• « #Oltre_La_Valle », un #film di #Virginia_Bellizzi

    Il film, che è stato presentato in anteprima al 41° Torino Film Festival il 26 novembre nella sezione Concorso documentari italiani, è ambientato tra Oulx e Claviere, terra da sempre di transito dove le storie dei migranti si intrecciano a quelle dei volontari che operano nei luoghi di accoglienza.

    https://www.meltingpot.org/2023/12/oltre-la-valle-un-film-di-virginia-bellizzi

    #documentaire #film_documentaire #frontière_sud-alpine #Clavière #Briançon #Val_de_Suse #Italie #Alpes #montagne #France #migrations #asile #réfugiés #frontières #Oulx

    • Oltre la valle

      In una valle al confine fra Italia e Francia, da sempre terra di transito, si incrociano le vite dei migranti e quelle degli operatori di un centro di accoglienza.
      I migranti cercano di attraversare il confine e di arrivare in Francia, consapevoli di poter essere respinti alla frontiera. Le stagioni si susseguono, il presente e il passato si sovrappongono, le traiettorie umane si snodano, sospese nell’atto irreversibile di cercare uno spazio migliore in cui esistere.

      Note di regia

      Il mio prozio emigrò in Argentina durante gli anni Quaranta. Non l’ho mai conosciuto, ma le telefonate che arrivavano dall’altro lato del mondo, da parte dei suoi figli e spesso nel periodo delle feste, hanno sempre avuto un suono prezioso.
      Quando loro ne ricordavano la memoria emergeva sempre una componente di lotta, il desiderio di trovare una strada che potesse portare a un futuro sognato, nonostante le loro parole non lo dichiarassero mai apertamente. Avvertivo anche il suono di quella sofferenza ereditata e un po’ nascosta, di chi ha sbattuto molte volte contro un muro prima di poter andare oltre. Di chi si è sentito un po’ bistrattato, solo per il fatto di essersi immaginato altrove, e di averne inseguito l’atto più definitivo, quasi fosse una scelleratezza. È strano come la storia, pur ripetendosi, si dimentichi. Per questo, molti anni dopo quelle telefonate, in tempi in cui le barriere del Mediterraneo e i margini dell’Europa diventano sempre più alti, abbiamo sentito l’esigenza di fermarci, per fotografare un luogo e le storie che lo attraversano. Ma non per cristallizzarlo, al contrario, per coglierne il transito. Il periodo di osservazione si è svolto alla frontiera italo-francese, precisamente nell’Alta Val di Susa fra Oulx e Claviere, cittadina sul versante italiano del Colle del Monginevro fino agli anni Settanta tagliata a metà dal confine. È incredibile come da qui, la Francia sembri vicinissima e lontanissima allo stesso tempo. La sua geografia cambia a seconda del tipo di documento: dista solo pochi minuti per chi ha una macchina e una targa europea, oppure cinque ore di cammino per chi viene dalla rotta balcanica. Ma è stata solo la prima di una serie di dicotomie che continuavano a ripetersi, che condividevano quella terra di confine scandendone il tempo e lo spazio: col passare delle stagioni, ogni anno, le distese di neve lasciano il posto a immensi prati, turisti e attivisti gravitano intorno alle stesse seggiovie e campi da golf, il nostro passato ritorna nel presente di chi attraversa. La frontiera, si muove su un meccanismo ben oliato, una giostra drammatica vissuta dagli stessi migranti come un gioco dell’assurdo, tanta è la loro abitudine a essere respinti e a riattraversare il giorno successivo, rischiando ogni volta la vita. È stato molto difficile ottenere qualsiasi tipo di permesso, e incontro umano dopo incontro umano, anche l’atto di filmare si è inserito negli argini di inevitabili contrappunti: "sono un solidale, sto aiutando e rischiando, il confine fra ciò che si può fare e non si può fare è molto sottile”.
      “Sono un migrante, eppure non posso attraversare il confine. Ma il confine qui... dov’é precisamente?”
      Forse il confine si trova dove c’è il cippo di pietra con le lettere F e I, anche se a volte è nascosto nel bosco, ed è difficile da intravedere. Forse è un po’ prima, là dove cammina il gendarme. Forse non c’è mai stato, oppure non è una linea retta. Rispettare le mille anime di questa Valle, e voler allo stesso tempo raccontare con oggettività ciò che stava accadendo, ha implicato una continua ricerca di equilibri e un’incessante reinterpretazione della realtà. Uno stare in bilico, come su una linea sottile. La pandemia e la guerra in Ucraina, hanno mutato nuovamente gli equilibri, mettendoci davanti altre realtà delicate e irreversibili.
      “Oltre la Valle” è una storia vista con un caleidoscopio, in cui i frammenti, o i pezzi del puzzle, vogliono ritrarre un mondo reale che sembra astratto e inverosimile, dove le montagne sono ancora sovrastate da fortezze, e i confini di un regno sono contesi nella rievocazione di un’antica battaglia. Dove i tunnel possono essere il tramite verso la meta o possono riportare al punto di partenza. Dove esiste un rifugio in cui gli ospiti provengono da un’altra Europa, dall’Africa e dall’Asia, e un operatore sogna di diventare qualcos’altro, perché in fondo, tutto, nella nostra vita, può essere di passaggio.

      https://filmitalia.org/it/film/183118

  • La ’dette immunitaire’ est un concept trompeur et dangereux | Anjana Ahuja, Publication originale, 23/11/2022 :
    Financial Times
    https://cabrioles.substack.com/p/la-dette-immunitaire-est-un-concept

    La théorie de la dette immunitaire, bien que fausse et réfutée, présente un grand attrait pour ceux qui minimisent les maladies chez les enfants et pour ceux qui prônent l’infection plutôt que la vaccination. Elle permet de justifier a posteriori l’opposition à des mesures telles que le port du masque, même si les faits montrent que ces mesures ont permis d’endiguer le COVID et de pratiquement supprimer la grippe.

    Anjana Ahuja est journaliste scientifique et propose chaque semaine son opinion sur les développements importants dans les domaines de la science, de la santé et de la technologie au niveau mondial. Elle était auparavant rédactrice et chroniqueuse au Times de Londres. Elle est titulaire d’un doctorat en physique spatiale de l’Imperial College de Londres et a étudié le journalisme à la City University de Londres.

    (...) "La dette immunitaire en tant que concept individuel n’est pas reconnue en immunologie", explique Mme Dunn-Walters. Le système immunitaire n’est pas considéré comme un muscle qu’il faut utiliser en permanence pour le maintenir en forme. L’attaque constante d’agents pathogènes courants tels que le cytomégalovirus, ajoute-t-elle, entraîne un dysfonctionnement et un relâchement du système immunitaire avec l’âge. Elle rejette l’idée que les infections soient d’une quelconque manière bénéfiques pour la santé, affirmant que la vaccination est un moyen bien plus sûr de construire de l’immunité collective.

    https://seenthis.net/messages/1017945

    les infections virales sont susceptibles d’occasionner affaiblissement et dérèglement immunitaire. ainsi, la rougeole peut favoriser des années après d’autres pathologies.

    #dette_immunitaire #virus #immunité #système_immunitaire #vaccin #masque #covid #science #obscurantisme #désinformation

  • BALLAST • La boxe, ce sport de prolétaires
    https://www.revue-ballast.fr/la-boxe-ce-sport-de-proletaires

    Dans l’i­ma­gi­naire col­lec­tif, la boxe a long­temps été asso­ciée à des images de salles sombres où résonnent le bruit des coups sur les sacs, tan­dis que des corps trans­pirent à la lumière des néons. Aujourd’hui, les salles de sport pro­posent sa pra­tique sous des moda­li­tés variées à un public issu des classes moyenne ou aisée, qui veut se main­te­nir en forme, ou dans le cadre de cours d’au­to­dé­fense. Malgré tout, la boxe reste une acti­vi­té spor­tive bien ancrée dans les classes popu­laires. Par l’en­ga­ge­ment qu’elle demande et la dure­té de la pra­tique, elle fait écho à des condi­tions de vie dif­fi­cile, qu’elle aide à affron­ter. Face à sa récu­pé­ra­tion mar­chande et à la ten­ta­tive de la vider de son carac­tère sub­ver­sif, le jour­na­liste Selim Derkaoui défend pour sa part un sport « au ser­vice des com­bats que l’on mène à plu­sieurs ». Dans Rendre les coups — Boxe et lutte des classes, qui paraît ces jours-ci au Passager clan­des­tin, il rend hom­mage à la boxe popu­laire, celle que pra­ti­quait son père et qu’il est allé ren­con­trer à Aubervilliers, Pantin ou dans la ban­lieue de Caen. Nous en publions un extrait.

    #sport #boxe

  • est une vieille dame saine et équilibrée (hum...), vous le savez bien, alors elle n’est ni du côté des un(e)s, ni du côté des autres. C’est seulement qu’elle ne comprend pas comment le monde parvient encore à jouer les vierges effarouché(e)s à chaque fois qu’une attaque, qu’une « opération spéciale » ou qu’une guerre se déclenche ou se réveille quelque part. La vie est une s***perie, Sapiens Sapiens est la pire des s***peries au sein de la vie, la masculinité est la pire des s***peries parmi les Sapiens Sapiens — c’est ainsi depuis des centaines de milliers d’années et on continue à dire « Ah bah ça alors ! Un conflit ! Comment est-ce donc possible ? On ne s’y attendait pas du tout ! »

    Amusez-vous à dresser la liste des États, des pays ou plus globalement des entités territoriales-économiques-politiques-religieuses-ethniques qui ne sont pas impliqué(e)s dans une guerre, officiellement ou en soum-soum, là, aujourd’hui, en vendémiaire 232 : vous n’en trouverez aucun(e), ou quasiment aucun(e) — d’ailleurs les rares qui ne le seraient pas à l’instant T prennent juste une petite pause avant de retourner dans la mêlée.

    Les seules solutions ? Le kimilsungisme-kimjongilisme-kimjongunisme ou la fin du monde.

  • Pandémies : l’éternel retour | CNRS Le journal
    https://lejournal.cnrs.fr/articles/pandemies-leternel-retour

    Les conditions restent propices à l’émergence de nouveaux pathogènes capables de causer des #pandémies. La dégradation environnementale et l’accélération des mouvements de personnes et de marchandises s’ajoutent à l’extraordinaire capacité d’adaptation des bactéries, virus et champignons.

    Les épidémiologistes sont à nouveau sur le qui-vive. Au cours des derniers mois, des milliers d’otaries ont été retrouvés mortes sur les plages du Chili et du Pérou. La cause : #H5N1, la grippe aviaire, un virus que l’on surveille comme du lait sur le feu depuis vingt ans. Depuis sa réémergence en Chine en 2003, on craint qu’il ne soit à l’origine d’une pandémie de grande ampleur. Pour ce faire, il ne manque au virus qu’une chose : la capacité à se transmettre d’humain à humain de manière efficace. Jusqu’à présent, la plupart des infections humaines par cette souche provenaient de contacts avec des oiseaux contaminés.

    C’est pourquoi la mort soudaine de tant d’otaries inquiète : une telle mortalité pourrait être le signe que la grippe aviaire s’est propagée d’un individu à l’autre. « Si cela se confirme, ce serait un fait de la plus haute importance, indique Martin Blackledge, directeur adjoint de l’Institut de biologie structurale. Cela voudrait dire que le virus est en train de s’adapter aux mammifères. » Et voilà que nos souvenirs de l’atroce année 2020 reviennent nous hanter.

    La fin de l’optimisme

    Qu’elle semble loin cette époque dorée, les années 1950 et 1960, lorsque les médecins et les autorités sanitaires des pays développés pensaient que la menace des maladies infectieuses serait bientôt du passé. « On voyait les progrès de l’hygiène, de l’infrastructure hospitalière, des vaccins et des antibiotiques. On venait d’un énorme succès contre la polio. C’était bon, on avait tout compris, il était temps de passer à autre chose », ironise Serge Morand, directeur de recherche au laboratoire Maladies infectieuses et vecteurs : écologie, génétique, évolution et contrôle.

    #écologie #zoonoses #épidémies

    • Pour les scientifiques, le Covid-19 a constitué un extraordinaire observatoire de l’évolution d’un pathogène. « On a vu à quel point l’adaptation du virus était fondamentale dans le processus épidémique », explique François Blanquart, chercheur au Centre interdisciplinaire de recherche en biologie. La succession des variants a été particulièrement riche en enseignements. « Avec les variants, on a observé une dynamique de balayage sélectif extraordinaire. Chaque nouveau variant remplaçait les précédents en un temps record. » Ainsi, le variant Alpha, plus virulent et plus transmissible que son prédécesseur, a balayé la souche originale de Wuhan. Peu après, c’est Delta, encore plus virulent et transmissible qu’Alpha, qui a poussé ses concurrents à l’extinction.

      L’arrivée des vaccins a changé le cours de l’évolution du virus. « Omicron a éliminé les variants antérieurs en partie parce qu’il se propageait très bien parmi la population vaccinée », explique François Blanquart. Les scientifiques pensent qu’à l’avenir, ce #coronavirus, comme la grippe, présentera de nombreux #variants en même temps, qui évolueront dans un paysage immunitaire hétérogène . Il sera impossible en tout cas de s’en débarrasser. Homo sapiens est désormais son réservoir naturel.

      #Covid-19 #bactéries #antibiorésistance #virus #champignons #antifongiques #résistance_aux_antifongiques #agriculture #laboratoires_L3 #laboratoires_L4 #one_health

  • Contre-histoire des États-Unis, Roxanne Dunbar-Ortiz – Éditions Wildproject
    https://wildproject.org/livres/contre-histoire-des-etats-unis

    Le monde qui vient
    novembre 2021
    9-782-381140-278
    336 pages
    22 €
    13 × 20 cm
    Préface et traduction par Pascal Menoret
    Première édition française 2018

    Ce livre répond à une question simple : pourquoi les Indiens dʼAmérique ont-ils été décimés ? Nʼétait-il pas pensable de créer une civilisation créole prospère qui permette aux populations amérindienne, africaine, européenne, asiatique et océanienne de partager lʼespace et les ressources naturelles des États-Unis ? Le génocide des Amérindiens était-il inéluctable ?

    La thèse dominante aux États-Unis est quʼils ont souvent été tués par les virus apportés par les Européens avant même dʼentrer en contact avec les Européens eux-mêmes : la variole voyageait plus vite que les soldats espagnols et anglais. Les survivants auraient soit disparu au cours des guerres de la frontière, soit été intégrés, eux aussi, à la nouvelle société dʼimmigrés.

    Contre cette vision irénique dʼune histoire impersonnelle, où les virus et lʼacier tiennent une place prépondérante et où les intentions humaines sont secondaires, Roxanne Dunbar-Ortiz montre que les États-Unis sont une scène de crime. Il y a eu génocide parce quʼil y a eu intention dʼexterminer : les Amérindiens ont été méthodiquement éliminés, dʼabord physiquement, puis économiquement, et enfin symboliquement.

    L’autrice

    Roxanne Dunbar-Ortiz est une historienne et militante née en 1938. Docteur en histoire (UCLA, 1974), elle est également diplômée en droit international et droits de lʼHomme de lʼIDH de Strasbourg (1983). Militante de la cause amérindienne depuis 1967, cofondatrice du Mouvement de libération des femmes (MLF) aux États-Unis en 1968, elle a aussi vécu en Europe, au Mexique et à Cuba. Elle est lʼautrice dʼune quinzaine dʼouvrages.

    On en parle

    Avec ce compte-rendu de la conquête des États-Unis du point de vue de ses victimes, Roxanne Dunbar-Ortiz nous rend un service immense. Renseigné en profondeur, éloquent et lucide, ce puissant récit dʼun crime terrible prend aujourdʼhui un sens nouveau : les survivants rejoignent en effet les peuples indigènes du monde pour lutter – en idées et en actions – contre la destruction écologique du monde causée par la civilisation industrielle.
    Noam Chomsky, linguiste

    Voici sans doute la plus importante histoire des États-Unis jamais écrite. Voici, restituée de façon honnête et souvent poétique, lʼhistoire de ces traces et dʼun peuple qui a survécu, meurtri mais insoumis. Spoiler alert : la période coloniale nʼest pas close – et tous les Indiens ne sont pas morts.
    Robin Kelley, historien

    Lʼoubli de lʼhistoire est la maladie fondamentale de la plupart des Américains blancs. Dunbar-Ortiz demande à ses lecteurs de retourner à ce point de départ : de sʼenraciner dans la poussière rouge et les débris de la mémoire.
    Mike Davis, sociologue

    Issue dʼun milieu ouvrier, ayant grandi en Oklahoma, Roxanne Dunbar-Ortiz a participé à tous les grands mouvements féministes ou révolutionnaires des années 1960 et 1970. Elle éclaire ces expériences avec une implacable précision, et fait preuve dʼune fière et admirable indépendance.
    Howard Zinn, historien

    Roxanne Dunbar-Ortiz a écrit le livre fondamental, celui qui remet à l’endroit l’histoire nationale américaine, structurée par un génocide originel et une violente colonisation de peuplement.
    Raoul Peck, cinéaste

    Sommaire

    Préface du traducteur
    Note de lʼauteure

    Introduction. Cette terre

    Suivez le maïs
    La culture de la conquête
    Le culte de lʼalliance
    Des empreintes de sang
    Naissance dʼune nation
    Le Dernier des Mohicans et la république blanche dʼAndrew Jackson
    Dʼun océan à lʼautre, étincelant
    Pays indien
    Triomphalisme et colonialisme en temps de paix
    La prophétie de la danse des esprits : une nation arrive
    La Doctrine de la Découverte

    Conclusion. Lʼavenir des États-Unis

    • Roxane Dunbar-Ortiz est une historienne et une militante connue aux USA pour sa participation active aux luttes d’émancipation des années 60 (droits civiques, anticolonialiste,féministe). Elle nous propose cette contre-histoire passionnante des États-Unis, « telle que les peuples indigènes la vécurent », ce qui « requiert de mettre à neuf le récit national ».

      S’appuyant sur une description précises des faits, Roxane Dunbar-Ortiz n’hésite pas à qualifier en terme de « génocide », la politique de colonisation de peuplement conduite par les colons états-uniens. D’autres auteurs, notamment Robert Jaulin, ont employé le terme d’ethnocide pour décrire les conséquences du colonialisme (voir le lien ci-dessous).

      La première partie du livre est consacrée à l’examen historique des faits concernant l’éradication des nations autochtones. Il semblerait que ces faits historique soient méconnus ou ignorés de la grande partie de la population états-unienne. Des mises en perspectives expliquent comment ces faits structurent encore largement l’idéologie du pays.

      Les fondations de l’histoire des États-Unis sont à trouver dans le débarquement des caravelles espagnoles sur le continent d’Amérique. Le mythe fondateur états-unien, proprement dit, débute officiellement, à l’issue de la guerre d’indépendance des colonies anglaises, en 1783. Environ 4 millions d’européens vivent alors sur 13 colonies britanniques, le long de la côte atlantique. « La conquête de l’Ouest » qui s’en suit, conduit progressivement en un siècle à la dépossession de l’intégralité des territoires autochtones situés sur cette partie du continent.

      L’autrice explique par le détail comment les conquérants étasuniens ont systématiquement mis en œuvre une politique de colonisation de peuplement en chassant les nations indigènes afin de s’approprier leurs terres. Plusieurs méthodes furent employées à cette fin : les massacres des populations, la destruction de leurs ressources végétales et animales (notamment les bisons), la manipulation des nations indigènes dressées les unes contre les autres, la signature d’accords systématiquement violés, l’enferment des autochtones dans des réserves racistes, l’assimilation forcée, l’acculturation, la corruption, leur dépendance aux logiques capitalistes…

      Le mythe colonialiste du « nouveau monde » est taillé en pièces par l’autrice. Ce récit évoque un continent vide et habité par des sauvages avant l’arrivée des Européen ; ces derniers s’émerveillent, par exemple, de la présence de « bois ouverts », estimant qu’il s’agissait d’une configuration caractéristique de l’Amérique du nord, sans voir que ce paysage n’était rien d’autre que la résultante du rapport que les peuples indigènes entretiennent avec la nature.

      L’autrice remet en cause le contenu du mythe fondateur états-unien qui fait de cette nation, se constituant sur le colonialisme le plus brutal, une nation exceptionnelle. On glorifie l’appropriation du continent par une sorte de délire mystique alors que la création des États-Unis est directement liée à l’émergence du capitalisme et de ses contingences de développement économique.

      Outre son intérêt pour la restitution historique de faits qui semblent méconnus au pays de l’oncle Sam, l’ouvrage propose une réflexion assez approfondie sur les considérants idéologiques structurant l’imaginaire états-unien encore aujourd’hui. Ce qui constitue la seconde partie de l’ouvrage.

      On voit comment, à partir de fables nationales telles que celle du « destin manifeste », on construit un mythe selon lequel les États unis est une nation prédestinée à conquérir les territoires « d’un océan à l’autre ». Le pays est composé « d’exceptionnelles entités » eu égard à l’influence calviniste des premiers colons. De ce fait, la fin justifiant les moyens, rien n’est plus ordinaire que d’y entendre des voix conduite à vanter « les conséquence positives de la colonisation ».

      Enfin, Roxane Dunbar-Ortiz explique comment la guerre permanente contre les peuples autochtones a construit une logique militarise omniprésente, encore aujourd’hui, dans l’idéologie dominante de ce pays. Le militarisme états-unien sert de justificatif à la politique impérialiste conduite dans le monde entier. Il est rappelé, aussi, en quoi le deuxième amendement de la constitution (sur le port d’arme) en est tributaire.

      L’autrice explique comment le passé colonial contre les nations indigènes, a directement structuré des concepts militaires, encore mis en pratique à notre époque par les États-Unis dans leur politique impérialiste (guerres du Vietnam, d’Irak, etc.). Les termes en usage pour définir les tactiques guerrières pour exterminer les nations indigènes lors de le « conquête de l’Ouest » tels que « guerre totale », « guerre irrégulière » ou « guerre de contre-insurrection » font encore partie du vocabulaire des militaires états-uniens d’aujourd’hui. On apprend, enfin que, bien au-delà des frontières du continent américain, le terme de « pays indiens » est encore employé encore de nos jours, par l’administration militaire États-unienne pour désigner une zone située derrière les lignes ennemies.

    • Un extrait de la conclusion de Contre-histoire des États-Unis, Roxanne Dunbar-Ortiz :

      https://www.salon.com/2014/10/13/north_america_is_a_crime_scene_the_untold_history_of_america

      North America is a crime scene: The untold history of America this Columbus Day
      The founding myth of the United States is a lie. It is time to re-examine our ruthless past — and present
      By Roxanne Dunbar-Ortiz
      Published October 13, 2014 5:45PM (EDT)

      Excerpted from “An Indigenous Peoples’ History of the United States”

      That the continued colonization of American Indian nations, peoples, and lands provides the United States the economic and material resources needed to cast its imperialist gaze globally is a fact that is simultaneously obvious within—and yet continually obscured by—what is essentially a settler colony’s national construction of itself as an ever more perfect multicultural, multiracial democracy. . . . [T]he status of American Indians as sovereign nations colonized by the United States continues to haunt and inflect its raison d’etre. —Jodi Byrd

      The conventional narrative of U.S. history routinely segregates the “Indian wars” as a subspecialization within the dubious category “the West.” Then there are the westerns, those cheap novels, movies, and television shows that nearly every American imbibed with mother’s milk and that by the mid-twentieth century were popular in every corner of the world. The architecture of US world dominance was designed and tested by this period of continental U.S. militarism, which built on the previous hundred years and generated its own innovations in total war. The opening of the twenty-first century saw a new, even more brazen form of U.S. militarism and imperialism explode on the world scene when the election of George W. Bush turned over control of U.S. foreign policy to a long-gestating neoconservative and warmongering faction of the Pentagon and its civilian hawks. Their subsequent eight years of political control included two major military invasions and hundreds of small wars employing U.S. Special Forces around the globe, establishing a template that continued after their political power waned.

