient été attentifs aux mises en garde de François-Joseph Grille ? En 1825, celui ci alertait l’opinion, dans un ouvrage sur le département du nord, contre l’appauvrissement génétique des populations d’ormes trop volontiers clonés et/ou greffés au détriment de la richesse adaptative que permet le semis.

    Les planteurs d’ormes se bornent trop souvent au moyen le plus facile, qui est de planter par rejeton et par éclats de racines ; mais ils en sont les dupes, et ils n’obtiennent que des sujets rabougris qui ne rapportent presque rien. On distingue au premier coup-d’œil, à la beauté de leur port et à la vigueur de leur végétation, les ormes de semis, et ceux à feuilles étroites greffés sur sujets écossais, dans les plantations d’agrément, dans les parcs, et sur les pelouses qui environnent les maisons de campagne. »[2]

    Changer notre point de vue

    L’histoire met ainsi en lumière que l’avenir des arbres en ville est conditionné par les modalités de leur accueil et la manière dont nous les traitons.

    En même temps que nous faisons ce constat de fragilité de l’arbre en ville, la nécessité d’en accueillir de façon bien plus généreuse est patente pour, entre-autre, lutter contre les ilots de chaleur urbain, mais pas que… Je ne détaillerai pas ce point non plus, vous le connaissez bien.

    Il est maintenant acquis que vivre à proximité d’un « espace vert » est bénéfique pour l’équilibre général des urbains et pour leur santé. Les personnes concernées ayant moins de risque de dépression, d’anxiété, de stress et de maladies respiratoires….

    Si on connaît parfaitement les bienfaits de l’arbre pour l’homme, il me semble indispensable de mettre en parallèle les facteurs conditionnant la santé arbres en ville !

    Renverser la problématique pour esquisser un début de solution.

    Bien sûr les chiffres présentés ici sont fictifs (j’ai juste détourné l’infographie précédente pour établir le parallèle)

    L’objectif de la promotion de cette infographie est clairement de ne plus jamais voir…

    …ceci.

    Une image, qui vous le savez, est malheureusement loin d’être une exception….

    Je voudrai expliciter mon point de vue à la lumière de tout ce qui précède en le prolongeant par une question :

    Comment habiter en arbre dans le monde des hommes ?

    Nous le savons – les données scientifiques ne manquent pas – les arbres dans leur milieu naturel ne vivent jamais seuls (pour paraphraser Marc André Selosse). Ils ont besoin de « faire société ».

    Nous savons aussi, au moins inconsciemment, que nous sommes intimement liés aux arbres, et plus généralement au règne végétal. Nous, genre humain, ne poursuivrons pas le voyage sans eux, sans leur présence bienveillante et salvatrice.

    Malgré ce, nous devons prendre acte de la façon dont nous accueillons aujourd’hui le règne végétal dans la ville, et plus précisément dans les aménagements produits par nos sociétés carbonées, noyées dans le bitume.

    Un accueil qui, vous le concèderez facilement, ne prend pas souvent en considération ces besoins.

    Et au delà, pour reprendre les mots de Baptiste Morizot, nous devons prendre acte de l’appauvrissement de la relation que nous tissons avec le monde vivant. (…) on « n’y voit rien », on n’y comprend pas grand-chose, et surtout, ça ne nous intéresse pas vraiment (…) ça n’a pas de place légitime dans le champ de l’attention collective, dans la fabrique du monde commun.[4]

    Une proposition face à ce constat de conditions de vie inadaptées des arbres en ville

    En début d’année 2020, avec les paysagistes du collectif Coloco nous avons contribué à une vaste étude, dont les résultats ont été exposés au Pavillon de l’Arsenal, autour d’une question posée par l’agence d’architectes PCA-Stream :

    Comment ré-enchanter les Champs-Elysées ?

    Et plus précisément nous concernant,

    Quelles essences pour renouveler le patrimoine arboré des Champs-Elysées dans ce contexte de changement climatique ?

    Pour y répondre, nous avons souhaité élargir la question aux conditions d’accueil des arbres.

    Notre travail s’est, entre autre, concentré sur la mise en avant des « solidarités biologiques » en particulier à travers un référenciel de lisière et d’écotone, pour amplifier les rapports symbiotiques entre les plantes.

