• Recours aux armes « non létales » : 2022 excellent millésime | Paul Rocher (sous X @PaulRocher10) via @colporteur | 05.11.23

    https://twitter.com/PaulRocher10/status/1721262476933706174

    Près de 12 000 tirs policiers sur la population civile en 2022, soit 33 tirs par jour. Voilà ce que montrent les derniers chiffres sur le recours aux armes « non létales ». Hormis les années des #giletsjaunes (2018/19), c’est un nouveau record.

    Au-delà du nombre élevé de tirs sur 1 année, la tendance est frappante. En 2022, les policiers ont tiré 80 fois plus qu’en 2009. Pourtant, ni les manifestants ni la population générale ne sont devenus plus violents. La hausse des violences est celle des #violencespolicières

    Ces données du min. de l’intérieur n’affichent pas les tirs de grenades (assourdissantes, lacrymogène) et ignorent les coups de matraque. Même pour les armes comptabilisées, on assiste à une sous-déclaration. Le niveau réel des #violencespolicières est donc encore plus élevé

    Souvent on entend que les armes non létales seraient une alternative douce aux armes à feu. Pourtant, les derniers chiffres confirment la tendance à la hausse des tirs à l’arme à feu. Pas d’effet de substitution, mais un effet d’amplification de la violence

    Ces derniers temps, on entend beaucoup parler de « décivilisation ». Si elle existe, ces chiffres montrent encore une fois qu’elle ne vient pas de la population . Les données disponibles (⬇️) attestent qu’elle se tient sage, contrairement à la police

    https://www.acatfrance.fr/rapport/lordre-a-quel-prix

  • Confine Serbia-Ungheria: aumenta la militarizzazione e la violenza della polizia

    Una sparatoria (probabilmente tra “trafficanti”) diviene il pretesto per un’ulteriore stretta repressiva

    La zona di confine tra la Serbia e l’Ungheria è da molti anni un luogo di sosta forzata e di transito delle persone migranti. E’ qui, tra la cittadina ungherese di #Röszke e quella serba di #Horgos, che nell’autunno del 2015 venne costruita da Orban la prima barriera “anti-rifugiati” che divenne in poco tempo uno dei simboli della politica dell’Unione europea, replicata poi in molteplici forme.

    Questo territorio al nord della Serbia rimane oggi uno dei punti più caldi delle rotte balcaniche settentrionali, essendo – al pari del confine tra Bosnia-Erzegovina e Croazia – uno snodo fondamentale per l’accesso all’Europa e quindi per le politiche di controllo e respingimento. Diversi report e costanti attività di monitoraggio hanno descritto nel dettaglio la violenza e la brutalità della polizia nei confronti di persone in movimento sia sul lato serbo che su quello ungherese.

    Nel rapporto trimestrale del 2023 riferito ai mesi di luglio, agosto e settembre 1, la Ong #KlikAktiv di Belgrado ha indicato le tendenze in atto. Il report è frutto di osservazioni durante le visite agli insediamenti informali ai confini esterni dell’UE con la Serbia e della raccolta di testimonianze e foto delle condizioni di vita, e fornisce anche informazioni sul contesto, compreso il quadro giuridico e le scelte politiche relative alla gestione della migrazione. In particolare, l’organizzazione punta l’attenzione sui respingimenti da e verso la Serbia, sulla violenza della polizia serba e sulla morte delle persone lungo il percorso. Una parte è dedicata anche alle sparatorie avvenute in quei mesi nell’area settentrionale del Paese e delle reti di passatori (smugglers) sospettate di esserne all’origine. Sono illustrati anche alcuni dati: la maggior parte delle persone incontrate dall’Ong proveniva da Siria e Afghanistan (94%); il punto di “ingresso” più comune in Serbia è dalla Bulgaria (con il 40% che a settembre è entrato solo attraverso la Macedonia settentrionale), mentre i tragitti più utilizzati per uscire dal Paese sono quelli verso la Bosnia-Erzegovina e l’Ungheria, con quest’ultima che ha anche il primato dei respingimenti. Klikaktiv ha, infine, continuato a rilevare un numero significativo di minori non accompagnati negli insediamenti informali presenti nella zona di confine, perfino ragazzini di età inferiore ai 14 anni provenienti soprattutto dalla Siria.

    Un episodio emblematico è quello raccontato da No Name Kitchen, che opera a Subotica supportando centinaia di persone che vivono fuori dai campi ufficiali negli edifici abbandonati.
    L’Ong tramite la pagina facebook ha denunciato un violento pushback nei confronti di quattro ragazzi marocchini. Racconta di aver incontrato il gruppo fuori dal campo di #Subotica la notte del 25 ottobre, dopo essere stati informati della gravità delle condizioni fisiche di uno dei giovani: «La polizia lo ha colpito molto violentemente causandogli una ferita aperta sulla fronte e una grave commozione cerebrale. Anche gli altri tre amici indossavano bende in testa. M. e i tre amici sono stati arrestati e brutalmente attaccati da tre poliziotti ungheresi, dopo aver attraversato il villaggio serbo di #Martonoš».

    «L’estrema violenza usata in questa repressione ci lascia senza parole – scrivono le attiviste -. Il gruppo ha segnalato di essere stato picchiato in mezzo alla foresta alle 23 da due poliziotti maschi. Usavano soprattutto manganelli per infliggere ferite. Mentre il gruppo stava soffrendo terribilmente, il terzo poliziotto ha iniziato a filmare la scena».

    No Name Kitchen spiega che il ragazzo per la quantità di botte ricevute in testa ha perso conoscenza ed è stato trasportato in un ospedale nella città ungherese di Szeged dove è stato rapidamente curato e rilasciato senza ulteriori visite mediche nonostante i sintomi indichino un potenziale trauma cerebrale. Insieme al gruppo di amici è stato illegalmente rispedito in Serbia senza che nessuno si preoccupasse delle sue condizioni di salute.

    Il pretesto “perfetto”

    E’ in questo contesto, nel quale la mobilità umana viene pesantemente repressa, che un nuovo scontro tra gruppi di migranti, probabilmente smugglers, ha portato alla morte di tre persone e al ferimento di un’altra. Le uniche notizie sono legate ad un comunicato diramato dal ministero dell’interno serbo, dove si legge che la polizia ha poi fatto irruzione in alcuni edifici abbandonati nell’area di Horgos, sequestrando armi e munizioni, trovando inoltre 79 persone di varie nazionalità che sono state trasferite nei campi di ricezione. L’operazione – che ha coinvolto le unità anti-terrorismo, la gendermerie e gli elicotteri della polizia – ha portato all’arresto di quattro cittadini afghani e due turchi sospettati di possesso illegale di armi ed esplosivi.

    La sparatoria e le morti sono diventate così il nuovo pretesto per portare un’ulteriore stretta e militarizzazione nell’intera zona di confine. Il presidente serbo Vucic ha infatti dichiarato che potrebbe far intervenire l’esercito per risolvere la situazione se le forze di polizia non si dimostreranno all’altezza, avvertendo così il suo stesso Ministro degli Interni Gasic: “[…] non è la prima volta che parlo con il Ministro degli Interni. O farete le cose che dovete fare, o direte che non siete in grado di farle. Mettetevi in guardia, farò intervenire l’esercito e faremo piazza pulita, li arresteremo e li metteremo dietro le sbarre”, ha detto intervenendo in televisione. Dopo la sparatoria è stato stipulato un accordo di cooperazione tra lo stesso Gasic e il Ministro degli Interni ungherese Pinter, in un incontro al valico di frontiera di Reska, dove hanno discusso della lotta “all’immigrazione irregolare” e dell’utilizzo di ufficiali ungheresi a supporto dei colleghi serbi. “Per combattere la criminalità organizzata e la migrazione irregolare, è stato proposto di istituire un gruppo di lavoro congiunto tra i membri dei ministeri degli Interni di Serbia e Ungheria”, riporta il comunicato congiunto 2.

    Le autorità hanno inoltre comunicato a tutte le organizzazioni umanitarie che sono attive nei campi profughi dislocati nella zona che temporaneamente non potranno lavorare al loro interno. Alcuni testimoni affermano che i successivi controlli di polizia hanno portato a fermi e diversi episodi di violenza.

    https://www.youtube.com/watch?v=l43XWHlj8uw&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.meltingpot.org%

    «Negli ultimi mesi le operazioni poliziesche sono diventate dei veri e propri “rastrellamenti” nelle strade, nelle stazioni e nei negozi della regione di Subotica e Sombor.»

    Gli ultimi aggiornamenti di No Name Kitchen sono del 2 novembre, quando le attiviste hanno visitato il campo ufficiale a Subotica e lo hanno trovato completamente vuoto. Il campo solitamente ospita più di 300 persone tra uomini, donne, ragazzi e famiglie, e la polizia l’ha sgomberato il 31 ottobre deportando con la forza le persone. «Ci è stato detto che durante lo sgombero ci sono stati pestaggi e violenza. Non sappiamo dove siano state portate queste persone, ma sembra che la chiusura di tutti i campi serbi faccia parte dell’ultima azione promossa dallo Stato per reprimere l’immigrazione irregolare al confine tra Serbia e Ungheria».

    «Recentemente – osserva l’organizzazione – è stato pubblicato un video che mostra le forze militari e di polizia che rastrellano ostelli e insediamenti informali alla ricerca di bande di smuggler e persone migranti. La clip di 7 minuti è accompagnata da musica che ricorda un videogioco di guerra. Le forze militari armate con il volto coperto vengono filmate mentre arrestano e sfrattano le persone dagli edifici».

    La caccia ai migranti è diventata la norma, di fatto impedendo la circolazione delle persone migranti anche all’interno del territorio serbo, attraverso una politica di deportazioni dal nord al sud, verso i campi al confine con la Macedonia e il Kosovo, rallentando il viaggio delle persone e alimentando così il circuito economico connesso al movimento dei migranti, che coinvolge – tra gli altri – gli apparati dello stato stessi e i network di smuggling. Dall’altra parte, le guerre intestine tra le organizzazioni di smuggling forniscono il pretesto perfetto per la repressione governativa, che però si abbatte in modo generalizzato sulle persone migranti senza scalfire le organizzazioni criminali che si propone di colpire. Dopo diverse inchieste giornalistiche firmate da Balkan Insight negli ultimi mesi, la credibilità delle autorità serbe è a pezzi agli occhi dell’opinione pubblica, perché è stata dimostrata più volte la complicità tra gli apparati di polizia e le bande di smuggler, svelando un sistema dove economicamente tutti ci guadagnano, sulla pelle delle persone migranti 3.

    https://www.meltingpot.org/2023/11/confine-serbia-ungheria-aumenta-la-militarizzazione-e-la-violenza-della-
    #Serbie #Hongrie #militarisation_des_frontières #frontières #migrations #asile #réfugiés #Balkans #route_des_Balkans #violence

    • The Third Quarterly Report in 2023

      The report covers trends observed in the field during our team’s visits to the informal settlements at the EU’s external borders with Serbia during July, August and September 2023, including testimonies and quotes of refugees, as well as the photos of the living conditions. The report also provides information on the context, including important legal framework and political trends regarding migration management in the country. We particularly shed light on push backs to and from Serbia, violence by the Serbian police and deaths of refugees on the route. We also wrote about recent shootings in the northern area of the country and smuggling networks suspected to be behind them.

      Some of the key trends identified in the reporting period were:

      - Majority of all Klikaktiv’s beneficiaries were from: Syria and Afghanistan (94% combined). Most common entry point: Bulgaria (with 40% who entered through North Macedonia in September) Most common attempted exit points: to Hungary and to Bosnia and Herzegovina.

      – Push backs from the EU Member States have continued in the reporting period - majority of which happened from Hungary to Serbia. Push backs by the Serbian police were reported by people on the move on the border with Bulgaria in joint operation with Austrian police, and on the border with North Macedonia together with German police.

      - Klikaktiv continued to note a significant number of unaccompanied boys in informal settlements in the border area, particularly those younger than 14 years old, mostly from Syria.

      - Although in smaller numbers compared to refugees from Syria and Afghanistan, we continued to meet Turkish citizens who came to Serbia legally and tried to continue to the EU irregularly.

      These trends are further elaborated on in the report, as well as other information and cases from the field.

      You can download the full report here: https://drive.google.com/file/d/1nQiQvm4atW8ltpjTFTTBGeMseJvzsEO_/view

      https://klikaktiv.org
      #rapport #push-backs #refoulements

  • #Taux_de_change : retour sur la politique israélienne des #otages

    Eyal Weizman, fondateur du collectif Forensic Architecture, revient sur la manière dont les #civils installés autour de #Gaza ont servi de « #mur_vivant » lors des massacres du 7 octobre perpétrés par le #Hamas, et retrace l’évolution de la politique israélienne à l’égard des otages.

    Au printemps 1956, huit ans après la Nakba (un terme arabe qui désigne « la catastrophe » ou « le désastre » que fut pour les Palestiniens la création d’Israël), un groupe de fedayins palestiniens franchit le fossé qui sépare Gaza de l’État d’Israël. D’un côté se trouvent 300 000 Palestiniens, dont 200 000 réfugiés expulsés de la région ; de l’autre, une poignée de nouvelles installations israéliennes. Les combattants palestiniens tentent de pénétrer dans le kibboutz de Nahal Oz, tuent Roi Rotberg, un agent de sécurité, et emportent son corps à Gaza, mais le rendent après l’intervention des Nations unies.

    #Moshe_Dayan, alors chef de l’état-major général d’Israël, se trouvait par hasard sur place pour un mariage et a demandé à prononcer, le soir suivant, l’éloge funèbre de Rotber. Parlant des hommes qui ont tué #Rotberg, il a demandé : « Pourquoi devrions-nous nous plaindre de la #haine qu’ils nous portent ? Pendant huit ans, ils se sont assis dans les camps de réfugiés de Gaza et ont vu de leurs yeux comment nous avons transformé les terres et les villages où eux et leurs ancêtres vivaient autrefois. » Cette reconnaissance de ce que les Palestiniens avaient perdu, les hommes politiques israéliens d’aujourd’hui ne peuvent plus se permettre de l’exprimer. Mais Dayan ne défendait pas le #droit_au_retour : il a terminé son discours en affirmant que les Israéliens devaient se préparer à une #guerre_permanente et amère, dans laquelle ce qu’Israël appelait les « #installations_frontalières » joueraient un rôle majeur.

    Au fil des ans, le #fossé s’est transformé en un système complexe de #fortifications - une #zone_tampon de 300 mètres, où plus de deux cents manifestants palestiniens ont été tués par balle en 2018 et 2019 et des milliers d’autres blessés, plusieurs couches de #clôtures en barbelés, des #murs en béton s’étendant sous terre, des mitrailleuses télécommandées - et des équipements de #surveillance, dont des tours de guet, des caméras de vidéosurveillance, des capteurs radar et des ballons espions. À cela s’ajoute une série de #bases_militaires, dont certaines situées à proximité ou à l’intérieur des installations civiles qui forment ce que l’on appelle l’#enveloppe_de_Gaza.

    Empêcher le retour des réfugiés

    Le #7_octobre_2023, lors d’une attaque coordonnée, le Hamas a frappé tous les éléments de ce système interconnecté. #Nahal_Oz, l’installation la plus proche de la clôture, a été l’un des points névralgiques de l’attaque. Le terme « #Nahal » fait référence à l’unité militaire qui a créé les installations frontalières. Les installations du Nahal ont débuté comme des avant-postes militaires et sont devenues des villages civils, principalement de type #kibboutz. Mais la transformation n’est jamais achevée et certains résidents sont censés se comporter en défenseurs quand la communauté est attaquée.

    La « #terre_des_absents » a été la #tabula_rasa sur laquelle les planificateurs israéliens ont dessiné le projet des colons sionistes après les expulsions de 1948. Son architecte en chef était #Arieh_Sharon, diplômé du Bauhaus, qui a étudié avec Walter Gropius et Hannes Meyer avant de s’installer en Palestine en 1931, où il a construit des lotissements, des coopératives de travailleurs, des hôpitaux et des cinémas. Lors de la création de l’État d’Israël, David Ben Gourion l’a nommé à la tête du département de planification du gouvernement. Dans The Object of Zionism (2018), l’historien de l’architecture Zvi Efrat explique que, bien que le plan directeur de Sharon soit fondé sur les principes les plus récents du design moderniste, il avait plusieurs autres objectifs : fournir des logements aux vagues d’immigrants arrivés après la Seconde Guerre mondiale, déplacer les populations juives du centre vers la périphérie, sécuriser la frontière et occuper le territoire afin de rendre plus difficile le retour des réfugiés.

    Dans les années 1950 et 1960, le #plan_directeur de Sharon et de ses successeurs a conduit à la construction, dans les « #zones_frontalières », définies à l’époque comme représentant environ 40 % du pays, de centres régionaux ou « #villes_de_développement » qui desservaient une constellation d’#implantations_agraires. Ces villes de développement devaient accueillir les immigrants juifs d’Afrique du Nord – les Juifs arabes – qui allaient être prolétarisés et devenir des ouvriers d’usine. Les implantations agraires de type kibboutz et #moshav étaient destinées aux pionniers du #mouvement_ouvrier, principalement d’Europe de l’Est. Les #terres appartenant aux villages palestiniens de #Dayr_Sunayd, #Simsim, #Najd, #Huj, #Al_Huhrraqa, #Al_Zurai’y, #Abu_Sitta, #Wuhaidat, ainsi qu’aux tribus bédouines #Tarabin et #Hanajre, sont occupées par les villes de développement #Sderot et #Ofakim et les kibboutzim de #Re’im, #Mefalsim, #Kissufim et #Erez. Toutes ces installations ont été visées le 7 octobre.

    La première #clôture

    À la suite de l’#occupation_israélienne de 1967, le gouvernement a établi des installations entre les principaux centres de population palestinienne à Gaza même, dont la plus grande était #Gush_Katif, près de Rafah, à la frontière égyptienne ; au total, les #colonies israéliennes couvraient 20 % du territoire de Gaza. Au début des années 1980, la région de Gaza et ses environs a également accueilli de nombreux Israéliens évacués du Sinaï après l’accord de paix avec l’Égypte.

    La première clôture autour du territoire a été construite entre 1994 et 1996, période considérée comme l’apogée du « #processus_de_paix ». Gaza était désormais isolée du reste du monde. Lorsque, en réponse à la résistance palestinienne, les colonies israéliennes de Gaza ont été démantelées en 2005, certaines des personnes évacuées ont choisi de s’installer près des frontières de Gaza. Un deuxième système de clôture, plus évolué, a été achevé peu après. En 2007, un an après la prise de pouvoir du Hamas à Gaza, Israël a entamé un #siège à grande échelle, contrôlant et limitant les flux entrants de produits vitaux - #nourriture, #médicaments, #électricité et #essence.

    L’#armée_israélienne a fixé les privations à un niveau tel que la vie à Gaza s’en trouve presque complètement paralysée. Associé à une série de campagnes de #bombardements qui, selon les Nations unies, ont causé la mort de 3 500 Palestiniens entre 2008 et septembre 2023, le siège a provoqué une #catastrophe_humanitaire d’une ampleur sans précédent : les institutions civiles, les hôpitaux, les systèmes d’approvisionnement en eau et d’hygiène sont à peine capables de fonctionner et l’électricité n’est disponible que pendant la moitié de la journée environ. Près de la moitié de la population de Gaza est au #chômage et plus de 80 % dépend de l’#aide pour satisfaire ses besoins essentiels.

    L’enveloppe de Gaza

    Le gouvernement israélien offre de généreux #avantages_fiscaux (une réduction de 20 % de l’impôt sur le revenu par exemple) aux habitants des installations autour de Gaza, dont beaucoup longent une route parallèle à la ligne de démarcation, à quelques kilomètres de celle-ci. L’enveloppe de Gaza comprend 58 installations situées à moins de 10 km de la frontière et comptant 70 000 habitants. Au cours des dix-sept années depuis la prise de pouvoir par le Hamas, malgré les tirs sporadiques de roquettes et de mortiers palestiniens et les bombardements israéliens sur le territoire situé à quelques kilomètres de là, les installations n’ont cessé d’augmenter. La hausse des prix de l’immobilier dans la région de Tel-Aviv et les collines ouvertes de la région (que les agents immobiliers appellent la « Toscane du nord du Néguev ») a entraîné un afflux de la classe moyenne.

    De l’autre côté de la barrière, les conditions se sont détériorées de manière inversement proportionnelle à la prospérité croissante de la région. Les installations sont un élément central du système d’#enfermement imposé à Gaza, mais leurs habitants tendent à différer des colons religieux de Cisjordanie. Démontrant l’aveuglement partiel de la gauche israélienne, certaines personnes installées dans le Néguev sont impliquées dans le #mouvement_pacifiste.

    Le 7 octobre, les combattants du Hamas ont forcé les éléments interconnectés du réseau de siège. Des tireurs d’élite ont tiré sur les caméras qui surplombent la zone interdite et ont lancé des grenades sur les #tours_de_communication. Des barrages de roquettes ont saturé l’#espace_radar. Plutôt que de creuser des tunnels sous les clôtures, les combattants sont venus par le sol. Les observateurs israéliens ne les ont pas vus ou n’ont pas pu communiquer assez rapidement ce qu’ils ont vu.

    Les combattants ont fait sauter ou ouvert quelques douzaines de brèches dans la clôture, élargies par les bulldozers palestiniens. Certains combattants du Hamas ont utilisé des parapentes pour franchir la frontière. Plus d’un millier d’entre eux ont pris d’assaut les bases militaires. L’armée israélienne, aveuglée et muette, n’a pas de vision claire du champ de bataille et les détachements mettent des heures à arriver. Des images incroyables sont apparues sur Internet : des adolescents palestiniens ont suivi les combattants à vélo ou à cheval, sur une terre dont ils avaient peut-être entendu parler par leurs grands-parents, maintenant transformée au point d’en être méconnaissable.

    Les #massacres du 7 octobre

    Les événements auraient pu s’arrêter là, mais ce ne fut pas le cas. Après les bases, ce furent les installations, les horribles massacres maison par maison, et le meurtre d’adolescents lors d’une fête. Des familles ont été brûlées ou abattues dans leurs maisons, des civils incluant des enfants et des personnes âgées ont été prises en otage. Au total, les combattants ont tué environ 1 300 civils et soldats. Plus de 200 personnes ont été capturées et emmenées à Gaza. Jusqu’alors, rien, dans la #violence ni la #répression, n’avait rendu de tels actes inévitables ou justifiés.

    Israël a mis des décennies à brouiller la ligne de démarcation entre les fonctions civiles et militaires des installations, mais cette ligne a aujourd’hui été brouillée d’une manière jamais envisagée par le gouvernement israélien. Les habitants civils cooptés pour faire partie du mur vivant de l’enveloppe de Gaza ont subi le pire des deux mondes. Ils ne pouvaient pas se défendre comme des soldats et n’étaient pas protégés comme des civils.

    Les images des installations dévastées ont permis à l’armée israélienne d’obtenir carte blanche de la part de la communauté internationale et de lever les restrictions qui avaient pu être imposées précédemment. Les hommes politiques israéliens ont appelé à la #vengeance, avec un langage explicite et annihilationiste. Les commentateurs ont déclaré que Gaza devrait être « rayée de la surface de la Terre » et que « l’heure de la Nakba 2 a sonné ». #Revital_Gottlieb, membre du Likoud à la Knesset, a tweeté : « Abattez les bâtiments ! Bombardez sans distinction ! Assez de cette impuissance. Vous le pouvez. Il y a une légitimité mondiale ! Détruisez Gaza. Sans pitié ! »

    L’échange de prisonniers

    Les otages civils des installations dont Israël a fait un « mur vivant » sont devenus pour le Hamas un #bouclier_humain et des atouts pour la #négociation. Quelle que soit la façon dont le #conflit se termine, que le Hamas soit ou non au pouvoir (et je parie sur la première solution), Israël ne pourra pas éviter de négocier l’#échange_de_prisonniers. Pour le Hamas, il s’agit des 6 000 Palestiniens actuellement dans les prisons israéliennes, dont beaucoup sont en #détention_administrative sans procès. La prise en otages d’Israéliens a occupé une place centrale dans la #lutte_armée palestinienne tout au long des 75 années de conflit. Avec des otages, l’#OLP et d’autres groupes cherchaient à contraindre Israël à reconnaître implicitement l’existence d’une nation palestinienne.

    Dans les années 1960, la position israélienne consistait à nier l’existence d’un peuple palestinien, et donc qu’il était logiquement impossible de reconnaître l’OLP comme son représentant légitime. Ce déni signifiait également qu’il n’y avait pas à reconnaître les combattants palestiniens comme des combattants légitimes au regard du droit international, et donc leur accorder le statut de #prisonniers_de_guerre conformément aux conventions de Genève. Les Palestiniens capturés étaient maintenus dans un #vide_juridique, un peu comme les « combattants illégaux » de l’après 11-septembre.

    En juillet 1968, le Front populaire de libération de la Palestine (FPLP) a détourné un vol d’El-Al et l’a fait atterrir en Algérie, inaugurant une série de détournements, dont l’objectif explicite était la libération de prisonniers palestiniens. L’incident d’Algérie a conduit à l’échange de 22 otages israéliens contre 16 prisonniers palestiniens, bien que le gouvernement israélien ait nié un tel accord. Seize contre 22 : ce taux d’échange n’allait pas durer longtemps. En septembre 1982, après l’invasion du Liban par Israël, le Commandement général du FPLP d’Ahmed Jibril a capturé trois soldats de l’armée israélienne ; trois ans plus tard, dans le cadre de ce qui a été appelé l’accord Jibril, Israël et le FPLP-CG sont finalement parvenus à un accord d’échange de prisonniers : trois soldats contre 1 150 prisonniers palestiniens. Dans l’accord de 2011 pour la libération de Gilad Shalit, capturé par le Hamas en 2006, le taux d’échange était encore plus favorable aux Palestiniens : 1 027 prisonniers pour un seul soldat israélien.
    Directive Hannibal

    Anticipant de devoir conclure de nombreux accords de ce type, Israël s’est mis à arrêter arbitrairement davantage de Palestiniens, y compris des mineurs, afin d’augmenter ses atouts en vue d’un échange futur. Il a également conservé les corps de combattants palestiniens, qui devaient être restitués dans le cadre d’un éventuel échange. Tout cela renforce l’idée que la vie d’un colonisateur vaut mille fois plus que la vie d’un colonisé, calcul qui évoque inévitablement l’histoire du #colonialisme et du commerce d’êtres humains. Mais ici, le taux de change est mobilisé par les Palestiniens pour inverser la profonde asymétrie coloniale structurelle.

