• Il nuovo volto del #water_grabbing e la complicità della finanza

    Fondi pensione e società di private equity investono sulla produzione di colture di pregio, dai piccoli frutti alle mandorle, che necessitano abbondanti risorse idriche. Il ruolo del fondo emiratino #Adq che ha acquisito l’italiana #Unifrutti.

    Per osservare più da vicino il nuovo volto del water grabbing bisogna andare nella regione di Olmos, nel Nord del Perù, dove il Public sector pension investment board (Psp), uno dei maggiori gestori di fondi pensionistici canadesi (con un asset di circa 152 miliardi di dollari) ha acquistato nel 2022 un’azienda agricola di 500 ettari specializzata nella coltivazione di mirtilli. Un investimento finalizzato a sfruttare il boom della produzione di questi piccoli frutti, passata secondo le stime della Banca Mondiale dalle 30 tonnellate del 2010 alle oltre 180mila del 2020: quantità che hanno fatto del Paese latino-americano il secondo produttore mondiale dopo gli Stati Uniti.

    Nella regione di Olmos l’avvio di questa coltivazione intensiva è stato reso possibile grazie a un progetto idrico, costato al governo di Lima oltre 180 milioni di dollari, per deviare l’acqua dal fiume Huancabamba verso la costa e migliorare la produzione agricola locale. “Ma il progetto non ha ottenuto i risultati annunciati”, denuncia il report “Squeezing communities dry” pubblicato a metà settembre 2023 da Grain, una Ong che lavora per sostenere i piccoli agricoltori nella loro lotta per la difesa dei sistemi alimentari controllati dalle comunità e basati sulla biodiversità. Chi ha realmente beneficiato del progetto, infatti, sono state le grandi realtà agroindustriali. “Quasi tutta l’acqua convogliata dalle Ande va alle aziende di recente costituzione che producono avocado, mirtilli e altre colture che vengono vendute a prezzi elevati all’estero -continua Grain-. Il progetto, finanziato con fondi pubblici, ha avuto pochi benefici per la popolazione ma ha creato una fonte di profitti per le aziende che hanno accesso libero e gratuito all’acqua e i loro investitori”.

    I protagonisti di questa nuova forma di water grabbing sono fondi pensione, società di private equity e altri operatori finanziari che si stanno muovendo in modo sempre più aggressivo per garantirsi le abbondanti risorse idriche necessarie alla produzione di colture di pregio. A differenza del passato, però, non cercano più di acquisire enormi superfici di terre coltivabili.

    “L’accesso all’acqua è sempre stato un fattore cruciale -spiega ad Altreconomia Delvin Kuyek, ricercatore di Grain e autore dello studio-. Ma negli ultimi anni abbiamo osservato un nuovo modello: investimenti in colture come mirtilli, avocado o mandorle che richiedono meno terra rispetto al grano o alla soia, ma quantità molto maggiori di acqua. A guidare l’investimento, in questo caso, è proprio la possibilità di accedere ad abbondanti risorse idriche per mettere sul mercato prodotti che permettano di generare un ritorno economico importante”. Una forma di sfruttamento che Grain paragona all’estrazione di petrolio: si pompa acqua da fiumi o falde fino all’esaurimento, senza preoccuparsi degli impatti sull’ambiente o dei bisogni della popolazione locale. Gli operatori finanziari, infatti, non prevedono di sviluppare attività produttive sul lungo periodo ma puntano a ritorno sui loro investimenti entro 10-15 anni. Un’altra caratteristica di questi accordi, è che tendono a realizzarsi in località in cui l’acqua è già scarsa o in via di esaurimento.

    Negli ultimi anni il fondo pensionistico canadese ha acquistato direttamente o investito in società che gestiscono piantagioni di mandorle in California, di noci in Australia e California. Mentre in Spagna, attraverso la controllata Hortifruit, è diventato uno dei principali produttori di mirtilli nella regione di Huelva (nel Sud-Ovest del Paese) dove si concentra anche la quasi totalità della coltivazione di fragole spagnole, destinata per l’80% all’export.

    In Perù nel 2020 sono stati prodotte 180mila tonnellate di mirtilli. Numeri che fanno del Paese latinoamericano il secondo produttore mondiale dopo gli Stati Uniti. Nel 2010 erano solo 30

    Tutto questo sta avendo effetti devastanti sulle falde che alimentavano le zone umide della vicina riserva di Doñana, ricchissimo di biodiversità e patrimonio Unesco: un riconoscimento oggi messo a rischio proprio dall’eccessivo sfruttamento idrico. Lo studio “Thirty-four years of Landsat monitoring reveal long-term effects of groundwater abstractions on a World heritage site wetland” pubblicato ad aprile 2023 sulla rivista Science of the total environment, evidenzia come tra il 1985 e il 2018 il 59,2% della rete di stagni sia andata perduta a causa delle attività umane. “Il problema è collegato anche alla produzione di frutti rossi che ha iniziato a diffondersi a partire dagli anni Ottanta, grazie alla presenza di condizioni climatiche ottimali e a un suolo sabbioso”, spiega ad Altreconomia Felipe Fuentelsaz del Wwf Spagna. Ma la crescita del comparto ha portato a uno sfruttamento eccessivo delle falde, da cui viene prelevata troppa acqua rispetto al tempo che necessitano per rigenerarsi. L’organizzazione stima che nel corso degli anni siano stati scavati più di mille pozzi illegali: “L’80% dei produttori rispetta le norme per l’utilizzo delle risorse idriche, ma il restante 20%, che equivale a circa duemila ettari di terreno, pompa acqua senza averne diritto”, puntualizza Fuentelsaz.

    Questa nuova forma di water grabbing interessa diversi Paesi: dal Marocco (dove il settore agro-industriale pesa per l’85% sul consumo idrico nazionale) al Messico dove è attiva la società di gestione Renewable resources group. Secondo quanto ricostruito da Grain, nel 2018 ha acquisito centomila ettari di terreni agricoli in Messico, Stati Uniti, Cile e Argentina, nonché diritti idrici privati negli Stati Uniti, in Cile e in Australia, generando rendimenti annuali superiori al 20% per i suoi investitori, che comprendono fondi pensione, di private equity e compagnie di assicurazione.

    Tra le società indicate nel report di Grain figura anche Adq, il fondo sovrano degli Emirati Arabi Uniti, che negli ultimi anni ha effettuato importanti investimenti nel comparto agro-alimentare: attraverso la sua controllata Al Dahra ha acquistato terreni in Egitto, Sudan e Romania. Nel 2020 ha acquisito il 45% di Louis Dreyfus Company, una delle quattro principali aziende che controllano il mercato globale del commercio agricolo. E nel 2022 ha comprato la quota di maggioranza di Unifrutti group, società italiana specializzata nella produzione e nella commercializzazione di frutta fresca con oltre 14mila ettari di terreni tra Cile, Turchia, Filippine, Ecuador, Argentina, Sudafrica e Italia.

    Unifrutti group ha sede fiscale a Cipro, uno dei Paesi dell’Unione europea a fiscalità agevolata che garantiscono vantaggi alle società che vi hanno sede. Ma a sfruttare i benefici sono anche oligarchi russi colpiti dalle sanzioni dopo l’annessione russa della Crimea nel 2014 e inasprite a seguito dell’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022. A rivelarlo l’inchiesta “Cyprus confidential” pubblicata a novembre dal Consorzio internazionale di giornalisti investigativi (Icij)

    “Questi investimenti hanno un doppio obiettivo -spiega ad Altreconomia Christian Henderson, esperto di investimenti agricoli nel Golfo e docente presso l’Università di Leiden nei Paesi Bassi- da un lato, sono orientate a trarre profitto dal commercio internazionale e dalle materie prime. In secondo luogo, si preoccupano di garantire la sicurezza alimentare. Queste due logiche in qualche modo sono intrecciate tra loro, in modo da rendere la sicurezza alimentare redditizia per gli Emirati Arabi Uniti. C’è poi un altro elemento: penso che i Paesi del Golfo siano piuttosto preoccupati dal fatto di essere visti come ‘accaparratori’ di terra. In questo modo, invece, possono affermare di aver effettuato un semplice investimento sul mercato”.

    Fondata dall’imprenditore Guido De Nadai nel 1948 ad Asmara come compagnia di import/export di frutta e verdura, oggi Unifrutti group è una realtà globale “che produce in quattro diversi continenti e distribuisce in oltre 50 Paesi” si legge sul sito. Trecento tipologie di prodotti commercializzati, 14mila ettari di terreni (di proprietà o in gestione) e 12mila dipendenti sono solo alcuni numeri di una realtà che ha ancora la propria sede principale a Montecorsaro, in provincia di Macerata, dove si trova il domicilio fiscale di Unifrutti distribution spa. La società è controllata da Unifrutti international holdings limited, con sede fiscale a Cipro, Paese a fiscalità agevolata. Con l’ingresso di Adq come socio di maggioranza sono cambiati anche i vertici societari: il 13 novembre 2023, ha assunto l’incarico di amministratore delegato del gruppo Mohamed Elsarky che ha alle spalle una carriera ventennale come Ceo per società del calibro di Kellog’s Australia e Nuova Zelanda e Godiva chocolatier e come presidente di United biscuits del gruppo Danone. Mentre Gil Adotevi, chief executive officer per il settore “Food and agriculture” del fondo emiratino Adq, ricopre il ruolo di presidente del consiglio di amministrazione: “Mentre il Gruppo si avvia verso un nuovo entusiasmante capitolo di crescita -ha dichiarato- siamo certi che la guida e la leadership di Mohamed porteranno l’azienda a realizzare i suoi ambiziosi piani”.

