• Une #culture_du_viol à la française

    –-> À l’occasion du procès des viols de Mazan, les livre est mis en accès libre

    Du « troussage de domestique » à la « liberté d’importuner »

    « La culture du viol touche toutes les cultures, tous les pays. Elle présente cependant des particularités bien spécifiques selon le milieu dans lequel elle s’exprime et se développe. En #France, chaque fois que la question des #violences_sexuelles est posée dans le débat public, les mêmes réticences s’expriment. Certains s’élèvent pour dénoncer l’horrible #moralisme_réactionnaire qui voudrait condamner la #liberté_sexuelle si chèrement acquise, nuire à l’identité amoureuse nationale en important le #puritanisme au pays des libertés. Avec un vocable bien choisi et une certaine #hypocrisie, on évoque l’#amour_à_la_française en termes de #galanterie, de #courtoisie ou de #libertinage. On loue nos #traditions, l’attention portée aux femmes et la sophistication de nos jeux de #séduction. Derrière ce charmant #vocabulaire, la réalité est beaucoup moins glamour. »

    Dans cet essai documenté et novateur, l’autrice analyse et définit les violences sexuelles, déboulonne toutes nos #idées_reçues et bat en brèche l’argumentaire #déresponsabilisant les violeurs. Elle insiste sur les spécificités hexagonales du concept de « culture du viol », démythifie le patrimoine littéraire et artistique, et démontre, point par point, qu’il est possible de déconstruire les #stéréotypes_de_genre et d’éduquer les hommes à ne pas violer.

    https://www.editionslibertalia.com/catalogue/hors-collection/une-culture-du-viol-a-la-francaise

    #terminologie #mots #littérature #art #éducation #viols #livre #Valérie_Rey-Robert

    déjà signalé par @biggrizzly ici : https://seenthis.net/messages/1072792

  • Faute de #preuves. Enquête sur la #justice face aux révélations #MeToo

    Depuis la vague #MeToo, les dossiers de #violences_sexuelles se multiplient. Dans les commissariats, à la barre, les victimes tentent de faire entendre leur #parole. Mais la réponse policière et judiciaire n’est pas toujours à la hauteur. Les institutions sont mises en cause : de l’accueil défaillant au moment de la déclaration aux #non-lieux trop souvent prononcés, on leur reproche leur inadaptation, voire leur indifférence. « La justice nous ignore, on ignore la justice », avait lancé Adèle Haenel au nom de toutes celles et ceux qui ne portent pas plainte de peur de s’engager dans un parcours du combattant. C’est cette formule qui a guidé #Marine_Turchi dans une enquête saisissante sur les raisons de la défiance.

    Forte du témoignage de près de quatre-vingts interlocuteurs, des magistrat·e·s, des avocat·e·s, des policier·e·s, mais aussi des femmes et des hommes de tous les milieux sociaux, protagonistes d’affaires médiatisées (Gérald Darmanin, Luc Besson, Roman Polanski…) ou pas, l’autrice pointe les #obstacles que rencontrent ces dossiers et mesure, sur le terrain, l’#impact des politiques affichées. Chemin faisant, elle contrecarre les arguments de ceux qui dénoncent opportunément un « #tribunal_médiatique » et crient à la « #chasse_à_l’homme », mais montre aussi les limites de ce que peut la justice. Ainsi au fil de chapitres qui font alterner coulisses de l’enquête et récits poignants, c’est bien le #système dans son entier qu’elle nous dévoile. Il appartient à toutes et à tous, ensuite, de le changer.

    https://www.seuil.com/ouvrage/faute-de-preuves-marine-turchi/9782021483567
    #livre

  • La verità sul “calo degli sbarchi”: tra stupri, violenze e respingimenti con la complicità di Italia e UE

    Le persone non hanno smesso di partire, semplicemente muoiono altrove.

    Durante l’incontro tra la presidente Giorgia Meloni e il primo ministro inglese Keir Starmer avvenuto il 16 settembre a Roma, quest’ultimo si è complimentato 1 con la prima per il successo ottenuto sul calo degli sbarchi in Italia dalla Tunisia. Starmer sarebbe ora interessato ad adottare il “modello italiano” sulle migrazioni, con un particolare interesse rivolto al nuovo Memorandum Italia-Albania e ai metodi di deterrenza utilizzati dall’Unione Europea (UE) e dall’Italia per contrastare le partenze dalle coste nordafricane. Tuttavia, ciò che il Governo o il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi omettono durante le conferenze stampa o i post trionfali sui social è a quale prezzo ottengono tali risultati.
    Una lunga e costosa tradizione di accordi e memorandum sulla pelle delle persone migranti

    Tra i metodi di deterrenza utilizzati dall’UE per contrastare le migrazioni, spicca quello di stipulare accordi con i Paesi terzi (di provenienza o quelli da cui partono maggiormente le persone migranti) 2. Tali accordi si basano sull’esternalizzazione delle frontiere, ossia sull’appaltare le operazioni di respingimento o contenimento dei flussi migratori ad altri Paesi. Si tratta di operazioni estremamente costose e poco trasparenti che il progetto di Action Aid e Irpi Media The Big Wall cerca attualmente di tracciare 3.

    Un esempio tra tutti è l’accordo Italia-Libia – nato nel 2017 durante il governo Gentiloni – che ha la funzione di impedire alle persone migranti di partire o di raggiungere la penisola. Tramite gli ingenti finanziamenti – da centinaia di milioni di euro 4 – dell’Italia e dell’UE che dal 2017 vengono devoluti in Libia, oltre alle motovedette italiane, le milizie libiche catturano le persone migranti che partono dalle coste del Paese per riportarle nei centri di detenzione. In questi centri le persone di ogni età vengono sistematicamente torturate, violentate o uccise.

    “Secondo un rapporto del giugno 2022 della missione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite sulla Libia 5, le persone migranti nel paese subiscono omicidi, sparizioni forzate, torture, schiavitù, violenze sessuali, stupri e altri atti inumani in relazione alla loro detenzione arbitraria. Nel settembre 2022, il Procuratore della Corte Penale Internazionale ha dichiarato in un comunicato che, secondo la valutazione preliminare del suo ufficio, gli abusi contro i migranti in Libia possono costituire crimini contro l’umanità e crimini di guerra”, riportava Human Rights Watch nel 2023 6.

    Ciononostante, il Ministro Piantedosi continua a pubblicare tweet in cui afferma di aver condotto con successo operazioni di respingimento tramite la collaborazione della Libia. Tale dichiarazione, peraltro, è stata recentemente denunciata al Tribunale Penale Internazionale dalla Ong Mediterranea Saving Humans 7 in quanto la Libia non è paese sicuro e il respingimento si configura quindi come violazione delle norme internazionali ed europee in materia – come già stabilito da una sentenza della Cassazione sul caso del respingimento illegale condotto dalla nave italiana Asso 28 8.

    In aggiunta, ricordiamo che mentre il governo sostiene di voler “combattere il traffico di esseri umani” tramite questi accordi, è stato provato come le stesse milizie libiche che si occupano della cattura delle persone migranti siano composte da trafficanti a loro volta.

    Primo fra tutti Abdul Rahman al-Milad, detto “Bija” – recentemente ucciso a Tripoli – che non solo era presente nella lista nera dei trafficanti e ricercati internazionali Onu, ma che nel 2017 era perfino presente a un incontro al Viminale.

    “Nel settembre del 2019 “Avvenire” aveva pubblicato le immagini che ritraevano proprio Bija, allora capitano della cosiddetta “guardia costiera libica”, durante un viaggio in Italia nel 2017, tenuto a lungo riservato dalle autorità. […] Ad oggi, cinque anni dopo la pubblicazione e sette anni dopo i fatti, i governi italiani che si sono succeduti non hanno mai chiarito quali fossero le tappe della missione di al-Milad in Italia, nonostante due dozzine di interrogazioni parlamentari in gran parte rimaste inevase”, si legge su Avvenire. Bija stesso gestiva il centro di detenzione di Zawyia e si è reso artefice dell’annegamento di decine di persone migranti contro cui aveva sparato.

    Lontano dagli occhi, lontano dalle coste italiane: stupri e respingimenti illegali in Tunisia

    Anche la Tunisia è uno dei partner strategici di Italia e UE per le operazioni di esternalizzazione delle frontiere. A questo proposito ricordiamo l’accordo siglato nel giugno del 2023, in seguito a una conferenza a cui hanno partecipato la presidente Meloni, la Commissaria UE Ursula von Der Leyen e il primo ministro olandese Mark Rutte e il presidente tunisino Kais Saied. L’accordo prevedeva lo stanziamento di 100 milioni di euro volto, almeno sulla carta, a “operazioni di ricerca e soccorso”, “gestione delle frontiere”, “lotta contro il traffico di esseri umani” e “politica dei rimpatri”.

    Tuttavia, già nell’agosto dello stesso anno, come riporta l’Irpi 9, l’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) si chiedeva se non ci fosse il pericolo che l’accordo UE-Tunisia potesse facilitare casi di violazioni dei diritti umani a danni di persone migranti nere e di altre fasce di popolazione vulnerabile. Questo perché, come è ormai noto, lo stesso presidente Saied da tempo sta adottando politiche sempre più repressive nei confronti delle persone migranti perlopiù provenienti dai Paesi dell’Africa sub-sahariana.

    La testata giornalistica indipendente tunisina Inkyfada, nel mese di maggio, ha pubblicato un articolo 10 in cui, sviscerando le attuali politiche di Saied in materia di immigrazione e repressione del dissenso, ha affermato che il presidente ha lanciato una campagna d’odio razzista contro le persone migranti nere, associando l’immigrazione a “un piano criminale per cambiare la composizione del panorama demografico in Tunisia”.

    Da lì in poi sono nate vere e proprie persecuzioni contro le persone nere, non solo immigrate ma anche di cittadinanza tunisina 11. L’impiego massiccio delle forze dell’ordine tunisine non ha fatto altro che acuire le violenze contro le persone migranti, le quali non solo vengono illegalmente respinte e scaricate nel deserto 12 , al confine con l’Algeria – come hanno rivelato Irpi Media, Lighthouse Reports e altre testate giornalistiche in un’importante inchiesta internazionale 13 – ma subiscono stupri e altre forme di violenza.

    Su quest’ultimo punto, l’ultima inchiesta del Guardian 14 riporta testimonianze agghiaccianti. Una di queste è quella di Marie, ivoriana di 22 anni, che racconta di essere stata aggredita sessualmente a pochi chilometri da Sfax. “Era chiaro che mi avrebbero violentata”, [afferma Marie]. Le sue urla l’hanno salvata, allertando un gruppo di rifugiati sudanesi di passaggio. I suoi aggressori si sono ritirati in un’auto di pattuglia. Marie sa di essere stata fortunata. Secondo Yasmine, che ha creato un’organizzazione sanitaria a Sfax, centinaia di donne migranti sub-sahariane sono state violentate dalle forze di sicurezza tunisine negli ultimi 18 mesi”, si legge nell’inchiesta.

    Nonostante l’UE sia consapevole delle denunce inerenti agli abusi subiti dalle persone migranti da parte delle stesse autorità con cui collabora per tenerle lontane dall’Europa, secondo il Guaridan “[l’UE] sta chiudendo un occhio”, puntando a esternalizzare il confine meridionale dell’Europa all’Africa. Inoltre, “si prevede di inviare alla Tunisia più denaro di quanto ammesso pubblicamente”.

    Un’altra testimonianza raccolta dall’inchiesta, è quella di Moussa, 28enne originario di Conakry (Guinea). Dopo essere stato catturato in mare dalla guardia nazionale tunisina e riportato a Sfax – insieme ad altre 150 persone, tra cui minori – ha affermato di aver assistito a una scena brutale in cui le stesse autorità hanno iniziato sistematicamene a stuprare le donne.

    “C’era una piccola casa […] ogni ora circa prendevano due o tre donne […] e le violentavano lì. Hanno preso molte donne. Potevamo sentirle urlare, chiedere aiuto. A loro non importava che c’erano 100 testimoni”. Inoltre, Moussa spiega che alcune riuscivano a malapena a camminare, ad altre sono stati restituiti i loro bambini ed altre ancora furono brutalmente picchiate. “C’era una donna incinta e l’hanno picchiata finché il sangue non ha cominciato a uscirle dalle gambe. È svenuta”.

    Oltre alla violenza sessuale, quindi anche le percosse fisiche e sistematiche. Lo racconta Joseph, keniano di 21 anni, che è stato prelevato dal campo profughi di El Amra lo scorso settembre durante un raid della guardia nazionale tunisina. “Siamo stati ammanettati e messi su un autobus. La polizia picchiava tutti con i manganelli: bambini, donne, anziani. Tutti”. E ancora, si legge nell’inchiesta: “Sono stato colpito molte volte [afferma Joseph]”.

    Ad altri è andata peggio: una guardia ha sparato un proiettile di gas lacrimogeno in faccia a un amico. “Il suo occhio pendeva dall’orbita e la sua gamba era stata rotta dalla polizia, quindi doveva saltare”. Joseph racconta che le autorità lo hanno infine abbandonato al confine con l’Algeria, rubandogli il passaporto, il cellulare e i soldi.