    Tous les États ne traitent pas de la même manière la capture de leurs soldats et de leurs citoyens. Les Européens et les Japonais procèdent généralement à des échanges secrets de prisonniers ou négocient des rançons. Les États-Unis et le Royaume-Uni affirment publiquement qu’ils ne négocient pas et n’accèdent pas aux demandes des ravisseurs et, bien qu’ils n’aient pas toujours respecté cette règle à la lettre, ils ont privilégié l’abstention et le silence lorsqu’une opération de sauvetage semblait impossible.

    Cette attitude est considérée comme un « moindre mal » et fait partie de ce que les théoriciens des jeux militaires appellent le « jeu répété » : chaque action est évaluée en fonction de ses éventuelles conséquences à long terme, les avantages d’obtenir la libération d’un prisonnier étant mis en balance avec le risque que l’échange aboutisse à l’avenir à la capture d’autres soldats ou civils.

    Lorsqu’un Israélien est capturé, sa famille, ses amis et ses partisans descendent dans la rue pour faire campagne en faveur de sa libération. Le plus souvent, le gouvernement y consent et conclut un accord. L’armée israélienne déconseille généralement au gouvernement de conclure des accords d’échange, soulignant le risque pour la sécurité que représentent les captifs libérés, en particulier les commandants de haut rang, et la probabilité qu’ils encouragent les combattants palestiniens à prendre davantage d’otages. Yahya Sinwar, qui est aujourd’hui le chef du Hamas, a été libéré dans le cadre de l’#accord_Shalit. Une importante campagne civile contre ces échanges a été menée par le mouvement religieux de colons #Gush_Emunim, qui y voyait une manifestation de la fragilité de la société « laïque et libérale » d’Israël.

    En 1986, à la suite de l’#accord_Jibril, l’armée israélienne a publié la directive controversée Hannibal, un ordre opérationnel secret conçu pour être invoqué lors de la capture d’un soldat israélien par une force armée irrégulière. L’armée a nié cette interprétation, mais les soldats israéliens l’ont comprise comme une autorisation de tuer un camarade avant qu’il ne soit fait prisonnier. En 1999, #Shaul_Mofaz, alors chef de l’état-major général, a expliqué cette politique en ces termes : « Avec toute la douleur que cela implique, un soldat enlevé, contrairement à un soldat tué, est un problème national. »

    Bien que l’armée ait affirmé que le nom de la directive avait été choisi au hasard par un programme informatique, il est tout à fait approprié. Le général carthaginois Hannibal Barca s’est suicidé en 181 avant J.-C. pour ne pas tomber aux mains des Romains. Ceux-ci avaient fait preuve d’une détermination similaire trente ans plus tôt : lorsque Hannibal tenta d’obtenir une rançon pour les soldats qu’il avait capturés lors de sa victoire à Cannes, le Sénat, après un débat houleux, refusa et les prisonniers furent exécutés.

    Le 1er août 2014, lors de l’offensive sur Gaza connue sous le nom d’« #opération_Bordure_protectrice », des combattants palestiniens ont capturé un soldat de Tsahal près de Rafah, et la #directive_Hannibal est entrée en vigueur. L’armée de l’air a bombardé le système de tunnels où avait été emmené le soldat, tuant 135 civils palestiniens, dont des familles entières. L’armée a depuis annulé la directive. Toutefois, la plupart des bombardements actuels vise les #tunnels où se trouvent les postes de commandement du Hamas et les otages : le gouvernement semble ainsi, par ces bombardements aveugles, non seulement menacer les Gazaouis d’une #destruction sans précédent, mais aussi revenir au principe de préférer des captifs morts à un accord. #Bezalel_Smotrich, ministre israélien des finances, a appelé à frapper le Hamas « sans pitié, sans prendre sérieusement en considération la question des captifs ». #Gilad_Erdan, ambassadeur d’Israël auprès des Nations unies, a déclaré que les otages « ne nous empêcheraient pas de faire ce que nous devons faire ». Mais dans cette guerre, le sort des #civils de Gaza et des Israéliens capturés est étroitement lié, tout comme celui des deux peuples.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/041123/taux-de-change-retour-sur-la-politique-israelienne-des-otages
    #Israël #Palestine #Eyal_Weizman #à_lire

  • Des #fouilles_corporelles « sexualisées » frappent les migrants aux frontières de l’Europe

    Déshabillés, humiliés, maltraités. Des femmes et des hommes venus demander asile racontent avoir subi des fouilles corporelles et génitales brutales, effectuées par des personnes censées garder les frontières de l’UE en Grèce.

    Corfou (Grèce).– Clémentine Ngono* n’a jamais voulu venir en Europe. Cependant, des expériences répétées de violence et d’agression l’ont forcée à fuir. D’abord son pays d’origine, le Cameroun, puis la Turquie. Aux premières heures du 15 septembre 2021, elle est montée à bord d’un canot pneumatique gris, en compagnie de son mari, de son fils de six mois et de 33 autres personnes. Qui savaient que le voyage serait dangereux. Conscientes que les autorités grecques pourraient les refouler, elles ont tout de même tenté leur chance.

    Juste après le lever du soleil, le groupe a atteint l’île grecque de Samos. Très vite, un navire des gardes-côtes les a arrêtées. Un groupe d’hommes encagoulés les a embarquées. Une fois sur le bateau de la patrouille grecque, les personnes ont été mises à genoux puis, une par une, ont reçu l’ordre de se lever et de se déshabiller devant tout le monde. Celles et ceux qui osaient résister ont été menacé·es et battu·es, leurs vêtements arrachés et déchirés. Une fois toutes les personnes nues, l’un des hommes masqués a commencé la fouille au corps, n’hésitant pas à toucher les seins et les parties génitales des femmes.

    « Il nous fouillait partout », se souvient Clémentine Ngono, horrifiée, en pressant deux doigts l’un contre l’autre et en les pointant sur son abdomen. « C’est ainsi qu’il a mis sa main dans mon vagin », dit-elle en faisant une pause avant d’ajouter : « Et dans mon anus. » Les hommes, qui ont utilisé les mêmes gants en plastique pour fouiller tout le groupe, ont pris son téléphone et les 500 euros qu’elle avait sur elle.

    Plus tard, le groupe a été abandonné sur des radeaux de sauvetage en Méditerranée. Aujourd’hui encore, Clémentine Ngono ne peut oublier la honte qu’elle a ressentie. « C’était une telle humiliation », dit-elle lors d’un entretien en juillet 2023 à Corfou, où elle travaille pendant l’été comme femme de chambre. Clémentine Ngono a intenté une action en justice, déclarant que la fouille corporelle et génitale forcée était « extrêmement invasive et offensante ». Son cas pourrait toutefois s’inscrire dans une tendance plus large.

    Début 2023, le Comité contre la torture (CPT) du Conseil de l’Europe a critiqué les nombreux cas de mauvais traitements lors des « refoulements » aux frontières de l’Union européenne (UE). Selon son rapport, les autorités frontalières obligent parfois les demandeurs et demandeuses d’asile à repasser la frontière « entièrement nus ». Le Border Violence Monitoring Network, une coalition d’organisations non gouvernementales, fait état de pratiques similaires.

    De même, dans un rapport publié jeudi 2 novembre, Médecins sans frontières (MSF) a recueilli plusieurs témoignages de réfugié·es racontant des fouilles corporelles et génitales sexualisées par de supposés gardes-frontières. Ces derniers obligeraient les demandeurs et demandeuses d’asile à se déshabiller avant de procéder à des fouilles vaginales et anales en public, parfois sans changer de gants. Les fouilles des femmes seraient effectuées par des hommes, comme dans le cas de Clémentine Ngono.
    « Le but était de nous humilier »

    Mediapart s’est entretenu avec plusieurs victimes, des avocats, des ONG, et a examiné des documents internes de l’agence européenne de gardes-côtes Frontex. L’image qui en ressort est celle d’une pratique normalisée : celle de mises à nu et de fouilles génitales forcées lors des refoulements par les autorités frontalières grecques. Ces pratiques semblent avoir un objectif central : dissuader les personnes de réessayer tout en volant leurs objets de valeur et leur argent.

    Meral Şimşek jette sa cigarette à moitié consumée et acquiesce. Cela fait un an que la poétesse kurde est arrivée à Berlin (Allemagne). Meral Şimşek, critique véhémente du régime d’Erdoğan, a été confrontée toute sa vie à la violence et à la persécution des autorités turques. En 2021, les choses ont empiré, elle a alors décidé de quitter son pays.

    Le 29 juin 2021, elle a traversé le fleuve Évros en compagnie d’une femme syrienne, Dicle. « Nous sommes arrivées sur le sol grec », dit-elle dans une vidéo qu’elle a enregistrée au crépuscule. Après plusieurs heures, les deux femmes ont atteint Feres, une petite ville frontalière grecque. Meral Şimşek voulait demander l’asile, mais la police grecque les a interpellées à l’entrée de la ville.

    Après les avoir détenues et battues, les policiers ont emmené les deux femmes dans la rue. Là, ils ont forcé Meral Şimşek à se déshabiller. Ensuite, une policière a fouillé ses parties génitales, en pleine rue. « Ils ont regardé directement dans mon vagin », raconte-t-elle. Pendant ce temps, les autres policiers regardaient. Şimşek se souvient que certains ont fait des commentaires en grec en regardant son corps. Ils ont ensuite fouillé Dicle avec les mêmes gants en plastique. Puis les deux femmes ont été livrées à un groupe d’hommes masqués et reconduites de force en Turquie. « Le but était de nous humilier », dit-elle.

    Du côté des autorités grecques, ni le ministère de l’intérieur ni le ministère des migrations et de l’asile n’ont commenté ces allégations. Les gardes-côtes grecs ont déclaré que « les pratiques opérationnelles des autorités grecques n’incluent pas de telles méthodes », car elles seraient contraires à l’article 257 du Code de procédure pénale grec.

    Interrogée sur les allégations de fouilles corporelles et génitales forcées, Frontex a déclaré à Mediapart qu’elle « avait connaissance d’une poignée de cas de ce type en Grèce et en Bulgarie ».
    Des témoignages connus de Frontex

    Mediapart a pu avoir accès à plusieurs rapports internes du responsable des droits fondamentaux de Frontex, qui contiennent des allégations et des descriptions de mises à nu forcées, principalement à la frontière de l’Évros. Dans un « rapport d’incident grave » (SIR) portant le numéro 10142/2018, daté du 18 novembre 2018, Frontex indique qu’un groupe de réfugiés aurait été repoussé par les autorités grecques après avoir été agressé physiquement et « obligé à se déshabiller ».

    Le rapport SIR 13400/2022, qui concerne une série de refoulements par les autorités grecques en juillet et août 2022, rapporte que des migrants ont été « forcés de repasser par la rivière après que leurs effets personnels leur ont été confisqués, après avoir été déshabillés et battus ».

    Le rapport SIR 15314/2022 du 30 mai 2023 décrit plusieurs refoulements sur le fleuve Évros. Selon ce rapport, un migrant a été « soumis à des violences physiques, mis à nu de force, ses biens ont été volés ou détruits, avant qu’il reçoive l’ordre de retourner irrégulièrement en Turquie » par les autorités grecques.

    Frontex considère elle-même que les déclarations contenues dans le rapport sont « relativement crédibles ». Si les témoignages sont confirmés, l’agence européenne affirme que cela constituerait « probablement une expulsion collective interdite et un traitement inhumain et dégradant ».

    À Samos, l’avocate Ioanna Begiazi ouvre la porte de son cabinet, dans la vieille ville de Vathi. Elle se souvient du cas de Clémentine Ngono. « Elle est venue nous voir parce qu’elle voulait agir », dit-elle. Et le cas de Clémentine Ngono n’est pas isolé.

    Ioanna Begiazi représente régulièrement des victimes de refoulements illégaux. « Les femmes, en particulier, nous disent que les fouilles génitales sont très fréquentes », explique-t-elle. Mais les hommes sont également concernés, ajoute-t-elle. « Il s’agit d’une forme d’humiliation et de dissuasion », explique Ioanna Begiazi. Une humiliation qualifiée par l’avocate de « sexualisée », et qui aurait pour but de décourager les migrant·es de franchir à nouveau la frontière.

    Ioanna Begiazi explique que les fouilles à nu ne sont en soi pas interdites en Grèce. Mais il faudrait qu’il y ait une raison sérieuse pour une telle intervention, comme des preuves concrètes qu’un acte criminel a été commis. Et même si c’était le cas, il existe de nombreuses réglementations. Les fouilles corporelles doivent notamment être conformes aux règles d’hygiène, les agents qui les pratiquent doivent donc changer de gants pour chaque personne qu’ils fouillent.

    Elles doivent aussi être effectuées dans le respect des droits personnels et de la dignité humaine de l’individu. De plus, les fouilles sont censées se dérouler dans un environnement protégé, en aucun cas devant d’autres personnes, afin de garantir le respect de la vie privée. Enfin, elles doivent être réalisées par des personnes du même sexe sans usage ou menace de violence physique.

    La Cour européenne des droits de l’homme (CEDH) a statué en 2001 que les fouilles corporelles effectuées par les forces de l’ordre peuvent être justifiées dans certains cas. Par exemple, si elles permettent d’empêcher des infractions pénales. Cependant, les déshabillages forcés et les fouilles génitales, qui laissent aux victimes « des sentiments d’angoisse et d’infériorité propres à les humilier et à les avilir », violent l’article 3 de la Convention européenne des droits de l’homme.

    Les témoignages des demandeurs et demandeuses d’asile qui dénoncent des mises à nu et des fouilles génitales forcées conduisent les expert·es des droits humains à penser qu’il pourrait s’agir d’une violation de la Convention européenne des droits de l’homme.

    « C’est l’un des moyens de faire passer le message et de les dissuader », explique l’avocat spécialiste des droits humains Nikola Kovačević. Expert dans le domaine de la migration, le Serbe rapporte avoir également connaissance de cas de déshabillage forcé et de fouilles génitales par les autorités frontalières. Selon lui, elles sont destinées à envoyer un message : « Si vous revenez, cela se reproduira. »

    Kovačević estime que les fouilles corporelles et génitales sexualisées violent l’interdiction de la « torture, des traitements dégradants ou inhumains » ancrée dans la Convention de l’UE sur les droits de l’homme et la Convention des Nations unies contre la torture.

    « Les traitements inhumains et dégradants sont dirigés contre la dignité humaine, explique-t-il. Vous privez une personne de sa dignité, vous la forcez à s’agenouiller, vous lui crachez dessus, vous la déshabillez, vous créez une situation dans laquelle cette personne se sent inférieure. »

    Selon Nikola Kovačević, la frontière entre la torture et les traitements inhumains ou dégradants est parfois floue. Cependant, ces deux délits ont une caractéristique centrale en commun : juridiquement, ils ne permettent aucune exception. « Il n’existe aucune circonstance imaginable qui justifie d’infliger de la douleur et de la souffrance à une personne sans défense », explique l’avocat.

    À Corfou, Clémentine Ngono se lève, essuie la sueur de son front et regarde sa montre. Elle dit être épuisée. Fatiguée par les longues heures de travail à l’hôtel, les factures impayées, le sentiment de culpabilité, par la séparation physique avec son mari, dont la demande d’asile a été rejetée.

    Clémentine Ngono dit qu’elle n’aime pas vraiment parler de ce qu’elle a vécu. Cependant, il est important pour elle que des choses similaires n’arrivent pas à d’autres. « Nous avons besoin de gens qui ont le courage de parler », dit-elle. Sinon, rien ne changera. Pour elle, c’est pénible de parler de ce qui s’est passé mais, dit-elle, « si je peux aider les autres, je le ferai ».

    https://www.mediapart.fr/journal/international/031123/des-fouilles-corporelles-sexualisees-frappent-les-migrants-aux-frontieres-

    #migrations #asile #réfugiés #violence #Grèce #humiliation #mauvais_traitements #organes_génitaux #nudité #fouille_au_corps #honte #fouilles_génitales #gardes-frontières #refoulements #push-backs #vol #Evros #Samos #dissuasion #femmes #humiliation_sexualisée #dignité #déshabillage #dignité_humaine

  • #Ta-Nehisi_Coates Speaks Out Against Israel’s “Segregationist Apartheid Regime” After West Bank Visit

    As pressure builds for a ceasefire after 27 days of Israel’s bombardment of Gaza, author and journalist Ta-Nehisi Coates joins us in a broadcast exclusive interview to discuss his journey to Palestine and Israel and learning about the connection between the struggle of African Americans and Palestinians. “The most shocking thing about my time over there was how uncomplicated it actually is,” says Coates, who calls segregation in Palestine and Israel “evil.” “There’s no way for me, as an African American, to come back and stand before you, to witness segregation and not say anything about it.” Coates acknowledges the suppression of those advocating for Palestinian rights but says this is not new for Black writers and journalists. “I have to measure my fear against the misery that I saw.”

    https://www.democracynow.org/2023/11/2/ta_nehisi_coates

    extraits avec sous-titres en français ici :

    "J’ai passé 10 jours en Palestine, dans les #territoires_occupés et en Israël proprement dit. (...) Je pense que ce qui m’a le plus choqué, c’est que dans tous les éditoriaux ou reportages que j’ai lus sur Israël et sur le conflit avec les Palestiniens, il y a un mot qui revient tout le temps et c’est celui de « #complexité ». (...) Je m’attendais à une situation dans laquelle il était difficile de discerner le bien et le mal, difficile de comprendre la dimension morale, difficile de comprendre le conflit. Et ce qui était peut-être le plus choquant, c’est que j’ai immédiatement compris ce qui se passe là-bas. Le meilleur exemple qui me vient à l’esprit est probablement le deuxième jour, lorsque nous sommes allés à Hébron et que la réalité de l’#occupation est devenue évidente. Nous sortions de Jérusalem-Est en voiture. J’étais avec PalFest, et nous sortions de Jérusalem-Est pour aller en Cisjordanie. Et vous pouviez voir les colonies, ils nous les montraient du doigt. Je me suis soudain rendu compte que je me trouvais dans une région du monde où certaines personnes pouvaient voter et d’autres non. Et cela m’était évidemment très familier. Je suis arrivé à Hébron, notre groupe d’écrivains est sorti, et un guide palestinien nous a fait visiter la ville. Nous sommes arrivés dans une rue et il nous a dit : ’Je ne peux pas marcher dans cette rue. Si vous voulez continuer, vous devez continuer sans moi’. (...) Hébron est très pauvre. (...) Son marché était fermé, mais il y a quelques vendeurs que je voulais soutenir. Je marchais pour atteindre le vendeur, et j’ai été arrêté à un #checkpoint. Il y a des checkpoints dans toute la ville, dans toute la Cisjordanie. Votre #liberté_de_circulation est totalement restreinte, et la liberté de circulation des Palestiniens est totalement restreinte. Et comme je me dirigeais vers le checkpoint, un garde israélien en est sorti, probablement de l’âge de mon fils. Et il m’a dit : ’Quelle est ta #religion, l’ami ?’ Et j’ai répondu : ’Je ne suis pas vraiment religieux’. (...) Et il m’a apparu clairement que si je ne professais pas ma religion, et la bonne religion, je n’allais pas être autorisé à passer. Il m’a dit : ’D’accord, quelle était la religion de tes parents ?’ J’ai répondu qu’ils n’étaient pas très religieux non plus. Il a dit : ’Quelle était la religion de tes grand-parents ?’. J’ai répondu : ’Ma grande-mère était chrétienne’. Et il m’a laissé passer. J’ai alors compris très clairement ce qui se passait là-bas. Et je dois dire que cela m’était assez familier. J’étais dans un territoire où votre #mobilité était entravée, où votre droit de vote est entravé, où votre droit à l’eau est entravé, où votre droit au logement est entravé, et tout cela sur la base de l’#appartenance_ethnique. Et cela m’a semblé extrêmement familier. Et donc, ce qui m’a plus choqué pendant mon séjour là-bas, c’est de voir à quel point, en fait, les choses ne sont pas compliquées. Je ne dis pas que les détails ne sont pas compliqués, l’histoire est toujours compliquée. Les événements du présents sont toujours compliqués, mais la façon dont les médias occidentaux en rendent compte donnent l’impression qu’il faut un doctorat en études moyen-orientales pour comprendre la #moralité élémentaires du maintien d’un peuple dans une situation dans laquelle ne dispose pas de #droits_fondamentaux, y compris le droit que nous chérissons plus, le droit de suffrage, le droit de vote. Et déclarer ensuite que cet Etat est une #démocratie. (...) C’est en effet assez familier pour ceux qui d’entre nous connaissent l’histoire afro-américaine.
    (...)
    Martin Luther King a passé sa vie à lutter contre la ségrégation. Israël est une société marquée par la ségrégation. Les territoires occupés sont marqués par la ségrégation. (...) Il y a des panneaux pour indiquer où certaines personnes peuvent aller. Il y a des #plaques_d'immatriculation différentes qui interdisent à certaines personnes d’aller à certains endroits. Les autorités vous diront qu’il s’agit d’une #mesure_de_sécurité. Mais si vous revenez à l’#histoire de #Jim_Crow, dans ce pays, elles vous diront exactement la même chose. Les gens ont toujours de bonnes raisons, en dehors de ’je déteste’ et ’je ne t’aime pas’ pour justifier leur droit d’imposer un #régime_oppressif à d’autres personnes. (...)
    J’ai grandi dans une époque et dans un endroit où je ne comprenais pas vraiment l’éthique de la #non-violence. Et par éthique, j’entends que la #violence en elle-même est corruptrice, qu’elle corrompt l’âme. Et je n’avais pas vraiment compris cela. Si je suis vraiment honnête avec vous, autant je voyais ma relation avec le peuple palestinien, et autant la nature de cette relation était claire, il était également clair qu’il y avait une sorte de relation avec le peuple israélien, et ce n’était pas une relation que j’appréciais particulièrement. Parce que je comprenais la #rage qui naît d’un passé d’#oppression. Je comprenais la #colère. Je comprenais le sentiment d’#humiliation que l’on ressent lorsque des personnes vous soumettent à une oppression multiple, à un #génocide, et que les gens détournent le regard. Je suis la descendance de 250 ans d’#esclavage, je viens d’un peuple où la violence sexuelle et le viol sont inscrits dans nos os et dans notre ADN. Et je comprends comment, lorsque vous avez l’impression que le monde vous a tourné le dos, vous pouvez alors tourner le dos à l’éthique du monde. Mais j’ai également compris à quel point cela peut être corrupteur. J’écoutais hier soir (...) être interviewé et le journaliste lui a demandé combien d’enfants, combien de personnes devaient être tués pour justifier cette opération. Est-ce qu’il y a un seuil au nombre de personnes tuées au-delà duquel on se dit : ’C’est trop, ça n’est pas possible, ça ne justifie pas’. Et ce membre du congrès ne pouvait pas donner de chiffre. Et je me suis dit que cet homme avait été corrompu. Cet homme s’est perdu. Il s’est perdu dans l’humiliation. Il s’est perdu dans la #vengeance. Il s’est perdu dans la violence. J’entends toujours ce terme répété encore et encore, le ’#droit_de_se_défendre'. Et le #droit_à_la_dignité ? Et le droit à la #moralité ? Et le droit d’être capable de dormir la nuit ? Parce que je sais, c’est que si j’étais complice, et je le suis, de #bombardements d’enfants, de bombardements de camps de réfugiés, peu importe qui s’y trouve, j’aurais du mal à dormir la nuit. Et je m’inquiète pour l’âme des gens qui peuvent faire cela et qui peuvent dormir la nuit.

    https://twitter.com/caissesdegreve/status/1720224934964699412

    #à_écouter #à_lire #Israël #Palestine #apartheid #Cisjordanie #visite #ségrégation #apartheid #droit_de_vote

  • Impunité

    Impunité. Hélène Devynck, journaliste et scénariste, est une des victimes ayant dénoncé Patrick Poivre d’Arvor, ex-présentateur du journal de 20h de TF1. La première à avoir soutenu publiquement Florence Porcel, première accusatrice de l’animateur, elle a écrit ce livre indispensable après le classement sans suite prononcé par la justice.

    Invitée de notre onzième « Lundi de Prostitution et Société » le 9 octobre, Hélène Devynck a donné une terrifiante vue d’ensemble de l’impunité des agresseurs. Ecrire son livre était pour elle un moyen de faire entendre la voix des victimes, et de construire, dans la sororité, un autre récit.

    « C’était comme se jeter du haut d’une falaise », dit-elle en expliquant ce que représente le fait de prendre la parole publiquement. Ce saut était pourtant indispensable, après presque 30 ans d’enfouissement de ce traumatisme dont elle ne pensait pas pouvoir parler un jour.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/11/02/impunite

    #féminisme #violence

  • Thousands of Palestinian Workers Have Gone Missing in Israel

    Thousands of Palestinian day laborers from Gaza are stranded in Israel amid the explosion in #violence. Israel has revoked their work permits, and their families fear they may be imprisoned — or worse.

    There are few groups in history who have suffered as many waves of dispossession and displacement in such a short period as the Palestinian people. On May 15, 1948, over 700,000 Palestinians were driven out of their homeland and over 500 Palestinian villages were destroyed in what is known as the Nakba or “catastrophe.”

    The Nakba isn’t a fixed historical event but an ongoing phenomenon characterized by seventy-five years of occupation, colonial violence, and displacement. The Gaza Strip, one of the most densely populated places on earth, is home to many of these refugees — some still have the keys to their former homes. The past three weeks have been particularly difficult; over 8,000 Palestinians have been killed by Israeli bombardments on mosques, schools, hospitals, and residential buildings.