    Nous savons que la vitalité des arbres dépend des cohabitations s’établissant au niveau racinaire avec leur voisinage, grâce auxquelles ils développent des performances poussées (résistance au stress hydrique, aux parasites, taux de transpiration…).

    Nous avons l’intuition que la diversification des palettes végétales urbaines peut permettre aux arbres d’établir un équilibre symbiotique pour favoriser le déploiement d’une « nature » urbaine résiliente.

    Le choix des essences ne reposerait donc pas uniquement sur des listes d’espèces potentiellement adaptées à telle ou telle situation, mais se baserai sur des combinaisons accroissant leur capacité d’adaptation, leur rusticité et leur potentiel d’entraide, au delà des processus de mycorhize.

    Il nous semble indispensable désormais de concevoir le paysage comme un système vivant, de l’appréhender dans sa globalité et non plus individu par individu.

    L’enjeu est ainsi d’élaborer des cortèges phytosociologiques : des associations de plantes (arbres, arbustes, herbacées), capables de s’entraider pour former une communauté plus résistante aux variations du milieu.

    Cette logique d’entraide, de symbiose, nous paraît bien moins illusoire que l’idéal d’un « super-arbre » capable de répondre à de multiples injonctions contradictoires de performance (peu consommateur d’eau, résistant à la sécheresse, générateur de fraîcheur et d’ombre, sans parler de ses qualités esthétiques…).

    Cette manière de favoriser les services écosystémiques rendus par le vivant via la relation plutôt que la sélection, nous paraît être l’approche la plus cohérente pour imaginer une ville durable et résiliente face aux aléas du climat et aux agressions diverses.

    https://www.botanique-jardins-paysages.com/repenser-les-conditions-daccueil-des-arbres-dans-la-vill
    #villes #arbres #arbre #urbanisme #urban_matter

  • Série « #Nairobi en bande dessinée » : la #ville, les frontières urbaines et l’injustice spatiale (billet introductif)
    https://labojrsd.hypotheses.org/2944

    La bande dessinée au service de l’enseignement de la #géographie, la géographie au service de l’enseignement de l’histoire des Arts Réflexion autour de la bande dessinée de reportage : Patrick #Chappatte, 2010, La vie des...

    #La_BD_en_classe #Afrique #BD_de_reportage #Enseignement #Enseignement_dans_le_secondaire #Enseignement_et_BD #enseigner_avec_la_BD #enseigner_la_géographie #géographie_de_l'imaginaire #géographie_des_transports #géographie_en_4e #géographie_urbaine #habiter #Habiter_l'espace #Kenya #Patrick_Chappatte #Série_Nairobi_en_BD #transports #ville_africaine #Villes_et_Bandes_dessinées

  • Série « #Nairobi en bande dessinée » : l’étalement urbain et les mobilités éprouvantes (2e billet)
    https://labojrsd.hypotheses.org/2952

    Second billet de la série « Nairobi en bande dessinée » autour de l’utilisation de la bande dessinée de reportage La vie des autres à Nairobi de Patrick #Chappatte dans le cadre d’une étude de cas menée...

    #Billets #La_BD_en_classe #Afrique #BD_de_reportage #Enseignement #Enseignement_dans_le_secondaire #Enseignement_et_BD #enseigner_avec_la_BD #enseigner_la_géographie #géographie #géographie_de_l'imaginaire #géographie_des_transports #géographie_en_4e #géographie_urbaine #habiter #Habiter_l'espace #Kenya #Patrick_Chappatte #Série_Nairobi_en_BD #transports #ville #ville_africaine #Villes_et_Bandes_dessinées

  • Série “Nairobi en bande dessinée” : les paysages de la richesse à #Nairobi (3e billet)
    https://labojrsd.hypotheses.org/2959

    Troisième billet de la série « Nairobi en bande dessinée » autour de l’utilisation de la bande dessinée de reportage La vie des autres à Nairobi de Patrick Chappatte dans l’enseignement de la #géographie. 2. Nairobi...