    La guardia nazionale tunisina, oltre a violenze sessuali e trattamenti inumani e degradanti, utilizza come forma di deterrenza anche l’intimidazione nei confronti di bar o caffè che offrono i loro prodotti alle persone migranti, blindando soprattutto la città di Sfax: “Adesso Sfax è off-limits. La polizia ha “ripulito” i quartieri dalle persone migranti […]. I proprietari dei bar vengono arrestati se una persona migrante viene sorpresa a ordinare un caffè. Squadracce della polizia [effettuano raid] nei distretti come Haffara, pronti a rimuovere qualsiasi persona migrante”. Le persone sono quindi segregate ad El Emra, dove non arrivano neanche gli aiuti umanitari.

    Benché l’UE continui ad affermare che lo scopo sia porre fine al traffico di esseri umani, quello che continuano a denunciare le organizzazioni umanitarie e le inchieste giornalistiche è che spesso i trafficanti fanno affari con le stesse autorità con cui collabora l’Europa.

    Infatti, sottolinea il Guardian: “L’UE afferma di voler migliorare il codice di condotta per la polizia tunisina, un’ambizione che incorpori la formazione sui diritti umani. I contrabbandieri di Sfax, tuttavia, raccontano al Guardian di una corruzione diffusa e sistematica tra loro e la guardia nazionale. La guardia nazionale organizza le barche del Mediterraneo. Li guardano entrare in acqua, poi prendono la barca e il motore e ce li rivendono”.

    Un circolo vizioso quindi, dove sostanzialmente l’UE e l’Italia si rendono artefici di false “soluzioni” securitarie da centinaia di milioni di euro, finanziando ed equipaggiando forze di polizia di paesi terzi che a loro volta collaborano con trafficanti. Trafficanti che, a differenza di chi poi viene incriminato o incriminata per “scafismo” come capro espiatorio solo perché sull’imbarcazione aiutava compagni e compagne di viaggio, si guardano bene dal rischiare la vita nel Mediterraneo. Resta quindi da chiedersi chi siano allora i veri mandanti di trafficanti, torturatori e autorità di frontiera violente.

    Calano gli sbarchi, ma muoiono altrove

    Utilizzando motovedette fornite dall’Europa, si legge nell’inchiesta del Guardian, la guardia nazionale marittima della Tunisia ha impedito a più di 50.000 persone di attraversare il Mediterraneo, da qui nasce il calo del numero di persone che arrivano in Italia e per cui Starmer si è complimentato con Meloni.

    “Si sostiene che 127 milioni di sterline (ossia oltre 151 milioni di euro) come parte di un più ampio accordo su migrazione e sviluppo siano stati trasferiti direttamente a Saied. Alla richiesta di chiarimenti, la Commissione europea afferma che il pagamento è avvenuto in seguito all’incontro con la Tunisia”, riporta il Guardian. Quindi se da un lato è vero che c’è stato un calo degli sbarchi, dall’altro il governo Meloni si guarda bene dal rivelare a microfoni e telecamere a quale prezzo.

    Di fatto, le persone migranti continuano a partire, semplicemente vengono uccise o muoiono altrove, nella piena consapevolezza di una Fortezza Europa che preferisce da un lato stipulare accordi con Paesi dove il rispetto dei diritti fondamentali non esiste; dall’altro, continuare a trincerarsi senza creare alternative sicure e percorribili che tutelino il diritto alla libertà di movimento.

    https://www.meltingpot.org/2024/09/la-verita-sul-calo-degli-sbarchi-tra-stupri-violenze-e-respingimenti-con
    #migrations #réfugiés #frontières #arrivées #statistiques #diminution #débarquements #invisibilisation #externalisation #dissuasion #pull-backs #refoulements #push-backs #viols #Tunisie #racisme #VSS #violences_sexuelles #violence

  • Accusations contre l’abbé Pierre : écoles, statues, parcs… Ces lieux qui vont être débaptisés après les nombreuses révélations

    Depuis les nouvelles accusations d’agressions et de harcèlement sexuel envers l’abbé Pierre, plusieurs villes comptent débaptiser des rues, jardins ou écoles portant son nom.

    Les témoignages se multiplient contre l’abbé Pierre. Vendredi 6 septembre, 17 nouveaux témoignages ont été révélés dans un rapport du cabinet spécialisé Egaé, relayé par la Fondation Abbé-Pierre. Accusé d’agressions sexuelles, de harcèlement sexuel, mais aussi d’intimidations, par des femmes et des enfants, l’image du religieux est sérieusement endommagée depuis cet été. Si Emmaüs a déjà fait part de son souhait de changer de nom, et donc de débaptiser certains de ces centres, c’est au tour de plusieurs communes de lancer des démarches pour changer des noms de rues, de parcs ou d’écoles.

    À commencer par la Ville de Paris, qui, si elle « salue le travail salutaire mené par la Fondation en toute transparence », a fait part de sa volonté de débaptiser les Jardins Abbé-Pierre Grands Moulins, dans le 13e arrondissement, « dès lors que la Fondation Abbé-Pierre a décidé de changer de #nom ». Une décision prise face aux « révélations […] très graves » concernant le religieux. La mairie assure qu’elle se « rapprochera de la Fondation afin d’examiner les modalités de ce changement », qui devra, dans tous les cas, être approuvé lors d’un Conseil de Paris.

    À #Saint-Étienne, c’est la commission des hommages publics de la Ville qui doit prendre une décision concernant son #square_Abbé-Pierre. Elle doit se réunir avant la fin de l’année, rapporte France Bleu Saint-Étienne. Son président, Gilles Artigues, propose de le renommer square de la Fondation Emmaüs.

    « Pas possible » de garder ce nom

    Au-delà des lieux publics, il y a des #établissements_scolaires, beaucoup faisant partie du privé, qui portent le nom du religieux. En #Ille-et-Vilaine, par exemple, le lycée professionnel Abbé-Pierre de #Tinténiac, qui porte ce nom depuis 2012, va changer, a annoncé la direction. Une réflexion qui avait été entamée dès les premières révélations, en juillet, et qui a été présentée et approuvée par l’équipe pédagogique « à l’unanimité », lors de la réunion de pré-rentrée, le 30 août dernier, précise le directeur, Raphaël Gouablin. Il précise qu’un nouveau nom devrait être soumis d’ici à « la fin du mois de novembre ». Un choix qui sera fait en consultation avec les élèves, les familles et l’équipe éducative et pédagogique.

    Un changement accueilli avec soulagement par une des enseignantes du lycée, Marie-Thérèse, qui s’est confiée au micro de France Inter. « On est obligés de prendre position », assure-t-elle. Dans la commune voisine, à #Hédé-Bazouges, l’école primaire va aussi changer de nom. Ses enfants y sont scolarisés. « Je suis victime d’abus sexuels et de viol et laisser le nom, pour moi, c’est cautionner, en partie. » La directrice, Florina Loisel, avait contacté dès cet été la direction diocésaine, mais depuis les nouvelles révélations, tout s’est accéléré. « On entend qu’il y a des choses auprès d’enfants, raconte-t-elle au micro de France Inter, donc ce n’est pas possible de garder ce nom ».

    Une #fresque recouverte en Seine-Maritime

    Dans le petit village normand d’#Esteville, en Seine-Maritime, plusieurs lieux sont concernés par cette épineuse question. Tout d’abord, le #lieu_de_mémoire, consacré à l’abbé Pierre, sera définitivement fermé, a annoncé Emmaüs. L’école du village va, elle, être renommée, même si « c’est l’intervention de l’abbé Pierre lui-même auprès du ministère de l’Éducation qui nous a permis d’avoir une école avec des murs en dur, un vrai toit », explique le maire, Manuel Grente. Pour lui, « le débat est vite clos au vu des faits et lorsqu’on agresse des enfants ». La fresque à l’effigie de l’abbé et les barrières portant son nom vont également être modifiées, assure la Mairie.

    La ville de #Nancy a, de son côté, annoncé lundi 9 septembre le retrait d’une #plaque_commémorative, posée sept mois plus tôt, en hommage à l’abbé Pierre. « Compte tenu de ces graves révélations, la municipalité de Nancy a donc décidé du retrait définitif de la plaque en la mémoire de l’abbé Pierre », écrit dans un communiqué la ville dirigée par le socialiste Mathieu Klein.

    Dans les Pyrénées-Atlantiques, c’est une statue à l’effigie du religieux qui pose problème. Installée dans la commune de #Lescar, sur un rond-point. Haute de six mètres de haut, elle avait été inaugurée en 2019. La maire, Valérie Revel assure que le sujet doit être discuté avec Emmaüs et le Conseil départemental des Pyrénées-Atlantiques, puisque la statue est située sur une route départementale, rapporte France Bleu Béarn Bigorre.

    https://www.francetvinfo.fr/societe/harcelement-sexuel/accusations-contre-l-abbe-pierre-ecoles-statues-parcs-ces-lieux-qui-von
    #toponymie #Abbé_Pierre #toponymie_féministe #toponymie_politique #viols #VFF #violences_sexuelles #écoles #places #noms_de_rue #Saint-Etienne #espace_public

  • Au #procès des folles

    « Les violences sont déplacées dans le champs du #fantasme »

    Victimes de violences physiques et psychologiques de la part de leurs ex conjoints, Anouk et Marie doivent être expertisées par des psychologues et psychiatres suite aux #démarches_juridiques qu’elles entament, au pénal et au civil. Elles racontent leurs expériences traumatisantes face à des expertes qui minimisent les faits, remettent en doute leurs paroles, symétrisent les comportements ou encore les accusent d’être hystériques et masochistes. Ces psys considèrent qu’Anouk et Marie « y sont sans doute pour quelque chose », compte tenu de leurs profils psychologiques.

    De très nombreuses femmes vivent les mêmes expériences, source de nouveaux traumatismes, devant la justice, mais aussi dans les cabinets libéraux. Cet épisode décrypte le processus de #psychologisation de la violence (des victimes, mais aussi des agresseurs) qui permet de mieux l’occulter. Avec les analyses de psychologues et d’avocates qui tentent de faire changer ces pratiques.

    https://www.arteradio.com/son/61684896/au_proces_des_folles
    #justice #violence #procès_pénal #procès #traumatisme #masochisme #hystérie #occultation #invisibilisation #psychologie #anxiété #VSS #violences_sexuelles #expertise #peur #honte #répétition #larmes #humiliation #culturalisation #religion #histoire_familiale #hystérie #suspicion #intimité #expertise_psychologique #enquête_de_crédibilité #crédibilité #toute_puissance #traumatisme #post-traumatisme #consentement #colère #tristesse #témoignage #anxiété_généralisée #traumatisme_de_trahison #troubles_du_stress_post-traumatique (#TSPT) #subjectivité #psychanalyse #névrose #masochisme #analyses_paradoxales #présomption_de_masochisme #présomption #concepts #mise_en_scène #jeu #mensonge #manipulation #exagération #répétition #co-responsabilité #dépsychologisation #féminisme #violences_politiques #vulnérabilité #expertises_abusives #maltraitance_théorique #théorie #rite_de_domination #violences_conjugales #analyse_sociale #psychologisation_de_la_violence #patriarcat #domination #violence_systémique #féminicide #sorcière #pouvoir #relation_de_pouvoir #victimisation #violences_conjugales #crime_passionnel #circonstances_atténuantes #injustice #haine #haine_contre_les_femmes #amour #viol #immaturité #homme-système #empathie #désempathie #masculinité #masculinité_violente #violence_psychologique #humiliations #dérapage #déraillement #emprise_réciproque #reproduction_de_la_violence #émotions #récidive #intention #contexte #figure_paternelle #figure_maternelle #imaginaire #violence_maternelle #materophobie #mère_incenstueuse #parentalité_maternelle #parentalité_paternelle #dénigrement

    #audio #podcast

    ping @_kg_

    • Merci
      Cette émission a fait un écho tremblant aux accusations et dénigrements de psychologues dont j’avais requis les compétences pour m’aider (croyais-je) alors que j’étais en soin pour un cancer du sein métastasé. La première, je n’ai pas ouvert la bouche que déjà elle me dit que je me suis assise de façon présomptueuse et un autre moment elle rit en me disant qu’elle voudrait bien voir mon enfant pour savoir comment il s’en sort d’avoir une mère comme moi. Une autre, à qui j’ai demandé d’agir en relais le temps des soins pour mon enfant qui débute ses études, et qui présente des phases dépressives suite à des maltraitances de son père, lui conseille d’aller vivre chez lui devenu SDF à 600km de là et me donne un rdv où j’apprends qu’il sera présent, refusant de m’entendre alors que c’est moi qui l’ai toujours payé. Tellement choquée que je pars en voir une autre pour lui demander si il est normal d’agir ainsi. Cette fois, en sortant, j’étais responsable du cancer qui m’avait fait perdre mon sein dû à des problèmes psys de maternité non résolu, j’allais détruire mon entourage, mon enfant également et j’avais juste envie de me suicider.
      J’ai quand même repris trois mois plus tard un suivi par une psychologue de la clinique qui m’a cette fois réellement écoutée et aidée. Jamais eu le courage cependant de retourner voir les 3 autres pour dénoncer leur incompétence et leurs humiliations.

      #psychologues #violences_psychologiques #maternophobie #courage_des_femmes

  • Dans une enquête hors norme publiée le mois dernier dans Libération, le journaliste Willy Le Devin met à jour un groupe pédocriminel composé de plusieurs intellectuels français mis en cause pour des crimes sexuels commis durant plusieurs années sur des enfants. La fille adoptive de l’un d’entre eux, Inès Chatin, témoigne pour la première fois à visage découvert et livre un récit terrifiant des sévices sexuels subis entre ses 4 et 13 ans.