    Since 2007, Gaza has been economically suffocated by a siege that stops food, medicine, and construction materials from getting in. The unemployment rate stands at 47 percent. It’s why so many have jumped at the opportunity since October 2021 to access work permits to earn a living as day laborers in Israel. The process of applying for a work permit is arduous and unpredictable. Israel issues these permits through a quota system, and many applicants are denied. Those who secure permits face daily challenges, including long waits at border crossings, strict security checks, and grueling commutes. There are 19,000 Palestinians from Gaza in this position.

    Yasmin, a Palestinian trade union organizer, says these workers work the most undesirable, dangerous, and physically demanding jobs. “You go in, give your labor and go out. You are not considered part of the country. Permits are conditional on Palestinians working in specific industries where there is a lack of an Israeli workforce.”

    Those industries include construction, agriculture, and manufacturing. Serious injury rates are much higher than average, but the desperation to provide for your family means there is no luxury of choice.

    “It is intensive labor with high levels of precarity. There are many deaths in the construction sector. And there is an internal division of labor and power dynamic at play with Palestinian workers the lowest paid and most exploited.”
    Disappeared Workers

    When the latest wave of violence began three weeks ago, the Erez crossing into Gaza was completely closed off. Thousands of Palestinian laborers were stranded on the Israeli side, far from their families and with no source of income. Their work permits were revoked, leaving their lives in flux. It is a familiar pattern for Palestinians: displacement, dispossession, and uncertainty.

    “Some are missing, some are stranded, some have been arrested, and others have been deported to the West Bank,” explains Shaher Saed, general secretary of the Palestinian General Federation of Trade Unions (PGFTU). Saed and his colleagues in Ramallah have been attempting to support Palestinians from Gaza who have been estranged from their families, made homeless, and internally displaced yet again.

    Muhammad Aruri, head of legal affairs for the General Union of Palestinian Workers, tells us that Palestinian families are particularly worried about the condition of their loved ones who have gone missing. “There’s 5,000 that we don’t have any information about. We don’t know if they are dead or alive.”

    Locating these workers isn’t difficult for the Israeli state. As Yasmin explains, “The whole permit system is a surveillance system done in a specific kind of way to help the state locate people in these kinds of scenarios. The last report I heard is that there are 4,000 workers at the moment detained and being interrogated. The state is not letting these workers go back to their families. They are being detained and interrogated or are in the West Bank having to fend for themselves.”

    It is impossible to know how many Palestinian workers are in Israel and how many are detained, as Israeli authorities have failed to respond to enquiries by NGOs. It is estimated that at least 4,000 Palestinian workers from Gaza are currently held by Israeli authorities in undetermined locations, with little to no information about their condition, unclear legal status, and denied their right to legal representation.

    “In the middle of this horrible situation, the Israeli occupation army did not hesitate in inflicting all kinds of harm against the workers, especially those from Gaza who work in Israel,” says Saeed. “They were prevented from returning to their homes, expelled from their workplaces, and transferred to the West Bank without any shelters. This was done after they had been physically assaulted and had their personal belongings confiscated, such as their money, identity cards, and entry permits to Israel.”

    Saeed says the Palestinian General Federation of Trade Unions has received thousands of calls from concerned family members who have lost contact with relatives. “We were informed that many of the workers are under detention in Anatout military camp in northern occupied Jerusalem, under degrading and inhumane conditions. The PGFTU demands to release our workers and take steps to guarantee their safe return to their families. We appeal and call our colleagues and partners in the international trade unions for support and solidarity with the workers to eliminate injustice against them. We demand the Red Cross international make an immediate visit to Anatout detention to check on our workers’ conditions.”

    Some workers were allegedly dumped at West Bank checkpoints, went into nearby cities, and took shelter there. Many workers in Israel fled and sought to make their way to the West Bank, fearing for their safety.

    The detention of Palestinian workers could be unlawful, and Israeli human rights organizations such as Gisha have petitioned for further information on their location and condition.
    Economic Dependency

    In 2017, the Israeli government declassified thousands of pages of meeting transcripts from 1967. In the aftermath of the six-day war, where Israel captured the Gaza Strip, the Golan Heights, the Sinai Peninsula, and the West Bank, a great deal of discussion went on about what to do with these new territories. Using these documents, Dr Omri Shafer Raviv drew attention to how Israeli leaders sought to expand their control over newly occupied populations by bringing Palestinian workers into Israel.

    While the work permit system may provide temporary economic relief to Palestinians, it has created a cycle of dependency with which Israel can access a cheap supply of labor and exercise greater control over Palestinians. Coupled with a siege that prevents sustainable economic development, access to resources, and trade, Palestinians in Gaza are economically subjugated.

    The mobility of Palestinian workers is often restricted at checkpoints where they face frequent interrogation and are often late or miss shifts altogether, incurring significant financial loss. All Palestinian trade passes through Israeli borders and checkpoints. It means much higher logistics costs — crippling Palestinian businesses and forcing many to close.

    The small proportion of workers who are granted work permits have no legal recourse or medical cover and work in industries with a high risk of accidents. They are frequently mistreated by employers who are well aware that Palestinian workers are without the most basic rights and protections.

    The plight of these workers is emblematic of the broader challenges Palestinians face. The economic hardships, insecurity, and exploitation they endure serve as a stark reminder of the urgent need to end the siege on Gaza and the occupation more broadly.

    https://jacobin.com/2023/10/palestinian-workers-missing-detained-israel-occupation-gaza

    #disparus #travailleurs_palestiniens #Palestine #Israël #disparitions #7_octobre_2023 #travail #permis_de_travail

  • Face à l’intensification du travail, les jeunes plongent dans un malaise profond : « Je m’enfonçais dans le travail, je n’avais plus de distance »


    PAUL BOUTEILLER

    Tâches absurdes, rythme intense, précarité de l’emploi, absence de seniors pour les guider… les transformations du monde professionnel génèrent de la souffrance chez les jeunes salariés. Le nombre d’arrêts-maladie explose chez les moins de 30 ans.

    Lorsque Robin (certains prénoms ont été modifiés) se rend chez son médecin, courant 2022, il ne pense pas en ressortir avec un #arrêt_de_travail. A seulement 27 ans, cette option ne semble même pas pouvoir traverser l’esprit de ce chef de projet dans une agence de création de sites Web. « J’avais poussé la porte de son cabinet pour avoir des somnifères, dans l’espoir de retrouver le sommeil et de continuer à fonctionner au boulot. » Mais le fait est qu’il ne peut plus continuer, l’alerte alors le professionnel de #santé. Robin a été essoré par le surcroît de travail dans la start-up où il est salarié, qui connaît alors une croissance fulgurante, au point d’avoir vu ses effectifs tripler en quelques mois et son portefeuille clients s’étoffer plus encore.

    Face à la pression mise sur son équipe, très jeune comme lui et peu accompagnée par des seniors, il a développé des symptômes d’anxiété professionnelle de plus en plus invalidants. Sans « les outils adéquats » et surtout « sans le temps nécessaire » pour répondre aux demandes grandissantes de #clients au profil nouveau, il passe ses nuits à se repasser les difficultés éprouvées dans la journée, et se rend le matin au travail la boule au ventre. Avant son arrêt, il se surprend à fondre en larmes à plusieurs reprises après des rendez-vous clients. « Dans le bureau du médecin, j’ai mesuré que la situation avait vraiment dérapé », souffle Robin, qui a dû être arrêté durant un mois.

    Etre contraints de se mettre sur pause dès le début de leur vie professionnelle : de nombreux jeunes diplômés y sont désormais confrontés. La santé au travail se dégrade ces dernières années, et en particulier pour les plus jeunes. Alors que le nombre d’arrêts-maladie atteignait un niveau record en 2022, comme le constataient deux études parues cet été, la progression la plus frappante concerne en effet les moins de 30 ans. Selon l’une d’elles, publiée par le cabinet de conseil WTW en août à propos du secteur privé, le taux d’absentéisme – un indicateur RH qui prend (notamment) en compte les #arrêts-maladie, les #accidents_de_travail, les #absences_injustifiées – dans cette tranche d’âge a augmenté de 32 % en quatre ans, avec un bond important chez les cadres.

    Si aucune de ces études ne détaille les motifs de ces absences, la Sécurité sociale note que les premières causes des arrêts longs prescrits en 2022 relevaient de troubles psychologiques, comme l’anxiété, la dépression ou l’épuisement. Et, en la matière, d’autres enquêtes concordent : les jeunes sont bien touchés de plein fouet par une dégradation. Chez les 18-34 ans, les arrêts liés à la souffrance au travail ont ainsi bondi de 9 %, en 2016, à 19 %, en 2022, selon un baromètre du groupe mutualiste Malakoff Humanis. La consommation de somnifères, d’anxiolytiques ou d’antidépresseurs par les salariés de moins de 30 ans a également doublé entre 2019 et 2022, précise cette étude.

    https://www.lemonde.fr/campus/article/2023/10/30/face-a-l-intensification-du-travail-les-jeunes-plongent-dans-un-malaise-prof
    https://archive.ph/yNJPw

    #précaires #présentéisme #management #intensification_du_travail #sous-effectifs #télétravail #concurrence #isolement #travail #précarité_de_l’emploi #emploi #santé_au_travail #violence_économique

    • En ce lundi, l’#armée_israélienne affirme avoir frappé, via les airs et au sol, plus de 600 cibles dans #Gaza ces vingt-quatre dernières heures. Dans le détail : « des dépôts d’armes, positions de lancement de missiles antichar, caches du #Hamas » et « des dizaines » de chefs du mouvement islamiste tués. Des chars israéliens sont postés à la lisière de #Gaza_City et le principal axe routier nord-sud est coupé. C’est vendredi en fin de journée que l’État hébreu a lancé son opération d’envergure, annoncée depuis près de deux semaines déjà. Mêlant #incursions_terrestres localisées – surtout dans le nord de l’enclave palestinienne – et #bombardements intensifiés. Samedi, le Premier ministre israélien Benyamin Netanyahou a prévenu : la #guerre sera « longue et difficile ».

      Vendredi, 17 h 30. La #bande_de_Gaza plonge dans le noir. Plus d’électricité, plus de réseau téléphonique, ni de connexion internet. Le #black-out total. Trente-six heures de cauchemar absolu débutent pour les Gazaouis. Coupés du monde, soumis au feu. L’armée israélienne pilonne le territoire : plus de 450 bombardements frappent, aveugles. La population meurt à huis clos, impuissante. Après avoir quitté Gaza City au début de la riposte israélienne (lire l’épisode 1, « D’Israël à Gaza, la mort aux trousses »), Abou Mounir vit désormais dans le centre de la bande de Gaza, avec ses six enfants. Ce vendredi, il est resté cloîtré chez lui. Lorsqu’il retrouve du réseau, le lendemain matin, il est horrifié par ce qu’il découvre. « Mon quartier a été visé par des tirs d’artillerie. L’école à côté de chez moi, où sont réfugiées des familles, a été touchée. Devant ma porte, j’ai vu tous ces blessés agonisants, sans que personne ne puisse les aider. C’est de la pure #folie. Ils nous assiègent et nous massacrent. Cette façon de faire la guerre… On se croirait au Moyen-Âge », souffle le père de famille, qui dénonce « une campagne de #vengeance_aveugle ». L’homme de 49 ans implore Israël et la communauté internationale d’agir urgemment. « La seule et unique solution possible pour nous tous, c’est la #solution_politique. On l’a répété un million de fois : seule une solution politique juste nous apportera la paix. »

      Toujours à Gaza City avec sa famille, la professeure de français Assya décrit ce jour et demi d’#angoisse : « On se répétait : “Mais que se passe-t-il, que va-t-il nous arriver ?” On entendait les bombardements, boum, boum, boum… Ça n’arrêtait pas ! Ma petite-fille de 1 an, la fille de mon fils, quand il y avait de grosses explosions, elle pleurait. Alors nous, on faisait les clowns pour lui faire croire que c’était pour rire. Et elle se calmait… Chaque matin, c’est un miracle qu’on soit encore là… » Chaque jour aussi, Assya demande si nous, journalistes, en savons plus sur un cessez-le-feu.

      Plus de 8 000 Gazaouis ont péri, mais leurs suppliques résonnent dans le vide jusqu’à présent. Elles sont pourtant de plus en plus pressantes, face à la #situation_humanitaire qui se dégrade dramatiquement. Ce samedi, des entrepôts des Nations unies ont été pillés. « C’est le signe inquiétant que l’ordre civil est en train de s’effondrer après trois semaines de guerre et de #siège de Gaza. Les gens sont effrayés, frustrés et désespérés », a averti Thomas White, directeur des opérations de l’UNRWA, l’agence onusienne pour les réfugiés palestiniens. Assya confirme : l’un de ses cousins est revenu avec des sacs de sucre, de farine, des pois chiches et de l’huile. Quand elle lui a demandé d’où ça venait, il lui a raconté, le chaos à Deir Al-Balah, dans le sud de l’enclave. « Les gens ont cassé les portes des réserves de l’UNRWA, ils sont entrés et ont pris la farine pour se faire du pain eux-mêmes, car ils n’ont plus rien. La population est tellement en #colère qu’ils ont tout pris. » Depuis le 21 octobre, seuls 117 camions d’#aide_humanitaire (lire l’épisode 2, « “C’est pas la faim qui nous tuera mais un bombardement” ») ont pu entrer dans la bande de Gaza dont 33 ce dimanche), via le point de passage de Rafah au sud, à la frontière égyptienne. L’ONU en réclame 100 par jour, pour couvrir les besoins essentiels des Gazaouis. Le procureur de la Cour pénale internationale Karim Khan a averti : « Empêcher l’acheminement de l’aide peut constituer un #crime. […] Israël doit s’assurer sans délai que les #civils reçoivent de la #nourriture, des #médicaments. »

      Les corps des 1 400 victimes des attaques du 7 octobre sont dans une #morgue de fortune. Beaucoup ont subi des sévices, ont été brûlés. L’#horreur à l’état pur

      En écho à cette situation de plus en plus dramatique, Israël a intensifié sa guerre de la #communication. Pas question pour l’État hébreu de laisser le Hamas ni les Palestiniens gagner la bataille de l’émotion au sein des opinions. Depuis une dizaine de jours, les autorités israéliennes estiment que les médias internationaux ont le regard trop tourné vers les Gazaouis, et plus assez sur le drame du 7 octobre. Alors Israël fait ce qu’il maîtrise parfaitement : il remet en marche sa machine de la « #hasbara ». Littéralement en hébreu, « l’explication », euphémisme pour qualifier ce qui relève d’une véritable politique de #propagande. Mais cela n’a rien d’un gros mot pour les Israéliens, bien au contraire. Entre 1974 et 1975, il y a même eu un éphémère ministère de la Hasbara. Avant cela, et depuis, cette tâche de communication et de promotion autour des actions de l’État hébreu, est déléguée au ministère des Affaires étrangères et à l’armée.

      Un enjeu d’autant plus important face à cette guerre d’une ampleur inédite. C’est pourquoi, chaque jour de cette troisième semaine du conflit, l’armée israélienne a organisé des événements à destination de la #presse étrangère. Visites organisées des kibboutzim où les #massacres de civils ont été perpétrés : dimanche dans celui de Beeri, mercredi et vendredi à Kfar Aza, jeudi dans celui de Holit. Autre lieu ouvert pour les journalistes internationaux : la base de Shura, à Ramla, dans la banlieue de Tel Aviv. Elle a été transformée en morgue de fortune et accueille les 1 400 victimes des attaques du 7 octobre, afin de procéder aux identifications. Dans des tentes blanches, des dizaines de conteneurs. À l’intérieur, les corps. Beaucoup ont subi des sévices, ont été brûlés. L’horreur à l’état pur.

      Mais l’apogée de cette semaine de communication israélienne, c’est la convocation générale de la presse étrangère, lundi dernier, afin de visionner les images brutes des massacres. Quarante-trois minutes et quarante-quatre secondes d’une compilation d’images des GoPro embarquées des combattants du Hamas, des caméras de vidéosurveillance des kibboutzim, mais aussi des photos prises par les victimes avec leurs téléphones, ou par les secouristes. Le tout mis bout à bout, sans montage. Des images d’une violence inouïe. Une projection vidéo suivie d’une conférence de presse tenue par le porte-parole de l’armée israélienne, le général Daniel Hagari. Il le dit sans détour : l’objectif est de remettre en tête l’ignominie de ce qui s’est passé le 7 octobre dernier. Mais également de dire aux journalistes de mieux faire leur travail.

      Il les tance, vertement : « Vous ! Parfois, je prends trente minutes pour regarder les infos. Et j’ai été choqué de voir que certains médias essayent de COMPARER ce qu’Israël fait et ce que ces vils terroristes ont fait. Je ne peux pas comprendre qu’on essaye même de faire cette #comparaison, entre ce que nous venons de vous montrer et ce que l’armée fait. Et je veux dire à certains #médias qu’ils sont irresponsables ! C’est pour ça qu’on vous montre ces vidéos, pour qu’aucun d’entre vous ne puisse se dire que ce qu’ils font et ce que nous faisons est comparable. Vous voyez comment ils se sont comportés ! » Puis il enfonce le clou : « Nous, on combat surtout à Gaza, on bombarde, on demande aux civils d’évacuer… On ne cherche pas des enfants pour les tuer, ni des personnes âgées, des survivants de l’holocauste, pour les kidnapper, on ne cherche pas des familles pour demander à un enfant de toquer chez ses voisins pour les faire sortir et ensuite tuer sa famille et ses voisins devant lui. Ce n’est pas la même guerre, nous n’avons pas les mêmes objectifs. »

      Ce vendredi, pour finir de prouver le cynisme du Hamas, l’armée israélienne présente des « révélations » : le mouvement islamiste abriterait, selon elle, son QG sous l’hôpital Al-Shifa de Gaza City. À l’appui, une série de tweets montrant une vidéo de reconstitution en 3D des dédales et bureaux qui seraient sous l’établissement. Absolument faux, a immédiatement rétorqué le Hamas, qui accuse Israël de diffuser « ces mensonges » comme « prélude à la perpétration d’un nouveau massacre contre le peuple [palestinien] ».

      Au milieu de ce conflit armé et médiatique, le Président français a fait mardi dernier une visite en Israël et dans les territoires palestiniens. Commençant par un passage à Jérusalem, #Emmanuel_Macron a réaffirmé « le droit d’Israël à se défendre », appelant à une coalition pour lutter contre le Hamas dans « la même logique » que celle choisie pour lutter contre le groupe État islamique. Il s’est ensuite rendu à Ramallah, en Cisjordanie occupée, au siège de l’Autorité palestinienne. « Rien ne saurait justifier les souffrances » des civils de Gaza, a déclaré Emmanuel #Macron. Qui a lancé un appel « à la reprise d’un processus politique » pour mettre fin à la guerre entre Israël et le Hamas. Tenant un discours d’équilibriste, rappelant que paix et sécurité vont de pair, le Président a exigé la mise en œuvre de la solution à deux États, comme seul moyen de parvenir à une paix durable. Une visite largement commentée en France, mais qui a bien peu intéressé les Palestiniens.

      Car si les projecteurs sont braqués sur Israël et Gaza depuis le début de la guerre, les Palestiniens de #Cisjordanie occupée vivent également un drame. En à peine trois semaines, plus de 120 d’entre eux ont été tués, selon le ministère de la Santé de l’Autorité palestinienne. Soit par des colons juifs, soit lors d’affrontements avec les forces d’occupation israéliennes. Bien sûr, la montée de la #violence dans ce territoire avait commencé bien avant la guerre. Mais les arrestations contre les membres du Hamas, les raids réguliers menés par l’armée et les attaques de colons prennent désormais une autre ampleur. Ce lundi matin encore, l’armée israélienne a mené un raid sur le camp de Jénine, au nord de la Cisjordanie, faisant quatre morts. Selon l’agence de presse palestinienne Wafa, plus de 100 véhicules militaires et deux bulldozers sont entrés dans le camp. Déjà, mercredi dernier, deux missiles tirés depuis les airs en direction d’un groupe de personnes avait fait trois morts à #Jénine.

      À chaque mort de plus, la colère monte derrière les murs qui encerclent les Territoires. À Gaza, mais aussi en Cisjordanie

      À chaque mort de plus, la colère monte derrière le mur qui encercle les territoires palestiniens. Du sud, à Hébron, au nord, à Naplouse, en passant par Jénine et Ramallah, les #manifestations ont émaillé ces trois dernières semaines, s’intensifiant au fil du temps. À chaque fois, les Palestiniens y réclament la fin de l’#occupation, la mise en œuvre d’une solution politique pour un #accord_de_paix et surtout l’arrêt immédiat des bombardements à Gaza. Ce vendredi, quelques milliers de personnes s’étaient rassemblés à Ramallah. Drapeaux palestiniens à la main, « Que Dieu protège Gaza » pour slogan, et la rage au ventre. Yara était l’une d’entre eux. « Depuis le début de la guerre, le #traitement_médiatique en Europe et aux États-Unis est révoltant ! L’indignation sélective et le deux poids deux mesures sont inacceptables », s’énerve la femme de 38 ans. Son message est sans ambiguïté : « Il faut mettre un terme à cette agression israélienne soutenue par l’Occident. » Un sentiment d’injustice largement partagé par la population palestinienne, et qui nourrit sa colère.

      Manal Shqair est une ancienne militante de l’organisation palestinienne Stop The Wall. Ce qui se passe n’a rien de surprenant pour elle. La jeune femme, qui vit à Ramallah, analyse la situation. Pour elle, le soulèvement des Palestiniens de Cisjordanie n’est pas près de s’arrêter. « Aujourd’hui, la majorité des Palestiniens soutient le Hamas. Les opérations militaires du 7 octobre ont eu lieu dans une période très difficile traversée par les Palestiniens, particulièrement depuis un an et demi. La colonisation rampante, la violence des colons, les tentatives de prendre le contrôle de la mosquée Al-Aqsa à Jérusalem et enfin le siège continu de la bande de Gaza par Israël ont plongé les Palestiniens dans le #désespoir, douchant toute perspective d’un avenir meilleur. » La militante ajoute : « Et ce sentiment s’est renforcé avec les #accords_de_normalisation entre Israël et plusieurs pays arabes [les #accords_d’Abraham avec les Émirats arabes unis, Bahreïn, le Maroc et le Soudan, ndlr]. Et aussi le sentiment que l’#Autorité_palestinienne fait partie de tout le système de #colonialisme et d’occupation qui nous asservit. Alors cette opération militaire [du 7 octobre] a redonné espoir aux Palestiniens. Désormais, ils considèrent le Hamas comme un mouvement anticolonial, qui leur a prouvé que l’image d’un Israël invincible est une illusion. Ce changement aura un impact à long terme et constitue un mouvement de fond pour mobiliser davantage de Palestiniens à rejoindre la #lutte_anticoloniale. »

      #7_octobre_2023 #à_lire

    • Ma petite-fille de 1 an, la fille de mon fils, quand il y avait de grosses explosions, elle pleurait. Alors nous, on faisait les clowns pour lui faire croire que c’était pour rire.

      C’est exactement ce qu’on faisait ma femme et moi à notre fils de 4 ans en 2006 au Liban.

  • Le 18 novembre, j’agis contre les violences faites aux enfants et adolescents

    Collectif Enfantiste, « je ne veux plus vivre dans ce monde si papa continue de me taper ». Emma a 5 ans quand elle prononce ces mots. Malgré son courage et les démarches entrepris par son entourage, elle n’a pas été cru et protégée par les institutions qui doivent veiller à la sécurité des enfants. Carl avait 12 ans quand il s’est suicidé suite à de l’inceste paternel. Il a parlé. Son père avait déjà été condamné auparavant pour violences sexuelles sur sa grande sœur, Steffy. Lindsay avait aussi 13 ans quand elle s’est suicidée suite au harcèlement scolaire qu’elle subissait. Elle a parlé mais ça ne s’est pas arrêté. Pendant que les adultes revendiquent leurs droits et espèrent un meilleur avenir, très peu de personnes se tournent vers les enfants et les adolescents. Qui sont-ils ? Que vivent-ils ? Sont-ils des enfants rois et sur-gâtés comme la société voudrait nous le faire croire ? Les enfants et les adolescents sont partout. Dans la rue, dans les parcs, aux sorties d’école, dans les transports, ils sont en face de nous et nous ne les connaissons pas. Parce qu’ils sourient et s’amusent, nous nous imaginons qu’ils vont bien, parce qu’ils bougent et se mettent en colère, nous nous imaginons qu’ils sont rois – ça n’arrive pas qu’aux autres – 3 enfants par classe de 30 élèves sont victimes d’inceste. Si on comptabilise les enfants victimes de maltraitances et de toutes formes de violences, nous pouvons estimer 10 à 15 enfants par classe victimes de violences, au minimum. Il est temps de regarder en face cette réalité que nous préférons ignorer. Des milliers d’enfants, chaque année, sont victimes de l’impensable. Ils grandissent avec des marques invisibles qui les hantent, des souvenirs qui les poursuivent, des traumatismes qui les façonnent. Ils disent « Brisons le silence » mais le silence est rompu depuis bien longtemps. Les enfants parlent, les enfants hurlent, les enfants nous montrent des signes mais personne ne veut les voir. Ils disent « Nous croyons en la justice » ; allez dire ça aux milliers d’enfants qui ne sont pas protégés. Ils continueront d’être violés, tapés, négligés ou humiliés dans l’indifférence la plus totale. La justice ne suit plus, elle n’en a plus la possibilité, tout comme le secteur de la santé ou du social qui font face à une crise majeure. La France n’est plus en capacité de protéger les enfants, elle est même le 1er pays d’Europe hébergeur de pédopornographie. Les chiffres des violences faites aux enfants ne cessent d’augmenter, les condamnations, elles, diminuent. 73% des plaintes pour violences sexuelles sur personnes mineures sont classées sans suite. Derrière ces statistiques, il y a des bébés et des enfants, qui croient en un monde des adultes bienveillant, humain et qui répond à leurs besoins fondamentaux. Ils attendaient et attendent encore d’être entendus, crus et protégés.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/10/30/le-18-novembre-jagis-contre-les-violences-fait

    #violence #enfant

  • The hotspot approach in Greece and Italy

    The ’hotspot approach’ was presented by the European Commission as part of the European agenda on migration in April 2015, when record numbers of refugees, asylum-seekers and other migrants began arriving in the EU. The ’hotspots’ (first reception facilities) were intended to improve coordination of EU agencies’ and national authorities’ efforts at the external borders of the EU, in the initial reception, identification, registration and fingerprinting of asylum-seekers and migrants. Although other Member States also have the possibility to benefit from the hotspot approach, only Greece and Italy host hotspots. This approach was also designed to contribute to the temporary emergency relocation mechanisms that – between September 2015 and September 2017 – helped to transfer asylum-seekers from Greece and Italy to other EU Member States. Even though 96 % of the people eligible had been relocated by the end of March 2018, relocation numbers were far from the targets originally set and the system led to tensions with Czechia, Hungary and Poland, which refused to comply with the mechanism. Relocations to other EU Member States, especially under the new voluntary scheme established in June 2022, remain low. Since their inception, the majority of hotspots have suffered from overcrowding, and concerns have been raised by stakeholders with regard to camp facilities and living conditions – in particular for vulnerable migrants and asylum-seekers – and to gaps in access to asylum procedures. These shortcomings cause tensions among the migrants and with local populations and have already led to violent protests. On 8 September 2020, a devastating fire in the Moria camp on Lesvos only aggravated the existing problems. The European Parliament has called repeatedly for action to ensure that the hotspot approach does not endanger the fundamental rights of asylum-seekers and migrants. This briefing updates earlier ones published in March 2016, in June 2018 and September 2020.

    https://www.europarl.europa.eu/thinktank/en/document/EPRS_BRI(2023)754569

    #relocalisation #chiffres #asile #migrations #réfugiés #EU #Union_européenne #UE #hotspot #Grèce #Italie #violence

  • I confini non sono il luogo in cui accadono le violenze, sono il motivo per cui accadono le violenze
    https://www.meltingpot.org/2023/10/i-confini-non-sono-il-luogo-in-cui-accadono-le-violenze-sono-il-motivo-p

    Stazione di Sospel, Francia, ore 7.40. Nel paese della Val Roya passa il treno che collega Breil sur Roya a Nizza, all’interno poca gente. Appena il treno giunge alla stazione spuntano sette soldati e una dozzina di gendarmes. I militari circondano il treno, mitragliatrici in mano, mentre i poliziotti, a due a due, entrano nel treno, scrutano i passeggeri per rilevare soggettività razzializzate. Si fermano quando vedono due ragazzini, gli chiedono i documenti. I ragazzi glieli mostrano, vanno bene, i poliziotti scendono e il treno riparte. Stazione di Menton Garavan, Francia, ore 15.00. La situazione è identica, il treno (...)