      Injun Country

      One highly regarded military analyst stepped forward to make the connections between the “Indian wars” and what he considered the country’s bright imperialist past and future. Robert D. Kaplan, in his 2005 book Imperial Grunts, presented several case studies that he considered highly successful operations: Yemen, Colombia, Mongolia, and the Philippines, in addition to ongoing complex projects in the Horn of Africa, Afghanistan, and Iraq. While US citizens and many of their elected representatives called for ending the US military interventions they knew about—including Iraq and Afghanistan—Kaplan hailed protracted counterinsurgencies in Africa, Asia, the Middle East, Latin America, and the Pacific. He presented a guide for the U.S. controlling those areas of the world based on its having achieved continental dominance in North America by means of counterinsurgency and employing total and unlimited war.

      Kaplan, a meticulous researcher and influential writer born in 1952 in New York City, wrote for major newspapers and magazines before serving as “chief geopolitical strategist” for the private security think tank Stratfor. Among other prestigious posts, he has been a senior fellow at the Center for a New American Security in Washington, D.C., and a member of the Defense Policy Board, a federal advisory committee to the US Department of Defense. In 2011, Foreign Policy magazine named Kaplan as one of the world’s “top 100 global thinkers.” Author of numerous best-selling books, including Balkan Ghosts and Surrender or Starve, Kaplan became one of the principal intellectual boosters for U.S. power in the world through the tried-and-true “American way of war.” This is the way of war dating to the British-colonial period that military historian John Grenier called a combination of “unlimited war and irregular war,” a military tradition “that accepted, legitimized, and encouraged attacks upon and the destruction of noncombatants, villages and agricultural resources . . . in shockingly violent campaigns to achieve their goals of conquest.”

      Kaplan sums up his thesis in the prologue to Imperial Grunts, which he subtitles “Injun Country”:

      By the turn of the twenty-first century the United States military had already appropriated the entire earth, and was ready to flood the most obscure areas of it with troops at a moment’s notice.

      The Pentagon divided the planet into five area commands—similar to the way that the Indian Country of the American West had been divided in the mid-nineteenth century by the U.S. Army. . . . [A]ccording to the soldiers and marines I met on the ground in far-flung corners of the earth, the comparison with the nineteenth century was . . . apt. “Welcome to Injun Country” was the refrain I heard from troops from Colombia to the Philippines, including Afghanistan and Iraq. To be sure, the problem for the American military was less [Islamic] fundamentalism than anarchy. The War on Terrorism was really about taming the frontier.

      Kaplan goes on to ridicule “elites in New York and Washington” who debate imperialism in “grand, historical terms,” while individuals from all the armed services interpret policy according to the particular circumstances they face and are indifferent to or unaware of the fact that they are part of an imperialist project. This book shows how colonialism and imperialism work.

      Kaplan challenges the concept of manifest destiny, arguing that “it was not inevitable that the United States should have an empire in the western part of the continent.” Rather, he argues, western empire was brought about by “small groups of frontiersmen, separated from each other by great distances.” Here Kaplan refers to what Grenier calls settler “rangers,” destroying Indigenous towns and fields and food supplies. Although Kaplan downplays the role of the U.S. Army compared to the settler vigilantes, which he equates to the modern Special Forces, he acknowledges that the regular army provided lethal backup for settler counterinsurgency in slaughtering the buffalo, the food supply of Plains peoples, as well as making continuous raids on settlements to kill or confine the families of the Indigenous fighters. Kaplan summarizes the genealogy of U.S. militarism today:

      Whereas the average American at the dawn of the new millennium found patriotic inspiration in the legacies of the Civil War and World War II, when the evils of slavery and fascism were confronted and vanquished, for many commissioned and noncommissioned officers the U.S. Army’s defining moment was fighting the “Indians.”

      The legacy of the Indian wars was palpable in the numerous military bases spread across the South, the Middle West, and particularly the Great Plains: that vast desert and steppe comprising the Army’s historical “heartland,” punctuated by such storied outposts as Forts Hays, Kearney, Leavenworth, Riley, and Sill. Leavenworth, where the Oregon and Santa Fe trails separated, was now the home of the Army’s Command and General Staff College; Riley, the base of George Armstrong Custer’s 7th Cavalry, now that of the 1st Infantry Division; and Sill, where Geronimo lived out the last years of his life, the headquarters of the U.S. Artillery. . . .

      While microscopic in size, it was the fast and irregular military actions against the Indians, memorialized in bronze and oil by Remington, that shaped the nature of American nationalism.

      Although Kaplan relies principally on the late-nineteenth-century source of US counterinsurgency, in a footnote he reports what he learned at the Airborne Special Operations Museum in Fayetteville, North Carolina: “It is a small but interesting fact that members of the 101st Airborne Division, in preparation for their parachute drop on D-Day, shaved themselves in Mohawk style and applied war paint on their faces.” This takes us back to the pre-independence colonial wars and then through US independence and the myth popularized by The Last of the Mohicans.

      Kaplan debunks the argument that the attacks on the World Trade Center and the Pentagon on September 11, 2001, brought the United States into a new era of warfare and prompted it to establish military bases around the world. Prior to 2001, Kaplan rightly observes, the US Army’s Special Operations Command had been carrying out maneuvers since the 1980s in “170 countries per year, with an average of nine ‘quiet professionals’ on each mission. America’s reach was long; its involvement in the obscurest states protean. Rather than the conscript army of citizen soldiers that fought World War II, there was now a professional military that, true to other imperial forces throughout history, enjoyed the soldiering life for its own sake.”

      On October 13, 2011, testifying before the Armed Services Committee of the US House of Representatives, General Martin Dempsey stated: “I didn’t become the chairman of the Joint Chiefs to oversee the decline of the Armed Forces of the United States, and an end state that would have this nation and its military not be a global power. . . . That is not who we are as a nation.”

      The Return of Legalized Torture

      Bodies—tortured bodies, sexually violated bodies, imprisoned bodies, dead bodies—arose as a primary topic in the first years of the George W. Bush administration following the September 2001 attacks with a war of revenge against Afghanistan and the overthrow of the government of Iraq. Afghans resisting U.S. forces and others who happened to be in the wrong place at the wrong time were taken into custody, and most of them were sent to a hastily constructed prison facility on the U.S. military base at Guantánamo Bay, Cuba, on land the United States appropriated in its 1898 war against Cuba. Rather than bestowing the status of prisoner of war on the detainees, which would have given them certain rights under the Geneva Conventions, they were designated as “unlawful combatants,” a status previously unknown in the annals of Western warfare. As such, the detainees were subjected to torture by U.S. interrogators and shamelessly monitored by civilian psychologists and medical personnel.

      In response to questions and condemnations from around the globe, a University of California international law professor, John C. Yoo, on leave to serve as assistant U.S. attorney general in the Justice Department’s Office of Legal Counsel, penned in March 2003 what became the infamous “Torture Memo.” Not much was made at the time of one of the precedents Yoo used to defend the designation “unlawful combatant,” the US Supreme Court’s 1873 opinion in Modoc Indian Prisoners.

      In 1872, a group of Modoc men led by Kintpuash, also known as Captain Jack, attempted to return to their own country in Northern California after the U.S. Army had rounded them up and forced them to share a reservation in Oregon. The insurgent group of fifty-three was surrounded by U.S. troops and Oregon militiamen and forced to take refuge in the barren and rugged lava beds around Mount Lassen, a dormant volcano, a part of their ancestral homeland that they knew every inch of. More than a thousand troops commanded by General Edward R. S. Canby, a former Civil War general, attempted to capture the resisters, but had no success as the Modocs engaged in effective guerrilla warfare. Before the Civil War, Canby had built his military career fighting in the Second Seminole War and later in the invasion of Mexico. Posted to Utah on the eve of the Civil War, he had led attacks against the Navajos, and then began his Civil War service in New Mexico. Therefore, Canby was a seasoned Indian killer. In a negotiating meeting between the general and Kintpuash, the Modoc leader killed the general and the other commissioners when they would allow only for surrender. In response, the United States sent another former Civil War general in with more than a thousand additional soldiers as reinforcements, and in April 1873 these troops attacked the Modoc stronghold, this time forcing the Indigenous fighters to flee. After four months of fighting that cost the United States almost $500,000—equal to nearly $10 million currently—and the lives of more than four hundred of its soldiers and a general, the nationwide backlash against the Modocs was vengeful. Kintpuash and several other captured Modocs were imprisoned and then hanged at Alcatraz, and the Modoc families were scattered and incarcerated on reservations. Kintpuash’s corpse was embalmed and exhibited at circuses around the country. The commander of the army’s Pacific Military Division at the time, Lieutenant General John M. Schofield, wrote of the Modoc War in his memoir, Forty-Six Years in the Army: “If the innocent could be separated from the guilty, plague, pestilence, and famine would not be an unjust punishment for the crimes committed in this country against the original occupants of the soil.”

      Drawing a legal analogy between the Modoc prisoners and the Guantánamo detainees, Assistant U.S. Attorney General Yoo employed the legal category of homo sacer—in Roman law, a person banned from society, excluded from its legal protections but still subject to the sovereign’s power. Anyone may kill a homo sacer without it being considered murder. As Jodi Byrd notes, “One begins to understand why John C. Yoo’s infamous March 14, 2003, torture memos cited the 1865 Military Commissions and the 1873 The Modoc Indian Prisoners legal opinions in order to articulate executive power in declaring the state of exception, particularly when The Modoc Indian Prisoners opinion explicitly marks the Indian combatant as homo sacer to the United States.” To buttress his claim, Yoo quoted from the 1873 Modoc Indian Prisoners opinion:

      It cannot be pretended that a United States soldier is guilty of murder if he kills a public enemy in battle, which would be the case if the municipal law were in force and applicable to an act committed under such circumstances. All the laws and customs of civilized warfare may not be applicable to an armed conflict with the Indian tribes upon our western frontier; but the circumstances attending the assassination of Canby [Army general] and Thomas [U.S. peace commissioner] are such as to make their murder as much a violation of the laws of savage as of civilized warfare, and the Indians concerned in it fully understood the baseness and treachery of their act.

      Byrd points out that, according to this line of thinking, anyone who could be defined as “Indian” could thus be killed legally, and they also could be held responsible for crimes they committed against any US soldier. “As a result, citizens of American Indian nations become in this moment the origin of the stateless terrorist combatant within U.S. enunciations of sovereignty.”

      Ramped Up Militarization

      The Chagos Archipelago comprises more than sixty small coral islands isolated in the Indian Ocean halfway between Africa and Indonesia, a thousand miles south of the nearest continent, India. Between 1968 and 1973, the United States and Britain, the latter the colonial administrator, forcibly removed the indigenous inhabitants of the islands, the Chagossians. Most of the two thousand deportees ended up more than a thousand miles away in Mauritius and the Seychelles, where they were thrown into lives of poverty and forgotten. The purpose of this expulsion was to create a major U.S. military base on one of the Chagossian islands, Diego Garcia. As if being rounded up and removed from their homelands in the name of global security were not cruel enough, before being deported the Chagossians had to watch as British agents and U.S. troops herded their pet dogs into sealed sheds where they were gassed and burned. As David Vine writes in his chronicle of this tragedy:

      “The base on Diego Garcia has become one of the most secretive and powerful U.S. military facilities in the world, helping to launch the invasions of Afghanistan and Iraq (twice), threatening Iran, China, Russia, and nations from southern Africa to southeast Asia, host to a secret CIA detention center for high-profile terrorist suspects, and home to thousands of U.S. military personnel and billions of dollars in deadly weaponry.”

      The Chagossians are not the only indigenous people around the world that the US military has displaced. The military established a pattern during and after the Vietnam War of forcibly removing indigenous peoples from sites deemed strategic for the placement of military bases. The peoples of the Bikini Atoll in the South Pacific and Puerto Rico’s Vieques Island are perhaps the best-known examples, but there were also the Inughuit of Thule, Greenland, and the thousands of Okinawans and Indigenous peoples of Micronesia. During the harsh deportation of the Micronesians in the 1970s, the press took some notice. In response to one reporter’s question, Secretary of State Henry Kissinger said of the Micronesians: “There are only ninety thousand people out there. Who gives a damn?” This is a statement of permissive genocide.

      By the beginning of the twenty-first century, the United States operated more than 900 military bases around the world, including 287 in Germany, 130 in Japan, 106 in South Korea, 89 in Italy, 57 in the British Isles, 21 in Portugal, and 19 in Turkey. The number also comprised additional bases or installations located in Aruba, Australia, Djibouti, Egypt, Israel, Singapore, Thailand, Kyrgyzstan, Kuwait, Qatar, Bahrain, the United Arab Emirates, Crete, Sicily, Iceland, Romania, Bulgaria, Honduras, Colombia, and Cuba (Guantánamo Bay), among many other locations in some 150 countries, along with those recently added in Iraq and Afghanistan.

      In her book The Militarization of Indian Country, Anishinaabe activist and writer Winona LaDuke analyzes the continuing negative effects of the military on Native Americans, considering the consequences wrought on Native economy, land, future, and people, especially Native combat veterans and their families. Indigenous territories in New Mexico bristle with nuclear weapons storage, and Shoshone and Paiute territories in Nevada are scarred by decades of aboveground and underground nuclear weapons testing. The Navajo Nation and some New Mexico Pueblos have experienced decades of uranium strip mining, the pollution of water, and subsequent deadly health effects. “I am awed by the impact of the military on the world and on Native America,” LaDuke writes. “It is pervasive.”

      Political scientist Cynthia Enloe, who specializes in US foreign policy and the military, observes that US culture has become even more militarized since the attacks on the World Trade Center and the Pentagon. Her analysis of this trend draws on a feminist perspective:

      Militarization . . . [is] happening at the individual level, when a woman who has a son is persuaded that the best way she can be a good mother is to allow the military recruiter to recruit her son so her son will get off the couch. When she is persuaded to let him go, even if reluctantly, she’s being militarized. She’s not as militarized as somebody who is a Special Forces soldier, but she’s being militarized all the same. Somebody who gets excited because a jet bomber flies over the football stadium to open the football season and is glad that he or she is in the stadium to see it, is being militarized. So militarization is not just about the question “do you think the military is the most important part of the state?” (although obviously that matters). It’s not just “do you think that the use of collective violence is the most effective way to solve social problems?”—which is also a part of militarization. But it’s also about ordinary, daily culture, certainly in the United States.

      As John Grenier notes, however, the cultural aspects of militarization are not new; they have deep historical roots, reaching into the nation’s British-colonial past and continuing through unrelenting wars of conquest and ethnic cleansing over three centuries.

      “Beyond its sheer military utility, Americans also found a use for the first way of war in the construction of an ‘American identity.’. . . [T]he enduring appeal of the romanticized myth of the ‘settlement’ (not the conquest) of the frontier, either by ‘actual’ men such as Robert Rogers or Daniel Boone or fictitious ones like Nathaniel Bumppo of James Fenimore Cooper’s creation, points to what D. H. Lawrence called the ‘myth of the essential white American.’”

      The astronomical number of firearms owned by U.S. civilians, with the Second Amendment as a sacred mandate, is also intricately related to militaristic culture. Everyday life and the culture in general are damaged by ramped-up militarization, and this includes academia, particularly the social sciences, with psychologists and anthropologists being recruited as advisors to the military. Anthropologist David H. Price, in his indispensable book Weaponizing Anthropology, remarks that “anthropology has always fed between the lines of war.” Anthropology was born of European and U.S. colonial wars. Price, like Enloe, sees an accelerated pace of militarization in the early twenty-first century: “Today’s weaponization of anthropology and other social sciences has been a long time coming, and post-9/11 America’s climate of fear coupled with reductions in traditional academic funding provided the conditions of a sort of perfect storm for the militarization of the discipline and the academy as a whole.”

      In their ten-part cable television documentary series and seven-hundred-page companion book The Untold History of the United States, filmmaker Oliver Stone and historian Peter Kuznick ask: “Why does our country have military bases in every region of the globe, totaling more than a thousand by some counts? Why does the United States spend as much money on its military as the rest of the world combined? Why does it still possess thousands of nuclear weapons, many on hair-trigger alert, even though no nation poses an imminent threat?” These are key questions. Stone and Kuznick condemn the situation but do not answer the questions. The authors see the post–World War II development of the United States into the world’s sole superpower as a sharp divergence from the founders’ original intent and historical development prior to the mid-twentieth century. They quote an Independence Day speech by President John Quincy Adams in which he condemned British colonialism and claimed that the United States “goes not abroad, in search of monsters to destroy.” Stone and Kuznick fail to mention that the United States at the time was invading, subjecting, colonizing, and removing the Indigenous farmers from their land, as it had since its founding and as it would through the nineteenth century. In ignoring that fundamental basis for US development as an imperialist power, they do not see that overseas empire was the logical outcome of the course the United States chose at its founding.

      North America is a Crime Scene

      Jodi Byrd writes: “The story of the new world is horror, the story of America a crime.” It is necessary, she argues, to start with the origin of the United States as a settler-state and its explicit intention to occupy the continent. These origins contain the historical seeds of genocide. Any true history of the United States must focus on what has happened to (and with) Indigenous peoples—and what still happens. It’s not just past colonialist actions but also “the continued colonization of American Indian nations, peoples, and lands” that allows the United States “to cast its imperialist gaze globally” with “what is essentially a settler colony’s national construction of itself as an ever more perfect multicultural, multiracial democracy,” while “the status of American Indians as sovereign nations colonized by the United States continues to haunt and inflect its raison d’etre.” Here Byrd quotes Lakota scholar Elizabeth Cook-Lynn, who spells out the connection between the “Indian wars” and the Iraq War:

      The current mission of the United States to become the center of political enlightenment to be taught to the rest of the world began with the Indian wars and has become the dangerous provocation of this nation’s historical intent. The historical connection between the Little Big Horn event and the “uprising” in Baghdad must become part of the political dialogue of America if the fiction of decolonization is to happen and the hoped for deconstruction of the colonial story is to come about.

      A “race to innocence” is what occurs when individuals assume that they are innocent of complicity in structures of domination and oppression. This concept captures the understandable assumption made by new immigrants or children of recent immigrants to any country. They cannot be responsible, they assume, for what occurred in their adopted country’s past. Neither are those who are already citizens guilty, even if they are descendants of slave owners, Indian killers, or Andrew Jackson himself. Yet, in a settler society that has not come to terms with its past, whatever historical trauma was entailed in settling the land affects the assumptions and behavior of living generations at any given time, including immigrants and the children of recent immigrants.

      In the United States the legacy of settler colonialism can be seen in the endless wars of aggression and occupations; the trillions spent on war machinery, military bases, and personnel instead of social services and quality public education; the gross profits of corporations, each of which has greater resources and funds than more than half the countries in the world yet pay minimal taxes and provide few jobs for US citizens; the repression of generation after generation of activists who seek to change the system; the incarceration of the poor, particularly descendants of enslaved Africans; the individualism, carefully inculcated, that on the one hand produces self-blame for personal failure and on the other exalts ruthless dog-eat-dog competition for possible success, even though it rarely results; and high rates of suicide, drug abuse, alcoholism, sexual violence against women and children, homelessness, dropping out of school, and gun violence.

      These are symptoms, and there are many more, of a deeply troubled society, and they are not new. The large and influential civil rights, student, labor, and women’s movements of the 1950s through the 1970s exposed the structural inequalities in the economy and the historical effects of more than two centuries of slavery and brutal genocidal wars waged against Indigenous peoples. For a time, US society verged on a process of truth seeking regarding past atrocities, making demands to end aggressive wars and to end poverty, witnessed by the huge peace movement of the 1970s and the War on Poverty, affirmative action, school busing, prison reform, women’s equity and reproductive rights, promotion of the arts and humanities, public media, the Indian Self-Determination Act, and many other initiatives.

      A more sophisticated version of the race to innocence that helps perpetuate settler colonialism began to develop in social movement theory in the 1990s, popularized in the work of Michael Hardt and Antonio Negri. Commonwealth, the third volume in a trilogy, is one of a number of books in an academic fad of the early twenty-first century seeking to revive the Medieval European concept of the commons as an aspiration for contemporary social movements. Most writings about the commons barely mention the fate of Indigenous peoples in relation to the call for all land to be shared. Two Canadian scholar-activists, Nandita Sharma and Cynthia Wright, for example, do not mince words in rejecting Native land claims and sovereignty, characterizing them as xenophobic elitism. They see Indigenous claims as “regressive neo-racism in light of the global diasporas arising from oppression around the world.”

      Cree scholar Lorraine Le Camp calls this kind of erasure of Indigenous peoples in North America “terranullism,” harking back to the characterization, under the Doctrine of Discovery, of purportedly vacant lands as terra nullis. This is a kind of no-fault history. From the theory of a liberated future of no borders and nations, of a vague commons for all, the theorists obliterate the present and presence of Indigenous nations struggling for their liberation from states of colonialism. Thereby, Indigenous rhetoric and programs for decolonization, nationhood, and sovereignty are, according to this project, rendered invalid and futile. From the Indigenous perspective, as Jodi Byrd writes, “any notion of the commons that speaks for and as indigenous as it advocates transforming indigenous governance or incorporating indigenous peoples into a multitude that might then reside on those lands forcibly taken from indigenous peoples does nothing to disrupt the genocidal and colonialist intent of the initial and now repeated historical process.”

      Excerpted from “An Indigenous Peoples’ History of the United States” by Roxanne Dunbar-Ortiz (Beacon Press, 2014). Copyright 2014 by Roxanne Dunbar-Ortiz. Reprinted with permission of the publisher. All rights reserved.

      By Roxanne Dunbar-Ortiz

    • Je trouve que c’est bien traduit ; en tous cas, agréable à lire. Le traducteur a aussi écrit l’introduction.

      Autre chose, qui n’a rien à voir avec la traduction... maintenant que j’y pense ; j’ai oublié de le mettre dans ma présentation : le seul reproche que je ferais c’est l’absence de cartes, à l’exception de la reproduction, à la fin de l’ouvrage, d’un document à peine lisible. Dommage cela aurait été bien utile.

    • pour ce qui est devenu le Québec, Marie-Christine Lévesque et Serge Bouchard, tombés en amour pour les Innus, décrivent dans Le peuple rieur, Hommage à mes amis innus (ethnographie qui ne propose pas une histoire d’ensemble), un bref moment de rapport plutôt égalitaire, à l’arrivée de Champlain, où l’établissement de comptoirs commerciaux isolés, rares, occasionne des échanges (traite des fourrures), et durant lequel les Innus sont admirés par les arrivants pour leurs capacités cynégétiques ainsi que leur manière de réussir à subsister sur un territoire que les arrivants voient comme principalement hostile. mais c’était avant qu’ils deviennent des ostie de sauvages.
      #peuples_premiers #nations_sans_état

    • Aussi, une #BD ...
      Une histoire populaire de l’empire américain

      Depuis le génocide des Indiens jusqu’à la guerre en Irak en passant par le développement d’un capitalisme financier globalisé, les États- Unis se sont constitués au fil des siècles comme un empire incontournable. Peu à peu, leur histoire est devenue mythologie, mais ce livre propose le récit d’une nation, un récit qui a réussi à changer le regard des Américains sur eux-mêmes.

      https://www.editions-delcourt.fr/bd/series/serie-une-histoire-populaire-de-l-empire-americian/album-une-histoire-populaire-de-l-empire-americian
      #bande-dessinée #histoire_populaire

      que j’avais signalé ici :
      https://seenthis.net/messages/784696

  • Une famille ultra-orthodoxe malmène des soldates israéliennes dans un train Times of Israel Staff

    Une famille ultra-orthodoxe, comprenant de jeunes enfants, a insulté un groupe de soldates voyageant dans un train. Des images ont été diffusées mardi.