    C’est l’une des enquêtes les plus marquantes de l’année et pourtant, peu de médias s’en sont fait l’écho. À commencer par nous. On n’essaiera pas de se trouver d’excuse mais on avancera l’hypothèse d’une lecture physiquement et émotionnellement si éprouvante que l’on a préféré durant plusieurs jours la repousser au lendemain.

    https://www.lesinrocks.com/cheek/les-hommes-de-la-rue-du-bac-cette-affaire-incarne-la-complaisance-du-mil
    #leshommes_de_la_rue_du_bac

  • « Je n’ai plus aucune confiance » : les patients face à la maltraitance verbale des médecins | Slate.fr
    https://www.slate.fr/story/266711/maltraitance-medicale-verbale-blagues-lourdes-remarques-mepris-sexisme-racisme

    Certaines paroles des soignants ne sont pas sans conséquences, particulièrement dans cette relation fondée sur une forme de #dépendance.

    « Lors d’une consultation, alors que je n’allais pas bien du tout psychologiquement, le médecin m’a dit qu’il pourrait remplacer mon père pour prendre soin de moi mais qu’il était un “père incestueux”, raconte Anita, 28 ans. Sur le moment, j’ai été sidérée, j’ai ri comme si je n’avais pas compris, mais je n’ai jamais pu retourner le voir. J’ai dû chercher un autre médecin. »
    Ayant vécu une longue errance diagnostique et ayant été confrontée à maintes reprises à diverses violences verbales de la part de soignants, j’ai d’abord voulu voir si j’étais un cas isolé. J’ai aussi souhaité comprendre l’impact que ces violences pouvaient avoir sur les patients, sur leur suivi, l’observance de leur traitement et sur la relation qu’ils entretiennent désormais avec le corps médical.

    #médecins #soignants #patients #santé #soin

  • Amina Yamgnane : « Oui, j’ai été une gynécologue-obstétricienne maltraitante » | Le Télégramme
    https://www.letelegramme.fr/france/amina-yamgnane-oui-jai-ete-une-gynecologue-obstetricienne-maltraitante-

    Médecin depuis 24 ans, Amina Yamgnane sort un livre coup de poing sur les violences gynécologues et obstétricales. La fille de l’ancien ministre Kofi Yamgnane, qui a ouvert la clinique des femmes à Paris en 2016, y fait son mea culpa. Elle en appelle à une politique publique de la bientraitance.

    Formée à la médecine en Belgique, vous avez ensuite exercé à l’hôpital Necker, avec une spécialité sur les grossesses à très haut risque. Vous parlez d’années « sans empathie » et dites que vous avez été, vous-même, « maltraitante dans le soin ». La faute à qui ?

    Amina Yamgnane : « La faute à l’enseignement que nous, médecins, avons reçu depuis la nuit des temps ! Nous sommes, depuis toujours, centrés sur l’organe et la maladie, sans nous préoccuper de l’individu qui les traverse. Je suis partie de Bretagne en 1988, j’ai été diplômée de gynécologie obstétrique à l’université de Louvain, en Belgique, en 2000. On parle aussi d’une époque où les droits du patient étaient moins larges, du point de vue du droit. La notion de consentement n’est apparue qu’en 2002 en France : ça ne venait à l’idée de personne d’informer les patient(e) s sur les traitements, par exemple. Ni de demander à une femme si ça la dérangeait d’être nue pour l’examen gynécologique. Encore moins si elle acceptait la pose d’un spéculum. J’ai 54 ans, je suis moi aussi l’héritière de cette médecine à la croisée du non-consentement, de l’abus de pouvoir, du paternalisme et de la misogynie. Oui, j’ai été maltraitante dans le soin, même si c’était malgré moi ».

    Quel meilleur exemple de maltraitance pouvez-vous nous donner. Et comment en êtes-vous sortie ?
    « Le plus emblématique est le choix de la contraception. Voilà ce que j’ai longtemps dit à mes patientes : Madame, vous n’avez pas encore eu d’enfant ? Alors pas de stérilet, car cela vous expose aux risques d’infection. Quant à une ligature tubaire : si vous n’avez pas au moins quarante ans et plus de deux enfants, jamais de la vie ! Encore aujourd’hui, je mets au défi une femme de 32 ans sans enfant d’obtenir une ligature des trompes. La loi nous contraint pourtant à entendre la dame, même si c’est pour faire valoir la clause de conscience ensuite. Le déclic, je le dois à la pédopsychiatre Françoise Molénat, qui m’a conseillé, en 2003, une formation sur le ressenti des patientes en maternité. J’ai d’abord été hermétique à tous ces témoignages de ratages sur des situations obstétricales banales. Je n’avais pas fait toutes ces années d’études pour me faire dicter la leçon ! Et puis, un jour, j’ai été prise d’un vertige. Il se trouve que j’étais enceinte et que j’ai senti mon enfant bouger dans mon ventre. Tout d’un coup, je me suis identifiée à ces femmes qui me racontaient leur quotidien. Ça, l’université ne me l’avait jamais enseigné. Pire, mes professeurs me l’avaient toujours interdit ! »

    « On sait qu’une femme sur six en cabinet de gynécologie a été victime de violences sexuelles. Ne pas en tenir compte, rompre la confiance des soins, c’est prendre le risque qu’elles ne se soignent plus demain. »
    Le #MeToo et les exigences de la société rattrapent aussi votre profession. Des médecins en vue, comme le Pr Daraï ou la pédiatre Caroline Rey-Salmon, ont été récemment visés. L’un a été mis en examen pour violences volontaires, la seconde a fait l’objet d’une plainte pour agression sexuelle. Pour vous, la profession vit encore dans le déni ?
    « Malheureusement, oui, et il y a urgence à réagir. Le cas du Pr Daraï est emblématique. Qu’un professeur des universités, praticien hospitalier (PUPH), hautement réputé et connecté à l’international, n’ait lui-même pas reçu la formation pour faire évoluer sa pratique, cela pose grandement question. Il n’avait que 45 ans quand la loi sur le consentement est sortie ! Cela montre qu’on a collectivement failli. Heureusement, la jeunesse pousse pour que ça change, que ça soit côté patientes ou chez les jeunes gynécologues. Je les admire beaucoup et je compte aussi sur elles pour y arriver. »

    Votre Clinique des femmes, à Paris, expérimente, depuis 2016, un modèle plus vertueux. Mais il est aussi coûteux et forcément sélectif. Est-ce une solution pour demain ?
    « On y expérimente l’écoute active, auprès de 12 000 patientes par an. On ouvre sept jours sur sept mais on a diminué les cadences, le personnel n’est plus en burn-out, et le bénéfice, pour les femmes, va au-delà de ce que nous pouvions imaginer. On sait qu’une femme sur six, en cabinet de gynécologie, a été victime de violences sexuelles. Ne pas en tenir compte, rompre la confiance des soins, c’est prendre le risque qu’elles ne se soignent plus demain. C’est aussi laisser leurs futurs enfants dans le mal-être transmis par les 17 % de dépression post-partum en France. Alors oui, nous avons fortement investi et, à 140 €, nos consultations sont coûteuses. Mais s’il était intégré dans une politique nationale, ce surcoût éviterait, in fine, des dépenses qui s’avèrent aujourd’hui bien plus importantes. »

    « Il faut en finir avec le mythe de l’heureux événement. On gagnerait à informer loyalement et systématiquement les citoyennes sur les réalités de l’accouchement. »
    Le paternalisme se niche, d’après vous, sur les réseaux sociaux et jusque dans la préparation à l’accouchement…
    « Oui, car ils continuent à véhiculer le mythe de l’heureux événement. Or, on gagnerait à informer loyalement et systématiquement les citoyennes sur les réalités de l’accouchement. Quand on est enceinte pour la première fois, on a 20 % de risque d’avoir une césarienne et 20 % d’un accompagnement par instrumentation. On a encore six chances sur dix d’accoucher par voie basse, pas plus. Ne pas dire les réalités en face peut générer par la suite de la souffrance et même de la défiance à l’égard de la profession. Et ça aussi, c’est déjà du paternalisme. »

    Vous en appelez à une politique publique et à un « Grenelle » de la bientraitance en gynécologie obstétrique. Pourquoi ?
    « J’estime qu’il est temps de se mettre autour de la table pour changer de méthode. Le XXe siècle a été celui de la haute technicité, qui a permis de diminuer la mortalité à l’accouchement et de médicaliser les interruptions volontaires de grossesse. Le XXIe siècle doit devenir celui de l’humanisation des soins et de la prise en compte de la santé mentale. La bientraitance devrait par exemple faire partie intégrante des critères retenus par la Haute autorité de santé (HAS) pour évaluer les accouchements. En concentrant de plus en plus l’activité dans des grandes maternités, le système de soins pédale actuellement dans le mauvais sens. Si on attend cinquante ans pour s’en rendre compte, il sera trop tard. »

    « Prendre soin des femmes. En finir avec les violences gynécologiques », du Dr Amina Yamgnane. Aux éditions Flammarion. 21 €

    • Pff, oui @monolecte 140€ ça fait tiquer.
      Pour les pauvres, tu peux toujours te faire agresser gratuitement (agression payé par la sécu aux agresseurs) par un gynéco qui te demande, la main dans le vagin (contre une pilule du lendemain) si hier c’était bon comme ça avec ton copain ? ou l’autre qui t’annonce qu’elle va te violer elle aussi quand tu lui as pourtant spécifié tremblante que tu avais été victime de viols.

      Je vois plutot un argument de vente pour sa clinique qu’un réel méaculpa, elle est devenue humaine à quel moment ? et à quel moment elle demande pardon à ses patientes ? à partir de 140 la consultation c’est motivant de retenir ses instincts de destruction de l’autre.

      « On sait qu’une femme sur six en cabinet de gynécologie a été victime de violences sexuelles. Ne pas en tenir compte, rompre la confiance des soins, c’est prendre le risque qu’elles ne se soignent plus demain. »

    • Nous sommes, depuis toujours, centrés sur l’organe et la maladie, sans nous préoccuper de l’individu qui les traverse, alors même que celle-ci dispose éventuellement d’un revenu non négligeable !

      N’empêche, son cas plaide en faveur d’une expertise qui fait défaut dans bien des cas. À quand l’interdiction des professions de santé à toute personne qui n’a pas expérimenté un état pathologique ou un moment de dépendance aux soignants ?

      #médecine #accès_aux_soins #femmes #gynécologie #violences_sexuelles

    • Tous ces gens qui ont été dans le noir pendant tant d’années, alors qu’on n’écoutait pas les « radicaux », les militants, qui avaient raison, dans tous les domaines, médecine, nucléaire, nutrition, etc. Et qui maintenant se refont une blancheur faisant leur « mea culpa » de toutes les horreurs qu’ils ont commises.

      Et les lanceurs d’alerte qui l’ont payé de leur vie personnelle, professionnelle, parfois de leur vie, eux n’ont droit à aucune ligne dans les médias, aucune reconnaissance de personne.

  • Comment vivre quand on a été un enfant battu par son père, violé à plusieurs reprises à l’âge de 8 ans par un grand-oncle prêtre, puis par deux de ses cousins ? L’histoire d’Arnaud Gallais est stupéfiante. Ce film retrace son parcours et nous raconte comment il est devenu une figure incontournable de la lutte contre les violences sexuelles faites aux enfants.
    https://www.france.tv/films/longs-metrages/5874063-inceste-une-homme-en-colere.html
    #violences_sexuelles_enfants #pédocriminalité

  • #Lo_stupro: il monologo di #Franca_Rame violentata da un commando di neofascisti nel 1973

    Franca Rame venne sequestrata il 9 marzo 1973. All’epoca molto impegnata insieme al marito, Dario Fo, non solo nell’attività teatrale, ma anche in favore dei carcerati e in particolare dei detenuti di estrema sinistra, venne quel giorno, in Via Nirone a Milano, fatta salire a forza su un furgone, sottoposta a violenza carnale e successivamente abbandonata in un parco.

    https://www.youtube.com/watch?v=8XsAScSWLog


    #viol #monologue #violences_sexuelles #kidnapping #viol_de_groupe #fascistes #témoignage #peur #théâtre #cigarettes #humiliation #extrême_droite #Italie

  • Violences sexuelles : des récidivistes au volant des bus et des cars scolaires
    https://disclose.ngo/fr/article/violences-sexuelles-des-recidivistes-au-volant-des-bus-et-des-cars-scolair

    Chaque jour, des chauffeurs de bus condamnés pour violences sexuelles prennent le volant, malgré les risques de récidive. D’après l’enquête de Disclose, les trois-quarts de leurs victimes étaient mineures au moment des faits. Enquête sur un fléau facilité par l’absence de contrôle des employeurs comme des autorités. Lire l’article

  • L’État refuse de donner 41.000 euros pour sauver Point de Contact, maillon crucial dans la lutte contre la pédocriminalité en ligne

    Malgré ses discours pour défendre les mineurs en ligne, le gouvernement ne semble pas décidé à aider à hauteur de 41.000 euros un acteur clé sur ce sujet. L’association Point de Contact, qui remonte le plus de contenus pédocriminels auprès de Pharos, s’attelle depuis 25 ans à nettoyer le web des contenus illicites. Faute de subvention, il compte déposer le bilan.