  • #Of_Land_and_Bread

    « #B'Tselem – le centre israélien d’information pour les droits de l’homme dans les #territoires_occupés – a promu en 2007 un projet qui consistait à donner des caméras vidéo aux Palestinien.ne.s en Cisjordanie afin qu’ils/elles puissent documenter les violations des droits de l’homme qu’ils étaient contraint.e.s de subir sous l’occupation israélienne. Ces #enregistrements_vidéo bruts capturent de la manière la plus simple et la plus efficace les abus quotidiens et implacables commis à répétition par les colons illégaux et l’armée contre les Palestinien.ne.s. Au fil des ans, tous ces films sont devenus des #archives vivantes et malheureusement en constante expansion des #abus incessants et de la violence dont souffre la population palestinienne et avec lesquels elle doit vivre. Of Land and Bread rassemble certains de ces courts métrages dans un long métrage documentaire qui n’est indéniablement pas facile à regarder. La brutalité des colons et de l’armée n’épargne personne. Et pourtant, il est nécessaire de voir pour bien saisir et comprendre l’ampleur du cycle sans fin des violations des droits de l’homme auxquelles les Palestinien.ne.s sont confronté.e.s, alors que le monde regarde obstinément de l’autre côté. »


    https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/59534_0
    #film #documentaire #film_documentaire #Cisjordanie #Palestine #colonisation #Israël #terre #armée_israélienne #violence #humiliations #destruction #brutalité #arrestations_arbitraires #menaces #insultes #provocation #documentation #droits_humains #archive #à_voir

  • Violences sexistes et sexuelles sous les projecteurs à l’Université Bordeaux Montaigne
    https://academia.hypotheses.org/53011

    Violences sexistes et sexuelles. L’université de Bordeaux Montaigne dans la tourmente : “on a l’impression que toutes les paroles ne se valent pas”, par Julie Chapman, France 3 Nouvelle Aquitaine, 27 octobre 2023 Les faits remontent sur une période s’étendant de … Continuer la lecture →

  • « Contrôler » les migrations : entre laisser-mourir et permis de tuer

    À l’heure où le Conseil européen se réunit à Bruxelles, les 26 et 27 octobre 2023, pour évoquer, dans un monde en plein bouleversement, le renforcement des frontières européennes, le réseau Migreurop rappelle le prix exorbitant de cette #surenchère_sécuritaire et la #responsabilité accablante des États européens dans la #mise_en_danger constante des personnes en migration, qui tentent d’exercer leur #droit_à_la_mobilité au prix de leur vie.

    Depuis plus de 30 ans, la lutte contre l’immigration dite « clandestine » est la priorité des États européens, qui ont adopté diverses stratégies visant au fil des années à renforcer les #contrôles_migratoires et la sécuritisation des frontières des pays de destination, de transit et de départ. Quoi qu’il en coûte. Y compris au prix de vies humaines, les #morts_en_migration étant perçues par les autorités comme une conséquence dommageable de cette même « lutte ».

    Comme le dénonçait déjà Migreurop en 2009, « nombreuses sont les #frontières où tombent des dizaines de migrants, parfois tués par les #forces_de_l’ordre : des soldats égyptiens tirant à vue sur des Soudanais et des Érythréens à la frontière israélienne ; des soldats turcs abattant des Iraniens et des Afghans ; la marine marocaine provoquant sur les côtes d’Al Hoceima le naufrage de 36 personnes en partance pour l’Espagne (…) en perforant leur zodiac à coups de couteaux ; des policiers français à Mayotte faisant échouer volontairement des embarcations (Kwassa-kwassa) pour arrêter des migrants, engendrant ainsi la noyade de plusieurs d’entre eux. En Algérie, au Maroc, des migrants africains sont refoulés et abandonnés dans le désert, parfois miné, sans aucun moyen de subsistance » [1].

    Si l’objectif sécuritaire de #surveillance et #militarisation_des_frontières européennes reste le même, la stratégie mise en œuvre par les États européens pour ne pas répondre à l’impératif d’accueil des populations exilées a évolué au fil des années. Depuis des décennies, les « drames » se répètent sur le parcours migratoire. Ils ne relèvent en aucun cas de la #fatalité, de l’#irresponsabilité des exilé·e·s (ou de leurs proches [2]), du climat ou de l’environnement, de l’état de la mer, ou même d’abus de faiblesse de quelconques trafiquants, mais bien d’une politique étatique hostile aux personnes exilées, développée en toute conscience à l’échelle européenne, se traduisant par des législations et des pratiques attentatoires aux droits et mortifères : systématisation à l’échelle européenne des #refoulements aux portes de l’Europe [3], déploiement de dispositifs « anti-migrants » le long des frontières et littoraux (murs et clôtures [4], canons sonores [5], barrages flottants [6], barbelés à lames de rasoir [7], …), conditionnement de l’aide au développement à la lutte contre les migrations [8], #criminalisation du sauvetage civil [9]... Une stratégie qualifiée, en référence au concept créé par Achille Mbembe [10], de « #nécro-politique » lors de la sentence rendue par le Tribunal Permanent des Peuples en France, en 2018 [11].

    Déjà en août 2017, le rapport relatif à « la mort illégale de réfugiés et de migrants » de la rapporteuse spéciale du Conseil des droits de l’Homme onusien sur les exécutions extrajudiciaires, sommaires ou arbitraires, mettait en évidence « de multiples manquements des États en matière de respect et de protection du #droit_à_la_vie des réfugiés et des migrants, tels que des homicides illégaux, y compris par l’emploi excessif de la force et du fait de politiques et pratiques de #dissuasion aggravant le #danger_de_mort » [12].

    Mettant en place une véritable stratégie du #laisser-mourir, les États européens ont favorisé l’errance en mer en interdisant les débarquements des bateaux en détresse (Italie 2018 [13]), ont retiré de la mer Méditerranée les patrouilles navales au bénéfice d’une surveillance aérienne (2019 [14]), signe du renoncement au secours et au sauvetage en mer, ou en se considérant subitement « ports non-sûrs » (Italie et Malte 2020 [15]). Migreurop a également pointé du doigt la responsabilité directe des autorités et/ou des forces de l’ordre coupables d’exactions à l’égard des exilé·e·s (Balkans 2021 [16]), ou encore leur franche complicité (UE/Libye 2019 [17]).

    Le naufrage d’au moins 27 personnes dans la Manche le 24 novembre 2021 [18], fruit de la non-assistance à personnes en danger des deux côtés de la frontière franco-britannique, est une illustration de cette politique de dissuasion et du laisser-mourir. Le #naufrage de #Pylos, le 14 juin 2023, en mer Ionienne [19], est quant à lui un exemple d’action directe ayant provoqué la mort de personnes exilées. La manœuvre tardive (accrocher une corde puis tirer le bateau à grande vitesse) des garde-côtes grecs pour « remorquer » le chalutier sur lequel se trouvaient environ 700 exilé·e·s parti·e·s de Libye pour atteindre les côtes européennes, a probablement causé les remous qui ont fait chavirer le bateau en détresse et provoqué la noyade d’au moins 80 personnes, la mer ayant englouti les centaines de passager·e·s disparu·e·s.

    Le rapport des Nations unies de 2017 [20] pointe également les conséquences de l’#externalisation des politiques migratoires européennes et indique que « les autres violations du droit à la vie résultent de politiques d’extraterritorialité revenant à fournir aide et assistance à la privation arbitraire de la vie, de l’incapacité à empêcher les morts évitables et prévisibles et du faible nombre d’enquêtes sur ces morts illégales ». Le massacre du 24 juin 2022 aux frontières de Nador/Melilla [21], ayant coûté la vie à au moins 23 exilés en partance pour l’Espagne depuis le Maroc, désignés comme des « assaillants », 17 ans après le premier massacre documenté aux portes de Ceuta et Melilla [22], est un clair exemple de cette externalisation pernicieuse ayant entraîné la mort de civils. Tout comme les exactions subies en toute impunité ces derniers mois par les exilé·e·s Noir·e·s en Tunisie, en pleine dérive autoritaire, fruits du #racisme_structurel et du #marchandage européen pour le #contrôle_des_frontières [23].

    Nous assistons ainsi ces dernières années à un processus social et juridique de légitimation de législations et pratiques étatiques illégales visant à bloquer les mouvements migratoires, coûte que coûte, ayant pour conséquence l’abaissement des standards en matière de respect des droits. Un effritement considérable du droit d’asile, une légitimation confondante des refoulements – « légalisés » par l’Espagne (2015 [24]), la Pologne (2021 [25]) et la Lituanie (2023 [26]) –, une violation constante de l’obligation de secours en mer, et enfin, un permis de tuer rendu possible par la progressive #déshumanisation des personne exilées racisées, criminalisées pour ce qu’elles sont et représentent [27].

    Les frontières sont assassines [28] mais les États tuent également, en toute #impunité. Ces dernières années, il est manifeste que les acteurs du contrôle migratoire oscillent entre #inaction et action coupables, entre laisser-mourir (« let them drown, this is a good deterrence » [29]) et permis de tuer donné aux acteurs du contrôle frontalier, au nom de la guerre aux migrant·e·s, ces dernier·e·s étant érigé·e·s en menace(s) dont il faudrait se protéger.

    Les arguments avancés de longue date par les autorités nationales et européennes pour se dédouaner de ces si nombreux décès en migration sont toujours les mêmes : la défense d’une frontière, d’un territoire ou de l’ordre public. Les #décès survenus sur le parcours migratoire ne seraient ainsi que des « dommages collatéraux » d’une #stratégie_de_dissuasion dans laquelle la #violence, en tant que moyen corrélé à l’objectif de non-accueil et de mise à distance, est érigée en norme. L’agence européenne #Frontex contribue par sa mission de surveillance des frontières européennes à la mise en danger des personnes exilées [30]. Elle est une composante sécuritaire essentielle de cette #politique_migratoire violente et impunie [31], et de cette stratégie d’« irresponsabilité organisée » de l’Europe [32].

    Dans cet #apartheid_des_mobilités [33], où la hiérarchisation des droits au nom de la protection des frontières européennes est la règle, les décès des personnes exilées constituent des #risques assumés de part et d’autre, la responsabilité de ces morts étant transférée aux premier·e·s concerné·e·s et leurs proches, coupables d’avoir voulu braver l’interdiction de se déplacer, d’avoir exercé leur droit à la mobilité… A leurs risques et périls.

    Au fond, le recul que nous donne ces dernières décennies permet de mettre en lumière que ces décès en migration, passés de « évitables » à « tolérables », puis à « nécessaires » au nom de la protection des frontières européennes, ne sont pas des #cas_isolés, mais bien la conséquence logique de l’extraordinaire latitude donnée aux acteurs du contrôle frontalier au nom de la guerre aux migrant·e·s 2.0. Une dérive qui se banalise dans une #indifférence sidérante, et qui reste impunie à ce jour...

    Le réseau Migreurop continuera d’œuvrer en faveur de la liberté de circulation et d’installation [34] de toutes et tous, seule alternative permettant d’échapper à cette logique criminelle, documentée par nos organisations depuis bien trop longtemps.

    https://migreurop.org/article3211.html
    #nécropolitique #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #guerre_aux_migrants

    • Ils sont devenus fou même la gendarmerie s’inquiète de cette nouvelle autorisation de tirer au LBD à bout portant. Ce lanceur de balles de défense crache des balles de caoutchouc à 250 km/h. Le ministère de l’Intérieur donne l’autorisation de tuer à ses supplétifs. C’était déjà le cas mais cette décision doit venir des multiples recours des précédentes victimes survivantes aux violences policières. La gueule ravagée de Hedi à Marseille ne leur a pas suffit. Ils auraient sans doute préféré qu’il soit mort. Voici la réponse de ce gouvernement de fou furieux à la condamnation des violences policières. Il change la loi. Si ça continu, la france va finir comme les states avec plus de flingues que d’habitants.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/271023/le-ministere-de-l-interieur-reduit-la-distance-de-tir-des-lbd-malgre-leur-

    • [Liberté de la police] Le ministère de l’intérieur réduit la distance de tir des LBD malgré leur dangerosité
      https://www.mediapart.fr/journal/france/271023/le-ministere-de-l-interieur-reduit-la-distance-de-tir-des-lbd-malgre-leur-

      Ces cinq dernières années, plus de 35 personnes ont été blessées et une tuée par des tirs de lanceur de balles de défense. Pourtant, dans ses instructions, le ministère de l’intérieur a abaissé la distance réglementaire. Une décision que la gendarmerie conseille de ne pas suivre.

      La liste des blessés ne cesse de s’allonger. Hedi à Marseille, Virgil à Nanterre, Nathaniel à Montreuil, Mehdi à Saint-Denis, Abdel à Angers : tous ont été grièvement touchés par un tir de lanceur de balles de défense après les révoltes suscitées par la mort de Nahel en juin dernier. Mediapart a cherché à savoir quelle était la distance minimum de sécurité que les policiers doivent respecter lorsqu’ils tirent au LBD.

      Le ministère de l’intérieur et la Direction générale de la police nationale ont mis un mois à nous répondre. Et pour cause, cette distance réglementaire a tout simplement été supprimée des récentes instructions, remplacée par une distance dite « opérationnelle » correspondant à celle du fabricant de munitions. Auparavant, pour tirer, un policier devait respecter une distance minimum de 10 mètres. Selon les informations collectées par Mediapart, elle est désormais passée à 3 mètres.

      Une décision dangereuse que la gendarmerie nationale déconseille de suivre.

      Gravement touché au cerveau par un tir de LBD dans la nuit du 1er au 2 juillet, à Marseille, Hedi, 22 ans, subit depuis de multiples interventions chirurgicales. C’est le cas encore en octobre, alors que la prochaine est prévue en novembre. À ce jour, déjà confronté à une potentielle paralysie, Hedi ne sait toujours pas s’il pourra conserver l’usage de son œil gauche.
      Il fait partie des nombreuses victimes du LBD, une arme utilisée par la police et les gendarmes depuis le début des années 2000 (en remplacement du #flashball, apparu à la fin des années 1990). Muni d’un canon de 40 millimètres, ce fusil tire des balles de caoutchouc à plus de 250 km/heure (plus de 73 m/seconde). Le ministère de l’intérieur qualifie le LBD_« d’arme de force intermédiaire », alors même qu’elle est classée « catégorie A2 », c’est-à-dire #matériel_de_guerre, aux côtés notamment des lance-roquettes. Une classification qui laisse peu de doute sur sa létalité.

      Des instructions ministérielles d’août 2017 précisent que « le tireur vise de façon privilégiée le torse ainsi que les membres inférieurs », cibler la tête étant interdit. Lorsqu’une personne est touchée, le policier doit s’assurer de son état de santé et la garder sous surveillance permanente.
      Comme le rappelle une note du ministère de l’intérieur adressée à l’ensemble des forces de l’ordre, en février 2019, les fonctionnaires habilités doivent faire usage du LBD, selon le cadre prévu par le Code pénal et celui de la sécurité intérieure,
      « dans le strict respect des principes de nécessité et de proportionnalité »_.

      Hormis en cas de légitime défense, c’est-à-dire lorsque l’agent, un de ses collègues ou une tierce personne est physiquement menacée, des sommations doivent précéder le tir, qui doit se faire à une distance réglementaire, en deçà de laquelle les risques de lésions sont irréversibles. Mais quelle est cette distance ?

      Une nouvelle munition pas moins dangereuse

      Notre enquête nous a conduits à compulser les instructions ministérielles que nous avons pu nous procurer. Il faut remonter à 2013 pour voir figurer que le LBD « ne doit pas être utilisé envers une personne se trouvant à moins de 10 mètres ».
      Depuis, dans les notes de 2017, 2018 ou 2019, nulle trace de recommandations concernant la distance minimum de sécurité. Seul le règlement de l’armement de dotation de la gendarmerie nationale, mis à jour le 1er septembre 2023, rappelle que « le tir en deçà de 10 mètres, uniquement possible en cas de légitime défense, peut générer des risques lésionnels importants ».
      Interrogée, la Direction générale de la police nationale (#DGPN) n’a pas su nous répondre sur la distance réglementaire, arguant que la doctrine d’emploi du LBD 40 faisait « actuellement l’objet d’une réécriture ». Seule précision, les unités de police utilisent une nouvelle munition, appelée la munition de défense unique (MDU), « moins impactante » que l’ancienne, nommée la Combined tactical systems (CTS).
      Certes, depuis 2019, la MDU, moins rigide et légèrement moins puissante, est majoritairement utilisée par les policiers. Pour autant, elle n’en reste pas moins dangereuse, comme l’attestent les graves blessures qu’elle a pu occasionner, notamment sur Hedi ou sur plusieurs jeunes qui ont perdu un œil lors des révoltes à la suite du décès de Nahel.

      Ce qui est dangereux, c’est que le ministère et la DGPN ont banalisé l’usage du LBD.
      Un commissaire de police

      C’est d’ailleurs la raison pour laquelle le Centre national d’entraînement des forces de gendarmerie (CNEFG) conseille de conserver, avec cette nouvelle munition, une distance minimum de 10 mètres. En effet, dans une note interne, datée du 12 septembre 2022, adressée à la Direction générale de la gendarmerie nationale (#DGGN), et que Mediapart a pu consulter, il est stipulé que « par principe de sécurité et de déontologie », il doit être rendu obligatoire pour les gendarmes de ne pas tirer au LBD à moins de 10 mètres.
      Selon un officier, « au sein de la gendarmerie, nous privilégions l’usage du LBD pour une distance de 30 mètres pour faire cesser une infraction s’il n’y a pas d’autres moyens de le faire. Lorsque le danger est plus près de nous, à quelques mètres, nous tentons de neutraliser l’individu autrement qu’en ayant recours au LBD ».
      Quand bien même la nouvelle munition représente une certaine avancée, étant « moins dure et donc susceptible de faire moins de blessures », « elle reste néanmoins puissante et dangereuse. Évidemment, d’autant plus si elle est tirée de près ».

      Un haut gradé de la gendarmerie spécialisé dans le #maintien_de_l’ordre insiste : « Cette nouvelle munition ne doit pas conduire à modifier la doctrine d’emploi du LBD, ni à un débridage dans les comportements. » Il rappelle que le LBD est « l’ultime recours avant l’usage du 9 mm. Son usage ne doit pas être la règle. Ce n’est pas une arme de dispersion dans les manifestations ».

      Information inexacte

      Nous avons donc recontacté la police nationale pour qu’elle nous transmette les dernières directives mentionnant la distance minimum qu’un policier doit respecter. Le cabinet du ministre a, lui, répondu qu’une « distance minimum de sécurité serait communiquée. Il n’y a pas de raison que ce soit différent des gendarmes ». Et pourtant...
      Après moult relances, la Direction générale de la police a déclaré qu’il fallait prendre en compte « la distance opérationnelle des munitions » et « qu’en deçà de 3 mètres, le risque lésionnel est important », assurant que « les doctrines en ce domaine sont communes pour les forces de sécurité intérieures, police nationale et gendarmerie nationale ».
      Une information inexacte puisque la gendarmerie interdit de tirer au-dessous de 10 mètres.

      « Ce qui est dangereux, explique auprès de Mediapart un commissaire de police, c’est que le ministère et la DGPN ont banalisé l’usage du LBD, qui devait initialement être utilisé en cas d’extrême danger, comme ultime recours avant l’usage de l’arme. »

      Un pas a été franchi pour légitimer des tirs de très près.
      Un commandant, spécialisé dans le maintien de l’ordre

      Depuis, après avoir été « expérimenté dans les banlieues, il a été utilisé, depuis 2016 [en fait, depuis le début des années 2000, ndc], dans les manifestations et les mobilisations contre la loi Travail [où la pratique s’est généralisée, ndc]. En enlevant toute notion de distance minimum de sécurité, le ministère gomme la dangerosité de cette arme et des blessures qu’elle cause ».
      Pour ce commissaire, « c’est un nouveau verrou qui saute. On peut toujours contester cette distance, qui était déjà peu respectée, mais elle introduisait néanmoins un garde-fou, aussi ténu soit-il ».
      Avec l’apparition des nouvelles munitions « présentées comme moins impactantes, un pas a été franchi pour légitimer des tirs de très près », nous explique un commandant spécialisé dans le maintien de l’ordre. Ainsi, dans les nouvelles instructions du ministère, « la distance minimum n’existe plus ». « Pire, poursuit ce commandant, on a vu apparaître les termes employés par le fabricant de la munition qui parle de “distance opérationnelle”. »
      En effet, dans une instruction relative à l’usage des armes de force intermédiaire, datée du 2 août 2017 et adressée à l’ensemble des fonctionnaires, sont précisées les « distances opérationnelles », allant de 10 à 50 mètres pour l’ancienne munition, et de 3 à 35 mètres pour la nouvelle. C’est sur cette instruction que s’appuie aujourd’hui la DGPN.
      Selon ce gradé, « même d’un point de vue purement opérationnel, c’est absurde. Car le point touché par le tireur est égal au point qu’il a visé à environ 25 mètres et pas en deçà. Donc il faudrait donner cette distance et non une fourchette ».
      « Avec une distance aussi courte que 3 mètres, c’est presque tirer à bout portant. Et c’est inviter, davantage qu’ils ne le faisaient déjà, les policiers à tirer de près avec des risques gravissimes de blessures. Non seulement les agents manquent de formation, mais avec ces directives, ils vont avoir tendance à sortir leur LBD comme une simple matraque et dans le plus grand flou », conclut-il, rappelant « le tir absolument injustifié de la BAC sur le jeune qui a eu le cerveau fracassé à Marseille [en référence à Hedi – ndlr] ».

      Les déclarations faites à la juge d’instruction du policier Christophe I., auteur du tir de LBD, qui a grièvement blessé Hedi à la tête, en juillet, révèlent l’ampleur des conséquences de la banalisation d’une telle arme.
      Le policier explique que le soir des faits, « il n’y avait pas de consignes particulières sur l’utilisation des armes ». Que Hedi ait pu être atteint à la tête ne le surprend pas. Une erreur aux conséquences dramatiques qui ne semble pas lui poser problème : « J’ai tiré sur un individu en mouvement, dit-il. Le fait de viser le tronc, le temps que la munition arrive, c’est ce qui a pu expliquer qu’il soit touché à la tête. » En revanche, il nie que les blessures d’Hedi aient pu être occasionnées par le LBD, allant même jusqu’à avancer qu’elles peuvent « être liées à sa chute » au sol [moment ou des bouts du projectile se sont incrustés dans sa tête avant d’être découvert par le personnel soignant, obvisously, ndc]

      Dans d’autres enquêtes mettant en cause des tirs de LBD, les déclarations des policiers auteurs des tirs affichent à la fois la dangerosité de cette arme et la banalisation de son usage. L’augmentation du nombre de #manifestants blessés, en particulier lors des mobilisations des gilets jaunes, avait d’ailleurs conduit le Défenseur des droits, Jacques Toubon, à demander, en janvier 2019, la « suspension » du recours au LBD dans les manifestations.
      La France, un des rares pays européens à autoriser le LBD
      Depuis, plusieurs organisations non gouvernementales, parmi lesquelles le Syndicat des avocats de France, la Confédération générale du travail ou le Syndicat de la magistrature, ont saisi la justice pour en demander l’interdiction. En vain. Après avoir essuyé un refus du Conseil d’État de suspendre cette arme, les organisations syndicales ont vu leur requête jugée irrecevable par la Cour européenne des droits de l’homme en avril 2020, estimant que les « faits dénoncés ne relèvent aucune apparence de violation des droits et libertés garanties par la Convention et […] que les critères de recevabilité n’ont pas été satisfaits ».