    Une partie a été filmée par les soldates. La Douzième chaîne a flouté l’identité des personnes impliquées.

    Le média a indiqué que les « agresseurs » appartenaient tous à une même famille, sans préciser quand cela avait eu lieu, ni où le train se rendait.

    Sur la vidéo, on entend des membres du groupe scander : « Nous mourrons et ne serons pas enrôlés. Nous irons en prison et pas à l’armée. »

    « Attendez, comment ça on peut emmener des chiens dans le train ? Comment font-ils pour monter ? », demande un jeune garçon.

    Une femme lui répond. « Une société de nettoyage a apporté la benne à ordures et a déversé toutes les poubelles ici. Qu’est-ce que vous ne comprenez pas ? »

    Un garçon dit alors au reste du groupe de « se calmer, elle [la soldate] pleure ».

    Un autre dit : « Enlevez cette odeur de poubelle d’ici ».

    Une femme passe ensuite devant les soldats, se couvrant les yeux en disant « pas besoin de voir une shiksa », terme péjoratif désignant une femme non-juive.

    Tsahal n’a pas encore commenté l’incident.

    Le ministre du Logement et de la Construction, Yitzchak Goldknopf, chef du parti ultra-orthodoxe Yahadout HaTorah, a condamné l’incident en déclarant que « ce comportement n’est pas représentatif du public observant la Torah ».

    De nombreux membres de la communauté ultra-orthodoxe refusent de faire leur service militaire obligatoire qui s’applique pourtant à la majorité des Israéliens, et la communauté a historiquement bénéficié d’exemptions générales de l’armée en faveur d’études religieuses.

    Ces dernières années, plusieurs incidents se sont produits au cours desquels des soldats ont été physiquement agressés par des membres de la communauté haredi.

    #israel #racisme #religions #religion #ultra-orthodoxe #ultra-orthodoxes #patriarcat #violence #violences_sexuelles #domination #Femmes #harcèlement #virilisme #agressions

    Source : https://fr.timesofisrael.com/une-famille-ultra-orthodoxe-malmene-des-soldates-israeliennes-dans

  • Les accidents mortels sur l’autoroute ont augmenté de 43 % en 2022, l’alcool et la drogue en cause
    https://www.huffingtonpost.fr/france/article/les-accidents-mortels-sur-l-autoroute-ont-augmente-de-43-en-2022-l-al

    Les accidents mortels sur les autoroutes de France ont augmenté de 43 % en 2022, avec 188 personnes tuées. Il s’agit principalement de conducteurs de moins de 35 ans, fortement alcoolisés ou sous l’emprise de stupéfiants, selon des données du secteur publiées ce mercredi 2 août.

    Question quasiment rhétorique : puisqu’on sait l’âge, est-ce qu’on sait aussi le genre de ces « conducteurs de moins de 35 ans » ?

    • Dans les années 80, il fallait être un « battant ». Aujourd’hui les mots ont changé mais le sens perdure. Maintenant il faut être un « mâle Alpha ». C’est quoi le rapport ? le rapport c’est le corps. Le corps exhibé, phallicisé, le corps sans plis, le corps qui ne vieillit pas, qui ne fléchit pas, qui ne se déprime pas, qui ne pleure pas, bref « le #corps_fasciste ».
      Ce corps est aussi un #corps-entreprise. Le corps est une start-up. C’est un corps social.
      Voir sur TikTok, cette application de merde. Ce fonctionnement "désimaginatif". Allez mater le nouveau malaise dans la civilisation. Allez examiner quelles sont les « nouvelles » obsessions sociales : non pas si ma voisine ou mon voisin souffrent, mais plutôt si mon corps est bien en accord avec mon fantasme, avec mon narcissisme de dominant potentiel. Si tu n’es pas le clone du chef spartiate, tu es vraiment une tapette ! comprenez : tu es une merde.

      Il faut montrer que tu en a dans le froc et par tous les moyens possibles : tractions sur une barre, pompes, exercices en salles, accumulation des conquêtes, marchandisation des corps. Et surtout en matière de violence matricielle : l’incontournable MMA. Ce sport-limite semble reproduire ce que la virilité fasciste et capitaliste ont conçu de pire : apologie de la violence, culte délirant du KO, en attendant la mise à mort spectacularisée (et payante). Au passage, constatons chez les chroniqueurs sportifs que la syntaxe est singulièrement écrasée. Tout ce que la langue a de polysémique est, dans les commentaires, atomisé au profit d’une langue biface, tantôt robotique (phrases déclaratives et sans affects), tantôt une langue maniaque, exclamative et guerrière. Et derrière tout ça, des éclats de discours dans ce qu’ils recèlent de plus homophobe, transphobe et mysogine. Tu seras un homme mon fils, un vrai mec, tu seras un "bonhomme", pas une femme, ni un trans. Tout un nivellement de la pensée par le muscle, c’est-à-dire une perte de l’esprit critique, une #dépolitisation massive. Le virilisme est en effet, politiquement démobilisateur : il s’agit de s’épuiser en salle, pas de renverser la domination.

      [...]

      L’absence de pitié est devenu vertu.

      l’avais lu avec intérêt et pas signalé ni vu ici.merci @vanderling !

      #virilisme #MMA #lesiècledunietzschéisme

    • MUSK ANNONCE SON COMBAT CONTRE ZUCKERBERG EN ITALIE, « PAS À ROME » SELON LE GOUVERNEMENT
      https://www.bfmtv.com/tech/musk-annonce-son-combat-contre-zuckerberg-a-rome-dans-un-lieu-antique_AV-2023

      L’idée d’un combat entre les deux milliardaires rivaux, a émergé en juin dernier. Lancé comme une blague, la joute verbale s’est ensuite transformée en véritable combat de MMA (mixed martial arts) sur les tablettes.

      Mark Zuckerberg, grand adepte du jujitsu brésilien, a remporté un tournoi régional cette année et continue de s’entraîner. De son côté, Elon Musk s’est lui aussi lancé dans l’entraînement pour rivaliser avec le patron de Facebook.

  • Le nombre de personnes tuées par un tir des #forces_de_l’ordre a doublé depuis 2020

    Année après année, la liste des tués par les forces de l’ordre ne cesse d’augmenter. Trop souvent, la thèse de la légitime défense ou du refus d’obtempérer ne supporte pas l’analyse des faits. Basta ! en tient le terrible mais nécessaire décompte.

    « Je vais te tirer une balle dans la tête », lance le « gardien de la paix », braquant son arme sur la vitre de la voiture à l’arrêt, avant que son collègue ne crie « Shoote- le ». Au volant, Nahel, un mineur de 17 ans qui conduit sans permis, démarre malgré tout. Le gardien de la paix met sa menace à exécution, tuant à bout portant l’adolescent. La scène se déroule ce 27 juin à Nanterre. Les agents ont plaidé la légitime défense arguant que le véhicule fonçait sur eux, ce que dément la vidéo de la scène. L’auteur du coup de feu mortel est placé en garde à vue. La famille de la victime s’apprête à déposer deux plaintes, l’une pour « homicide volontaire et complicité d’homicide », l’autre pour « faux en écriture publique ».

    Le drame déclenche la révolte des habitants du quartier d’où est originaire la victime. Deux semaines plus tôt c’est Alhoussein Camara qui est tué d’une balle dans le thorax par un policier, dans des conditions similaires près d’Angoulême. En 2022, on dénombrait treize morts lors de « refus d’obtempérer » par l’ouverture du feu des forces de l’ordre. Au delà des nouveaux drames de Nanterre et d’Angoulême, combien de personnes ont-elles été tuées par les forces de l’ordre, et dans quelles circonstances ?

    Les décès dus à une ouverture du feu des forces de l’ordre ont considérablement augmenté, avec respectivement 18 et 26 personnes abattues en 2021 et 2022, soit plus du double que lors de la décennie précédente. Cette augmentation amplifie la tendance constatée depuis 2015, lorsque le nombre de tués par balle a franchi le seuil de la dizaine par an. À l’époque, le contexte lié aux attaques terroristes islamistes a évidemment pesé, avec cinq terroristes abattus en 2015 et 2016 par les forces de sécurité.

    Le risque terroriste n’explique cependant pas l’augmentation des décès par balle en 2021 et 2022. Un seul terroriste potentiel a été tué en 2021 – Jamel Gorchene, après avoir mortellement poignardé une fonctionnaire administrative de police devant le commissariat de Rambouillet (Yvelines), le 23 avril 2021, et dont l’adhésion à l’idéologie islamiste radicale serait « peu contestable » selon le procureur chargé de l’enquête. Aucun terroriste ne figure parmi les 26 tués de 2022. Dans quelles circonstances ces tirs ont-ils été déclenchés ?
    Tirs mortels face à des personnes munis d’armes à feu

    Sur les 44 personnes tuées par balles en deux ans, un peu plus de la moitié (26 personnes) étaient armées, dont dix d’une arme à feu. Parmi elles, sept l’ont utilisée, provoquant un tir de riposte ou de défense des forces de l’ordre. Plusieurs de ces échanges de tirs se sont déroulés avec des personnes « retranchées » à leur domicile. L’affaire la plus médiatisée implique Mathieu Darbon. Le 20 juillet 2022, dans l’Ain, ce jeune homme de 22 ans assassine à l’arme blanche son père, sa belle-mère, sa sœur, sa demi-sœur et son demi-frère. Le GIGN intervient, tente de négocier puis se résout à l’abattre. En janvier 2021, dans une petite station au-dessus de Chambéry, un homme souffrant de troubles psychiatriques s’enferme chez lui, armé d’un fusil, en compagnie de sa mère, après avoir menacé une voisine. Arrivé sur place, le GIGN essuie des tirs, et riposte. Scénario relativement similaire quelques mois plus tard dans les Hautes-Alpes, au-dessus de Gap. Après une nuit de négociation, le « forcené », Nicolas Chastan est tué par le GIGN après avoir « épaulé un fusil 22 LR [une carabine de chasse, ndlr] et pointé son arme en direction des gendarmes », selon le procureur. L’affaire est classée sans suite pour légitime défense.

    Au premier trimestre 2021, le GIGN a été sollicité deux à trois fois plus souvent que les années précédentes sur ce type d’intervention, sans forcément que cela se termine par un assaut ou des tirs, relevait TF1. Le GIGN n’intervient pas qu’en cas de « forcené » armé. Le 16 avril 2021, l’unité spéciale accompagne des gendarmes venus interpeller des suspects sur un terrain habité par des voyageurs. Un cinquantenaire qui, selon les gendarmes, aurait pointé son fusil dans leur direction est tué.
    Arme à feu contre suspects munis d’arme blanche

    Parmi les 44 personnes tuées par arme à feu en 2021 et 2022, 16 étaient munis d’une arme blanche (couteau, cutter, barre de fer). Une dizaine d’entre elles auraient menacé ou attaqué les agents avant d’être tuées. Au mois de mars 2021, un policier parisien tire sur un homme qui l’attaque au couteau, pendant qu’il surveillait les vélos de ses collègues.

    La mort d’un pompier de Colombes (Hauts-de-Seine) rend également perplexes ses voisins. En état d’ébriété, il jette une bouteille vers des agents en train de réaliser un contrôle, puis se serait approché d’eux, muni d’un couteau « en criant Allah Akbar ». Il est tué de cinq balles par les agents. L’affaire est classée sans suite, la riposte étant jugée « nécessaire et proportionnée ». L’été dernier à Dreux, une policière ouvre mortellement le feu sur un homme armé d’un sabre et jugé menaçant. L’homme était par ailleurs soupçonné de violence conjugale.

    Dans ces situations, la légitime défense est la plupart du temps invoquée par les autorités. Cela pose cependant question lorsque la « dangerosité » de la personne décédée apparaît équivoque, comme l’illustre le cas de David Sabot, tué par des gendarmes le 2 avril 2022. Ses parents, inquiets de l’agressivité de leur fils, alcoolisé, alertent la gendarmerie de Vizille (Isère). Les gendarmes interviennent et tirent neuf balles sur David. Selon les gendarmes, il se serait jeté sur eux. Selon ses parents, il marchait les bras ballants au moment des tirs. « On n’a pas appelé les gendarmes pour tuer notre enfant », s’indignent-ils dans Le Dauphiné.

    Juridiquement, le fait que la personne soit armée ne légitime pas forcément l’ouverture du feu par les forces de l’ordre. Selon l’Article 122-5 du Code pénal, une personne se défendant d’un danger n’est pas pénalement responsable si sa riposte réunit trois conditions : immédiateté, nécessité, proportionnalité. « La question va se poser, s’il n’y avait pas moyen de le neutraliser autrement », indique à Var Matin « une source proche du dossier », à propos du décès d’un sans-abri, Garry Régis-Luce, tué par des policiers au sein de l’aéroport de Roissy-Charles de Gaulle, en août dernier. Sur une vidéo de la scène publiée par Mediapart, le sans-abri armé d’un couteau fait face à cinq policiers qui reculent avant de lui tirer mortellement dans l’abdomen. Sa mère a porté plainte pour homicide volontaire.

    De plus en plus de profils en détresse psychologique

    Plusieurs affaires interrogent sur la manière de réagir face à des personnes en détresse psychologique, certes potentiellement dangereuses pour elle-même ou pour autrui, et sur la formation des policiers, souvent amenés à intervenir en premier sur ce type de situation [1].

    Le 21 avril 2022, à Blois, des policiers sont alertés pour un risque suicidaire d’un étudiant en école de commerce, Zakaria Mennouni, qui déambule dans la rue, pieds nus et couteau en main. Selon le procureur de Blois, l’homme se serait avancé avec son couteau vers les policiers avant que l’un d’eux tire au taser puis au LBD. Son collègue ouvre également le feu à quatre reprises. Touché de trois balles à l’estomac, Zakaria succombe à l’hôpital. La « légitime défense » est donc invoquée. « Comment sept policiers n’ont-ils pas réussi à maîtriser un jeune sans avoir recours à leur arme à feu », s’interroge la personne qui a alerté la police. Une plainte contre X est déposée par les proches de l’étudiant, de nationalité marocaine. Sur Twitter, leur avocat dénonce une « enquête enterrée ».

    Près de Saint-Étienne, en août 2021, des policiers interviennent dans un appartement où Lassise, sorti la veille d’un hôpital psychiatrique, mais visiblement en décompression, a été confiné par ses proches, avant que sa compagne n’appelle police secours. Ce bénévole dans une association humanitaire, d’origine togolaise, aurait tenté d’agresser les policiers avec un couteau de boucher, avant que l’un d’eux n’ouvre le feu.

    Pourquoi, dans ce genre de situation, les policiers interviennent-ils seuls, sans professionnels en psychiatrie ? Plusieurs études canadiennes démontrent le lien entre le désinvestissement dans les services de soins et la fréquence des interventions des forces de l’ordre auprès de profils atteintes de troubles psychiatriques. Une logique sécuritaire qui inquiète plusieurs soignants du secteur, notamment à la suite de l’homicide en mars dernier d’un patient par la police dans un hôpital belge.
    Le nombre de personnes non armées tuées par balles a triplé

    Le nombre de personnes sans arme tombées sous les balles des forces de l’ordre a lui aussi bondi en deux ans (5 en 2021, 13 en 2022). C’est plus du triple que la moyenne de la décennie précédente. Cette hausse est principalement liée à des tirs sur des véhicules en fuite beaucoup plus fréquents, comme l’illustre le nouveau drame, ce 27 juin à Nanterre où, un adolescent de 17 ans est tué par un policier lors d’un contrôle routier par un tir à bout portant d’un agent.

    Outre le drame de Nanterre ce 27 juin, l’une des précédentes affaires les plus médiatisées se déroule le 4 juin 2022 à Paris, dans le 18e arrondissement. Les fonctionnaires tirent neuf balles avec leur arme de service sur un véhicule qui aurait refusé de s’arrêter. La passagère, 18 ans, est atteinte d’une balle dans la tête, et tuée. Le conducteur, touché au thorax, est grièvement blessé. Dans divers témoignages, les deux autres personnes à bord du véhicule réfutent que la voiture ait foncé sur les forces de l’ordre. Le soir du second tour de l’élection présidentielle, le 24 avril, deux frères, Boubacar et Fadjigui sont tués en plein centre de Paris sur le Pont-Neuf. Selon la police, ces tirs auraient suivi le refus d’un contrôle. La voiture aurait alors « foncé » vers un membre des forces de l’ordre qui se serait écarté avant que son collègue, 24 ans et encore stagiaire, ne tire dix cartouches de HK G36, un fusil d’assaut.

    Comme nous le révélions il y a un an, les policiers ont tué quatre fois plus de personnes pour refus d’obtempérer en cinq ans que lors des vingt années précédentes. En cause : la loi de 2017 venue assouplir les règles d’ouverture de feu des policiers avec la création de l’article 435-1 du Code de la sécurité intérieure . « Avec cet article, les policiers se sont sentis davantage autorisés à faire usage de leur arme », estime un commandant de police interrogé par Mediapart en septembre dernier. À cela « vous rajoutez un niveau de recrutement qui est très bas et un manque de formation, et vous avez le résultat dramatique que l’on constate depuis quelques années : des policiers qui ne savent pas se retenir et qui ne sont pas suffisamment encadrés ou contrôlés. Certains policiers veulent en découdre sans aucun discernement. »

    « Jamais une poursuite ni une verbalisation ne justifieront de briser une vie »

    Au point que les gendarmes s’inquiètent très officiellement de la réponse adéquate à apporter face aux refus d’obtempérer, quitte à bannir le recours immédiat à l’ouverture du feu (voir ici). « L’interception immédiate, pouvant s’avérer accidentogène, n’est plus la règle, d’autant plus si les conditions de l’intervention et le cadre légal permettent une action différée, préparée et renforcée. Donc, on jalonne en sécurité, on lâche prise si ça devient dangereux, et surtout on renseigne. Tout refus d’obtempérer doit être enregistré avec un minimum de renseignements pour ensuite pouvoir s’attacher à retrouver l’auteur par une double enquête administrative et judiciaire », expliquait la commandante de gendarmerie Céline Morin. « Pour reprendre une phrase du directeur général de la gendarmerie : “Jamais une poursuite ni une verbalisation ne justifieront de briser une vie.” Il importe donc à chacun de nous de se préparer intellectuellement en amont à une tactique et à des actions alternatives face aux refus dangereux d’obtempérer. » On est loin du discours de surenchère tenu par certains syndicats de policiers.

    « Pas d’échappatoire » vs « personne n’était en danger »

    Pour justifier leur geste, les agents invoquent la dangerosité pour eux-mêmes ou pour autrui, considérant souvent le véhicule comme « arme par destination ». Hormis la neutralisation du conducteur du véhicule, ils n’auraient pour certains « pas d’échappatoire » comme l’affirmait le membre de la BAC qui a tué un jeune homme de 23 ans à Neuville-en-Ferrain (Nord), le 30 août 2022, qui aurait démarré son véhicule au moment où les agents ouvraient la portière.

    Des policiers qui se seraient « vus mourir » tirent sur Amine B, le 14 octobre, à Paris. Coincé dans une contre-allée, le conducteur aurait redémarré son véhicule en direction des fonctionnaires qui ont ouvert le feu. Plusieurs témoins affirment que ce ressortissant algérien, diplômé d’ingénierie civile, roulait « doucement » sans se diriger vers eux ni mettre personne en danger. Et Amine est mort d’une balle dans le dos. La famille a lancé un appel à témoins pour connaître les circonstances exactes du drame. Rares sont ces affaires où le récit policier n’est pas contredit par les éléments de l’enquête ou des témoins.

    Au nom de la légitime défense, des gendarmes de Haute-Savoie ont tiré neuf fois le 5 juillet 2021 sur un fuyard suspecté de vol. Le conducteur de la camionnette, Aziz, n’a pas survécu à la balle logée dans son torse. « Personne n’était en danger », affirme pour sa part un proche, présent sur lieux. D’après son témoignage recueilli par Le Média, les militaires « étaient à 4 ou 5 mètres » du fourgon. Une reconstitution des faits a été effectuée sans la présence de ce témoin, au grand dam de la famille qui a porté plainte pour « homicide volontaire ».

    Pour Zied B. le 7 septembre à Nice abattu par un policier adjoint, comme pour Jean-Paul Benjamin, tué par la BAC le 26 mars à Aulnay-sous-Bois alors que, en conflit avec son employeur (Amazon), il était parti avec l’un des véhicules de l’entreprise, ce sont les vidéos filmant la scène qui mettent à mal la version policière des faits [2]. Et dans le cas de Souheil El Khalfaoui, 19 ans, tué d’une balle dans le cœur à Marseille lors d’un contrôle routier (voir notre encadré plus haut), les images de vidéosurveillance filmant la scène, et en mesure de corroborer ou de contredire la version des policiers, n’ont toujours pas pu être visionnées par la famille qui a porté plainte. Près de deux ans après le drame...

    Si 2021 et 2022 ont été particulièrement marquées par les morts par balles lors d’interventions policières, qu’en sera-t-il en 2023 ? À notre connaissance, #Nahel est au moins la huitième personne abattue par des agents assermentés depuis janvier dernier.

    https://basta.media/Refus-d-obtemperer-le-nombre-de-personnes-tuees-par-un-tir-des-forces-de-l-

    #statistiques #chiffres #décès #violences_policières #légitime_défense #refus_d'obtempérer #Nanterre #armes_à_feu #tires_mortels #GIGN

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    signalé aussi par @fredlm
    https://seenthis.net/messages/1007961

    • #Sebastian_Roché : « Le problème des tirs mortels lors de refus d’obtempérer est systémique en France »

      Le débat émerge suite au décès du jeune Nahel en banlieue parisienne. Entretien avec Sebastian Roché, politologue spécialiste des questions de police

      Pour certains, la mort du jeune Nahel, tué mardi par un policier lors d’un #contrôle_routier en banlieue parisienne, est l’occasion de dire qu’il y a trop de refus d’obtempérer en France. Pour d’autres, c’est surtout le moment de condamner la manière qu’a la #police d’y fait face. A gauche on estime qu’« un refus d’obtempérer ne peut pas être une condamnation à mort ». A droite, on pense que ces drames sont dus au fait que « les refus d’obtempérer augmentent et mettent en danger nos forces de l’ordre ».

      En 2022, le nombre record de 13 décès a été enregistré après des refus d’obtempérer lors de contrôles routiers en France. En cause, une modification de la loi en 2017 assouplissant les conditions dans lesquelles les forces de l’ordre peuvent utiliser leur arme. Elles sont désormais autorisées à tirer quand les occupants d’un véhicule « sont susceptibles de perpétrer, dans leur fuite, des atteintes à leur vie ou à leur intégrité physique ou à celles d’autrui ». Des termes jugés trop flous par de nombreux juristes.