    41 000 euros. C’est la somme qui manque à Point de Contact, l’un des acteurs les plus actifs en France dans la lutte contre les contenus illicites en ligne, pour poursuivre sa mission. Depuis 25 ans, cette petite équipe de six personnes épluche des dizaines de milliers de contenus signalés par les internautes, les catégorise, et les fait si besoin retirer du Web et remonter aux autorités. Un travail de fourmi pour tenter de « nettoyer » , ou du moins éponger, le web des contenus problématiques, notamment pédocriminels, haineux, et sexistes. Mais l’association n’est pas parvenue à obtenir cette somme demandée à l’Etat. Son président, Jean-Christophe Le Toquin, a donc annoncé le 29 février sur les réseaux sociaux avoir pris rendez-vous avec le tribunal pour déposer le bilan.

    « Compte tenu de la somme dérisoire que nous demandons, ce n’est pas un problème d’argent, mais un problème de fond » , tranche-t-il.
    . . . . . . .

    Source et suite : https://www.latribune.fr/technos-medias/internet/l-etat-refuse-de-donner-41-000-euros-pour-sauver-point-de-contact-maillon-

    #pédocriminalité #pédophilie #web #haine #sexisme #violophilie #impunité #violences_sexuelles #violence #internet #réseaux_sociaux

  • Étudiantes en terrain miné

    Si les étudiantes sont 5 fois plus victimes de violences sexistes et sexuelles que la moyenne des femmes, l’université serait-elle un terrain miné ?
    Charlotte Espel donne la parole à 5 étudiantes ou doctorantes, victimes de #harcèlement ou de #viol, qui se battent pour que les violences ne soient plus passées sous silence.

    Les #chiffres sont édifiants. Selon l’Observatoire des violences sexuelles et sexistes dans l’enseignement supérieur, en France, 1 étudiante sur 10 aurait été victime d’#agression_sexuelle lors de ses #études. 1 étudiante sur 20 de viol. 60% des étudiant(e)s ont été victimes ou témoins d’au moins une violence sexiste ou sexuelle. 45% des étudiant(e)s n’ont accès à aucun dispositif de lutte contre les violences ou d’accompagnement au sein de leur établissement.

    Après le scandale « #Sciences_Porcs » début 2021 et les récentes enquêtes ayant dénoncé l’ampleur des viols et agressions sexuelles à Centrale Supelec ou en écoles de commerce, de plus en plus d’étudiant(e)s dénoncent des cas de harcèlement ou d’agressions sexuelles.

    Quelles conséquences sur la psyché humaine ? Comment se reconstruire ? Quelle réponse des pouvoirs publics dans la prévention et le traitement de ces violences ?

    A travers des témoignages poignants, le #documentaire de Charlotte Espel met en lumière ce #drame_sociétal méconnu et le travail de ces associations qui tentent de briser l’#omerta.

    https://www.france.tv/france-3/paris-ile-de-france/la-france-en-vrai-paris-ile-de-france/5678475-etudiantes-en-terrain-mine.html

    #VSS #violences_sexistes #violences_sexuelles #étudiants #étudiantes #université #facs #témoignage #vidéo #documentaire #film_documentaire #ESR

    ping @_kg_

  • ’Entre-soi’, ’omerta’, ’défaillances systémiques’... Le rapport de la #commission_d'enquête étrille le fonctionnement du monde sportif | LCP - Assemblée nationale
    https://www.lcp.fr/actualites/entre-soi-omerta-defaillances-systemiques-le-rapport-de-la-commission-d-enquete-

    Dans ce document de plus de 260 pages, que LCP a pu consulter avant sa présentation en conférence de presse mardi à l’Assemblée nationale, la rapporteure Sabrina Sebaihi (Ecologiste) dresse un portrait accablant de l’univers du #sport_français, pointant l’"omerta" et l’opacité qui y ont régné, et y règnent parfois encore, aussi bien concernant les affaires ayant trait aux #violences_sexuelles et psychologiques, aux phénomènes discriminatoires, ou encore à la #gestion_financière parfois hasardeuse des fédérations. Elle confirme d’ailleurs avoir fait face à des « difficultés » pour obtenir des documents auprès de certaines instances, un phénomène « symptomatique », selon elle, du « défaut de #culture_démocratique » qui gangrène les instances sportives.

    De même, la rapporteure déplore les nombreux « mensonges, inexactitudes, approximations, expressions de déni et de désinvolture » auxquels les députés ont été confrontés au cours de leurs auditions. Résultat, pas moins de 7 signalements à la justice pour de possibles parjures ont été effectués à la suite des quelque 92 auditions menées.

    #discriminations

    Le rapport parlementaire : https://www.assemblee-nationale.fr/dyn/16/rapports/cefedespo/l16b2012-ti_rapport-enquete.pdf

  • « Eux, ils arrivent à quinze, ils te foutent la misère, mais toi, tu es toute seule » : Nine revient sur 19 années de placard – L’envolée
    https://lenvolee.net/eux-ils-arrivent-a-quinze-ils-te-foutent-la-misere-mais-toi-tu-es-toute-se

    Émission de l’Envolée du vendredi 12 janvier 2024

    On diffuse un long et très fort entretien avec Nine, prisonnière #longue_peine et correspondante de longue date de l’Envolée, récemment sortie et qui revient sur ses 19 années de placard pendant lesquelles elle s’est fait trimballée dans les toutes les #prisons_pour_femmes de #France. Elle raconte les décès, les trafics et les violences des matons, des #ERIS et des ELAC, les fouilles abusives, et les #viols et les #violences_sexuelles des surveillants dans le quartier pour femmes des #Baumettes. Mais aussi les solidarités et les révoltes, et toutes les fois où elle s’est battue pour ses codétenues. Pendant toute sa détention, elle n’a jamais arrêté de se bagarrer contre l’administration pénitentiaire qui lui a fait payer très cher. Elle décrit aussi les façons dont la tôle l’a détruite et les séquelles qu’elle découvre depuis sa sortie il y a quelques mois.

    « J’ai pris grave. Pour prendre 51 CRI au total, c’est qu’ils n’y sont pas allés avec le dos de la cuillère ! Les Elac m’ont massacrée pour me sortir du QD alors que le téléphone ne m’appartenait pas. Donc oui, ils sont rentrés, à quinze. Et les Eris, et les Elac, à coup de pieds, le plastique dans la gueule, plaquée contre le mur, menottée, tirée comme un chien par les menottes, comme une merde, à éclater mon bras, etc. Mon doigt en charpente, le dos éclaté, la bouche qui coule du sang. Il te prend le crâne et il te plaque boum ! la tête contre le mur, tu crois quoi ? C’est gratuit ? Après il faut apprécier ces gens-là ? Moi je peux pas. »

    « Taper dans les barreaux collectivement c’est pas illégal, puisqu’il faudrait une caméra qui filme tout le monde. Sauf que tout le monde met un rideau de l’autre côté de la fenêtre et tes barreaux sont à l’intérieur. Tu prends ta casserole et bim bim bam ! Je te garantis que quand c’est 200 femmes qui le font, ah ça fait du bruit ! Les voisins ils sont contents hein ! Ça commence à 20h, ça finit à minuit. »

    https://www.mediafire.com/file_premium/zyoudwhih3ma7c0/lenvolee-24-01-12.mp3


    L’abonnement au journal est gratuit pour les prisonniers et les prisonnières.
    #lenvolée

  • Une dissolution qui ne dit pas son nom : celle de la CIIVISE
    Le gouvernement a décidé de substituer à la Commission indépendante sur l’inceste et les violences sexuelles faites aux enfants (CIIVISE) une structure associative (donc non institutionnelle), et d’écarter celui qui la présidait et était devenu l’incarnation de la dénonciation de ces violences sexuelles faites aux enfants : le juge Durand et son équipe. https://www.oveo.org/une-dissolution-qui-ne-dit-pas-son-nom-celle-de-la-ciivise
    #dissolution #Ingérence#inceste#violences_sexuelles#protection_de_l'enfance.

  • Crimes sexuels de guerre : une histoire de la #violence

    Israël a récemment annoncé l’ouverture d’une enquête sur de possibles #crimes_sexuels commis par le #Hamas. Le viol comme arme de guerre est aussi mis en avant dans le cadre de la guerre en Ukraine. L’invasion russe peut-elle servir de modèle pour comprendre les mécanismes de ces #violences ?

    Avec

    - #Sofi_Oksanen Écrivaine
    - #Céline_Bardet Juriste et enquêtrice criminelle internationale, fondatrice et directrice de l’ONG « We are Not Weapons of War »

    Israël a récemment ouvert une enquête sur d’éventuels crimes sexuels perpétrés par le Hamas. Parallèlement, l’utilisation du viol comme arme de guerre a été évoquée dans le contexte du conflit en Ukraine. Peut-on utiliser l’invasion russe comme un modèle pour comprendre les mécanismes de ces violences ?
    Le viol, arme de guerre traditionnelle des Russes ?

    Par son histoire familiale et ses origines estoniennes, l’écrivaine finlandaise Sofi Oksanen a vécu entre l’URSS et la Finlande et a grandi avec des récits de guerre lors de l’occupation soviétique des États baltes. Ces thèmes sont aujourd’hui centraux dans ses écrits. Selon elle, « dans la stratégie de guerre russe, il y a toujours eu des violences sexuelles. L’invasion en Ukraine est une sinistre répétition de la guerre telle que l’ont toujours menée des Russes. Et pourquoi n’ont-ils jamais cessé ? Car on ne leur a jamais demandé de le faire. »

    Les crimes sexuels font partie intégrante de la manière dont les Russes font la guerre. Elle déclare même dans son dernier ouvrage La guerre de Poutine contre les femmes que des soldats russes demandent la permission à leur famille pour commettre des viols : « ils sont adoubés et encouragés à commettre des crimes sexuels et des pillages. » Céline Bardet, juriste et enquêtrice internationale, insiste-t-elle sur la nécessité de documenter et de punir ces féminicides pour ce qu’ils sont. Elle dresse un parallèle avec la guerre en Syrie : « les femmes se déplaçaient par peur d’être violées. Quand on viole des hommes, on veut aussi les féminiser et les réduire à néant. »

    Comment mener une enquête sur les violences sexuelles en temps de guerre ?

    « J’ai créé depuis longtemps un site qui publie des rapports sur la situation. J’ai voulu écrire ces livres, car je voulais rendre accessible, faire comme une sorte de guide pour permettre de comprendre les crimes de guerre et comment les documenter. Sur les sites, il est difficile de relier les point entre eux pour comprendre la manière dont la Russie mène ses guerres. Elle conquiert et s’étend de la même manière. Il faut reconnaître ce schéma pour mieux le combattre. », explique Sofi Oksanen.

    Une opération hybride se déroule actuellement à la frontière entre la Finlande et la Russie : « la Russie nous envoie des réfugiés à la frontière. Cela s’était déjà produit en 2015, en Biélorussie également. Loukachenko a beaucoup recouru à ce moyen de pression. La Finlande a alors fermé sa frontière ». La Russie est également accusée de déportation d’enfants en Ukraine : « ces violences sont documentées. Concernant l’acte d’accusation émis par la CPI, beaucoup de gens en Ukraine y travaillent, mais avec des zones occupées, le travail de la justice prend plus de temps », déclare Céline Bardet.

    Concernant les violences effectuées contre des femmes par le Hamas le 7 octobre, Céline Bardet émet néanmoins des réserves sur la potentielle qualification de « féminicide de masse » : « les éléments ne sont pas suffisants pour parler de féminicide de masse. Pour le considérer ainsi, il faut prouver une intention particulière de commettre des violences contre des femmes, car elles sont des femmes. Pour le moment, le féminicide n’est d’ailleurs pas une définition pour le droit international ».