      À l’annonce du refus du Conseil d’État d’interdire le LBD, le syndicat de police majoritaire, Alliance, avait salué « une sage décision ». Son secrétaire général adjoint, qui était alors Frédéric Lagache, avait précisé auprès de l’AFP que « si le Conseil d’État avait prononcé l’interdiction, il aurait fallu à nouveau changer de doctrine et revenir à un maintien de l’ordre avec une mise à distance ».
      Un discours bien différent de celui de ses homologues allemands, qui ont refusé d’avoir recours au LBD (utilisé dans deux Länder sur seize). En effet, comme le rappelle le politiste Sebastian Roché dans son livre La police contre la Rue, en 2012, le premier syndicat de police d’Allemagne, par la voix d’un de ses représentants, Frank Richter, s’était opposé à ce que les forces de l’ordre puissent avoir recours à cette arme : « Celui qui veut tirer des balles de caoutchouc [comme celles du LBD – ndlr] accepte consciemment que cela conduise à des morts et des blessés graves. Cela n’est pas tolérable dans une démocratie. »
      En Europe, la France est, avec la Grèce et la Pologne, l’un des rares pays à y avoir recours.

      #LBD #LBD_de_proximité #armes_de_la_police #Darmanin #à_bout_portant #terroriser #mutiler #police #impunité_policière #militarisation #permis de_mutiler #permis_de_tuer

    • Ni oubli, ni pardon
      https://piaille.fr/@LDH_Fr/111308175763689939

      Le 27 octobre 2005, Zyed & Bouna 17&15 ans meurent à l’issue d’une course poursuite avec des policiers qui seront relaxés. Ils font partie d’une liste trop longue des victimes d’une violence ordinaire dont les auteurs ne sont jamais poursuivis. Cette impunité doit cesser.

    • en 2012, le premier syndicat de police d’Allemagne, par la voix d’un de ses représentants, Frank Richter, s’était opposé à ce que les forces de l’ordre puissent avoir recours à cette arme : « Celui qui veut tirer des balles de caoutchouc [comme celles du LBD – ndlr] accepte consciemment que cela conduise à des morts et des blessés graves. Cela n’est pas tolérable dans une démocratie. »

      En Europe, la France est, avec la Grèce et la Pologne, l’un des rares pays à y avoir recours.

      La fin de l’article de Mediapart, dont est extrait le passage ci dessus, a part, dans son seen à elle : https://seenthis.net/messages/1023468

    • Quelques nuances de LBD
      https://lundi.am/Quelques-nuances-de-LBD

      Dans une enquête parue ce vendredi, Médiapart révèle que les policiers devaient jusqu’à présent respecter une distance de 10 à 15 mètres pour tirer sur un individu. Cette distance minimale aurait été supprimée des récentes instructions du ministère de l’Intérieur. Elle est désormais passée à seulement trois mètres. Laurent Thines, neurochirugien et poète engagé contre les armes (sub)létales, nous a transmis ces impressions.

    • @sombre je dirais bien #oupas moi aussi : la pratique récente du LBD en fRance semble indiquer que les policiers, préfets et le ministre ont bien lu la notice en détail et estimé que la couleur rouge était un indicateur de zones à viser en priorité, pour faire respecter l’ordre.

    • @PaulRocher10
      https://twitter.com/PaulRocher10/status/1721262476933706174

      Près de 12 000 tirs policiers sur la population civile en 2022, soit 33 tirs par jour. Voilà ce que montrent les derniers chiffres sur le recours aux armes « non létales ». Hormis les années des #giletsjaunes (2018/19), c’est un nouveau record.

      Au-delà du nombre élevé de tirs sur 1 année, la tendance est frappante. En 2022, les policiers ont tiré 80 fois plus qu’en 2009. Pourtant, ni les manifestants ni la population générale ne sont devenus plus violents. La hausse des violences est celle des #violencespolicières

      Ces données du min. de l’intérieur n’affichent pas les tirs de grenades (assourdissantes, lacrymogène) et ignorent les coups de matraque. Même pour les armes comptabilisées, on assiste à une sous-déclaration. Le niveau réel des #violencespolicières est donc encore plus élevé

      Souvent on entend que les armes non létales seraient une alternative douce aux armes à feu. Pourtant, les derniers chiffres confirment la tendance à la hausse des tirs à l’arme à feu. Pas d’effet de substitution, mais un effet d’amplification de la violence

      Ces derniers temps, on entend beaucoup parler de « décivilisation ». Si elle existe, ces chiffres montrent encore une fois qu’elle ne vient pas de la population . Les données disponibles (⬇️) attestent qu’elle se tient sage, contrairement à la police
      https://www.acatfrance.fr/rapport/lordre-a-quel-prix

  • Les centres de femmes se mobilisent pour la reconnaissance de leur travail en violences faites aux femmes

    À l’occasion de la Journée nationale des centres de femmes, L’R des centres de femmes – le plus grand regroupement féministe d’action communautaire autonome au Québec – dévoile une plateforme pour revendiquer la reconnaissance du travail des centres de femmes en violences faites aux femmes. C’est sous la thématique « Ensemble, enrayons les violences » que la Journée est soulignée par ses 77 centres membres à travers la province.

    À partir des réalités locales et régionales, les centres de femmes ont développé des expertises spécifiques en violences faites aux femmes qui prennent en compte la globalité des femmes et la pluralité de leur vécu. « L’intervention et la sensibilisation en violences faites aux femmes font partie intégrante de la mission des centres de femmes, explique Nadia Morissette, coordonnatrice générale de L’R des centres de femmes du Québec. Les centres de femmes travaillent à améliorer l’ensemble des conditions de vie des femmes dont les violences qu’elles vivent. Chacun à sa façon, selon leurs réalités, accompagne les femmes selon leurs besoins. Ils travaillent tous pour enrayer les violences faites aux femmes ».

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/10/24/les-centres-de-femmes-se-mobilisent-pour-la-re

    #féminisme #violence

  • #ACAB, et c’est eux qui le disent

    Photographe et journaliste, Ricardo Parreira travaille sur les symboles d’extrême droite dans la police. Il revient ici sur l’inquiétante arrivée en France de l’iconographie #Thin_Blue_Line, qui fantasme les bleus en super-héros au-dessus des lois.

    Nous sommes fin 2014, aux États-Unis. Depuis la mort d’Eric Garner et de Michael Brown, deux Noirs américains tués par des policiers pendant l’été, le mouvement Black Lives Matter [La vie des Noir·es compte] s’insurge dans tout le pays contre les violences racistes de la police. Le 20 décembre, deux agents de la police de New York sont tués à Brooklyn, en représailles. En réaction, trois de leurs collègues créent le mouvement Blue Lives Matter [La vie des bleus compte] afin de soutenir les forces de l’ordre face aux accusations de violences et de racisme. Leur symbole ? Une mince ligne bleue (thin blue line). Pour ses partisans, cette ligne représente la police comme dernier rempart contre le chaos, protégeant le bien contre le mal et la population contre les criminels. Un symbole qu’ils prétendent apolitique, censé exprimer une forme d’hommage à la police comme institution.

    La communauté Thin blue line, #TBL pour les intimes, prend rapidement de l’ampleur sur les réseaux numériques. Une panoplie de produits dérivés débarque sur le marché : bracelets, écussons, habits, cagoules, kits et accessoires de survie. Leurs visuels vont piocher dans d’autres univers fictionnels violents : on y retrouve ainsi le très populaire crâne du Punisher (voir encadré), le casque spartiate et autres « héros » contournant l’État de droit pour faire justice eux-mêmes. L’emblème de TBL, un drapeau états-unien noir et blanc estampillé d’une ligne bleue, se propage dans les manifestations d’extrême droite, chez les soutiens de Trump ou encore chez les Proud Boys, organisation néofasciste qui s’est illustrée lors de l’assaut du Capitole en janvier 2021. Face à cette récupération politique, certains membres des forces de l’ordre finissent par renoncer à employer le sigle TBL : en 2017, le chef de la police de la bourgade de Catlettsburg, dans le Kentucky, retire les énormes autocollants Punisher aux couleurs de TBL collés sur le capot de ses huit voitures de service ; en février 2023, c’est le chef de la police de Los Angeles qui interdit l’usage du drapeau TBL dans les commissariats de sa ville. Mais malgré les polémiques, ces symboles se répandent aux quatre coins du pays et arrivent en Europe.
    « All cops are... »

    En France, c’est surtout via les réseaux sociaux que TBL se diffuse à partir de 2018, copiant à la lettre la rhétorique et la symbolique du mouvement états-unien. Aujourd’hui, la société TBL France, dirigée par la femme d’un gendarme, gère un site commercial vendant des produits dérivés. Outre les classiques drapeaux et écussons, on y trouve quelques produits locaux comme un « patch humoristique » représentant un policier donnant un coup de pied dans l’entrejambe d’un civil, sous le slogan « Le génital c’est génial ». S’y ajoutent les figures de #Deadpool, #John_Wick (voir encadré) ou encore #Batman, tous personnages de fictions violents agissant en dehors des lois.

    Plus surprenant, on croise aussi l’historique slogan anti-flic « #ACAB » (All cops are bastards, « Tous les flics sont des salauds »), repris à la sauce policière et transformé en All cops are brothers (« Tous les flics sont frères »). Sur les réseaux, on trouve ainsi des photos montrant un produit TBL devant un tag « ACAB », pour en détourner le sens. À côté de son site marchand et de ses réseaux sociaux suivis par des dizaines de milliers de « brothers », TBL France propose également des ateliers, des formations de tir et des rencontres.

    À en croire la prolifération de ses goodies sur les uniformes de la police et de la gendarmerie française, le succès semble au rendez-vous1. « Je tente par le site et les réseaux de rassembler les forces de l’ordre mais surtout de promouvoir un rapprochement de la police avec la population », explique la directrice de TBL France, affirmant qu’il ne faut en aucun cas voir dans l’adoption de ces symboles une quelconque politisation2. L’Inspection générale de la Gendarmerie nationale n’est pas du même avis quand elle déclare, en mars 2023, que le fait d’afficher le logo TBL contrevenait au devoir de réserve et de neutralité de la police dans la mesure où ils traduisaient l’appartenance à un mouvement politique3. Quant au fait que ces symboles et d’autres – dont le Valknut4 – se retrouvent tatoués à même la peau des forces de l’ordre, l’entreprise défend sur son site qu’il s’agit avant tout d’expressions « artistiques et esthétiques, et qu’ils ne devraient pas être utilisés pour embêter nos forces de l’ordre ».
    La force au-dessus des lois

    Aucun doute, une partie de la police se radicalise, dans un contexte de violences policières de plus en plus médiatisées. Le site TBL France, qui relaie en permanence des campagnes de dons pour les familles de policiers, n’a ainsi pas hésité à afficher son « soutien indéfectible » à la cagnotte en faveur de la famille du policier qui a tué Nahel à Nanterre en juin dernier. Au cours des émeutes qui ont suivi, un membre du Raid est photographié menaçant de son fusil à pompe un mineur au sol, ventre à terre. Le 25 juillet, TBL France présente sur Instagram son nouveau patch, nommé « Résilience », qui reprend cette image avec le slogan : « La force doit rester à la loi ». En l’occurrence, la loi leur interdit d’utiliser une photo sans en demander les droits et l’objet a donc dû être retiré du catalogue. Reste que la petite entreprise ne connaîtra pas la crise : quand il s’agit de rouler des mécaniques, les bleus ont de l’imagination.

    https://cqfd-journal.org/ACAB-et-c-est-eux-qui-le-disent

    ajouté à ce fil de discussion sur les #symboles et la #sémiologie d’#extrême_droite au sein des #forces_de_l'ordre :
    https://seenthis.net/messages/971225
    #violence

  • Guerre Israël-Hamas : l’Egypte refuse un afflux de Palestiniens de Gaza vers le Sinaï
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/10/20/guerre-israel-hamas-l-egypte-refuse-un-afflux-de-palestiniens-de-gaza-vers-l

    Guerre Israël-Hamas : l’Egypte refuse un afflux de Palestiniens de Gaza vers le Sinaï
    Le Caire redoute une réédition de la « Nakba », l’exode forcé des Palestiniens, à la création d’Israël, en 1948. Le pouvoir égyptien craint aussi une déstabilisation du Sinaï par les groupes armés de Gaza.
    Par Service international
    « Même si cette terre est devenue un enfer, je suis prêt à y mourir », affirme, sans donner son nom, Abderrahim, un Gazaoui bloqué en Egypte après le siège total de l’enclave palestinienne imposé par Israël en réponse aux attaques du Hamas, le samedi 7 octobre.Ce père de trois enfants, de passage au Caire pour le travail, s’apprête à rejoindre la ville frontalière de Rafah pour retrouver coûte que coûte sa famille de l’autre côté. Ses proches ont dû abandonner leur maison, qui jouxtait l’hôpital Al-Ahli, dévasté mardi 17 octobre par une explosion qui a fait entre 100 et 300 morts, selon les renseignements américains, pour se diriger vers les campements de fortune, qui commencent à sortir de terre au sud de la bande de Gaza.
    Depuis le début des bombardements israéliens, prélude à une campagne terrestre annoncée par l’Etat hébreu, les injonctions se sont multipliées pour que l’Egypte ouvre ses portes à des centaines de milliers de réfugiés palestiniens via Rafah, l’unique poste-frontière qui n’est pas contrôlé par Israël. Dimanche 15 octobre, l’ancien vice-ministre israélien des affaires étrangères, Daniel Ayalon, incitait à nouveau les Palestiniens à « évacuer la zone temporairement » vers le Sinaï, « un espace presque infini », où il suggérait l’installation de « villes de tentes » pour les réfugiés.
    Mais l’exode n’aura pas lieu, veut croire Abderrahim. « Gaza ne se rendra pas. Personne n’a demandé aux Ukrainiens de partir face à l’invasion russe », s’insurge-t-il. Comme lui, des dizaines de Palestiniens en Egypte espèrent au contraire pouvoir retourner à Gaza.De l’autre côté de la frontière, quelques centaines de personnes attendent, elles, de pouvoir entrer en Egypte, pour la plupart des ressortissants étrangers et des binationaux se préparant à une éventuelle évacuation par leurs ambassades. « Aujourd’hui, il n’y a aucun signe d’un afflux imminent des habitants de Gaza vers l’Egypte. C’est un fantasme occidental, un narratif qui sert la stratégie israélienne, qui ne correspond ni à la réalité ni à l’état d’esprit des Gazaouis », assure Mohannad Sabry, un journaliste égyptien indépendant.
    Eviter le scénario de 2008
    Premiers pays concernés par un éventuel exode, l’Egypte et la Jordanie affichent un front uni contre l’idée d’un déplacement forcé de population en dehors des territoires palestiniens.« Si des centaines de milliers de Gazaouis fuient vers l’Egypte, il n’y aura plus de Gaza, plus de Palestine. Accepter un exode c’est trahir la cause palestinienne. Israël ne permettra jamais leur retour. C’est le plan sioniste et nous le refusons », s’indigne, sous couvert d’anonymat, Hossem, un docteur égyptien de 26 ans qui a participé, mercredi, à l’une des nombreuses manifestations qui ont éclaté en Egypte, au lendemain de l’explosion dans l’hôpital d’Al-Ahli.
    « Au total, 70 % des habitants de Gaza sont des réfugiés de la Nakba [« la catastrophe », en arabe]. Ils ne veulent pas en vivre une seconde. S’ils partent, ils savent pertinemment ce qui les attend : une vie indigne en exil, dans la pauvreté et la discrimination », estime Tahani Mustafa, experte de Palestine pour l’International Crisis Group. En 1948, à l’issue de la première guerre israélo-arabe, plusieurs centaines de milliers de Palestiniens sur les quelque 700 000 expulsés de leur terre, sont arrivés au Liban, en Syrie et en Jordanie. « Ils n’en sont jamais repartis », conclut la chercheuse.
    Les Etats-Unis, qui ont tenté de négocier l’ouverture de corridors pour les civils, se sont heurtés au refus catégorique de l’Egypte. Le Caire se dit favorable au passage de l’aide humanitaire à Gaza, mais se montre inflexible sur l’éventualité d’un exode des Palestiniens vers le Sinaï. « S’il y a une idée de déplacement, il y a le désert du Néguev, en Israël », a suggéré, mercredi 18 octobre, le président Abdel Fattah Al-Sissi.
    Le Caire ne veut pas laisser le scénario de 2008 se reproduire : des milliers de Palestiniens avaient alors fui la bande de Gaza vers le Sinaï, après que le Hamas eut ouvert des brèches dans la frontière. Outre la crainte d’un afflux de deux millions de réfugiés dans le pays arabe le plus peuplé de la région (110 millions d’habitants), la guerre entre le Hamas et Israël pose également un défi sécuritaire à l’Egypte.Les autorités craignent qu’en cas d’exode, le Sinaï se convertisse en base arrière pour des mouvements armés palestiniens, entraînant le pays dans la guerre avec Israël. De plus, depuis 2014, le nord de la péninsule, placé en état d’urgence par le régime, est le théâtre d’une insurrection djihadiste. L’armée y mène des opérations contre-terroristes face à une nébuleuse de groupes islamistes qui ont entretenu par le passé des liens avec le Hamas, notamment grâce à des tunnels clandestins reliant la ville égyptienne de Rafah à sa jumelle palestinienne.Réuni en urgence, jeudi 19 octobre, le Parlement égyptien a autorisé le président à prendre toutes les mesures appropriées pour protéger la sécurité du pays et soutenir la cause palestinienne. Après avoir déclaré que « des millions d’Egyptiens [étaient] prêts à manifester pour rejeter l’idée de déplacer les Palestiniens de la bande de Gaza », le président Abdel Fattah Al-Sissi a orchestré, vendredi 20 octobre, des manifestations massives à travers tout le pays, à l’issue de la prière du jour.
    Le conflit aux portes du pays est devenu explosif en Egypte. Des rassemblements spontanés ont été dispersés par la police. « Les autorités ouvrent une petite fenêtre pour ne pas apparaître comme des traîtres à la cause palestinienne, mais elles veulent maîtriser l’explosion de la colère », résumait un manifestant, soulignant l’hypocrisie d’un pouvoir qui a muselé les voix de la société civile et interdit toute manifestation depuis 2013.
    Conscient que la rue gronde en soutien à la cause palestinienne, Abdel Fattah Al-Sissi, en campagne pour sa réélection (la présidentielle est prévue du 10 au 12 décembre), espère en tirer un profit politique. En Egypte, tout d’abord, où sa popularité est en chute libre parmi une population excédée par la crise économique, mais aussi sur la scène internationale, alors que, depuis le 7 octobre, Le Caire est le théâtre d’un ballet diplomatique sans précédent ces dernières années. Samedi 21 octobre, la capitale doit accueillir un sommet sur l’avenir de la cause palestinienne auquel assisteront plus d’une dizaine de dirigeants. Une vitrine pour le président Sissi, qui entend s’imposer comme un acteur clé dans la résolution du conflit.

    #Covid-19#migrant#migration#gaza#israel#egypte#jordanie#guerre#frontiere#exil#nakba#pauvrete#violence#sinaï

  • #Judith_Butler : Condamner la #violence

    « Je condamne les violences commises par le #Hamas, je les condamne sans la moindre réserve. Le Hamas a commis un #massacre terrifiant et révoltant », écrit Judith Butler avant d’ajouter qu’« il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute #condamnation nécessite un refus de comprendre, de #peur que cette #compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre #capacité_de_jugement ».

    Les questions qui ont le plus besoin d’un #débat_public, celles qui doivent être discutées dans la plus grande urgence, sont des questions qui sont difficiles à aborder dans les cadres existants. Et même si l’on souhaite aller directement au cœur du sujet, on se heurte à un cadre qui fait qu’il est presque impossible de dire ce que l’on a à dire. Je veux parler ici de la violence, de la violence présente, et de l’histoire de la violence, sous toutes ses formes. Mais si l’on veut documenter la violence, ce qui veut dire comprendre les #tueries et les #bombardements massifs commis par le Hamas en Israël, et qui s’inscrivent dans cette histoire, alors on est accusé de « #relativisme » ou de « #contextualisation ». On nous demande de condamner ou d’approuver, et cela se comprend, mais est-ce bien là tout ce qui, éthiquement, est exigé de nous ? Je condamne les violences commises par le Hamas, je les condamne sans la moindre réserve. Le Hamas a commis un massacre terrifiant et révoltant. Telle a été et est encore ma réaction première. Mais elle n’a pas été la seule.

    Dans l’immédiateté de l’événement, on veut savoir de quel « côté » sont les gens, et clairement, la seule réaction possible à de pareilles tueries est une condamnation sans équivoque. Mais pourquoi se fait-il que nous ayons parfois le sentiment que se demander si nous utilisons les bons mots ou comprenons bien la situation historique fait nécessairement obstacle à une #condamnation_morale absolue ? Est-ce vraiment relativiser que se demander ce que nous condamnons précisément, quelle portée cette condamnation doit avoir, et comment décrire au mieux la ou les formations politiques auxquelles nous nous opposons ?

    Il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute condamnation nécessite un refus de comprendre, de peur que cette compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre capacité de jugement. Mais que faire s’il est moralement impératif d’étendre notre condamnation à des #crimes tout aussi atroces, qui ne se limitent pas à ceux mis en avant et répétés par les médias ? Quand et où doit commencer et s’arrêter notre acte de condamnation ? N’avons-nous pas besoin d’une évaluation critique et informée de la situation pour accompagner notre condamnation politique et morale, sans avoir à craindre que s’informer et comprendre nous transforme, aux yeux des autres, en complices immoraux de crimes atroces ?

    Certains groupes se servent de l’histoire de la violence israélienne dans la région pour disculper le Hamas, mais ils utilisent une forme corrompue de raisonnement moral pour y parvenir. Soyons clairs. Les violences commises par #Israël contre les Palestiniens sont massives : bombardements incessants, assassinats de personnes de tous âges chez eux et dans les rues, torture dans les prisons israéliennes, techniques d’affamement à #Gaza, expropriation radicale et continue des terres et des logements. Et ces violences, sous toutes leurs formes, sont commises sur un peuple qui est soumis à un #régime_colonial et à l’#apartheid, et qui, privé d’État, est apatride.

    Mais quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard (Harvard Palestine Solidarity Groups) publient une déclaration disant que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques mortelles du Hamas contre des cibles israéliennes, ils font une erreur et sont dans l’erreur. Ils ont tort d’attribuer de cette façon la #responsabilité, et rien ne saurait disculper le Hamas des tueries atroces qu’ils ont perpétrées. En revanche, ils ont certainement raison de rappeler l’histoire des violences : « de la #dépossession systématique des terres aux frappes aériennes de routine, des #détentions_arbitraires aux #checkpoints militaires, des séparations familiales forcées aux #assassinats ciblés, les Palestiniens sont forcés de vivre dans un #état_de_mort, à la fois lente et subite. » Tout cela est exact et doit être dit, mais cela ne signifie pas que les violences du Hamas ne soient que l’autre nom des violences d’Israël.

    Il est vrai que nous devons nous efforcer de comprendre les raisons de la formation de groupes comme le Hamas, à la lumière des promesses rompues d’Oslo et de cet « état de mort, à la fois lente et subite » qui décrit bien l’existence des millions de Palestiniens vivant sous #occupation, et qui se caractérise par une #surveillance constante, la #menace d’une détention sans procès, ou une intensification du #siège de #Gaza pour priver ses habitants d’#eau, de #nourriture et de #médicaments. Mais ces références à l’#histoire des Palestiniens ne sauraient justifier moralement ou politiquement leurs actes. Si l’on nous demandait de comprendre la violence palestinienne comme une continuation de la violence israélienne, ainsi que le demandent les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard, alors il n’y aurait qu’une seule source de #culpabilité_morale, et même les actes de violence commis par les Palestiniens ne seraient pas vraiment les leurs. Ce n’est pas rendre compte de l’autonomie d’action des Palestiniens.

    La nécessité de séparer la compréhension de la violence omniprésente et permanente de l’État israélien de toute justification de la violence est absolument cruciale si nous voulons comprendre quels peuvent être les autres moyens de renverser le #système_colonial, mettre fin aux #arrestations_arbitraires et à la #torture dans les prisons israéliennes, et arrêter le siège de Gaza, où l’eau et la nourriture sont rationnés par l’État-nation qui contrôle ses frontières. Autrement dit, la question de savoir quel monde est encore possible pour tous les habitants de la région dépend des moyens dont il sera mis fin au système colonial et au pouvoir des colons. Hamas a répondu de façon atroce et terrifiante à cette question, mais il y a bien d’autres façons d’y répondre.

    Si, en revanche, il nous est interdit de parler de « l’#occupation », comme dans une sorte de Denkverbot allemand, si nous ne pouvons pas même poser le débat sur la question de savoir si le joug militaire israélien sur la région relève du #colonialisme ou de l’#apartheid_racial, alors nous ne pouvons espérer comprendre ni le passé, ni le présent, ni l’avenir. Et beaucoup de gens qui regardent le carnage dans les médias sont totalement désespérés. Or une des raisons de ce #désespoir est précisément qu’ils regardent les #médias, et vivent dans le monde sensationnel et immédiat de l’#indignation_morale absolue. Il faut du temps pour une autre #morale_politique, il faut de la patience et du courage pour apprendre et nommer les choses, et nous avons besoin de tout cela pour que notre condamnation puisse être accompagnée d’une vision proprement morale.