    Nel 2021 il gruppo ha commercializzato circa 620mila tonnellate di prodotti (in primo luogo banane, uva, mele, pere, limoni e arance) registrando un fatturato complessivo di 720 milioni di dollari (in crescita del 2% rispetto al 2020) e un margine operativo lordo di 78 milioni. Una performance estremamente positiva che “si è verificata nonostante le numerose sfide che hanno caratterizzato il perimetro operativo del gruppo a partire dalle condizioni climatiche avverse senza precedenti in Cile e in Italia”. Il Paese latino-americano -principale sito produttivo del gruppo, con oltre seimila ettari di terreno dove si producono mele, uva, pere e ciliegie- è stato infatti colpito per il quarto anno di fila da una gravissima siccità che alla fine del 2021 ha visto 19 milioni di persone vivere in aree caratterizzate da “grave scarsità d’acqua”. Come ricorda Grain nel report “Squeezing communities dry” tutte le regioni cilene specializzate nella produzione di frutta “stanno affrontando una crisi idrica aggravata dalla siccità causata dal cambiamento climatico”.

    https://altreconomia.it/il-nuovo-volto-del-water-grabbing-e-la-complicita-della-finanza
    #eau #agriculture #finance #financiarisation #fonds_de_pension #private_equity #Public_sector_pension_investment_board (#Psp) #petits_fruits #myrtilles #Olmos #Pérou #Huancabamba #industrie_agro-alimentaire #avocats #exportation #amandes #ressources_hydriques #extractivisme #Hortifruit #Huelva #Espagne #fraises #Doñana #fruits_rouges #Maroc #Renewable_resources_group #Mexique #Emirats_arabes_unis (#EAU) #Al_Dahra #Egypte #Soudan #Roumanie #Louis_Dreyfus_Company #Guido_De_Nadai #Chypre #Mohamed_Elsarky #Kellog’s #Godiva_chocolatier #United_biscuits #Danone #Gil_Adotevi #Chili

  • L’assèchement du Rhône menace les centrales nucléaires : la France fait pression sur la Suisse pour augmenter le débit
    https://www.novethic.fr/actualite/energie/energie-nucleaire/isr-rse/emmanuel-macron-en-deplacement-en-suisse-pour-sauver-le-soldat-rhone-151892

    Eau secours. Emmanuel Macron clôt ce jeudi 16 novembre sa visite d’État de deux jours en Suisse. Parmi les sujets à l’ordre du jour, le président de la République a abordé la question du Rhône dont il souhaite augmenter le débit. Refroidissement des centrales nucléaires, production hydroélectrique, irrigation, industrie, eau potable… les besoins français ne cessent d’augmenter alors que les effets du changement climatique pèsent déjà sur ce puissant fleuve.

    Et avec les EPR à venir sur le Rhône, je te raconte pas comment on va leur mettre la pression aux Suisses !

    • To keep the lights on in Gaza City’s largest hospital, Wissam AbuJarad, an anesthetist, said staff were collecting gas from dwindling stocks in the area to maintain a steady supply to their generators.

      “If we run out of fuel, then we will lose all of the patients in the ICU, the babies in the incubators, and the patients who need surgery,” AbuJarad said.

      He said that some staff had been reduced to drinking from IV solution bags because Israel had cut off water supplies to the enclave.

      https://www.washingtonpost.com/world/2023/10/16/israel-gaza-hamas-border-ceasefire

    • The shutoff of clean water is of particularly grave concern. When people no longer have access to clean, treated water, they will drink water from whatever source there is, including seawater. These sources may be contaminated with sewage, chemicals, and other contaminants, which can lead to water-borne illnesses like cholera and dysentery; outbreaks of such diseases would strain the medical system in Gaza. These diseases also require rapid rehydration, and without a source of water, they can quickly become deadly. Clean water is also necessary for providing proper medical care to people—for one thing, you can’t wash your hands without it. Water is a key component in many medical procedures, such as dialysis for kidney patients. When clean water is no longer available, medical practitioners have to spend crucial moments looking for water in a time when time can barely be spared. Meanwhile, the blockade prevents medical supplies from entering Gaza, and Médecins Sans Frontières has reported that hospitals have run out of painkillers. As people are gravely injured and arrive at the hospital with open wounds, if hospitals are lacking proper medical equipment to stabilize them and prevent infection, many people will die preventable deaths.

      https://www.thenation.com/article/world/gaza-public-health-ceasefire
      #eau #water

  • [Émissions spéciales] Escapade chez les escapés - film d’atelier
    https://www.radiopanik.org/emissions/emissions-speciales/escapade-chez-les-escapes-film-datelier

    Ateliers urbains se racontent. Avec Charles, Jonathan, Martin, Daniel, Ghizlane, Liévin, reçus par Arthur en Studio.

    Quelques I.M.M.E.N.S.E.S (Individu dans une Merde Matérielle Énorme mais Non Sans Exigences) visitent les beaux quartiers de #bruxelles. Au nombre des concernés par l’implacable crise du #logement, ils offrent leur regard. Leur vécu perce la fragilité des couches sociales, transcende notre peur de dégringoler.

    Comme dans un safari pistant l’insaisissable “riche”, planqué derrière les hautes haies des quartiers nantis à l’orée de la Forêt de Soignes, ces sans-chez-soi débusquent ce qu’en fait tous·tes savent : la ville est pauvre mais bordée au sud et à l’est d’Îlots de privilégiés ; héritage historique certes, égoïsme urbanistique surtout.

    Dans un récit poétique, poignant, semé de situations (...)

    #watermael-boitsfort #uccle #cinéma_documentaire #syndicat_des_immenses #ateliers_urbains #woluwé #sans-chezsoirisme #auderghem #logement,bruxelles,watermael-boitsfort,uccle,cinéma_documentaire,syndicat_des_immenses,ateliers_urbains,woluwé,sans-chezsoirisme,auderghem
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/emissions-speciales/escapade-chez-les-escapes-film-datelier_16600__1.mp3

  • Les morts de Waterloo ont-ils été transformés en fertilisant agricole au 19e siècle ?
    https://www.sciencesetavenir.fr/archeo-paleo/archeologie/les-morts-de-waterloo-ont-ils-ete-transformes-en-fertilisant-agrico


    Au dix neuvième siècle les capitalistes britanniques exploitaient sans scrupules les soldats encore àprès leur mort. Depuis la première guerre mondiale les hécatombes atteignent des dimensions qui poussent les états à tenter l’apaisement des survivants en fournissant des sépultures individuelles à un maximum de tombés. Les progrès dans la fabrication d’engrais chimiques leur facilitent la tâche.

    21.6.2022 par Bernadette Arnaud - Des fouilles archéologiques menées depuis 2015 sur le site de la bataille de Waterloo (1815) n’ont livré que de très rares restes humains... Or ces modestes découvertes soulèvent une question majeure : où sont passés les corps des dizaines de milliers d’hommes et de chevaux de cette bataille napoléonienne ? Une explication, -peu relayée tant elle est macabre-, voudrait qu’ils aient pu être transformés en engrais à usage agricole… Un mystère qui devrait être prochainement réexaminé par de nouvelles fouilles archéologiques menées sur le célèbre site.

    Comme chaque année depuis 2015, -hors la période de pandémie de Covid-19-, l’organisation britannique « Waterloo Uncovered », un organisme qui travaille en coopération avec des militaires blessés ou atteint du syndrome de stress post-traumatique (SSPT), participe à des recherches archéologiques dans la plaine de Waterloo (Belgique), lieu de la grande bataille napoléonienne de 1815. Sous la houlette de l’archéologue Tony Pollard, directeur du Centre d’Archéologie des Champs de batailles de l’Université de Glasgow (Ecosse), une soixantaine de participants ont déjà exploré de nombreux secteurs du champ de bataille. En 2019, passant particulièrement au crible les alentours de la ferme de Mont-Saint-Jean, l’un des épicentres des combats, ils avaient ainsi été mis au jour des munitions et surtout trois os provenant de membres inférieurs - probablement issus d’amputation - dégagés à proximité du bâtiment ayant servi d’hôpital de campagne. L’un des os dégagés portait encore des marques de scie... « Cette découverte poignante a immédiatement transformé l’atmosphère de la fouille, tissant un lien direct entre les personnes qui avaient souffert ici en 1815 et les soldats vétérans présents », avait alors déclaré Tony Pollard dans une interview au Guardian.