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/france-culture-va-plus-loin-l-invite-e-des-matins/crimes-sexuels-de-guerre-une-histoire-de-la-violence-3840815
    #crimes_sexuels #viols_comme_arme_de_guerre #viols #guerre #viol_de_guerre #Bosnie #Bosnie-Herzégovine #Rwanda #génocide #outil_génocidaire #Libye #hommes #Ukraine #humiliation #pouvoir #armée_russe #torture #impunité #patriarcat #déshumanisation #nettoyage_ethnique #violence_de_masse #violences_sexuelles_dans_la_guerre #systématisation #féminicide #féminicides_de_masse #intentionnalité

    #podcast #audio

    Citations :
    Sofi Oksanen (min 30’54) : « Ce qui m’a poussée à écrire ce livre c’est que, vous savez, les #procès, ça coûte très cher, et ce qui m’inquiète c’est que certains crimes sexuels vont être marginalisés et ne sont pas jugés comme ils le devraient. Ils ne vont pas être jugés comme étant des crimes assez importants pour faire l’objet de poursuites particulières. Or, si on ne les juge pas, ces crimes, l’avenir des femmes et des enfants ne sera qu’assombri ».
    Céline Bardet (min 32’08) : « La justice c’est quoi ? C’est la poursuite au pénal, mais c’est aussi de parler de ces crimes, c’est aussi de donner la parole à ces survivantes et ces survivants si ils et elles veulent la prendre. C’est documenter ça et c’est mémoriser tout cela. Il faut qu’on sache ce qui se passe, il faut qu’on parle pour qu’en tant que société on comprenne l’origine de ces violences et qu’on essaie de mieux les prévenir. Tout ça se sont des éléments qui font partie de la justice. La justice ce n’est pas que un tribunal pénal qui poursuit quelqu’un. C’est énormément d’autres choses. »
    Sofi Oksanen (min 33’00) : « Je suis complètement d’accord avec Céline, il faut élargir la vision qu’on a de la justice. C’est bien d’en parler à la radio, d’en parler partout. Il faudrait peut-être organiser des journées de commémoration ou ériger un #monument même si certaines personnes trouveraient bizarre d’avoir un monument de #commémoration pour les victimes des violences sexuelles. »

    ping @_kg_

    • Deux fois dans le même fleuve. La guerre de Poutine contre les femmes
      de #Sofi_Oksanen

      Le 22 mars 2023, l’Académie suédoise a organisé une conférence sur les facteurs menaçant la liberté d’expression et la démocratie. Les intervenants étaient entre autres Arundhati Roy, Timothy Snyder et Sofi Oksanen, dont le discours s’intitulait La guerre de Poutine contre les femmes.
      Ce discours a suscité un si grand intérêt dans le public que Sofi Oksanen a décidé de publier un essai sur ce sujet, pour approfondir son analyse tout en abordant d’autres thèmes.
      L’idée dévelopée par Sofi Oksanen est la suivante : la Russie ressort sa vieille feuille de route en Ukraine – comme l’impératrice Catherine la Grande en Crimée en 1783, et comme l’URSS et Staline par la suite, à plus grand échelle et en versant encore plus de sang. La Russie n’a jamais tourné le dos à son passé impérialiste. Au contraire, le Kremlin s’est efforcé de diaboliser ses adversaires, s’appuyant ensuite sur cette propagande pour utiliser la violence sexuelle dans le cadre de la guerre et pour déshumaniser les victimes de crimes contre les droits de l’homme. Dans la Russie de Poutine, l’égalité est en déclin. La Russie réduit les femmes au silence, utilise le viol comme une arme et humilie ses victimes dans les médias en les menaçant publiquement de représailles.
      Un essai coup de poing par l’une des grandes autrices européennes contemporaines.

      https://www.editions-stock.fr/livre/deux-fois-dans-le-meme-fleuve-9782234096455
      #livre #Russie #femmes

    • #We_are_NOT_Weapons_of_War

      We are NOT Weapons of War (#WWoW) est une organisation non-gouvernementale française, enregistrée sous le statut Loi 1901. Basée à Paris, elle se consacre à la lutte contre les violences sexuelles liées aux conflits au niveau mondial. Fondée en 2014 par la juriste internationale Céline Bardet, WWoW propose une réponse globale, holistique et efficace à l’usage endémique du viol dans les environnements fragiles via des approches juridiques innovantes et créatives. WWoW travaille depuis plus de 5 ans à un plaidoyer mondial autour des violences sexuelles liées aux conflits et des crimes internationaux.

      L’ONG française We are NOT Weapons of War développe depuis plusieurs années la web-application BackUp, à vocation mondiale. BackUp est un outil de signalement et d’identification des victimes et de collecte, sauvegarde et analyse d’informations concernant les violences sexuelles perpétrées dans le cadre des conflits armés. Il donne une voix aux victimes, et contribue au recueil d’informations pouvant constituer des éléments de preuves légales.

      https://www.notaweaponofwar.org

      #justice #justice_pénale

  • « Le #viol, passage presque inévitable de la migration » : à Marseille, huit femmes témoignent

    Lundi 18 septembre, la revue scientifique internationale « The Lancet » publie une enquête de santé publique inédite menée sur 273 demandeuses d’asile à Marseille, corrélant la migration et la violence sexuelle dont elles sont victimes. « Le Monde » a recueilli les histoires de huit femmes qui ont participé à l’étude.

    Au milieu de la conversation, Aissata tressaille. Adama, elle, manque plusieurs fois de faire tomber son bébé de 2 mois, gros poupon emmailloté dans un body blanc, qu’elle allaite le regard absent. Les yeux de Perry se brouillent : elle a vu trop de #violence. Ceux de Fanta sont devenus vitreux : elle est là, mais plus vraiment là. Grace regrette sa sécheresse oculaire, elle aimerait tant pleurer et hurler, peut-être la croirait-on et l’aiderait-on davantage, mais elle ne sait pas où ses larmes sont parties. Nadia sourit en montrant les cicatrices des brûlures de cigarettes qui constellent sa poitrine, comme pour s’excuser de cette vie qui l’a fait s’échouer ici. Stella porte ses lunettes de soleil à l’intérieur, et explose de rire en racontant qu’elle a été vendue quatre fois.

    Tous ces détails, ces marques de la #barbarie inscrite dans le #corps des femmes migrantes, le docteur Jérémy Khouani les observe depuis ses études de médecine. Généraliste dans une maison de santé du 3e arrondissement de Marseille – avec 55 % de ses habitants au-dessous du seuil de pauvreté, c’est l’un des endroits les plus pauvres de France –, il soigne les bobos, les angines et les gastros, mais voit surtout le #traumatisme surgir face aux mots « #excision », « #Libye », « #traite » ou « viol ».

    Bouleversé par des consultations qui l’amènent à mesurer la taille de lèvres vaginales post-excision pour l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), à diagnostiquer une arthrose massive à une jeune femme de 30 ans ou à prescrire des antidépresseurs à une autre qui vient de tenter de s’immoler, il a décidé de lutter avec ce qu’il savait faire : « De la science ». « Je n’ai pas envie de hiérarchiser, mais les violences que subissent les femmes demandeuses d’asile, c’est trois fois plus horrible que les hommes. Ils subissent aussi des violences, mais ce n’est pas systémique, ils n’ont pas le vagin mutilé à 6 ans, ou le viol comme passage presque inévitable de la migration. » En Europe, en 2021, les femmes représentent 31 % des demandeurs d’asile.

    Il y a trois ans, avec l’Assistance publique-Hôpitaux de Marseille et la faculté de médecine d’Aix-Marseille, #Jérémy_Khouani a lancé une grande enquête de #santé_publique pour mesurer l’#incidence des violences sexuelles chez les femmes demandeuses d’asile en France. Une étude inédite, publiée ce lundi 18 septembre dans la revue scientifique The Lancet (Regional Health Europe) et menée sur 273 femmes arrivées sur le territoire français, volontaires pour participer et en attente de la réponse des autorités quant à leur statut. La moitié d’entre elles viennent d’Afrique de l’Ouest, le reste du Moyen-Orient, d’Asie ou d’Europe.

    « Un impondérable du #parcours_migratoire »

    Ainsi, 26 % d’entre elles se déclarent victimes de violences sexuelles au cours de leurs douze derniers mois sur le territoire français, et 75 % avant leur entrée en France. Les demandeuses d’asile encourent dix-huit fois plus le risque d’être victimes de viol en France que les Françaises de la population générale ; 40 % d’entre elles ont subi des #mutilations_génitales. « L’étude fait ressortir que la violence sexuelle est un motif de départ, un impondérable du parcours migratoire, et un crime dont on ne les protège pas en France », analyse #Anne_Desrues, sociologue et enquêtrice sur le projet.

    L’absence de logement, de compagnon et les antécédents de violence apparaissent comme des facteurs de risque du viol. « Le débat, ce n’est même pas de savoir si elles ont vocation à rester sur le territoire ou pas, mais, au moins, que pendant tout le temps où leur demande est étudiée, qu’elles ne soient pas violées à nouveau, elles sont assez traumatisées comme ça », pose le médecin généraliste.

    Il faut imaginer ce que c’est de soigner au quotidien de telles blessures, de rassembler 273 récits de la sorte en six mois – ce qui n’est rien par rapport au fait de vivre ces violences. L’expression « #traumatisme_vicariant » qualifie en psychiatrie le traumatisme de seconde ligne, une meurtrissure psychique par contamination, non en étant exposé directement à la violence, mais en la documentant. « Heureusement, j’avais une psychologue pour débriefer les entretiens, évoque Anne Desrues. Moi, ce qui m’a aidée, c’est de savoir que celles qu’on rencontrait étaient aussi des femmes fortes, qui avaient eu le courage de partir, et de comprendre leur migration comme une #résistance à leur condition. » Le docteur Khouani, lui, érige cette étude comme rempart à son sentiment d’impuissance.

    Le Monde, pendant quarante-huit heures, a recueilli les histoires de huit femmes qui ont participé à l’étude. Certaines sont sous obligation de quitter le territoire français (OQTF), risquant l’expulsion. Mais elles voulaient que quelqu’un entende, note et publie tout ce qu’elles ont subi. Dans le cabinet du médecin, sous les néons et le plafond en contreplaqué, elles se sont assises et ont parlé.

    Lundi, 9 heures. Ogechi, surnommée « Perry », 24 ans. Elle regarde partout, sauf son interlocuteur. Elle a une croix autour du cou, une autre pendue à l’oreille, porte sa casquette à l’envers. Elle parle anglais tout bas, en avalant la fin des mots. Elle vient de Lagos, au Nigeria. Jusqu’à son adolescence, ça va à peu près. Un jour, dans la rue, elle rencontre une fille qui lui plaît et l’emmène chez elle. Son père ne supporte pas qu’elle soit lesbienne : il la balance contre le mur, la tabasse, appelle ses oncles. Ils sont maintenant cinq à se déchaîner sur Perry à coups de pied. « Ma bouche saignait, j’avais des bleus partout. »

    Perry s’enfuit, rejoint une copine footballeuse qui veut jouer en Algérie. Elle ne sait pas où aller, sait seulement qu’elle ne peut plus vivre chez elle, à Lagos. L’adolescente, à l’époque, prend la route : Kano, au nord du pays, puis Agadez, au Niger, où un compatriote nigérian, James, l’achète pour 2 000 euros et la fait entrer en Libye. Elle doit appeler sa famille pour rembourser sa dette. « Je n’ai pas de famille ni d’argent, je ne vaux rien », lui répond Perry. Une seule chose a de la valeur : son corps. James prélève ses cheveux, son sang, fait des incantations vaudoues « pour me contrôler ». A 15 ans, elle est prostituée dans un bordel sous le nom de « Blackgate ».

    « Si je meurs, qui va s’en apercevoir ? »

    Son débit est monocorde, mais son récit est vif et transporte dans une grande maison libyenne divisée en « chambres » avec des rideaux. Un lit par box, elles sont sept femmes par pièce. « Des vieilles, des jeunes, des enceintes. » Et les clients ? « Des Africains, des Arabes, des gentils, des violents. » En tout, une cinquantaine de femmes sont exploitées en continu. « J’aurais jamais pensé finir là, je ne pouvais pas imaginer qu’un endroit comme ça existait sur terre », souffle-t-elle.

    Perry passe une grosse année là-bas, jusqu’à ce qu’un des clients la prenne en pitié et la rachète pour l’épouser. Sauf qu’il apprend son #homosexualité et la revend à une femme nigériane, qui lui paye le voyage pour l’Europe pour la « traiter » à nouveau, sur les trottoirs italiens cette fois-ci. A Sabratha, elle monte sur un bateau avec 150 autres personnes. Elle ne souhaite pas rejoindre l’Italie, elle ne veut que fuir la Libye. « Je ne sais pas nager. Je n’avais pas peur, je n’étais pas heureuse, je me demandais seulement comment un bateau, ça marchait sur l’eau. » Sa première image de l’Europe : Lampedusa. « J’ai aimé qu’il y ait de la lumière 24 heures sur 24, alors que chez nous, la nuit, c’est tout noir. »

    Mineure, Perry est transférée dans un foyer à Milan, où « les gens qui travaillent avec James m’ont encore fait travailler ». Elle tape « Quel est le meilleur pays pour les LGBT ? » dans la barre de recherche de Google et s’échappe en France. « Ma vie, c’est entre la vie et la mort, chaque jour tu peux perdre ou tu peux gagner », philosophe-t-elle. Le 4 septembre 2020, elle se souvient bien de la date, elle arrive dans le sud de la France, une région qu’elle n’a pas choisie. Elle suit un cursus de maroquinerie dans un lycée professionnel avec, toujours, « la mafia nigériane » qui la harcèle. « Ils m’ont mis une arme sur la tempe, ils veulent que je me prostitue ou que je vende de la drogue. C’est encore pire parce que je suis lesbienne, ils disent que je suis une abomination, une sorcière… »

    A Marseille, elle fait trois tentatives de suicide, « parce que je suis trop traumatisée, j’arrive plus à vivre, mais Dieu m’a sauvée ». A 24 ans, pour qui Perry existe-t-elle encore ? « Si je meurs, qui va s’en apercevoir ? Je regrette d’avoir quitté le Nigeria, je ne pensais pas expérimenter une vie pareille », termine-t-elle, en s’éloignant dans les rues du 3e arrondissement.