    Je m’oppose aux violences que le Hamas a commises, et ne leur trouve aucune excuse. Quand je dis cela, je prends une position morale et politique claire. Je n’équivoque pas lorsque je réfléchis sur ce que cette condamnation implique et présuppose. Quiconque me rejoint dans cette position se demande peut-être si la condamnation morale doit reposer sur une compréhension de ce qui est condamné. On pourrait répondre que non, que je n’ai rien besoin de connaître du Hamas ou de la Palestine pour savoir que ce qu’ils ont fait est mal et pour le condamner. Et si l’on s’arrête là, si l’on se contente des représentations fournies par les médias, sans jamais se demander si elles sont réellement utiles et exactes, et si le cadre utilisé permet à toutes les histoires d’être racontées, alors on se résout à une certaine ignorance et l’on fait confiance aux cadres existants. Après tout, nous sommes tous très occupés, et nous n’avons pas tous le temps d’être des historiens ou des sociologues. C’est une manière possible de vivre et de penser, et beaucoup de gens bien-intentionnés vivent effectivement ainsi, mais à quel prix ?

    Que nous faudrait-il dire et faire, en revanche, si notre morale et notre politique ne s’arrêtaient pas à l’acte de condamnation ? Si nous continuions, malgré tout, de nous intéresser à la question de savoir quelles sont les formes de vie qui pourraient libérer la région de violences comme celles-ci ? Et si, en plus de condamner les crimes gratuits, nous voulions créer un futur dans lequel ce genre de violences n’aurait plus cours ? C’est une aspiration normative qui va bien au-delà de la condamnation momentanée. Pour y parvenir, il nous faut absolument connaître l’histoire de la situation : l’histoire de la formation du Hamas comme groupe militant, dans l’abattement total, après Oslo, pour tous les habitants de Gaza à qui les promesses de gouvernement autonome n’ont jamais été honorées ; l’histoire de la formation des autres groupes palestiniens, de leurs tactiques et de leurs objectifs ; l’histoire enfin du peuple palestinien lui-même, de ses aspirations à la liberté et au #droit_à_l’autodétermination, de son désir de se libérer du régime colonial et de la violence militaire et carcérale permanente. Alors, si le Hamas était dissous ou s’il était remplacé par des groupes non-violents aspirant à la #cohabitation, nous pourrions prendre part à la lutte pour une Palestine libre.

    Quant à ceux dont les préoccupations morales se limitent à la seule condamnation, comprendre la situation n’est pas un objectif. Leur indignation morale est à la fois présentiste et anti-intellectuelle. Et pourtant, l’indignation peut aussi amener quelqu’un à ouvrir des livres d’histoire pour essayer de comprendre comment un événement comme celui-ci a pu arriver, et si les conditions pourraient changer de telle sorte qu’un avenir de violence ne soit pas le seul avenir possible. Jamais la « contextualisation » ne devrait être considérée comme une activité moralement problématique, même s’il y a des formes de contextualisation qui sont utilisées pour excuser ou disculper. Est-il possible de distinguer ces deux formes de contextualisation ? Ce n’est pas parce que certains pensent que contextualiser des violences atroces ne sert qu’à occulter la violence ou, pire encore, à la rationaliser que nous devrions nous soumettre à l’idée que toute forme de contextualisation est toujours une forme de #relativisme_moral.

    Quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard disent que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques du Hamas, ils souscrivent à une conception inacceptable de la responsabilité morale. Il semble que pour comprendre comment s’est produit un événement, et ce qu’il signifie, il nous faille apprendre l’histoire. Cela veut dire qu’il nous incombe tout à la fois d’élargir la perspective au-delà de la terrible fascination du moment et, sans jamais nier l’horreur, de ne pas laisser l’#horreur présente représenter toute l’horreur qu’il y a à représenter, et nous efforcer de savoir, de comprendre et de nous opposer.

    Or les médias d’aujourd’hui, pour la plupart d’entre eux, ne racontent pas les horreurs que vivent les Palestiniens depuis des décennies, les bombardements, les tueries, les attaques et les arrestations arbitraires. Et si les horreurs des derniers jours ont pour les médias une importance morale plus grande que les horreurs des soixante-dix dernières années, alors la réaction morale du moment menace d’empêcher et d’occulter toute compréhension des #injustices_radicales endurées depuis si longtemps par la Palestine occupée et déplacée de force.

    Certains craignent, à juste titre, que toute contextualisation des actes violents commis par le Hamas soit utilisée pour disculper le Hamas, ou que la contextualisation détourne l’attention des horreurs perpétrées. Mais si c’est l’horreur elle-même qui nous amenait à contextualiser ? Où commence cette horreur et où finit-elle ? Si les médias parlent aujourd’hui de « guerre » entre le Hamas et Israël, c’est donc qu’ils proposent un cadre pour comprendre la situation. Ils ont, ainsi, compris la situation à l’avance. Si Gaza est comprise comme étant sous occupation, ou si l’on parle à son sujet de « prison à ciel ouvert », alors c’est une autre interprétation qui est proposée. Cela ressemble à une description, mais le langage contraint ou facilite ce que nous pouvons dire, comment nous pouvons décrire, et ce qui peut être connu.

    Oui, la langue peut décrire, mais elle n’acquiert le pouvoir de le faire que si elle se conforme aux limites qui sont imposées à ce qui est dicible. S’il est décidé que nous n’avons pas besoin de savoir combien d’enfants et d’adolescents palestiniens ont été tués en Cisjordanie et à Gaza cette année ou pendant toutes les années de l’occupation, que ces informations ne sont pas importantes pour comprendre ou qualifier les attaques contre Israël, et les assassinats d’Israéliens, alors il est décidé que nous ne voulons pas connaître l’histoire des violences, du #deuil et de l’indignation telle qu’est vécue par les Palestiniens.

    Une amie israélienne, qui se qualifie elle-même d’« antisioniste », écrit en ligne qu’elle est terrifiée pour sa famille et pour ses amis, et qu’elle a perdu des proches. Et nous devrions tous être de tout cœur avec elle, comme je le suis bien évidemment. Cela est terrible. Sans équivoque. Et pourtant, il n’est pas un moment où sa propre expérience de l’horreur et de la perte de proches ou d’amis est imaginé comme pouvant être ce qu’une Palestinienne éprouve ou a éprouvé de son côté après des années de bombardement, d’incarcération et de violence militaire. Je suis moi aussi une Juive, qui vit avec un #traumatisme_transgénérationnel à la suite des atrocités commises contre des personnes comme moi. Mais ces atrocités ont aussi été commises contre des personnes qui ne sont pas comme moi. Je n’ai pas besoin de m’identifier à tel visage ou à tel nom pour nommer les atrocités que je vois. Ou du moins je m’efforce de ne pas le faire.

    Mais le problème, au bout du compte, n’est pas seulement une absence d’#empathie. Car l’empathie prend généralement forme dans un cadre qui permette qu’une identification se fasse, ou une traduction entre l’expérience d’autrui et ma propre expérience. Et si le cadre dominant considère que certaines vies sont plus dignes d’être pleurées que d’autres, alors il s’ensuit que certaines pertes seront plus terribles que d’autres. La question de savoir quelles vies méritent d’être pleurées fait partie intégrante de la question de savoir quelles sont les vies qui sont dignes d’avoir une valeur. Et c’est ici que le #racisme entre en jeu de façon décisive. Car si les Palestiniens sont des « #animaux », comme le répète Netanyahu, et si les Israéliens représentent désormais « le peuple juif », comme le répète Biden (englobant la diaspora juive dans Israël, comme le réclament les réactionnaires), alors les seules personnes dignes d’être pleurées, les seules qui sont éligibles au deuil, sont les Israéliens, car la scène de « guerre » est désormais une scène qui oppose les Juifs aux animaux qui veulent les tuer.

    Ce n’est certainement pas la première fois qu’un groupe de personnes qui veulent se libérer du joug de la #colonisation sont représentées comme des animaux par le colonisateur. Les Israéliens sont-ils des « animaux » quand ils tuent ? Ce cadre raciste de la violence contemporaine rappelle l’opposition coloniale entre les « civilisés » et les « animaux », qui doivent être écrasés ou détruits pour sauvegarder la « civilisation ». Et lorsque nous rappelons l’existence de ce cadre au moment d’affirmer notre condamnation morale, nous nous trouvons impliqué dans la dénonciation d’une forme de racisme qui va bien au-delà de l’énonciation de la structure de la vie quotidienne en Palestine. Et pour cela, une #réparation_radicale est certainement plus que nécessaire.

    Si nous pensons qu’une condamnation morale doive être un acte clair et ponctuel, sans référence à aucun contexte ni aucun savoir, alors nous acceptons inévitablement les termes dans lesquels se fait cette condamnation, la scène sur laquelle les alternatives sont orchestrées. Et dans ce contexte récent qui nous intéresse, accepter ce cadre, c’est reprendre les formes de #racisme_colonial qui font précisément partie du problème structurel à résoudre, de l’#injustice intolérable à surmonter. Nous ne pouvons donc pas refuser l’histoire de l’injustice au nom d’une certitude morale, car nous risquerions alors de commettre d’autres injustices encore, et notre certitude finirait par s’affaisser sur un fondement de moins en moins solide. Pourquoi ne pouvons-nous pas condamner des actes moralement haïssables sans perdre notre capacité de penser, de connaître et de juger ? Nous pouvons certainement faire tout cela, et nous le devons.

    Les actes de violence auxquels nous assistons via les médias sont horribles. Et dans ce moment où toute notre attention est accaparée par ces médias, les violences que nous voyons sont les seules que nous connaissions. Je le répète : nous avons le droit de déplorer ces violences et d’exprimer notre horreur. Cela fait des jours que j’ai mal au ventre à essayer d’écrire sans trouver le sommeil, et tous les gens que je connais vivent dans la peur de ce que va faire demain la machine militaire israélienne, si le #discours_génocidaire de #Netanyahu va se matérialiser par une option nucléaire ou par d’autres tueries de masse de Palestiniens. Je me demande moi-même si nous pouvons pleurer, sans réserve aucune, pour les vies perdues à Tel-Aviv comme pour les vies perdues à Gaza, sans se laisser entraîner dans des débats sur le relativisme et sur les #fausses_équivalences. Peut-être les limites élargies du deuil peuvent-elles contribuer à un idéal d’#égalité substantiel, qui reconnaisse l’égale pleurabilité de toutes les vies, et qui nous porte à protester que ces vies n’auraient pas dû être perdues, qui méritaient de vivre encore et d’être reconnues, à part égale, comme vies.

    Comment pouvons-nous même imaginer la forme future de l’égalité des vivants sans savoir, comme l’a documenté le Bureau de la coordination des affaires humanitaires des Nations unies, que les militaires et les colons israéliens ont tué au minimum 3 752 civils palestiniens depuis 2008 à Gaza et en Cisjordanie, y compris à Jérusalem-Est. Où et quand le monde a-t-il pleuré ces morts ? Et dans les seuls bombardements et attaques d’octobre, 140 enfants palestiniens ont déjà été tués. Beaucoup d’autres trouveront la mort au cours des actions militaires de « #représailles » contre le Hamas dans les jours et les semaines qui viennent.

    Ce n’est pas remettre en cause nos positions morales que de prendre le temps d’apprendre l’histoire de la #violence_coloniale et d’examiner le langage, les récits et les cadres qui servent aujourd’hui à rapporter et expliquer – et interpréter a priori – ce qui se passe dans cette région. Il s’agit là d’un #savoir_critique, mais qui n’a absolument pas pour but de rationaliser les violences existences ou d’en autoriser d’autres. Son but est d’apporter une compréhension plus exacte de la situation que celle proposée par le cadre incontesté du seul moment présent. Peut-être d’autres positions d’#opposition_morale viendront-elles s’ajouter à celles que nous avons déjà acceptées, y compris l’opposition à la violence militaire et policière qui imprègne et sature la vie des Palestiniens dans la région, leur droit à faire le deuil, à connaître et exprimer leur indignation et leur solidarité, à trouver leur propre chemin vers un avenir de liberté ?

    Personnellement, je défends une politique de #non-violence, sachant qu’elle ne peut constituer un principe absolu, qui trouve à s’appliquer en toutes circonstances. Je soutiens que les #luttes_de_libération qui pratiquent la non-violence contribuent à créer le monde non-violent dans lequel nous désirons tous vivre. Je déplore sans équivoque la violence, et en même temps, comme tant d’autres personnes littéralement stupéfiées devant leur télévision, je veux contribuer à imaginer et à lutter pour la justice et pour l’égalité dans la région, une justice et une égalité qui entraîneraient la fin de l’occupation israélienne et la disparition de groupes comme le Hamas, et qui permettrait l’épanouissement de nouvelles formes de justice et de #liberté_politique.

    Sans justice et sans égalité, sans la fin des violences perpétrées par un État, Israël, qui est fondé sur la violence, aucun futur ne peut être imaginé, aucun avenir de #paix_véritable – et je parle ici de paix véritable, pas de la « #paix » qui n’est qu’un euphémisme pour la #normalisation, laquelle signifie maintenir en place les structures de l’injustice, de l’inégalité et du racisme. Un pareil futur ne pourra cependant pas advenir si nous ne sommes pas libres de nommer, de décrire et de nous opposer à toutes les violences, y compris celles de l’État israélien, sous toutes ses formes, et de le faire sans avoir à craindre la censure, la criminalisation ou l’accusation fallacieuse d’antisémitisme.

    Le monde que je désire est un monde qui s’oppose à la normalisation du régime colonial israélien et qui soutient la liberté et l’autodétermination des Palestiniens, un monde qui réaliserait le désir profond de tous les habitants de ces terres de vivre ensemble dans la liberté, la non-violence, la justice et l’égalité. Cet #espoir semble certainement, pour beaucoup, impossible ou naïf. Et pourtant, il faut que certains d’entre nous s’accrochent farouchement à cet espoir, et refusent de croire que les structures qui existent aujourd’hui existeront toujours. Et pour cela, nous avons besoin de nos poètes, de nos rêveurs, de nos fous indomptés, de tous ceux qui savent comment se mobiliser.

    https://aoc.media/opinion/2023/10/12/condamner-la-violence

    ici aussi : https://seenthis.net/messages/1021216

    #à_lire #7_octobre_2023 #génocide

    • Palestinian Lives Matter Too: Jewish Scholar Judith Butler Condemns Israel’s “Genocide” in Gaza

      We speak with philosopher Judith Butler, one of dozens of Jewish American writers and artists who signed an open letter to President Biden calling for an immediate ceasefire in Gaza. “We should all be standing up and objecting and calling for an end to genocide,” says Butler of the Israeli assault. “Until Palestine is free … we will continue to see violence. We will continue to see this structural violence producing this kind of resistance.” Butler is the author of numerous books, including The Force of Nonviolence: An Ethico-Political Bind and Parting Ways: Jewishness and the Critique of Zionism. They are on the advisory board of Jewish Voice for Peace.

      https://www.youtube.com/watch?v=CAbzV40T6yk

  • Bulgaria : lottare per vivere, lottare per morire

    Di morti insepolti, notti insonni e domande che non avranno risposta

    “ГРАНИЦИТЕ УБИВАТ”, ovvero “I confini uccidono”. Questa scritta campeggia su delle vecchie cisterne arrugginite lungo la statale 79, la strada che collega Elhovo a Burgas, seguendo il confine bulgaro-turco fino al Mar Nero. L’abbiamo fatta noi del Collettivo Rotte Balcaniche (https://www.facebook.com/profile.php?id=100078755275162), rossa come il sangue che abbiamo visto scorrere in queste colline. Volevamo imprimere nello spazio fisico un ricordo di chi proprio tra questi boschi ha vissuto i suoi ultimi istanti, lasciare un segno perché la memoria avesse una dimensione materiale. Dall’altra parte, volevamo lanciare un monito, per parlare a chi continua a transitare su questa strada ignorandone la puzza di morte e a chi ne è direttamente responsabile, per dire “noi sappiamo e non dimenticheremo”. Ne è uscita una semplice scritta che forse in pochi noteranno. Racchiude le lacrime che accompagnano i ricordi e un urlo che monta dentro, l’amore e la rabbia.

    Dall’anno passato il confine bulgaro-turco è tornato ad essere la prima porta terrestre d’Europa. I dati diffusi dalla Polizia di frontiera bulgara contano infatti oltre 158 mila tentativi di ingresso illegale nel territorio impediti nei primi nove mesi del 2023, a fronte dei 115 mila nel corrispondente periodo del 2022, anno in cui le medesime statistiche erano già più che triplicate 1. Il movimento delle persone cambia a seconda delle politiche di confine, come un flusso d’acqua alla ricerca di un varco, così la totale militarizzazione del confine di terra greco-turco, che si snoda lungo il fiume Evros, ha spostato le rotte migratorie verso la più porosa frontiera bulgara. Dall’altro lato, la sempre più aggressiva politica di deportazioni di Erdogan – che ha già ricollocato con la forza 600 mila rifugiatə sirianə nel nord-ovest del paese, sotto il controllo turco, e promette di raggiungere presto la soglia del milione – costringe gli oltre tre milioni di sirianə che vivono in Turchia a muoversi verso luoghi più sicuri.

    Abbiamo iniziato a conoscere la violenza della polizia bulgara più di un anno fa, non nelle inchieste giornalistiche ma nei racconti delle persone migranti che incontravamo in Serbia, mentre ci occupavamo di distribuire cibo e docce calde a chi veniva picchiatə e respintə dalle guardie di frontiera ungheresi. Siamo un gruppo di persone solidali che dal 2018 ha cominciato a viaggiare lungo le rotte balcaniche per supportare attivamente lə migrantə in cammino, e da allora non ci siamo più fermatə. Anche se nel tempo siamo cresciutə, rimaniamo un collettivo autorganizzato senza nessun riconoscimento formale. Proprio per questo, abbiamo deciso di muoverci verso i contesti caratterizzati da maggior repressione, laddove i soggetti più istituzionali faticano a trovare agibilità e le pratiche di solidarietà assumono un valore conflittuale e politico. Uno dei nostri obiettivi è quello di essere l’anti-confine, costruendo vie sicure attraverso le frontiere, ferrovie sotterranee. Tuttavia, non avremmo mai pensato di diventare un “rescue team”, un equipaggio di terra, ovvero di occuparci di ricerca e soccorso delle persone disperse – vive e morte – nelle foreste della Bulgaria.

    La prima operazione di salvataggio in cui ci siamo imbattutə risale alle notte tra il 19 e il 20 luglio. Stavo per andare a dormire, verso l’una, quando sento insistentemente suonare il telefono del Collettivo – telefono attraverso cui gestiamo le richieste di aiuto delle persone che vivono nei campi rifugiati della regione meridionale della Bulgaria 2. Era M., un signore siriano residente nel campo di Harmanli, che avevo conosciuto pochi giorni prima. «C’è una donna incinta sulla strada 79, serve un’ambulanza». Con lei, le sue due bambine di tre e sei anni. Chiamiamo il 112, numero unico per le emergenze, dopo averla messa al corrente che probabilmente prima dell’ambulanza sarebbe arrivata la polizia, e non potevamo sapere cosa sarebbe successo. Dopo aver capito che il centralino ci stava mentendo, insinuando che le squadre di soccorso erano uscite senza aver trovato nessuno alle coordinate che avevamo segnalato, decidiamo di muoverci in prima persona. Da allora, si sono alternate settimane più e meno intense di uscite e ricerche. Abbiamo un database che raccoglie la quarantina di casi di cui ci siamo in diversi modi occupatə da fine luglio e metà ottobre: nomi, storie e foto che nessunə vorrebbe vedere. In questi mesi tre mesi si è sviluppata anche una rete di associazioni con cui collaboriamo nella gestione delle emergenze, che comprende in particolare #CRG (#Consolidated_Rescue_Group: https://www.facebook.com/C.R.G.2022), gruppo di volontariə sirianə che fa un incredibile lavoro di raccolta di segnalazioni di “distress” e “missing people” ai confini d’Europa, nonché di relazione con lə familiari.

    Ricostruire questo tipo di situazioni è sempre complicato: le informazioni sono frammentate, la cronologia degli eventi incerta, l’intervento delle autorità poco prevedibile. Spesso ci troviamo ad unire tessere di un puzzle che non combacia. Sono le persone migranti stesse a lanciare l’SOS, oppure, se non hanno un telefono o è scarico, le “guide” 3 che le accompagnano nel viaggio. Le richieste riportano i dati anagrafici, le coordinate, lo stato di salute della persona. Le famiglie contattano poi organizzazioni solidali come CRG, che tra lə migrantə sirianə è un riferimento fidato. L’unica cosa che noi possiamo fare – ma che nessun altro fa – è “metterci il corpo”, frapporci tra la polizia e le persone migranti. Il fatto che ci siano delle persone bianche ed europee nel luogo dell’emergenza obbliga i soccorsi ad arrivare, e scoraggia la polizia dal respingere e torturare. Infatti, è la gerarchia dei corpi che determina quanto una persona è “salvabile”, e le vite migranti valgono meno di zero. Nella notte del 5 agosto, mentre andavamo a recuperare il cadavere di H., siamo fermatə da un furgone scuro, senza insegne della polizia. È una pattuglia del corpo speciale dell’esercito che si occupa di cattura e respingimento. Gli diciamo la verità: stiamo andando a cercare un ragazzo morto nel bosco, abbiamo già avvisato il 112. Uno dei soldati vuole delle prove, gli mostriamo allora la foto scattata dai compagni di viaggio. Vedendo il cadavere, si mette a ridere, “it’s funny”, dice.

    Ogni strada è un vicolo cieco che conduce alla border police, che non ha nessun interesse a salvare le vite ma solo ad incriminare chi le salva. Dobbiamo chiamare subito il 112, accettando il rischio che la polizia possa arrivare prima di noi e respingere le persone in Turchia, lasciandole nude e ferite nel bosco di frontiera, per poi essere costrette a riprovare quel viaggio mortale o imprigionate e deportate in Siria? Oppure non chiamare il 112, perdendo così quel briciolo di possibilità che veramente un’ambulanza possa, prima o poi, arrivare e potenzialmente salvare una vita? Il momento dell’intervento mette ogni volta di fronte a domande impossibili, che rivelano l’asimmetria di potere tra noi e le autorità, di cui non riusciamo a prevedere le mosse. Alcuni cambiamenti, però, li abbiamo osservati con continuità anche nel comportamento della polizia. Se inizialmente le nostre azioni sono riuscite più volte ad evitare l’omissione di soccorso, salvando persone che altrimenti sarebbero state semplicemente lasciate morire, nell’ultimo mese le nostre ricerche sono andate quasi sempre a vuoto. Questo perché la polizia arriva alle coordinate prima di noi, anche quando non avvisiamo, o ci intercetta lungo la strada impedendoci di continuare. Probabilmente non sono fatalità ma stanno controllando i nostri movimenti, per provare a toglierci questo spazio di azione che ci illudevamo di aver conquistato.

    Tuttavia, sappiamo che i casi che abbiamo intercettato sono solo una parte del totale. Le segnalazioni che arrivano attraverso CRG riguardano quasi esclusivamente persone di origini siriane, mentre raramente abbiamo ricevuto richieste di altre nazionalità, che sappiamo però essere presenti. Inoltre, la dottoressa Mileva, capo di dipartimento dell’obitorio di Burgas, racconta che quasi ogni giorno arriva un cadavere, “la maggior parte sono pieni di vermi, alcuni sono stati mangiati da animali selvatici”. Non sanno più dove metterli, le celle frigorifere sono piene di corpi non identificati ma le famiglie non hanno la possibilità di venire in Bulgaria per avviare le pratiche di riconoscimento, rimpatrio e sepoltura. Infatti, è impossibile ottenere un visto per venire in Europa, nemmeno per riconoscere un figlio – e non ci si può muovere nemmeno da altri paesi europei se si è richiedenti asilo. In alternativa, servono i soldi per la delega ad unə avvocatə e per effettuare il test del DNA attraverso l’ambasciata. Le procedure burocratiche non conoscono pietà. Le politiche di confine agiscono tanto sul corpo vivo quanto su quello morto, quindi sulla possibilità di vivere il lutto, di avere semplicemente la certezza di aver perso una sorella, una madre, un fratello. Solo per sapere se piangere. Anche la morte è una conquista sociale.

    «Sono una sorella inquieta da 11 mesi. Non dormo più la notte e passo delle giornate tranquille solo grazie ai sedativi e alle pillole per la depressione. Ovunque abbia chiesto aiuto, sono rimasta senza risposte. Vi chiedo, se è possibile, di prendermi per mano, se c’è bisogno di denaro, sono pronta a indebitarmi per trovare mio fratello e salvare la mia vecchia madre da questa lenta morte». Così ci scrive S., dalla Svezia. Suo fratello aveva 30 anni, era scappato dall’Afghanistan dopo il ritorno dei Talebani, perché lavorava per l’esercito americano. Aveva lasciato la Turchia per dirigersi verso la Bulgaria il 21 settembre 2022, ma il 25 non era più stato in grado di continuare il cammino a causa dei dolori alle gambe. In un video, gli smuggler che guidavano il viaggio spiegano che lo avrebbero lasciato in un determinato punto, nei pressi della strada 79, e che dopo aver riposato si sarebbe dovuto consegnare alla polizia. Da allora di lui si sono perse le tracce. Non è stato ritrovato nella foresta, né nei campi rifugiati, né tra i corpi dell’obitorio. È come se fosse stato inghiottito dalla frontiera. S. ci invia i nomi, le foto e le date di scomparsa di altre 14 persone, quasi tutte afghane, scomparse l’anno scorso. Lei è in contatto con tutte le famiglie. Neanche noi abbiamo risposte: più la segnalazione è datata più è difficile poter fare qualcosa. Sappiamo che la cosa più probabile è che i corpi siano marciti nel sottobosco, ma cosa dire allə familiari che ancora conservano un’irrazionale speranza? Ormai si cammina sulle ossa di chi era venuto prima, e lì era rimasto.