    #La_BD_en_classe #Afrique #Enseignement #Enseignement_dans_le_secondaire #Enseignement_et_BD #enseigner_avec_la_BD #enseigner_la_géographie #géographie_de_l'imaginaire #géographie_des_mobilités #géographie_des_transports #géographie_urbaine #Kenya #Série_Nairobi_en_BD #transports #ville #ville_africaine #Villes_et_Bandes_dessinées

  • #Mediterranean_City-to-City_Migration_Project
    #City-to-City (#MC2CM)

    The Mediterranean City-to-City Migration Project (MC2CM) brings together city leaders, civil servants and local, national and international multi-disciplinary experts to discuss about, learn from and contribute to improved migration governance at urban level, including migrants’ access to basic services and human rights. MC2CM aims at contributing to more open and inclusive cities by drawing on migrants’ potential to benefit cities and their economies.

    The project is funded by the European Union through the Directorate General for Neighbourhood and Enlargement negotiations and co-funded by the Swiss Agency for Development and Cooperation.

    The partnership for its implementation is one of the key strength of MC2CM capitalizing on the expertise of United Cities and Local Governments (UCLG) in terms of decentralisation and city-to-city cooperation, on the knowledge of urban development and planning of UN-Habitat and on the competence of ICMPD on migration policy development.

    Implemented since 2015, the project concluded successfully its first phase (2015-2018) developing a step-by-step approach for peer-to-peer dialogue to support mutual learning on specific urban challenges and a methodology for developing “urban migration profiles”. Further, this first part of the program supported the definition of policy recommendations on urban migration governance in the Euro-Mediterranean region and the identification of a set of case studies that illustrate how local actors contribute to improved migration governance by fostering social cohesion, intercultural dialogue, employment, housing and provision of basic services for migrants, among others.

    The project is currently in its second phase (2018-2020) and comprises a network of 20 participating cities:

    Cities participating since phase 1:

    1. Amman

    2. Beirut

    3. Lyon (City and Metropolis)

    4. Lisbon

    5. Madrid

    6. Tangiers

    7. Turin (metropolis)

    8. Tunis

    9. Vienna

    Cities that joined in phase 2:

    10. Casablanca

    11. Dortmund

    12. Grenoble

    13. FAMSI (“Andalusian fund of Municipalities for International Solidarity” represented in the project by the cities of Seville & Cadiz)

    14. Naples

    15. Oujda

    16. Rabat

    17. Sfax

    18. Sousse

    19. Tripoli

    20. Tajoura

    https://www.icmpd.org/our-work/migration-dialogues/mtm-dialogue/city-to-city-mc2cm

    –-> ajouté à la métaliste sur les #villes-refuge :
    https://seenthis.net/messages/759145

  • More Girls To Parks ! Case Study of Einsiedler Park, Vienna, Milota Sidorova

    Compared to boys, girls in the age of 9-12 years don‘t spend as much time in parks and on playgrounds. And while you may have the memory of boys actively playing football all around, girls are really missing. Girls like to chat and spend the time indoors, some explain. Well, you don‘t feel that quite a sufficient explanation even you, yourself not being a gender studies expert.

    Girls pass through Einsiedler park twice a way. Before and after school. They cross the paths through the park and quickly disappear. The park is located in ethnically diverse Viennese district. The other group of girls we have noticed were girls from families of ethnic background. They come and look up for their younger siblings, this is quite typical situation, explains Claudia Prinz-Brandenburg, landscape architect working for Park Department of Vienna.

    The pilot study consisted of several rounds of workshops with girls within one year‘s time. The results were quite surprising and showed there were no facilities for them, girls had no reason to stop here. So an inventory of the park came. Fenced, encaged basketball playground, benches, greenery and relatively poor lighting. Since there was nothing that would serve young girls, Viennese chose the strategy of quick attraction. Different elements like platforms, interactive game installations, hammocks were placed along main pedestrian roads. These elements grabbed attention of passing kids, girls among them. They stopped them for couple of more minutes. And if they are passing walking and talking and have to spend the time outdoors, why not in the park?

    Fear, which is a feeling hard to define by hard data was one of the results of workshops with the girls. They mentioned fear of probable danger. Widening main pedestrian roads leading through the park, improving lighting conditions – these were the first steps. The central element of the park is the enclosed cage playground which we call ballcage among ourselves.

