• Pochi rifugiati nei centri e il voto anti-immigrazione cala

    La presenza di centri di accoglienza piccoli e diffusi riduce il voto per i partiti anti-immigrazione. Mentre se i centri sono di grandi dimensioni i consensi verso queste formazioni aumentano. Lo mostrano i risultati di due studi per Italia e Francia.

    Accoglienza e voto anti-immigrazione

    È opinione diffusa che la crisi europea dei migranti, iniziata tra il 2014 e il 2015, sia stata uno dei principali fattori alla base del recente successo dei partiti anti-immigrazione in molti paesi europei. Ma davvero accogliere rifugiati e richiedenti asilo fa aumentare sempre e comunque il voto per quei partiti? La letteratura economica sul tema ha prodotto risultati contrastanti: alcuni studi hanno trovato una relazione positiva (https://academic.oup.com/restud/article/86/5/2035/5112970) tra l’arrivo dei rifugiati e il voto anti-immigrazione (https://www.mitpressjournals.org/doi/abs/10.1162/rest_a_00922?mobileUi=0), e altri una relazione negativa.

    Due nostri recenti studi con dati sui comuni italiani (https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3277550) e francesi (https://immigrationlab.org/working-paper-series/dismantling-jungle-migrant-relocation-extreme-voting-france) suggeriscono che la risposta alla domanda è “dipende”. Un’accoglienza sviluppata attraverso centri piccoli e diffusi riduce il consenso per i partiti ostili all’arrivo dei migranti. Al contrario, centri di accoglienza eccessivamente grandi portano a un incremento del voto anti-immigrazione.

    In sostanza, se interpretiamo il voto anti-immigrazione come una misura del pregiudizio dei nativi verso i migranti, i nostri studi indicano che, per costruire un sistema di accoglienza che non generi diffidenza nella popolazione nativa, i governi dovrebbero cercare di ridistribuire i rifugiati e i richiedenti asilo in modo più omogeneo e attraverso l’apertura di piccoli centri di accoglienza.

    Cosa succede in Italia

    Il nostro primo studio si concentra sull’Italia. Negli anni della crisi dei rifugiati, il paese ha vissuto un aumento significativo nel numero di sbarchi e di richieste di asilo e allo stesso tempo un aumento del sostegno politico ai partiti anti-immigrazione, come per esempio la Lega guidata da Matteo Salvini.

    La nostra ricerca prende in esame l’apertura di centri di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo attraverso il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar, rinominato Siproimi a partire dalla fine del 2018), uno dei più importanti programmi di accoglienza in Italia (l’altro rilevante canale di accoglienza sono i “centri di accoglienza straordinaria”, Cas, oggi la tipologia più utilizzata).

    Nel programma Sprar, sono i comuni a gestire direttamente i centri di accoglienza, che mirano a integrare i rifugiati nella comunità locale, per esempio attraverso corsi di lingua e formazione professionale. Spesso poi i comuni impiegano i migranti in lavori di pubblica utilità. Quindi, i centri Sprar offrono la possibilità di una interazione e di un contatto diretto tra i rifugiati e la popolazione locale.

    Per tenere conto delle possibili differenze esistenti tra comuni che decidono di aprire un centro Sprar e comuni che non lo fanno – e così ottenere una stima causale dell’effetto dei centri accoglienza sul voto anti-immigrazione – utilizziamo la tecnica delle variabili strumentali (instrumental variables, IV). Abbiamo codificato come partiti anti-immigrazione Lega, Fratelli d’Italia, Casa Pound, La Destra, Forza Nuova, Fiamma Tricolore, Rifondazione Missina. Seguendo l’esempio di un altro studio sviluppato con dati sui comuni austriaci (https://www.mitpressjournals.org/doi/abs/10.1162/rest_a_00922?mobileUi=0), utilizziamo la presenza nel territorio comunale di edifici adatti a ospitare gruppi di persone e centri collettivi per predire l’apertura di un centro Sprar in un determinato comune. Infatti, come suggerito dalla figura 1, dai dati emerge una forte correlazione positiva tra la presenza di edifici di questo tipo e la presenza di uno Sprar a livello comunale.

    L’utilizzo di questa tecnica ci permette di interpretare i risultati della nostra analisi in termini causali.

    I nostri risultati mostrano come ospitare i rifugiati influisca negativamente sul voto per i partiti anti-immigrazione. Più nel dettaglio, i comuni che hanno aperto un centro Sprar tra le elezioni politiche del 2013 e quelle del 2018 hanno registrato un incremento nelle percentuali di voto per i partiti ostili ai migranti di circa 7 punti percentuali inferiore rispetto ai comuni che non ne hanno aperti. Allo stesso tempo, l’apertura dei centri Sprar ha portato benefici elettorali principalmente a partiti politici che si trovano più al centro dello spettro politico italiano, come il Partito democratico.

    Il ruolo della dimensione dei centri accoglienza

    Uno degli aspetti fondamentali del nostro studio è mostrare come la dimensione dei centri di accoglienza giochi un ruolo cruciale. Come si vede nella figura 2, l’effetto negativo sul voto anti-immigrazione è maggiore per centri Sprar con un basso numero di posti a disposizione per rifugiati e richiedenti asilo. In particolare, la nostra analisi indica che l’effetto negativo si verifica con centri di accoglienza che hanno in media meno di 28 posti ogni mille abitanti. Al contrario, nei comuni con centri Sprar con un numero di posti mediamente superiore a questa soglia si è registrato un incremento nel sostegno elettorale ai partiti anti-immigrazione.

    Cosa succede in Francia

    I risultati sono confermati anche dal nostro secondo studio, che analizza l’effetto sul voto al Front National di Marine Le Pen della ridistribuzione dei migranti, avvenuta in Francia dopo lo smantellamento dell’accampamento di rifugiati e migranti situato nelle vicinanze di Calais (la cosiddetta “Giungla”). Sfruttando il fatto che la ridistribuzione in diversi comuni francesi è avvenuta negli anni tra le due elezioni presidenziali del 2012 e del 2017, il nostro lavoro mostra come l’apertura di centri di accoglienza e orientamento (Centres d’accueil et d’orientation, Cao) di dimensioni contenute abbia avuto un impatto negativo sulla crescita dei voti ottenuti dal Front National. Coerentemente con quanto mostrato nella figura 2, l’effetto sul voto anti-immigrazione diventa positivo quando le dimensioni dei Cao oltrepassano in media la soglia di 32 migranti ospitati ogni mille abitanti.

    Centri di accoglienza piccoli potrebbero dunque aver incoraggiato il contatto diretto tra nativi e rifugiati, causando una riduzione del pregiudizio verso i migranti, in linea con la “#Contact_hypothesis” (https://en.wikipedia.org/wiki/Contact_hypothesis). Al contrario, i risultati relativi ai centri grandi sono coerenti con la “#Realistic_conflict theory” (https://en.wikipedia.org/wiki/Realistic_conflict_theory), che_suggerisce come i nativi possano percepire un gruppo grande di migranti come una minaccia per il loro predominio culturale e socio-economico.

    https://www.lavoce.info/archives/71137/pochi-rifugiati-nei-centri-e-il-voto-anti-immigrazione-cala

    #accueil_diffus #asile #migrations #réfugiés #centres #dimensions #consensus #sprar #italie #France #accueil #anti-migrants #vote #préjugés #menace #rencontre #extrême_droite

  • Amazon’s Halo Band wearable tracks your voice and body fat, but isn’t helpful
    https://www.washingtonpost.com/technology/2020/12/10/amazon-halo-band-review

    The Halo Band asks you to strip down and strap on a microphone so that it can make 3-D scans of your body fat and monitor your tone of voice. After all that, it still isn’t very helpful. Amazon has a new health-tracking bracelet with a microphone and an app that tells you everything that’s wrong with you. You haven’t exercised or slept enough, reports Amazon’s $65 Halo Band. Your body has too much fat, the Halo’s app shows in a 3-D rendering of your near-naked body. And even : Your tone of (...)

    #Apple #Fitbit #Amazon #bracelet #montre #biométrie #température #données #sexisme #pouls #profiling #santé #sommeil (...)

    ##santé ##voix

  • Affaire DSK : Chambre 2806, une démonstration implacable de la culture du viol à la française - Marie Claire
    https://www.marieclaire.fr/affaire-dsk-documentaire-chambre-2806-netflix-critique,1365718.asp

    Près de dix ans plus tard, cette rhétorique est encore ancrée chez plusieurs de ses proches ou anciens proches, interrogés dans Chambre 2806. On sent chez certains un regret de ce qui aurait pu avoir lieu, si l’Histoire avait été différente. Et des convictions qui n’ont pas été ébranlées par le mouvement #MeToo.

    La rhétorique n’a pas bougé : ils présentent DSK comme un « séducteur » dont « l’amour des femmes » était « connu de tous ». Les clichés typiques de la culture du viol s’enchaînent dans un bingo de l’horreur, confondant violences sexuelles et moeurs libertines, viol et sexualité.

    (...)

    « L’amour n’est pas un complot du diable. L’amour appartient aux être humains. [Dominique Strauss-Kahn, ndr] est peut-être plus spécialement porté vers les choses de l’amour. Et alors ? Et alors ? Un président de la République doit-il être un homme sans sensualité ? », demande ainsi face caméra #Jack_Lang, en souriant.

  • Ruban de Möbius : La zone comme espace affranchi des lieux et du temps
    http://liminaire.fr/liminaire/article/ruban-de-mobius-la-zone-comme-espace-affranchi-des-lieux-et-du-temps

    Le colloque international La route et ses bas-côtés (imaginaire des lieux autoroutiers liminaires) qui devait avoir lieu en avril 2020 à l’Université de #Montréal, a finalement lieu en ligne les 10 et 11 décembre 2020. En mai 2012, pour répondre à l’appel de textes de création autour d’un trajet, réel ou fabulé « Vers Québec », j’avais écrit à l’époque Ruban de Möbius, élaboré à partir de Google Street View, un texte qui s’interrogeait sur l’étrangeté de ces espaces et l’impression de déjà-vu qu’ils laissent en (...) #Liminaire / #Architecture, #Écriture, #Vidéo, #Langage, #Voix, Montréal, #Paris, #Paysage, #Ville, #Dérive, #Regard, #Voyage, #Ciel, (...)

    #Mémoire

    https://youtu.be/inJypS7KBHk

    https://route.ecrituresnumeriques.ca
    http://www.umontreal.ca
    https://carnets.contemporain.info/moyens/vers-quebec-textes
    https://digitaltextualities.ca/fr

  • The Jimi Hendrix Experience: Live in Maui Album Review | Pitchfork
    https://pitchfork.com/reviews/albums/the-jimi-hendrix-experience-live-in-maui

    Near the end of his life, Jimi Hendrix recorded two concerts in Hawaii for an ill-fated film. A new reissue reveals him elevating above an earthly debacle to offer a glimpse of transcendence.

    cc @colporteur #hendrix #hawaï

  • Coronavirus: Singapore tightens travel rules for Hong Kong visitors amid surge in cases | South China Morning Post
    https://www.scmp.com/news/asia/southeast-asia/article/3113668/coronavirus-singapore-tightens-travel-rules-hong-kong

    Singapore’s border controls for people coming in from Hong Kong will be revised given the “deteriorating” Covid-19 outbreak in the Chinese city, the Ministry of Health (MOH) said on Friday.Travellers who have been to Hong Kong in the last 14 days and are entering Singapore from next Monday will need to serve a two-week stay-home notice at dedicated facilities.
    From December 19, travellers from Hong Kong planning to enter Singapore must take a Covid-19 polymerase chain reaction (PCR) test within 72 hours before departure and present a valid negative test.
    The PCR test does not apply to Singapore citizens and permanent residents. The Civil Aviation Authority of Singapore (CAAS) announced earlier this month that the launch of the Singapore-Hong Kong air travel bubble has been delayed to next year, with the exact start date to be reviewed in late December, given the Covid-19 situation in Hong Kong.

    #Covid-19#migrant#migration#hongkong#chine#singapour#sante#test#voyageur#bullevoyage

  • Bridgestone-Béthune : que crève le pneu !
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=1424

    Voici un avis de notre compère Renart à propos des fermetures d’usines de pneu dans le nord.
    C’est négatif pour tout dire. Quand on finit cette notice sur les innombrables nuisances sociales et écologiques du pneu, des origines à nos jours, on se dit que c’était une fort méchante idée que de l’inventer, et de fonder là-dessus une branche de l’industrie automobile. – Sauf, bien sûr pour les fabricants et marchands de pneus et de voitures.
    Aussi, peut-on répéter à propos du pneu tout le mal que Ivan Illich (cf ici ) avait dit à propos de la voiture et qu’on avait appliqué à l’usine Ford de Bordeaux (là )

    L’extrême-gauche ouvriériste et industrialiste (ça va ensemble) nous reprochera une fois de plus notre manque de sens dialectique. La lutte révolutionnaire sait retourner contre le système ses propres armes. Voyez la Petite histoire de la voiture piégée (Mike Davis, La Découverte, 2007), qui, des anarchistes aux islamistes, permet depuis un siècle de forts beaux attentats de masse. Nous, on se souvenait de l’ingénieuse pratique du necklace, un pneu enflammé autour du cou, employée par les tueurs de l’ANC pour se débarrasser des dissidents et des mouchards supposés, dans les townships d’Afrique du sud, durant la lutte contre l’apartheid. Aujourd’hui un génial universitaire du site Lundi matin nous rappelle à propos des feux de pneus sur les piquets de grève – comme à Bridgestone-Béthune - qu’« en immolant sur les routes un de leurs excédents les plus ordinaires, les êtres humains, avec ces feux de pneus, enrayent une mondialisation fluide, retournant politiquement l’un de ses matériaux de base, et donnant à voir et à sentir son âcre matérialité. »

    Vous voyez bien, le négatif ce n’est pas le pneu, ni la voiture, mais l’usage qu’on en fait.

    Pour lire le texte de Renart, ouvrir le document ci-dessous.
    Pour voir le site de Renart : ici.

    https://chez.renart.info #Nécrotechnologies
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/IMG/pdf/bridgestone.pdf

  • Covid-19 : comment une traque méthodique et intrusive a permis à la Corée du Sud de maîtriser le virus
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2020/12/08/covid-19-comment-une-traque-methodique-et-intrusive-a-permis-a-la-coree-du-s

    Le 12 janvier 2020, la Chine partage avec l’OMS le séquençage génétique du nouveau coronavirus (le SARS-CoV-2) qui fait rage à Wuhan. Deux semaines auparavant, un laboratoire de Canton avait établi sa proximité avec le SRAS. Le 19, une Chinoise de 35 ans atterrit à l’aéroport international d’Incheon, près de Séoul. Elle a une forte fièvre. Interrogée, elle dit avoir reçu une ordonnance pour un coup de froid dans un hôpital de Wuhan, où elle réside, avant de s’envoler. Elle est placée en quarantaine. Le 20 janvier, les autorités établissent qu’il s’agit du nouveau coronavirus, tout comme, quatre jours plus tard, pour un Sud-Coréen de 55 ans travaillant dans la capitale du Hubei, rentré pour un check-up.
    Séoul, le 20 novembre 2020. Le personnel médical mesure la température des habitants qi se présentetn au centre de santé communautaire du quartier de Seocho.Cette fois, pas de temps à perdre, malgré les célébrations du Nouvel An lunaire. Le 27 janvier au matin, les officiels du ministère de la santé convoquent les patrons des groupes sud-coréens commercialisant des tests biologiques à une réunion d’urgence dans une salle de conférence directement rattachée à la gare de Séoul, pour l’accès pratique. Ils ont identifié cinq entreprises ayant l’expérience pour développer au plus vite des produits fiables. (...) Mais le pays n’identifie plus aucun cas durant six jours consécutifs. Au point que le président, le progressiste Moon Jae-in, qui, en campagne, avait répété que le chef de l’Etat devait être une « tour de contrôle » en cas de catastrophe majeure, apparaît à une réunion le 13 février pour dire que le retour à la normale est la priorité. Il assure que le virus aura « disparu d’ici peu » et refuse de suspendre les connexions avec la Chine pour protéger les échanges commerciaux.Or, les contaminations reprennent aussitôt, menaçant au passage la crédibilité du président Moon, ex-avocat des droits humains, qui a porté à bout de bras le rapprochement avec la Corée du Nord et son dialogue avec le président américain Donald Trump. Le nombre de cas quotidien double pour atteindre 104 le 20 février, jour où est enregistré le premier mort après la découverte d’un foyer de contamination dans le sud du pays, à Daegu, autour d’une secte, l’Eglise du Nouveau monde de Jésus, dont des membres tentent de fonder une congrégation à Wuhan.
    L’heure de la mise à l’épreuve est venue, le pays passe en alerte rouge. Pour tester massivement tout en limitant les contacts, le médecin qui, en janvier, a traité le premier cas, Kim Jin-yong, suggère de réaliser les prélèvements sur les patients qui resteraient dans leurs voitures. Aussitôt sont déployées aux quatre coins du pays les premières stations de tests en « drive-in ». Le gouvernement ferme temporairement les écoles. Il impose le port du masque dans la rue et les transports publics, un attribut auquel la société coréenne s’est déjà habituée, tant avec les épidémies précédentes que du fait des épisodes de « poussière jaune », les vents de sable des étendues désertiques mongoles.
    Début mars, lorsque la demande de masques se tend, l’Etat organise la distribution, afin d’éviter les pénuries : un jour par semaine défini selon son année de naissance, le citoyen peut acheter deux masques à la pharmacie, au bureau de poste ou dans une supérette de quartier. Le gouvernement maintient un discours constant et des campagnes d’information sur la nécessité absolue du port du masque. « Ils ont porté ce message sur le masque très tôt, c’est une aide considérable. D’autres pays ne l’ont fait que plus tardivement, certains deux mois plus tard, constate Chun Jong-yoon, le fondateur de Seegene. Maintenant ils ont compris, mais c’est bien tard. »
    Comme ses voisins, la Corée du Sud met en place un isolement strict des malades. Dans les hôpitaux si leur situation est grave ou qu’ils sont âgés, et dans des centres spécialisés lorsque les symptômes sont faibles. Pas question de prendre le risque qu’ils contaminent leur voisinage. S
    Les cas contacts rapprochés doivent quant à eux respecter un rigoureux isolement à domicile, suivi sur une application et par des appels téléphoniques. Afin de bloquer les cas « importés », les personnes entrant sur le territoire se voient imposer une quatorzaine stricte, à leur domicile ou dans une chambre d’un des hôtels transformés en centres sanitaires, et doivent présenter chaque jour leur bulletin de santé, notamment leur température.Dans un de ces hôtels, dans le quartier commerçant de Myeong-dong à Séoul, les voyageurs conduits depuis l’aéroport sont accueillis par un personnel en combinaisons bactériologiques intégrales blanches. Un prélèvement PCR est réalisé, puis ils sont envoyés dans leur chambre, où un plateau-repas est déposé trois fois par jour devant leur porte. Ils doivent jeter leurs détritus, pulvérisés de désinfectant, dans un sac conçu pour les déchets médicaux.Dans les couloirs menant aux chambres, sont collés des avis : « Ne quittez jamais votre chambre. Veuillez retourner immédiatement dans votre chambre. » Les étrangers se dérobant à ce contrôle sont expulsés et risquent cinq ans d’interdiction de territoire, les Coréens risquent jusqu’à un an de prison. Davantage que la peur de la sanction policière toutefois, c’est la crainte d’être celui ou celle qui, par son relâchement, aura amené la contamination de sa communauté, qui semble être le moteur principal.