    Lundi, 11 heures. A 32 ans, la jeunesse de Fanta semble s’être dissoute dans son parcours. Elle a des cheveux frisés qui tombent sur son regard sidéré. Elle entre dans le cabinet les bras chargés de sacs en plastique remplis de la lessive et des chaussures qu’elle vient de se procurer pour la rentrée de ses jumeaux en CP, qui a eu lieu le matin même. « Ils se sont réveillés à 5 heures tellement ils étaient excités, raconte-t-elle. C’est normal, on a passé l’été dans la chambre de l’hôtel du 115, on ne pouvait pas trop sortir à cause de mon #OQTF. » Fanta vient de Faranah, en Guinée-Conakry, où elle est tombée accidentellement enceinte de ses enfants. « Quand il l’a su, mon père, qui a lui même trois femmes, m’a tapée pendant trois jours et reniée. »

    Elle accouche, mais ne peut revenir vivre dans sa famille qu’à condition d’abandonner ses bébés de la honte. Elle refuse, bricole les premières années avec eux. Trop pauvre, trop seule, elle confie ses enfants à sa cousine et souhaite aller en Europe pour gagner plus d’argent. Mali, Niger, Libye. La prison en Libye lui laisse une vilaine cicatrice à la jambe. En 2021, elle atteint Bari, en Italie, puis prend la direction de la France. Pourquoi Marseille ? « Parce que le train s’arrêtait là. »

    Sexe contre logement

    A la gare Saint-Charles, elle dort par terre pendant trois jours, puis rejoint un squat dans le quartier des Réformés. Là-bas, « un homme blanc est venu me voir et m’a dit qu’il savait que je n’avais pas de papiers, et que si on ne faisait pas l’amour, il me dénonçait à la police ». Elle est violée une première fois. Trois jours plus tard, il revient avec deux autres personnes, avec les mêmes menaces. Elle hurle, pleure beaucoup. Ils finissent par partir. « Appeler la police ? Mais pour quoi faire ? La police va m’arrêter moi », s’étonne-t-elle devant notre question.

    En novembre 2022, le navire de sauvetage Ocean-Viking débarque ses passagers sur le port de Toulon. A l’intérieur, sa cousine et ses jumeaux. « Elle est venue avec eux sans me prévenir, j’ai pleuré pendant une semaine. » Depuis, la famille vit dans des hôtels sociaux, a souvent faim, ne sort pas, mais « la France, ça va, je veux bien aller n’importe où du moment que j’ai de la place ». Parfois, elle poursuit les passants qu’elle entend parler sa langue d’origine dans la rue, « juste pour avoir un ami ». « La migration, ça fait exploser la violence », conclut-elle, heureuse que ses enfants mangent à la cantine de l’école ce midi.

    Lundi, 15 heures. « C’est elle qui m’a donné l’idée de l’étude », s’exclame le docteur Khouani en nous présentant Aissata. « Oui, il faut parler », répond la femme de 31 ans. Elle s’assoit, décidée, et déroule un récit délivré de nombreuses fois devant de nombreux officiels français. Aissata passe son enfance en Guinée. En 1998, sa mère meurt et elle est excisée. « C’était très douloureux, je suis vraiment obligée de reraconter ça ? » C’est sa « marâtre » qui prend le relais et qui la « torture ». Elle devient la petite bonne de la maison de son père, est gavée puis privée de nourriture, tondue, tabassée, de la harissa étalée sur ses parties intimes. A 16 ans, elle est mariée de force à un cousin de 35 ans qui l’emmène au Gabon.

    « Comme je lui ai dit que je ne voulais pas l’épouser, son travail, c’était de me violer. J’empilais les culottes et les pantalons les uns sur les autres pour pas qu’il puisse le faire, mais il arrachait tout. » Trois enfants naissent des viols, que son époux violente aussi. Elle s’interpose, il la frappe tellement qu’elle perd connaissance et se réveille à l’hôpital. « Là-bas, je leur ai dit que ce n’était pas des bandits qui m’avaient fait ça, mais mon mari. » Sur son téléphone, elle fait défiler les photos de bleus qu’elle avait envoyées par mail à son fils – « Comme ça, si je mourais, il aurait su quelle personne était son père. »

    Un soignant lui suggère de s’enfuir, mais où ? « Je ne connais pas le Gabon et on ne peut pas quitter le mariage. » Une connaissance va l’aider à sortir du pays. Elle vend tout l’or hérité de sa mère, 400 grammes, et le 29 décembre 2018, elle prend l’avion à l’aéroport de Libreville. « J’avais tellement peur, mon cœur battait si fort qu’il allait sortir de mon corps. » Elle vit l’atterrissage à Roissy - Charles-de-Gaulle comme un accouchement d’elle-même, une nouvelle naissance en France. A Paris, il fait froid, la famille arrive à Marseille, passe de centres d’accueil humides en hôtels avec cafards du 115.

    Sans cesse, les hommes la sollicitent. Propositions de sexe contre logement ou contre de l’argent : « Les hommes, quand tu n’as pas de papiers, ils veulent toujours en profiter. Je pourrais donner mon corps pour mes enfants, le faire avec dix hommes pour les nourrir, mais pour l’instant j’y ai échappé. » Au début de l’année, l’OQTF est tombée. Les enfants ne dorment plus, elle a arrêté de soutenir leurs devoirs. « La France trouve que j’ai pas assez souffert, c’est ça ? », s’énerve celle que ses amies surnomment « la guerrière ».

    « Je suis une femme de seconde main maintenant »

    Lundi, 17 heures. Nadia a le visage rond, entouré d’un voile noir, les yeux ourlés de la même couleur. Une immense tendresse se dégage d’elle. Le docteur Khouani nous a prévenues, il faut faire attention – elle sort à peine de l’hôpital psychiatrique. Il y a quelques semaines, dans le foyer où elle passe ses journées toute seule, elle a pris un briquet, a commencé à faire flamber ses vêtements : elle a essayé de s’immoler. Quand il l’a appris, le médecin a craqué, il s’en voulait, il voyait bien son désespoir tout avaler et la tentative de suicide arriver.

    Pourtant, Nadia a fait une petite heure de route pour témoigner. Elle a grandi au Pakistan. Elle y a fait des études de finance, mais en 2018 son père la marie de force à un Pakistanais qui vit à Marseille. Le mariage est prononcé en ligne. Nadia prend l’avion et débarque en France avec un visa de touriste. A Marseille, elle se rend compte que son compagnon ne pourra pas la régulariser : il est déjà marié. Elle n’a pas de papiers et devient son « esclave », subit des violences épouvantables. Son décolleté est marqué de plusieurs cicatrices rondes : des brûlures de cigarettes.

    Nadia apparaît sur les écrans radars des autorités françaises un jour où elle marche dans la rue. Il y a une grande tache rouge sur sa robe. Elle saigne tellement qu’une passante l’alerte : « Madame, madame, vous saignez, il faut appeler les secours. » Elle est évacuée aux urgences. « Forced anal sex », explique-t-elle, avec son éternel rictus désolé. Nadia accepte de porter plainte contre son mari. La police débarque chez eux, l’arrête, mais il la menace d’envoyer les photos dénudées qu’il a prises d’elle au Pakistan. Elle retire sa plainte, revient au domicile.

    Les violences reprennent. Elle s’échappe à nouveau, est placée dans un foyer. Depuis qu’elle a témoigné auprès de la police française, la propre famille de Nadia ne lui répond plus au téléphone. Une nuit, elle s’est réveillée et a tenté de gratter au couteau ses brûlures de cigarettes. « Je suis prête à donner un rein pour avoir mes papiers. Je pense qu’on devrait en donner aux femmes victimes de violence, c’est une bonne raison. Moi, je veux juste étudier et travailler, et si je suis renvoyée au Pakistan ils vont à nouveau me marier à un homme encore pire : je suis une femme de seconde main maintenant. »

    « Je dois avoir une vie meilleure »

    Mardi, 11 heures. Médiatrice sociale du cabinet médical, Elsa Erb est une sorte d’assistante pour vies fracassées. Dans la salle d’attente ce matin, il y a une femme mauritanienne et un gros bébé de 2 mois. « C’est ma chouchoute », sourit-elle. Les deux femmes sont proches : l’une a accompagné l’autre à la maternité, « sinon elle aurait été toute seule pour accoucher ». Excision dans l’enfance, puis à 18 ans, en Mauritanie, mariage forcé à son cousin de 50 ans. Viols, coups, cicatrices sur tout le corps. Deux garçons naissent. « Je ne pouvais pas rester toute ma vie avec quelqu’un qui me fait autant de mal. » Adama laisse ses deux enfants, « propriété du père », et prend l’avion pour l’Europe.

    A Marseille, elle rencontre un autre demandeur d’asile. Elle tombe enceinte dans des circonstances troubles, veut avorter mais l’homme à l’origine de sa grossesse la menace : c’est « péché » de faire ça, elle sera encore plus « maudite ». Depuis, elle semble trimballer son bébé comme un gros paquet embarrassant. Elsa Erb vient souvent la voir dans son foyer et lui apporte des boîtes de sardines. Elle s’inquiète car Adama s’isole, ne mange pas, passe des heures le regard dans le vide, un peu sourde aux pleurs et aux vomissements du petit. « Je n’y arrive pas. Avec mes enfants là-bas et celui ici, je me sens coupée en deux », se justifie-t-elle.

    Mardi, 14 heures. A chaque atrocité racontée, Stella rit. Elle vient du Biafra, au Nigeria. Ses parents sont tués par des miliciens quand elle a 13 ans. Elle est envoyée au Bénin auprès d’un proche qui la viole. Puis elle tombe dans la #traite : elle est transférée en Libye. « J’ai été vendue quatre fois, s’amuse-t-elle. En Libye, vous pouvez mourir tous les jours, plus personne ne sait que vous existez. » Elle passe en Italie, où elle est encore exploitée.

    Puis la France, Marseille et ses squats. Elle décrit des hommes blancs qui débarquent armés, font tous les étages et violent les migrantes. La police ? Stella explose de rire. « Quel pouvoir est-ce que j’ai ? Si je raconte ça à la police française, les agresseurs me tueront. C’est simple : vous êtes une femme migrante, vous êtes une esclave sexuelle. »

    Avec une place dans un foyer et six mois de #titre_de_séjour en tant que victime de traite, elle est contente : « Quand on a sa maison, on est moins violée. » Des étoiles sont tatouées sur son cou. « Je dois avoir une vie meilleure. Mon nom signifie “étoile”, je dois briller », promet-elle. Le docteur Khouani tient à nous montrer une phrase issue du compte rendu d’une radio de ses jambes : « Lésions arthrosiques inhabituelles pour son jeune âge. » « Il est très probable qu’elle ait subi tellement de violences qu’elle a l’arthrose d’une femme de 65 ans. » Stella a 33 ans.

    Déboutés par l’Ofpra

    Mardi, 16 heures. Grace entre avec sa poussette, dans laquelle s’ébroue une petite fille de 7 mois, son quatrième enfant. Nigériane, la jeune femme a le port altier et parle très bien anglais. « J’ai été très trafiquée », commence-t-elle. Après son bac, elle est recrutée pour être serveuse en Russie. C’est en réalité un réseau de #proxénétisme qui l’emmène jusqu’en Sibérie, d’où elle finit par être expulsée. De retour au Nigeria, elle veut poursuivre ses études à la fac à Tripoli, en Libye.

    A la frontière, elle est vendue, prostituée, violée. Elle tombe enceinte, s’échappe en Europe pour « fuir, pas parce que je voulais particulièrement y aller ». Arrivée en Italie, on lui propose d’avorter de son enfant du viol. Elle choisit de le garder, même si neuf ans après, elle ne sait toujours pas comment son premier fils a été conçu. En Italie, elle se marie avec un autre Nigérian. Ils ont quatre enfants scolarisés en France, mais pas de papiers. L’Ofpra les a déboutés : « Ils trouvent que j’ai les yeux secs, que je délivre mon histoire de manière trop détachée », comprend-elle.

    Mardi, 18 heures. Abby se présente dans le cabinet médical avec sa fille de 12 ans. Elles sont originaires de Sierra Leone. Abby a été excisée : elle se remémore le couteau, les saignements, souffre toujours vingt-cinq ans après. « Ils ont tout rasé, c’est lisse comme ça », décrit-elle en caressant la paume de sa main.

    Sa fille a aussi été mutilée, un jour où sa mère n’était pas à la maison pour la protéger. « Mais pour Aminata, ce n’est pas propre. » Alors, quand la mère et la fille ont déposé leur demande d’asile à l’Ofpra, le docteur Khouani s’est retrouvé à faire un acte qui l’énerve encore. « J’ai dû pratiquer un examen gynécologique sur une préado pour mesurer la quantité de ses lèvres qui avait survécu à son excision. Si tout était effectivement rasé, elles étaient déboutées, car il n’y avait plus rien à protéger. » Les deux femmes ont obtenu des titres de séjour. Abby travaille comme femme de ménage en maison de retraite. Aminata commence sa 5e, fait du basket et veut devenir médecin, comme le docteur Khouani.

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/09/18/le-viol-passage-presque-inevitable-de-la-migration-a-marseille-huit-femmes-r

    #VSS #violences_sexuelles #migrations #femmes #femmes_migrantes #témoignage #asile #réfugiés #viols #abus_sexuels #mariage_forcé #prostitution #néo-esclavage #esclavage_sexuels #traite_d'êtres_humains #chantage

  • Existe-t-il des #terrains_hostiles aux #chercheuses ?

    Les chercheuses font face à de véritables problématiques de terrain dans le cadre de leurs recherches. Du monde militaire en passant par le monde politique, quelles stratégies doivent-elles adopter pour mener au mieux leurs études en dépit des #risques encourus sur le terrain ?