    We enter the playground. After Claudia draws out the idea of fear, for a moment I see myself being eleven years old starting teenager who would be flirting with boys while playing footbal. I could see standing groups of older boys that I dared not to look at. I could see the only door into the cage and them standing very close, controlling walk-ins and walk-outs. And their comments! Oh! The intensity of a sudden memory suprised me even as a thirty years old woman. It is the the fear from impossibility to exit the enclosed space full of strangers, this is the fear that prevents girls from entering playgrounds. To prevent that a redesign ofpark was prepared by the Park Department of Vienna in cooperation with the Coordination Office for Special Needs of Women. The fence was open from three sides and double layered at sites offering three large ways to exit the playground for safe street. Suddenly you feel it and you can breathe.

    Young girls like to watch the game of the others, for example – boys. It takes a little while before they start to play themselves, they like to chat among themselves. Also you can rarely see a girl coming to the playground alone, usually they come in two or in little groups. Only when they feel confident enough they go and play. The playground space is split into two by low platform that was designed for sitting and observing. After a while it became a real center where girls started to play the music, dance and all kinds of informal, spontaneous activities emerged, says Claudia. Finally we had girls in the park!

    Gender mainstreaming carefully analyzes behavior and needs of girls, reorganizes space and improves its usability. It doesn’t necessarily improve aesthetics, but focus on optimizing functions.

    In Einsiedler park we see two playgrounds out of which one is designed for basketball and football. The other one has no signs, no equipment, nothing. With its zero design it is the space for informal ball games. Had we designed the playground, we would immediately formalize another space for football and basketball, games usually performed by boys. Girls tend to play games using whole body, including singing or chatting, throwing ball.

    The effect is that boys and men usually occupy one side of the playground, while the other is used by girls and mixed groups.

    Einsiedler park serves as a central living room of the district. Since the flats are really small here, people tend to spend quite a lot of time outdoors. To be outdoors is partially a culture, partially a necessity, especially for people of ethnic background and low income. So are sisters taking care of their younger siblings on typical playground for the youngest. Here, however they have no place to talk or play themselves. Park Department designed another playground, game elements just next to the place where their siblings are. They also placed tables and benches into the playground for kids below 6 years of age, so their baby sitters can sit inside while having their own space. Two groups of different needs were combined in one space while keeping open-ended options for both of them.

    I am passing through the park that looks nothing special at the first sight. Neither elements, nor materials look any special, hyped by design or another novelty. Still I find myself quite amazed by this behavioral explanation. Gender mainstreaming carefully analyzes behavior and needs of girls, reorganizes space and improves its usability. It doesn’t necessarily improve aesthetics, but focus on optimizing functions.

    Did you achieve what you set out to do?

    Oh yes, after a year we did an evaluation study and found out that the number of girls present in parks increased. So did the amount of informal activities. Results of this pilot project were summarized into guiding principles adopted by Park Department which have been used in design of any new park since then, sums up her part of the walk Claudia Prinz Brandenburg.

    Achieving the knowledge is a thing of expert nature, to pass on the changes – unfortunately – is something quite different.

    For me everything started when I gave birth to my twins. I had to push a giant double stroller over sidewalks of Vienna. Surely you can imagine how terrible that was – cars, narrow, uneven sidewalks, dark corners when one does not see. I immediately realized that life in city does not give the fair chances to women, especially mothers, says Renate Kaufman, sharp woman of grey eyes that directly find their target. Former teacher got incredible sensitivity towards needs of children and parents. Later on she joined politics and two years ago she concluded her fourteen years long mission on as a Chairwoman of 6th Viennese District that became the pilot district of gender mainstreaming implementation.

    Fourteen years, that is quite a time! I say to myself, I – the citizen of Central European space used to four years long political cycles that bring complete opposition towards urban planning policies of the former establishment. Political discontinuity is not efficient, but rather destructive and in its best it is – tiring. Human life however flows continually, from day to day, from year to year, slowly turning decades. It is full of duties and roles that are happening in a physical space of the city. Back home, politics is perceived as a game of sharks, dominant types discouraging more compassionate types from entering it. And when we think of our urban planning it is still considered rather a technical discipline. Parametric control over indicators of traffic, quotas on areas that are be built or not to built, volumes, heights, areas designed as development areas, all of this gives us false feeling that we are planning our cities rationally, ergo, good. But where in all of this we can find true understanding of everyday human life? Try to go even further and bring the term gender equality into this hard professional environment.