    #Covid-19#migrant#migration#coreedusud#chine#sante#epidemiologie#mesuresanitaire#voyageur#test#quarantaine#politiquesante#surveillanceepidemiologique

  • Affaire Michel Zecler : Didier Lallement accorde un soutien financier aux policiers mis en examen
    https://www.liberation.fr/france/2020/12/07/affaire-michel-zecler-didier-lallement-accorde-un-soutien-financier-aux-p

    L’octroi de la protection fonctionnelle n’a rien d’automatique pour les fonctionnaires mis en cause. Après dépôt d’un dossier par l’agent, la hiérarchie doit décider si les faits constituent ou non une faute personnelle qui le priverait de cette protection. La définition de cette « faute personnelle », en opposition à la « faute de service », a été forgée par la jurisprudence du juge administratif. Dans une décision du 30 décembre 2015, le Conseil d’Etat caractérisait par exemple la « faute personnelle », comme des faits qui « révèlent des préoccupations d’ordre privé », « procèdent d’un comportement incompatible avec les obligations qui s’imposent dans l’exercice des fonctions publiques » ou qui « eu égard à leur nature et aux conditions dans lesquelles ils ont été commis, revêtent une particulière gravité ».

    Dans une fiche dédiée à la protection fonctionnelle, la direction de l’information légale et administrative de Matignon précise qu’il s’agit d’une faute personnelle si l’acte en cause « se détache de la fonction par le caractère inexcusable du comportement de l’agent au regard des règles déontologiques ou par l’intention qui l’anime. Il s’agit d’actes incompatibles avec le service public, même s’ils sont commis pendant le service, révélant l’homme à titre privé, par exemple, un crime commis sur le lieu de travail ».

    #Violences_policières #protection_fonctionnelle #Police #Michel_Zecler

    • #COVID-19 : Trajets en #voiture, quel risque de #transmission ? | santé log
      https://www.santelog.com/actualites/covid-19-trajets-en-voiture-quel-risque-de-transmission

      ... en raison de la façon dont l’air circule à l’extérieur de la voiture, la pression de l’air près des vitres arrière a tendance à être supérieure à la pression au niveau des vitres avant.
      En conséquence, l’air a tendance à pénétrer dans la voiture par les vitres arrière et à sortir par les vitres avant. Avec toutes les fenêtres ouvertes, cette tendance crée deux flux plus ou moins indépendants de part et d’autre de la cabine. Étant donné que les occupants des simulations étaient assis de part et d’autre de la cabine, très peu de particules finissent par être transférées entre les deux. Le conducteur dans ce scénario court un risque légèrement plus élevé que le passager car le flux d’air moyen dans la voiture va de l’arrière vers l’avant, mais les deux occupants subissent un transfert de particules considérablement inférieur par rapport à tout autre scénario.
      Les simulations ou configurations (Voir visuel ci-contre) dans lesquelles certaines fenêtres, mais pas toutes, sont abaissées, donnent des résultats parfois contre-intuitifs. Par exemple, l’ouverture des fenêtres directement à côté de chaque occupant est meilleure que la fermeture des fenêtres mais est associée à un risque d’exposition plus élevé que l’ouverture de la fenêtre située à l’arrière de chaque occupant.
       
      Conduire avec les fenêtres fermées et le chauffage en marche est le pire des scénarios : les simulations concluent en effet que l’idéal serait d’ouvrir les 4 fenêtres, mais qu’en ouvrir 1 ou 2 réduit déjà considérablement le risque.
       
      Il n’existe aucun moyen d’éliminer complètement le risque : sauf à respecter à la lettre les recommandations actuelles, soit reporter tous ses déplacements et rester à la maison…

  • Lecture d’un extrait du livre « Là d’où je viens a disparu » de Guillaume Poix

    http://liminaire.fr/radio-marelle/article/la-d-ou-je-viens-a-disparu-de-guillaume-poix

    Sarah, Litzy, Eva, Luis, Angie, viennent de tous les continents, ils ont en commun d’avoir voulu un jour quitter leur pays pour fuir l’extrême pauvreté, la menace et la pression des gangs ou la privation de liberté, en abandonnant leur famille pour une vie meilleure. Tous ont le cœur lourd de souvenirs et d’injustices, ils croient en leur avenir et en leur chance de s’en sortir, comme les autres. (...) #Radio_Marelle / #Écriture, #Histoire, #Langage, #Livre, #Lecture, #Récit, #Vidéo, #Voix, #En_lisant_en_écrivant, #Mémoire, #Enfance, #Podcast, (...)

    #Biographie

    http://liminaire.fr/IMG/mp4/en_lisant_la_d_ou_je_viens_a_disparu.mp4

    http://www.gallimard.fr/Catalogue/GALLIMARD/Verticales/Verticales/La-d-ou-je-viens-a-disparu

  • Google’s Duplex Uses A.I. to Mimic Humans (Sometimes)
    https://www.nytimes.com/2019/05/22/technology/personaltech/ai-google-duplex.html

    In a free service, bots call restaurants and make reservations. The technology is impressive, except for when the caller is actually a person. ALBANY, Calif. — On a recent afternoon at the Lao Thai Kitchen restaurant, the telephone rang and the caller ID read “Google Assistant.” Jimmy Tran, a waiter, answered the phone. The caller was a man with an Irish accent hoping to book a dinner reservation for two on the weekend. This was no ordinary booking. It came through Google Duplex, a free (...)

    #Google #algorithme #technologisme #reconnaissance #BigData #voix

  • «Quand tout sera fini plus tard en Erivan»... Les voix du génocide arménien - Ép. 4/4 - L’Arménie au carrefour des empires
    https://www.franceculture.fr/emissions/le-cours-de-lhistoire/larmenie-au-carrefour-des-empires-44-quand-tout-sera-fini-plus-tard-en


    Le film Une #histoire de fou de Robert Guédiguian, sorti en 2015 s’ouvre sur une scène saisissante. En 1921, à Berlin, Soghoman Tehlirian, rescapé du #génocide arménien de 1915, tue un homme à bout portant. Pas n’importe quel homme : il s’agit de Talaat Pacha, l’un des principaux instigateurs du génocide. Après ce prologue, une longue ellipse fait reprendre l’intrigue du film dans les années 1980. Aram, un jeune Marseillais d’origine arménienne, se lance alors dans la lutte armée pour forcer le gouvernement turc à reconnaître le génocide.

    De 1921 aux années 1980, que s’est-il passé ? Que recèle ce long silence ? La diaspora arménienne en France s’est-elle tue, à l’instar de Hovannès et Anouch, les parents de Aram ? Faire l’histoire de la mémoire du génocide arménien, c’est en effet commencer par faire l’histoire du silence et de l’oubli dans une diaspora désunie. Comment les rescapés et leurs descendants sont-ils parvenus à reconstruire cette mémoire, malgré le trauma et le déni ? Comment continuer à mener cette bataille mémorielle aujourd’hui ? Nous en parlons avec…

    #Arménie #Turquie #fascisme #crime_contre_l'humanité #vocabulaire

  • #Journal du #Regard : Novembre 2020
    http://liminaire.fr/journal/article/journal-du-regard-novembre-2020

    https://youtu.be/9B6Kboo7If8

    Chaque mois, un film regroupant l’ensemble des images prises au fil des jours, le mois précédent, et le texte qui s’écrit en creux. « Une sorte de palimpseste, dans lequel doivent transparaître les traces - ténues mais non déchiffrables - de l’écriture “préalable” ». Jorge Luis Borges, Fictions L’effondrement d’un monde. On pourrait s’amuser à dresser la liste des analogies, des correspondances qui relient entre elles les compositions de ce programme. Débris d’une maison ruinée, souvenirs piteux : (...) #Journal / #Architecture, #Biographie, Journal, #Voix, #Vidéo, #Poésie, #Sons, #Musique, #Journal_du_regard, #Paris, #Ville, #Paysage, #Ciel, #Dérive, Regard, (...)

    #Nature

  • "Réfugiés", « migrants », « exilés » ou « demandeur d’asile » : à chaque mot sa fiction, et son ombre portée

    Alors que les violences policières contre un campement éphémère de personnes exilées font scandale, comment faut-il nommer ceux dont les tentes ont été déchiquetées ?

    Nombreuses et largement unanimes, les réactions qui ont suivi l’intervention de la police, lundi 23 novembre au soir, place de la République à Paris, condamnent la violence des forces de l’ordre. De fait, après cette intervention pour déloger le campement éphémère installé en plein Paris dans le but de donner de l’écho à l’évacuation récente d’un vaste camp de réfugiés sur les contreforts du périphérique, les images montrent les tentes qui valsent, les coups qui pleuvent, des matraques qui cognent en cadence, et de nombreux soutiens nassés en pleine nuit ainsi que la presse. Survenu en plein débat sur la loi de sécurité globale, et après de longs mois d’un travail tous azimuts pour poser la question des violences policières, l’épisode a quelque chose d’emblématique, qui remet au passage l’enjeu de l’accueil migratoire à la Une des médias.

    Une occasion utile pour regarder et penser la façon dont on nomme ceux qui, notamment, vivent ici dans ces tentes-là. Durant toute la soirée de lundi, la réponse policière à leur présence sur la place de la République a été amplement commentée, en direct sur les réseaux sociaux d’abord, puis sur les sites de nombreux médias. Si certains utilisaient le mot “migrants” désormais ordinaire chez les journalistes, il était frappant de voir que d’autres termes prenaient une place rare à la faveur de l’événement à chaud. Et en particulier, les mots “réfugiés” et “exilés”.

    En ligne, Utopia56, le collectif à l’origine de l’opération, parle de “personnes exilées”. Chez Caritas France (ex-Secours catholique), c’est aussi l’expression qu’utilise par exemple, sur la brève bio de son compte twitter, la salariée de l’humanitaire en charge des projets “solidarité et défense des droits des personnes exilées”. Ce lexique n’a rien de rare dans le monde associatif : la Cimade parle aussi de longue date de “personnes exilées”, la Fédération des acteurs de solidarités qui chapeaute 870 associations de même, et chez chez Act up par exemple, on ne dit pas non plus “migrants” mais “exilés”. Dans la classe politique, la nuit de violences policières a donné lieu à des déclarations de protestation où il n’était pas inintéressant d’observer l’usage des mots choisis dans le feu de l’action, et sous le projecteur des médias : plutôt “exilés” chez les écologistes, via le compte twitter “groupeecoloParis”, tandis qu’Anne Hidalgo, la maire de Paris, parlait quant à elle de “réfugiés”.

    Du côté des médias, le terme poussé par le monde associatif n’a sans doute jamais aussi bien pris qu’à chaud, dans l’épisode de lundi soir : sur son compte Twitter, CNews oscillait par exemple entre “migrants” et “personnes exilées”... au point de se faire tacler par ses abonnés - il faudrait plutôt dire “clandestins”. Edwy Plenel panachait pour sa part le lexique, le co-fondateur de Médiapart dénonçant au petit matin la violence dont avaient fait l’objet les “migrants exilés”.

    Peu suspect de gauchisme lexical, Gérald Darmanin, ministre de l’Intérieur, affirmait de son côté saisir l’IGPN pour une enquête sur cette évacuation d’un “campement de migrants”, tandis que le mot s’affichait aussi sur la plupart des pages d’accueil des sites de médias. Comme si le terme “migrants” était devenu un terme générique pour dire cette foule anonyme de l’immigration - sans que, le plus souvent, on interroge en vertu de quels critères ? Cet épisode de l’évacuation violente de la place de la République est en fait l’occasion idéale pour regarder la façon dont le mot “migrants” s’est disséminé, et remonter le film pour comprendre comment il a été forgé. Car ce que montre la sociologue Karen Akoka dans un livre qui vient justement de paraître mi-novembre (à La Découverte) c’est que cette catégorie est avant tout une construction dont la sociogenèse éclaire non seulement notre façon de dire et de penser, mais surtout des politiques publiques largement restées dans l’ombre.
    Les mots de l’asile, ces constructions politiques

    L’Asile et l’exil, ce livre formidable tiré de sa thèse, est à mettre entre toutes les mains car précisément il décortique en quoi ces mots de l’immigration sont d’abord le fruit d’un travail politique et d’une construction historique (tout aussi politique). Les acteurs de cette histoire appartiennent non seulement à la classe politique, mais aussi aux effectifs des officiers qui sont recrutés pour instruire les demandes. En centrant son travail de doctorat sur une sociohistoire de l’Ofpra, l’Office français de protection des réfugiés et des apatrides, créé en 1952, la chercheuse rappelle qu’il n’est pas équivalent de parler d’exil et d’asile, d’exilés, de demandeurs d’asile, de migrants ou de réfugiés. Mais l’ensemble de sa démonstration éclaire en outre toute la part d’artifice que peut receler ce raffinage lexical qui a permis à l’Etat de construire des catégories d’aspirants à l’exil comme on labelliserait des candidats plus ou moins désirables. Face aux "réfugiés", légitimes et acceptables depuis ce qu’on a construit comme une forme de consensus humaniste, les "migrants" seraient d’abord là par émigration économique - et moins éligibles. Tout son livre consiste au fond en une déconstruction méthodique de la figure du réfugié désirable.

    Les tout premiers mots de l’introduction de ce livre (qu’il faut lire en entier) remontent à 2015 : cette année-là, Al-Jazeera annonçait que désormais, celles et ceux qui traversent la Méditerranée seront pour de bon des “réfugiés”. Et pas des “migrants”, contrairement à l’usage qui était alors en train de s’installer dans le lexique journalistique à ce moment d’explosion des tentatives migratoires par la mer. Le média qatari précisait que “migrants” s’apparentait à ses yeux à un “outil de deshumanisation”. On comprenait en fait que “réfugié” était non seulement plus positif, mais aussi plus légitime que “migrant”.

    En droit, c’est la Convention de Genève qui fait les “réfugiés” selon une définition que vous pouvez consulter ici. Avant ce texte qui remonte à 1951, on accueillait aussi des réfugiés, quand se négociait, au cas par cas et sous les auspices de la Société des nations, la reconnaissance de groupes éligibles. Mais le flou demeure largement, notamment sur ce qui, en pratique, départirait le “réfugié” de “l’étranger”. A partir de 1952, ces réfugiés répondent à une définition, mais surtout à des procédures, qui sont principalement confiées à l’Ofpra, créé dans l’année qui suit la Convention de Genève. L’autrice rappelle qu’à cette époque où l’Ofpra passe d’abord pour une sorte de “consulat des régimes disparus”, il y a consensus pour considérer que l’institution doit elle-même employer des réfugiés chargés de décider du sort de nouveaux candidats à l’asile. A l’époque, ces procédures et ces arbitrages n’intéressent que très peu de hauts fonctionnaires. Ca change progressivement à mesure que l’asile se politise, et la décennie 1980 est une bonne période pour observer l’asile en train de se faire. C’est-à-dire, en train de se fabriquer.