      Sebastian Roché, politologue spécialiste des questions de police qui enseigne à Sciences-Po Grenoble, est un spécialiste de la question. Nous avons demandé à ce directeur de Recherche au CNRS, auteur de La nation inachevée, la jeunesse face à l’école et la police (Grasset), ce qu’il pensait de ce débat.

      Le Temps : Vous avez fait des recherches sur le nombre de personnes tuées en France par des tirs de policiers visant des véhicules en mouvement. Quelles sont vos conclusions ?

      Sebastian Roché : Nous avons adopté une méthode de type expérimentale, comme celles utilisées en médecine pour déterminer si un traitement est efficace. Nous avons observé 5 années avant et après la loi de 2017, et nous avons observé comment avaient évolué les pratiques policières. Les résultats montrent qu’il y a eu une multiplication par 5 des tirs mortels entre avant et après la loi dans le cadre de véhicule en mouvement.

      En 2017, la loi a donné une latitude de tir plus grande aux policiers, avec une possibilité de tirer même hors de la légitime défense. C’est un texte très particulier et, derrière, il n’y a pas eu d’effort de formation proportionné face au défi que représente un changement aussi historique de réglementation.

      L’augmentation n’est-elle pas simplement liée à l’augmentation des refus d’obtempérer ?

      Nous avons regardé le détail des tirs mortels. Le sujet, ce n’est pas les refus d’obtempérer, qui sont une situation, ce sont les tirs mortels, qui interviennent dans cette situation. Les syndicats de police font tout pour faire passer le message que le problème ce sont les refus d’obtempérer qui augmentent. Mais le problème ce sont les tirs mortels, dont les refus d’obtempérer peuvent être une cause parmi d’autres. Et les refus d’obtempérer grave ont augmenté mais pas autant que ce que dit le ministère. D’autant que l’augmentation des tirs mortels n’est notable que chez la police nationale et non dans la Gendarmerie. Dans la police nationale, en 2021, il y a eu 2675 refus d’obtempérer graves, pas 30 000. Il y a une augmentation mais ce n’est pas du tout la submersion dont parlent certains. Ce n’est pas suffisant pour expliquer l’augmentation des tirs mortels. D’autant que la police nationale est auteur de ces homicides et pas la Gendarmerie alors que les refus d’obtempérer sont également répartis entre les deux. Si le refus d’obtempérer était une cause déterminante, elle aurait les mêmes conséquences en police et en gendarmerie.

      Comment cela s’explique-t-il ?

      Les gendarmes n’ont pas la même structure de commandement, pas la même stabilité de l’ancrage local et pas la même lecture de la loi de 2017. La police a une structure qui n’est pas militaire comme celle de la gendarmerie. Et l’encadrement de proximité y est plus faible, particulièrement en région parisienne que tous les policiers veulent quitter.

      Pour vous c’est ce qui explique le drame de cette semaine ?

      La vidéo est accablante donc les responsables politiques semblent prêts à sacrifier le policier qui pour eux a fait une erreur. Mais ce qui grave, c’est la structure des tirs mortels avant et après 2017, c’est-à-dire comment la loi a modifié les pratiques. Ce n’est pas le même policier qui a tué 16 personnes dans des véhicules depuis le 1er janvier 2022. Ce sont 16 policiers différents. Le problème est systémique.

      Avez-vous des comparaisons internationales à ce sujet ?

      En Allemagne, il y a eu un tir mortel en dix ans pour refus d’obtempérer, contre 16 en France depuis un an et demi. On a un écart très marqué avec nos voisins. On a en France un modèle de police assez agressif, qui doit faire peur, davantage que dans les autres pays d’Europe mais moins qu’aux Etats-Unis. Et cette loi déroge à des règles de la Cour européenne des droits de l’homme. C’est une singularité française.

      Cette loi avait été mise en place suite à des attaques terroristes, notamment contre des policiers ?

      Oui, c’est dans ce climat-là qu’elle est née, mise en place par un gouvernement socialiste. Il y avait aussi eu d’autres attaques qui n’avaient rien à voir. Mais le climat général était celui de la lutte antiterroriste, et plus largement l’idée d’une police désarmée face à une société de plus en plus violente. L’idée était donc de réarmer la police. Cette loi arrange la relation du gouvernement actuel avec les syndicats policiers, je ne pense donc pas qu’ils reviendront dessus. Mais il y a des policiers qui vont aller en prison. On leur a dit vous pouvez tirer et, là, un juge va leur dire le contraire. Ce n’est bon pour personne cette incertitude juridique. Il faut abroger la partie de la loi qui dit que l’on peut tirer si on pense que le suspect va peut-être commettre une infraction dans le futur. La loi française fonctionnait précédemment sous le régime de la légitime défense, c’est-à-dire qu’il fallait une menace immédiate pour répondre. Comment voulez-vous que les policiers sachent ce que les gens vont faire dans le futur.

      https://www.letemps.ch/monde/le-probleme-des-tirs-mortels-lors-de-refus-d-obtemperer-est-systemique-en-fr

    • « Refus d’obtempérer »  : depuis 2017, une inflation létale

      Depuis la création en 2017 par la loi sécurité publique d’un article élargissant les conditions d’usage de leur arme, les tirs des policiers contre des automobilistes ont fortement augmenté. Ils sont aussi plus mortels.

      Depuis plus d’un an, chaque mois en moyenne, un automobiliste est tué par la police. Dans la plupart des cas, la première version des faits qui émerge du côté des forces de l’ordre responsabilise le conducteur. Il lui est reproché d’avoir commis un refus d’obtempérer, voire d’avoir attenté à la vie des fonctionnaires, justifiant ainsi leurs tirs. Il arrive que cette affirmation soit ensuite mise à mal par les enquêtes judiciaires : cela a été le cas pour le double meurtre policier du Pont-Neuf, à Paris en avril 2022, celui d’Amine Leknoun, en août à Neuville-en-Ferrain (Nord), ou celui de Zyed Bensaid, en septembre à Nice. En ira-t-il de même, concernant le conducteur de 17 ans tué mardi à Nanterre (Hauts-de-Seine) ? Les investigations pour « homicide volontaire par personne dépositaire de l’autorité publique » ont été confiées à l’Inspection générale de la police nationale (IGPN). Deux autres enquêtes ont été ouvertes depuis le début de l’année pour des tirs mortels dans le cadre de refus d’obtempérer en Charente et en Guadeloupe.

      Cette inflation mortelle s’est accélérée depuis le début de l’année 2022, mais elle commence en 2017. Ainsi, d’après les chiffres publiés annuellement par l’IGPN et compilés par Libération, entre la période 2012-2016 d’une part, et 2017-2021 d’autre part, l’usage des armes par les policiers a augmenté de 26 % ; et les usages de l’arme contre un véhicule ont augmenté de 39 %. Une croissance largement supérieure à celle observée chez les gendarmes entre ces deux périodes (+10 % d’usage de l’arme, toutes situations confondues).
      Doublement faux

      Mercredi, lors des questions au gouvernement, Gérald Darmanin a affirmé que « depuis la loi de 2017, il y a eu moins de tirs, et moins de cas mortels qu’avant 2017 ». C’est doublement faux : depuis cette année-là, les tirs des policiers contre des véhicules sont non seulement plus nombreux, mais ils sont aussi plus mortels. C’est la conclusion de travaux prépubliés l’année dernière, et en cours de soumission à une revue scientifique, de Sebastian Roché (CNRS), Paul Le Derff (université de Lille) et Simon Varaine (université Grenoble-Alpes).

      Les chercheurs établissent que le nombre de tués par des tirs policiers visant des personnes se trouvant dans des véhicules a été multiplié par cinq, entre avant et après le vote de la loi « sécurité publique » de février 2017. D’autant qu’entre les mêmes périodes, le nombre de personnes tuées par les autres tirs policiers diminue légèrement. « A partir d’une analyse statistique rigoureuse du nombre mensuel de victimes des tirs, malheureusement, il est très probable » que ce texte soit « la cause du plus grand nombre constaté d’homicides commis par des policiers », expliquent Roché, Le Derff et Varaine.

      La loi sécurité publique a créé l’article 435-1 du code de la sécurité intérieure (CSI), qui s’est depuis trouvé (et se trouve encore) au cœur de plusieurs dossiers judiciaires impliquant des policiers ayant tué des automobilistes. Cet article complète celui de la légitime défense (122-5 du code pénal) dont tout citoyen peut se prévaloir, en créant un cadre spécifique et commun aux forces de l’ordre pour utiliser leur arme.
      Un texte plusieurs fois remanié

      L’article 435-1 du CSI dispose que « dans l’exercice de leurs fonctions et revêtus de leur uniforme ou des insignes extérieurs et apparents de leur qualité », les policiers peuvent utiliser leur arme « en cas d’absolue nécessité et de manière strictement proportionnée », notamment dans la situation suivante : « Lorsqu’ils ne peuvent immobiliser, autrement que par l’usage des armes, des véhicules, embarcations ou autres moyens de transport, dont les conducteurs n’obtempèrent pas à l’ordre d’arrêt et dont les occupants sont susceptibles de perpétrer, dans leur fuite, des atteintes à leur vie ou à leur intégrité physique ou à celles d’autrui. » Avant d’arriver à cette formulation, le texte a été plusieurs fois remanié, au fil de son parcours législatif, dans le sens de l’assouplissement. Par exemple : les atteintes devaient être « imminentes », selon la version initiale ; dans la mouture finale elles n’ont plus besoin que d’être « susceptibles » de se produire, pour justifier le tir.

      La direction générale de la police nationale l’a rapidement relevé. Ainsi, dans une note de mars 2017 expliquant le texte à ses fonctionnaires, on pouvait lire : « L’article L.435-1 va au-delà de la simple légitime défense », en ce qu’il « renforce la capacité opérationnelle des policiers en leur permettant d’agir plus efficacement, tout en bénéficiant d’une plus grande sécurité juridique et physique ». Tout en rappelant qu’« il ne saurait être question de faire usage de l’arme pour contraindre un véhicule à s’arrêter en l’absence de toute dangerosité de ses occupants ».

      https://www.youtube.com/watch?v=Dz5QcVZXEN4&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.liberation.fr%2


      https://www.liberation.fr/societe/police-justice/refus-dobtemperer-depuis-2017-une-inflation-letale-20230627_C7BVZUJXLVFJBOWMDXJG2N7DDI/?redirected=1&redirected=1

    • Mort de Nahel : chronique d’un drame annoncé

      Au moment de l’adoption, sous pression des policiers, de la #loi de 2017 modifiant les conditions d’usage des armes à feu par les forces de l’ordre, la Commission nationale consultative des droits de l’homme, le Défenseur des droits et la société civile avaient alerté sur l’inévitable explosion du nombre de victimes à venir.

      #Bernard_Cazeneuve se trouve, depuis la mort de Nahel, au centre de la polémique sur l’#usage_des_armes_à_feu par les policiers. La gauche, notamment, ne cesse de rappeler que l’ex-dirigeant socialiste est le concepteur de la loi dite « #sécurité_publique » qui, en février 2017, a institué le #cadre_légal actuel en la matière. C’est en effet lui qui en a assuré l’élaboration en tant que ministre de l’intérieur, puis qui l’a promulguée alors qu’il était premier ministre.

      À deux reprises, Bernard #Cazeneuve s’est justifié dans la presse. Le 29 juin tout d’abord, dans Le Monde (https://www.lemonde.fr/politique/article/2023/06/29/adolescent-tue-par-un-policier-a-nanterre-emmanuel-macron-sur-une-ligne-de-c), il affirme qu’« il n’est pas honnête d’imputer au texte ce qu’il n’a pas souhaité enclencher » et explique que cette loi avait été votée dans un « contexte de tueries de masse après les attentats ».

      Le lendemain, dans un entretien au Point (https://www.lepoint.fr/societe/bernard-cazeneuve-non-il-n-y-a-pas-en-france-de-permis-de-tuer-30-06-2023-25), l’ancien premier ministre de #François_Hollande développe la défense de son texte. « Il n’y a pas, en France, de #permis_de_tuer, simplement la reconnaissance pour les forces de l’ordre de la possibilité de protéger leurs vies ou la vie d’autrui, dans le cadre de la #légitime_défense », affirme-t-il.

      Bernard Cazeneuve évoque encore un « contexte particulier » ayant justifié ce texte, « celui des périples meurtriers terroristes et de la tragédie qu’a constituée l’attentat de Nice, le 14 juillet 2016, qui a vu un policier municipal neutraliser le conducteur d’un camion-bélier ayant tué 86 personnes et blessé plusieurs centaines d’autres, sur la promenade des Anglais ».

      Cette invocation d’une justification terroriste à l’adoption de la loi « sécurité publique » paraît étonnante à la lecture de l’exposé des motifs (https://www.legifrance.gouv.fr/dossierlegislatif/JORFDOLE000033664388/?detailType=EXPOSE_MOTIFS&detailId=) et de l’étude d’impact (https://www.senat.fr/leg/etudes-impact/pjl16-263-ei/pjl16-263-ei.pdf) du texte. À aucun moment un quelconque attentat n’est mentionné pour justifier les dispositions de l’article premier, celui modifiant le cadre légal de l’usage des armes à feu par les policiers.

      À l’ouverture de l’examen du texte en séance publique par les député·es, le mardi 7 février (https://www.assemblee-nationale.fr/14/cri/2016-2017/20170112.asp#P970364), le ministre de l’intérieur Bruno Leroux parle bien d’un attentat, celui du Carrousel du Louvre (https://fr.wikipedia.org/wiki/Attaque_contre_des_militaires_au_Carrousel_du_Louvre) durant lequel un homme a attaqué deux militaires à la machette. Mais cette attaque s’est déroulée le 3 février, soit bien après l’écriture du texte, et concerne des soldats de l’opération Sentinelle, donc non concernés par la réforme.

      La loi « sécurité publique » a pourtant bien été fortement influencée par l’actualité, mais par un autre drame. Le #8_octobre_2016, une vingtaine de personnes attaquent deux voitures de police dans un quartier de #Viry-Châtillon (Essonne) à coups de pierres et de cocktails Molotov. Deux policiers sont grièvement brûlés (https://fr.wikipedia.org/wiki/Affaire_des_policiers_br%C3%BBl%C3%A9s_%C3%A0_Viry-Ch%C3%A2tillon).

      Les images des agents entourés de flammes indignent toute la classe politique et provoquent un vaste mouvement de contestation au sein de forces de l’ordre. Cela génèrera un immense scandale judiciaire puisque des policiers feront emprisonner des innocents en toute connaissance de cause (https://www.mediapart.fr/journal/france/160521/affaire-de-viry-chatillon-comment-la-police-fabrique-de-faux-coupables). Mais à l’époque, les syndicats de policiers réclament par ailleurs une modification de la législation.

      « C’était une période de fin de règne de François #Hollande, avec des policiers à bout après avoir été sur-sollicités pour les manifestations contre la loi Travail, pour les opérations antiterroristes, se souvient Magali Lafourcade, secrétaire générale de la Commission nationale consultative des droits de l’homme (CNCDH). Et, surtout, il y a eu l’attaque de policiers de Viry-Châtillon. Leur mouvement de colère avait été accompagné par des manifestations à la limite de la légalité, avec des policiers armés, masqués et sans encadrement syndical, car il s’agissait d’un mouvement spontané. Je pense que cela a fait très peur au gouvernement. »

      La loi « sécurité publique » est l’une des réponses du gouvernement à cette fronde des policiers. Ceux-ci étaient alors régis par le droit commun de la légitime défense. Désormais, ils bénéficient d’un #régime_spécifique, copié sur celui des gendarmes et inscrit dans le nouvel #article_435-1 du #Code_de_la_sécurité_intérieure (https://www.legifrance.gouv.fr/codes/article_lc/LEGIARTI000034107970).

      Celui-ci dispose notamment que les policiers sont autorisés à faire usage de leur arme pour immobiliser des véhicules dont les occupants refusent de s’arrêter et « sont susceptibles de perpétrer, dans leur fuite, des atteintes à leur vie ou à leur intégrité physique ou à celles d’autrui ».

      On ne peut donc que s’étonner lorsque Bernard Cazeneuve assure, dans Le Point, que la loi « sécurité publique » « ne modifie en rien le cadre de la légitime défense ». « Je dirais même, enchérit-il, qu’elle en précise les conditions de déclenchement, en rendant impossible l’ouverture du feu hors de ce cadre. »

      Pourtant, comme l’a montré Mediapart (https://www.mediapart.fr/journal/france/280623/refus-d-obtemperer-l-alarmante-augmentation-des-tirs-policiers-mortels), le nombre de déclarations d’emploi d’une arme contre un véhicule a bondi entre 2016 et 2017, passant de 137 à 202, avant de se stabiliser à un niveau supérieur à celui d’avant l’adoption du texte, par exemple 157 en 2021.

      De plus, lorsque l’on relit les nombreux avertissements qui avaient été faits à l’époque au gouvernement, il semble difficile de soutenir que cette augmentation du recours aux armes à feu et du nombre de victimes n’était pas prévisible.

      « De telles dispositions risquent en effet d’entraîner une augmentation des pertes humaines à l’occasion de l’engagement desdits services dans des opérations sur la voie publique », prédisait ainsi la CNCDH dans un avis rendu le 23 février 2017 (https://www.legifrance.gouv.fr/jorf/id/JORFTEXT000034104875).

      Celui-ci s’inquiétait notamment du #flou de certaines formulations, comme l’alinéa autorisant l’usage des armes à feu contre les personnes « susceptibles de perpétrer, dans leur fuite, des atteintes à leur vie ou à leur intégrité physique ou à celle d’autrui ».

      « Il est à craindre que de telles dispositions ne conduisent à l’utilisation des armes à feu dans des situations relativement fréquentes de #courses-poursuites en zone urbaine, avertissait encore la commission, les fonctionnaires de police venant à considérer que le véhicule pourchassé crée, par la dangerosité de sa conduite, un risque pour l’intégrité des autres usagers de la route et des passants ».

      « Rien ne justifiait cet alignement du régime des #gendarmes sur celui des policiers, réaffirme aujourd’hui Magali Lafourcade. Les gendarmes sont formés au maniement des armes et, surtout, ils opèrent en zone rurale. » La secrétaire générale de la CNCDH pointe également un problème de formation des policiers qui s’est depuis aggravé.

      « Le niveau de recrutement des policiers s’est effondré, souligne-t-elle. Les jeunes sont massivement envoyés dans les zones difficiles dès leur sortie de l’école. Ils ne reçoivent aucun enseignement sur les biais cognitifs. Un jeune venant d’une zone rurale dans laquelle il n’aura quasiment jamais croisé de personne racisée peut donc très bien être envoyé dans un quartier dont il n’a pas les codes, la culture, la manière de parler et donc de s’adresser à des adolescents. Et l’#encadrement_intermédiaire est très insuffisant. Les jeunes policiers sont bien peu accompagnés dans des prises de fonction particulièrement difficiles. »

      Le Défenseur des droits avait lui aussi alerté, dans un avis publié le 23 janvier 2017 (https://juridique.defenseurdesdroits.fr/doc_num.php?explnum_id=18573), sur l’#instabilité_juridique créée par cette #réforme. « Le projet de loi complexifie le régime juridique de l’usage des armes, en donnant le sentiment d’une plus grande liberté pour les forces de l’ordre, au risque d’augmenter leur utilisation, alors que les cas prévus sont déjà couverts par le régime général de la légitime défense et de l’état de nécessité », écrivait-il.

      Ces différents dangers avaient également été pointés par la quasi-totalité de la société civile, que ce soient les syndicats ou les associations de défense des libertés. « Les services de police et de gendarmerie se considéreront légitimes à user de leurs armes – et potentiellement tuer – dans des conditions absolument disproportionnées », prédisait ainsi le Syndicat de la magistrature (SM) (https://www.syndicat-magistrature.fr/notre-action/justice-penale/1214-projet-de-loi-securite-publique--refusez-ce-debat-expedie). « Il est en effet dangereux de laisser penser que les forces de l’ordre pourront faire un usage plus large de leurs armes », abondait l’Union syndicale des magistrats (USM) (https://www.union-syndicale-magistrats.org/web2/themes/fr/userfiles/fichier/publication/2017/securite_publique.pdf).

      Du côté des avocats, le projet de loi avait rencontré l’opposition du Syndicat des avocats de France (SAF) (https://lesaf.org/wp-content/uploads/2017/04/11-penal-GT.pdf), ainsi que du barreau de Paris et de la Conférence des bâtonniers, qui affirmaient, dans un communiqué commun (https://www.avocatparis.org/actualites/projet-de-loi-relatif-la-securite-publique-le-barreau-de-paris-et-la-co) : « La réponse au mal-être policier ne peut être le seul motif d’examen de ce projet de loi et il importe que les conditions de la légitime défense ne soient pas modifiées. »

      « Ce projet de loi autorise les forces de l’ordre à ouvrir le feu dans des conditions qui vont augmenter le risque de #bavures sans pour autant assurer la sécurité juridique des forces de l’ordre », avertissait encore la Ligue des droits de l’homme (https://www.ldh-france.org/police-anonyme-autorisee-tirer).

      Désormais, les policiers eux-mêmes semblent regretter cette réforme, ou en tout cas reconnaître l’#incertitude_juridique qu’elle fait peser sur eux, en raison de sa formulation trop vague.

      Dans un article publié samedi 1er juillet, Le Monde (https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/07/01/syndicats-de-police-un-tract-incendiaire-d-alliance-et-d-unsa-police-revelat) rapporte en effet que, parmi les forces de l’ordre, circule un modèle de demande de #droit_de_retrait dans lequel l’agent annonce rendre son arme, en raison des « diverses appréciations » qui peuvent être faites de l’article 435-1 du Code de la sécurité intérieure, lesquelles sont susceptibles de « donner lieu à des poursuites pénales ».

      Dans ce document, le policer y annonce mettre son pistolet à l’armurerie et qu’il y restera « jusqu’à ce que [s]a formation continue [lui] permette de mieux appréhender les dispositions de cet article afin de ne pas être poursuivi pénalement dans l’éventualité où [il] devrai[t] faire feu ».

      Magali Lafourcade insiste de son côté sur les dégâts que cette réforme a pu causer dans une partie de la jeunesse. « L’expérience de la citoyenneté, du sentiment d’appartenir à une communauté nationale, du respect des principes républicains est une expérience avant tout sensible, affirme-t-elle. Elle passe par les interactions éprouvées avec les représentants de l’État. Plus les enfants de ces quartiers feront l’expérience de la #brutalité_policière, plus ça les enfermera dans la #défiance qu’ils ont déjà vis-à-vis de nos institutions. »

      https://www.mediapart.fr/journal/france/010723/mort-de-nahel-chronique-d-un-drame-annonce

  • Le tourisme pour ultra-riches, un créneau en plein essor Jean-François Sacré - L’Echo

    L’accident du Titan a mis au grand jour l’essor du tourisme pour « super riches ». Des abysses à l’espace, ces voyages de l’extrême fascinent...
    La disparition des cinq passagers du micro sous-marin Titan affrété par la société OceanGate dans l’Atlantique Nord fut sans doute l’événement le plus médiatisé de la semaine. Ce qui en dit long sur les priorités sociétales du moment.