    Some municipalities tuned onto words like participation and sustainable development. We are still, however only starting. Reality of participation turns into overuse of surveys, but not a real understanding of groups representing wide range of users. We are still witnessing unprofessional processes which on the top of that are not properly paid. Awareness however kicks in and urban planners and some municipal representatives start to speak about manuals of public spaces.

    How to design good public space? For whom?

    For people.

    What kind of people?

    Well, here is where I usually don’t get the answer much further. But this is the space, the opener where you can really start to get interested in the layer of gender and gender equality. Gender mainstreaming (balancing opportunities for men and women) was implemented in Vienna in 90ties under the directive of European Union. Here is also where I stop using the passive voice. Gender mainstreaming grew into urban planning by pragmatic and practical work of Eva Kail, urban planner who had her own aha moment in 1991. She organized the exhibition Who Owns the Public Space and became interested in connections among old woman, mother, woman of ethnic background, girl using the city. She studied methodologies of gender mainstreaming in architecture and urban planning being already a norm in Germany. Later on, being an employee of Urban Planning Department of the City of Vienna, she started to lobby for budgets. Budgets for pilot studies of user behaviors, budgets for pilot projects – just like the one in Einsiedler park. During her career she was able to assist in more than 60 pilot projects, covering practical aspects of gender mainstreaming and gender equality in housing, transportation, planning and design of small scale public spaces, just like the ones of large scale.

    If you want to do something for women, do something for pedestrians.

    Results showed us women walk and use public transport more than men. Men are more frequent car drivers. Why? Well, this is connected to life roles and duties. If a woman is a mother or care taker, her way through the city is more complex. Men take cars and go to work and back. Usual. This pattern has not changed even in 2016. So, if you want to do something for women, do something for pedestrians, says Kail.

    If women are the major client in public space, how it should function? Try to look at it through eyes of mothers, girls or elderly women. The differences will come out of quite simple observation. The rest is a question of common sense and measures taken.

    How did you achieve all of this in your neighborhood? I ask Renate Kaufmann, who energetically lead our group through the streets and explain why the sidewalks are lower here, why the light was placed there or why the mirror, at all. She is much more persuasive than the gender expert herself. In politics I love to fight for the right causes, she looks at me and for a long time I have nothing to say...

    http://www.wpsprague.com/research-1/2017/1/6/more-girls-to-parks-case-study-of-einsiedler-park-viennamilota-sidorova

    #genre #femmes #espace_public #géographie #Vienne #parcs #parcs_publics #filles #garçons #enfants #enfance #villes #Autriche #urban_matter

    ping @nepthys

  • #Gated_communities, le paradis entre quatre murs

    Sécurité, entre-soi, rêve de vacances perpétuelles. À l’heure où un supposé « sécessionnisme » envahit le débat public, quoi de mieux que d’évoquer les « gated communities », principal avatar des stratégies d’auto-enfermement gagnant le monde ?

    Comme le souligne l’excellent documentaire Bunker Cities, « le XXIe siècle sera celui des murs ». Murs entre pays bien sûr, mais également murs internes, notamment matérialisés par les fameuses gated communities, des communautés fermées plus ou moins coupées du reste de la ville et/ou de la société. Ce type d’habitat a le vent en poupe et contribue à détruire un des fondamentaux d’une société : la diversité. Raison qui rend la compréhension de ce phénomène indispensable.