    La construction du "réfugié militant"

    Sur fond d’anticommunisme et d’intérêt à relever la tête après la guerre coloniale perdue, la France décidait ainsi au début des années 80 d’accueillir 130 000 personnes parmi celles qui avaient fui l’un des trois pays de l’ex-Indochine (et en particulier, le Vietnam). On s’en souvient encore comme des “boat people”. Ils deviendront massivement des “réfugiés”, alors que le mot, du point de vue juridique, renvoie aux critères de la Convention de Genève, et à l’idée de persécutions avérées. Or Karen Akoka rappelle que, bien souvent, ces procédures ont en réalité fait l’objet d’un traitement de gros. C’est-à-dire, qu’on n’a pas toujours documenté, dans le détail, et à l’échelle individuelle, les expériences vécues et la position des uns et des autres. Au point de ne pas trop chercher à savoir par exemple si l’on avait plutôt affaire à des victimes ou à des bourreaux ? Alors que le génocide khmer rouge commençait à être largement connu, l’idée que ces boat people massivement arrivés par avion camperaient pour de bon la figure du “bon réfugié” avait cristallisé. La chercheuse montre aussi que ceux qui sont par exemple arrivés du Vietnam avaient fait l’objet d’un double tri : par les autorités françaises d’une part, mais par le régime vietnamien d’autre part… et qu’il avait été explicitement convenu qu’on exclurait les militants politiques.

    Or dans l’imaginaire collectif comme dans le discours politique, cette représentation du réfugié persécuté politiquement est toujours très active. Elle continue souvent de faire écran à une lecture plus attentive aux tris opérés sur le terrain. Et empêche par exemple de voir en quoi on a fini par se représenter certaines origines comme plus désirables, par exemple parce qu’il s’agirait d’une main-d’œuvre réputée plus docile. Aujourd’hui, cette image très puissante du "réfugié militant" reste arrimée à l’idée d’une histoire personnelle légitime, qui justifierait l’étiquetage de certains “réfugiés” plutôt que d’autres. C’est pour cela qu’on continue aujourd’hui de réclamer aux demandeurs d’asile de faire la preuve des persécutions dont ils auraient fait l’objet.

    Cette enquête approfondie s’attèle à détricoter ce mirage du "bon réfugié" en montrant par exemple que, loin de répondre à des critères objectifs, cette catégorie est éminemment ancrée dans la Guerre froide et dans le contexte post-colonial. Et qu’elle échappe largement à une approche empirique rigoureuse, et critique. Karen Akoka nous dépeint la Convention de Genève comme un cadre qui se révèle finalement assez flou, ou lâche, pour avoir permis des lectures et des usages oscillatoires au gré de l’agenda diplomatique ou politique. On le comprend par exemple en regardant le sort de dossiers qu’on peut apparenter à une migration économique. Sur le papier, c’est incompatible avec le label de “réfugié”. Or dans la pratique, la ligne de partage entre asile d’un côté, et immigration de l’autre, ne semble plus si étanche lorsqu’on regarde de près qui a pu obtenir le statut dans les années 1970. On le comprend mieux lorsqu’on accède aux logiques de traitement dans les années 70 et 80 : elles n’ont pas toujours été les mêmes, ni été armées du même zèle, selon l’origine géographique des candidats. Edifiant et très pédagogique, le sixième chapitre du livre d’Akoka s’intitule d’ailleurs “L’Asile à deux vitesses”.

    L’autrice accorde par exemple une attention particulière à la question des fraudes. Pas seulement à leur nombre, ou à leur nature, mais aussi au statut que les institutions ont pu donner à ces fraudes. Ainsi, Karen Akoka montre l’intérêt qu’a pu avoir l’Etat français, à révéler à grand bruit l’existence de “filières zaïroises” à une époque où la France cherchait à endiguer l’immigration d’origine africaine autant qu’à sceller une alliance avec le Zaïre de Mobutu. En miroir, les entretiens qu’elle a menés avec d’anciens fonctionnaires de l’Ofpra dévoilent qu’on a, au contraire, cherché à dissimuler des montages frauduleux impliquant d’ex-Indochinois.

    Les "vrais réfugiés"... et les faux

    Entre 1970 et 1990, les chances de se voir reconnaître “réfugié” par l’Ofpra ont fondu plus vite que la banquise : on est passé de 90% à la fin des années 70 à 15% en 1990. Aujourd’hui, ce taux est remonté (de l’ordre de 30% en 2018), mais on continue de lire que c’est le profil des demandeurs d’asile qui aurait muté au point d’expliquer que le taux d’échec explose. Ou que la démarche serait en quelque sorte détournée par de “faux demandeurs d’asile”, assez habiles pour instrumentaliser les rouages de l’Ofpra en espérant passer entre les gouttes… au détriment de “vrais réfugiés” qu’on continue de penser comme tels. Karen Akoka montre qu’en réalité, c’est plutôt la manière dont on instruit ces demandes en les plaçant sous l’égide de politiques migratoires plus restrictives, mais aussi l’histoire propre de ceux qui les instruisent, qui expliquent bien plus efficacement cette chute. Entre 1950 et 1980 par exemple, nombre d’officiers instructeurs étaient issus des mêmes pays que les requérants. C’était l’époque où l’Ofpra faisait davantage figure de “consulat des pays disparus”, et où, par leur trajectoire personnelle, les instructeurs se trouvaient être eux-mêmes des réfugiés, ou les enfants de réfugiés. Aujourd’hui ce sont massivement des agents français, fonctionnaires, qui traitent les dossiers à une époque où l’on ne subordonne plus les choix au Rideau de fer, mais plutôt sous la houlette d’une politique migratoire et de ce qui a sédimenté dans les politiques publiques comme “le problème islamiste”.

    Rassemblé ici au pas de course mais très dense, le travail de Karen Akoka est un exemple vibrant de la façon dont l’histoire, et donc une approche pluridisciplinaire qui fait la part belle aux archives et à une enquête d’histoire orale, enrichit dans toute son épaisseur un travail entamé comme sociologue. Du fait de la trajectoire de l’autrice, il est aussi un exemple lumineux de tout ce que peut apporter une démarche réflexive. Ca vaut pour la façon dont on choisit un mot plutôt qu’un autre. Mais ça vaut aussi pour la manière dont on peut déconstruire des façons de penser, ou des habitudes sur son lieu de travail, par exemple. En effet, avant de soutenir sa thèse en 2012, Karen Akoka a travaillé durant cinq ans pour le HCR, le Haut commissariat aux réfugiés des Nations-Unies. On comprend très bien, à la lire, combien elle a pu d’abord croire, et même nourrir, certaines fausses évidences. Jusqu’à être “mal à l’aise” avec ces images et ces chimères qu’elle entretenait, depuis son travail - qui, en fait, consistait à “fabriquer des réfugiés”. Pour en éliminer d’autres.

    https://www.franceculture.fr/societe/refugies-migrants-exiles-ou-demandeur-dasile-a-chaque-mot-sa-fiction-e

    #asile #migrations #réfugiés #catégorisation #catégories #mots #terminologie #vocabulaire #Ofpra #France #histoire #légitimité #migrants_économiques #réfugié_désirable #déshumanisation #Convention_de_Genève #politisation #réfugié_militant #Indochine #boat_people #bon_réfugié #Vietnam #militants #imaginaire #discours #persécution #persécution_politique #preuves #guerre_froide #immigration #fraudes #abus #Zaïre #filières_zaïroises #Mobutu #vrais_réfugiés #faux_réfugiés #procédure_d'asile #consulat_des_pays_disparus #politique_migratoire
    #Karen_Akoka
    ping @isskein @karine4 @sinehebdo @_kg_

    • ...même jour que l’envoi de ce post on a discuté en cours Licence Géo le séjour d’Ahmed publié en forme de carte par Karen Akoka dans l’atlas migreurop - hasard ! Et à la fin de son exposé un étudiant proposait par rapport aux catégories : Wie wäre es mit « Mensch » ? L’exemple du campement à Paris - des pistes ici pour approfondir !

    • Ce qui fait un réfugié

      Il y aurait d’un côté des réfugiés et de l’autre des migrants économiques. La réalité des migrations s’avère autrement complexe souligne la politiste #Karen_Akoka qui examine en détail comment ces catégories sont historiquement, socialement et politiquement construites.

      L’asile est une notion juridique précieuse. Depuis le milieu du XXe siècle, elle permet, à certaines conditions, de protéger des individus qui fuient leur pays d’origine en les qualifiant de réfugiés. Mais l’asile est aussi, à certains égards, une notion dangereuse, qui permet paradoxalement de justifier le fait de ne pas accueillir d’autres individus, les rejetant vers un autre statut, celui de migrant économique. L’asile devenant alors ce qui permet la mise en œuvre d’une politique migratoire de fermeture. Mais comment faire la différence entre un réfugié et un migrant économique ? La seule manière d’y prétendre consiste à s’intéresser non pas aux caractéristiques des personnes, qu’elles soient rangées dans la catégorie de réfugié ou de migrant, mais bien plutôt au travail qui consiste à les ranger dans l’une ou l’autre de ces deux catégories. C’est le grand mérite de « #L’Asile_et_l’exil », le livre important de Karen Akoka que de proposer ce renversement de perspective. Elle est cette semaine l’invitée de La Suite dans Les Idées.

      Et c’est la metteuse en scène Judith Depaule qui nous rejoint en seconde partie, pour évoquer « Je passe » un spectacle qui aborde le sujet des migrations mais aussi pour présenter l’Atelier des artistes en exil, qu’elle dirige.

      https://www.franceculture.fr/emissions/la-suite-dans-les-idees/ce-qui-fait-un-refugie

      #livre #catégorisation #catégories #distinction #hiérarchisation #histoire #ofpra #tri #subordination_politique #politique_étrangère #guerre_froide #politique_migratoire #diplomatie

    • La fabrique du demandeur d’asile

      « Il y a les réfugiés politiques, et c’est l’honneur de la France que de respecter le droit d’asile : toutes les communes de France en prennent leur part. Il y a enfin ceux qui sont entrés illégalement sur le territoire : ceux-là ne sont pas des réfugiés, mais des clandestins qui doivent retourner dans leur pays », disait déjà Gerald Darmanin en 2015. Mais pourquoi risquer de mourir de faim serait-il moins grave que risquer de mourir en prison ? Pourquoi serait-il moins « politique » d’être victime de programmes d’ajustement structurels que d’être victime de censure ?

      Dans son livre L’asile et l’exil, une histoire de la distinction réfugiés migrants (La découverte, 2020), Karen Akoka revient sur la construction très idéologique de cette hiérarchisation, qui est liée à la définition du réfugié telle qu’elle a été décidée lors de la Convention de Genève de 1951, à l’issue d’âpres négociations.

      Cette dichotomie réfugié politique/migrant économique paraît d’autant plus artificielle que, jusqu’aux années 1970, il suffisait d’être russe, hongrois, tchécoslovaque – et un peu plus tard de venir d’Asie du Sud-Est, du Cambodge, du Laos ou du Vietnam – pour décrocher le statut de réfugié, l’objectif premier de la France étant de discréditer les régimes communistes. Nul besoin, à l’époque, de montrer qu’on avait été individuellement persécuté ni de nier la dimension économique de l’exil.

      Aujourd’hui, la vaste majorité des demandes d’asile sont rejetées. Qu’est ce qui a changé dans les années 1980 ? D’où sort l’obsession actuelle des agents de l’OFPRA (l’Office français de protection des réfugiés et apatrides) pour la fraude et les « faux » demandeurs d’asile ?

      Plutôt que de sonder en vain les identités et les trajectoires des « demandeurs d’asile » à la recherche d’une introuvable essence de migrant ou de réfugié, Karen Akoka déplace le regard vers « l’offre » d’asile. Avec la conviction que les étiquettes en disent moins sur les exilés que sur ceux qui les décernent.

      https://www.youtube.com/watch?v=bvcc0v7h2_w&feature=emb_logo

      https://www.hors-serie.net/Aux-Ressources/2020-12-19/La-fabrique-du-demandeur-d-asile-id426

    • « Il n’est pas possible d’avoir un système d’asile juste sans politique d’immigration ouverte »

      La chercheuse Karen Akoka a retracé l’histoire du droit d’asile en France. Elle montre que l’attribution de ce statut a toujours reposé sur des intérêts politiques et diplomatiques. Et que la distinction entre les « vrais » et les « faux » réfugiés est donc discutable.

      Qui étaient les personnes qui ont été violemment évacuées du camp de la place de la République, il y a quatre semaines ? Ceux qui les aident et les défendent utilisent le mot « exilés », pour décrire une condition qui transcende les statuts administratifs : que l’on soit demandeur d’asile, sans-papiers, ou sous le coup d’une obligation de quitter le territoire français, les difficultés restent sensiblement les mêmes. D’autres préfèrent le mot « illégaux », utilisé pour distinguer ces étrangers venus pour des raisons économiques du seul groupe que la France aurait la volonté et les moyens d’accueillir : les réfugiés protégés par le droit d’asile. Accordé par l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra) depuis 1952, ce statut permet aujourd’hui de travailler et de vivre en France à celles et ceux qui peuvent prouver une persécution ou une menace dans leur pays d’origine. Pour les autres, le retour s’impose. Mais qui décide de l’attribution du statut, et selon quels critères ?

      Pour le savoir, Karen Akoka a retracé l’histoire de l’Ofpra. Dressant une galerie de portraits des membres de l’institution, retraçant le regard porté sur les Espagnols, les Yougoslaves, les boat-people ou encore les Zaïrois, elle montre dans l’Asile et l’Exil (La Découverte) que l’asile a toujours été accordé en fonction de considérations politiques et diplomatiques. Elle remet ainsi en cause l’idée que les réfugiés seraient « objectivement » différents des autres exilés, et seuls légitimes à être dignement accueillis. De quoi prendre conscience (s’il en était encore besoin) qu’une autre politique d’accueil est possible.
      Comment interprétez-vous les images de l’évacuation du camp de la place de la République ?

      Quand on ne connaît pas la situation des personnes exilées en France, cela peut confirmer l’idée que nous serions en situation de saturation. Il y aurait trop de migrants, la preuve, ils sont dans la rue. Ce n’est pas vrai : si ces personnes sont dans cette situation, c’est à cause de choix politiques qui empêchent toute forme d’intégration au tissu social. Depuis les années 90, on ne peut plus légalement travailler quand on est demandeur d’asile. On est donc dépendant de l’aide publique. Avec le règlement européen de Dublin, on ne peut demander l’asile que dans le premier pays de l’Union européenne dans lequel on s’enregistre. Tout cela produit des illégaux, qui se trouvent par ailleurs enfermés dans des statuts divers et complexes. Place de la République, il y avait à la fois des demandeurs d’asile, des déboutés du droit d’asile, des « dublinés », etc.
      Y a-t-il encore des groupes ou des nationalités qui incarnent la figure du « bon réfugié » ?

      Aujourd’hui, il n’y a pas de figure archétypale du bon réfugié au même titre que le dissident soviétique des années 50-60 ou le boat-people des années 80. Il y a tout de même une hiérarchie des nationalités qui fait que les Syriens sont perçus le plus positivement. Mais avec une différence majeure : alors qu’on acheminait en France les boat-people, les Syriens (comme beaucoup d’autres) doivent traverser des mers, franchir des murs… On fait tout pour les empêcher d’arriver, et une fois qu’ils sont sur place, on les reconnaît à 90 %. Il y a là quelque chose de particulièrement cynique.
      Vos travaux reviennent à la création de l’Ofpra en 1952. Pourquoi avoir repris cette histoire déjà lointaine ?

      Jusqu’aux années 80, l’Ofpra accordait le statut de réfugié à 80 % des demandeurs. Depuis les années 90, environ 20 % l’obtiennent. Cette inversion du pourcentage peut amener à la conclusion qu’entre les années 50 et 80, les demandeurs d’asile étaient tous de « vrais » réfugiés, et que depuis, ce sont majoritairement des « faux ». Il était donc important d’étudier cette période, parce qu’elle détermine notre perception actuelle selon laquelle l’asile aurait été dénaturé. Or il apparaît que cette catégorie de réfugié a sans cesse été mobilisée en fonction de considérations diplomatiques et politiques.

      La question de l’asile n’a jamais été neutre. En contexte de guerre froide, le statut de réfugié est attribué presque automatiquement aux personnes fuyant des régimes communistes que l’on cherche à décrédibiliser. Lorsqu’on est russe, hongrois ou roumain, ou plus tard vietnamien, cambodgien ou laotien, on est automatiquement reconnu réfugié sans qu’il soit nécessaire de prouver que l’on risque d’être persécuté ou de cacher ses motivations économiques. Ce qui apparaît comme de la générosité est un calcul politique et diplomatique. Les 80 % d’accords de l’époque sont autant pétris de considérations politiques que les 80 % de rejets aujourd’hui.
      Ces considérations conduisent alors à rejeter les demandes émanant de certaines nationalités, même dans le cas de régimes communistes et/ou autoritaires.

      Il y a en effet d’importantes différences de traitement, qui s’expliquent principalement par l’état des relations diplomatiques. La France est réticente à accorder l’asile aux Yougoslaves ou aux Portugais, car les relations avec Tito ou Salazar sont bonnes. Il n’y a d’ailleurs même pas de section portugaise à l’Ofpra ! Mais au lieu de les rejeter massivement, on les dirige vers les procédures d’immigration. La France passe des accords de main- d’œuvre avec Belgrade, qui permettent d’orienter les Yougoslaves vers la régularisation par le travail et de faire baisser le nombre de demandeurs d’asile.

      Grâce aux politiques d’immigration ouvertes on pouvait donc diriger vers la régularisation par le travail les nationalités rendues « indésirables » en tant que réfugiés en raison des relations diplomatiques. On pouvait prendre en compte les questions de politique étrangère, sans que cela ne nuise aux exilés. Aujourd’hui, on ne peut plus procéder comme cela, puisque la régularisation par le travail a été bloquée. Les rejets ont donc augmenté et la question du « vrai-faux » est devenu le paradigme dominant. Comme il faut bien justifier les rejets, on déplace la cause des refus sur les demandeurs en disséquant de plus en plus les biographies pour scruter si elles correspondent ou non à la fiction d’une identité de réfugié supposée neutre et objective.