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    1. РЕЗУЛТАТИ ОТ ДЕЙНОСТТА НА МВР ПРЕЗ 2022 г., Противодействие на миграционния натиск и граничен контрол (Risultati delle attività del Ministero dell’Interno nel 2022, Contrasto alla pressione migratoria e controllo delle frontiere), p. 14.
    2. Per quanto riguarda lə richiedenti asilo, il sistema di “accoglienza” bulgaro è gestito dall’agenzia governativa SAR, e si articola nei campi ROC (Registration and reception center) di Voenna Rampa (Sofia), Ovcha Kupel (Sofia), Vrajdebna (Sofia), Banya (Nova Zagora) e Harmanli, oltre al transit centre di Pastrogor (situato nel comune di Svilengrad), dove si effettuano proceduredi asilo accelerate. […] I centri di detenzione sono due: Busmantsi e Lyubimets. Per approfondire, è disponibile il report scritto dal Collettivo.
    3. Anche così sono chiamati gli smuggler che conducono le persone nel viaggio a piedi.

    https://www.meltingpot.org/2023/10/bulgaria-lottare-per-vivere-lottare-per-morire

    #Bulgarie #Turquie #asile #migrations #réfugiés #frontières #décès #mourir_aux_frontières #street-art #art_de_rue #route_des_Balkans #Balkans #mémoire #morts_aux_frontières #murs #barrières_frontalières #Elhovo #Burgas #Evros #Grèce #routes_migratoires #militarisation_des_frontières #violence #violences_policières #solidarité #anti-frontières #voies_sures #route_79 #collettivo_rotte_balcaniche #hiréarchie_des_corps #racisme #Mileva_Galya #Galya_Mileva

    • Bulgaria, lasciar morire è uccidere

      Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino: la cronaca di un’omissione di soccorso sulla frontiera bulgaro-turca


      I fatti si riferiscono alla notte tra il 19 e il 20 luglio 2023. Per tutelare le persone coinvolte, diffondiamo questo report dopo alcune settimane. Dopo questo primo intervento, come Collettivo Rotte Balcaniche continuiamo ad affrontare emergenze simili, agendo in prima persona nella ricerca e soccorso delle persone bloccate nei boschi lungo la frontiera bulgaro-turca.

      01.00 di notte, suona il telefono del Collettivo. “We got a pregnant woman on Route 79“, a contattarci è un residente nel campo di Harmanli, amico del marito della donna e da noi conosciuto qualche settimana prima. E’ assistito da un’interprete, anch’esso residente nel campo. Teme di essere accusato di smuggling, chiede se possiamo essere noi a chiamare un’ambulanza. La route 79 è una delle strade più pattugliate dalla border police, in quanto passaggio quasi obbligato per chi ha attraversato il confine turco e si muove verso Sofia. Con l’aiuto dell’interprete chiamiamo la donna: è all’ottavo mese di gravidanza e, con le due figlie piccole, sono sole nella jungle. Stremate, sono state lasciate vicino alla strada dal gruppo con cui stavano camminando, in attesa di soccorsi. Ci dà la sua localizzazione: 42.12.31.6N 27.00.20.9E. Le spieghiamo che il numero dell’ambulanza è lo stesso della polizia: c’è il rischio che venga respinta illegalmente in Turchia. Lei lo sa e ci chiede di farlo ugualmente.

      Ore 02.00, prima chiamata al 112. La registriamo, come tutte le successive. Non ci viene posta nessuna domanda sulle condizioni della donna o delle bambine, ma siamo tenuti 11 minuti al telefono per spiegare come siamo venuti in contatto con la donna, come ha attraversato il confine e da dove viene, chi siamo, cosa facciamo in Bulgaria. Sospettano un caso di trafficking e dobbiamo comunicare loro il numero dell’”intermediario” tra noi e lei. Ci sentiamo sotto interrogatorio. “In a couple of minutes our units are gonna be there to search the woman“, sono le 02.06. Ci rendiamo conto di non aver parlato con dei soccorritori, ma con dei poliziotti.

      Ore 03.21, è passata un’ora e tutto tace: richiamiamo il 112. Chiediamo se hanno chiamato la donna, ci rispondono: “we tried contacting but we can’t reach the phone number“. La donna ci dice che in realtà non l’hanno mai chiamata. Comunichiamo di nuovo la sua localizzazione: 42.12.37.6N 27.00.21.5E. Aggiungiamo che è molto vicino alla strada, ci rispondono: “not exactly, it’s more like inside of the woods“, “it’s exactly like near the border, and it’s inside of a wood region, it’s a forest, not a street“. Per fugare ogni dubbio, chiediamo: “do you confirm that the coordinates are near to route 79?“. Ci tengono in attesa, rispondono: “they are near a main road. Can’t exactly specify if it’s 79“. Diciamo che la donna è svenuta. “Can she dial us? Can she call so we can get a bit more information?“. Non capiamo di che ulteriori informazioni abbiano bisogno, siamo increduli: “She’s not conscious so I don’t think she’ll be able to make the call“. Suggeriscono allora che l’interprete si metta in contatto diretto con loro. Sospettiamo che vogliano tagliarci fuori. Sono passati 18 minuti, la chiamata è stata una farsa. Se prima temevamo le conseguenze dell’arrivo della polizia, ora abbiamo paura che non arrivi nessuno. Decidiamo di metterci in strada, ci aspetta 1h e 40 di viaggio.

      Ore 04.42, terza chiamata. Ci chiedono di nuovo tutte le informazioni, ancora una volta comunichiamo le coordinate gps. Diciamo che stiamo andando in loco ed incalziamo: “Are there any news on the research?“. “I can’t tell this“. Attraverso l’interprete rimaniamo in costante contatto con la donna. Conferma che non è arrivata alcuna searching unit. La farsa sta diventando una tragedia.

      Ore 06.18, quarta chiamata. Siamo sul posto e la strada è deserta. Vogliamo essere irreprensibili ed informarli che siamo arrivati. Ripetiamo per l’ennesima volta che chiamiamo per una donna incinta in gravi condizioni. Il dialogo è allucinante, ricominciano con le domande: “which month?“, “which baby is this? First? Second?“, “how old does she look like?“, “how do you know she’s there? she called you or what?“. Gli comunichiamo che stiamo per iniziare a cercarla, ci rispondono: “we are looking for her also“. Interveniamo: “Well, where are you because there is no one here, we are on the spot and there is no one“. Si giustificano: “you have new information because obviously she is not at the one coordinates you gave“, “the police went three times to the coordinates and they didn’t find the woman, the coordinates are wrong“. Ancora una volta, capiamo che stanno mentendo.

      Faremo una quinta chiamata alle 06.43, quando l’avremo già trovata. Ci richiederanno le coordinate e ci diranno di aspettarli lungo la strada.

      La nostra ricerca dura pochi minuti. La donna ci invia di nuovo la posizione: 42.12.36.3N 27.00.43.3E. Risulta essere a 500 metri dalle coordinate precedenti, ma ancor più vicina alla strada. Gridiamo “hello” e ci facciamo guidare dalle voci: la troviamo letteralmente a due metri dalla strada, su un leggero pendio, accasciata sotto un albero e le bambine al suo fianco. Vengono dalla Siria, le bambine hanno 4 e 7 anni. Lei è troppo debole per alzarsi. Abbiamo per loro sono dell’acqua e del pane. C’è lì anche un ragazzo, probabilmente minorenne, che le ha trovate ed è rimasto ad aiutarle. Lo avvertiamo che arriverà la polizia. Non vuole essere respinto in Turchia, riparte solo e senza zaino. Noi ci guardiamo attorno: la “foresta” si rivela essere una piccola striscia alberata di qualche metro, che separa la strada dai campi agricoli.

      Dopo poco passa una ronda della border police, si fermano e ci avvicinano con la mano sulla pistola. Non erano stati avvertiti: ci aggrediscono con mille domande senza interessarsi alla donna ed alle bambine. Ci prendono i telefoni, ci cancellano le foto fatte all’arrivo delle volanti. Decidiamo di chiamare un’avvocata locale nostra conoscente: lei ci risponde che nei boschi è normale che i soccorsi tardino e ci suggerisce di andarcene per lasciar lavorare la polizia. Nel frattempo arrivano anche la gendarmerie e la local police.

      Manca solo l’unica cosa necessaria e richiesta: l’ambulanza, che non arriverà mai.

      Ore 07.45, la polizia ci scorta nel paese più vicino – Sredets – dove ci ha assicurato esserci un ospedale. Cercano di dividere la donna e le bambine in auto diverse. Chiediamo di portarle noi tutte assieme in macchina. A Sredets, tuttavia, siamo condotti nella centrale della border police. Troviamo decine di guardie di frontiera vestite mimetiche, armate di mitraglie, che escono a turno su mezzi militari, due agenti olandesi di Frontex, un poliziotto bulgaro con la maglia del fascio littorio dei raduni di Predappio. Siamo relegati nel fondo di un corridoio, in piedi, circondati da cinque poliziotti. Il più giovane urla e ci dice che saremo trattenuti “perché stai facendo passare migranti clandestini“. Chiediamo acqua ed un bagno per la donna e le bambine, inizialmente ce li negano. Rimaniamo in attesa, ora ci dicono che non possono andare in ospedale in quanto senza documenti, sono in stato di arresto.

      Ore 09.00, arriva finalmente un medico: parla solamente in bulgaro, visita la donna in corridoio senza alcuna privacy, chiedendole di scoprire la pancia davanti ai 5 poliziotti. Chiamiamo ancora una volta l’avvocata, vogliamo chiedere che la donna sia portata in un ambulatorio e che abbia un interprete. Rimaniamo inascoltati. Dopo a malapena 5 minuti il medico conclude la sua visita, consigliando solamente di bere molta acqua.

      Ore 09.35, ci riportano i nostri documenti e ci invitano ad andarcene. E’ l’ultima volta che vediamo la donna e le bambine. Il telefono le viene sequestrato. Non viene loro permesso di fare la richiesta di asilo e vengono portate nel pre-removal detention centre di Lyubimets. Prima di condurci all’uscita, si presenta un tale ispettore Palov che ci chiede di firmare tre carte. Avrebbero giustificato le ore passate in centrale come conversazione avuta con l’ispettore, previa convocazione ufficiale. Rifiutiamo.

      Sulla via del ritorno ripercorriamo la Route 79, è estremamente pattugliata dalla polizia. Pensiamo alle tante persone che ogni notte muoiono senza nemmeno poter chiedere aiuto, oltre alle poche che lo chiedono invano. Lungo le frontiere di terra come di mare, l’omissione di soccorso è una precisa strategia delle autorità.

      L’indomani incontriamo l’amico del marito della donna. Sa che non potrà più fare qualcosa di simile: sarebbe accusato di smuggling e perderebbe ogni possibilità di ricostruirsi una vita in Europa. Invece noi, attivisti indipendenti, possiamo e dobbiamo continuare: abbiamo molto meno da perdere. Ci è chiara l’urgenza di agire in prima persona e disobbedire a chi uccide lasciando morire.

      Dopo 20 giorni dall’accaduto riusciamo ad incontrare la donna con le bambine, che sono state finalmente trasferite al campo aperto di Harmanli. Sono state trattenute quindi nel centro di detenzione di Lyubimets per ben 19 giorni. La donna ci riferisce che, durante la loro permanenza, non è mai stata portata in ospedale per eseguire accertamenti, necessari soprattutto per quanto riguarda la gravidanza; è stata solamente visitata dal medico del centro, una visita molto superficiale e frettolosa, molto simile a quella ricevuta alla stazione di polizia di Sredets. Ci dà inoltre il suo consenso alla pubblicazione di questo report.

      https://www.meltingpot.org/2023/08/bulgaria-lasciar-morire-e-uccidere

      #laisser_mourir

    • Bulgaria, per tutti i morti di frontiera

      Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino: un racconto di come i confini d’Europa uccidono nel silenzio e nell’indifferenza


      Da fine giugno il Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino è ripartito per un nuovo progetto di solidarietà attiva e monitoraggio verso la frontiera più esterna dell’Unione Europea, al confine tra Bulgaria e Turchia.
      Pubblichiamo il secondo report delle “operazioni di ricerca e soccorso” che il Collettivo sta portando avanti, in cui si racconta del ritrovamento del corpo senza vita di H., un uomo siriano che aveva deciso di sfidare la fortezza Europa. Come lui moltə altrə tentano il viaggio ogni giorno, e muoiono nelle foreste senza che nessuno lo sappia. Al Collettivo è sembrato importante diffondere questa storia perchè parla anche di tutte le altre storie che non potranno essere raccontate, affinché non rimangano seppellite nel silenzio dei confini.

      Ore 12, circa, al numero del collettivo viene segnalata la presenza del corpo di un ragazzo siriano di trent’anni, H., morto durante un tentativo di game in prossimità della route 79. Abbiamo il contatto di un fratello, che comunica con noi attraverso un cugino che fa da interprete. Chiedono aiuto nel gestire il recupero, il riconoscimento e il rimpatrio del corpo; ci mandano le coordinate e capiamo che il corpo si trova in mezzo ad un bosco ma vicino ad un sentiero: probabilmente i suoi compagni di viaggio lo hanno lasciato lì così che fosse facilmente raggiungibile. Nelle ore successive capiamo insieme come muoverci.

      Ore 15, un’associazione del territorio con cui collaboriamo chiama una prima volta il 112, il numero unico per le emergenze. Ci dice che il caso è stato preso in carico e che le autorità hanno iniziato le ricerche. Alla luce di altri episodi simili, decidiamo di non fidarci e iniziamo a pensare che potrebbe essere necessario metterci in viaggio.

      Ore 16.46, chiamiamo anche noi il 112, per mettere pressione ed assicurarci che effettivamente ci sia una squadra di ricerca in loco: decidiamo di dire all’operatore che c’è una persona in condizioni critiche persa nei boschi e diamo le coordinate precise. Come risposta ci chiede il nome e, prima ancora di informazioni sul suo stato di salute, la sua nazionalità. E’ zona di frontiera: probabilmente, la risposta a questa domanda è fondamentale per capire che priorità dare alla chiamata e chi allertare. Quando diciamo che è siriano, arriva in automatico la domanda: “How did he cross the border? Legally or illegally?“. Diciamo che non lo sappiamo, ribadiamo che H. ha bisogno di soccorso immediato, potrebbe essere morto. L’operatore accetta la nostra segnalazione e ci dice che polizia e assistenza medica sono state allertate. Chiediamo di poter avere aggiornamenti, ma non possono richiamarci. Richiameremo noi.

      Ore 17.54, richiamiamo. L’operatrice ci chiede se il gruppo di emergenza è arrivato in loco, probabilmente pensando che noi siamo insieme ad H. La informiamo che in realtà siamo a un’ora e mezzo di distanza, ma che ci possiamo muovere se necessario. Ci dice che la border police “was there” e che “everything will be okay if you called us“, ma non ha informazioni sulle sorti di H. Le chiediamo, sempre memori delle false informazioni degli altri casi, come può essere sicura che una pattuglia si sia recata in loco; solo a questo punto chiama la border police. “It was my mistake“, ci dice riprendendo la chiamata: gli agenti non lo hanno trovato, “but they are looking for him“. Alle nostre orecchie suona come una conferma del fatto che nessuna pattuglia sia uscita a cercarlo. L’operatrice chiude la chiamata con un: “If you can, go to this place, [to] this GPS coordinates, because they couldn’t find this person yet. If you have any information call us again“. Forti di questo via libera e incazzatə di dover supplire alle mancanze della polizia ci mettiamo in viaggio.

      Ore 18.30, partiamo, chiamando il 112 a intervalli regolari lungo la strada: emerge grande indifferenza, che diventa a tratti strafottenza rispetto alla nostra insistenza: “So what do you want now? We don’t give information, we have the signal, police is informed“. Diciamo che siamo per strada: “Okay“.

      Ore 20.24, parcheggiamo la macchina lungo una strada sterrata in mezzo al bosco. Iniziamo a camminare verso le coordinate mentre il sole dietro di noi inizia a tramontare. Richiamiamo il 112, informando del fatto che non vediamo pattuglie della polizia in giro, nonostante tutte le fantomatiche ricerche già partite. Ci viene risposto che la polizia è stata alle coordinate che noi abbiamo dato e non ha trovato nessuno; gli avvenimenti delle ore successive dimostreranno che questa informazione è falsa.

      “I talked with Border Police, today they have been in this place searching for this guy, they haven’t find anybody, so“

      “So? […] What are they going to do?“

      “What do you want from us [seccato]? They haven’t found anyone […]“

      “They can keep searching.”

      “[aggressivo] They haven’t found anybody on this place. What do you want from us? […] On this location there is no one. […] You give the location and there is no one on this location“.

      Ore 21.30, arriviamo alle coordinate attraverso un bosco segnato da zaini e bottiglie vuote che suggeriscono il passaggio di persone in game. Il corpo di H. è lì, non un metro più avanti, non uno più indietro. I suoi compagni di viaggio, nonostante la situazione di bisogno che la rotta impone, hanno avuto l’accortezza di lasciargli a fianco il suo zaino, il suo telefono e qualche farmaco. E’ evidente come nessuna pattuglia della polizia sia stata sul posto, probabilmente nessuna è neanche mai uscita dalla centrale. Ci siamo mosse insieme a una catena di bugie. Richiamiamo il 112 e l’operatrice allerta la border police. Questa volta, visto il tempo in cui rimaniamo in chiamata in attesa, parrebbe veramente.

      Ore 21.52, nessuno in vista. Richiamiamo insistendo per sapere dove sia l’unità di emergenza, dato che temiamo ancora una volta l’assoluto disinteresse di chi di dovere. Ci viene risposto: “Police crew is on another case, when they finish the case they will come to you. […] There is too many case for police, they have only few car“. Vista la quantità di posti di blocco e di automobili della polizia che abbiamo incrociato lungo la route 79 e i racconti dei suoi interventi continui, capillari e violenti in “protezione” dei confini orientali dell’UE, non ci pare proprio che la polizia non possegga mezzi. Evidentemente, di nuovo, è una questione di priorità dei casi e dei fini di questi: ci si muove per controllare e respingere, non per soccorrere. Insistiamo, ci chiedono informazioni su di noi e sulla macchina:

      “How many people are you?“

      “Three people“

      “Only women?”

      “Yes…”

      “Have patience and stay there, they will come“.

      Abbiamo la forte percezione che il fatto di essere solo ragazze velocizzerà l’intervento e che di certo nessuno si muoverà per H.: il pull factor per l’intervento della polizia siamo diventate noi, le fanciulle italiane in mezzo al bosco da salvare. Esplicitiamo tra di noi la necessità di mettere in chiaro, all’eventuale arrivo della polizia, che la priorità per noi è il recupero del corpo di H. Sentiamo anche lə compagnə che sono rimastə a casa: davanti all’ennesimo aggiornamento di stallo, in tre decidono di partire da Harmanli e di raggiungerci alle coordinate; per loro si prospetta un’ora e mezzo in furgone: lungo la strada, verranno fermati tre volte a posti di blocco, essendo i furgoni uno dei mezzi preferiti dagli smuggler per muovere le persone migranti verso Sofia.

      Ore 22, continuiamo con le chiamate di pressione al 112. E’ una donna a rispondere: la sua voce suona a tratti preoccupata. Anche nella violenza della situazione, registriamo come la socializzazione di genere sia determinante rispetto alla postura di cura. Si connette con la border police: “Police is coming to you in 5…2 minutes“, ci dice in un tentativo di rassicurarci. Purtroppo, sappiamo bene che le pratiche della polizia sono lontane da quelle di cura e non ci illudiamo: l’attesa continuerà. Come previsto, un’ora dopo non è ancora arrivato nessuno. All’ennesima chiamata, il centralinista ci chiede informazioni sulla morfologia del territorio intorno a noi. Questa richiesta conferma quello che ormai già sapevamo: la polizia, lì, non è mai arrivata.

      Ore 23.45, delle luci illuminano il campo in cui siamo sedute ormai da ore vicine al corpo di H. E’ una macchina della polizia di frontiera, con sopra una pattuglia mista di normal police e border police. Nessuna traccia di ambulanza, personale medico o polizia scientifica. Ci chiedono di mostrargli il corpo. Lo illuminano distrattamente, fanno qualche chiamata alla centrale e tornano a noi: ci chiedono come siamo venute a sapere del caso e perchè siamo lì. Gli ribadiamo che è stata un’operatrice del 112 a suggerici ciò: la cosa ci permette di giustificare la nostra presenza in zona di confine, a fianco ad un corpo senza vita ed evitare le accuse di smuggling.

      Ore 23.57, ci propongono di riaccompagnarci alla nostra macchina, neanche 10 minuti dopo essere arrivati. Noi chiediamo cosa ne sarà del corpo di H. e un agente ci risponde che arriverà un’unità di emergenza apposita. Esplicitiamo la nostra volontà di aspettarne l’arrivo, vogliamo tentare di ottenere il maggior numero di informazioni da comunicare alla famiglia e siamo preoccupate che, se noi lasciamo il campo, anche la pattuglia abbandonerà il corpo. Straniti, e forse impreparati alla nostra presenza e insistenza, provano a convincerci ad andare, illustrando una serie farsesca di pericoli che vanno dal fatto che sia zona di frontiera interdetta alla presenza di pericolosi migranti e calabroni giganti. Di base, recepiamo che non hanno una motivazioni valida per impedirci di rimanere.

      Quando il gruppo di Harmanli arriva vicino a noi, la polizia li sente arrivare prima di vederli e pensa che siano un gruppo di migranti; a questo stimolo, risponde con la prontezza che non ha mai dimostrato rispetto alle nostre sollecitazioni. Scatta verso di loro con la mano a pistola e manganello e le torce puntate verso il bosco. Li trova, ma il loro colore della pelle è nello spettro della legittimità. Va tutto bene, possono arrivare da noi. Della pattuglia di sei poliziotti, tre vanno via in macchina, tre si fermano effettivamente per la notte; ci chiediamo se sarebbe andata allo stesso modo se noi con i nostri occhi bianchi ed europei non fossimo stati presenti. Lo stallo continua, sostanzialmente, fino a mattina: la situazione è surreale, con noi sdraiati a pochi metri dalla polizia e dal corpo di H. L’immagine che ne esce parla di negligenza delle istituzioni, della gerarchia di vite che il confine crea e dell’abbandono sistematico dei corpi che vi si muovono intorno, se non per un loro possibile respingimento.

      Ore 8 di mattina, l’indifferenza continua anche quando arriva la scientifica, che si muove sbrigativa e sommaria intorno al corpo di H., vestendo jeans e scattando qualche fotografia simbolica. Il tutto non dura più di 30 minuti, alla fine dei quali il corpo parte nella macchina della border police, senza comunicazione alcuna sulla sua direzione e sulle sue sorti. Dopo la solita strategia di insistenza, riusciamo ad apprendere che verrà portato all’obitorio di Burgas, ma non hanno nulla da dirci su quello che avverrà dopo: l’ipotesi di un rimpatrio della salma o di un possibile funerale pare non sfiorare nemmeno i loro pensieri. Scopriremo solo in seguito, durante una c​hiamata con la famiglia, che H., nella migliore delle ipotesi, verrà seppellito in Bulgaria, solo grazie alla presenza sul territorio bulgaro di un parente di sangue, da poco deportato dalla Germania secondo le direttive di Dublino, che ha potuto riconoscere ufficialmente il corpo. Si rende palese, ancora una volta, l’indifferenza delle autorità nei confronti di H., un corpo ritenuto illegittimo che non merita nemmeno una sepoltura. La morte è normalizzata in questi spazi di confine e l’indifferenza sistemica diventa un’arma, al pari della violenza sui corpi e dei respingimenti, per definire chi ha diritto a una vita degna, o semplicemente a una vita.

      https://www.meltingpot.org/2023/08/bulgaria-per-tutti-i-morti-di-frontiera

  • La rivoluzione palestinese del 7 ottobre

    «Mi diressi verso Suha che prese Hanin, dicendo: “Non stare via troppo a lungo”. L’abbracciai, insieme alla piccola: “Non ti preoccupare… come gli uomini della Comune, noi invadiamo il cielo!” (…) Avevamo superato lo scoglio dell’autocontrollo, non avevamo versato neppure una lacrima, nessuno di noi aveva pianto».

    (da “Non metterò il vostro cappello” di Ahmed Qatamesh)

    Quando non si ha più niente, si è pronti per condividere tutto.

    La rivoluzione per la liberazione della Palestina del 7 ottobre ha mostrato come esseri umani – espropriati da oltre 75 anni di ogni elemento essenziale all’esistenza – possano condividere l’impossibile, ovvero mettere in ginocchio una potenza nucleare, non solo militarmente ma anche mozzandone la fiducia nel teismo colonialista e razzista.

    La rivoluzione del 7 ottobre ha reinventato leggi fisiche. Ha insegnato che ci si può tirare fuori dalla fossa più profonda del pianeta – quella dove i palestinesi sono stati sepolti dai sionisti e dagli occidentali – senza alcun punto d’appoggio.

    Unico appiglio – interiore e politico, sarebbe meglio dire con Alì Shariati di «spiritualità politica» – è la coscienza assoluta che servare vitam per servire il colone, sopravvivere cioè sottovivere, è il più grande errore che il colonizzato possa compiere nei propri confronti e verso i figli che verranno.

    I nuovi venuti al mondo debbono temere più della morte la vita scuoiata, spogliata fino a tendini e nervi di ciò che umano. Vale in particolar modo per gli oppressi palestinesi, ma anche per i giovani sottomessi dal presente liberista in Occidente.

    L’esistenza schiacciata ritrova significato soltanto nel sollevarsi contro il carnefice. Alzandosi dalla polvere, sorvola muri di segregazione e valichi d’acciaio, abbraccia cieli proibiti, si congiunge carnalmente con le nuvole più morbide per fecondarle e donare inattese stirpi ribelli a ogni terra.

    I guerriglieri di Gaza sui deltaplani sono diventati folate di vento e grida che hanno sovvertito il tempo, hanno dipinto un’immagine di liberazione tra le più elevate della recente storia dell’umanità.

    Un quadro immortale di gioia che nessun palestinese, nessuna donna, nessun uomo schiavizzato dal totalitarismo liberale, si leverà mai dallo sguardo.

    Un’autentica preghiera visiva da recitare con gli occhi di fronte a ogni sopruso subito.

    L’atterraggio sul suolo violentato dai colonizzatori è una nascita per i combattenti. E non si viene alla luce senza coprirsi di sangue. Non ci si libera da un’eterna brutalità senza violenza. Lo sa chiunque conosca la storia dalla parte dei reclusi nell’inferno terreno. In un istante, qualsiasi legame con la vile morale liberale viene bruciato e gli ultimi in rivolta, come abili ramai, maneggiando quel fuoco possono forgiare una naturale e istintiva verità senza diseguaglianze.