    Ces quartiers privés, d’abord populaires dans des mégapoles très inégalitaires (Los Angeles, Rio de Janeiro, Johannesburg, etc.), se propagent peu à peu sur les cinq continents. Ils sont la plupart du temps facilement repérables puisque entourés de clôtures ou de murs et ne sont accessibles que via des points d’entrée plus ou moins surveillés selon l’environnement socio-économique (porte à digicode, caméras, vigiles, herses anti-intrusion). Leur présence peut cependant passer plus inaperçue, notamment dans les centres villes verticaux, où cette privatisation de l’espace se manifeste sous l’apparence d’un simple gratte-ciel mais dans lequel toute une série de services ne sont disponibles qu’aux habitants, encourageant ces derniers à minimiser tout contact avec la vie extérieure. Mais qu’est-ce qui rend si attractif ce genre d’habitat ? Et quelles sont les conséquences de ces quartiers fermés.
    Sécessionnisme sécuritaire

    Très souvent, l’argument phare est de procurer aux habitants un sentiment de sécurité qu’ils ne retrouveraient pas ailleurs. L’insécurité contre laquelle l’objectif est censé protéger peut être, selon les cas, réelle ou fantasmée. Il est clair que dans de nombreuses villes au sein desquelles les disparités sont fortes, les tensions sociales sont extrêmes et peuvent se traduire par des atteintes aux biens et aux personnes, en particulier les plus aisées. Ainsi, au Brésil ou en Afrique du Sud, les enlèvements suivis de rançons sont fréquents et contraignent de nombreux citoyens à vivre au sein de dispositifs de surveillance quasi militaires pour retrouver au moins un semblant de sérénité. La clôture traduit ainsi l’obsession de nombreux quartiers aisés à se retrancher et à dissimuler leurs richesses et leur style de vie[1].

    Si les risques sont évidemment moins élevés dans des villes plus petites et/ou moins inégalitaires, on remarque tout de même que cet argument sécuritaire fait bien toujours partie des motivations des habitants. Ce qui nous amène à bien distinguer la sécurité du sentiment de sécurité. Les gated communities se chargent le plus souvent de répondre davantage à ce dernier qu’à la sécurité en tant que telle. Il suffit de voir la faiblesse de nombreux dispositifs de surveillance quant à une hypothétique attaque de gens extérieurs. De l’aveu même de nombreux habitants, ces dispositifs visent ainsi à rassurer plus qu’à protéger. Il n’empêche qu’ils constituent pour beaucoup une échappatoire vis-à-vis du quotidien anxiogène très présent à l’ère des grands médias en concurrence et de réseaux sociaux toujours plus avides de sensationnalisme.

    À noter que cet argument sécuritaire revient également pour ce qui concerne la petite enfance. Vivre entre quatre murs permettrait ainsi une certaine insouciance quant aux risques d’accidents de la route et/ou de mauvaises rencontres que risquerait notre progéniture.
    Un entre-soi clôturé

    Autre argument souvent mis en évidence à la fois chez les promoteurs et chez les habitants des gated communities : une certaine homogénéisation sociale, voire ethnique, qu’autorise cette forme particulière de vivre-ensemble. Ces quartiers permettent en effet une vie entourée de ses semblables, souvent ni trop pauvres, ni trop différents culturellement, ce qui faciliterait un quotidien routinier très ordonné et de nouveau sans mauvaise surprise. La plupart des quartiers de ce type sont d’ailleurs très peu habités par des minorités, exception notable des pays du Sud où de nombreux expatriés en ont fait leur lieu de prédilection.

    Mais ne nous leurrons pas. Pour l’immense majorité des habitants, l’homogénéité dont il est question est avant tout socio-économique. En d’autres termes, importent moins la culture et la couleur de peau qu’un certain standing, sinon en termes de niveau de revenus, du moins en termes de mode de vie. Il faut d’ailleurs souligner que, contrairement à une idée reçue, les résidences fermées ne sont pas toujours des ghettos de riches. Dans de nombreux endroits, ce type d’habitat a tendance à se démocratiser et attire également une classe moyenne en perte de repères. Ce phénomène est particulièrement visible aux États-Unis, probablement car il permet la combinaison d’un mode de vie dans lequel l’esprit de communauté a une grande importance avec un fort individualisme, notamment résidentiel.