    Un des rares ossements humains mis au jour dans la plaine de Waterloo, lors de fouilles archéologiques. Crédits : Waterloo Uncovered

    Une pénurie de restes humains qui interroge

    L’exhumation de ces restes humains constituait surtout une première pour l’archéologue écossais qui étudie la plaine de la bataille de Waterloo, « le plus affreux carnage que j’ai jamais vu », selon le maréchal Ney (1769-1815). La pénurie d’ossements exhumés intrigue en effet depuis longtemps le spécialiste : à ce jour, sur ce site où se sont affrontés près de 269.000 hommes et où 47.000 d’entre eux environ ont perdu la vie ou ont été blessés, un seul squelette complet a été récupéré ! En 2012, lors du creusement d’un parking, la dépouille d’un soldat a en effet été recueillie. Il appartenait à la King’s German Legion (KGL) du roi Georges III, des unités militaires hanovriennes formées en Grande-Bretagne et Irlande entre 1803 et 1816. La balle de mousquet ayant entrainé sa mort a même été retrouvée au milieu de ses côtes, l’ensemble étant désormais exposé dans le musée du site.


    "La Bataille de Waterloo, le 18 juin 1815", par Clément Auguste Andrieux (1829-1880). Crédits : AFP

    A la recherche des fosses communes

    Que sont donc devenues les dépouilles des soldats de Waterloo ? Interrogation à laquelle Tony Pollard vient de consacrer un article dans le Journal of Conflict Archaeology paru ce 18 juin 2022. L’archéologue écossais y développe en effet une hypothèse : « S’il est extrêmement rare de trouver des restes humains sur ce champ de bataille, c’est que de nombreuses fosses communes ont été pillées et les os broyés pour être utilisés comme engrais dans les années qui ont suivi la bataille de 1815 ». Des propos qu’il avait déjà tenu dans un article du Telegraph le 17 juillet 2019 relayé par le très sérieux Smithsonian Institute du 18 juillet 2019 qui évoquait de son côté « les fabricants d’engrais anglais qui récupéraient ces os »… ! Diantre ! Dans la presse anglo-saxonne, les choses semblaient établies ! Mais de ce côté-ci de la Manche ? Sommes-nous face à une rumeur, un élément de folklore à classer dans la longue liste des légendes urbaines ? Ou bien s’agit-il de faits historiques avérés ? A bien lire ce qui a été écrit autour des affrontements homériques que furent les batailles napoléoniennes, il demeure difficile aujourd’hui encore de se faire une idée de la réalité de ces comportements profanatoires, alors que les cimetières de la Première (1914-1918) et Seconde guerres mondiales (1939-1945) sont l’objet de tous les soins et commémorations. Rappelons que la considération attribuée à l’individualisation des corps des soldats morts au combat n’est seulement advenue qu’avec la Première guerre mondiale.


    Emplacements indicatifs de possibles lieux de sépultures, de concentrations de fosses, ou de bûchers, après de récentes analyses de sources. Crédits : Waterloo Uncovered

    Toujours est-il que pour tenter de cartographier l’emplacement des fosses et lieux de sépultures non repérés à ce jour, l’archéologue écossais raconte avoir réuni tous les témoignages d’archives et informations existants émanant de témoins oculaires présents au lendemain de la bataille de 1815. Des croquis, des peintures, des récits, signalant des lieux où avaient été creusées des fosses, grandes ou petites (cf. carte). En particulier des dessins récemment découverts, et des lettres et documents personnels inédits d’un certain James Ker, un marchand écossais vivant à Bruxelles au moment de l’affrontement, dont les informations recueillies à Waterloo dès le 19 juin 1815 n’avaient jamais été publiées. « Il serait vraiment intéressant de retrouver l’emplacement des fosses desquelles des os ont été extraits, car toute perturbation produit des anomalies géophysiques dans les sols », explique ainsi Tony Pollard. Pour tenter de les localiser, des relevés du champ de bataille utilisant des méthodes électromagnétiques devraient démarrer au cours des prochaines fouilles archéologiques. Interrogé, le Dr. Kevin Linch, expert en guerres napoléoniennes à l’Université de Leeds (qui ne participe pas à ces recherches), a déclaré de son côté, « qu’il y avait de bonnes raisons de penser que les os des morts avaient été prélevés pour être utilisés comme engrais ». Des travaux prochains qu’approuvent la Napoleonic & Revolutionnary War Graves Charity, pour lequel il serait important de retrouver et connaitre ce qui est véritablement advenu des dépouilles.


    "Enterrer les morts au Château d’Hougoumont après la bataille de Waterloo (1815)". Aquarelle de James Rouse, de 1817. Crédits : Journal of Conflict Archaeology

    Ce que l’histoire nous dit, c’est qu’à Waterloo, les morts auraient été inhumés ou incinérés. Les descriptions des carnets du Capitaine Coignet (1799-1815), l’un des célèbres soldats de la Garde Impériale, n’en font pas mystère puisqu’elles indiquent que « pendant huit jours des buchers brulèrent nuit et jour » ; ou que « les dépouilles des soldats morts étaient entassés dans des fosses ». Ce qu’ont confirmé quelques autres découvertes de fosses napoléoniennes effectuées au 21e siècle, à l’instar des 3.000 squelettes exhumés à Vilnius (Lituanie) en 2001 (lire Sciences et Avenir n° 663). D’autre part, des documents rapportent que dès la fin des combats, nombreux étaient ceux qui se rendaient sur les champs de bataille pour « dépouiller » les morts, prélever les vêtements des soldats, leurs chaussures, leurs armes, -parfois jusqu’à leurs dents pour en faire des prothèses ! Une collecte d’artefacts revendus en « souvenirs » connue des historiens.


    Dépouillés de leurs vêtements, de leurs biens, de leurs armes et tout ce qui pouvait avoir la moindre valeur, les morts de Waterloo ont été placés dans plusieurs fosses communes... Crédits : Journal of Conflict Archaeology

    Contactés, des spécialistes de l’étude des traitements funéraires des champs de batailles ont rappelé que pour ces périodes napoléoniennes « les sites étaient complètement nettoyés après les batailles, et qu’une quinzaine de charniers sont documentés à travers l’Europe, ce qui ne correspond donc pas une absence totale de corps ». Néanmoins, la question que pose l’archéologue Tony Pollard n’est pas anodine : des milliers d’hommes -et des dizaines de milliers de chevaux- tués sur les champs de bataille des guerres napoléoniennes ont-ils connu, -ou non-, ce destin, que d’avoir au 19e siècle, été transformés en fertilisant agricole ?

    Ce thème peu évoqué semble en fait lié au développement agricole de l’époque. Un sujet sur lequel travaille l’archéologue Ecossais qui a confié à Sciences et Avenir être actuellement en train d’écrire un livre sur le sujet.

    Des sociétés d’engrais ont-elles fait irruption dans les sépultures des guerres napoléoniennes ?

    Pour comprendre, revenons au contexte de l’époque. Au 19e siècle, l’agrochimiste allemand Justus von Liebig (1803-1873) met en lumière le principe de fertilisation. Pour croître dans de bonnes conditions, les plantes doivent pousser dans un sol riche en azote, en potassium et phosphore. L’idée majeure étant qu’une fois les récoltes effectuées, il fallait rendre à la terre les nutriments prélevés sous peine de voir les sols s’appauvrir. Mais où trouver les précieux minéraux en quantité ? Le fumier procuré par les animaux des fermes jusque-là ne suffisait plus en ces aubes de révolution industrielle et de croissance des populations à nourrir. Pour produire plus, les cultures nécessitaient l’apport de quantités massives de fertilisants.

    Dans les années 1830-1840, les os, très riches en phosphate de calcium, auraient alors été considérés comme d’excellents engrais… Brûlés ou broyés ils étaient répandus dans les champs pour augmenter les rendements. Ainsi bien des fossiles paléontologiques ont-ils fini pulvérisés. Mais ils ne sont pas les seuls, semble-t-il ! Des entreprises anglaises auraient alors pensé au trésor qui se trouvait enfouis sous les champs de bataille... Elles se seraient rendues sur les sites des guerres napoléoniennes pour récupérer les ossements des soldats et chevaux tombés, ensuite broyés et vendus aux agriculteurs britanniques.

    « Des fosses communes ont été vidées par des entrepreneurs à la recherche d’os utilisés comme engrais pour faire de la farine d’os dans la première moitié du 19e siècle. Il existe de nombreux journaux faisant références à cette pratique à l’époque - avec les principaux champs de bataille européens dans lesquels étaient recherchés des tombes contenant de grandes quantités d’os. Leipzig est un autre champ de bataille mentionnés dans ce contexte. Les os ont été expédiés vers des ports tels que celui de Hull en Angleterre, mais également vers l’Écosse, où ils étaient broyés pour être utilisés comme engrais afin de favoriser la croissance des cultures. Seuls les charniers valaient la peine [des fosses contenant des corps en quantité, ndlr] et des contacts locaux ont probablement dû être payés pour identifier l’emplacement de ces sépultures. Ce qui ne veut pas dire que chaque charnier a été traité de cette manière, mais beaucoup semblent l’avoir été », a expliqué à Sciences et Avenir, l’archéologue Tony Pollard, lors d’un précédent échange.