      Cela montre qu’il n’est pas possible d’avoir un système d’asile juste sans politique d’immigration ouverte, d’abord parce que les catégories de réfugiés et de migrants sont poreuses et ne reflètent qu’imparfaitement la complexité des parcours migratoires, ensuite parce qu’elles sont largement façonnées par des considérations politiques.
      Vous identifiez les années 80 comme le moment où change la politique d’asile. Comment se déroule cette évolution ?

      Les changements de cette période sont liés à trois grands facteurs : la construction de l’immigration comme un problème qui arrime la politique d’asile à l’impératif de réduction des flux migratoires ; la fin de la guerre froide qui diminue l’intérêt politique à l’attribution du statut ; et la construction d’une crise de l’Etat social, dépeint comme trop dépensier et inefficace, ce qui justifie l’austérité budgétaire et la rigueur juridique dans les institutions en charge des étrangers (et plus généralement des pauvres). L’Ofpra va alors passer d’un régime des réfugiés, marqué par un fort taux d’attribution du statut, des critères souples, une activité tournée vers l’accompagnement des réfugiés en vue de leur intégration, à un régime des demandeurs d’asile orienté vers une sélection stricte et la production de rejets qui s’appuient sur des exigences nouvelles. Désormais, les demandeurs doivent montrer qu’ils risquent d’être individuellement persécutés, que leurs motivations sont purement politiques et sans aucune considération économique. Ils doivent aussi fournir toujours plus de preuves.
      Dans les années 80, ce n’était pas le cas ?

      La particularité de la décennie 80 est qu’elle voit coexister ces deux régimes, en fonction des nationalités. Les boat-people du Laos, du Cambodge et du Vietnam reçoivent automatiquement le statut de réfugié sur la seule base de leur nationalité. Et pour cause, non seulement on retrouve les questions de guerre froide, mais s’ajoutent des enjeux postcoloniaux : il faut que la figure de l’oppresseur soit incarnée par les anciens colonisés et non plus par la France. Et n’oublions pas les besoins de main- d’œuvre, toujours forts malgré les restrictions de l’immigration de travail mises en place dès les années 70. L’arrivée de ces travailleurs potentiels apparaît comme une opportunité, d’autant qu’on les présume dociles par stéréotype. Au même moment, les Zaïrois, qui fuient le régime du général Mobutu, sont massivement rejetés.
      Pourquoi ?

      Après les indépendances, la France s’efforce de maintenir une influence forte en Afrique, notamment au Zaïre car c’est un pays francophone où la France ne porte pas la responsabilité de la colonisation. C’est également un pays riche en matières premières, qui fait figure de rempart face aux Etats communistes qui l’entourent. Les Zaïrois qui demandent l’asile doivent donc montrer qu’ils sont individuellement recherchés, là où prévalait auparavant une gestion par nationalité. L’Ofpra surmédiatise les fraudes des Zaïrois, alors qu’il étouffe celles des boat-people. On a donc au même moment deux figures absolument inversées. Dans les années 90, la gestion de l’asile bascule pour tous dans le système appliqué aux Zaïrois. Cette rigidification entraîne une augmentation des fraudes, qui justifie une nouvelle surenchère d’exigences et de contrôles dans un cercle vicieux qui perdure jusqu’aujourd’hui.
      Il faut ajouter le fait que l’Ofpra devient un laboratoire des logiques de management.

      L’Ofpra est longtemps resté une institution faible. Il était peu considéré par les pouvoirs publics, en particulier par sa tutelle, les Affaires étrangères, et dirigé par les diplomates les plus relégués de ce ministère. Au début des années 90, avec la construction de l’asile comme « problème », des sommes importantes sont injectées dans l’Ofpra qui s’ennoblit mais sert en retour de lieu d’expérimentation des stratégies de management issues du secteur privé. Les agents sont soumis à des exigences de productivité, de standardisation, et à la segmentation de leur travail. On leur demande notamment de prendre un certain nombre de décisions par jour (deux à trois aujourd’hui), faute de quoi ils sont sanctionnés.

      Cette exigence de rapidité s’accompagne de l’injonction à justifier longuement les décisions positives, tandis qu’auparavant c’était davantage les rejets qui devaient être motivés. Cette organisation productiviste est un facteur d’explication du nombre grandissant de rejets. La division du travail produit une dilution du sentiment de responsabilité qui facilite cette production des rejets. Ce n’est pas que les agents de l’Ofpra fassent mal leur travail. Mais les techniques managériales influent sur leurs pratiques et elles contribuent aux 80 % de refus actuels.
      Quelle est l’influence de la question religieuse sur l’asile ?

      Pour aborder cette question, je suis partie d’un constat : depuis la fin des années 90, un nouveau groupe, composé de femmes potentiellement victimes d’excision ou de mariage forcé et de personnes homosexuelles, a accès au statut de réfugié. Comment expliquer cette ouverture à un moment où la politique menée est de plus en plus restrictive ? On pense bien sûr au changement des « mentalités », mais cette idée, si elle est vraie, me semble insuffisante. Mon hypothèse est que c’est aussi parce que nous sommes passés du problème communiste au problème islamiste comme soubassement idéologique de l’attribution du statut. Par ces nouvelles modalités d’inclusion se rejoue la dichotomie entre un Occident tolérant, ouvert, et un Sud global homophobe, masculiniste, sexiste.

      Cette dichotomie a été réactualisée avec le 11 septembre 2001, qui a donné un succès aux thèses sur le choc des civilisations. On retrouve cette vision binaire dans la façon dont on se représente les guerres en Afrique. Ce seraient des conflits ethniques, flous, irrationnels, où tout le monde tire sur tout le monde, par opposition aux conflits politiques de la guerre froide. Cette mise en opposition permet de sous-tendre l’idée selon laquelle il y avait bien par le passé de vrais réfugiés qui arrivaient de pays avec des problèmes clairs, ce qui ne serait plus le cas aujourd’hui. Cette vision culturaliste des conflits africains permet également de dépolitiser les mouvements migratoires auxquels ils donnent lieu, et donc de délégitimer les demandes d’asile.

      https://www.liberation.fr/debats/2020/12/20/il-n-est-pas-possible-d-avoir-un-systeme-d-asile-juste-sans-politique-d-i

    • Le tri aux frontières

      En retraçant l’histoire de l’Office français de protection des réfugiés et des apatrides, Karen Akoka montre que l’accueil des migrants en France relève d’une distinction non assumée entre « bons » réfugiés politiques et « mauvais » migrants économiques.
      « Pourquoi serait-il plus légitime de fuir des persécutions individuelles que des violences collectives ? Pourquoi serait-il plus grave de mourir en prison que de mourir de faim ? Pourquoi l’absence de perspectives socio-économiques serait-elle moins problématique que l’absence de liberté politique ? »

      (p. 324)

      Karen Akoka, maîtresse de conférences en sciences politique à l’Université Paris Nanterre et associée à l’Institut des sciences sociales du politique, pose dans cet ouvrage des questions essentielles sur les fondements moraux de notre société, à la lumière du traitement réservé aux étrangers demandant une forme de protection sur le territoire français. Les institutions publiques concernées – principalement le ministère des Affaires Étrangères, l’ Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), le ministère de l’Intérieur – attribuent depuis toujours aux requérants un degré variable de légitimité : ce dernier, longtemps lié à la nationalité d’origine, s’incarne en des catégories (réfugié, boat people, demandeur d’asile, migrant…) qui sont censées les distinguer et les classer, et dont le sens, les usages, et les effets en termes d’accès aux droits évoluent dans le temps. Cet ouvrage a le grand mérite de dévoiler les processus organisationnels, les rapports de force, les intérêts politiques, et les principes moraux qui sous-tendent ces évolutions de sens et d’usage des catégories de l’asile.

      Ce dévoilement procède d’une entreprise socio-historique autour de la naissance et du fonctionnement de l’Ofpra, entre les années 1950 et les années 2010, et notamment des pratiques de ses agents. Dans une approche résolument constructiviste, la figure du « réfugié » (et en creux de celui qui n’est pas considéré « réfugié ») émerge comme étant le produit d’un étiquetage dont sont responsables, certes, les institutions, mais qui est finalement délégué aux agents chargés de la mise en œuvre des règles et orientations politiques.

      Comment est-on passé d’une reconnaissance presque automatique du statut de réfugié pour des communautés entières de Russes, Géorgiens, Hongrois dans les années 1960 et 1970, à des taux de rejets très élevés à partir des années 1990 ? À quel moment et pourquoi la preuve d’un risque individuel (et non plus d’une persécution collective) est devenue un requis ? À rebours d’une explication qui suggérerait un changement de profil des requérants, l’auteure nous invite à rentrer dans les rouages de la fabrique du « réfugié » et de ses alter ego : le « demandeur d’asile » et le « migrant économique ». Pour comprendre à quoi cela tient, elle se penche sur le travail des agents qui sont appelés à les ranger dans une de ces multiples catégories, et sur les éléments (moraux, organisationnels, économiques, et politiques) qui influencent leurs arbitrages.
      Un voyage dans le temps au sein de l’OFPRA

      En s’appuyant à la fois sur les archives ouvertes et sur de nombreux entretiens, son livre propose un éclairage sur l’évolution des décisions prises au sein de l’Ofpra, au plus près des profils et des expériences des hommes et femmes à qui cette responsabilité a été déléguée : les agents.

      Karen Akoka propose une reconstruction chronologique des événements et des logiques qui ont régi l’octroi de l’asile en France à partir de l’entre-deux-guerres (chapitre 1), en s’attardant sur la « fausse rupture » que représente la création de l’Ofpra en 1952, à la suite de la ratification de la Convention de Genève (chapitre 2). Elle montre en effet que, loin de représenter un réel changement avec le passé, la protection des réfugiés après la naissance de cette institution continue d’être un enjeu diplomatique et de politique étrangère pendant plusieurs décennies.

      Les chapitres suivants s’attachent à montrer, de façon documentée et parfois à rebours d’une littérature scientifique jusque-là peu discutée (voir Gérard Noiriel, Réfugiés et sans-papiers, Paris, Hachette, 1998), que la création de l’Ofpra n’est pas exemplaire d’un contrôle « purement français » de l’asile : le profil des agents de l’Ofpra compte, et se révèle déterminant pour la compréhension de l’évolution des pourcentages de refus et d’acceptation des demandes. En effet, entre 1952 et la fin des années 1970, des réfugiés et des enfants de réfugiés occupent largement la place d’instructeurs de demandes de leurs compatriotes, dans une période de guerre froide où les ressortissants russes, géorgiens, hongrois sont reconnus comme réfugiés sur la simple base de leur nationalité. Les contre-exemples sont heuristiques et ils montrent les intérêts français en politique étrangère : les Yougoslaves, considérés comme étant des ressortissants d’un régime qui s’était désolidarisé de l’URSS, et les Portugais, dont le président Salazar entretenait d’excellents rapports diplomatiques avec la France, étaient pour la plupart déboutés de leur demande ; y répondre positivement aurait été considéré comme un « acte inamical » vis-à-vis de leurs dirigeants.

      Les années 1980 sont une décennie de transition, pendant laquelle on passe d’un « régime des réfugiés » à un « régime des demandeurs d’asile », où la recherche d’une crainte individuelle de persécution émerge dans les pratiques des agents. Mais toujours pas vis-à-vis de l’ensemble des requérants : des traitements différenciés continuent d’exister, avec d’évidentes préférences nationales, comme pour les Indochinois ou boat people, et des postures de méfiance pour d’autres ressortissants, tels les Zaïrois. Ce traitement discriminatoire découle encore des profils des agents chargés d’instruire les demandes : ils sont indochinois pour les Indochinois, et français pour les Zaïrois. La rhétorique de la fraude, pourtant bien documentée pour les ressortissants indochinois aussi, est largement mobilisée à charge des requérants africains. Elle occupe une place centrale dans le registre gouvernemental dans les années 1990, afin de légitimer des politiques migratoires visant à réduire les flux.

      L’entrée par le profil sociologique des agents de l’Ofpra et par les changements organisationnels internes à cet organisme est éclairante : la proximité culturelle et linguistique avec les publics n’est plus valorisée ; on recherche des agents neutres, distanciés. À partir des années 1990, l’institution fait évoluer les procédures d’instruction des demandes de façon à segmenter les compétences des agents, à déléguer aux experts (juristes et documentaristes), à réduire le contact avec les requérants ; l’organisation introduit progressivement des primes au rendement selon le nombre de dossiers traités, et des sanctions en cas de non remplissage des objectifs ; des modalités informelles de stigmatisation touchent les agents qui accordent trop de statuts de réfugié ; le recrutement d’agents contractuels permet aux cadres de l’Ofpra d’orienter davantage leur façon de travailler. Il apparaît alors qu’agir sur le profil des recrutés et sur leurs conditions de travail est une manière de les « contrôler sans contrôle officiel ».

      L’approche socio-historique, faisant place à différents types de données tels les mémoires, le dépouillement d’archives, et les entretiens, a l’avantage de décrire finement les continuités et les ruptures macro, et de les faire résonner avec les expériences plus micro des agents dans un temps long. Aussi, l’auteure montre que leurs marges de manœuvre sont largement influencées par, d’un côté, les équilibres politiques internationaux, et de l’autre, par l’impact du new public management sur cette organisation.

      Le retour réflexif de l’auteure sur sa propre expérience au sein du HCR, où elle a travaillé entre 1999 et 2004, est aussi le gage d’une enquête où le sens accordé par les interlocuteurs à leurs pratiques est pris au sérieux, sans pour autant qu’elles fassent l’objet d’un jugement moral. Les dilemmes moraux qui parfois traversent les choix et les hésitations des enquêté.e.s éclairent le continuum qui existe entre l’adhésion et la résistance à l’institution. Mobiliser à la fois des extraits d’entretiens de « résistants » et d’« adhérents », restituer la puissance des coûts de la dissidence en termes de réputation auprès des collègues, faire de la place aux bruits de couloirs : voilà les ingrédients d’une enquête socio-historique se rapprochant de la démarche ethnographique.
      Pour en finir avec la dichotomie réfugié/migrant et la morale du vrai/faux

      Une des contributions essentielles de l’ouvrage consiste à déconstruire l’édifice moral de l’asile, jusqu’à faire émerger les paradoxes de l’argument qui consisterait à dire que protéger l’asile aujourd’hui implique de lutter contre les fraudeurs et de limiter l’attribution du statut aux plus méritants. Karen Akoka aborde au fond des enjeux politiques cruciaux pour notre société, en nous obligeant, si encore il en était besoin, à questionner la légitimité de distinctions (entre réfugié et migrant) qui ne sont pas sociologiquement fondées, mais qui servent en revanche des intérêts et des logiques politiques des plus dangereuses, que ce soit pour maquiller d’humanitarisme la volonté cynique de davantage sélectionner les candidats à l’immigration, ou pour affirmer des objectifs populistes et/ou xénophobes de réduction des entrées d’étrangers sur le territoire sous prétexte d’une prétendue trop grande diversité culturelle ou encore d’une faible rentabilité économique.

      Ce livre est une prise de position salutaire contre la rhétorique des « vrais et faux réfugiés », contre la posture de « autrefois c’était différent » (p. 27), et invite à arrêter de porter un regard moralisateur sur les mensonges éventuels des demandeurs : ces mensonges sont la conséquence du rétrécissement des cases de la protection, de la surenchère des horreurs exigées pour avoir une chance de l’obtenir, de la réduction des recours suspensifs à l’éloignement du territoire en cas de refus de l’Ofpra… La portée politique d’une sociohistoire critique des étiquetages est en ce sens évidente, et l’épilogue de Karen Akoka monte en généralité en mettant en perspective la dichotomie réfugié/migrant avec d’autres populations faisant l’objet de tri : le parallèle avec les pauvres et les guichetiers étudiés par Vincent Dubois (La vie au guichet. Relation administrative et traitement de la misère, Paris, Economica, 2003) permet de décloisonner le cas des étrangers pour montrer comment le système justifie la (non)protection des (in)désirables en la présentant comme nécessaire ou inévitable.

      https://www.icmigrations.cnrs.fr/2021/05/25/defacto-026-08

    • Karen Akoka : « Le statut de réfugié en dit plus sur ceux qui l’attribuent que sur ceux qu’il désigne »

      Alors que l’accueil d’exilés afghans divise les pays de l’Union européenne, l’interprétation par la France du droit d’asile n’a pas toujours été aussi restrictive qu’aujourd’hui, explique, dans un entretien au « Monde », la sociologue spécialiste des questions migratoires.

      (#paywall)

      https://www.lemonde.fr/international/article/2021/08/30/karen-akoka-le-statut-de-refugie-en-dit-plus-sur-ceux-qui-l-attribuent-que-s

  • Lecture d’un extrait du livre « Une bête aux aguets » de Florence Seyvos

    http://liminaire.fr/radio-marelle/article/une-bete-aux-aguets-de-florence-seyvos

    Anna, une adolescente pour qui le réel s’est fracturé, souffre à l’abri des regards, entendant des voix qui l’entourent, susurrent à ses oreilles, des sons qui envahissent sa tête. Elle aperçoit des lumières derrière les rideaux, surprend des ombres dans le couloir et craint de se regarder dans le miroir car le visage qu’elle y découvre n’est pas le sien, mais un autre, qui se déforme et la terrorise. (...) #Radio_Marelle / #Écriture, #Histoire, #Langage, #Livre, #Lecture, #Récit, #Vidéo, #Voix, #En_lisant_en_écrivant, #Mémoire, #Enfance, #Podcast, (...)