    Cette homogénéisation peut dans certains cas prendre des allures caricaturales, à l’instar de la célèbre ville privée de Sun City, en Arizona (près de quarante mille résidents), exclusivement réservée aux retraités et dans laquelle le règlement n’a d’autre but que de faire profiter les habitants d’une certaine quiétude bien méritée après une vie de dur labeur. Règlement qui va jusqu’à fixer les heures de visites des petits enfants pour ne pas déranger le voisinage. Car pour bénéficier de cette quiétude, un des prix à payer est de se plier à un ensemble de règles strictes en vigueur dans toute gated community qui se respecte : absence de nuisances, calme, entretien de son environnement, contrôle de la venue de populations extérieures, etc. Tout un règlement visant à ne pas venir troubler la tranquillité du voisinage et garantir le fameux standing à ce qui reste, ne l’oublions pas, un produit commercial immobilier.

    À noter que d’autres gated communities basent leur existence sur l’orientation sexuelle (« villages gays » réservés aux populations homosexuelles en Floride ou en Californie) ou le caractère ethnique (quartiers privés réservés à une certaine couleur de peau).
    En vacances toute l’année

    Très souvent, le concept de gated community inclut également une panoplie de loisirs parfois dignes des meilleurs clubs de vacances qui foisonnent dans les régions ensoleillées. Piscine, golf, centre commercial, église, cours particuliers de sport, livraison de nourriture à domicile, animations musicales, bars et restaurants. Bref : tous les ingrédients pour constituer une réplique de ce que l’on peut trouver à l’extérieur mais dans un entre soi contrôlé. Le tout donnant l’impression aux habitants de vivre « en vacances toute l’année ». Cet aspect paradisiaque se ressent jusqu’aux mots composant l’appellation de nombreuses gated communities tels que palm, sun, falls, garden, resort, lake, wood, etc.

    À cet égard, on peut faire un parallèle avec les complexes hôteliers présents aux quatre coins du monde et qui vont jusqu’à former de véritables enclaves touristiques également déconnectées de l’arrière-pays et de ses réalités locales. Il est d’ailleurs significatif que nous retrouvons dans l’argumentaire marketing de ce type de tourisme les mêmes types d’« avantages » qu’offre le mur pour les gated communities : sentiment de sécurité, absence de mendicité et de rencontres indésirables, homogénéité culturelle (un comble dans un pays étranger…).
    Une nature artificielle

    Dernière motivation et non des moindres : la volonté de vivre dans un cadre agréable et un environnement préservé. Concrètement, cela implique une faible circulation automobile, des espaces verts, du calme et, quand le pays le permet, un climat agréable toute l’année. Et tant pis si cet environnement naturel est en réalité… tout à fait artificiel : fontaines ostentatoires, pelouses parfaitement tondues et bien vertes, même dans des zones arides, arbustes taillés à la perfection, parterres fleuris et colorés, étangs, cascades[2]. Tout est réuni pour fournir un idéal paysager, rassemblant d’ailleurs souvent davantage à un décor de parc à thèmes qu’à un vrai paysage. Que l’on se trouve à Karachi, au Caire ou à Mexico, un trait caractéristique de nombreuses gated communities est leur côté interchangeable et identique, ce qui peut sans problème les faire rentrer dans la catégorie de « non-lieux », à savoir des espaces standardisés et déshumanisés dépourvus de toute histoire sociale et collective.

    Bien souvent, cet intérieur très propret contraste avec l’extérieur des murs, en particulier dans les pays du Sud, où l’espace public est abandonné par un pouvoir défaillant et dépourvu de moyens. Ce type de quartier accentue ainsi la déconnexion des habitants avec le reste de la société (d’autant plus quand une partie significative des classes dirigeantes vit précisément du côté propre et sécurisé de la barrière).
    Des conséquences au-delà du mur

    Questionner le concept même de gated community vise à analyser ses impacts, notamment car ceux-ci se font sentir au-delà du quartier concerné. Cette logique d’emmurement volontaire est plus perverse qu’elle n’en a l’air car elle contribue, comme l’explique Stéphane Degoutin, à une « bipolarisation de la ville, dans laquelle tout est organisé pour qu’il n’existe aucune communication entre les « bons » et les « mauvais » quartiers »[3]. Pire encore, elle encourage chez les résidents le sentiment que « peu importe que le contexte se détériore tant qu’il est derrière les murs ». En ignorant son environnement, on contribue ainsi à sa dégradation. En d’autres termes, « y habiter, c’est renoncer à résoudre le problème de la société »[4].