    Avec

    – Marielle Debos Chercheuse à l’Institut des Sciences sociales du Politique et maître de conférences en sciences politiques à Paris-Nanterre
    – Ioulia Shukan Spécialiste de l’Ukraine, maîtresse de conférences en études slaves à l’Université Paris Nanterre et chercheuse à l’Institut des Sciences sociales du Politique et associée au Centre d’études des mondes russe, caucasien et centre-européen
    - Camille Abescat Doctorante en sciences-politique au sein du Centre de recherches internationale de Sciences Po

    C’est un post sur un réseau social qui nous a alerté la semaine dernière sur la publication dans la revue « Critique internationale » d’un vade-mecum intitulé « Genre, sécurité et éthique. Vade-mecum pour l’enquête de terrain. » (https://www.cairn.info/revue-critique-internationale-2023-3-page-59.htm) Son autrice, #Marielle_Debos, spécialiste de politique en Afrique, l’avait tout d’abord destiné à ses étudiantes. Elle s’interroge sur les risques que prennent les chercheuses sur le terrain et la #responsabilité que ces dernières ont vis-à-vis de leurs interviewées.

    Notre deuxième invitée, Camille Abescat, rend sa thèse sur les députés jordaniens cette semaine. Enfin, Ioulia Shukan, spécialiste de l’Ukraine et la Biélorussie, évoquera le changement de nature de son terrain devenu lieu de guerre, qui, comme toutes les chercheuses spécialisées de cette région, a été énormément sollicitée par les médias tout en ayant de plus en plus de difficultés à enquêter pour renouveler ses approches.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/le-temps-du-debat/existe-t-il-des-terrains-hostiles-aux-chercheuses-6589647

    #podcast #audio #terrain_de_recherche #recherche_de_terrain #terrain #recherche #femmes

    ping @_kg_

    • #Genre, #sécurité et #éthique. Vade-mecum pour l’enquête de terrain

      Les questions concrètes et matérielles que l’on se pose sur le terrain ne sont pas détachées des questions théoriques, méthodologiques et éthiques. L’article est composé de deux parties : la première est une introduction sur le genre, la sécurité et l’éthique dans les relations d’enquête, la seconde est un vade-mecum qui donne des conseils pour se protéger et protéger les enquêté·es, en mettant l’accent sur les #violences_sexistes et sexuelles. Je défends l’idée que les chercheuses peuvent réinventer une manière de penser et de faire du terrain, entre injonctions paternalistes à la #prudence et déni des difficultés rencontrées. La sécurité, en particulier celle des femmes et des #minorités, sur le terrain et à l’université suppose aussi une réflexion sur les effets de la #précarité et la persistance de #normes (sexisme, #fétichisation des terrains à risques, idéalisation de l’#immersion_ethnographique) qui peuvent les mettre en danger.

      https://www.cairn.info/revue-critique-internationale-2023-3-page-59.htm
      #vademecum #vade-mecum #violences_sexuelles #VSS #paternalisme

    • #BADASSES : Blog d’Auto-Défense contre les Agressions Sexistes et Sexuelles dans l’Enquête en Sciences sociales

      Manifeste

      « Les anthropologues ne se font pas violer ou harceler, les femmes si » (1)
      Moreno, 1995

      C’est ce qu’écrivait Eva Moreno dans un article témoignant du viol qu’elle a subi lors d’une enquête de terrain vingt ans auparavant. Ne nous méprenons pas : la date n’explique rien. Aujourd’hui encore, les violences sexistes et sexuelles s’immiscent dans la relation d’enquête. Sans grande surprise, la fonction de chercheureuse ne nous protège pas. C’est parce que femme, ou minorité de genre, qu’on est harcelé·e, agressé·e, violé·e ; et en tant que chercheureuse et sur notre espace de travail que cela arrive.

      Loin d’être anecdotiques, les violences sexistes et sexuelles dans l’enquête, tout comme dans l’ESR, sont pourtant invisibilisées : à l’Université, c’est le silence qui règne. Alors que les théories féministes et les études de genre ont largement travaillé sur les violences sexistes et sexuelles, que la sociologie regorge d’outils pour analyser les relations de domination, que la réflexivité dans l’enquête s’est imposée dans les sciences sociales, on ne peut que constater l’absence de la prise en compte de ces violences au sein de nos formations. À l’exception de quelques initiatives personnelles, souvent sous forme de séminaires ou de conseils informels aux jeunes chercheureuses, rares sont les TD de méthodologie où l’on discute de ces problématiques, des ressources dont les étudiant·e·s pourraient se saisir pour mieux penser les méthodes d’enquête, se protéger sur le terrain, et acquérir les outils permettant d’analyser et d’objectiver ces violences.

      Ce constat est le résultat d’un manque de considération certain quant au genre de l’enquête. L’enseignement méthodologique se fait le plus souvent à partir de la condition masculine, le devoir de réflexivité s’imposant alors aux seules femmes et minorités de genre – ce qu’illustre d’ailleurs l’importance qui lui est accordée dans les études de genre et de la sexualité. Telle qu’enseignée aujourd’hui, la démarche de l’enquête tend à valoriser les prises de risques. Au nom d’un imaginaire ancré du·de la chercheureuse aventurier·e, du dépassement de soi et de l’injonction à un terrain spectaculaire, les enquêteurices peuvent être poussé·e·s à se mettre en danger, davantage que dans leur vie quotidienne. Les chercheureuses sont encouragé·e·s à privilégier une forme d’intimité avec leurs enquêté·e·s, ainsi qu’à multiplier les relations et les espaces d’observation informel·le·s. En somme, à “tout prendre” pour collecter de “meilleures” données et ce, sans nécessairement avoir la formation indispensable aux pratiques ethnographiques. Fréquemment, la peur de “gâcher son terrain” ou de “se fermer des portes” redouble les risques encourus. Peut-être devrions-nous rappeler que l’abnégation de soi ne fait pas un bon terrain. Il est impératif de déconstruire ces mythes, qui comme toujours exposent davantage les femmes et minorités de genre. Qui plus est, la précarité systémique dans l’ESR – dont les jeunes chercheureuses sont les premières victimes – accentue voire favorise les prises de risques (conditions d’hébergement, de transport…).

      En tant qu’institution, l’Université se doit de visibiliser ces sujets et d’en faire de véritables enjeux. Il est pour cela nécessaire de (re)donner des moyens aux universités, la baisse drastique des financements et des recrutements empêchant la mise en place de véritables formations méthodologiques – qui nous semblent pourtant être un instrument de lutte contre les violences sexistes et sexuelles, mais aussi plus généralement contre toute forme de violence dans l’enquête. Au-delà des moyens financiers, les universitaires se doivent aussi de prendre à cœur et à corps ces enjeux pour mettre fin au tabou qui entoure le sujet des violences sexistes et sexistes dans l’enquête. Mais leur seule prise en charge par les institutions en retirerait la charge politique et épistémologique. Il ne s’agit pas non plus d’être dépossédé·e·s d’espaces autonomes, d’auto-défense, pour se former, échanger, construire ensemble nos savoirs et créer des solidarités dans un champ académique qui, toujours plus compétitif et précarisé, freinent la mise en place d’initiatives collectives. En complément aux espaces déjà existants dans certaines universités ou collectifs de recherche, ce blog se veut donc être un espace dématérialisé, pour créer du lien, mutualiser les ressources, faire circuler discussions et outils, les rendre accessibles au plus grand nombre et en conserver les traces. Si l’approche par le genre est au cœur de ce blog, celui-ci a aussi vocation à visibiliser les violences racistes, validistes, classistes et, dans une perspective intersectionnelle, voir comment elles s’articulent avec les violences sexistes et sexuelles.

      (1) Si la citation de l’autrice se limite aux femmes, notons que notre réflexion et notre travail incluent de fait les minorités de genre.

      https://badasses.hypotheses.org

  • « Le viol, passage presque inévitable de la migration » : à Marseille, huit femmes témoignent

    Lundi 18 septembre, la revue scientifique internationale « The Lancet » publie une enquête de santé publique inédite menée sur 273 demandeuses d’asile à Marseille, corrélant la migration et la violence sexuelle dont elles sont victimes. « Le Monde » a recueilli les histoires de huit femmes qui ont participé à l’étude.

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    Bouleversé par des consultations qui l’amènent à mesurer la taille de lèvres vaginales post-excision pour l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (#Ofpra), à diagnostiquer une arthrose massive à une jeune femme de 30 ans ou à prescrire des antidépresseurs à une autre qui vient de tenter de s’immoler, [Jérémy Khouani] a décidé de lutter avec ce qu’il savait faire : « De la science ». « Je n’ai pas envie de hiérarchiser, mais les violences que subissent les femmes demandeuses d’asile, c’est trois fois plus horrible que les hommes. Ils subissent aussi des violences, mais ce n’est pas systémique, ils n’ont pas le vagin mutilé à 6 ans, ou le viol comme passage presque inévitable de la migration. » En Europe, en 2021, les femmes représentent 31 % des demandeurs d’asile.

    Il y a trois ans, avec l’Assistance publique-Hôpitaux de Marseille et la faculté de médecine d’Aix-Marseille, Jérémy Khouani a lancé une grande #enquête de #santé_publique pour mesurer l’incidence des violences sexuelles chez les femmes demandeuses d’asile en France. Une étude inédite, publiée ce lundi 18 septembre dans la revue scientifique The Lancet (Regional Health Europe) et menée sur 273 femmes arrivées sur le territoire français, volontaires pour participer et en attente de la réponse des autorités quant à leur statut. La moitié d’entre elles viennent d’Afrique de l’Ouest, le reste du Moyen-Orient, d’Asie ou d’Europe.

    « Un impondérable du parcours migratoire »

    Ainsi, 26 % d’entre elles se déclarent victimes de violences sexuelles au cours de leurs douze derniers mois sur le territoire français, et 75 % avant leur entrée en France. Les demandeuses d’asile encourent dix-huit fois plus le risque d’être victimes de viol en France que les Françaises de la population générale ; 40 % d’entre elles ont subi des mutilations génitales. « L’étude fait ressortir que la violence sexuelle est un motif de départ, un impondérable du parcours migratoire, et un crime dont on ne les protège pas en France », analyse Anne Desrues, sociologue et enquêtrice sur le projet.

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/09/18/le-viol-passage-presque-inevitable-de-la-migration-a-marseille-huit-femmes-r

    trouvé, ainsi que « Les femmes_migrantes doivent intégrer le viol comme un élément du voyage » . Plus de 80 % des femmes originaires d’Amérique latine qui prennent la route de l’exil sont violées durant leur trajet (Smaïn Laacher, 2019), ici https://justpaste.it/c1du2

    #femmes #migration #femmes_migrantes #violences_sexuelles #viol #demandeuses_d’asile #mutilations_génitales #exil

    • Oui, effectivement c’est la logique infernale du cumul des calamités et malheureusement ce n’est pas prêt de s’arranger.

      La surcharge des étoiles sur seenthis, je l’avais déjà eu avec mon smartphone et c’est la première fois que ça me le fait sur mon ordi. Je vais désormais tâcher d’être plus patient avant de renouveler un clic ;-)

  • Il lungo cammino verso la giustizia dei siriani
    https://irpimedia.irpi.eu/giudiziuniversali-processo-coblenza-detenuti-siria

    Storia del processo che ha portato alla sbarra uno dei responsabili dei sistematici omicidi dei detenuti politici siriani. Celebrato in Germania, è stato reso possibile dal lavoro di vittime e difensori dei diritti umani. E dalla giurisdizione universale Clicca per leggere l’articolo Il lungo cammino verso la giustizia dei siriani pubblicato su IrpiMedia.

  • Mille situations d’#abus_sexuels documentées dans l’#Eglise_catholique en Suisse

    L’Université de Zurich a documenté 1002 situations d’abus sexuels dans l’Eglise catholique en Suisse depuis le milieu du XXe siècle, dans une étude inédite qui a eu accès pour la première fois à la quasi totalité des archives. Il ne s’agirait que de la pointe de l’iceberg, la plupart des cas n’ayant pas été signalés et des documents ayant été détruits.

    L’étude présentée mardi par le département d’histoire de l’Université de Zurich constitue la première étape des recherches mandatées par trois organes catholiques dont la Conférence des évêques suisses. Jamais une équipe indépendante n’avait encore recherché sur ce sujet. Ce projet pilote a impliqué tous les diocèses du pays, les structures de droit public ecclésiastique et les communautés religieuses.

    Historiennes et historiens ont obtenu presque toujours les accès nécessaires aux archives, indique l’Université de Zurich. Des dizaines de milliers de pages de documents secrets, constitués par les responsables de l’Église catholique depuis le milieu du XXe siècle, ont pu être consultées. L’équipe a aussi mené de nombreux entretiens, notamment avec des personnes concernées.

    Les victimes : des mineurs, garçons en tête

    Il en ressort que 1002 situations d’abus sexuels ont été identifiées jusqu’à présent dans toute la Suisse sur l’ensemble de la période étudiée. On déplore au moins 921 victimes dont 74% de mineurs, 14% d’adultes et 12% de personnes à l’âge non établi. Au total, 510 personnes – presque uniquement des hommes – ont commis ces abus. 56% des victimes sont de sexe masculin, 39% de sexe féminin. On ignore le sexe de la victime pour les cas restants.