    #Biographie
    http://liminaire.fr/IMG/mp4/en_lisant_une_be_te_aux_aguets_florence_seyvos.mp4


    http://www.editionsdelolivier.fr/catalogue/9782823611793-une-bete-aux-aguets

  • Communiqué de presse :

    Avec @damienabad, nous demandons au président de l’Assemblée nationale de créer une mission d’information sur les dérives intellectuelles idéologiques dans les milieux universitaires.

    https://twitter.com/JulienAubert84/status/1331588699264479233

    #Julien_Aubert #Damien_Abad

    #cancel_culture #dérives_intellectuelles_idéologiques #mission_d'information #culture_de_l'annulation #ostracisation

    –-> on y parle aussi #toponymie_politique...

    –—

    Ajouté à ce fil de discussion dédié :
    https://seenthis.net/messages/884291

    • "Islamo-gauchisme" : les députés LR Damien Abad et Julien Aubert demandent une mission d’information

      Le président du groupe LR Damien Abad (Ain) et le VP Julien Aubert (Vaucluse) demandent l’ouverture d’une mission d’information sur « les dérives idéologiques dans les milieux universitaires », mercredi 25 novembre 2020, dans une lettre au président de l’Assemblée nationale Richard Ferrand. Citant une tribune parue dans Marianne le 24 août 2020, les députés fustigent « l’importation depuis les États-Unis » d’une « cancel culture » qui, selon eux « désigne la volonté de réduire au silence dans l’espace public tous ceux qui portent des paroles ou un comportement jugés ’offensants’ ». Ils dénoncent aussi les « courants islamo-gauchistes puissants dans l’enseignement supérieur » (lire ici) tels que pointés par le ministre de l’Éducation nationale Jean-Michel Blanquer (lire ici). Ces phénomènes s’illustreraient par « l’impossibilité de faire des conférences dans les IEP ou les universités ».

      https://www.aefinfo.fr/depeche/640570-islamo-gauchisme-les-deputes-lr-damien-abad-et-julien-aubert-demanden

    • « Nous appelons à la résistance contre une culture de la déconstruction identitaire. » La tribune de Julien Aubert et Robin Reda

      Les députés LR dénoncent « les menaces de procès, insultes et harcèlements » qui ont suivi la proposition de création, à l’Assemblée nationale, d’une mission d’information sur les dérives idéologiques à l’université.

      La République Française ne connaît que des citoyens français. Elle ne les définit ni par leur ethnie, genre, ou religion et n’aborde ces sujets que lorsqu’il est nécessaire de combattre des discriminations qui ne sauraient exister. Elle ne reconnaît aucune tribu, clan ou regroupement particulier. Il ne peut y avoir en République qu’une communauté : la Nation.

      Cette conception sage et héritée de deux siècles de démocratie se heurte aujourd’hui à une obsession pour les questions identitaires, importée de l’étranger. Les Etats-Unis, traumatisés par la question raciale, se sont construits en société du melting-pot, qui a abouti à des revendications minoritaires, puis à la discrimination positive fondée sur la différence et la singularité.

      Ce différentialisme a contaminé une extrême gauche désorientée par l’échec du communisme, qui s’est trouvé un nouveau destin dans la rancœur à l’encontre de la République. Elle a fait sienne une grille de l’Histoire forgée dans la repentance, la culpabilité coloniale et un antiracisme dévoyé comme nouveau ciment idéologique. Elle a ainsi réintroduit dans le débat public une obsession pour la race, tout à sa volonté de faire corps avec un nouveau corps social « régénéré » par l’immigration et le métissage, une société de communautés juxtaposées. Sa recherche des victimes du système l’a poussé à faire du peuple une addition de minorités par définition persécutées - LGBT, femmes, immigrés, musulmans... - et à réussir une OPA intellectuelle sur une partie de la gauche modérée

      Il en résulte que se développent aujourd’hui dans les médias, sur les réseaux sociaux, dans les tribunaux mais aussi les lieux de savoir, une culture de la déconstruction identitaire particulièrement belliqueuse et sectaire. De manière plus inquiétante, les relais de ce qu’il faut bien appeler une idéologie se sentent suffisamment forts pour tenter de museler les parlementaires qui souhaitent s’informer et prendre la mesure du phénomène.

      Dérives. C’est ici des menaces de procès, insultes et harcèlements à l’attention de deux députés proposant une mission d’information sur les dérives idéologiques à l’université. A rebours des témoignages multiples d’étudiants, personnalités politiques et intellectuels pointant le développement d’une culture d’ostracisation à l’université, à l’égard de ceux qui ne partagent pas les thèses décoloniales, genrées ou communautaristes d’une certaine extrême gauche, ce tir de barrage n’avait qu’une vocation : intimider et enterrer l’affaire. Leur fureur redoubla lorsqu’au lieu de s’aplatir, l’un des deux auteurs de la proposition de mission aggrava son cas en résistant et pointant publiquement les professeurs et présidents d’université prompts à agiter complaisamment l’épouvantail du fascisme ou du maccarthysme. Eux qui adorent promouvoir le name and shame à l’américaine n’ont pas apprécié qu’on leur applique leurs méthodes.

      C’est ailleurs, une association, le GISTI (Groupe d’Informations et de soutien aux Immigrés) qui s’autorise à dénoncer auprès de Richard Ferrand, le président de l’Assemblée nationale, un député, président de mission d’information sur l’émergence et l’évolution des différentes formes de racisme, parce qu’il a osé contredire cette association en cours d’audition et récuser l’affirmation selon laquelle la France serait un Etat raciste aux lois discriminatoires et illégitimes. Il faut dire qu’il avait sans doute aggravé son cas en rappelant la proximité du GISTI avec d’autres associations comme le FASTI qui avait ouvertement imputé les attentats islamistes perpétrés contre la France à « la politique néocoloniale discriminante, xénophobe et raciste de la France ».

      Il ne s’agit pas d’incidents isolés.

      Ces idéologues ont en commun de partager des thèses anti-républicaines d’une nouvelle extrême gauche imprégnée d’une culture de la pénitence occidentale et d’une détestation de tout ce que la France représente. Celle-ci fait du Français « non-genré et non-racisé » le grand satan de l’Histoire, quand l’étranger ou le minoritaire demeure le réprouvé de l’Histoire.

      Complaisance. Ces nouveaux fascistes adeptes du racisme à l’envers n’aiment la liberté d’expression que pour eux-mêmes. Ils se servent de chaque remise en cause des dérives identitaires pour générer de la vexation et in fine de la sécession. Leur lecture de l’Histoire, à la seule chandelle de la couleur de l’identité singulière, n’est pas compatible avec le récit de ceux restés fidèles à l’universalisme et à une politique aveugle aux origines, guidée par l’intérêt général.

      Ces doctrinaires en sont conduits à une coupable complaisance envers les fondamentalistes conservateurs islamistes, qu’ils voient comme le nouveau lumpenprolétariat, une classe populaire de substitution capable de les conduire au pouvoir. Les plus naïfs ne comprennent pas qu’ils en sont les idiots utiles.

      Nous souhaitons par cette tribune alerter la majorité silencieuse. Il ne peut pas y avoir de concession, de dialogue ou de complaisance à l’égard d’un courant politique qui en réalité s’en prend à la République. Nous en appelons à la Résistance.

      https://www.lopinion.fr/edition/politique/nous-appelons-a-resistance-contre-culture-deconstruction-identitaire-231157

    • Mission « #racisme » de l’Assemblée nationale : les dérapages d’un président

      Invité par la Mission d’information de l’Assemblée nationale « sur l’émergence et l’évolution des différentes formes de racisme et les réponses à y apporter », le Gisti a été auditionné le 24 septembre dernier, après un certain nombre d’autres associations et d’expert.es.

      Les conditions dans lesquelles s’est déroulée l’audition de Danièle Lochak, qui représentait le Gisti, devant les quelques rares membres présent.es de cette Mission, nous ont amenés à saisir l’ensemble des parlementaires membres de cette Mission, ainsi que le président de l’Assemblée nationale, pour leur faire part de notre stupéfaction face à la partialité et l’agressivité du président de la Mission, M. Robin Reda, et aux erreurs grossières qu’il a proférées, dénaturant l’audition qu’il a utilisée comme une tribune pour afficher ses positions partisanes.

      La vidéo de l’audition est accessible sur le site de l’Assemblée nationale (http://videos.assemblee-nationale.fr/video.9535885_5f6c41b26de5a), ainsi que son compte-rendu écrit (http://videos.assemblee-nationale.fr/video.9535885_5f6c41b26de5a).

      Ci-dessous le courrier adressé par le #Gisti aux membres de la Mission et au président de l’Assemblée nationale.

      Paris, le 12 octobre 2020

      À Monsieur le Président de l’Assemblée Nationale,

      À Mesdames et Messieurs les députés,
      membres de la Mission d’information sur l’émergence
      et l’évolution des différentes formes de racisme
      et les réponses à y apporter

      Nous souhaitons appeler votre attention sur les conditions dans lesquelles s’est déroulée l’audition de Mme Danièle Lochak le 24 septembre dernier.

      Madame Lochak a été entendue en sa double qualité de Professeure émérite de droit public à l’Université de Paris Nanterre et Présidente honoraire du Gisti par les membres de la mission d’information sur l’émergence et l’évolution des différentes formes de racisme.

      Elle a présenté un exposé liminaire, dans lequel elle a procédé à une analyse de la législation relative aux étrangers et des pratiques constatées de la part des autorités publiques, pour démontrer en quoi de nombreuses inégalités de traitement fondées sur la nationalité constituent en réalité des discriminations fondées sur les origines, voire des discriminations raciales et comportent de ce fait un effet stigmatisant.

      Reprenant immédiatement la parole à l’issue de la présentation de cet exposé introductif, le président de la mission, Monsieur Robin Reda, a adopté un comportement insolite en ce genre de circonstances. Il s’est exprimé en ces termes : « Un peu plus, un peu moins, de toutes manières, ce qui nous intéresse, c’est le fond du propos, dont je dois dire, Madame, qu’il m’a énormément choqué mais je ne suis pas surpris au regard des prises de positions du Gisti et moi qui me croyais d’une droite relativement modérée, je me découvre totalement fasciste au regard de ce que vous dites, avec lesquels je suis en désaccord sur tous les points. Mais on est là pour en débattre et la démocratie a ceci de beau que nous invitons aussi des organisations qui appellent ouvertement à enfreindre la loi, je pense notamment à la Marche des sans-papiers organisée le 17 octobre, à laquelle le Gisti est associé. Si on est sans-papiers et que l’on défile ouvertement sans se faire arrêter, on viole la loi et non seulement on viole la loi mais en plus, l’État est trop faible pour vous interpeller ».

      Madame Lochak a rappelé qu’il n’y avait là aucune violation de la loi puisque la liberté de manifester ne prévoit pas d’exceptions pour les personnes sans papiers. Elle a fait remarquer qu’il arrivait souvent, au demeurant, que des personnes sans papiers soient régularisées, ce qui atteste que leur revendication peut être entendue par l’administration. Monsieur Reda a alors ajouté qu’à cette Marche du 17 octobre, le Gisti défilait avec des mouvements indigénistes – comme si le fait d’apparaître comme signataire d’un appel parmi plus d’une centaine d’organisations impliquait l’adhésion aux positions de la totalité des signataires, et alors même que plusieurs des associations déjà auditionnées par la mission sont également signataires de cet appel à la Marche du 17 octobre, sans que Monsieur Reda s’en soit ému.

      Monsieur Reda a ensuite demandé « si la France serait toujours coloniale et s’il faudrait lui imposer une forme de démarche vengeresse qui mettrait en cause la République-même », avant de s’interroger lui-même, de façon particulièrement insultante pour l’organisation représentée par Madame Lochak et pour elle-même, sur la question de savoir si la mission qu’il préside « ne devrait pas s’intituler : Émergence d’une forme d’antiracisme dangereux en ce qu’il menace l’ordre républicain », suggérant explicitement que le Gisti serait le vecteur de cet « antiracisme dangereux ».

      Le monologue agressif du président de la Mission d’information s’est poursuivi pendant la majeure partie de l’audition, alors qu’il avait lui-même rappelé que celle-ci devait pouvoir se dérouler « en toute tranquillité ». Ce n’est que dans les dix dernières minutes que la rapporteure a donné l’occasion à Madame Lochak de développer ses arguments.

      Par son comportement, le président a clairement outrepassé ses prérogatives, dévoyé sa fonction et dénaturé cette audition en principe destinée à recueillir les connaissances d’experts, à poser des questions utiles et à enrichir les travaux de la Mission. Il l’a utilisée en effet comme une tribune pour afficher des positions partisanes, en agressant la personne auditionnée, non sans proférer une série d’erreurs grossières et de contre-vérités.

      Ces manquements aux obligations inhérentes à ses fonctions et la violence des attaques portées par Monsieur Reda contre Madame Lochak, et à travers elle contre le Gisti, nous paraissent d’autant plus préoccupants que la Mission mise en place par la Conférence des Présidents traite d’un sujet « sensible » et que, pour cette raison précisément, son déroulement exige, a fortiori de la part de son président, une parfaite neutralité.

      Compte tenu de l’importance de l’enjeu de la Mission, nous demandons que ce courrier soit annexé à son futur rapport.

      Pour la même raison, vous comprendrez que ce courrier soit rendu public.

      Veuillez croire, Mesdames, Messieurs, à l’assurance de nos salutations.
      Vanina Rochiccioli
      Présidente du Gisti

      https://www.gisti.org/spip.php?article6492=

    • La #cancelculture pour les nuls

      Faire taire : tel est l’objectif que se donnent celles et ceux qui pratiqueraient — consciemment ou non — la cancel culture. Depuis quelques mois, on assiste à une recrudescence de commentaires sur l’existence d’une #cancelculture à la française, qui consisterait à déboulonner les statues, à « couper la République en deux » (Emmanuel Macron), ou plus pratiquement, à entraver la tenue de « débats »1 ou à censurer des oeuvres2.

      Il est pourtant une #cancelculture bien française, qui se reconnaît difficilement comme telle, et qui se pratique dans l’espace de communication feutrée des universités : le harcèlement sur les listes professionnelles, à l’endroit des jeunes chercheurs et, plus souvent encore, des jeunes chercheuses.

      Pour ce billet, nous nous appuyons sur les archives de la liste Theuth, spécialisée en épistémologie et histoire des sciences. Nous ne souhaitons pas particulièrement stigmatiser une liste de diffusion qui a été, par le passé, un beau lieu de débat professionnel et scientifique. Cette liste en effet n’est pas modérée a priori3, ce qui favorise les débats ou les échanges. Elle diffère ainsi grandement des listes où les modérateurices, en autonomie ou soumis·es à un protocole complexe de censure, comme H-France, Histoire eco, la liste de diffusion de l’Association française d’histoire économique4, ou encore geotamtam, qui regroupe des centaines de géographes ; ces listes sont modérées a priori ; les lecteurices n’ont pas accès aux épiques échanges invisibles ont lieu avant la publication ou la censure — ni même idée de leur existence, puisqu’aucune justification publique et régulière de l’activité de modération n’est jamais publiée sur lesdites listes. Parmi les sujets les plus censurés sur ces dernières listes citées, on trouve ainsi toutes les considérations touchant aux conditions de travail et d’emploi dans l’enseignement supérieur et la recherche, jugées « non scientifiques », ou sans rapport avec l’objet de la liste de diffusion, et plus récemment, les informations touchant aux attaques contre les « libertés académiques ». C’est ainsi que, pendant des années, l’emploi dans l’ESR et ses conditions n’ont fait l’objet d’aucune discussion au sein de certaines sociétés savantes, les privant de facto d’un levier sur une évolution dégradant considérablement les conditions d’exercice et la science telle qu’elle se fait. En ce sens, Theuth n’est pas représentative de nombre de listes de diffusion universitaire et reste un espace professionnel bien vivant.

      La conjonction entre un échange récent sur Theuth, à propos de l’Observatoire du décolonisme, et le fait que plusieurs membres, également membres de Vigilances Universités, y pratiquent de façon régulière le harcèlement sexiste et dominant à l’endroit de jeunes chercheuses et de jeunes chercheurs — visant in fine à les faire taire — nous conduit aujourd’hui à resaisir le pseudo-débat autour du décolonialisme à l’université au prisme du harcèlement des subalternes de l’ESR5. Ce harcèlement prend plusieurs formes : en général, des interpellations à n’en plus finir sur l’usage « scandaleux » (sic) de l’écriture inclusive ou de la langue anglaise ; moins fréquemment, l’attaque ad hominem et l’injure publique6. Ces comportements, qui s’apparentent à du harcèlement avec ciblage spécifique des femmes et des jeunes chercheurs et chercheuses ne font pas l’objet d’une modération a posteriori effective7.