    Cette « expédition » de l’extrême, à 250.000 dollars par passager, est l’illustration d’une tendance que Jean-Michel Decroly, professeur en sciences et gestion du tourisme à l’ULB appelle le « cénotropisme » (du grec kénos, vide) : « Il y a une attirance croissante pour les lieux vides de toute âme humaine, qu’il s’agisse des profondeurs des océans, de l’espace, des plus hauts sommets de la terre ou les étendues désertiques, des endroits inaccessibles au commun des mortels », relève-t-il.


    Le 27 juin prochain, Virgin Galactic, la société d’expédition spatiale de Richard Branson (photo), lancera son premier vol commercial. ©ABACA

    « Avec la massification du tourisme et au fur et à mesure que l’écart entre les ultra-riches et les autres augmente, ce besoin d’exclusivité ne fait que s’accentuer. » Jean-Michel Decroly, Professeur en sciences et gestion du tourisme à l’ULB

    Dans le cas du Titan, s’y ajoute l’objet du voyage : l’exploration de l’épave du mythique Titanic qui git depuis 111 ans, scindé, à 4.000 mètres de profondeur : « Il y a toujours une fascination sur les privilèges des ultra-riches, poursuit l’expert, mais quand ils peuvent aller explorer le Titanic, cela amplifie la médiatisation. »

    Pour Jean-Michel Decroly, le phénomène remonte même à la deuxième partie du 19e siècle, lorsque les classes aisées anglaises fuyaient la foule d’estivants des côtes pour se réfugier dans de luxueuses villas sur la Côte d’Azur. « Avec la massification du tourisme et au fur et à mesure que l’écart entre les ultra-riches et les autres augmente, ce besoin d’exclusivité ne fait que s’accentuer. »

    Entre luxe et environnement, le délicat exercice d’équilibre de la compagnie Ponant
    L’exclusivité, c’est essentiellement ce que vend une compagnie maritime comme Ponant, spécialisée dans les croisières de grand luxe lorsqu’elle se vante « d’aller là où les autres ne vont pas », comme les deux pôles – compter 44.000 euros par personne pour un mois dans l’Antarctique –, transformant le touriste fortuné en « explorateur ».

    Tourisme spatial
    Mais, en matière de voyages exclusifs, Ponant semble être un petit joueur – même si comparaison n’est pas raison. Le prix de certaines expéditions atteint des montants extravagants. En 2001, l’homme d’affaires californien Dennis Tito a ainsi embarqué, moyennant 20 millions de dollars, pour sept jours à bord de la mission Soyouz TM-32. Il est ainsi devenu le premier touriste de l’espace, avant que quelques autres milliardaires bien connus - Jeff Bezos, Elon Musk et Richard Branson – ne décident d’en faire un véritable business.

    Afin d’embarquer à bord de Virgin Galactic, il faudra compter 450.000 dollars... Pour quelques minutes dans l’espace.
    Fondateur d’Amazon, le premier a créé la société Blue Origin qui se propose d’envoyer des voyageurs en apesanteur à 100 kilomètres d’altitude pour observer la courbure de la terre. Plusieurs voyages ont déjà effectué pour un coût minimal de 200.000 dollars par passager. La semaine prochaine, le 27 juin, la compagnie Virgin Galactic du milliardaire britannique Richard Branson lancera son premier vol commercial, suivi d’un autre en août, avant d’adopter un rythme mensuel, ce qui laisse sous-entendre qu’il y a une véritable demande pour ce genre de folie à 450.000 dollars pour quelques minutes dans l’espace. Mais ce n’est rien à côté d’Elon Musk et sa compagnie SpaceX, qui proposent aux passagers de passer plusieurs jours en orbite autour de la Terre, moyennant 55 millions de dollars.

    Le phénomène ne risque pas de se tarir. Car, comme le souligne Jean-Michel Decroly, la richesse s’est mondialisée avec des milliardaires issus de pays émergents comme la Chine, la Russie ou l’Inde. À bord du Titan figurait ainsi l’homme d’affaires d’origine pakistanaise Shahzada Dawood.

    Faut-il réguler ?
    Une aubaine pour les organisateurs de ce type d’expédition qui ont beau jeu de mettre en avant, comme le fait Ponant « une expérience dont vous vous souviendrez toute votre vie ». Par eux, l’agence flandrienne Starling, citée par De Standaard, qui propose, entre autres, des excursions en Alaska à la rencontre des grizzlis, des expéditions au pôle Sud pour observer les manchots empereurs moyennant 75.000 euros par personne ou encore une aventure dans la forêt tropicale de Bornéo à la recherche de la panthère nébuleuse.

    L’ascension de l‘Everest reste un grand classique qui se monnaie de plus en plus cher.
    Cette soif d’aventure exclusive et inédite des ultra-fortunés est aussi amplifiée par l’omniprésence des réseaux sociaux. Quoi de plus valorisant pour l’ego – même des plus blasés – que de poster un selfie à 8.849 mètres d’altitude au sommet de l’Everest. Et tant pis pour ce que beaucoup considèrent comme des loisirs élitistes et des non-sens écologiques.

    Faut-il dès lors les réguler ? Interdire l’accès à certains sites ? « Idéalement oui », répond Jean-Michel Decroly. « Mais il y a souvent derrière des enjeux économiques vitaux pour des populations locales comme, par exemple, au Népal. » L’ascension de l‘ Everest reste en effet un grand classique, mais qui se monnaie de plus en plus cher. Selon différents sites spécialisés il faut compter entre 40.000 et 200.000 dollars selon les services recherchés, dont le permis d’ascension de 11.000 dollars exigé par le Népal. À en juger par d’étonnantes photos de files d’attente à l’approche du sommet, le business de l’Everest semble florissant. D’où cet étonnant paradoxe qu’aujourd’hui même grimper sur le "toit du monde" commence à perdre son caractère exclusif.

    #pollution par les #super_riches #co2 #privilèges #titan #titanic #business #virgin_galactic #richard_branson #tourisme des #ultra-riches #jeff_bezos #elon_musk #virgin_galactic #blue_origin #spaceX #égo

    Source : https://www.lecho.be/entreprises/tourisme/le-tourisme-pour-ultra-riches-un-creneau-en-plein-essor/10476660.html?_sp_ses=73c9e887-6831-4a3a-9a3b-2eff958868a6

  • Termes nautiques
    https://www.annoncesbateau.com/conseils/termes-nautiques

    petit #dictionnaire

    Écrit par : Bénédicte Chalumeau
    ...
    Pour naviguer il est nécessaire d’avoir une compréhension du vocabulaire de la navigation, de la mer et des bateaux. Nous vous présentons ici les termes techniques les plus courants, utilisés dans le monde maritime.

    A
    #Abattre :
    Écarter sa route du lit du vent. Ce mouvement s’appelle une abattée.

    #Abord (en) :
    Sur le côté du bâtiment.

    #Accastillage :
    Objets et accessoires divers équipant un navire.

    #Accoster :
    Placer un bâtiment le long d’un quai ou le long d’un autre navire.

    #Acculée :
    Mouvement en arrière d’un navire, il cule.

    #Adonner :
    Le vent adonne pour un navire à voiles quand il tourne dans un sens favorable à la marche, c’est à dire quand il vient plus à l’arrière. Le contraire est refuser.

    #Affaler :
    Faire descendre, c’est le contraire de hâler. Affaler quelqu’un le long du bord, ou d’un mât, c’est le faire descendre au bout d’un filin.

    #Aiguillots :
    Pivots fixes sur une mèche du gouvernail ou sur l’étambot et tournant dans les fémelots.

    #Aileron :
    Partie de tente qui se place en abord. Prolongements en abord et généralement découverts de l’abri de navigation.

    #Ajut :
    Noeud servant à réunir momentanément deux bouts de cordage.

    #Allure :
    Direction d’un navire par rapport à celle du vent.

    #Amariner :
    Amariner un équipage : l’habituer à la mer.

    #Amarrage :
    Action d’amarrer.

    #Matelotage
     : bout de lusin, merlin, ligne, etc... servant à relier ensemble deux cordages.

    #Amarres :
    Chaînes ou cordages servant à tenir le navire le long du quai.

    #Amener :
    abaisser, faire descendre.

    #Amer :
    Point de repère sur une côte.

    #Amure :
    Manoeuvre qui retient le point inférieur d’une voile du côté d’où vient le vent (voiles carrées). Par extension est synonyme d’allure. Pour les bateaux latins, on continue à dire qu’ils naviguent bâbord ou tribord amures, selon que le vent vient de la gauche ou de la droite.

    #Anguillers :
    Conduits, canaux ou trous pratiqués dans la partie inférieure des varangues des couples pour permettre l’écoulement de l’eau dans les fonds.

    #Anspect :
    Ou barre d’anspect. Levier en bois dur servant à faire tourner un cabestan ou un guindeau. Primitivement, servait à pointer les canons en direction.

    #Aperçu :
    Pavillon signal que l’on hisse pour indiquer que l’on a compris un signal.

    #Apiquer :
    Hisser l’une des extrémités d’un gui ou d’une vergue de manière à l’élever au-dessus de l’autre.

    #Apparaux :
    Ensemble des objets formant l’équipement d’un navire.

    #Appel :
    Direction d’un cordage, de la chaîne de l’ancre.

    #Appuyer :
    Haler, raidir un cordage pour soutenir ou fixer l’objet auquel il aboutit. Appuyer un signal, c’est l’accompagner d’un signal sonore, coup de Klaxon, pour attirer l’attention. Appuyer la chasse : poursuivre obstinément.

    #Araignée :
    Patte d’oie à grand nombre de branches de menu filin qu’on installe sur les funes des tentes et tauds pour permettre de les maintenir horizontaux. Hamac : réseau de petites lignes à oeil placées à chaque extrémité de la toile du hamac pour le suspendre : elles se réunissent à deux boucles métalliques ou organeaux d’où partent les « rabans » de suspension.

    #Arborer :
    Arborer un pavillon, c’est le hisser au mât. En Méditerranée, dans la langue des galères, le mât s’appelait l’arbre.

    #Ardent :
    Un navire est ardent lorsqu’il tend de lui-même à se rapprocher du lit du vent. C’est le contraire du mou.

    #Armement :
    L’armement d’un bâtiment consiste à le munir de tout ce qui est nécessaire à son genre de navigation ; ce terme désigne aussi la totalité des objets dont un navire est muni. Ces objets sont inscrits sur les « feuilles d’armement ». Dans une embarcation, on appelle ainsi son équipage.

    #Armer :
    Armer un navire : le munir de son armement. / Armer un câble : le garnir en certains endroits pour le garantir des frottements.

    #Arraisonner :
    Arraisonner un navire c’est le questionner sur son chargement, sa destination, et toutes autres informations pouvant intéresser le navire arraisonneur.

    #Arrimage :
    Répartition convenable dans le navire de tous les objets composants son armement et sa cargaison.

    #Arrivée :
    Mouvement que fait le navire quand il s’éloigne du lit du vent pour recevoir le vent plus de l’arrière. Synonyme : « abattée ». Contraire : « auloffée ».

    #Arrondir :
    Passer au large d’un cap pour éviter les dangers qui le débordent.

    #Assiette :
    Manière dont le navire est assis dans l’eau, autrement dit sa situation par rapport à la différence de ses tirants d’eau avant et arrière.
    Assiette positive : T AV < T AR
    Assiette négative : T AV > T AR

    #Atterrir :
    Faire route pour trouver une terre ou un port.

    #Attrape :
    Cordage fixé sur un objet de façon à pouvoir en temps utile l’amener à portée de main.

    #Atterrissage :
    Action d’atterrir.

    #Auloffée :
    Mouvement d’un navire tournant son avant vers le lit du vent. Contraire : arrivée abattée (ou abattée).

    #Aveugler :
    Une voie d’eau, obstruer avec des moyens de fortune

    B
    #Bâbord :
    Partie du navire située à gauche d’un observateur placé dans l’axe de ce navire en faisant face à l’avant.

    #Baguer :
    Faire un noeud coulant.

    #Baille :
    Baquet (appellation familière donnée à leur école, par les élèves de l’école Navale).

    #Balancine :
    Manoeuvre partant du haut du mât et soutenant les extrémités d’une vergue ou l’extrémité d’un gui ou d’un tangon.

    #Ballast :
    Compartiments situés dans les fonds du navire et servant à prendre du lest, eau ou combustible.

    #Ballon :
    Défense sphérique que l’on met le long du bord.

    #Bande :
    Inclinaison latérale du navire. Synonyme de gîte. Mettre l’équipage à la bande : l’aligner sur le pont pour saluer un navire ou une personnalité.

    #Barbotin :
    Couronne à empreintes du guideau ou du cabestan sur laquelle les maillons d’une chaîne viennent s’engrener successivement.

    #Base :
    Banc de roche ou de corail formant un bas-fond.

    #Bastaque :
    Hauban à itague employé sur les petits bateaux. Il peut aussi servir à hisser certains objets.

    #Bastingage :
    Autrefois muraille en bois ou en fer régnant autour du pont supérieur d’un navire, couronnée par une sorte d’encaissement destiné à recevoir pendant le jour, les hamacs de l’équipage ; une toile peinte les recouvrait pour les protéger de la pluie et de l’humidité. On emploie aussi ce terme par extension pour désigner les gardes corps ou lisses de pavois.

    #Battant :
    Partie du pavillon qui flotte librement par opposition au guindant qui est le long de la drisse.

    #Bau :
    Poutres principales placées en travers du bateau pour relier les deux murailles de la coque et supporter les bordages de la coque.

    #Beaupré :
    Mât situé à l’avant du bâtiment.

    #Béquiller :
    #Empêcher un navire échoué de se coucher en le maintenant avec des béquilles.

    #Berceau :
    Assemblage en bois ou en fer destiné à soutenir un navire quand il est halé à terre.

    #Berne (en) :
    Mettre le pavillon à mi-drisse en signe de deuil.

    #Bigue :
    Très gros mât de charge maintenu presque vertical et portant à son extrémité supérieure des cordages et des appareils destinés à lever des poids très lourds. On nomme aussi bigues deux mâts placés et garnis comme le précèdent, et dont les têtes sont réunies par une portugaise.

    #Bittes :
    Pièce de bois ou d’acier fixé verticalement sur un pont ou un quai et servant à tourner les aussières.

    #Bitture :
    Partie d’une chaîne élongée sur le pont à l’avant et à l’arrière du guindeau, filant librement de l’écubier aussitôt qu’on fait tomber l’ancre (prendre une bitture).

    #Bollard :
    Point d’amarrage à terre constituée par un gros fût cylindrique en acier coulé, à tête renflée, pour éviter le glissement de l’amarre.

    #Bôme :
    Vergue inférieure d’une voile aurique.

    #Borde :
    #Ensemble des tôles ou des planches formant les murailles d’un navire.

    #Bordée :
    – Distance parcourue par un navire en louvoyant et sans virer de bord.
    – Division : de l’équipage pour faire le quart.

    #Border :
    – ne voile : la raidir en embarquant l’écoute.
    – La côte : la suivre de très près.
    – Un navire : mettre en place le bordé.

    #Bordure :
    Côté inférieur d’une voile ; la ralingue qui y est fixée se nomme ralingue de fond ou de bordure.

    #Bosco :
    Maître de manoeuvre (marine de guerre), Maître d’équipage (marine de commerce)

    B#osse :
    Bout de cordage ou de chaîne fixé par une de ses extrémités et qui, s’enroulant autour d’un cordage ou d’une chaîne sur lesquels s’exerce un effort, les maintient immobile par le frottement.

    #Bossoir :
    – Pièce de bois ou de fer saillant en dehors d’un navire et servant à la manoeuvre des ancres à jas ; par extension coté avant d’un navire. De capon - de traversières : sert à mettre l’ancre au poste de navigation ; d’embarcation ou portemanteau : sert à suspendre et à amener les embarcations.
    – Homme de bossoir : homme de veille sur le gaillard avant.

    #Bouge :
    Convexité transversale entre ponts et faux-ponts des navires.

    #Bouée :
    Corps flottant.

    #Bourlinguer :
    Se dit d’un bateau qui lutte dans une forte mer et d’un marin qui navigue beaucoup.

    #Braie :
    Sorte de collier en toile à voile ou en cuir que l’on applique autour du trou pratiqué dans le pont pour le passage d’un mât, d’une pompe, de la volée d’un canon afin d’empêcher l’infiltration de l’eau à l’intérieur du bateau.

    #Branles :
    Nom ancien des hamacs (d’où « branle-bas »).

    #Brasse :
    Mesure de longueur pour les cordages, 1m83, servant aussi à indiquer la profondeur de l’eau. Ce terme est en usage dans la plupart des nations maritimes mais la longueur en est différente : en France : 1m624, en Angleterre et en Amérique : 1m829 (six pieds anglais).

    #Brasser :
    Orienter les vergues au moyen des manoeuvres appelées bras. - carré : placer les vergues à angle droit avec l’axe longitudinal du navire. Brasser un tangon.

    #Brider :
    Étrangler, rapprocher plusieurs cordages tendus parallèlement par plusieurs tours d’un autre cordage qui les serre en leur milieu ; ou augmente ainsi leur tension.

    #Brigadier :
    Matelot d’une embarcation placé à l’avant pour recevoir les bosses ou les amarres, annoncer les obstacles sous le vent ou aider à accoster avec la gaffe.

    #Brin :
    Mot servant à indiquer la qualité du chanvre d’un cordage ; le meilleur est dit le premier brin. S’emploie aussi pour qualifier un homme remarquable.

    #Bulbe :
    Renflement de la partie inférieure d’une étrave.

    #Bulge :
    Renflement des flancs du navire.

    C
    #Cabaner :
    Chavirer sans dessus dessous en parlant d’une embarcation.

    #Cabestan :
    Treuil vertical servant à actionner mécaniquement ou à bras les barbotins.

    #Cabillot :
    Chevilles en bois ou en métal qui traversent les râteliers et auxquelles on amarre les manoeuvres courantes au pied des mâts ou en abord.

    #Câblot :
    Petit câble d’environ 100 mètres de longueur servant à mouiller les embarcations au moyen d’un grappin ou d’une petite ancre.

    #Cabotage :
    Navigation entre deux ports d’une même côte ou d’un même pays.

    #Caillebotis :
    treillis en bois amovible servant de parquet et laissant écouler l’eau.

    #Calfatage :
    Opération qui consiste à remplir d’étoupe, au moyen d’un ciseau et à coups de maillet, les coutures des bordages ou des ponts en bois d’un navire afin de les rendre étanches. L’étoupe est ensuite recouverte de brai.

    #Calier :
    Homme employé spécialement à la distribution de l’eau douce.

    #Caliorne :
    Gros et fort palan destiné aux manoeuvres de force.

    #Cap de mouton :
    Morceau de bois plat et circulaire percé de trois ou quatre trous dans lesquels passent des rides pour raidir les haubans, galhaubans, etc...

    #Cape (à la) :
    On dit qu’un navire est à la cape quand, par gros temps, il réduit sa voilure ou diminue la vitesse de sa machine en gouvernant de façon à faire le moins de route possible et à dériver le plus possible pour éviter les effets de la mer.

    #Capeler :
    Capeler un mât, c’est faire embrasser la tête du mât par toutes les manoeuvres dormantes qui doivent entourer cette tête et s’y trouver réunies.

    #Capeyer :
    Tenir la cape.

    #Capon :
    Palan qui servait à hisser l’ancre sur les anciens navires (bossoirs de capon).

    #Carène :
    Partie immergée de la coque d’un navire.

    #Caréner (un navire) :
    Nettoyer et peindre sa carène.

    #Cartahu :
    Cordage volant, sans affectation spéciale, destiné à hisser ou amener les objets qu’on y attache. Les cartahus de linge servent à mettre le linge au sec ; ils se hissent parfois entre les mâts de corde.

    #Chadburn :
    Système mécanique employé pour transmettre les ordres de la passerelle aux machines (marine de commerce).

    #Chambre (d’embarcation) :
    Partie libre, à l’arrière de l’embarcation où peuvent s’asseoir les passagers.

    #Chandeliers :
    Barres généralement en acier fixées verticalement en abord d’un pont, autour des panneaux et des passerelles pour empêcher les chutes. Les chandeliers sont percés de trous dans lesquels passent les tringles ou les filières de garde-corps.

    #Chapelle, #Faire_chapelle :
    Se dit d’un navire qui, marchant, sous un vent favorable, vient à masquer par suite, d’une cause quelconque et est obligé de faire le tour pour reprendre les mêmes amures.

    #Charnier :
    Tonneau à couvercle, ayant généralement la forme d’un cône tronqué et dans lequel étaient conservés les viandes et les lards salés pour la consommation journalière de l’équipage (ancien). Par extension réservoir rempli d’eau potable.

    #Chasser (sur son ancre) :
    Entraîner l’ancre par suite d’une tenue insuffisante de fond.

    #Château :
    Superstructure établie sur la partie centrale d’un pont supérieur et qui s’étend d’un côté à l’autre du navire.

    #Chatte :
    Grappin à patte sans oreilles dont on se sert pour draguer les câbles ou les objets tombés à la mer.

    #Chaumard :
    Pièce de guidage pour les amarres solidement fixées sur le pont dont toutes les parties présentent des arrondis pour éviter d’user ou de couper les filins.

    #Chèvre :
    Installation de trois mâtereaux réunis à leur tête pour les manoeuvres de force.

    #Choquer :
    Filer ou lâcher un peu de cordage soumis à une tension.

    #Claire :
    Ancre haute et claire :
    ancre entièrement sortie de l’eau, ni surpattée, ni surjalée. On dira de même :
    manoeuvre claire, pavillon clair.

    #Clan :
    Ensemble formé par un réa tournant dans une mortaise qui peut être pratiquée dans un bordage, une vergue ou un mât.

    #Clapot :
    Petites vagues nombreuses et serrées qui se heurtent en faisant un bruit particulier.

    #Clapotis :
    Etat de la mer qui clapote ou bruit de clapot.

    #Clin :
    Les bordages sont disposés à clin quand ils se recouvrent comme les ardoises d’un toit :
    embarcation à clins.

    #Clipper :
    Nom donné à un
    voilier
    fin de carène, spécialement construit pour donner une grande vitesse (clipper du thé, de la laine).

    #Coaltar :
    Goudron extrait de la houille (protège le bois de la pourriture).

    #Coffre :
    Grosse bouée servant à l’amarrage des navires sur une rade.

    #Connaissement :
    Document où est consigné la nature, le poids et les marques des marchandises embarquées. Cette pièce est signée par le capitaine après réception des marchandises avec l’engagement de les remettre dans l’état où elles ont été reçues, au lieu de destination sauf périls et accidents de mer.

    #Conserve, Naviguer de conserve :
    Naviguer ensemble (un bâtiment est ainsi « conserve » d’un autre).

    #Contre-bord (navire à) :
    Navire faisant une route de direction opposée à celle que l’on suit.

    #Coque :
    Boucle qui se forme dans les cordages.

    #Coqueron :
    Compartiment de la coque souvent voisine de l’étrave ou de l’étambot, servant e soute à matériel.

    #Corde :
    Ce mot n’est employé par les marins que pour désigner la corde de la cloche.

    #Cornaux :
    W-C. de l’équipage consistant en auges inclinées qui découlent dans les conduits aboutissant à la mer ; les cornaux étaient autrefois placés à tribord et à bâbord sur le plancher de la poulaine.

    #Corps-morts :
    Chaînes et ancres disposées au fond de la mer, solidement retenues par des empennelages, et dont une branche qui part dès la réunion des chaînes est nommée itague revient au-dessus de l’eau où elle est portée par un corps flottant (bouée ou coffre).

    #Coupée :
    Ouverture pratiquée dans les pavois ou dans le bastingage permettant l’entrée ou la sortie du bord.