    «Quest’uomo nuovo comincia la sua vita d’uomo dalla fine; si considera come un morto in potenza. Sarà ucciso: non è soltanto che ne accetta il rischio, è che ne ha la certezza; quel morto in potenza ha perso sua moglie, i suoi figli; ha visto tante agonie che vuol vincere piuttosto che sopravvivere» ha lasciato scritto incontestabilmente Frantz Fanon.

    Nella gioia nichilista e al contempo creatrice di un futuro imprevedibile senza catene né limiti, il luminoso incantevole sorriso dei rivoluzionari traspare dalla keffiyeh arrotolata sul viso, e invita alla danza sopra i carrarmati nemici. I mostri che travolgevano bambini e insorti, adesso sono schiacciati dai salti di un intero popolo sprigionato.

    E la rivoluzione palestinese prosegue, nonostante i bombardamenti e l’ennesima, incessante strage di gazawi, con la Knesset che trema per i razzi lanciati dalle macerie, con il segretario di stato americano e l’eletto primo boia tra i boia sionisti rinchiusi in un bunker.

    Avanza di giorno in giorno nelle piazze delle città arabe, del Sudamerica e degli stati che il dispotismo capitalista si ostina a denominare Europa. Unite da quella che una volta ho definito «lotta contro questa vita».

    Le parole d’ordine dei movimenti seguono lo straripare palestinese. Scuotono, irridono vie e strade dominate dal profitto di pochi prescelti. Non hanno alcun riflesso della falsa pacificazione imposta ovunque, uccidendo in nome della democrazia e dei valori superiori d’Occidente. Chiedono la liberazione totale della Palestina. Senza concessioni ai sionisti.

    Ne vale la pena rispetto al massacro che gli oppressori compiono a Gaza senza tregua?

    Ne vale la pena davanti al profilarsi deciso della quarta fase del processo secolare e mai finito della Nakba, per citare Joseph Massad, ovvero l’azione terminale che ha come obiettivo lo sterminio ultimo dei palestinesi?

    Sì, perché l’atto storico della Resistenza Palestinese ha una potenza offensiva culturale, oltre che militare, sinora mai vista. L’accelerazione improvvisa dello scontro è una concreta possibilità di salvezza, in confronto a una sentenza di morte di massa in quotidiana esecuzione da decenni. Per loro, e per noi che abitiamo altre sponde del mediterraneo.

    Una sovversione che va oltre la logica utilitarista e tatticista della guerra e non può essere volgarmente chiamata “guerra”.

    Come per i rari urti che fanno irrompere una nuova concezione dell’umano, va adoperata la parola “rivoluzione”.

    A ogni latitudine, questo moto spinge donne e uomini condannati per sempre all’infimo rango a ritrovare la lotta per «una vita profonda».

    Superando il concetto marxista di «arcano della produzione», colgono, svelano l’arcano della distruzione su cui si regge il liberismo. Impulsivamente, animati da una «luxuria mentis» temeraria, vogliono fermarlo.

    Come le migliori rivoluzioni, quella palestinese del 7 ottobre ha l’effetto di far cadere, una a una, le maschere dei nemici.

    A cominciare dal trucco pesante delle garanzie democratiche che si scioglie, scoprendo il volto autoritario e discriminatorio dell’Unione Europea.

    In tanti lo avevamo già scorto nella guerra contro i migranti e gli ultimi sui gradini della scala sociale.

    Ora, per chiunque, è difficile negare la mostruosità repressiva delle dodici stelle di Bruxelles e Strasburgo, sempre più simili a dodici stelle di David.

    *

    Quando non si è più niente, si perde tutto e non si persuade più nessuno.

    Israele e l’Occidente, con il minuscolo stato italiano, sono scossi da una paura incontrollabile. Neanche i detentori delle leve del potere provano a dare credibilità all’interminabile messinscena dell’invincibilità e della democrazia.

    Nello stato d’occupazione, i coloni con doppia nazionalità non sono rassicurati nemmeno dalla rappresaglia su Gaza con ospedali rasi al suolo, bombe a grappolo e fosforo bianco. Finalmente si mettono in fila negli aeroporti per abbandonare la terra che hanno usurpato.

    La république, dopo la lucente e giovanissima insurrezione dell’estate, ha il giusto sentore di poter essere la prossima a venire sommersa dall’onda della rivoluzione del 7 ottobre. Vieta le mobilitazioni in solidarietà con la Palestina e arresta ed espelle Mariam Abu Daqqa, voce nitida del Fronte Popolare. Ormai non si nasconde più: è basata sul suffragio dei mercati e sulla libertà, eguaglianza e fraternità tra banchieri, predatori e assassini in nome dell’extraprofitto.

    La Deutsche Republik militarizza le scuole, i quartieri popolati da immigrati, fa passare l’ultimo libro di Adania Shani dalla premiazione a Francoforte all’indice, proibisce di indossare la keffiyeh e sventolare la bandiera della Palestina. Dal 19 ottobre, a Berlino, manifestanti arabi e tedeschi hanno fatto intendere che non staranno a lungo immobili.

    La repubblica italiana intimidisce inutilmente gli studenti che sostengono la Resistenza Palestinese. Manganella chi contesta gli amici d’Israele a Livorno e Roma. Si prepara all’imminente stagione repressiva, dispensando allarmi bomba fasulli e chiudendo le frontiere laddove possibile. Atti utili a stabilire una condizione d’emergenza che renderà lecito punire il movimento che di minuto in minuto prende forma.

    Questa paura legalizzata di perdere tutto conduce i media dei regimi liberisti dell’Unione Europea a tentare di ridurre la rivoluzione palestinese del 7 ottobre a un’azione terroristico-religiosa, a tracciare parallelismi demenziali con l’11 settembre, il Bataclan, l’Isis e chi ha più benzina da versare sul falò psicotico dello scontro di civiltà, più ne butti.

    Peccato per loro che buona parte dei giovani abbia capito, in ogni angolo del pianeta, che c’è soltanto uno scontro di civiltà: quello tra dominanti e incatenati, tra sfruttatori e sfruttati.

    Una propaganda arabofoba, islamofoba, misoxena, pericolosa, da contrastare con intelligenza, ma assolutamente stantia e prevedibile.

    Se le parole del potere sono logore, in disfacimento, non sono da meno le frasi di tanti «professori di morale» che affermano di schierarsi con i palestinesi. Però dopo aver condannato «i nazisti» di Hamas equiparandoli ai «nazisti» di Tel Aviv, e aver classificato la rivoluzione del 7 ottobre come «un pogrom». Coloro che sono stati visionari interpreti del marxismo occidentale ricorrono dunque alla stessa espressione usata da Rishi Sunak, il primo ministro inglese, fautore della deportazione e dell’assassinio su vasta scala dei migranti che attraversano il canale della Manica.

    Davvero i «disorientatori» della sinistra pacificata non comprendono che nello stato d’insediamento coloniale israeliano non esistono “civili”?

    Davvero non sanno che coloni, armati fino ai denti, assaltano regolarmente le case dei palestinesi e li uccidono?

    Davvero non conoscono la storia fondamentale e preziosa di Hamas al punto di lasciarsi sgocciolare dalla bocca una simile infamia?

    Davvero non immaginano che la Resistenza Palestinese è unita dal 2021 nelle sue diverse componenti e che Hamas è la parte prevalente?

    Davvero non si rendono conto che la Palestina dell’ottobre 2023 rappresenta per le nuove generazioni ciò che il Vietnam (e i Vietcong avevano un’etica guerriera non meno intransigente rispetto a quella della Resistenza Palestinese) ha rappresentato nella loro epoca?

    Non sono ignoranti, se non nell’anima. Semplicemente gli piacciono i palestinesi – ritorniamo ancora a Fanon – quando sono «inferiorizzati», quando sono vittime da contare sul pallottoliere della morte. Perché i palestinesi devono restare, all’immancabile bagno di sangue quotidiano, un’occasione per sentirsi occidentali differenti e buoni.

    Hanno quindi terrore della rivoluzione del 7 ottobre che porta tanti tra i nostri figli a rifiutare e sputare sull’idea razzista, suprematista – da loro sempre magnificata – di fittizia identità europea. La vera progenitrice, persino più del nazionalismo genocida statunitense, del colonialismo israeliano.

    Hanno accettato di essere «uomini viventi miseramente», asserirebbe Pierre Clastres, e non riescono a nuotare in quest’alluvione sovversiva.

    Il loro linguaggio rifugge la logica disgiuntiva della realtà (o – o, o sto con una parte o sto con l’altra parte), reitera l’ipocrita e noto meccanismo del distanziarsi.

    «I professori di morale» oggi, dopo il 7 ottobre, non sono più niente.

    Lo dimostra l’abusato florilegio di congiunzioni negative. «Né con Hamas, né con Israele, né con chi uccide, ma con la Palestina», è l’insensata formula. Quasi che i militanti di Hamas provenissero da una galassia lontana e non godessero, come detto, dell’appoggio consistente del popolo palestinese.

    Lo imparino nella sinistra legalitaria: Allāhu akbar non è il grido di battaglia dei terroristi. È un richiamo consapevole all’inconsistenza del reale e delle nostre pietose ossessioni.

    La Rivoluzione Palestinese è solo iniziata il 7 ottobre.

    È una cesura col passato meravigliosamente e tragicamente irreversibile.

    Le donne e gli uomini della Comune invadono il cielo.

    https://www.osservatoriorepressione.info/la-rivoluzione-palestinese-del-7-ottobre
    #7_octobre_2023 #révolution_palestinienne #révolution #survivre #sousvivre #soumission #oppression #Gaza #totalitarisme_libéral #violence #brutalité #révolte #morale_libérale #subversion #France #Allemagne #Italie #peur #propagande

  • Les départs du #Sénégal vers les #Canaries : une société en proie au #désespoir économique, à la #répression politique et à l’ingérence européenne

    La #route_Atlantique fait encore la une, avec une forte augmentation des passages dans les dernières semaines : à peu près 4000 personnes sont arrivées aux Canaries en septembre et plus 6 000 dans les deux premières semaines d’octobre. Mais le phénomène sous-jacent se dessine déjà depuis juin : la plupart des embarcations sur la route Atlantique font leur départ au Sénégal. Ainsi cet été 2023 les deux tiers des voyages se sont faits dans des #pirogues venant du Sénégal, et un tiers seulement en provenance du Maroc et du Sahara Occidental.

    „Ces derniers temps nous revivons une situation des départs du Sénégal qui nous rappelle le phénomène “#Barça_ou_Barsakh” en 2006 – 2008 et en 2020/2021. Ce slogan “Barça ou Barsakh” qui signifie „soit on arrive à Barcelone, soit on meurt“ est le reflet du plus grand désespoir“ explique Saliou Diouf de Boza Fii, une organisation sénégalaise qui lutte pour la liberté de circulation.

    La population sénégalaise et surtout la #jeunesse fait face à un dilemme impossible : rester et mourir à petit feu dans la galère, ou partir dans l’espoir d’avoir des probabilités de vivre dignement en Europe. À la profonde #crise_économique (effondrement des moyens de subsistance en raison de la #surpêche des eaux sénégalaises et des conséquences du #changement_climatique) s’ajoute l’#injustice de la politique européenne des #visas qui sont quasi impossibles à obtenir. La crise politique au Sénégal rend la situation catastrophique : de nombreux-euses manifestant-es sont abusé-es et arbitrairements emprisonné-es, il y a même des morts. Cela pousse les jeunes à quitter le pays, en empruntant les moyens les plus risqués.

    Nous exprimons notre colère face à cette situation est nous sommes en deuil pour les centaines de personnes mortes en mer cet été.

    Pourtant, les autorités sénégalaises ne se mobilisient pas en soutien à la popluation mais reproduisent à l’identique le discours européen contre la migration qui vise à criminaliser et réprimer la #liberté_de_circulation. Le gouvernment sénégalais a créé une entité dénommée #CILEC (#Comité_interministériel_de_lutte_contre_l’émigration_clandestine). Ce dernier est constitué en grande partie de personnes gradées de l’armée Sénégalaise. Le 27 juillet, le gouvernment a adopté le plan d’action #SNLMI (#Stratégie_nationale_de_lutte_contre_la_migration_irrégulière_au_Sénégal) qui consiste à traquer des soit-disant 3passeurs que l’on traite de #trafiquants_d’êtres_humains. Le 4 août 2023 des répresentants de l’Union Européene et du gouvernement du Sénégal ont inauguré un grand bâtiment pour abriter la DPAF (Division de la police de l’air et des frontières). Toutes ces mesures sont prises en pleine #crise_politique dans le pays : une honte et un manque de respect envers la population.

    Ces derniers mois, il y a une série d’actes de répression qui montre comment le gouvernment sénégalais cherche à intimider la population entière, et surtout la population migrante. Les autorités utilisent l’armée,la gendarmerie et la police pour étouffer toute situation qui pourrait amener des polémiques dans le pays, ce qui est illustré par la liste suivante :

    - Le 10 juillet, 101 personnes ont prit départ de Fass Boye, à Thies. Plus d’un mois après, 38 survivants ont ête retrouvé à 275km du Cap-Vert, seuls 7 corps ont été retrouvés. Quand le gouvernement sénégalais a décidé de rapatrier seulements les survivants et de laisser les morts au Cap-Vert, les populations de Fass Boye ont manifesté contre cette décision. Après les manifestations, la gendarmerie est revenue à 3h du matin pour rentrer dans les maisons pour attraper des manifestant-es, les frapper, puis les amener au poste de police.
    – Dans la nuit du 9 au 10 août sur la plage de Diokoul Kaw dans la commune Rufisque à Dakar, une centaine de jeunes Sénégalais se préparaient pour un départ vers les îles Canaries. Le groupe attendait la pirogue au bord de la mer, à environ 2h du matin. La police sénégalaise a repéré le groupe et après des tirs en l’air pour disperser la foule, un agent de la gendarmerie a ouvert le feu sur la foule qui remontait vers les maisons. Malheureusementune balle a atteint par derrière un jeune garçon qui est finalement mort sur le coup. Jusqu’à présent, ce dossier est sans suite.
    – Un groupe de 184 personnes a quitté le Sénégal le 20 août et a été intercepté par la Guardia Civil espagnole dans les eaux mauritaniennes, qui a ensuite effectué un refoulement. Le groupe a été mis dans les mains de la marine sénégalaise le 30 août et a subi de nombreuses maltraitances de la part des agents espagnols et sénégalais. En plus, 8 personnes sont sous enquête de la Division nationale de lutte contre le trafic (DNLT) et on les poursuit pour association de malfaiteurs, complicité de trafic de migrants par la voie maritime et mise en danger de la vie d’autrui.
    - Le 18 septembre à Cayar dans la région de Thiès, un groupe de personnes qui embarquait pour partir aux Canaries a été interpellé par la gendarmerie lors du départ. Mais l’arrestation a fini par des affrontements entre les gendarmes et la population. Comme d’habitude, les gendarmes sont arrivés encore plus tard dans la nuit pour rentrer dans les maisons pour attraper, frapper et puis encore amener les gens au poste de police.

    Ces exemples démontrent que la stratégie du gouvernment est de semer la peur avec la #violence pour intimider et dissuader la popluation de partir. Nous dénonçons cette politique que nous jugeons injuste, violante, barbare et autoritaire.

    Dans l’indignation devant la médiocrité de nos gouvernants, nous continuons à voir nos frères et sœurs mourir sur les routes migratoires. Aujourd’hui les départs du Sénégal font l’actualité des médias internationaux, mais les problèmes datent depuis des décennies, voir des siècles et prennent racine dans l’#exploitation_capitaliste des nos resources, la politique néo-coloniale et meurtrière de l’Union Européenne et l’incompétence de nos gouvernments.

    https://alarmphone.org/fr/2023/10/20/les-departs-du-senegal-vers-les-canaries

    #émigration #facteurs-push #push-factors #migrations #asile #réfugiés #intimidation #dissuasion #mourir_aux_frontières #décès #morts_aux_frontières #capitalisme

    ping @_kg_ @karine4

  • Lettre ouverte au président de la République française - L’Orient-Le Jour
    https://www.lorientlejour.com/article/1354010/lettre-ouverte-au-president-de-la-republique-francaise.html

    Lettre ouverte au président de la République française
    OLJ / Par Dominique EDDÉ, le 20 octobre 2023 à 10h30

    Monsieur le Président,

    C’est d’un lieu ruiné, abusé, manipulé de toutes parts, que je vous adresse cette lettre. Il se pourrait qu’à l’heure actuelle, notre expérience de l’impuissance et de la défaite ne soit pas inutile à ceux qui, comme vous, affrontent des équations explosives et les limites de leur toute puissance.

    Je vous écris parce que la France est membre du Conseil de sécurité de l’ONU et que la sécurité du monde est en danger. Je vous écris au nom de la paix.

    L’horreur qu’endurent en ce moment les Gazaouis, avec l’aval d’une grande partie du monde, est une abomination. Elle résume la défaite sans nom de notre histoire moderne. La vôtre et la nôtre. Le Liban, l’Irak, la Syrie sont sous terre. La Palestine est déchirée, trouée, déchiquetée selon un plan parfaitement clair : son annexion. Il suffit pour s’en convaincre de regarder les cartes.

    Le massacre par le Hamas de centaines de civils israéliens, le 7 octobre dernier, n’est pas un acte de guerre. C’est une ignominie. Il n’est pas de mots pour en dire l’étendue. Si les arabes ou les musulmans tardent, pour nombre d’entre eux, à en dénoncer la barbarie, c’est que leur histoire récente est jonchée de carnages, toutes confessions confondues, et que leur trop plein d’humiliation et d’impotence a fini par épuiser leur réserve d’indignation ; par les enfermer dans le ressentiment. Leur mémoire est hantée par les massacres, longtemps ignorés, commis par des Israéliens sur des civils palestiniens pour s’emparer de leurs terres. Je pense à Deir Yassin en 1948, à Kfar Qassem en 1956. Ils ont par ailleurs la conviction – je la partage – que l’implantation d’Israël dans la région et la brutalité des moyens employés pour assurer sa domination et sa sécurité ont très largement contribué au démembrement, à l’effondrement général. Le colonialisme, la politique de répression violente et le régime d’apartheid de ce pays sont des faits indéniables. S’entêter dans le déni, c’est entretenir le feu dans les cerveaux des uns et le leurre dans les cerveaux des autres. Nous savons tous par ailleurs que l’islamisme incendiaire s’est largement nourri de cette plaie ouverte qui ne s’appelle pas pour rien « la Terre sainte ». Je vous rappelle au passage que le Hezbollah est né au Liban au lendemain de l’occupation israélienne, en 1982, et que les désastreuses guerres du Golfe ont donné un coup d’accélérateur fatal au fanatisme religieux dans la région.

    Qu’une bonne partie des Israéliens reste traumatisée par l’abomination de la Shoah et qu’il faille en tenir compte, cela va de soi. Que vous soyez occupé à prévenir les actes antisémites en France, cela aussi est une évidence. Mais que vous en arriviez au point de ne plus rien entendre de ce qui se vit ailleurs et autrement, de nier une souffrance au prétexte d’en soigner une autre, cela ne contribue pas à pacifier. Cela revient à censurer, diviser, boucher l’horizon. Combien de temps encore allez-vous, ainsi que les autorités allemandes, continuer à puiser dans la peur du peuple juif un remède à votre culpabilité ? Elle n’est plus tolérable cette logique qui consiste à s’acquitter d’un passé odieux en en faisant porter le poids à ceux qui n’y sont pour rien. Écoutez plutôt les dissidents israéliens qui, eux, entretiennent l’honneur. Ils sont nombreux à vous alerter, depuis Israël et les États-Unis.

    Commencez, vous les Européens, par exiger l’arrêt immédiat des bombardements de Gaza. Vous n’affaiblirez pas le Hamas ni ne protégerez les Israéliens en laissant la guerre se poursuivre. Usez de votre voix non pas seulement pour un aménagement de corridors humanitaires dans le sillage de la politique américaine, mais pour un appel à la paix ! La souffrance endurée, une décennie après l’autre, par les Palestiniens n’est plus soutenable. Cessez d’accorder votre blanc-seing à la politique israélienne qui emmène tout le monde dans le mur, ses citoyens inclus. La reconnaissance, par les États-Unis, en 2018, de Jérusalem capitale d’Israël ne vous a pas fait broncher. Ce n’était pas qu’une insulte à l’histoire, c’était une bombe. Votre mission était de défendre le bon sens que prônait Germaine Tillion « Une Jérusalem internationale, ouverte aux trois monothéismes. » Vous avez avalisé, cette même année, l’adoption par la Knesset de la loi fondamentale définissant Israël comme « l’État-Nation du peuple juif ». Avez-vous songé un instant, en vous taisant, aux vingt et un pour cent d’Israéliens non juifs ? L’année suivante, vous avez pour votre part, Monsieur le Président, annoncé que « l’antisionisme est une des formes modernes de l’antisémitisme. » La boucle était bouclée. D’une formule, vous avez mis une croix sur toutes les nuances. Vous avez feint d’ignorer que, d’Isaac Breuer à Martin Buber, un grand nombre de penseurs juifs étaient antisionistes. Vous avez nié tous ceux d’entre nous qui se battent pour faire reculer l’antisémitisme sans laisser tomber les Palestiniens. Vous passez outre le long chemin que nous avons fait, du côté dit « antisioniste », pour changer de vocabulaire, pour reconnaître Israël, pour vouloir un avenir qui reprenne en compte les belles heures d’un passé partagé. Les flots de haine qui circulent sur les réseaux sociaux, à l’égard des uns comme des autres, n’exigent-ils pas du responsable que vous êtes un surcroît de vigilance dans l’emploi des mots, la construction des phrases ? À propos de paix, Monsieur le Président, l’absence de ce mot dans votre bouche, au lendemain du 7 octobre, nous a sidérés. Que cherchons-nous d’autre qu’elle au moment où la planète flirte avec le vide ?

    Les accords d’Abraham ont porté le mépris, l’arrogance capitaliste et la mauvaise foi politique à leur comble. Est-il acceptable de réduire la culture arabe et islamique à des contrats juteux assortis – avec le concours passif de la France – d’accords de paix gérés comme des affaires immobilières ? Le projet sioniste est dans une impasse. Aider les Israéliens à en sortir demande un immense effort d’imagination et d’empathie qui est le contraire de la complaisance aveuglée. Assurer la sécurité du peuple israélien c’est l’aider à penser l’avenir, à l’anticiper, et non pas le fixer une fois pour toutes à l’endroit de votre bonne conscience, l’œil collé au rétroviseur. Ici, au Liban, nous avons échoué à faire en sorte que vivre et vivre ensemble ne soient qu’une et même chose. Par notre faute ? En partie, oui. Mais pas seulement. Loin de là. Ce projet était l’inverse du projet israélien qui n’a cessé de manœuvrer pour le rendre impossible, pour prouver la faillite de la coexistence, pour encourager la fragmentation communautaire, les ghettos. À présent que toute cette partie du monde est au fond du trou, n’est-il pas temps de décider de tout faire autrement ? Seule une réinvention radicale de son histoire peut rétablir de l’horizon.

    En attendant, la situation dégénère de jour en jour : il n’y a plus de place pour les postures indignées et les déclarations humanitaires. Nous voulons des actes. Revenez aux règles élémentaires du droit international. Demandez l’application, pour commencer, des résolutions de l’ONU. La mise en demeure des islamistes passe par celle des autorités israéliennes. Cessez de soutenir le nationalisme religieux d’un côté et de le fustiger de l’autre. Combattez les deux. Rompez cette atmosphère malsaine qui donne aux Français de religion musulmane le sentiment d’être en trop s’ils ne sont pas muets.

    Écoutez Nelson Mandela, admiré de tous à bon compte : « Nous savons parfaitement que notre liberté est incomplète sans celle des Palestiniens, » disait-il sans détour. Il savait, lui, qu’on ne fabrique que de la haine sur les bases de l’humiliation. On traitait d’animaux les noirs d’Afrique du Sud. Les juifs aussi étaient traités d’animaux par les nazis. Est-il pensable que personne, parmi vous, n’ait publiquement dénoncé l’emploi de ce mot par un ministre israélien au sujet du peuple palestinien ? N’est-il pas temps d’aider les mémoires à communiquer, de les entendre, de chercher à comprendre là où ça coince, là où ça fait mal, plutôt que de céder aux affects primaires et de renforcer les verrous ? Et si la douleur immense qu’éprouve chaque habitant de cette région pouvait être le déclic d’un début de volonté commune de tout faire autrement ? Et si l’on comprenait soudain, à force d’épuisement, qu’il suffit d’un rien pour faire la paix, tout comme il suffit d’un rien pour déclencher la guerre ? Ce « rien » nécessaire à la paix, êtes-vous sûrs d’en avoir fait le tour ? Je connais beaucoup d’Israéliens qui rêvent, comme moi, d’un mouvement de reconnaissance, d’un retour à la raison, d’une vie commune. Nous ne sommes qu’une minorité ? Quelle était la proportion des résistants français lors de l’occupation ? N’enterrez pas ce mouvement. Encouragez-le. Ne cédez pas à la fusion morbide de la phobie et de la peur. Ce n’est plus seulement de la liberté de tous qu’il s’agit désormais. C’est d’un minimum d’équilibre et de clarté politique en dehors desquels c’est la sécurité mondiale qui risque d’être dynamitée.

    Par Dominique EDDÉ. Écrivaine.

  • Israël et la question des otages
    https://laviedesidees.fr/Israel-et-la-question-des-otages

    L’ampleur des enlèvements de civils israéliens le 7 octobre constitue un fait sans précédent. Comment a évolué la doctrine d’Israël sur la #négociation ? Comment déterminer le « prix » d’une vie sur un plan politique et moral ? #Israël est-il prêt à payer plus cher que d’autres pays le retour de ses citoyens ?

    #International #Entretiens_vidéo #violence #terrorisme