    Auraient ainsi été visités les champs de bataille d’Austerlitz, Waterloo et quelques autres. En 1822, un journal britannique rapportait d’ailleurs : « On estime que plus d’un million de boisseaux d’os humains et inhumains [chevaux, ndlr] ont été importés du continent européen l’année dernière dans le port de Hull. Les quartiers de Leipzig, Austerlitz, Waterloo et de tous les lieux où se sont déroulés les principaux combats de la dernière guerre sanglante ont été balayés de la même façon par les os du héros et du cheval qu’il a montés. Ainsi rassemblés chaque trimestre, ils ont été expédiés au port de Hull, puis acheminés aux broyeurs d’os du Yorkshire, qui ont installé des moteurs à vapeur et des machines puissantes dans le but de les réduire à l’état de granulaire. [..Ils ont été envoyés principalement à Doncaster, l’un des plus grands marchés agricoles de cette partie du pays, et son vendus aux agriculteurs pour qu’ils fassent purifier leurs terres…] »

    Une campagne géophysique « ambitieuse »

    Dans le Journal de la société statistique de Paris, et sa séance du 4 mars 1863, on pouvait lire : « La culture anglaise est tellement pénétrée de l’importance du rôle du phosphate de chaux comme engrais, que des spéculateurs ont fouillé pour elle, tous les champs de bataille de l’Europe, et que récemment encore, des navires apportaient, dans les ports anglais, où elle se vendaient à gros bénéfice, des cargaisons d’ossements humains recueillis en Crimée ».

    Toutes ces matières finirent toutefois par s’épuiser. Ces pratiques auraient cessé dans les années 1860, après une campagne de rumeurs contre les agriculteurs, soulignant qu’ils jetaient les corps de leurs propres enfants dans les champs. Il est à noter que ces mêmes usages, la transformation en engrais, concernèrent les momies égyptiennes rapportées par cargaisons entières -un fait largement confirmé par des documents historiques. A partir de 1841, remplaçant les ossements, ces engrais aurait été recherché dans les îles à guano -des montagnes de déjections d’oiseaux marins- acheminées en Grande-Bretagne et dans l’ensemble de l’Europe depuis les îles Chincha, au large des côtes du Pérou.

    Pour déterminer une fois pour toute si les restes des morts de Waterloo ont fini broyés en « farine d’os », Tony Pollard et ses équipes du « Waterloo Uncovered » souhaitent pouvoir mener dans les années qui viennent, une campagne géophysique « ambitieuse » pour tenter d’identifier les zones où le sol a été perturbé et où aurait pu se trouver l’emplacement d’anciennes fosses… vidangées.

    Le 18 juin 1815, se sont opposés dans la plaine de Waterloo, à 18km au sud de Bruxelles, les forces françaises constituées de 74.000 hommes et 266 canons, aux Forces alliées (195 000 hommes), composées des armées anglo-hollando-Belges : 68.000 hommes, et prussiennes : 127.000 hommes. Débutée à 11h35, la bataille s’est achevée autour de 21h par la défaite des troupes napoléoniennes. Les pertes françaises (tués et blessés) se sont élevées aux alentours de 20.000 hommes, de même que les pertes alliées, 20.000 hommes tués et blessés dont 7.000 prussiens).
    Dictionnaire des batailles de Napoléon, d’Alain Pigeard, editions Taillandier.


    Forces en présence dans la plaine de Waterloo, le 18 juin 1815 (en bleu, les armées napoléoniennes). Crédits : Journal of Conflict Archaeology

    Histoire de plantes : l’engrais des champs de bataille
    Par Marc Mennessier Publié le 30/03/2018
    https://www.lefigaro.fr/jardin/2018/03/30/30008-20180330ARTFIG00257-histoire-de-plantes-l-engrais-des-champs-de-batai

    Le mystère de la disparition des corps des soldats à la bataille de Waterloo enfin résolu ?
    https://www.ouest-france.fr/leditiondusoir/2022-06-22/le-mystere-de-la-disparition-des-corps-des-soldats-a-la-bataille-de-wat

    #capitalisme #agriculture #engrais #chimie #phosphates #guerre #histoire #Belgique #Waterloo #bataille

  • Biden Administration Proposes Evenly Cutting Water Allotments From Colorado River - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2023/04/11/climate/colorado-river-water-cuts-drought.html?smid=tw-nytimes&smtyp=cur

    After months of fruitless negotiations between the states that depend on the shrinking Colorado River, the Biden administration on Tuesday proposed to put aside legal precedent and save what’s left of the river by evenly cutting water allotments, reducing the water delivered to California, Arizona and Nevada by as much as one-quarter.

    The size of those reductions and the prospect of the federal government unilaterally imposing them on states have never occurred in American history.

  • #TuNur, il modello di esportazione di energia verde dal Nord Africa all’Ue

    Un’impresa britannico-tunisina sta progettando una gigantesca centrale solare a nel deserto della Tunisia, un impianto che richiede un enorme consumo d’acqua. L’energia verde però andrà solo all’Europa.

    Produrre energia pulita a basso costo tra le soleggiate dune del deserto del Sahara è stato per decenni il sogno di diverse aziende private, alla costante ricerca di nuove fonti energetiche. “Il Sahara può generare abbastanza energia solare da coprire l’intero fabbisogno del globo” è un mantra ripetuto più o meno frequentemente, da aziende e lobby, a seconda della congiuntura economica o politica.

    Tra costi esorbitanti e accordi internazionali irrealizzabili, i progetti di esportazione di energia solare dal Nord Africa all’Europa sono però stati messi da parte per anni. Tornano di attualità oggi, nel contesto di crisi energetica legata alla guerra in Ucraina. Con un inverno freddo alle porte, senza il gas russo, gli Stati europei puntano gli occhi sulle contese risorse dei vicini meridionali. Con l’impennata dei prezzi dei combustibili fossili, la transizione energetica non è più semplicemente urgente in funzione della crisi climatica, ma anche economicamente conveniente, quindi finanziariamente interessante.

    A maggio 2022 l’Unione europea ha annunciato di voler aumentare gli obiettivi di energia prodotta da fonti rinnovabili fino al 40% entro il 2030, dotandosi di 600 GWh supplementari di energia solare. Ma il vecchio continente non ha né lo spazio né le risorse per produrre internamente la totalità del proprio fabbisogno di energia verde. Ed ecco che gli annunci di mega progetti di centrali solari in Nord Africa, così come quelli di cavi sottomarini nel mediterraneo, non fanno che moltiplicarsi.

    Il miracolo del sole africano torna a suggestionare un’Europa che ancora fatica a liberarsi del proprio retaggio coloniale quando guarda alla riva sud del Mediterraneo. Buona parte delle compagnie che promettono energia pulita importata continuano a raccontare una favola distorta e romanticizzata dei deserti: terre vuote, inutili, da colonizzare.

    Una narrazione contestata da chi, invece, quel deserto lo abita: «Non ci opponiamo alle rinnovabili, ma chiediamo una transizione energetica equa, che prenda in considerazione le rivendicazioni sociali e ambientali locali e non riproduca le dinamiche dell’industria fossile», ripetono le comunità che osservano l’installazione dei pannelli solari europei dalla finestra di casa.
    La transizione europea si farà sulle spalle del Nord Africa?

    Lungo il confine fra Tunisa e Algeria, a 120 chilometri dalla città più vicina, Kebilli, l’unica strada che porta a Rjim Maatoug è percorsa avanti e indietro dai camion cisterna che vanno ai giacimenti di petrolio e gas del Sud tunisino. Cittadina in mezzo al deserto negli anni ‘80 monitorata dai soldati del Ministero della difesa tunisino, Rjim Maatoug è stata costruita ad hoc con l’aiuto di fondi europei, e in particolar modo dell’Agenzia Italiana per lo Sviluppo e la cooperazione (AICS).

    Un tempo abitato da comunità nomadi, il triangolo desertico che delimita il confine tunisino con l’Algeria da un lato, la Libia dall’altro, è oggi un’immensa zona militare accessibile ai non residenti solo con un permesso del Ministero della difesa. Questi terreni collettivi sono da sempre la principale fonte di sostentamento delle comunità del deserto, che un tempo si dedicavano all’allevamento. Occupate durante la colonizzazione francese, queste terre sono state recuperate dallo Stato dopo l’indipendenza nel 1957, poi concesse a compagnie private straniere, principalmente multinazionali del petrolio. Prima nella lista: l’italiana #Eni.

    In questa zona, dove la presenza statale è vissuta come una colonizzazione interna, villaggi identici delimitati da palmeti si sussegono per 25 chilometri. «Abbiamo costruito questa oasi con l’obiettivo di sedentarizzare le comunità nomadi al confine», spiega uno dei militari presenti per le strade di Rjim Maatoug. Dietro all’obiettivo ufficiale del progetto – “frenare l’avanzata del deserto piantando palmeti” – si nasconde invece un’operazione di securizzazione di un’area strategica, che ha radicalmente modificato lo stile di vita delle comunità locali, privandole dei loro mezzi di sussistenza. Un tempo vivevano nel e del deserto, oggi lavorano in un’immensa monocultura di datteri.

    È di fronte alla distesa di palme di Rjim Maatoug, piantate in centinaia di file parallele, che la società tunisino-britannica TuNur vuole costruire la sua mega centrale solare. L’obiettivo: «Fornire elettricità pulita a basso costo a 2 milioni di case europee», annuncia la società sul suo sito internet.