    #Couples :
    Axes de charpente posés verticalement sur la quille.

    #Coursive :
    Terme général pour désigner des passages étroits tels que ceux qui peuvent se trouver entre des chambres ou autres distributions du navire.

    #Crachin :
    Pluie très fine. Crachiner.

    #Crapaud (d’amarrage) :
    Forts crampons pris sur le fond et servant au mouillage des coffres et des grosses bouées.

    #Crépine :
    Tôle perforée placée à l’entrée d’un tuyautage pour arrêter les saletés.

    #Croisillon :
    Petite bitte en forme de croix.

    #Croupiat :
    Grelin de cordage quelconque servant à amarrer l’arrière d’un navire à un quai ou à un bâtiment voisin. Faire croupiat :
    appareiller le navire en s’aidant d’une amarre pour éviter le navire vers la sortie du port ou du bassin.

    #Cul :
    Fond, partie arrière, basse ou reculée, d’un objet.
    – Cul d’une poulie :
    Partie de la caisse opposée au collet.
    – Cul de poule :
    Arrière allongé et relevé.
    – Cul de porc :
    Sorte de noeud.

    #Culer :
    En parlant d’un navire : marche arrière en avant.

    D
    #Dalot :
    Trous pratiqués dans les ponts et laissant s’écouler dans un tuyau placé au-dessous l’eau qui se trouve à la surface du pont.

    #Dames :
    Échancrures du plat-bord d’un canot garnies de cuivre et destinées à recevoir et à maintenir les avirons pendant la nage.

    #Darse :
    Bassin d’un port.

    #Déborder :
    Action de pousser au large une embarcation ou un bâtiment accosté à un navire ou à un quai.

    #Débouquer :
    Sortir d’un canal ou d’une passe pour gagner la mer libre.

    #Décapeler :
    Un mât, une vergue, c’est enlever les cordages qui y sont capelés ; un cordage, entourant un objet quelconque, c’est le dépasser par-dessus cet objet et l’enlever. De façon générale : ôter, décapeler un tricot, etc...

    #Défense :
    Tout objet suspendu contre le bord d’un navire ou d’une embarcation pour préserver la muraille du choc des quais et de toute construction flottante.

    #Déferler :
    Larguer les rabans de ferlage qui tiennent une voile serrée et la laisser tomber sur ses cargues. La lame déferle lorsqu’elle brise en s’enroulant sur elle-même ou en choquant une plage, une roche.

    #Déferler_un_pavillon :
    Peser sur la drisse pour permettre au pavillon de se déployer.

    #Déhaler :
    Déplacer un navire au moyen de ses amarres.

    Se déhaler :
    S’éloigner d’une position dangereuse au moyen de ses embarcations, de ses voiles.

    #Dérader :
    Quitter une rade.

    #Déraper :
    Une ancre : l’arracher du fond. Un navire dérape lorsqu’il enlève du fond sa dernière ancre.

    #Dérive :
    Différence entre le cap vrai du bâtiment et sa route vraie sous l’effet du vent de la mer et du courant.On appelle aussi « dérive » les surfaces que l’on immerge au centre de la coque ou sur les côtés pour s’opposer à la pression latérale du vent ; on devrait dire dans ce cas « contre dérive ». Être en dérive : navire ou objet qui flotte au gré du vent, des lames, des courants.

    #Désaffourcher :
    Relever une des deux ancres qui tiennent un navire affourché.

    #Désarmé :
    Un navire est désarmé lorsqu’il est amarré dans un port sans équipage et qu’il n’y a, en général, que des gardiens à bord.

    #Détroit :
    Ancre installée à la poupe d’un bâtiment.

    #Déventer :
    Une voile : la brasser en ralingue de façon à ce qu’elle fasseye.

    #Dévers :
    Inclinaison de l’étrave et courbure vers l’extérieur des couples de l’avant ayant pour avantage d’éviter l’embarquement des lames, formées par la vitesse du bâtiment.

    #Délester :
    Décharger le lest d’un navire, par exemple, alléger un navire.

    #Démailler :
    Séparer les maillons d’une chaîne, ou l’ancre de sa chaîne.

    #Demande :
    Filer à la demande un cordage qui fait effort, c’est le laisser (à la) filer en n’opposant qu’une faible résistance, mais en se tenant prêt à arrêter le mouvement au besoin.

    #Dépaler :
    Être dépalé : être porté par les courants, en dehors de la route que l’on doit suivre.

    #Déplacement :
    Poids du volume d’eau déplacé par un navire qui flotte. Le déplacement s’exprime en tonnes de 1000 kg.

    #Dévirer :
    (Cabestan, treuil, etc...) : tourner en sens contraire.

    #Dinghy :
    Embarcation en caoutchouc. L’on dit aussi
    zodiac quel que soit le modèle.

    #Double :
    Le double d’une manoeuvre : la partie qui revient sur elle-même dans le sens de la longueur après avoir passé dans une poulie ou autour d’un cabillot ou de tout autre objet. Quart de vin supplémentaire à titre de récompense.

    #Doubler :
    – Au vent : naviguer au vent de, passer au vent de...
    – Un cap : manoeuvrer et faire route de manière à contourner un cap.
    – Un bâtiment : le gagner de vitesse.
    – Les manoeuvres, cordages : les disposer en double en cas de mauvais temps ou autrefois à l’approche du combat.

    #Draille :
    Cordage tendu le long duquel une voile, une tente peuvent courir ou glisser par le moyen d’un transfilage ou d’anneaux.

    #Drisse :
    Cordage ou palan servant à hisser une vergue, une corne, une voile.
    – De flamme : cordage confectionné au moyen d’une machine spéciale, en une tresse ronde avec huit faisceaux, de trois fils à voile non goudronnés et destiné à hisser les signaux.

    #Drome :
    Ensemble des embarcations, des pièces de rechange : mâts, vergues, avirons, etc... embarqués à bord d’un bâtiment.
    – Des embarcations : rassemblement en bon ordre des avirons, mâts, gaffes d’un canot sur les bancs.

    #Drosse :
    Cordage en filin, en cuir, en fil d’acier, ou en chaîne qui sert à faire mouvoir la barre de gouvernail.

    #Drosser :
    Entraîner hors de sa route par les vents et la mer.

    #Ducs d’albe :
    Nom donné à un ou plusieurs poteaux réunis, enfoncés dans le fond d’un bassin ou d’une rivière afin d’y capeler des amarres quand on le déhale d’un navire.

    E
    #Echafaud :
    Planches formant une plate-forme que l’on suspend le long de la coque pour travailler.

    #Echouer :
    Toucher le fond.

    #Ecope :
    Pelle en bois à long manche qui sert à prendre de l’eau à la mer pour en asperger la muraille d’un bâtiment pour la nettoyer. Elle sert également à vider les embarcations.

    #Écoutille :
    Ouverture rectangulaire pratiquée dans le pont pour pouvoir accéder dans les entreponts et dans les cales.

    #Ecubier :
    Conduit en fonte, en tôle ou en acier moulé ménagé de chaque bord de l’étrave pour le passage des chaînes de l’ancre. Ouverture par laquelle passe la chaîne d’une ancre.

    #Elingue :
    Bout de filin ou longue estrope dont on entoure les objets pesants tels qu’une barrique, un ballot, une pièce de machine, etc... A cette élingue, on accroche un palan ou la chaîne d’un mât de charge pour embarquer ou débarquer les marchandises.

    #Embardée :
    Abattée d’un navire en marche en dehors de sa route ou au mouillage ou sous l’effet du vent ou du courant.

    #Embarder :
    Se dit d’un navire qui s’écarte de sa route à droite ou à gauche en suivant une ligne courbe et irrégulière. On dit aussi qu’un navire, à l’ancre, embarde quand il change constamment de cap sous l’effet du vent ou du courant.

    #Embellie :
    Amélioration momentanée de l’état de la mer et diminution du vent pendant une tempête ou encore éclaircie du ciel pendant le mauvais temps ou la pluie.

    #Embosser :
    Un navire : mouiller ou amarrer le bâtiment de l’AV et de l’AR, pour le tenir dans une direction déterminée malgré le vent ou le courant.

    #Embouquer :
    S’engager dans un canal, un détroit ou une passe.

    #Embraquer :
    Tirer sur un cordage de manière à le raidir : embraquer le mou d’une aussière.

    #Embrun :
    L’embrun est une poussière liquide arrachée par le vent de la crête des lames.

    #Emerillon :
    Croc ou anneau rivé par une tige dans un anneau de manière à pouvoir tourner librement dans le trou de l’anneau.

    #Empanner :
    Un navire à voile empanne ou est empanné quand il est masqué par le côté de l’écoute de ses voiles.

    #Encablure :
    Longueur employée pour estimer approximativement la distance entre deux objets peu éloignés l’un de l’autre. Cette longueur est de 120 brasses (environ 200 mètres). Longueur normale d’une glène d’aussière. Autre définition de l’encablure : un dixième de mille soit environ 185 mètres.

    #Encalminé :
    Voilier encalminé : quand il est dans le calme ou dans un vent si faible qu’il ne peut gouverner.

    #Engager :
    Un navire est engagé quand il se trouve très incliné par la force du vent, le désarrimage du chargement ou la houle et qu’il ne peut se redresser. Cordage engagé : cordage qui bloque.

    #En grand :
    Tout à fait, sans retenue.

    #Entremise :
    Fil d’acier reliant deux têtes de bossoir et sur lequel sont frappés les tire-veilles. Pièces de bois, cornière, placées dans le sens longitudinal. Elles servent avec les barrots à établir la charpente des ponts, à limiter les écoutilles, etc...

    #Épauler :
    La lame : prendre la mer à quelques quarts de l’AV pour mieux y résister.

    #Epontille :
    Colonne verticale de bois ou de métal soutenant le barrot d’un pont ou d’une partie à consolider.

    #Erre :
    Vitesse conservée par un navire sur lequel n’agit plus le propulseur.

    #Espars :
    Terme général usité pour désigner de longues pièces de bois employées comme mâts, vergues, etc...

    #Essarder :
    Essuyer, assécher avec un faubert ou une serpillière.

    #Etale :
    – Sans vitesse.
    – Étale de marée : moment où la mer ne monte ni ne baisse

    #Etaler :
    Résister à.

    #Étalingure :
    Fixation de l’extrémité d’un câble, d’une chaîne sur l’organeau d’une ancre. - de cale : fixation du câble ou de la chaîne dans la cale ou le puits à chaînes.

    #Etambot :
    Pièce de bois de même largeur que la quille et qui s’élève à l’arrière en faisant avec celle-ci un angle généralement obtus qu’on nomme quête. Il reçoit les fémelots ou aiguillots du gouvernail.

    #Etamine :
    Étoffe servant à la confection des pavillons.

    #Etarquer :
    Une voile : la hisser de façon à la tendre le plus possible.

    #Étrangler :
    Une voile : l’étouffer au moyen de cordages.

    #Etrangloir :
    Appareil destiné à ralentir et à arrêter dans sa course une chaîne d’ancre.

    #Evitage :
    Mouvement de rotation d’un bâtiment sur ses ancres, au changement de marées ou par la force du vent qui agit plus sur lui que sur le courant. Espace nécessaire à un bâtiment à l’ancre pour effectuer un changement de cap, cap pour cap.

    F
    #Fanal :
    Lanterne d’embarcation.

    #Fardage :
    Tout ce qui se trouve au-dessus de la flottaison excepté la coque lisse et offrant de la prise au vent. Dans la marine de commerce, désigne aussi les planches , nattes, etc... que l’on place sur le vaigrage du fond pour garantir les marchandises contre l’humidité.

    #Fatiguer :
    Un bâtiment fatigue lorsque, par l’effet du vent, de la mer, ses liaisons sont fortement ébranlées.

    #Faubert :
    Sorte de balai fait de nombreux fils de caret et dont on fait usage à bord pour sécher un pont après la pluie ou le lavage.

    #Faux-bras :
    Cordage installé le long du bord, pour faciliter l’accostage des embarcations.

    #Femelots :
    Pentures à deux branches embrassant l’étambot ou le gouvernail et représentant des logements pour recevoir les aiguillots.

    #Ferler :
    – Une voile carrée : relever par plis sur la vergue une voile carguée et la fixer au moyen de rabans dits de ferlage qui entourent la voile et la vergue.
    – Un pavillon : le plier et le rouler en le maintenant ensuite avec sa drisse.

    #Filer :
    – Une amarre : laisser aller une amarre dont un des bouts est attaché à un point fixe.
    – La chaîne : augmenter la touée d’une chaîne en la laissant aller de la quantité voulue en dehors du bord.
    – Par le bout, une chaîne ou grelin : laisser aller du navire dans l’eau.

    #Filière :
    Cordage tendu horizontalement et servant de garde-corps ou à suspendre différents objets. - de mauvais temps : cordage qu’on tend d’un bout à l’autre du bâtiment et auquel les hommes se retiennent pendant les forts mouvements de roulis et de tangage.

    #Flux :
    Marée montante.

    #Forain :
    Ouvert : Rade foraine : rade sans abri, exposée au mauvais temps du large (mouillage d’attente).

    Forme :
    – Bassin de radoub, ou cale sèche : bassin de radoub.
    – Formes d’un navire : ses lignes.

    #Fraîchir :
    Se dit du vent qui augmente d’intensité.

    #Frais :
    Désigne la forme du vent : joli frais, bon frais, grand frais.

    #Franc-bord :
    Distance entre le niveau de l’eau à l’extérieur du navire et la partie supérieure du pont principal à la demi-longueur du navire.

    #Fret :
    Somme convenue pour le transport de marchandises par navire. Les marchandises composant le chargement du navire.

    #Fuir :
    Devant le temps ou devant la mer : gouverner de manière à recevoir le vent ou la mer par l’arrière.

    #Fune :
    Grelin qui traîne le chalut. Prolongement de la filière des tentes d’un navire (mettre les tentes en fune).

    G
    #Galhauban :
    Cordage en chanvre ou en acier servant à assujettir par le travers et vers l’arrière les mâts supérieurs.

    #Gambier :
    Changer la position d’une voile à antenne ou au tiers d’un côté à l’autre du navire en faisant passer la vergue de l’autre côté du mât. Synonyme : muder, trélucher.

    #Galipot :
    Sorte de mastic avec lequel on recouvre les pièces métalliques en cas de repos prolongé ou d’exposition à l’arrosage par l’eau de mer. Pâte formée en parties égales de céruse et de suif fondu, étalée à chaud, au pinceau, sur les surfaces à protéger. On l’enlève par grattage et lavage à l’huile. Galipoter (vieux).

    #Gite :
    Synonyme de bande : Giter.

    #Glène :
    De cordage : portion de cordage ployée en rond sur elle-même, c’est à dire lové.

    #Grain :
    Vent violent qui s’élève soudainement généralement de peu de durée. Les grains sont parfois accompagnés de pluie, de grêle ou de neige.

    #Gréement :
    L’ensemble des cordages, manoeuvres de toutes sortes et autres objets servant à l’établissement, à la tenue ou au jeu de la mâture, des vergues et des voiles d’un navire.

    #Guindeau :
    Appareil servant à virer les chaînes, à mouiller et à relever les ancres à bord d’un navire. Son axe de rotation est horizontal.

    H
    #Habitacle :
    Sorte de cuvette ou de caisse cylindrique en bois ou en cuivre recouverte à la partie supérieure d’une glace et qui contient le compas de route et les lampes qui l’éclairent.

    #Hale-bas :
    Petit cordage frappé au point de drisse des voiles enverguées sur des drailles et qui sert à les amener.

    #Haler :
    Remorquer un navire dans un canal ou le long d’un quai au moyen d’un cordage tiré au rivage. Tirer un cordage ou un objet quelconque au moyen d’un cordage sur lequel on fait un effort.

    #Hanche :
    Partie de la muraille d’un navire qui avoisine l’arrière. On relève un objet par la hanche quand il est à 45° par l’arrière du travers.

    #Haut-fond :
    Sommet sous-marin recouvert d’eau peu profonde et dangereux pour la navigation.

    #Hauturière :
    Navigation au large ; contrôlée par l’observation des astres. Long cours.

    I
    #Itague :
    Cordage passant par une poulie simple et sur lequel on agit à l’aide d’un palan pour augmenter la puissance. Chaîne retenant un coffre et maillée au point de jonction des chaînes des ancres de corps-mort.

    J
    #Jambettes :
    Montants, bouts d’allonges qui dépassent le plat-bord d’un bâtiment et sur lesquels on tourne des manoeuvres ou on prend un retour. Pièces de bois ou de fer légèrement inclinées et retenant les pavois.

    #Jarretière :
    Sangle qui sert à saisir une drôme dans une embarcation.

    #Jauge :
    Volume des capacités intérieures des navires exprimé en tonneaux de 2m3.83 ou 100 pieds cubes anglais.

    #Jauge brute :
    Volume de tous les espaces fermés du navire sans exception aucune.

    #Jauge nette :
    Volume des espaces utilisables commercialement.

    #Jaumière :
    Ouverture pratiquée dans la voûte d’un navire pour le passage et le jeu de la partie supérieure de la mèche du gouvernail.

    #Joue :
    Creux des formes de la coque à l’avant d’un navire. Synonyme : épaule. Face extérieure de la caisse d’une poulie.

    #Joute :
    Compétition d’embarcations à l’aviron.

    #Jusant :
    Marée descendante.

    L
    #Laisse :
    – De marée : partie du rivage alternativement couverte et découverte par la mer dans les mouvements de la marée.

    #Laize :
    Chacune des bandes de toile dont se compose une voile.

    #Lamanage :
    Pilotage restreint aux ports, baies, rade et rivières de peu d’importance. Dans la coutume d’Oléron, le pilote s’appelait loman, c’est à dire homme du lof (côté du vent) ; on en a fait laman, puis lamaneur.

    #Larder :
    Voir paillet.

    #Latte :
    – De hauban : patte métallique fixée sur le bordage pour servir de cadène de hauban.

    #Lège :
    Bâtiment lège : bâtiment vide.

    #Lest :
    Matières pesantes arrimées dans les fonds du navire pour en assurer la stabilité.

    #Libre pratique :
    Permission donnée par les autorités sanitaires d’un port à un navire de communiquer librement avec la terre.

    #Loch :
    Appareil servant à mesurer la vitesse du navire.

    #Lumières :
    Petits canaux ou conduits pratiqués sur la face antérieure des varangues et destinés à conduire les eaux de cale au pied des pompes. Synonyme : anguillers

    M
    #Mahonne :
    Chaland de port à formes très arrondies utilisé en Méditerranée.

    #Maille :
    Intervalle entre deux couples voisins d’un navire ou entre deux varangues. Ouverture laissée entre les fils des filets de pêche.

    #Main_courante :
    Barre en métal, ou pièces de bois mince, placées de chaque côté des échelles de dunette, de roof-passerelle, de gaillard, etc... pour servir de rampe.

    #Maistrance :
    (Marine Nationale) - L’ensemble des officiers mariniers de la Marine de guerre française et plus particulièrement ceux de carrière qui constituent le cadre de maistrance proprement dit.

    #Maître_bau :
    Bau situé dans la plus grande largeur du navire.

    #Maître_couple :
    Couple situé de même.

    #Maître_de_quart :
    (Marine nationale) - Gradé du service manoeuvre qui, à bord des bâtiments militaires, seconde l’officier de quart dans le service des embarcations et rend les honneurs du sifflet à l’arrivée et au départ des officiers.

    #Maniable :
    Modéré (vent) ; assez beau (temps).

    #Manifeste :
    Liste complète et détaillée par marque et numéros des colis de marchandises formant la cargaison d’un navire. Cette liste est remise à la Douane du port de destination.

    #Marie-Salope :
    Chaland à saletés.

    #Marnage :
    Synonyme : d’amplitude pour la marée.

    #Maroquin :
    Cordage tendu entre deux mâts pour servir à supporter une ou plusieurs poulies dans lesquelles passent des manoeuvres ou des drisses.

    #Mascaret :
    Phénomène qui se produit dans le cours inférieur d’un fleuve consistant en plusieurs lames creuses et courtes formées par la remontée du flot contre le courant du propre fleuve.

    #Mât_de_charge :
    Espar incliné tenu par des balancines portant des apparaux servant à déplacer des poids.

    #Mâter :
    Mettre un mât en place. Mâter une pièce, une barrique, les avirons : les dresser et le tenir dans une position verticale.

    #Mégaphone :
    Tronc de cône creux et léger servant à augmenter la portée de la voix.

    #Membrure :
    Pièce de bois ou de fer soutenant le bordé et les vaigres sur laquelle viennent se fixer les barrots (Synonyme : couple).

    #Midship :
    Aspirant ou enseigne de vaisseau, en général le plus jeune parmi les officiers. Désigne également des chaussures ouvertes utilisées à bord des bâtiments de la Marine en pays chaud.

    #Mole :
    Construction en maçonnerie, destinée à protéger l’entrée d’un port et s’élevant au-dessus du niveau des plus fortes marées.

    #Mollir :
    Diminuer de violence (vent / mer).

    #Mou :
    Un cordage a du mou quand il n’est pas assez tendu. Donner du mou : choquer une manoeuvre. Un navire est mou quand il a tendance à abattre.

    #Moucheter_un_croc :
    Amarrer un bout entre pointe et dos pour empêcher le décrochage.

    #Mouiller :
    Jeter l’ancre et filer la touée de la chaîne convenable.

    #Mousson :
    Vents périodiques, soufflant avec de légères variations pendant une moitié de l’année dans une direction et pendant l’autre moitié de l’année dans la direction opposée. (Mers de Chine et Océan Indien).

    #Musoir :
    Pointe extrême d’une jetée ou d’un môle ; se dit aussi de l’extrémité d’un quai à l’entrée d’un bassin ou d’un sas.

    N
    #Nable :
    Trou percé dans le fond d’une embarcation servant à la vider lorsque cette embarcation n’est pas à flot. S’obture au moyen d’un bouchon de nable.

    #Nage :
    Mouvement imprimé par l’armement aux avirons d’une embarcation.
    – Chef de nage : Nageurs assis sur le banc arrière dont les mouvements sont suivis par tous les autres.
    – Nage à couple : Quand il y a 2 (canot) ou 4 (chaloupe) nageurs sur chaque banc.
    – Nage en pointe : 1 nageur par banc (baleinière).

    #Natte :
    Nom donné aux paillets et aux sangles qu’on place en divers endroits de la mâture et du gréement qu’on veut garantir du frottement.

    #Nid de pie :
    Installation placée assez haut sur le mât avant de certains navires et dans laquelle se tient l’homme de vigie. A bord des navires polaires, on dit plutôt #nid_de_corbeau.

    O
    #Obéir :
    Un navire obéit bien à la barre quand il en sent rapidement l’action.

    #Obstructions :
    Défenses fixes, d’un port pour en interdire l’accès à un ennemi de surface, sous-marin ou aérien.

    #Oeil :
    Boucle formée à l’extrémité d’un filin.

    #Oeil de la tempête :
    Éclaircie dans le ciel au centre des ouragans.

    #Oeuvres_mortes :
    Partie émergée de la coque.

    #Oeuvres_vives :
    Partie immergée de la coque.

    #Opercule :
    Tape de hublot.

    #Oreilles_d_âne :
    Cuillers en tôle permettant d’augmenter le débit d’air entrant par les hublots.

    P
    #Paille de bitte :
    Tige de fer traversant la tête d’une bitte pour empêcher la chaîne ou l’aussière de décapeler.