    Cette homogénéisation choisie favorise ainsi une homogénéisation subie, celle des quartiers défavorisés, lesquels connaissent un désinvestissement croissant (transports et services publics, mobilier urbain, éducation) du fait de l’exode des ménages les plus fortunés, phénomène réduisant l’assiette fiscale du territoire. Comme l’explique Loïc Wacquant, c’est la première partie d’un cercle vicieux rendant ces quartiers encore plus propices à la misère et à la violence[5], renforçant leur mauvaise réputation et les stéréotypes sur leurs habitants.

    Cette gestion de l’espace à deux vitesses atteint son paroxysme dans des zones de guerres, à l’instar de l’Irak où des quartiers ultra sécurisés sont instaurés pour les fonctionnaires américains liés à l’occupation militaire du pays. Ces « zones vertes », raconte Naomi Klein, « ont leur réseau électrique, leur réseau téléphonique, leur réseau d’égouts, leur réserve de pétrole et leur hôpital de pointe équipé de salles d’opérations immaculées, le tout protégé par des murailles de cinq mètres d’épaisseur, tout cela au milieu d’une mer de violence et de désespoir »[6].

    Cette allégorie insulaire résume le succès des gated communities, jamais très loin de l’idéal paradisiaque qui gouverne nos imaginaires, nourris des mythologies religieuses dans lesquelles, rappelle Marie Redon, nous retrouvons souvent « la notion d’enclos et de jardin d’agrément, d’un espace limité et réservé à quelques heureux élus méritants »[7].

    [1] Davis Mike, City of Quartz. Los Angeles, capitale du futur, Paris, La Découverte, 1997, p222.

    [2] Paquot Thierry (sous la direction de), Ghettos de riches, Paris, Perrin, 2009, p160.

    [3] Degoutin Stéphane, Prisonniers volontaires du rêve américain, Paris, Éditions de la Vilette, 2006, p263.

    [4] Ibid, p161.

    [5] Wacquant Loïc, Parias urbains – Ghettos, banlieues État, Paris, La Découverte, 2006, p169.

    [6] Klein Naomi, La Stratégie du choc – La montée d’un capitalisme du désastre, Paris, Actes Sud, 2008, p638.

    [7] Redon Marie, Géopolitique des îles, Paris, Le Cavalier Bleu, 2019, p82.

    http://geographiesenmouvement.blogs.liberation.fr/2020/10/21/gated-communities-le-paradis-entre-quatre-murs
    #murs_intra-urbains #villes #urban_matter #géographie_urbaine #barrières #frontières

    • Studying Diversity, Migration and Urban Multiculture. Convivial Tools for Research and Practice

      Anti-migrant populism is on the rise across Europe, and diversity and multiculturalism are increasingly presented as threats to social cohesion. Yet diversity is also a mundane social reality in urban neighbourhoods. With this in mind, Studying Diversity, Migration and Urban Multiculture explores how we can live together with and in difference. What is needed for conviviality to emerge and what role can research play? This volume demonstrates how collaboration between scholars, civil society and practitioners can help to answer these questions.

      Drawing on a range of innovative and participatory methods, each chapter examines conviviality in different cities across the UK. The contributors ask how the research process itself can be made more convivial, and show how power relations between researchers, those researched, and research users can be reconfigured – in the process producing much needed new knowledge and understanding about urban diversity, multiculturalism and conviviality. Examples include embroidery workshops with diverse faith communities, arts work with child language brokers in schools, and life story and walking methods with refugees.

      Studying Diversity, Migration and Urban Multiculture is interdisciplinary in scope and includes contributions from sociologists, anthropologists and social psychologists, as well as chapters by practitioners and activists. It provides fresh perspectives on methodological debates in qualitative social research, and will be of interest to scholars, students, practitioners, activists, and policymakers who work on migration, urban diversity, conviviality and conflict, and integration and cohesion.

      https://www.uclpress.co.uk/products/117058
      #multiculturalisme #villes #urban_matter #conflit #convivialité #intégration #cohésion #livre