      Le harcèlement professionnel ne laisse pas indemnes les membres d’une communauté scientifique. Plusieurs collègues ont d’ailleurs quitté Theuth, fatiguées des remarques sexistes continuelles. Dans le contexte récent de mise en lumière de l’association Vigilance Universités, à la manœuvre dans l’élaboration et la publication de plusieurs tribunes cette année8, la rédaction d’Academia a découvert avec stupéfaction que ceux-là mêmes qui prônaient le maccarthysme universitaire, pratiquaient quotidiennement le harcèlement sur une liste professionnelle bien familière. Attaques publiques et dévalorisation publiques apparaissent, sous ce nouveau jour, comme les deux mamelles de la domination professionnelle de ceux qui sont habituellement prompts à se poser comme victimes de la supposée #cancelculture des militant·es gauchistes9. Ce faisant, et sans modération de la part de leurs collègues titulaires, ce sont bien les « dominé·es » de l’ESR, les non-titulaires, les femmes et les personnes racisées, qui se trouvent privées d’un espace de travail serein. Il est ainsi plus simple de cancel celles et ceux à qui ces personnes malveillantes dénient toute légitimité ou qui, en raison d’une politique plus que malthusienne de l’emploi universitaire, ont intérêt à se taire, à oublier même certains sujets ou certaines pratiques de la recherche, s’iels veulent être un jour recruté·es.

      Nous choisissons de reproduire trois réponses de la liste, sélectionnées au sein de son archive publique, avec l’accord de leurs autrices et de leur auteur, afin de donner à d’autres les moyens de se défendre contre la mâle #cancelculture à la française.

      - Observatoire du décolonialisme, Vigilance universités et domination (janvier 2021)
      - « Les convulsions qui indiquent la fin prochaine » : point médian, écriture inclusive et réactions d’arrière-garde (novembre 2020)
      - Au revoir TheuthienNEs : quitter la liste pour en refuser le sexisme (décembre 2018)

      https://academia.hypotheses.org/30581

    • Accusation d’"#islamo-gauchisme" à l’université : des députés réclament une mission d’information

      Deux députés Les Républicains demandent la création d’une mission d’information parlementaire sur les « dérives intellectuelles idéologiques dans les milieux universitaires ». La Conférence des présidents d’université affirme qu’elle « partage l’indignation de toute la communauté universitaire ».

      La polémique n’en finit pas… Deux députés Les Républicains, Julien Aubert et Damien Abad, ont adressé un courrier au président de l’Assemblée nationale dans lequel ils dénoncent « les dérives intellectuelles idéologiques qui se manifestent dans les milieux universitaires », indique l’Assemblée dans un communiqué.

      Les deux députés réclament la création d’une mission d’information parlementaire. Si l’Assemblée nationale accepte la création de cette mission d’information, une délégation de la commission sera alors chargée d’étudier cette question et de publier un rapport.

      « Islamo-gauchisme »

      Les parlementaires pointent deux faits dans leur courrier. L’importation, selon eux, de la « cancel culture » américaine « qui désigne la volonté de réduire au silence dans l’espace public tous ceux qui portent des paroles ou un comportement jugés offensants ». Mais aussi l’existence de supposés "courants « islamo-gauchistes » puissants dans l’enseignement supérieur".

      Ces députés font écho aux propos du ministre de l’Education nationale, Jean-Michel Blanquer, qui pointait « l’islamo-gauchisme qui fait des ravages à l’université », six jours après l’assassinat de Samuel Paty. La Conférence des présidents d’université (CPU) s’était alors indignée de ces mots. D’autant que le terme « islamo-gauchisme », qui a été inventé par des intellectuels réactionnaires dans les années 2000, a en effet longtemps été l’apanage des penseurs d’extrême-droite. De plus en plus répandu, il désigne « l’alliance ou la collusion entre des groupes d’extrême gauche et des mouvances islamistes », explique un de ces créateurs, le politologue Pierre-André Taguieff, dans une tribune publiée dans Libération.

      « Odieuses calomnies »

      Pour la CPU, cette demande de mission d’information « reflète la totale méconnaissance du fonctionnement de l’institution universitaire, de la recherche et de la formation » de ces parlementaires. « Elle signale surtout, au nom de l’opportunisme populiste, l’irrespect et la remise en cause des libertés académiques, principe fondamental de valeur constitutionnelle et présent dans toute démocratie ».

      Elle s’indigne par ailleurs d’un post Twitter de Julien Aubert, qui désigne sept présidents d’universités comme « coupables » de la « censure » qu’il entend dénoncer dans les universités. Cette publication, avec des photos des profils des présidents, est un « mépris des droits les plus élémentaires de la personne humaine », condamne la CPU dans un communiqué publié ce lundi 30 novembre.

      La CPU tient « à apporter son soutien aux universitaires qui subissent, ces derniers jours, d’odieuses calomnies », a-t-elle réagi. En attendant la décision de l’Assemblée, elle affirme qu’elle est « solidaire de ses collègues et partage l’indignation de toute la communauté universitaire ».

      https://www.letudiant.fr/educpros/actualite/accusation-d-islamogauchisme-a-l-universite-deux-parlementaires-demandent-

    • "Islamo-Gauchisme" : #Christelle_Rabier porte #plainte contre Julien Aubert - Info HuffPost

      La chercheuse Christelle Rabier, maîtresse de conférence à l’EHESS, vient de porter plainte contre Julien Aubert, député Les Républicains, pour "injure publique".

      Le terme “islamo-gauchiste” sera-t-il considéré bientôt comme une injure ? Christelle Rabier, historienne des sciences et de la médecine, maîtresse de conférence à l’École des Hautes Études en sciences sociales (EHESS) à Marseille, a porté plainte mardi 23 février contre le député Julien Aubert (LR) pour un tweet où elle est désignée comme “islamo-gauchiste” aux côtés de sept autres chercheurs.

      Dans le tweet en question, qui date du 26 novembre 2020, le député du Vaucluse écrit : “Universités : les coupables s’autodésignent. Alors que la privation du débat, l’ostracisation et la censure est constatée par nombre de professeurs, étudiants ou intellectuels, certains se drapent dans des accusations de fascisme et de #maccarthysme.”

      Sous ce texte, un montage photo affiche les comptes Twitter de sept universitaires, dont un président d’université. La plainte, qui a été déposée le 23 février et consultée par Le HuffPost, fait état d’un délit d’“injure publique envers un fonctionnaire public”.

      “Jeter le #discrédit sur les universitaires”

      “Pour que ce soit de la diffamation, il faut que ce soit quelque chose de précis, justifie au HuffPost son avocat au Barreau de Paris, Maître Raphaël Kempf. Si nous attaquions pour diffamation, cela voudrait dire que l’on considère que le terme ‘islamo-gauchisme’ correspondrait à une certaine réalité.”

      Si le terme “islamo-gauchisme” n’apparaît pas dans le tweet dont il est l’objet, c’est bien de cela qu’il s’agit, ainsi que de “dérives idéologiques”, et de “cancel culture”, dont les universitaires seraient “coupables”.

      “Pour comprendre le tweet, il faut lire son tweet précédent, explique l’avocat. Les ‘Coupables’ de quoi ? D’“islamo-gauchisme’, de ‘cancel culture’, de ‘censure’... Le but est de jeter le discrédit et l’anathème sur les universitaires. Il faut lire ça comme un tout.” De mémoire d’avocat, ce serait la première fois que ces termes sont présentés comme des injures.
      “Cancel culture” et “islamo-gauchisme”

      Pour pleinement comprendre ce tweet, il faut en effet revenir un peu en arrière. La veille, le 25 novembre, Julien Aubert et le président du groupe Les Républicains, Damien Abad, ont demandé à l’Assemblée nationale la création d’une mission d’information “sur les dérives idéologiques dans les milieux universitaires”.

      Dans leur communiqué de presse, il est question de lutter à la fois contre la “cancel culture” et “les courants islamo-gauchistes puissants dans l’enseignement supérieur” (voir le tweet ci-dessous). Une annonce qui provoque la polémique. Des professeurs d’université et des chercheurs s’érigent contre une “chasse aux sorcières” et accusent les députés de “maccarthysme”.

      Les protestations du monde universitaire ne freinent pas la volonté du député LR. Le lendemain, il publie le tweet en question, et affiche les comptes de ceux qui sont, pour lui, des preuves vivantes de la nécessité de cette mission d’information parlementaire.

      À l’époque, les réactions ont été vives. La Conférence des présidents d’université (CPU) parle d’une “#faute_grave” du député. L’Alliance des universités appelle à “de la dignité et de la retenue dans les propos”. L’Université de Rennes 2 considère que “c’est une dérive grave”.

      “Une telle désignation, de la part d’un représentant de la Nation, constitue une faute grave”, écrit la CPU dans son communiqué datant du 30 novembre, avant de fustiger la mission d’information qui “signale, au nom de l’opportunisme populiste, l’irrespect et la remise en cause des libertés académiques, principe fondamental de valeur constitutionnelle et présent dans toute démocratie.”

      https://twitter.com/CPUniversite/status/1333342242195578880

      “Une #attaque brutale et inouïe”

      Pour Christelle Rabier, qui fait partie des universitaires ainsi désignés, c’est “un choc”. “Je ne suis pas la seule à avoir été très affectée par cette attaque brutale et inouïe, de la part d’un député, en dehors de l’hémicycle”, témoigne-t-elle dans la vidéo en tête d’article.

      “C’est méconnaître nos métiers, l’engagement qu’on a au quotidien auprès de nos étudiants et de nos collègues, tempête-t-elle. Les mots me manquent.”

      Pour elle, la meilleure façon de répondre est de porter plainte, “pour que les députés sachent qu’il n’est pas possible de s’en prendre impunément à des universitaires au titre de leur fonction, d’enseignant et de chercheur.”

      Une décision qui “n’a pas été prise simplement” et qu’elle porte finalement seule. “Certains des mis en cause jugeaient que c’était vraiment du buzz électoraliste et qu’il fallait juste faire taire”, raconte la chercheuse. La réaction collective se borne à demander à ce que le tweet, qui n’a pas été supprimé par Twitter, n’apparaisse dans aucune publication médiatique sur le sujet.

      Elle décidera de se lancer en solo dans la bataille judiciaire. Elle espère que cette plainte, si son issue lui est favorable, pourra faire jurisprudence et précisera “dans quelle mesure un député peut utiliser sa parole sur un réseau social pour s’en prendre à un ou plusieurs agents de la fonction publique.”

      Une décision renforcée par les déclarations de sa ministre de tutelle, Frédérique Vidal, sur “l’islamo-gauchisme” qui “gangrène l’université”. “Ces affirmations sont gravissimes, estime-t-elle. Pour moi qui suis historienne, ‘islamo-gauchisme’, c’est comme ‘judéo-bolchevique’.”
      Pas de protection fonctionnelle

      Si elle ne porte plainte que trois mois plus tard, c’est parce qu’elle espérait disposer d’une “protection fonctionnelle” de la part de l’établissement où elle travaille, l’EHESS, liée à son statut de fonctionnaire et qui permet notamment de bénéficier d’une assistance juridique.

      Une aide juridique et financière qui avait notamment été accordée par exemple aux quatre policiers mis en examen après le passage à tabac de Michel Zecler en décembre dernier.

      En novembre, le président de son université aurait envoyé un signalement au Procureur de la République, indiquant qu’elle a fait l’objet d’un tweet diffamatoire. Mais sa demande de protection fonctionnelle sera finalement refusée.

      “Elle lui a été refusée en pratique, précise son avocat Me Kempf. Dans les discours, ils lui ont accordée, mais de fait ils l’ont refusée. Ils considèrent qu’intenter une procédure contre Julien Aubert serait contribuer à une publicité tapageuse. Mais ce n’est absolument pas à l’université de décider à la place de la victime d’un délit de la meilleure procédure à mettre en place.”

      C’est donc à ses propres frais que la chercheuse s’est lancée dans cette procédure. “Cela a choqué beaucoup de collègues, au sein de mon établissement et à l’extérieur, estime-t-elle. Quand ils ont découvert que pour une affaire aussi grave, je ne bénéficie pas du soutien de mon institution.” Christelle Rabier a déposé un recours contre cette décision et son avocat attaqué l’EHESS devant le tribunal administratif.

      Contacté par Le HuffPost, le député Julien Aubert n’a pas souhaité apporter de commentaire.

      https://www.huffingtonpost.fr/entry/islamo-gauchisme-christelle-rabier-porte-plainte-contre-julien-aubert

  • Tesla accused of ignoring and covering up suspension defects in class action lawsuit
    https://www.cnet.com/roadshow/news/tesla-accused-of-ignoring-and-covering-up-suspension-defects-in-class-action-l

    Owners allege Tesla continues to blame drivers for the issue rather than take safety seriously in Model S and Model X electric vehicles. A new class action lawsuit (PDF) landed on Tesla last Friday as owners allege the California-based automaker continues to ignore suspension safety issues in older Model S and Model X EVs. The suit, filed in a California federal court, spans 101 pages and alleges Tesla not only failed in its duty as an automaker to ensure owners’ safety, but it actively (...)

    #Tesla #voiture #manipulation #bug

  • Holiday Tech Gift Guide : 2020’s Most Creepy Surveillance Gifts
    https://debugger.medium.com/a-gift-guide-to-this-holiday-seasons-creepiest-surveillance-gadgets

    Let your loved ones decide what privacy means to them One of the best things about the holiday season is that you get to force your own privacy preferences on others. Maybe your family member wouldn’t normally buy a watch that tells Google when they’re asleep or a doorbell that helps them inform on their neighbors. But during this brief window each year, you can make a whole variety of fraught privacy decisions for them through gift-giving ! They’ll be forced to live with your privacy (...)

    #Clearview #Fitbit #Google #Huawei #Mozilla #Nest #Ring #Amazon #algorithme #robotique #bracelet #CCTV #drone #sonnette #géolocalisation #pouls #santé #surveillance (...)

    ##santé ##voisinage
    https://miro.medium.com/focal/1200/632/48/46/0*qDA-p6tROLkwpN1E

  • « Bombes climatiques »
    http://carfree.fr/index.php/2020/11/25/bombes-climatiques

    On connaissait déjà le scandale écologique des voitures hybrides, on découvre aujourd’hui que les voitures hybrides rechargeables sont de véritables « bombes climatiques. » Selon l’ONG Transport & Environnement qui a étudié Lire la suite...

    #Fin_de_l'automobile #Réchauffement_climatique #climat #CO2 #constructeurs #Europe #SUV #voiture_électrique #voiture_hybride

  • #Police attitude, 60 ans de #maintien_de_l'ordre - Documentaire

    Ce film part d´un moment historique : en 2018-2019, après des affrontements violents entre forces de l´ordre et manifestants, pour la première fois la conception du maintien de l´ordre a fait l´objet de très fortes critiques et d´interrogations insistantes : quelle conception du maintien de l´ordre entraîne des blessures aussi mutilante ? N´y a t-il pas d´autres manières de faire ? Est-ce digne d´un État démocratique ? Et comment font les autres ? Pour répondre à ces questions, nous sommes revenus en arrière, traversant la question du maintien de l´ordre en contexte de manifestation depuis les années 60. Pas seulement en France, mais aussi chez nos voisins allemands et britanniques, qui depuis les années 2000 ont sérieusement repensé leur doctrine du maintien de l´ordre. Pendant ce temps, dans notre pays les autorités politiques et les forces de l´ordre, partageant la même confiance dans l´excellence d´un maintien de l´ordre « à la française » et dans le bien-fondé de l´armement qui lui est lié, ne jugeaient pas nécessaire de repenser la doctrine. Pire, ce faisant c´est la prétendue « doctrine » elle-même qui se voyait de plus en plus contredite par la réalité d´un maintien de l´ordre musclé qui devenait la seule réponse française aux nouveaux contestataires - lesquels certes ne rechignent pas devant la violence, et c´est le défi nouveau qui se pose au maintien de l´ordre. Que nous apprend in fine cette traversée de l´Histoire ? Les approches alternatives du maintien de l´ordre préférées chez nos voisins anglo-saxons ne sont sans doute pas infaillibles, mais elles ont le mérite de dessiner un horizon du maintien de l´ordre centré sur un rapport pacifié aux citoyens quand nous continuons, nous, à privilégier l´ordre et la Loi, quitte à admettre une quantité non négligeable de #violence.

    https://www.dailymotion.com/video/x7xhmcw


    #France #violences_policières
    #film #film_documentaire #Stéphane_Roché #histoire #morts_de_Charonne #Charonne #répression #mai_68 #matraque #contact #blessures #fractures #armes #CRS #haie_d'honneur #sang #fonction_républicaine #Maurice_Grimaud #déontologie #équilibre #fermeté #affrontements #surenchère #désescalade_de_la_violence #retenue #force #ajustement_de_la_force #guerilla_urbaine #CNEFG #Saint-Astier #professionnalisation #contact_direct #doctrine #maintien_de_l'ordre_à_la_française #unités_spécialisées #gendarmes_mobiles #proportionnalité #maintien_à_distance #distance #Allemagne #Royaume-Uni #policing_by_consent #UK #Angleterre #Allemagne #police_militarisée #Irlande_du_Nord #Baton_rounds #armes #armes_à_feu #brigades_anti-émeutes #morts #décès #manifestations #contestation #voltigeurs_motoportés #rapidité #23_mars_1979 #escalade #usage_proportionné_de_la_force #Brokdorf #liberté_de_manifester #innovations_techniques #voltigeurs #soulèvement_de_la_jeunesse #Malik_Oussekine #acharnement #communication #premier_mai_révolutionnaire #Berlin #1er_mai_révolutionnaire #confrontation_violente #doctrine_de_la_désescalade #émeutes #G8 #Gênes #Good_practice_for_dialogue_and_communication (#godiac) #projet_Godiac #renseignement #état_d'urgence #BAC #brigades_anti-criminalité #2005 #émeutes_urbaines #régime_de_l'émeute #banlieue #LBD #flashball #lanceur_de_balles_à_distance #LBD_40 #neutralisation #mutilations #grenades #grenade_offensive #barrage_de_Sivens #Sivens #Rémi_Fraisse #grenade_lacrymogène_instantanée #cortège_de_tête #black_bloc #black_blocs #gilets_jaunes #insurrection #détachement_d'action_rapide (#DAR) #réactivité #mobilité #gestion_de_foule #glissement #Brigades_de_répression_des_actions_violentes_motorisées (#BRAV-M) #foule #contrôle_de_la_foule #respect_de_la_loi #hantise_de_l'insurrection #adaptation #doctrine #guerre_civile #défiance #démocratie #forces_de_l'ordre #crise_politique

  • « Pédocriminalité », « viol », « atteinte sexuelle »… : quels mots pour qualifier les violences sexuelles sur enfants ?
    https://www.leparisien.fr/faits-divers/pedocriminalite-abus-sexuels-quels-mots-pour-qualifier-les-violences-sexu
    Alors qu’elles resurgissent en pleine affaire Matzneff, on fait le point sur ces notions souvent mal employées et qui, pour certaines, font débat.
    https://pbs.twimg.com/media/EM-olbiWkAYa60R?format=jpg&name=small
    Les regrets de Laurent Joffrin, le directeur de la publication de Libération, n’ont pas permis d’endiguer la vague d’indignations. La Une du quotidien datée de lundi, consacrée à l’affaire Gabriel Matzneff, s’est attiré les foudres de nombreux internautes. En cause, les mots choisis, Libé évoquant notamment les « ébats avec des enfants ou des ados » de l’écrivain « pédophile », aujourd’hui âgé de 83 ans.