    #Paillet :
    Réunion de fils de bitord, torons de cordage, etc... tressés ensemble et formant une sorte de natte. On les emploie pour garnir les manoeuvres dormantes afin empêcher le frottement.

    #Palanquée :
    Colis, ensemble de marchandises groupées dans une élingue ou un filet pour être embarquées ou débarquées en un seul mouvement de grue.

    #Palanquer :
    Agir sur un objet quelconque avec un ou plusieurs palans.

    #Panne (mettre en) :
    Manoeuvre qui a pour objet d’arrêter la marche du navire par le brasseyage de la voilure.

    #Pantoire :
    Fort bout de cordage terminé par un oeil muni d’une cosse.

    #Pantoire_de_tangon :
    Retient le tangon dans le plan vertical.

    #Paravane (un) :
    Deux brins de dragage fixés au brion terminés par des flotteurs divergents. Installation destinée à la protection contre les mines à orin.

    #Paré :
    Prêt, libre, clair, hors de danger.

    #Parer :
    – Un cap : le doubler ; - un abordage : l’éviter.
    – Une manoeuvre : la préparer.
    – Manoeuvres : commandement pour tout remettre en ordre.
    Faire parer un cordage : le dégager s’il est engagé ou empêcher de la faire.

    #Passerelle :
    Petit cordage servant de transfilage ou à passer une manoeuvre plus grosse dans les poulies ou un conduit.
    Aussière ou chaîne passée d’avance sous la coque d’un bâtiment afin de permettre une mise en place rapide d’un paillet makaroff.

    #Pataras :
    Hauban supplémentaire destiné à soulager temporairement à un hauban soumis à un effort considérable - très employé sur les yachts de course, ce hauban mobile appelle largement sur l’arrière.

    #Patente de santé :
    Certificat délivré à un navire par les autorités du port pour attester l’état sanitaire de ce port.

    #Pavois :
    Partie de coque au-dessus du pont formant garde corps.

    #Grand_pavois :
    Pavillon de signaux frappés le long des étais et de l’entremise dans un ordre déterminé.

    #Petit_pavois :
    Pavillons nationaux en tête de chacun des mâts. Au-dessus du pavois : Syn. « de montré » pour un signal par pavillon de 1 signe.

    P#eneau (faire) :
    Tenir l’ancre prête à mouiller par grands fonds après avoir filé une certaine quantité de chaîne pour atténuer la violence du choc sur le fond.

    #Perdant :
    Synonyme : jusant.

    #Perthuis :
    Détroit entre les îles, des terres ou des dangers.
    Ouverture d’accès dans une cale sèche.

    #Phare :
    Construction en forme de tour portant un feu à son sommet.
    Mât avec ses vergues, voiles et gréement. Ex. : phare de misaine, phare de l’avant, phare de l’arrière, phare d’artimon, phare carré.

    #Phoscar :
    Sorte de boîte à fumée et à feu jetée d’un bâtiment afin de matérialiser un point sur la mer.

    #Pic (a pic) :
    Position verticale de la chaîne de l’ancre au moment où celle-ci est sur le point d’être arrachée au fond. A long pic : laisser la chaîne de l’ancre un peu plus longue que pour être à pic.

    #Pied :
    Jeter un pied d’ancre : mouiller avec un peu de touée pour un court laps de temps.
    Mesure de longueur égale à 0,305mètre.

    #Pied_de_biche :
    Pièce de fonte, dans un guindeau.

    #Pied_de_pilote :
    Quantité dont on augmente le tirant d’eau pour être sur de ne pas talonner.

    #Pigoulière :
    Embarcation à moteur assurant à heures fixes à TOULON le service de transport du personnel entre différents points de l’Arsenal.

    #Piloter :
    Assurer la conduite d’un navire dans un port ou dans les parages difficiles de la côte.

    #Piquer_l_heure :
    Sonner l’heure au moyen d’une cloche.

    #Plat-bord :
    – Dans un bâtiment en bois : ensemble des planches horizontales qui recouvrent les têtes des allonges de sommet.
    – Dans un navire en fer : ceinture en bois entourant les ponts.

    #Plein :
    Synonyme : pleine mer.
    – Plus près bon plein : allure de 1 quart plus arrivée que le plus près.
    – Mettre au plein : échouer un bateau à la côte.

    #Poste (amarre de) :
    Aussière ou grelin de forte grosseur fournie par les ports pour donner plus de sécurité et plus de souplesse à l’amarrage des navires et éviter l’usure de leurs propres aussières d’amarrage.

    #Pot_au_noir :
    Zone des calmes équatoriaux caractérisés par des pluies torrentielles.

    #Poulaine :
    Partie extrême avant d’un navire : lieu d’aisance de l’équipage.

    #Poupée_de_guindeau :
    Bloc rond en fonte sur lequel on garnit les amarres que l’on veut virer au guindeau.

    #Prélart :
    Laize de toile à voile souple, cousues ensemble puis goudronnées, destinées à couvrir les panneaux d’une écoutille et empêcher l’accès de l’eau dans les entreponts ou la cale.

    #Puisard :
    Espace compris entre deux varangues et formant une caisse étanche dans laquelle viennent se rassembler les eaux de cale.

    #Pilot_chart :
    Cartes périodiques publiées par l’Office Météo des Etats-Unis fournissant des renseignements sur la direction et la force des vents et des courants probables et la position des icebergs.

    Q
    #Quart :
    32ème partie du tour d’horizon, vaut 11 degrés 15 minutes.
    Synonyme. : de rhumb de compas.

    #Queue _de_rat :
    – Cordage terminé en pointe.
    – D’un grain : rafale violente et subite à la fin d’un grain.
    – Aviron de queue : aviron servant de gouvernail.

    #Quille_de_roulis :
    Plan mince, en tôle, fixé normalement et extérieurement à la coque, dans la région du bouchain, sur une partie de la longueur du navire, et destiné à entraîner l’eau lors des mouvements de roulis pour les amortir plus rapidement.

    R
    #Raban :
    Tresse ou sangle de 8 à 9 mètres de long formée d’un nombre impair de brins de bitord.
    – De hamac : bout de quarantenier servant à suspendre le hamac.
    – De ferlage : cordon ou tresse servant à serrer une voile sur une vergue, un gui, etc...

    #Rabanter :
    Fixer ou saisir un objet à son poste avec les rabans destinés à cet usage.
    – Une voile : la relever pli par pli sur la vergue et l’entourer, ainsi que la vergue, avec les rabans.

    #Radier :
    Maçonnerie sur laquelle on établit les portes d’un bassin et d’une forme.

    #Radoub :
    Passage au bassin d’un navire pour entretien ou réparation de sa coque.

    #Rafale :
    Augmentation soudaine et de peu de durée du vent.

    #Rafiau ou #Rafiot :
    Petite embarcation, mauvais navire.

    #Rafraîchir :
    Un câble, une amarre, c’est en filer ou en embraquer une certaine longueur de manière à ce que le portage ne soit jamais à la même place.

    #Raguer :
    Un cordage rague lorsqu’il s’use, se détériore en frottant sur un objet dur ou présentant des aspérités. Se dit aussi d’un bâtiment frottant contre un quai.

    #Rail :
    Pièce en cuivre vissée sur un mât à pible ou un gui sur laquelle sont enfilés les coulisseaux.

    #Rambarde :
    Garde-corps.
    Synonyme : de main courante.

    #Ras :
    Radeau servant aux réparations à faire à un bâtiment près de sa flottaison.
    Petits appontements flottants.

    #Ratier :
    Argot de bord - Matelot sans spécialité chargé de l’entretien de la coque.

    #Rattrapant :
    Yacht rattrapant. Terme de régate : lorsque deux yachts font la même route ou à peu près, celui qui est en route libre derrière l’autre commence à être considéré comme « yacht rattrapant l’autre » aussitôt qu’il s’en approche assez près pour qu’il y ait « risque de collision » et continue à être tel jusqu’à ce qu’il redevienne en roue libre devant ou derrière, ou s’en soit écarté par le travers jusqu’à écarter le risque de collision.

    #Raz :
    Courant violent dû au flot ou au jusant dans un passage resserré.

    #Reflux :
    Mouvement rétrograde de l’eau après la marée haute.
    Synonyme : jusant, ébe.

    #Refuser :
    Le vent refuse lorsque sa direction vient plus de l’avant. Contraire : adonner.

    #Relâcher :
    Un navire relâche quand par suite du mauvais temps, avaries subies, etc... il est forcé d’interrompre sa mission et d’entrer dans un port qui n’est pas son port de destination.

    #Renard :
    Plateau sur lequel sont pointés les noms des officiers qui descendent à terre.

    #Rencontrer :
    La barre ou simplement rencontrer : mettre la barre du côté opposé à celui où elle était auparavant pour arrêter le mouvement d’abatée du navire.

    #Rendre :
    Un cordage rend lorsqu’il s’allonge. Une manoeuvre est rendue lorsqu’on l’a amenée à son poste en halant dessus. Rendre le mou d’un cordage : tenir le cordage à retour d’un bout tandis qu’on hale de l’autre bout. Rendre le quart : remettre le quart à son successeur.

    #Renflouer :
    Remettre à flot un navire échoué.

    #Renverse :
    Du courant : le changement cap pour cap de sa direction.

    #Ressac :
    Retour violent des lames sur elles-mêmes lorsqu’elles vont se briser sur une côte, un haut-fond.

    #Retenue :
    Cordage en chanvre, en acier ou chaîne servant à soutenir un bout-dehors, un bossoir.

    #Rider :
    Une manoeuvre dormante : c’est la raidir fortement à l’aide de ridoirs ou de caps de mouton.

    #Riper :
    Faire glisser avec frottement.

    #Risée :
    Petite brise subite et passagère.

    #Rocambeau :
    Cercle en fer garni d’un croc, servant notamment à hisser la vergue d’une voile au tiers et à amurer le point d’amure du foc le long de son bout-dehors.

    #Rôle :
    Rôle de combat, rôle d’équipage, etc...

    #Rondier :
    Gradé ou matelot chargé d’une ronde.

    #Roof :
    Superstructure établie sur un pont supérieur et ne s’étendant pas d’un côté à l’autre du navire.

    #Roulis :
    Balancement qui prend le navire dans le sens transversal.

    #Routier :
    Carte marine à petite échelle comprenant

    S
    #Sabaye :
    Cordage avec lequel on hâle à terre un canot mouillé près de la côte.

    ##Sabord :
    Ouverture rectangulaire pratiquée dans la muraille d’un navire.

    Saborder :
    Faire des brèches dans les oeuvres vives d’un navire pour le couler.

    #Safran :
    Surface du gouvernail sur laquelle s’exerce la pression de l’eau pour orienter le navire.

    #Savate :
    Pièce de bois sur laquelle repose un navire au moment de son lancement.

    #Saisine :
    Cordage servant à fixer et à maintenir à leur place certains objets.

    #Sangle :
    Tissu en bitord qui sert à garantir du frottement certaines parties du navire ou du gréement ou à maintenir au roulis des objets suspendus.

    #Sas :
    Partie d’un canal muni d’écluses, destinée à établir une jonction entre deux bassins de niveaux différents. Compartiment en séparant deux autres dont les ouvertures ne peuvent s’ouvrir que l’une après l’autre.

    #Saute_de_vent :
    Changement subit dans la direction du vent.

    #Sauve-Garde :
    Cordages fourrés ou chaînes servant à empêcher le gouvernail d’être emporté s’il vient à être démonté. Ils sont fixés d’un bout sur le gouvernail, de l’autre sur les flancs du bâtiment.

    #Sec (à) :
    Un bâtiment court à sec, est à sec de toile lorsqu’il navigue sans se servir de ses voiles, mais poussé par le vent.

    #Semonce :
    Ordre donné par un navire armé à un autre navire de montrer ses couleurs et au besoin d’arrêter pour être visité.

    #Coup (coup de) :
    Coup de canon appuyant cet ordre.

    #Servir :
    Faire servir : manoeuvre d’un navire à voiles pour quitter la panne et reprendre la route.

    #Seuil :
    Élévation du fond de la mer s’étendant sur une longue distance.

    #Sillage :
    Trace qu’un navire laisse derrière lui à la surface de la mer.

    #Slip :
    Plan incliné destiné à mettre à l’eau ou à haler à terre de petits bâtiments ou des hydravions au moyen d’un chariot sur rails.

    #Soufflage :
    Doublage en planches minces sur le bordé intérieur ou extérieur.

    #Souille :
    Enfoncement que forme dans la vase ou le sable mou un bâtiment échoué.

    #Sous-venté :
    Un voilier est sous-venté quand il passe sous le vent d’un autre bâtiment, d’une terre qui le prive de vent.

    #Spardeck :
    Pont léger au-dessus du pont principal.

    #Suceuse :
    Drague travaillant par succion du fond.

    #Superstructures :
    Ensemble des constructions légères situées au-dessus du pont supérieur.

    #Surbau :
    Tôle verticale de faible hauteur encadrant un panneau, un roof ou un compartiment quelconque.

    #Syndic :
    Fonctionnaire de l’Inscription Maritime remplaçant les Administrateurs dans les sous-quartiers.

    #Syzygie (marée des) :
    Marées correspondant à la nouvelle ou à la pleine lune. Synonyme : marée de vive-eau.

    T
    #Table_à_roulis :
    Table percée de trous.
    Par gros temps, on y met des chevilles appelées violons ou cabillots qui permettent de fixer les objets qui s’y trouvent.

    #Tableau :
    Partie de la poupe située au-dessus de la voûte.
    Dans un canot ou une chaloupe, partie arrière de l’embarcation.

    #Talon_de_quille :
    Extrémité postérieure de la quille sur laquelle repose l’étambot.

    #Talonner :
    Toucher le fond de la mer avec le talon de la quille.

    #Tangon :
    Poutre mobile établie horizontalement à l’extérieur d’un navire, à la hauteur du pont supérieur et perpendiculairement à la coque, sur laquelle on amarre les embarcations quand le navire est à l’ancre.
    – De spinnaker ou de foc : espars servant à déborder le point d’écoute du spinnaker ou du foc au vent arrière.

    #Tangage :
    Mouvement que prend le navire dans le sens longitudinal.

    #Tanker :
    Navire pétrolier.

    #Tape :
    Panneau en tôle ou pièce de bois obturant une ouverture.

    #Taud :
    Abri de grosse toile qu’on établit en forme de toit au-dessus des ponts pour garantir l’équipage contre la pluie. Etui placé sur les voiles serrées pour les garantir de la pluie.

    #Teck :
    Bois des Indes presque imputrescibles aussi fort et plus léger que le chêne ; très employé dans la construction navale.

    #Tenir :
    Navire tenant la mer : se comportant bien dans le mauvais temps.

    #Tenir le large :
    Rester loin de la terre.

    #Tenue :
    Qualité du fond d’un mouillage. Les fonds de bonne tenue sont ceux dans lesquels les pattes des ancres pénètrent facilement et ne peuvent cependant en être arrachées qu’avec difficulté.
    La tenue d’un mât est son assujettissement par les étais et les haubans.

    #Teugue :
    Partie couverte du pont supérieur avant, constituant un gaillard d’avant où les hommes de l’équipage peuvent s’abriter.

    #Tiens-bon ! :
    Commandement à des hommes qui agissent sur un cordage, un cabestan, etc... de suspendre leurs efforts tout en restant dans la position où ils sont (voir « Tenir bon »).

    #Tiers (voile au) :
    Synonyme : de bourcet
    Voiles des canots et chaloupes.

    #Tillac :
    Pont supérieur ou parfois plancher d’embarcation.

    #Tins :
    Pièces de bois carrées placées à des distances régulières sur le fond d’une cale-sèche et destinées à soutenir la quille des navires.

    #Tire-veilles :
    Nom donné à un bout de filin terminé par une pomme à la rambarde au bas de l’échelle de coupée d’un navire et auquel on se tient pour monter à bord ou pour en descendre.
    Bout amarré sur l’entremise des bossoirs d’embarcation et auxquels se tient l’armement d’une embarcation quand on la met à l’eau ou quand on la hisse.

    #Tomber :
    – Sous le vent : s’éloigner de l’origine du vent.
    – Sur un navire, une roche : être entraîné par le vent, le courant ou toute autre cause vers un navire, un rocher, etc...
    – Le vent tombe, la mer tombe : le vent diminue d’intensité, les vagues de force.

    #Tonnage :
    Capacité cubique d’un navire ou de l’un de ses compartiments exprimée en tonneaux. Le tonneau est égal à cent pieds cubes anglais ou à 2,83 mètres cubes (c’est le tonneau de jauge) ; Le tonnage exprime toujours un volume.

    #Tonne :
    Grosse bouée en bois, en fer ou en toile.

    #Top :
    Prendre un top : comparer une pendule réglée avec son chronomètre, ou relever un signal horaire au compteur.

    #Tosser :
    Un navire tosse lorsque, amarré le long d’un quai, sa coque frappe continuellement contre le quai par l’effet de la houle.
    A la mer, le navire tosse quand l’AV retombe brutalement dans le creux des vagues.

    #Touage :
    Remorquage, plus particulièrement en langage de batellerie.

    #Toucher :
    Être en contact avec le fond. Toucher terre : faire escale.

    #Touée :
    Longueur de la remorque avec laquelle on hale un navire pour le déplacer.
    Longueur de la chaîne filée en mouillant une ancre. Par extension : longueur d’une certaine importance d’un câble filé ou d’un chemin à parcourir.

    #Touline :
    Petite remorque et plus généralement lance-amarre.

    #Tourner :
    Une manoeuvre : lui faire faire un nombre de tours suffisant autour d’un point fixe pour l’empêcher de filer ou de lâcher.

    #Traîne :
    Tout objet que l’on file à l’arrière d’un navire à l’aide d’un bout de filin.
    A la traîne : un objet est à la traîne lorsqu’il n’est pas placé à la place qui lui est assignée.

    #Transfiler :
    – Deux morceaux de toile : les rapprocher bord à bord au moyen d’un bout de ligne passant alternativement des oeillets pratiqués dans l’un dans ceux pratiqués dans l’autre.
    – Une voile : la fixer à sa vergue, gui ou corne au moyen d’un filin nommé transfilage et passant d’un oeillet à l’autre en embrassant la vergue, le gui, la corne.

    #Traversier :
    Amarre appelant d’une direction perpendiculaire à l’axe longitudinal.
    Un vent traversier est un vent bon pour aller d’un port à un autre et pour un revenir.

    #Trou_d_homme :
    Ouverture elliptique d’un double fond ou d’un ballast.

    #Tunnel :
    Conduit en tôlerie de dimensions suffisantes pour permettre le passage d’un homme et à l’intérieur duquel se trouve une ligne d’arbres entre la chambre des machines et la cloison de presse-étoupe AR.

    V
    #Va_et_vient :
    Cordage en double servant à établir une communication entre deux navires ou entre un navire et la côte, notamment pour opérer le sauvetage des naufragés.

    #Vadrouille :
    Bouts de cordage défaits, serrés sur un manche et servant au nettoyage. Faubert emmanché.

    #Vague_satellite :
    Soulèvement de la mer produit par le mouvement du navire en marche.

    #Varangue :
    La varangue est la pièce à deux branches formant la partie inférieure d’un couple et placées à cheval sur la quille. La varangue est prolongée par des allonges. Tôle placée verticalement et transversalement d’un bouchain à l’autre pour consolider le petit fond du navire.

    #Vase :
    Terre grasse, noirâtre, gluante. La vase peut être molle, dure mêlée ; elle présente généralement une bonne tenue.

    #Veille (ancre de) :
    Ancre prête à être mouillée.

    #Veiller :
    Faire attention, surveiller. Veiller l’écoute : se tenir prêt à la larguer, à la filer. Veiller au grain : l’observer, le suivre.

    #Vélique :
    Point vélique = centre de voilure de toutes les voiles.

    #Ventre :
    La partie centrale d’un bâtiment surtout lorsque ses couples sont très arrondis.

    #Verine :
    Bout de filin terminé par un croc ou une griffe et dont on fait usage en simple ou en double pour manier les chaînes des ancres.

    #Videlle :
    Reprise faite à un accroc dans une toile.

    #Virer :
    Exercer un effort sur un cordage ou sur une chaîne par enroulement sur un treuil, guindeau ou cabestan.
    – Virer à pic : virer suffisamment le câble ou la chaîne pour amener l’étrave du navire à la verticale de l’ancre.
    – Virer à long pic : virer en laissant la chaîne un peu plus longue que la profondeur de l’eau.

    #Virer_de_l_avant :
    faire avancer un navire en embraquant ses amarres de l’avant au cabestan ou au guindeau.
    – Virer sur la chaîne : rentrer une partie de la chaîne en se servant du cabestan ou du guindeau.
    – Virer de bord : changer les amures des voiles.

    #Vit_de_nulet ou #Vi_de_mulet :
    Tige de métal articulée fixée à une vergue, à un gui, à un mât de charge pour le relier au mât qui porte une douille. Employé en particulier pour les mâts de charge.

    #Vitesse :
    L’unité marine de vitesse est le noeud qui représente un mille marin (1852 mètres) à l’heure. Ne jamais dire un noeud à l’heure.

    #Vive-eau :
    Grande marée.

    #Voie_d_eau :
    Fissure ou ouverture accidentelle dans des oeuvres vives.

    W
    #Wharf :
    Littéralement quai, plus spécialement pour désigner un appontement qui s’avance dans la mer au-delà de la barre sur la côte occidentale d’Afrique.

    Y
    #Youyou :
    Très petite embarcation de service à l’aviron et à la voile.

  • ★ Refusons l’institution militaire - Le Libertaire GLJD

    C’est surtout en période de paix que l’on peut faire entendre une voix pacifiste. En temps de mobilisation, l’irrationnel prend le dessus. Pourquoi se mobiliser contre l’armée aujourd’hui encore ?

    Parce que l’armée est une institution qui participe à l’oppression des individus tout comme l’autre usine capitaliste, la famille patriarcale et les différentes drogues religieuses. C’est de plus un Etat dans l’Etat. Il suffit de regarder les crédits qui lui sont alloués et ce depuis plus de cent ans.

    L’armée, c’est la robotisation des personnes : gauche-droite ; en avant, marche ! Et nous autres libertaires, nous n’aimons pas marcher au pas, en cadence. Ni se faire commander par des férus d’autorité qui souvent ne réfléchissent pas plus loin que la visière de leur képi.

    A l’armée, il n’y a de la place que pour l’obéissance, pas pour l’intelligence et encore moins pour l’amour. D’autre part, le comportement militaire, viriliste par essence, ne peut faire bon ménage avec le féminisme. Mais l’armée n’est pas qu’un enfermement ; lorsqu’elle se met en branle, elle se révèle redoutable pour la santé physique et morale des populations. Le nationalisme exacerbé, le chauvinisme, la haine du cégétiste et de l’anarchiste, le mépris de l’étranger…ça peut faire des ravages. Nous avons vu l’armée intervenir pour briser des grèves (lors de la grève générale en 1953, déjà pour une réforme des retraites…), pour maintenir en place des chefs d’Etat en Afrique ou contrer éventuellement l’ennemi intérieur (…)

    🏴 #Anarchisme #Antimilitarisme #Anticapitalisme #Féminisme #émancipation #internationalisme #Liberté #Paix
    ⚡️ #armée #militarisme #aliénation #soumission #SNU #virilisme #nationalisme #autoritarisme #Cronstadt #Makhno #Trotsky #armement #guerre...