    Per la sua vicinanza all’Italia (e quindi all’Europa), la Tunisia è il focus principale delle aziende che puntano a produrre energia solare nel deserto. In Tunisia, però, solo il 3% dell’elettricità per ora è prodotta a partire da fonti rinnovabili. Nell’attuale contesto di grave crisi finanziaria, il Paese fatica a portare avanti i propri ambiziosi obiettivi climatici (35% entro il 2030). Ma l’opportunità di vendere energia all’Ue sembra prendersi di prepotenza la priorità sulle necessità locali, anche grazie a massicce operazioni di lobbying.

    TuNur si ispira apertamente alla Desertec Industrial Initiative (Dii), un progetto regionale abbandonato nel 2012, portato avanti all’epoca da alcuni tra gli stessi azionisti che oggi credono in TuNur. Desertec mirava all’esportazione di energia solare prodotta nel Sahara attaverso una rete di centrali sparse tra il Nord Africa e il Medio Oriente per garantire all’Europa il 15% del proprio fabbisogno di elettricità entro il 2050. Se neanche il progetto pilota è mai stato realizzato, i vertici della compagnia proiettavano i propri sogni su due deserti in particolare: quello tunisino e quello marocchino.

    Oggi il progetto è stato relativamente ridimensionato. La centrale tunisina TuNur prevede di produrre 4,5 GWh di elettricità – il fabbisogno di circa cinque milioni di case europee – da esportare verso Italia, Francia e Malta tramite cavi sottomarini.

    Il progetto è sostenuto da una manciata di investitori, ma i dipendenti dell’azienda sono solo quattro, conferma il rapporto del 2022 di TuNur consultato da IrpiMedia. Tra questi, c’è anche il direttore: il volto dell’alta finanza londinese Kevin Sara, fondatore di diversi fondi di investimenti nel Regno Unito, ex membro del gigante finanziario giapponese Numura Holdings e della cinese Astel Capital. Affiancato dal direttore esecutivo, l’inglese Daniel Rich, Sara è anche amministratore delegato dello sviluppatore di centrali solari Nur Energie, società che, insieme al gruppo maltese Zammit, possiede TuNur ltd. Il gruppo Zammit, che raccoglie imprese di navigazione, bunkering, e oil&gas, è apparso nel 2017 nell’inchiesta Paradise Papers sugli investimenti offshore. Il braccio tunisino del comitato dirigente, invece, è un ex ingegnere petrolifero che ha lavorato per anni per le multinazionali del fossile Total, Shell, Noble Energy e Lundin, Cherif Ben Khelifa.

    Malgrado le numerose richieste di intervista inoltrate alla compagnia, TuNur non ha mai risposto alle domande di IrpiMedia.

    TuNur opera in Tunisia dalla fine del 2011, ed ha più volte annunciato l’imminente costruzione della mega centrale. Finora, però, neanche un pannello è stato installato a Rjim Maatoug, così che numerosi imprenditori del settore hanno finito per considerare il progetto “irrealistico”, anche a causa dei costi estremamente elevati rispetto al capitale di una compagnia apparentemente piccola. Eppure, ad agosto 2022 l’amministratore delegato di TuNur annunciava all’agenzia Reuters «l’intenzione di investire i primi 1,5 miliardi di euro per l’installazione della prima centrale». Non avendo potuto parlare con l’azienda resta un mistero da dove venga, e se ci sia davvero, un capitale così importante pronto per essere investito.

    Ma che la società sia ancora alla ricerca del capitale necessario, lo spiega lo stesso direttore esecutivo Daniel Rich in un’intervista rilasciata a The Africa Report nel 2022, affermando che TuNur ha incaricato la società di consulenza britannica Lion’s Head Global Partners di cercare investimenti. Poco dopo queste dichiarazioni, Rich ha ottenuto un incontro con il Ministero dell’energia. Anticipando i dubbi delle autorità, ha assicurato «la volontà del gruppo di espandere le proprie attività in Tunisia grazie ai nuovi programmi governativi». Secondo i documenti del registro di commercio tunisino, la sede tunisina della società TuNur – registrata come generica attività di “ricerca e sviluppo” – possiede un capitale di appena 30.000 dinari (10.000 euro). Una cifra infima rispetto a quelle necessarie ad eseguire il progetto.

    Secondo Ali Kanzari, il consulente principale di TuNur in Tunisia, nonché presidente della Camera sindacale tunisina del fotovoltaico (CSPT), il progetto si farà: «Il commercio Tunisia-Europa non può fermarsi ai datteri e all’olio d’oliva», racconta nel suo ufficio di Tunisi, seduto accanto ad una vecchia cartina del progetto. Ai suoi occhi, la causa del ritardo è soprattutto «la mancanza di volontà politica». «La Tunisia è al centro del Mediterraneo, siamo in grado di soddisfare il crescente fabbisogno europeo di energia verde, ma guardiamo al nostro deserto e non lo sfruttiamo», conclude.
    Ouarzazate, Marocco: un precedente

    La Tunisia non è il primo Paese nordafricano sui cui le compagnie private hanno puntato per sfruttare il “potenziale solare” del deserto. Il progetto di TuNur è ricalcato su quello di una mega centrale solare marocchina fortemente voluta da re Mohamed VI, diventata simbolo della transizione del Paese della regione che produce più elettricità a partire da fonti rinnovabili (19% nel 2019).

    Nel febbraio 2016, infatti, il re in persona ha inaugurato la più grande centrale termodinamica del mondo, Noor (suddivisa in più parti, Noor I, II, III e IV). Acclamato dai media, il progetto titanico Noor, molto simile a TuNur, non produce per l’esportazione, ma per il mercato interno ed ha una capacità di 580 MWh, solo un ottavo del progetto tunisino TuNur. Il sito è attualmente gestito dal gruppo saudita ACWA Power insieme all’Agenzia marocchina per l’energia sostenibile (MASEN). Secondo quanto si legge sul sito della società, anche Nur Energie, azionista di TuNur e di Desertec, avrebbe partecipato alla gara d’appalto.

    Nel paesaggio desertico roccioso del Marocco sud-orientale, a pochi chilometri dalla città di Ouarzazate, ai piedi della catena dell’Alto Atlante, centinaia di pannelli si scorgono a distanza tra la foschia. Sono disposti in cerchio intorno a una torre solare, e si estendono su una superficie di 3.000 ettari. Si tratta di specchi semiparabolici che ruotano automaticamente durante il giorno per riflettere i raggi solari su un tubo sottile posto al centro, da dove un liquido viene riscaldato, poi raccolto per alimentare una turbina che produce elettricità. Così funziona la tecnologia CSP (Concentrated Solar Power) riproposta anche per il progetto tunisino TuNur. «Con il CSP possiamo immagazzinare energia per una media di cinque ore, il che è molto più redditizio rispetto all’uso delle batterie», afferma Ali Kanzari, consulente principale della centrale TuNur, che vuole utilizzare la stessa tecnologia.

    Diversi grandi gruppi tedeschi sono stati coinvolti nella costruzione del complesso marocchino Noor. Ad esempio, il gigante dell’elettronica Siemens, che ha prodotto le turbine CSP. Secondo il media indipendente marocchino Telquel, i finanziatori del progetto – la Banca Mondiale e la banca tedesca per lo sviluppo Kfw – avrebbero perorato l’adozione di questa tecnologia, difendendo gli interessi dei produttori tedeschi, mentre gli esperti suggerivano – e suggeriscono tutt’ora – una maggiore cautela. La causa: l’elevato consumo di acqua di questo tipo di tecnologia durante la fase di raffreddamento.

    La valutazione dell’impatto ambientale effettuata prima della costruzione del progetto, consultata da IrpiMedia, prevede un consumo idrico annuale di sei milioni di metri cubi provenenti dalla diga di El Mansour Eddahbi, situata a pochi chilometri a est di Ouarzazate, che attualmente dispone solo del 12% della sua capacità totale. «Tuttavia, è impossibile ottenere statistiche ufficiali sul consumo effettivo, che sembra molto maggiore», osserva la ricercatrice Karen Rignall, antropologa dell’Università del Kentucky e specialista della transizione energetica in zone rurali, che ha lavorato a lungo sulla centrale solare di Noor.

    Il Marocco attraversa una situazione di «stress idrico strutturale», conferma un rapporto della Banca Mondiale, e la regione di Ouarzazate è proprio una delle più secche del Paese. Nella valle del Dadès, accanto alla centrale Noor, dove scorre uno degli affluenti della diga, gli agricoltori non hanno dubbi e chiedono un’altra transizione rinnovabile, che apporti riscontri positivi anche alle comunità della zona: «La nostra valle è sull’orlo del collasso, non possiamo stoccare l’acqua perché questa viene deviata verso la diga per le esigenze della centrale solare. Per noi Noor è tutt’altro che sostenibile», afferma Yousef il proprietario di una cooperativa agricola, mentre cammina tra le palme secche di un’oasi ormai inesistente, nella cittadina di Suq el-Khamis.

    In questa valle, conosciuta per le coltivazioni di una varietà locale di rosa, molti villaggi portano il nome del oued – il fiume, in arabo – che un tempo li attraversava. Oggi i ponti attraversano pietraie asciutte, e dell’acqua non c’è più traccia. I roseti sono secchi. A metà ottobre, gli abitanti della zona di Zagora, nella parallela ed egualmente secca valle di Draa, sono scesi in piazza per protestare contro quello che considerano water grabbing di Stato, chiedendo alle autorità una migliore gestione della risorsa. «In tanti stanno abbandonando queste aree interne, non riescono più a coltivare», spiega il contadino.