    « Le mot que vous cherchez, c’est pédocriminalité », dénonce la députée LFI Danièle Obono. « On ne dit pas ébats avec des enfants et des ados mais viols d’enfants et d’ados », proteste Élodie Jauneau, membre du bureau national du PS.

    Peut-on réellement parler d’« ébats », une notion impliquant le consentement, dans ce genre d’affaires ? La psychiatre Muriel Salmona, présidente de l’association Mémoire traumatique et victimologie, déplore la récurrence de termes « qui alimentent le déni ou la minimisation des faits et construisent l’impunité de leurs auteurs ». Pourtant, pointe-t-elle, « les violences sexuelles commises sur les enfants sont celles qui ont le plus de répercussion sur les victimes ».

    Une simple recherche sur un moteur de recherche permet de constater que les expressions malheureuses, voire les abus de langage sont légion. Quels sont ces termes qui font polémique ? Comment parler des violences sexuelles envers les enfants ? Le Parisien fait le point avec des professionnels du droit, de la protection de l’enfance et de la communication.
    « Pédophile » ou « pédocriminel » ?

    Étymologiquement, le terme « pédophile », qui signifie « l’amour envers les enfants » (« philia » et « paidos »), pose d’emblée problème. « Il renvoie à une époque - on le voit avec l’affaire Matzneff - où l’on considérait l’attirance sexuelle envers les enfants comme une orientation sexuelle, au même titre que l’homosexualité », observe Muriel Salmona. « Le mot pédophilie masque le réel des violences sexuelles. À l’évidence, les viols et agressions sexuelles ne relèvent pas de l’amour, mais de son contraire, la violence », acquiesce Edouard Durand, juge des enfants au tribunal de grande instance (TGI) de Bobigny.

    « Pédophilie » n’a d’ailleurs aucune valeur juridique, puisqu’il n’existe pas dans le Code pénal. C’est surtout dans son acception médicale qu’il est couramment employé aujourd’hui. « C’est un trouble psychiatrique, qui doit faire l’objet d’un diagnostic médical », rappelle Stéphanie Lamy, militante féministe spécialisée dans la communication stratégique, et cofondatrice du collectif Abandon de Famille. Certains auteurs de violences sexuelles sur mineurs peuvent ainsi « ne jamais être diagnostiqués pédophiles », souligne-t-elle. « Il peut s’agir de violences de domination ». Tout comme certains pédophiles diagnostiqués peuvent ne jamais passer à l’acte, par respect de la loi ou de la morale.

    Ce terme a portant de facto sa place dans la sphère judiciaire. « Il est utilisé dans le cadre des débats, en cas de procès aux assises, en marge des expertises », souligne Carine Durrieu Diebolt, avocate spécialisée dans la défense de victimes de violences sexuelles. Néanmoins, de nombreuses associations de défense des droits des enfants militent pour remplacer, dans le langage courant, le mot pédophilie par « pédocriminalité », qui reflète bien la notion d’infraction. « Ce mot dit la violence. C’est là l’essentiel », salue Edouard Durand, par ailleurs coprésident de la commission violences du Haut Conseil à l’Égalité entre les femmes et les hommes (HCE).

    Un mot-valise qui pourrait, pour Muriel Salmona, englober également la « pédopornographie », un concept là encore absent du Code pénal (qui parle d « images pornographiques représentant des mineurs »). « La pornographie, c’est l’illustration ou la mise en scène indécente de la sexualité. Parler de pédopornographie, c’est sous-entendre qu’il existerait une sexualité des enfants », insiste-t-elle.
    L’« abus sexuel », un mauvais anglicisme

    La couverture de l’affaire Epstein dans la presse française en est la plus parfaite illustration : l’expression « abus sexuel », qui n’a, elle non plus, aucune valeur juridique, est très souvent utilisée pour qualifier des violences sexuelles sur mineurs. Là encore à tort, selon les associations, avec pour effet de minimiser la violence des faits.

    « C’est un terme impropre, né d’une mauvaise traduction de l’anglais abuse, qui signifie violences », explique Stéphanie Lamy. « En français, on abuse d’un droit, d’une bonne chose. On va trop loin avec quelque chose qui est déjà permis. On abuse de son autorité, du chocolat, de l’alcool… Mais certainement pas d’un enfant ! », ajoute la Franco-Canadienne, qui a grandi en Australie.

    Alors qu’aux Etats-Unis la loi réprime le « sex abuse », ses équivalents, dans le Code pénal français, sont l’agression sexuelle, le viol et l’atteinte sexuelle.
    Viol, agression et atteinte sexuelle : des nuances complexes

    Entre adultes, la vie sexuelle est libre pour tous les protagonistes. Ce que la loi interdit, c’est d’imposer un acte sexuel par la violence, la contrainte, la menace, ou la surprise. Dans ce cas, on parle d’agression sexuelle s’il s’agit de gestes sexuels sur certaines parties du corps (cuisses, fesses, seins, bas ventre…). Un délit puni de cinq à dix ans de prison, en fonction des circonstances. On parle de viol quand il y a pénétration - anale, buccale, vaginale - avec le doigt ou le sexe (une fellation imposée est donc un viol). Ce crime est passible de quinze ans de réclusion.

    En dessous de l’âge de quinze ans, la loi prohibe toute relation sexuelle avec un adulte. On parle alors d’atteinte sexuelle, qui peut valoir au majeur une peine de sept ans d’emprisonnement. Dès lors qu’il y a violence, contrainte, menace ou surprise, l’acte redevient agression sexuelle, voire viol s’il y a pénétration. Avec la circonstance aggravante que ces faits ont été commis sur un mineur. Dans ce cas, l’agression sexuelle et le viol sont respectivement punis de dix ans et 20 ans de réclusion.

    « Ces notions sont très compliquées », déplore Carine Durrieu Diebolt, qui plaide en faveur d’une simplification du Code pénal. « Peut-être qu’il serait temps de mettre en place une réforme globale, en matière de violences sexuelles, pour avoir des critères simples et accessibles aux citoyens ». Muriel Salmona, comme de nombreuses associations, demande l’inscription au Code pénal d’un « crime sexuel spécifique sur mineur », distinct du viol. Un enfant n’aurait dès lors pas à prouver qu’il y a eu violence, menace, contrainte ou surprise. Soit, l’absence de consentement.

    « La France est l’un des rares pays où il n’y a pas d’âge de consentement sexuel pour les enfants », dénonce Muriel Salmona, remettant sur le devant de la scène les débats qui avaient agité l’année 2018. Autant de pistes jugées intéressantes par Edouard Durand, pour qui « l’enfance doit être sanctuarisée ».

    « L’incrimination d’atteinte sexuelle dit qu’un adulte ne commet pas d’infraction s’il a un acte sexuel avec un enfant âgé de 15, 16 et 17 ans. On en déduit, de manière très abusive, qu’il y aurait ce que l’on appelle une majorité sexuelle », regrette le juge des enfants. « Cela me paraît abusif de dire qu’un être humain mineur doit être protégé dans tous les actes de sa vie, sauf pour l’un des aspects les plus importants : le développement de sa sexualité ».

    Mais cet avis ne fait pas l’unanimité chez les magistrats, pour qui l’arsenal législatif est suffisant pour pénaliser les violences sexuelles sur les mineurs. « Oui, il y a des trous dans la raquette », reconnaît Katia Dubreuil, la présidente du Syndicat de la magistrature. « Mais ce n’est pas en prévoyant des lois qui aggravent les peines ou qui font des mesures automatiques qu’on répond à ces problématiques ».
    « Relation sexuelle », « attouchements », « caresses »… vraiment ?

    Ces termes, ni juridiques ni psychiatriques, sont très couramment employés, en marge de ces dossiers, y compris par des professionnels du droit. Mais peut-on réellement parler de « relation sexuelle » avec un enfant ? Non, dit Stéphanie Lamy. « Une relation implique la symétrie dans les rapports. Ce qui n’est pas le cas avec un enfant ». Aussi, la militante préfère « acte sexuel », plus clinique, mais plus proche de la réalité.

    « De la notion de relation sexuelle découle celle du consentement. Or un prédateur va tenter de justifier sa prédation en disant que sa victime était consentante. Peut-on parler d’un consentement libre et éclairé lorsqu’on parle d’un enfant ? », interroge-t-elle. De la même manière, elle critique le terme « attouchements ». « C’est mignon, c’est doux… Et pourtant, ce ne sont pas des caresses, mais des actes sexuels. Des actes de domination sur les enfants ».

    #vocabulaire #viol #abus #violences_sexuelles #pédocriminalité

  • Au #Tigré_éthiopien, la #guerre « sans pitié » du prix Nobel de la paix

    Le premier ministre éthiopien #Abyi_Ahmed oppose une fin de non-recevoir aux offres de médiation de ses pairs africains, alors que les combats entre l’armée fédérale et les forces de la province du Tigré ne cessent de prendre de l’ampleur.

    Le gouvernement d’Addis Abéba continue de parler d’une simple opération de police contre une province récalcitrante ; mais c’est une véritable guerre, avec blindés, aviation, et des dizaines de milliers de combattants, qui oppose l’armée fédérale éthiopienne aux forces de la province du Tigré, dans le nord du pays.

    Trois semaines de combats ont déjà provoqué l’afflux de 30 000 #réfugiés au #Soudan voisin, et ce nombre pourrait rapidement grimper après l’ultimatum lancé hier soir par le gouvernement aux rebelles : 72 heures pour se rendre. L’#armée demande aussi à la population de la capitale tigréenne, #Makelle, de se « libérer » des dirigeants du #Front_de_libération_du_peuple_du_Tigré, au pouvoir dans la province ; en cas contraire, a-t-elle prévenu, « il n’y aura aucune pitié ».

    Cette escalade rapide et, en effet, sans pitié, s’accompagne d’une position inflexible du premier ministre éthiopien, Abyi Ahmed, vis-à-vis de toute médiation, y compris celle de ses pairs africains. Addis Abéba a opposé une fin de non-recevoir aux tentatives de médiation, celle des voisins de l’Éthiopie, ou celle du Président en exercice de l’Union africaine, le sud-africain Cyril Ramaphosa. Ils seront poliment reçus à Addis Abéba, mais pas question de les laisser aller au Tigré ou de rencontrer les leaders du #TPLF, le front tigréen considéré comme des « bandits ».

    Pourquoi cette position inflexible ? La réponse se trouve à la fois dans l’histoire particulièrement violente de l’Éthiopie depuis des décennies, et dans la personnalité ambivalente d’Abyi Ahmed, le chef du gouvernement et, ne l’oublions pas, prix Nobel de la paix l’an dernier.

    L’histoire nous donne des clés. Le Tigré ne représente que 6% des 100 millions d’habitants de l’Éthiopie, mais il a joué un rôle historique déterminant. C’est du Tigré qu’est partie la résistance à la sanglante dictature de Mengistu Haile Mariam, qui avait renversé l’empire d’Haile Selassie en 1974. Victorieux en 1991, le TPLF a été au pouvoir pendant 17 ans, avec à sa tête un homme fort, Meles Zenawi, réformateur d’une main de fer, qui introduira notamment le fédéralisme en Éthiopie. Sa mort subite en 2012 a marqué le début des problèmes pour les Tigréens, marginalisés après l’élection d’Abyi Ahmed en 2018, et qui l’ont très mal vécu.

    La personnalité d’Abyi Ahmed est aussi au cœur de la crise actuelle. Encensé pour ses mesures libérales, le premier ministre éthiopien est également un ancien militaire inflexible, déterminé à s’opposer aux forces centrifuges qui menacent l’unité de l’ex-empire.

    Ce contexte laisse envisager un #conflit prolongé, car le pouvoir fédéral ne renoncera pas à son offensive jusqu’à ce qu’il ait, au minimum, repris Mekelle, la capitale du Tigré. Or cette ville est à 2500 mètres d’altitude, dans une région montagneuse où les avancées d’une armée régulière sont difficiles.

    Quant au front tigréen, il a vraisemblablement envisagé une position de repli dans la guerrilla, avec des forces aguerries, dans une région qui lui est acquise.

    Reste l’attitude des pays de la région, qui risquent d’être entrainés dans cette #guerre_civile, à commencer par l’Érythrée voisine, déjà touchée par les hostilités.

    C’est une tragédie pour l’Éthiopie, mais aussi pour l’Afrique, car c’est le deuxième pays le plus peuplé du continent, siège de l’Union africaine, l’une des locomotives d’une introuvable renaissance africaine. L’Afrique doit tout faire pour mettre fin à cette guerre fratricide, aux conséquences dévastatrices.

    https://www.franceinter.fr/emissions/geopolitique/geopolitique-23-novembre-2020

    #Ethiopie #Tigré #Corne_de_l'Afrique #Tigray

    • Conflict between Tigray and Eritrea – the long standing faultline in Ethiopian politics

      The missile attack by the Tigray People’s Liberation Front on Eritrea in mid-November transformed an internal Ethiopian crisis into a transnational one. In the midst of escalating internal conflict between Ethiopia’s northernmost province, Tigray, and the federal government, it was a stark reminder of a historical rivalry that continues to shape and reshape Ethiopia.

      The rivalry between the Tigray People’s Liberation Front and the movement which has governed Eritrea in all but name for the past 30 years – the Eritrean People’s Liberation Front – goes back several decades.

      The histories of Eritrea and Ethiopia have long been closely intertwined. This is especially true of Tigray and central Eritrea. These territories occupy the central massif of the Horn of Africa. Tigrinya-speakers are the predominant ethnic group in both Tigray and in the adjacent Eritrean highlands.

      The enmity between the Tigray People’s Liberation Front and the Eritrean People’s Liberation Front dates to the mid-1970s, when the Tigrayan front was founded in the midst of political turmoil in Ethiopia. The authoritarian Marxist regime – known as the Derg (Amharic for ‘committee’) – inflicted violence upon millions of its own citizens. It was soon confronted with a range of armed insurgencies and socio-political movements. These included Tigray and Eritrea, where the resistance was most ferocious.

      The Tigrayan front was at first close to the Eritrean front, which had been founded in 1970 to fight for independence from Ethiopia. Indeed, the Eritreans helped train some of the first Tigrayan recruits in 1975-6, in their shared struggle against Ethiopian government forces for social revolution and the right to self-determination.

      But in the midst of the war against the Derg regime, the relationship quickly soured over ethnic and national identity. There were also differences over the demarcation of borders, military tactics and ideology. The Tigrayan front eventually recognised the Eritreans’ right to self-determination, if grudgingly, and resolved to fight for the liberation of all Ethiopian peoples from the tyranny of the Derg regime.

      Each achieved seminal victories in the late 1980s. Together the Tigrayan-led Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front and the Eritrean front overthrew the Derg in May 1991. The Tigrayan-led front formed government in Addis Ababa while the Eritrean front liberated Eritrea which became an independent state.

      But this was just the start of a new phase of a deep-rooted rivalry. This continued between the governments until the recent entry of prime minister Abiy Ahmed.

      If there’s any lesson to be learnt from years of military and political manoeuvrings, it is that conflict in Tigray is unavoidably a matter of intense interest to the Eritrean leadership. And Abiy would do well to remember that conflict between Eritrea and Tigray has long represented a destabilising fault line for Ethiopia as well as for the wider region.
      Reconciliation and new beginnings

      In the early 1990s, there was much talk of reconciliation and new beginnings between Meles Zenawi of Ethiopia and Isaias Afeworki of Eritrea. The two governments signed a range of agreements on economic cooperation, defence and citizenship. It seemed as though the enmity of the liberation war was behind them.

      Meles declared as much at the 1993 Eritrean independence celebrations, at which he was a notable guest.