    La grande majorité des abus ont été commis dans le cadre de la pastorale. Tel était le cas surtout en situation de confession ou de consultation, de service de servants et servantes de messe, d’enseignement religieux ou encore d’activités avec des groupes d’enfants ou d’ados.

    Le deuxième domaine touché par les abus sexuels est celui de la formation et de l’aide sociale. Ainsi, environ 30% des cas se sont déroulés dans des foyers, des écoles et des internats catholiques ou établissements similaires.

    Les ordres religieux et les communautés nouvelles constituent le troisième domaine avec moins de 2% des cas documentés. La recherche de sources y a été particulièrement difficile, soulignent l’équipe historique.

    Des documents détruits dans deux diocèses

    De manière générale, historiennes et historiens ont trouvé des preuves d’un large éventail de situations d’abus sexuels, du franchissement problématique des limites aux abus systématiques les plus graves et ayant duré des années. Pourtant, ces situations « ne représentent sans doute que la pointe de l’iceberg », selon les professeures Monika Dommann et Marietta Meier, qui ont dirigé l’étude.

    En effet, de nombreuses archives susceptibles de documenter d’autres situations d’abus sexuels n’ont pas encore été étudiées. Tel est le cas des archives des communautés religieuses, des documents des instances diocésaines et des archives des écoles, internats et foyers catholiques, ainsi que des archives étatiques.

    De plus, les historiens ont pu prouver la destruction de documents dans deux diocèses. En outre, tous les signalements d’abus n’ont pas été documentés par écrit et archivés systématiquement. Seule une petite partie des cas a donc été signalée, supposent chercheuses et chercheurs.
    Un grand nombre de cas dissimulés

    Si les abus sexuels sur des mineurs constituent depuis longtemps un délit grave dans le droit canonique, ce dernier n’a pourtant guère été appliqué en la matière durant une longue partie de la période étudiée par l’Université de Zurich. Un grand nombre de cas ont même été dissimulés, couverts ou minimisés. En règle générale, les sanctions étaient inexistantes ou légères.

    L’Église catholique transférait systématiquement les clercs accusés et condamnés à l’interne, parfois même à l’étranger, dans le but d’éviter des poursuites pénales séculières et d’assurer aux clercs une réaffectation. Ils privilégiaient ainsi les intérêts de l’Eglise et de leurs représentants par rapport à la protection des paroissiennes et paroissiens, constatent l’équipe de recherche.

    Cette pratique n’a changé qu’au début du XXIe siècle, alors que la gestion des abus dans l’Eglise catholique suscitait de plus en plus de scandales. La Conférence des évêques suisses a publié alors des directives claires et a fondé des commissions d’experts, dont la façon de travailler et le degré de professionnalisation sont toutefois variables, selon les historiennes et les historiens.
    De nouvelles accusations

    Dans la dernière édition du SonntagsBlick toutefois, l’évêque de Fribourg Charles Morerod et l’évêque de Sion Jean-Marie Lovey sont accusés de dissimulation. Présent lui aussi face aux médias, l’évêque de Coire Joseph Bonnemain, chargé de l’enquête interne, s’est dit « certain » que des plaintes ont été déposées à ce sujet.

    L’Eglise catholique aurait dû commencer à laisser les historiens travailler indépendamment sur ses archives il y a vingt ans, déplore Monika Dommann. L’Université de Zurich va poursuivre et élargir son travail de 2024 à fin 2026, en accord avec les mandataires pour établir l’ampleur réelle des abus, la responsabilité de l’Etat dans le placement de mineurs et les liens entre les spécificités catholiques et les abus.

    https://www.rts.ch/info/suisse/14306183-mille-situations-dabus-sexuels-documentees-dans-leglise-catholique-en-s
    #Eglise #Suisse #histoire #rapport #archives #dissimulation #violences_sexuelles

    • Projet pilote sur l’histoire des abus sexuels dans le contexte de l’Église catholique romaine en Suisse depuis le milieu du 20ème siècle

      But du projet

      Le projet pilote d’une année pose les bases pour des futurs projets de recherche sur l’histoire des violences sexuelles commises en Suisse par des membres du clergé catholique, des employés de l’Église et les religieux depuis le milieu du 20ème siècle. L’accent est mis sur les structures qui ont permis les abus sexuels de mineurs et d’adultes et qui ont rendu difficiles leur mise à jour et leur sanction. Toutes les régions linguistiques sont prises en compte.

      Le projet à orientation historique, mené par Monika Dommann et Marietta Meier, poursuit deux buts. Premièrement, il convient de clarifier quelles sources existent et sont accessibles. Pour atteindre ce but, des organisations de victimes et de témoins seront contactées. Deuxièmement, des questions et des méthodes possibles pour des projets de recherche ultérieurs seront proposées.

      Lorsque le projet pilote sera terminé, les résultats seront consignés dans un rapport. Ce rapport précisera dans quelle mesure les institutions de l’Église catholique auront soutenu l’équipe de recherche dans la collecte d’informations et l’accès aux archives, aux dossiers et aux témoins.

      D’autres projets de recherche sur l’histoire des abus sexuels dans le contexte ecclésial en Suisse pourront s’appuyer sur les résultats du projet pilote. C’est dans ce cadre que se tiennent l’étude empirique complète, éventuellement interdisciplinaire, des questions de recherche ainsi que la présentation, l’analyse et l’interprétation approfondie des structures, des événements et des expériences à reconstituer.

      https://www.abuscontexteecclesial.ch

      Pour télécharger le rapport :

      Lors d’une conférence de presse à Zurich (https://www.youtube.com/watch?v=AUy3aBeS3tA

      ), les responsables de projet et les représentants de l’Église catholique romaine ont présenté le rapport final du projet pilote sur l’histoire des abus sexuels dans le cadre de l’Église catholique romaine en Suisse depuis le milieu du 20ème siècle. Le rapport peut être téléchargé ici : https://zenodo.org/record/8315774

      https://www.abuscontexteecclesial.ch/rapport-final

  • Così la fine del #reddito_di_cittadinanza colpisce le donne vittime di violenza

    Secondo l’Istat il 38% delle donne inserite in un percorso di uscita dalla violenza ha subìto anche violenza economica e il 60% non ha autonomia finanziaria. Molte di loro per ricominciare avevano fatto ricorso al Rdc: adesso non ne usufruiranno più. I percorsi protetti sono rischio ed è possibile che tornino dal partner maltrattante

    Quando ha lasciato il marito che la picchiava, Alessia aveva sei figli da mantenere. Lavorava ma ha scelto di licenziarsi per mettersi in sicurezza. Arrivare a fine mese era difficile, soprattutto in una città costosa come Roma. Così è finita in una casa rifugio per donne vittime di violenza. Ha fatto domanda per ricevere il reddito di cittadinanza, che dopo qualche mese le è stato riconosciuto: insieme agli assegni familiari, arrivava a prendere circa 1.600 euro al mese. Con i soldi messi da parte, Alessia (il nome è di fantasia, come gli altri di questo articolo) si è poi trasferita con i figli in un piccolo paese nel Sud Italia: ha trovato un nuovo lavoro, e questo le ha permesso di ricominciare.

    Dal primo gennaio 2024 il reddito di cittadinanza verrà definitivamente sospeso, e questo rischia di compromettere i percorsi di uscita dalla violenza di molte donne. “Grazie al reddito di cittadinanza molte donne hanno lasciato il maltrattante e hanno trovato il coraggio di iniziare una nuova vita”, spiega Federica Scrollini, operatrice del centro antiviolenza BeFree di Roma. “Quel sostegno economico è stato volàno per la ricerca di una nuova autonomia che comprende casa, lavoro, cura di stesse e dei figli. Senza questa base di partenza, molti percorsi di fuoriuscita dalla violenza non vedranno la luce. D’altronde, con un mercato del lavoro in asfissia, i servizi sociali ridotti dall’osso e l’ennesima crisi economica alle porte, dove possiamo andare senza soldi?”.

    Secondo l’Istat il 38% delle donne inserite in un percorso di uscita dalla violenza ha subìto anche violenza economica. Il 60% non ha autonomia finanziaria, quota che sale al 69% se si considera la fascia tra i 18 e i 29 anni. Alcune di loro per ricominciare hanno fatto ricorso al reddito di cittadinanza, che da gennaio 2024 sarà sostituito dall’assegno di inclusione, concesso a tutte le famiglie con un minore, una persona con disabilità o con più di 60 anni, oppure con componenti svantaggiati inseriti in programmi di cura e assistenza certificati dalla pubblica amministrazione. L’importo è fino a 6mila euro l’anno, 500 al mese, più un contributo affitto di 3.360 euro l’anno, 280 al mese: il totale è di un massimo di 780 euro al mese, l’equivalente del reddito di cittadinanza. La misura prevede alcune agevolazioni per le donne vittime di violenza: nel conteggio dell’Isee, le donne potranno costituire nucleo familiare indipendente da quello del marito, e non avranno l’obbligo di partecipare percorsi di inclusione lavorativa, né di accettare le proposte di lavoro eventualmente offerte. “Il problema è che l’assegno esclude di fatto le donne che non hanno figli a carico, anche se si trovano in una situazione di difficoltà economica”, denuncia l’organizzazione ActionAid.

    Per le donne che non hanno figli, dal primo settembre c’è la possibilità di richiedere il supporto per la formazione e lavoro, pensato per le famiglie con una persona in grado di lavorare (i cosiddetti “occupabili”). Questo sussidio però è molto più ridotto -350 euro al mese- ed è vincolato alla partecipazione a progetti di formazione e di accompagnamento al lavoro individuati dal governo. Il limite massimo di Isee per ottenerlo, inoltre, è stato abbassato a 6mila euro, molto meno rispetto ai 9.360 euro del reddito di cittadinanza: gli “occupabili” che si trovano nella fascia intermedia restano senza aiuti. ActionAid ha lanciato quindi una petizione per chiedere al governo di garantire reddito, lavoro e autonomia abitativa affinché le donne non ricadano nella violenza.

    “Nei nostri servizi ci sono diverse donne che ancora ricevono il reddito di cittadinanza”, afferma Simona Lanzoni, vicepresidente della fondazione Pangea e coordinatrice della rete nazionale antiviolenza Reama, che ha aperto lo sportello Mia Economia sulla violenza economica. “Da gennaio rischiano di perdere quella sicurezza economica: ancora non sappiamo che cosa succederà. Comunque il reddito di cittadinanza non era una misura risolutiva: è utile in una fase iniziale, ma poi oltre quello che cosa c’è? In Italia mancano i sostegni al lavoro”.

    Lo sa bene Mara, brasiliana, arrivata in Italia da giovane. Per molti anni è stata vittima di violenza in ambito familiare, e ha anche subìto un abuso sessuale. Poi c’è stata la denuncia alla polizia: quando è arrivata in casa rifugio, aveva quasi cinquant’anni e non aveva niente in mano. Sono state le operatrici ad aiutarla a fare domanda per il reddito di cittadinanza: percepiva circa 700 euro al mese, e così si è sentita pronta a intraprendere un tirocinio, che da solo non le avrebbe garantito un guadagno sufficiente a sopravvivere. Dalla casa rifugio è passata alla casa di semi-autonomia: il tirocinio si è trasformato in un’assunzione, anche se a tempo determinato. Il contratto però le viene rinnovato di mese in mese, e il compenso non è sufficiente a pagare un affitto. Così Mara sta pensando di tornare in Brasile.

    Un altro strumento pensato per aiutare le donne che escono da una situazione di violenza e si trovano in condizione di povertà è il reddito di libertà: istituito nel 2020, consiste in un contributo economico di 400 euro al mese per un massimo di dodici mesi. Per il periodo tra il 2020 e il 2022 la misura è stata finanziata con 12 milioni di euro, a cui si aggiungono 1,8 milioni per il 2023: in tutto ne hanno potuto beneficiare meno di 3mila donne, un numero molto ridotto se si considera che secondo l’Istat ogni anno sarebbero circa 21mila le persone che avrebbero i requisiti per accedervi. In più non sono state adottate linee guida nazionali per valutare lo stato di bisogno delle richiedenti e oggi vige il principio del “chi prima arriva meglio alloggia”: le donne possono fare domanda e risultare idonee, ma una volta finiti i fondi non otterranno comunque il contributo.

    “Abbiamo molte donne che aspettano di ricevere il reddito di libertà”, spiega Mariangela Zanni, presidente del Centro Veneto Progetti Donna e consigliera dell’associazione nazionale Donne in rete contro la violenza(D.i.Re), che in Italia raccoglie più di cento centri antiviolenza e più di 50 case rifugio. “Si tratta di una misura importante, ma i finanziamenti sono pochi e le liste di attesa sono lunghe”.

    La violenza economica continua così ad essere uno dei principali strumenti di controllo sulla donna da parte del maltrattante. “La privazione del salario, l’impedimento di lavorare, l’obbligo a prendersi cura da sole dei figli, impedisce a molte donne che subiscono violenza di avere un’autonomia economica”, conclude Anita Lombardi, operatrice dello sportello di orientamento al lavoro del centro antiviolenza Casa delle donne di Bologna. “Per questo tutti gli strumenti che danno un sostegno economico, a partire dal reddito di cittadinanza fino al reddito di libertà, sono importanti affinché venga assicurato a queste donne il diritto a progettare la propria vita in libertà e autonomia”.

    https://altreconomia.it/cosi-la-fine-del-reddito-di-cittadinanza-colpisce-le-donne-vittime-di-v

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