    Nel silenzio dei media locali, le manifestazioni e i sit-in nel Sud-Est del Marocco non fanno che moltiplicarsi. I movimenti locali puntano il dito contro la centrale solare e le vicine miniere di cobalto e argento, che risucchiano acqua per estrare i metalli rari. «In entrambi i casi si tratta di estrattivismo. Sono progetti che ci sono stati imposti dall’alto», spiega in un caffè di Ouarzazate l’attivista Jamal Saddoq, dell’associazione Attac Marocco, una delle poche ad occupasi di politiche estrattiviste e autoritarismo nel Paese. «È paradossale che un progetto che è stato proposto agli abitanti come soluzione alla crisi climatica in parte finisca per esserne responsabile a causa di tecnologie obsolete e dimensioni eccessive», riassume la ricercatrice Karen Rignall.

    È una centrale molto simile, ma di dimensioni nove volte maggiori, quella che TuNur intende installare nel deserto tunisino, dove l’agricoltura subisce già le conseguenze della siccità, di un’eccessiva salinizzazione dell’acqua a causa di infiltrazioni nella falda acquifera e di una malagestione delle risorse idriche. Secondo i dati dell’associazione Nakhla, che rappresenta gli agricoltori delle oasi nella regione di Kebili (dove si trova Rjim Maatoug), incontrata da IrpiMedia, viene pompato il 209% in più delle risorse idriche disponibili annualmente.

    La monetizzazione del deserto

    Eppure, ancora prima della pubblicazione della gara d’appalto del Ministero dell’energia per una concessione per l’esportazione, prerequisito per qualsiasi progetto di energia rinnovabile in Tunisia, e ancor prima di qualsiasi studio di impatto sulle risorse idriche, nel 2018 TuNur ha «ottenuto un accordo di pre-locazione per un terreno di 45.000 ettari tra le città di Rjim Maatoug e El Faouar», riferisce Ali Kanzari, senior advisor del progetto, documenti alla mano.

    Per il ricercatore in politiche agricole originario del Sud tunisino Aymen Amayed, l’idea dell’”inutilità” di queste aree è frutto di decenni di politiche fondarie portate avanti dall’epoca della colonizzazione francese. Le terre demaniali del Sud tunisino sono di proprietà dello Stato. Come in Marocco e in altri Paesi nord africani, le comunità locali ne rivendicano il possesso, ma queste vengono cedute alle compagnie private. «Queste terre sono la risorsa di sostentamento delle comunità di queste regioni, – spiega Aymen Amayed – Lo Stato ne ha fatto delle aree abbandonate, riservate a progetti futuri, economicamente più redditizi e ad alta intensità di capitale, creando un deserto sociale».

    TuNur promette di creare più di 20.000 posti di lavoro diretti e indiretti in una regione in cui il numero di aspiranti migranti verso l’Europa è in continua crescita. Ma nel caso di questi mega-progetti, «la maggior parte di questi posti di lavoro sono necessari solo per la fase di costruzione e di avvio dei progetti», sottolinea un recente rapporto dell’Osservatorio tunisino dell’economia. A confermarlo, è la voce degli abitanti della zona di Ouarzazate, in Marocco, che raccontano di essersi aspettati, senza successo, «una maggiore redistribuzione degli introiti, un posto di lavoro o almeno una riduzione delle bollette».

    La caratteristica di questi mega progetti è proprio la necessità di mobilitare fin dall’inizio una grande quantità di capitale. Tuttavia, «la maggior parte degli attori pubblici nei Paesi a Sud del Mediterraneo, fortemente indebitati e dipendenti dai finanziamenti delle istituzioni internazionali, non possono permettersi investimenti così cospicui, così se ne fanno carico gli attori privati. In questo modo i profitti restano al privato, mentre i costi sono pubblici», spiega il ricercatore Benjamin Schütze, ricercatore in relazioni internazionali presso l’Università di Friburgo (Germania) che lavora sul rapporto tra autoritarismo ed estrattivismo green.

    Questa dinamica è illustrata proprio dalla mega centrale solare marocchina Noor. Fin dalla sua costruzione, l’impianto marocchino è risultato economicamente insostenibile: l’Agenzia marocchina per l’energia sostenibile (MASEN) ha garantito alla società privata saudita che lo gestisce un prezzo di vendita più elevato del costo medio di produzione dell’energia nel Paese. Un divario che costa allo Stato marocchino 800 milioni di dirham all’anno (circa 75 milioni di euro), anche a causa della scelta di una tecnologia costosa e obsoleta come il CSP, ormai sostituito dal fotovoltaico. A sostenerlo è il rapporto sulla transizione energetica del Consiglio economico, sociale e ambientale (CESE), un’istituzione consultiva indipendente marocchina. Le critiche emesse dal CESE sul piano solare marocchino sono costate il posto al direttore e a diversi esponenti dell’agenzia MASEN, anche se vicini al re.

    Per questi motivi, sostiene il ricercatore tedesco, i mega-progetti che richiedono una maggiore centralizzazione della produzione sono più facilmente realizzabili in contesti autoritari. In Tunisia, se per un certo periodo proprio il difficile accesso a terreni contesi ha rappresentato un ostacolo, la legislazione è cambiata di recente: il decreto legge n. 2022-65 del 19 ottobre 2022, emesso in un Paese che dal 25 luglio 2021 è senza parlamento, legalizza l’esproprio di qualsiasi terreno nel Paese per la realizzazione di un progetto di “pubblica utilità”. Una porta aperta per le compagnie straniere, non solo nell’ambito energetico.

    Lobbying sulle due rive

    Ma perché la porta si spalanchi, ai privati serve soprattutto una legislazione adatta. Anche se per ora la mega centrale TuNur esiste solo su carta, la società sembra esser stata riattivata nel 2017, pur rimanendo in attesa di una concessione per l’esportazione da parte del Ministero dell’energia tunisino.

    Se c’è però un settore nel quale la compagnia sembra essere andata a passo spedito negli ultimi anni, questo è proprio quello del lobbying. A Tunisi come a Bruxelles. Dal 2020, l’azienda viene inserita nel Registro della trasparenza della Commissione europea, che elenca le compagnie che tentano di influenzare i processi decisionali dell’Ue. Secondo il registro, TuNur è interessata alla legislazione sulle politiche energetiche e di vicinato nel Mediterraneo, al Green Deal europeo e alla Rete europea dei gestori dei sistemi di trasmissione di energia elettrica, un’associazione che rappresenta circa quaranta gestori di diversi Paesi. La sede italiana della compagnia TuNur è stata recentemente inclusa nel piano decennale di sviluppo della rete elettrica Ue dalla Rete europea.

    «Abbiamo bisogno che lo Stato ci dia man forte così da poter sviluppare una roadmap insieme ai Paesi europei, in modo che l’energia pulita tunisina possa risultare competitiva sul mercato», spiega il consulente Ali Kanzari consultando un dossier di centinaia di pagine. E conferma: TuNur ha già preso contatti con due società di distribuzione elettrica, in Italia e in Francia. Anche in Tunisia le operazioni di lobbying della società, e più in generale dei gruppi privati presenti nel Paese, sono cosa nota. «Questo progetto ha costituito una potente lobby con l’obiettivo di ottenere l’inclusione di disposizioni sull’esportazione nella legislazione sulle energie rinnovabili», conferma un rapporto sull’energia dell’Observatoire Tunisien de l’Economie, che analizza le ultime riforme legislatve e i casi di Desertec e TuNur.

    Approvata nel 2015, la legge n. 2015-12 sulle energie rinnovabili ha effettivamente aperto la strada ai progetti di esportazione di energia verde. A tal fine, ha quindi autorizzato la liberalizzazione del mercato dell’elettricità in Tunisia, fino ad allora monopolio della Socetà tunisina dell’Elettricità e del Gas (STEG), di proprietà statale, fortemente indebitata. La legge favorisce il ricorso a partenariati pubblico-privato, i cosidetti PPP.

    «Alcune raccomandazioni dell’Agenzia tedesca per la cooperazione internazionale allo sviluppo (GIZ) e dell’Iniziativa industriale Desertec (Dii) hanno anticipato alcune delle misure contenute nella legge del 2015», sottolinea ancora il rapporto dell’Osservatorio economico tunisino. Emendata nel 2019, la legge sulle rinnovabili è stata fortemente contestata da un gruppo di sindacalisti della società pubblica STEG, che chiedono che il prezzo dell’elettricità rimanga garantito dallo Stato.

    Dopo aver chiesto formalmente che la non-privatizzazione del settore nel 2018, due anni più tardi, in piena pandemia, i sindacalisti della STEG hanno bloccato la connessione alla rete della prima centrale costruita nel Paese, a Tataouine, che avrebbe quindi aperto il mercato ai privati. Cofinanziata dall’Agenzia francese per lo sviluppo (AFD), la centrale fotovoltaica da 10 MW appartiene alla società SEREE, una joint venture tra la compagnia petrolifera italiana Eni e la compagnia petrolifera tunisina ETAP.