      But deep-rooted tensions soon resurfaced. In the course of 1997, unresolved border disputes were exacerbated by Eritrea’s introduction of a new currency. This had been anticipated in a 1993 economic agreement. But in the event Tigrayan traders often refused to recognise it, and it caused a collapse in commerce.

      Full-scale war erupted over the contested border hamlet of Badme in May 1998. The fighting swiftly spread to other stretches of the shared, 1,000 km long frontier. Air strikes were launched on both sides.

      It was quickly clear, too, that this was only superficially about borders. It was more substantively about regional power and long standing antagonisms that ran along ethnic lines.

      The Eritrean government’s indignant anti-Tigray front rhetoric had its echo in the popular contempt for so-called Agame, the term Eritreans used for Tigrayan migrant labourers.

      For the Tigray front, the Eritrean front was the clearest expression of perceived Eritrean arrogance.

      As for Isaias himself, regarded as a crazed warlord who had led Eritrea down a path which defied economic and political logic, it was hubris personified.

      Ethiopia deported tens of thousands of Eritreans and Ethiopians of Eritrean descent.

      Ethiopia’s decisive final offensive in May 2000 forced the Eritrean army to fall back deep into their own territory. Although the Ethiopians were halted, and a ceasefire put in place after bitter fighting on a number of fronts, Eritrea had been devastated by the conflict.

      The Algiers Agreement of December 2000 was followed by years of standoff, occasional skirmishes, and the periodic exchange of insults.

      During this period Ethiopia consolidated its position as a dominant power in the region. And Meles as one of the continent’s representatives on the global stage.

      For its part Eritrea retreated into a militaristic, authoritarian solipsism. Its domestic policy centred on open-ended national service for the young. Its foreign policy was largely concerned with undermining the Ethiopian government across the region. This was most obvious in Somalia, where its alleged support for al-Shabaab led to the imposition of sanctions on Asmara.

      The ‘no war-no peace’ scenario continued even after Meles’s sudden death in 2012. The situation only began to shift with the resignation of Hailemariam Desalegn against a backdrop of mounting protest across Ethiopia, especially among the Oromo and the Amhara, and the rise to power of Abiy.

      What followed was the effective overthrow of the Tigray People’s Liberation Front which had been the dominant force in the Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front coalition since 1991.

      This provided Isaias with a clear incentive to respond to Abiy’s overtures.
      Tigray’s loss, Eritrea’s gain

      A peace agreement between Ethiopia and Eritrea, was signed in July 2018 by Abiy and Eritrean President Isaias Afeworki. It formally ended their 1998-2000 war. It also sealed the marginalisation of the Tigray People’s Liberation Front. Many in the Tigray People’s Liberation Front were unenthusiastic about allowing Isaias in from the cold.

      Since the 1998-2000 war, in large part thanks to the astute manoeuvres of the late Prime Minister Meles Zenawi, Eritrea had been exactly where the Tigray People’s Liberation Front wanted it: an isolated pariah state with little diplomatic clout. Indeed, it is unlikely that Isaias would have been as receptive to the deal had it not involved the further sidelining of the Tigray People’s Liberation Front, something which Abiy presumably understood.

      Isaias had eschewed the possibility of talks with Abiy’s predecessor, Hailemariam Desalegn. But Abiy was a different matter. A political reformer, and a member of the largest but long-subjugated ethnic group in Ethiopia, the Oromo, he was determined to end the Tigray People’s Liberation Front’s domination of Ethiopian politics.

      This was effectively achieved in December 2019 when he abolished the Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front and replaced it with the Prosperity Party.

      The Tigray People’s Liberation Front declined to join with the visible results of the current conflict.

      À lire aussi : Residual anger driven by the politics of power has boiled over into conflict in Ethiopia

      Every effort to engage with the Tigrayan leadership – including the Tigray People’s Liberation Front – in pursuit of a peaceful resolution must also mean keeping Eritrea out of the conflict.

      Unless Isaias is willing to play a constructive role – he does not have a good track record anywhere in the region in this regard – he must be kept at arm’s length, not least to protect the 2018 peace agreement itself.

      https://theconversation.com/conflict-between-tigray-and-eritrea-the-long-standing-faultline-in-

      #Derg #histoire #frontières #démarcation_des_frontières #monnaie #Badme #Agame #travailleurs_étrangers #Oromo #Ethiopian_People’s_Revolutionary_Democratic_Front #Prosperity_Party

      –—

      #Agame , the term Eritreans used for Tigrayan migrant labourers.

      –-> #terminologie #vocabulaire #mots
      ping @sinehebdo

    • Satellite Images Show Ethiopia Carnage as Conflict Continues
      – United Nations facility, school, clinic and homes burned down
      – UN refugee agency has had no access to the two camps

      Satellite images show the destruction of United Nations’ facilities, a health-care unit, a high school and houses at two camps sheltering Eritrean refugees in Tigray, northern Ethiopia, belying government claims that the conflict in the dissident region is largely over.

      The eight Planet Labs Inc images are of Hitsats and the Shimelba camps. The camps hosted about 25,000 and 8,000 refugees respectively before a conflict broke out in the region two months ago, according to data from the United Nations High Commissioner for Refugees.

      “Recent satellite imagery indicates that structures in both camps are being intentionally targeted,” said Isaac Baker, an analyst at DX Open Network, a U.K. based human security research and analysis non-profit. “The systematic and widespread fires are consistent with an intentional campaign to deny the use of the camp.”

      DX Open Network has been following the conflict and analyzing satellite image data since Nov. 7, three days after Ethiopian Prime Minister Abiy Ahmed declared war against a dissident group in the Tigray region, which dominated Ethiopian politics before Abiy came to power.

      Ethiopia’s government announced victory against the dissidents on Nov. 28 after federal forces captured the regional capital of Mekelle. Abiy spoke of the need to rebuild and return normalcy to Tigray at the time.

      Calls and messages to Redwan Hussein, spokesman for the government’s emergency task force on Tigray and the Prime Minister Abiy Ahmed’s Spokeswoman Billene Seyoum were not answered.

      In #Shimelba, images show scorched earth from apparent attacks in January. A World Food Programme storage facility and a secondary school run by the Development and Inter-Aid Church Commission have also been burned down, according to DX Open Network’s analysis. In addition, a health facility run by the Ethiopian Agency for Refugees and Returnees Affairs situated next to the WFP compound was also attacked between Jan. 5 and Jan. 8.

      In #Hitsats camp, about 30 kilometers (19 miles) away, there were at least 14 actively burning structures and 55 others were damaged or destroyed by Jan. 5. There were new fires by Jan. 8, according to DX Open Network’s analysis.

      The UN refugee agency has not had access to the camps since fighting started in early November, according to Chris Melzer, a communications officer for the agency. UNHCR has been able to reach its two other camps, Mai-Aini and Adi Harush, which are to the south, he said.

      “We also have no reliable, first-hand information about the situation in the camps or the wellbeing of the refugees,” Melzer said in reference to Hitsats and Shimelba.

      Eritrean troops have also been involved in the fighting and are accused of looting businesses and abducting refugees, according to aid workers and diplomats briefed on the situation. The governments of both Ethiopia and Eritrea have denied that Eritrean troops are involved in the conflict.

      The UN says fighting is still going on in several Tigray areas and 2.2 million people have been displaced in the past two months. Access to the region for journalists and independent analysts remains constrained, making it difficult to verify events.

      https://www.bloomberg.com/news/articles/2021-01-09/satellite-images-show-destruction-of-refugee-camps-in-ethiopia?srnd=premi

      #images_satellitaires #camps_de_réfugiés #réfugiés

    • Ethiopia’s government appears to be wielding hunger as a weapon

      A rebel region is being starved into submission

      ETHIOPIA HAS suffered famines in the past. Many foreigners know this; in 1985 about one-third of the world’s population watched a pop concert to raise money for starving Ethiopians. What is less well understood is that poor harvests lead to famine only when malign rulers allow it. It was not the weather that killed perhaps 1m people in 1983-85. It was the policies of a Marxist dictator, Mengistu Haile Mariam, who forced peasants at gunpoint onto collective farms. Mengistu also tried to crush an insurgency in the northern region of Tigray by burning crops, destroying grain stores and slaughtering livestock. When the head of his own government’s humanitarian agency begged him for cash to feed the starving, he dismissed him with a memorably callous phrase: “Don’t let these petty human problems...consume you.”

      https://www.economist.com/leaders/2021/01/23/ethiopias-government-appears-to-be-wielding-hunger-as-a-weapon

      #famine #faim
      #paywall

    • Amnesty International accuses Eritrean troops of killing hundreds of civilians in the holy city of #Axum

      Amnesty International has released a comprehensive, compelling report detailing the killing of hundreds of civilians in the Tigrayan city of Axum.

      This story has been carried several times by Eritrea Hub, most recently on 20th February. On 12 January this year the Axum massacre was raised in the British Parliament, by Lord David Alton.

      Gradually the picture emerging has been clarified and is now unambiguous.

      The Amnesty report makes grim reading: the details are horrifying.

      Human Rights Watch are finalising their own report, which will be published next week. The Ethiopian Human Rights Commission is also publishing a report on the Axum massacre.

      The Ethiopian government appointed interim administration of Tigray is attempting to distance itself from the actions of Eritrean troops. Alula Habteab, who heads the interim administration’s construction, road and transport department, appeared to openly criticise soldiers from Eritrea, as well as the neighbouring Amhara region, for their actions during the conflict.

      “There were armies from a neighbouring country and a neighbouring region who wanted to take advantage of the war’s objective of law enforcement,” he told state media. “These forces have inflicted more damage than the war itself.”

      The full report can be found here: The Massacre in Axum – AFR 25.3730.2021. Below is the summary (https://eritreahub.org/wp-content/uploads/2021/02/The-Massacre-in-Axum-AFR-25.3730.2021.pdf)

      https://eritreahub.org/amnesty-international-accuses-eritrean-troops-of-killing-hundreds-of-civ

      #rapport #massacre

    • Ethiopia’s Tigray crisis: How a massacre in the sacred city of #Aksum unfolded

      Eritrean troops fighting in Ethiopia’s northern region of Tigray killed hundreds of people in Aksum mainly over two days in November, witnesses say.

      The mass killings on 28 and 29 November may amount to a crime against humanity, Amnesty International says in a report.

      An eyewitness told the BBC how bodies remained unburied on the streets for days, with many being eaten by hyenas.

      Ethiopia and Eritrea, which both officially deny Eritrean soldiers are in Tigray, have not commented.

      The Ethiopian Human Rights commission says it is investigating the allegations.

      The conflict erupted on 4 November 2020 when Ethiopia’s government launched an offensive to oust the region’s ruling TPLF party after its fighters captured federal military bases in Tigray.

      Ethiopia’s Prime Minister Abiy Ahmed, a Nobel Peace Prize winner, told parliament on 30 November that “not a single civilian was killed” during the operation.

      But witnesses have recounted how on that day they began burying some of the bodies of unarmed civilians killed by Eritrean soldiers - many of them boys and men shot on the streets or during house-to-house raids.

      Amnesty’s report has high-resolution satellite imagery from 13 December showing disturbed earth consistent with recent graves at two churches in Aksum, an ancient city considered sacred by Ethiopia’s Orthodox Christians.

      A communications blackout and restricted access to Tigray has meant reports of what has gone on in the conflict have been slow to emerge.

      In Aksum, electricity and phone networks reportedly stopped working on the first day of the conflict.
      How was Aksum captured?

      Shelling by Ethiopian and Eritrea forces to the west of Aksum began on Thursday 19 November, according to people in the city.

      “This attack continued for five hours, and was non-stop. People who were at churches, cafes, hotels and their residence died. There was no retaliation from any armed force in the city - it literally targeted civilians,” a civil servant in Aksum told the BBC.
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      Amnesty has gathered similar and multiple testimonies describing the continuous shelling that evening of civilians.

      Once in control of the city, soldiers, generally identified as Eritrean, searched for TPLF soldiers and militias or “anyone with a gun”, Amnesty said.

      “There were a lot of... house-to-house killings,” one woman told the rights group.

      There is compelling evidence that Ethiopian and Eritrean troops carried out “multiple war crimes in their offensive to take control of Aksum”, Amnesty’s Deprose Muchena says.
      What sparked the killings?

      For the next week, the testimonies say Ethiopia troops were mainly in Aksum - the Eritreans had pushed on east to the town of Adwa.

      A witness told the BBC how the Ethiopian military looted banks in the city in that time.

      he Eritrean forces reportedly returned a week later. The fighting on Sunday 28 November was triggered by an assault of poorly armed pro-TPLF fighters, according to Amnesty’s report.

      Between 50 and 80 men from Aksum targeted an Eritrean position on a hill overlooking the city in the morning.

      A 26-year-old man who participated in the attack told Amnesty: “We wanted to protect our city so we attempted to defend it especially from Eritrean soldiers... They knew how to shoot and they had radios, communications... I didn’t have a gun, just a stick.”
      How did Eritrean troops react?

      It is unclear how long the fighting lasted, but that afternoon Eritrean trucks and tanks drove into Aksum, Amnesty reports.

      Witnesses say Eritrean soldiers went on a rampage, shooting at unarmed civilian men and boys who were out on the streets - continuing until the evening.

      A man in his 20s told Amnesty about the killings on the city’s main street: “I was on the second floor of a building and I watched, through the window, the Eritreans killing the youth on the street.”

      The soldiers, identified as Eritrean not just because of their uniform and vehicle number plates but because of the languages they spoke (Arabic and an Eritrean dialect of Tigrinya), started house-to-house searches.

      “I would say it was in retaliation,” a young man told the BBC. “They killed every man they found. If you opened your door and they found a man they killed him, if you didn’t open, they shoot your gate by force.”

      He was hiding in a nightclub and witnessed a man who was found and killed by Eritrean soldiers begging for his life: “He was telling them: ’I am a civilian, I am a banker.’”

      Another man told Amnesty that he saw six men killed, execution-style, outside his house near the Abnet Hotel the following day on 29 November.

      “They lined them up and shot them in the back from behind. Two of them I knew. They’re from my neighbourhood… They asked: ’Where is your gun’ and they answered: ’We have no guns, we are civilians.’”
      How many people were killed?

      Witnesses say at first the Eritrean soldiers would not let anyone approach the bodies on the streets - and would shoot anyone who did so.

      One woman, whose nephews aged 29 and 14 had been killed, said the roads “were full of dead bodies”.

      Amnesty says after the intervention of elders and Ethiopian soldiers, burials began over several days, with most funerals taking place on 30 November after people brought the bodies to the churches - often 10 at a time loaded on horse- or donkey-drawn carts.

      At Abnet Hotel, the civil servant who spoke to the BBC said some bodies were not removed for four days.

      "The bodies that were lying around Abnet Hotel and Seattle Cinema were eaten by hyenas. We found only bones. We buried bones.

      “I can say around 800 civilians were killed in Aksum.”

      This account is echoed by a church deacon who told the Associated Press that many bodies had been fed on by hyenas.

      He gathered victims’ identity cards and assisted with burials in mass graves and also believes about 800 people were killed that weekend.

      The 41 survivors and witnesses Amnesty interviewed provided the names of more than 200 people they knew who were killed.
      What happened after the burials?

      Witnesses say the Eritrean soldiers participated in looting, which after the massacre and as many people fled the city, became widespread and systematic.

      The university, private houses, hotels, hospitals, grain stores, garages, banks, DIY stores, supermarkets, bakeries and other shops were reportedly targeted.

      One man told Amnesty how Ethiopian soldiers failed to stop Eritreans looting his brother’s house.

      “They took the TV, a jeep, the fridge, six mattresses, all the groceries and cooking oil, butter, teff flour [Ethiopia’s staple food], the kitchen cabinets, clothes, the beers in the fridge, the water pump, and the laptop.”

      The young man who spoke to the BBC said he knew of 15 vehicles that had been stolen belonging to businessmen in the city.

      This has had a devastating impact on those left in Aksum, leaving them with little food and medicine to survive, Amnesty says.

      Witnesses say the theft of water pumps left residents having to drink from the river.
      Why is Aksum sacred?

      It is said to be the birthplace of the biblical Queen of Sheba, who travelled to Jerusalem to visit King Solomon.

      They had a son - Menelik I - who is said to have brought to Aksum the Ark of the Covenant, believed to contain the 10 commandments handed down to Moses by God.

      It is constantly under guard at the city’s Our Lady Mary of Zion Church and no-one is allowed to see it.

      A major religious celebration is usually held at the church on 30 November, drawing pilgrims from across Ethiopia and around the world, but it was cancelled last year amid the conflict.

      The civil servant interviewed by the BBC said that Eritrean troops came to the church on 3 December “terrorising the priests and forcing them to give them the gold and silver cross”.

      But he said the deacons and other young people went to protect the ark.

      “It was a huge riot. Every man and woman fought them. They fired guns and killed some, but we are happy as we did not fail to protect our treasures.”

      https://www.bbc.com/news/world-africa-56198469

  • L’e-monde titre

    Les témoignages de violences sexuelles fragilisent le judo français

    https://www.lemonde.fr/sport/article/2020/11/20/les-temoignages-de-violences-sexuelles-fragilisent-le-judo-francais_6060539_

    suite à des réactions de lecteurices l’e-monde donne finalement dans la branlée...

    Le judo français ébranlé par les accusations de violences sexuelles

    #victim_blaming #violophilie #inversion_patriarcale #deni #male_gaze #viol #culture_du_viol #vocabulaire

    cf https://seenthis.net/messages/887448