    ⏩ Lire l’article complet…

    ▶️ https://le-libertaire.net/non-au-snu-antimilitarisme-2

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  • Un drone militaire américain piloté par une #IA se retourne contre sa tour de contrôle lors d’une simulation
    https://www.radiofrance.fr/franceinter/un-drone-militaire-americain-pilote-par-de-une-ia-se-retourne-contre-sa-

    Pendant un test #virtuel mené par l’armée américaine, un #drone d’attaque contrôlé par une #intelligence_artificielle a décidé de se retourner contre ses donneurs d’ordre afin d’arriver à son objectif final. L’armée de l’air américaine dément avoir réalisé ce test.

  • Ouvrir le code des #algorithmes ? — oui, mais… (2/2)
    https://framablog.org/2023/05/22/ouvrir-le-code-des-algorithmes-oui-mais-2-2

    Voici le deuxième volet (si vous avez raté le premier) de l’enquête approfondie d’Hubert Guillaud sur l’exploration des algorithmes, et de son analyse des enjeux qui en découlent. Dans le code source de l’amplification algorithmique : que voulons-nous vraiment savoir ? par … Lire la suite­­

    #Enjeux_du_numérique #amplificaton #engagement #Facebook #Instagram #Narayan #portée #recommandation #TikTok #Twitter #viralité

  • Kommentar : Unterirdische Kubernetes-Qualität – Containerland ist abgebrannt
    https://www.heise.de/meinung/Kommentar-Unterirdische-Kubernetes-Qualitaet-Containerland-ist-abgebrannt-8990

    Un averissement contre les dangers de Kubernetes

    8.5.2023 von Martin Gerhard Loschwitz - Waren Sie in den letzten Jahren mal auf einer IT-Messe oder hatten Sie Vertreter von Red Hat, Suse & Co. im Haus, die Sie über die neuesten Trends der Branche informiert haben? Falls ja, werden Sie ein Wort penetrant gehört haben: Kubernetes. Kaum ein Tag vergeht derzeit, an dem nicht irgendein Start-up irgendein neues Produkt auf den Markt wirft, das Kubernetes noch besser, noch stabiler und noch vielseitiger machen soll.

    Gleich vorab: Natürlich hat das maßgeblich von Docker etablierte Prinzip der Container unter Linux seine Vorzüge. Und wer Cloud-native Anwendungen im Flottenverbund steuern möchte, braucht dafür nolens volens einen Flottenorchestrierer. Doch rechtfertigt die Qualität von Kubernetes, dessen Entwicklungsgeschichte einst bei Google begann und das mittlerweile mit viel finanziellem Bumms und sogar einer eigenen Stiftung ausgestattet ist, nicht den Hype. Denn Administratoren, die mit Kubernetes produktiv arbeiten wollen oder müssen, merken sehr schnell: Technisch steht Kubernetes viel zu oft mit heruntergelassener Hose da.

    Kein Spaß mit Versionen

    Das geht mit vermeintlichen Kleinigkeiten los. Das Semiotic Versioning, kurz SemVer, gilt in der Open-Source-Szene heute als De-facto-Standard für Versionsschemata. SemVer macht klare Vorgaben hinsichtlich der Versionsnummern, die für neue Versionen von Software zu nutzen sind. Grundsätzlich bestehen Versionsnummern nach SemVer aus drei Teilen: Major-Releases ändern demnach die erste Zahl der Version, sie sind durch API-Änderungen gekennzeichnet, die mit der bisherigen Implementierung des Programms inkompatibel sind. Minor-Releases führen neue Funktionen ein, behalten aber die Kompatibilität zur API des Vorgängers bei. Bugfix- oder Patch-Releases ändern den dritten Teil der Versionsnummer.

    Wer mit dieser Erwartungshaltung allerdings an die Kubernetes-Verwaltung herangeht, erlebt früher oder später unweigerlich sein blaues Wunder – denn Kubernetes kocht lieber sein eigenes Süppchen und pfeift auf den SemVer-Standard. Bei Reddit hat man das auf die harte Tour gelernt: Hier nahm das vermeintliche Minor-Update von Kubernetes 1.23 auf Kubernetes 1.24 die Plattform für mehrere Stunden offline. Ursache: Aus der Bezeichnung master in einer URL war in der API von Kubernetes zwischenzeitlich control-plane geworden, die Version 1.24 hatte die Unterstützung für die alte Variante ersatzlos gestrichen.

    „Schade, Schokolade“, könnte man denken, sowas kommt eben vor. Doch lässt der Vorfall nicht nur den Rückschluss zu, dass Kubernetes ein Problem mit seinem Versionsschema hat. Stattdessen tritt hier ein tiefgreifendes Qualitätsproblem hinsichtlich der Architektur der Software offen zutage, das Kubernetes in Sachen Benutzung ebenso behindert wie in Sachen Entwicklung. Und das, was Reddit erlebt hat, ist beileibe kein Einzelfall.

    Das merkt man schnell, wenn man sich mit der Software auch nur innerhalb der Demo-Szenarien befasst, die deren eigene Dokumentation vorgibt. Auf dem Papier ist die Einrichtung von Kubernetes trivial. Das liegt unter anderem daran, dass Kubernetes den größten Teil der von ihm benötigten Software selbst ausrollt und steuert. Wer so vorgeht und der Anleitung Schritt für Schritt folgt, sollte am Ende also einen funktionierenden Cluster haben. Doof nur: Selbst in einer Laborumgebung aus frischen VMs mit funktionalem Netz und funktionalem Storage lässt sich eben dieses Setup nicht mit absoluter Zuverlässigkeit reproduzieren. Regelmäßig verweigert etwa CoreDNS den Dienst. Der kümmert sich in Kubernetes um die interne Auflösung von DNS-Namen, von denen der Container-Orchestrierer ebenso wie Drittanbieterlösungen zum Teil exzessiven Gebrauch macht. Warum die CoreDNS-Pods – so heißt im Kubernetes-Sprech der Verbund aus einem oder mehreren zusammenhängenden Containern – nicht funktionieren, ist dabei kaum sinnvoll herauszufinden. Ihr Neustart sorgt aber dafür, dass der Dienst auf gar wundersame Art und Weise von den Toten wiederaufersteht. Vertrauenerweckend ist das nicht.

    Und die Liste der Kubernetes-Probleme ließe sich an dieser Stelle beliebig fortsetzen. So setzt Kubernetes ähnlich wie der Linux-Kernel auf Namespaces, um Ressourcen logisch voneinander zu trennen. Namespaces lassen sich löschen – und laut Lehrbuch führt das eigentlich dazu, dass auch die zum Namespace gehörenden Ressourcen ihren Weg in die ewigen Jagdgründe antreten. Genau das funktioniert aber nicht konsistent. Im schlimmsten Fall führt das Löschen eines Namespaces dazu, dass ein paar von dessen Ressourcen als Zombies übrig bleiben, aber über die Namespace-API nicht mehr erreichbar sind. Dann pult der Administrator irgendwelche obskuren kubectl-Befehle aus Google oder muss gleich mit curl und einem per REST-API injiziertem JSON-Snippet anrücken, um Kubernetes in einen funktionalen Zustand zurückzuversetzen. Schlimmer noch: Zum Teil ist gar nicht definiert, wie Kubernetes mit widersprüchlichen Anweisungen umgehen soll. Was etwa mit PVCs – Persistent Volume Claims, also alloziertem Blockspeicher von Instanzen – geschehen soll, deren Reclaim-Policy zwar auf Retain – also Behalten – steht, deren Namespace jedoch gelöscht wird, hat mehr mit Roulette gemein als mit zuverlässiger Systemadministration.

    Widewidewitt, denkt sich Kubernetes, und macht sich die Welt, wie sie ihm gefällt. Dasselbe gilt für nicht wenige Kubernetes-Entwickler: Im Bug-Tracker des Tools finden sich mittlerweile zahllose Einträge, in denen Anwender von inkonsistentem und fehlerhaftem Verhalten berichten, ohne die Ursache dafür ausfindig gemacht zu haben. Fast schon eine Standardantwort ist dann, dass man das Deployment der Anwendung oder am besten gleich das ganze Kubernetes wegwerfen und neu ausrollen soll, weil das Problem dann vermutlich verschwinde. Administratoren nützt dieser Ansatz allerdings nichts, denn sie haben so schlicht keine Möglichkeit, Software zuverlässig auszurollen und zu betreiben.

    Man hätte es wissen können

    Wenn die Vertreter der Hersteller weg sind, ist der Alltag eines Kubernetes-Administrators am Ende regelmäßig ein Kampf gegen zum Teil absurde Qualitätsmängel der Software. Die zahllosen Werkzeuge, Aufbauten, Erweiterungen und Integrationen in andere Dienste, mit denen seriöse Firmen ebenso wie Glücksritter aktuell ein Stück des Kubernetes-Kuchens zu ergattern versuchen, helfen da auch nicht weiter – zumal deren Qualität oft vergleichbar unterirdisch ist. Ein erquicklicher Anteil der Probleme, die Kubernetes heute beuteln, sind architektonischen Ursprungs. Das Argument, man habe es eben nicht besser gewusst, zieht dabei nicht: Verteilte Systeme sind zwar komplex – Kubernetes war aber nicht die erste Software, die diese Probleme lösen musste.

    Ein paar Jahre zuvor erst lief man bei OpenStack in viele derselben Probleme, mit denen auch Kubernetes sich herumschlägt. Einige Entwickler aus dem Kubernetes-Universum indes, zum Teil selbst einst in OpenStack aktiv, hielten die OpenStack-Macher für eine Bande ausgemachter Idioten. Deren Warnungen stießen deshalb meist auf taube Ohren – sogar dann, wenn man bei OpenStack Ansätze in Kubernetes kritisierte, weil man sie selbst vor Jahren ausprobiert hatte und damit auf die Nase geflogen war. Fakt ist: Dienste wie OpenStack Heat für Orchestrierung innerhalb der Cloud oder Nova, das virtuelle Instanzen verwaltet, hatten gerade anfangs mit ähnlichen Konsistenzproblemen zu kämpfen wie Kubernetes heute. Sic transit gloria mundi: Auch wenn es kaum noch jemanden interessiert – mittlerweile hat OpenStack diese Probleme praktisch komplett im Griff.

    Kubernetes nicht. Es wäre aktuell insofern ein guter Zeitpunkt für die Kubernetes-Community, innezuhalten und sich den drängendsten Architektur- und Konsistenzproblemen zu widmen, statt weiter an der Feature-Schraube zu drehen. Zweifelsohne ist Kubernetes bis hierhin eine – vor allem kommerzielle – Erfolgsgeschichte. Soll das Werkzeug sich aber dauerhaft am Markt etablieren und erfolgreich bleiben, muss es zuverlässiger, stabiler und ganz allgemein besser werden. Dass Container gekommen sind, um zu bleiben, ist mittlerweile unstrittig. Dass Kubernetes bleibt, nicht so sehr.

    Martin Gerhard Loschwitz ist freier Journalist und beackert regelmäßig Themen wie OpenStack, Kubernetes und Ceph.

    #logiciels #virtualisation #cloud

  • Marc Van Ranst « entarté » ce dimanche avant une conférence à Bruges

    Mésaventure pour le virologue Marc Van Ranst ce dimanche matin.

    « Ce matin, j’ai eu cinq minutes de retard lors d’une conférence à Bruges sur les pandémies à l’occasion de la Journée du patrimoine car un « brave guerrier » m’a déposé une tarte à la crème sur le visage… », explique Van Ranst, photos à l’appui
    . . . .

    #gloupGloup #virolog #covidisme #épidémiologiste #faciste #marc_van_ranst #mckinsey #mac_kinsey #mckinseygate #corruption #incompétence #privatisation #cabinets_de_conseil #consulting #covid-19 #politique

  • Million-year-old viruses help fight #cancer, say scientists - BBC News
    https://www.bbc.com/news/health-65266256

    The researchers had noticed a connection between better survival from lung cancer and a part of the immune system, called B-cells, clustering around tumours.

    […] B-cells are the part of our body that manufactures antibodies and are better known for their role in fighting off infections, such as Covid.

    Precisely what they were doing in lung cancer was a mystery but a series of intricate experiments using samples from patients and animal tests showed they were still attempting to fight viruses.

    “It turned out that the antibodies are recognising remnants of what’s termed endogenous retroviruses,” Prof Julian Downward, an associate research director at the Francis Crick Institute, told me.

    Retroviruses have the nifty trick of slipping a copy of their genetic instructions inside our own.

    – More than 8% of what we think of as “human” DNA actually has such viral origins
    – Some of these retroviruses became a fixture of our genetic code tens of millions of years ago and are shared with our evolutionary relatives, the great apes
    – Other retroviruses may have entered our DNA a few thousand years ago

    Some of these foreign instructions have, over time, been co-opted and serve useful purposes inside our cells, but others are tightly controlled to stop them spreading.

    However, chaos dominates inside a cancerous cell when it is growing uncontrollably and the once tight control of these ancient viruses is lost.

    These ancient genetic instructions are no longer able to resurrect whole viruses but they can create fragments of viruses that are enough for the immune system to spot a viral threat.

    “The immune system is tricked into believing that the tumour cells are infected and it tries to eliminate the virus, so it’s sort of an alarm system,” Prof George Kassiotis, head of retroviral immunology at the biomedical research centre, told me.

    #virus #gènes

  • #Hellfest : « l’Enfer » du décor

    https://www.francebleu.fr/infos/faits-divers-justice/a-nantes-le-hellfest-devant-les-prud-hommes-pour-harcelement-6476040

    Une ancienne stagiaire du Hellfest attaque aux prud’hommes l’association à la tête du festival de métal, Hellfest Productions. La jeune femme de 31 ans, dénonce des faits de harcèlement moral et sexuel. Une audience prévue à Nantes (Loire-Atlantique) ce mardi 28 mars.
    [...]
    Et le problème ne vient pas que d’un seul salarié du festival, pointe son avocate, Me Marie-Océane Gelly. « On est vraiment sur une forme de harcèlement d’ambiance », estime-t-elle, institutionnalisé dans le cadre de relations de travail, « et le code du travail s’applique ».

    #harcèlement #code_du_travail #sexisme #virilisme

  • #Suisse Moins convaincant, le télétravail disparaît peu à peu des entreprises RTS - Sylvie Belzer - Julie Marty

    L’engouement pour le télétravail est en train de retomber. Aux Etats-Unis, certaines entreprises ont même déjà sonné le rappel des troupes au bureau. La tendance se vérifie aussi en Suisse.

    Le nouveau patron de Disney a demandé à ses employés d’être présents sur site du lundi au jeudi. Idem chez Twitter ou chez d’autres géants de la technologie.

    Du côté des différentes associations faîtières, les retours sont tous les mêmes. Le virtuel a perdu de son attrait, confirme Olivia Guyot Unger, directrice du service juridique à la Fédération des entreprises romandes, lundi dans La Matinale : « Ce mode de travail relativement nouveau fait l’objet d’une lassitude aussi bien du côté des employeurs que des employés. »

    Manque de contacts humains
    Cette manière de travailler raréfie les contacts humains et les échanges. Pourtant, ces interactions sont essentielles. Philippe Cordonier, responsable romand de Swissmem, la faîtière de l’industrie des machines, ne s’en cache pas, le présentiel favorise ces interactions.

    « On constate que, dans ce contexte de retour à la normale que nous connaissons actuellement, de nombreux collaborateurs et entreprises souhaitent moins de télétravail. On peut dire en général un jour par semaine pour autant que ce soit possible. Pour les entreprises et les collaborateurs, les échanges entre collègues sont importants et nécessaires. C’est une valeur ajoutée indispensable à la vie d’une entreprise. C’est pour ça que ce retour à une certaine normalité avec des contacts inter-entreprise est important pour les deux parties », relève-t-il.

    Le consensus qui commence à se dégager limite le télétravail à un jour par semaine. C’est assez pour permettre une certaine flexibilité sans nuire à la créativité et à la bonne cohésion de l’équipe.

    Source : https://www.rts.ch/info/suisse/13854960-moins-convaincant-le-teletravail-disparait-peu-a-peu-des-entreprises.ht

    #télétravail #fumisterie #travail #rendement #surveillance #algorithme #gigeconomy #virtuel #visioconférence #microsoft #inégalités #technologisme #économie #capitalisme #lien_social

  • Hardi, compagnons ! (Clara Schildknecht) // Les éditions Libertalia
    https://www.editionslibertalia.com/catalogue/poche/hardi-compagnons

    Masculinités et virilité anarchistes à la Belle Époque

    Cet ouvrage aborde d’une façon novatrice, par le prisme de la domination de genre, un sujet d’études déjà défriché par les historien·nes : la constellation anarchiste française, dans ses diverses composantes (syndicalistes, illégalistes, milieux libres), entre 1871 et 1920.
    On y croise Ravachol et la bande à Bonnot, Émile Pouget, Louise Michel, Rirette Maîtrejean, Vigo, Libertad, Madeleine Pelletier, Germaine Berton, E. Armand, Henriette Roussel...
    L’autrice analyse le rapport à la violence souvent héroïsée et s’interroge sur la glorification virile, l’homophobie et la phraséologie misogyne qui avaient trait dans le milieu. Elle aborde la réappropriation des marqueurs de virilité par certaines militantes, le paraître libertaire, les tentatives d’égalité. Ce faisant, elle propose une relecture stimulante et passionnante de ces années charnières.

    Clara Schildknecht est enseignante. Ce livre est issu d’un M2 soutenu au Centre d’histoire du XIXe siècle de l’université Paris 1 Panthéon-Sorbonne.

    Je n’ai pas lu mais le sujet me semble très intéressant (dans ma liste).

    • Venant juste de terminer la lecture de ce livre, je propose cette #recension.

      De l’antiféminisme légendaire de Proudhon jusqu’aux remous provoqués par l’onde de choc MeToo dans les mouvements les plus radicaux, la « masculinité et virilité anarchiste », loin de ne constituer qu’un sujet d’étude abstrait, est une constante qui traverse l’histoire du mouvement libertaire.

      La critique de l’anarchisme « réellement existant ou ayant existé », si l’on peut dire, sous l’angle de son contenu intrinsèquement masculiniste, semble une approche des plus stimulantes. Cela devrait contribuer à débarrasser les fondamentaux libertaires de l’une de ses scories récurrentes, parmi les plus pénibles.

      L’étude de Clara Schildknecht, Hardi Compagnons ! ne concerne que la période dite de « la Belle époque ». Il s’agit, dans l’histoire du mouvement anarchiste français, d’une séquence historique importante.

      C’est à cette période que se sont constituées les différentes tendances, dans la continuité du collectivisme antiautoritaire de la première internationale : communistes libertaires, auteurs d’attentats (propagande par le fait), syndicalistes révolutionnaire et individualistes.

      Quelle que soit la tendance, on glorifie le rôle strictement masculin du « compagnon » anarchiste, lequel, par son tempérament viril sera supposé être le plus à même de provoquer le salut révolutionnaire.

      La place qu’occupent les femmes, de façon générale, dans la vie des anarchistes est des plus accessoires. On s’adresse, par exemple, aux mères, nécessairement cantonnées au rôle de l’éducation des enfants, pour les convaincre des bienfaits de la propagande antimilitariste. On est loin des audaces radicales, réellement émancipatrices, de Fransisco Ferrer.

      Les théorises anarchistes de cette époque comportent parfois une critique des instituions patriarcales et religieuses telles que le mariage ou des rôles assignés aux femmes dans la procréation, notamment dans les théories néomalthusiennes. Il n’en reste pas moins que la critique est formulée de façon ultra majoritaire par des hommes. Il n’est pas question de remettre en cause la place occupée par les femmes dans la société en tant qu’opprimées ni même d’envisager que puisse exister l’expression autonome de cette dénonciation par les femmes elles-mêmes.

      Les « compagnes », dans les communautés individualistes, sont considérées le plus souvent comme faire-valoir de « l’amour libre ». Si on leur reconnaît le droit à ne pas limiter leur sexualité à un seul partenaire c’est aussi pour que les hommes puissent mieux en profiter.

      L’autrice montre que les représentations dominantes de l’époque, en matière de discrimination de genre, sont bien inscrites dans les esprits, fussent-ils anarchistes.

      Lorsque certaines femmes accèdent au statut reconnu par la société d’anarchiste à part entière, c’est pour mieux en faire des sortes de créatures extraordinaires, à la fois fascinantes et repoussantes. Ces femmes anarchistes sont probablement alors perçues comme étant encore plus mystérieuses que leur alter ego masculins, tel Ravachol qui s’efforce, notamment lors de son procès, de présenter toutes les marques de virilité – courage et absence de peur - pour affirmer sa défiance et son opposition à l’autorité de l’État.

      Quand Louise Michel ou Henriette Roussel revendiquent l’usage de la violence révolutionnaire, elles sont systématiquement renvoyées, dans la représentation de l’époque, à leur supposée laideur physique. Bien entendu, les anarchistes ne reprennent pas à leur compte ces stéréotypes dégradants mais ils n’échappent pas aux représentations de l’être extraordinaire au sens propre du terme, parce que femme et s’exprimant par la violence, en tant que révolutionnaire anarchiste.
      Remarque personnelle : on peut considérer qu’il s’agit de représentations profondes et tenaces qui se sont manifestées notamment lors de l’enterrement de notre brave Louise Miche, femme du peuple, et qui lui vaudront le statut d’icône quasi-religieux dont elle fait l’objet, encore aujourd’hui, dans les milieux libertaires.

      L’autrice nous révèle qu’il n’y a visiblement pas pire injure dans le mouvement anarchiste de l’époque (et probablement la classe ouvrière) que celle, déjà en usage de « tante » ou de « tapette ». Miguel Almeyreda, par exemple, en fera les frais. On moquera sa tendance à porter de beaux habits, histoire de lui reprocher, de façon détournée, son ralliement à Gustave Hervé.

      Enfin, il est rappelé que les revendications féministes, le plus souvent, ravalées sous le sobriquet méprisant de « suffragettes » sont alors majoritairement considérées, dans les milieux anarchistes, comme des fantaisies réformistes.

      Considérant que l’anarchisme est partie constitutive du mouvement ouvrier, il serait probablement erroné de considérer qu’à la même époque, l’idéologie masculiniste et misogyne ne s’exprimait pas de façon tout aussi caricaturale dans les autres tendances socialistes de l’époque. Une étude plus générale, si elle n’existe pas déjà, serait fort utile pour évaluer cette hypothèse.

      Voilà, en tout cas, qui devrait nous interroger sur le fait que, dans 100 ans, s’il y a encore du monde sur cette planète en mesure de formuler des critiques sociales, on mettra certainement en exergue tout un tas d’aberrations et contradictions idéologiques, alors insoupçonnées, mais portées par les mouvements radicaux de ce début du 21e siècle.

      #Clara_Schildknecht #Hardi_compagnon #anarchisme #virilisme #virilité #masculinité #sexisme #critique_sociale #féminisme #syndicalisme_révolutionnaire #individualisme

  • Isha, Vîrus, Aurore Vincenti et la magie des mots - Discussion - Abcdr du Son
    https://www.abcdrduson.com/interviews/discussion/isha-virus-aurore-vincenti

    Glorification, déformation, esthétisation ou négation : la langue est un matériau très riche pour la création artistique. Dans cette discussion, Isha, Vîrus et la linguiste Aurore Vincenti évoquent l’écriture et les langages dans le rap.

    #langue #écriture #rap #poésie #Vîrus #Isha #Aurore_Vincenti