    «Chiediamo allo Stato di fare un passo indietro su questa legge, che è stata ratificata sotto la pressione delle multinazionali. Non siamo contrari alle energie rinnovabili, ma chiediamo che rimangano a disposizione dei tunisini e che l’elettricità resti un bene pubblico», spiega in forma anonima per timore di ritorsioni uno dei sindacalisti che hanno partecipato al blocco, incontrato da IrpiMedia. Tre anni dopo la fine dei lavori e un lungo braccio di ferro tra governo e sindacato, la centrale solare di Tataouine è infine stata collegata alla rete elettrica all’inizio di novembre 2022.

    «Sbloccare urgentemente il problema della connessione delle centrali elettriche rinnovabili» è del resto una delle prime raccomandazioni citate in un rapporto interno, consultato da IrpiMedia, che la Banca Mondiale ha inviato al Ministero dell’economia tunisino alla fine del 2021. Anche l’FMI, con il quale la Tunisia ha concluso ad ottobre un accordo tecnico, incoraggia esplicitamente gli investimenti privati nelle energie rinnovabili attraverso il programma di riforme economiche presentato alle autorità, chiedendo tra l’altro la fine delle sovvenzioni statali all’energia. «Con la crisi del gas russo in Europa, la pressione nei nostri confronti è definitivamente aumentata», conclude il sindacalista.

    Nonostante un impianto legale che si è adattato ai progetti privati, i lavori di costruzione di buona parte delle centrali solari approvate in Tunisia, tutti progetti vinti da società straniere, sono rimasti bloccati. Il motivo: «La lentezza delle procedure amministrative. Nel frattempo, durante l’ultimo anno il costo delle materie prime è aumentato notevolmente sul mercato internazionale», spiega Omar Bey, responsabile delle relazioni istituzionali della società francese Qair Energy. «Il budget con il quale sono stati approvati i progetti qualche anno fa, oggi manderebbe le compagnie in perdita».

    Solo le multinazionali del fossile quindi sembano potersi permettere gli attuali prezzi dei pannelli solari da importare. «Non è un caso che l’unica centrale costruita in tempi rapidi e pronta ad entrare in funzione appartiene alla multinazionale del petrolio Eni», confida una fonte interna alla compagnia petrolifera tunisina ETAP. Le stesse multinazionali erano presenti al Salone internazionale della transizione energetica, organizzato nell’ottobre 2022 dalla Camera sindacale tunisina del fotovoltaico (CSPT), di cui TuNur è membro, riunite sotto la bandiera di Solar Power Europe, un’organizzazione con sede a Bruxelles. Sono più di 250 le aziende che ne fanno parte, tra queste TotalEnergies, Engie ed EDF, le italiane ENI, PlEnitude ed Enel, ma anche Amazon, Google, Huawei e diverse società di consulenza internazionali. Società con obiettivi diversi, spesso concorrenti, si riuniscono così di fronte all’esigenza comune di influenzare le autorità locali per rimodellare la legge a proprio piacimento.

    L’associazione di lobbying, infatti, si è presentata con l’obiettivo esplicito qui di «individuare nuove opportunità di business» e «ridurre gli ostacoli legislativi, amministrativi e finanziari allo sviluppo del settore». Per il consulente di TuNur Ali Kanzari, «la legge del 2015 non è sufficientemente favorevole alle esportazioni e va migliorata».

    Se gli studi tecnici e d’impatto per collegare le due rive si moltiplicano, sono sempre di più le voci che si levano a Sud del Mediterraneo per reclamare una transizione energetica urgente e rapida sì, ma innanzitutto equa, cioè non a discapito degli imperativi ambientali e sociali delle comunità locali a Sud del Mediterraneo «finendo per riprodurre meccanismi estrattivi e di dipendenza simili a quelli dell’industria fossile», conclude il ricercatore Benjamin Schütze. Molti sindacati e associazioni locali in Tunisia, in Marocco e nel resto della regione propongono un modello decentralizzato di produzione di energia verde, garanzia di un processo di democratizzazione energetica. Proprio il Partenariato per una Transizione energetica equa (Just Energy Transition Partnership) è al centro del dibattito di una COP27 a Sud del Mediterraneo.

    https://irpimedia.irpi.eu/greenwashing-tunur-energia-verde-da-nord-africa-a-europa
    #énergie #énergie_verte #Afrique_du_Nord #exportation #UE #union_européenne #Europe #énergie #eau #green-washing #Tunisie #énergie_photovoltaïque #énergie_solaire #désert #photovoltaïque #extractivisme #Kebilli #Rjim_Maatoug #Agenzia_Italiana_per_lo_Sviluppo_e_la_cooperazione (#AICS) #aide_au_développement #coopération_au_développement #Italie #Desertec_Industrial_Initiative (#Dii) #Desertec #Kevin_Sara #Daniel_Rich #Nur_Energie #Zammit #TuNur_ltd #Lion’s_Head_Global_Partners #Ali_Kanzari #Ouarzazate #Maroc #Noor #centrale_électrique #ACWA_Power #Arabie_Saoudite #MASEN #Nur_Energie #Concentrated_Solar_Power (#CSP) #Dadès #Suq_el-Khamis #water_grabbing #SEREE #ETAP

  • Jordan Is Running Out of Water, a Grim Glimpse of the Future - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2022/11/09/world/middleeast/jordan-water-cop-27.html

    Desalination is a promising lifeline for Jordan, but it will not happen quickly. A large-scale desalination project in the port city of Aqaba on the Red Sea is in the works, but it will take years.

    There is one potential quick fix: buying more water from Israel, a pioneer in desalination techniques. Cooperation on water was an important element of the 1994 peace treaty between the two countries, and they signed a water-for-energy agreement at the United Nations climate conference in the Egyptian Red Sea resort of Sharm el Sheikh on Tuesday.

    Protests broke out in Amman last year when the plan, which was brokered by the United Arab Emirates and would involve Jordan sending solar energy to Israel in exchange for water, was first announced. An overreliance on Israel water is unpalatable to many Jordanians, who oppose the occupation of the Palestinian territories.

    But water is a critical national security issue in Jordan, and shortages threaten to destabilize a stalwart U.S. Arab ally that has been an oasis of calm in a turbulent neighborhood. Iyad Dahiyat, a former water ministry official, said the water portfolio is as important as the military given the threats to Jordan posed by climate change.

    One recent study predicted that severe and potentially destabilizing water shortages will become common in Jordan by 2100 unless the country makes significant changes.

    “The government needs to increase supply to communities to limit discontent,” said Sandra Ruckstuhl, an American researcher based in Amman and a senior adviser at the International Water Management.

    Ms. Ruckstuhl and other experts say the government needs to raise water prices based on household income to account for the soaring cost of delivering it to homes and businesses. But many Jordanians are already struggling with unemployment and high prices and that would be an added, and unpopular, burden.

    Choosing crops wisely and managing water are crucial for Jordanian agriculture as climate change accelerates. The sector once used about 70 percent of the country’s water supply, though it contributes relatively little to the gross domestic product.

    Use has decreased to around 50 percent, which Mr. Salameh, the government spokesman, cited as a promising indicator. But many farmers still focus on water-intensive crops that are becoming more difficult to grow.

    Khaireddin Shukri, 68, is a retired farm owner and a consultant who has long pushed for crops that require less water and bring in more money. He said the water issue revolves around planning and pointed to inefficient practices and waste.

    “It’s a country with huge potential but lack of management,” he said of Jordan.

    #eau #changement_climatique #agriculture #irrigation

    • commentaire du journaliste Taylor Luck
      https://twitter.com/Taylor_Luck/status/1590603807545004032 et suivants

      Great article, but quick note, the #Jordan-#Israel 200mcm #water deal is not a “quick fix.” Even with water from Israel and 200mcm desalination from Aqaba (when?), the country faces 1.6 billion cubic meters demand amid dwindling groundwater and rainfall
      #Jordan-#Israel #water deal will ease the immediate emergancy, no doubt (when it happens). But it, along with the Red Sea Conveyance Project will barely keep up pace with increased water demand due to population growth and decline in rainfall/groundwater resources.
      Also, deal is dependent on construction of the solar plant and an #Israel-i prime Minister who won’t withhold water to strong-arm #Jordan. #Netanyahu has mused withholding water from Jordan in the past and has criticized this solar-water deal.

  • The potential of unused small-scale water reservoirs for climate change adaptation: A model- and scenario based analysis of a local water reservoir system in Thuringia, Germany

    The 6th Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) report (2021) stated that hot extremes have become more frequent and intense across most land regions in the past decades. It is projected that the changing climatic conditions in Germany and Thuringia in particular will lead to a higher frequency of drought events. Thus, it is vital to develop local adaptation strategies to mitigate the effects of droughts on agriculture to ensure future crop production. Water resource infrastructure has a critical role in planning future climate change adaptation measures that are sustainable. As the construction of new dams and reservoirs is controversial, it is preferable to use existing infrastructures, if they are suitable. Small-scale water management reservoirs built in Thuringia during the GDR (German Democratic Republic) and decommissioned after the German reunification were examined in this study to determine whether their reuse could be considered as a potential adaptation strategy. For this purpose, three reservoirs in Thuringia were selected. The impact of climate change on soil moisture, water availability and crop production, and the use of water from the reservoirs to meet future irrigation needs were modeled using the #Water_Evaluation_and_Planning_system (#WEAP). The modeled climatic changes have direct effects on the soil moisture status, leading to a higher water demand of the local agriculture. The results show that the crop water needs could double between near future (2020–2040) and distant future (2071–2100). However, predicted declines in yields can be mitigated by irrigation; modeling results indicate that supplemental irrigation with reservoir water mitigates projected losses and even allows 6.2–13.5% more crop production. Hence, the reuse of the reservoirs is worth to be considered as an adaptation strategy by policymakers. In addition to a cost-benefit analysis for future evaluation of the reservoirs, local user interests and demands need to be included avoiding conflicts about water. In general, WEAP as a modeling tool and the findings of the study show, that this research approach could be used to investigate the potential adaptive capacity of other small-scale water infrastructures.

    https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/frwa.2022.892834/full

    #eau #réservoirs #micro-réservoirs #réservoirs_d'eau #changement_climatique #adaptation #aménagement_du_territoire #irrigation

  • Après la bataille de Waterloo, les os des morts utilisés dans l’industrie alimentaire pour filtrer le sirop de sucre
    François Braibant - RTBF
    https://www.rtbf.be/article/apres-la-bataille-de-waterloo-les-os-des-morts-utilises-dans-lindustrie-aliment

    Nos ancêtres étaient-ils des cannibales qui s’ignoraient ? A Waterloo en tout cas, les cadavres du champ de bataille ont servi à fabriquer du sucre ! C’est la découverte de deux historiens belge et allemand et d’un archéologue britannique. Cette découverte explique pourquoi il est si rare de découvrir un squelette sur le site de cette immense bataille.

    A Waterloo, le 18 juin 1815, entre dix et trente mille soldats sont tués. Où sont leurs cadavres ? Les archéologues en retrouvent très peu. Dans les années qui ont suivi la bataille, les paysans les ont déterrés et vendus. Qui a pu acheter ça ? L’industrie sucrière ! Le sucre de betterave vient d’être inventé. Ce sucre-là, il faut le clarifier. C’est à ça que vont servir les cadavres. Les os sont cuits dans des fours pour en faire une poudre, du « noir animal », qui filtre le sirop de sucre.


    Noir animal en poudre, utilisé aujourd’hui comme pigment RTBF – François Braibant

    Ce produit existe toujours, même si en Europe, il n’est plus utilisé par l’industrie sucrière. « Vers 1820 » raconte l’historien liégeois Bernard Wilkin, « du côté de Waterloo, la betterave supplante le froment. L’industrie sucrière s’installe, avec des fours à ossements. La valeur marchande des os - théoriquement animaux - s’envole. Cette valeur ne peut pas laisser indifférents les paysans du coin, souvent désargentés, qui savent très bien où se trouvent les charniers de la bataille. » Dès 1834, les sources écrites montrent que les incidents se multiplient. Des voyageurs rapportent avoir vu déterrer les cadavres. Des parlementaires dénoncent le trafic « d’os putrides » . Et le bourgmestre de Braine l’Alleud avertit par affiche : ces exhumations sont interdites et punissables.

    « On a un géologue allemand qui voit des paysans déterrer des ossements. Soi-disant des ossements de chevaux, mais il y en a un qui rigole, qui parle des soldats de la garde impériale, qui sont grands, dont les os se confondent facilement avec ceux des chevaux. Et dans les archives communales, le bourgmestre de Braine-l’Alleud parle clairement d’exhumations de cadavres pour en faire commerce. Il avertit la population de sa commune et des communes avoisinantes et rappeler que l’article 360 du Code pénal punit ces exhumations. Il destine cet avertissement aux cultivateurs et propriétaires terriens. » Personne, selon Bernard Wilkin, ne sera arrêté pour ces exhumations illégales.

    Le noir animal a rapporté énormément d’argent. Il s’agit de « centaines de milliers de francs de l’époque, plusieurs fois ce qu’un ouvrier peut gagner dans une vie. » L’un des procédés pour fabriquer le sucre impliquait de mélanger le noir animal à la préparation. De l’os humain s’est bien retrouvé il y a 200 ans dans les pâtisseries de nos ancêtres… selon l’historien plus cyniques que cannibales.

    #sucre #os #ossements #squelettes #Waterloo #Chimie #industrie #betterave #capitalisme

    • Les morts de Waterloo ont-ils été transformés en fertilisant agricole ? - Sciences et Avenir
      . . . . .
      « Des fosses communes ont été vidées par des entrepreneurs à la recherche d’os utilisés comme engrais pour faire de la farine d’os dans la première moitié du 19e siècle. Il existe de nombreux journaux faisant références à cette pratique à l’époque - avec les principaux champs de bataille européens dans lesquels étaient recherchés des tombes contenant de grandes quantités d’os. Leipzig est un autre champ de bataille mentionnés dans ce contexte. Les os ont été expédiés vers des ports tels que celui de Hull en Angleterre, mais également vers l’Écosse, où ils étaient broyés pour être utilisés comme engrais afin de favoriser la croissance des cultures. Seuls les charniers valaient la peine [des fosses contenant des corps en quantité, ndlr] et des contacts locaux ont probablement dû être payés pour identifier l’emplacement de ces sépultures. Ce qui ne veut pas dire que chaque charnier a été traité de cette manière, mais beaucoup semblent l’avoir été », a expliqué à Sciences et Avenir, l’archéologue Tony Pollard, lors d’un précédent échange. 

      Auraient ainsi été visités les champs de bataille d’Austerlitz, Waterloo et quelques autres. En 1822, un journal britannique rapportait d’ailleurs : « On estime que plus d’un million de boisseaux d’os humains et inhumains [chevaux, ndlr] ont été importés du continent européen l’année dernière dans le port de Hull. Les quartiers de Leipzig, Austerlitz, Waterloo et de tous les lieux où se sont déroulés les principaux combats de la dernière guerre sanglante ont été balayés de la même façon par les os du héros et du cheval qu’il a montés. Ainsi rassemblés chaque trimestre, ils ont été expédiés au port de Hull, puis acheminés aux broyeurs d’os du Yorkshire, qui ont installé des moteurs à vapeur et des machines puissantes dans le but de les réduire à l’état de granulaire. [..Ils ont été envoyés principalement à Doncaster, l’un des plus grands marchés agricoles de cette partie du pays, et son vendus aux agriculteurs pour qu’ils fassent purifier leurs terres…] »
      . . . . .
      Source : https://www.sciencesetavenir.fr/archeo-paleo/archeologie/les-morts-de-waterloo-ont-ils-ete-transformes-en-fertilisant-agrico

    • Curieux qu’il ait fallu rechercher un médecin allemand, afin d’accuser les pauvres (les riches consommaient du sucre de canne) de cannibalisme.
      Ce médecin pourrait nous éclairer sur ce que sont devenus les restes des dépouilles passés par les fours crématoires de son pays.

  • Serbia, ancora violenza contro chi manifesta
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-ancora-violenza-contro-chi-manifesta-219779

    I recenti fatti di Novi Sad, dove una protesta di cittadini contro l’applicazione del nuovo Piano regolatore è stata duramente repressa dalla polizia e da guardie private, confermano la tendenza del regime Aleksandar Vučić ad usare la violenza per reprimere il dissenso

    • #Maradia_Tsaava : #Water_Has_No_Borders

      Since the end of the civil war in the early 1990s, the region of Abkhazia has been acting independently of Georgia. This has turned a massive dam into a border. But the hydroelectric power station also connects the two political entities: Because over a distance of fifteen kilometres the water flows freely, underground, from one side to the other. When a young journalist gets stranded here, stories of division emerge.

      On the way back from a reportage trip to the dam, director Maradia and her cameraman’s car breaks down. Ika takes care of them. For decades, the joyous engineer has worked – in cooperation with his colleagues on the Abkhazian territory – on the maintenance of the plant. Maradia, representative of a whole generation of Georgians who know this place of longing on the Black Sea only from stories, becomes curious. But while the workers take the bus across the border every morning, the film crew is thwarted by bureaucracy. Time and again they are denied passage. This turns out to be fortunate for the film, because waiting for the permission, in the cafeteria of the dam, in driving around the river, the stories of people emerge whose lives are shaped by the secession. They talk of legal and clandestine border crossings, weddings and funerals and of life in the here and there. (Written by Marie Kloos, taken from the website of DOKLeipzig).

      http://www.filmkommentaren.dk/blog/blogpost/4972
      #barrages_hydroélectriques #électricité #Géorgie #Abkhazie #eau #barrage_hydroélectrique #Mer_Noire #frontières
      #film #film_documentaire #documentaire
      ping @visionscarto

    • LA VACHE QUI BUVAIT LA MEUSE Claude Semal
      Consomme-t-on vraiment 15.000 litres d’eau pour produire un kilo de viande de bœuf ?
      . . . . . . . .
      Pour le savoir, tentons d’estimer la consommation d’eau totale d’un bovin.
      Commençons par le plus simple : la boisson.

      Un bœuf ou une vache laitière boit 100 litres d’eau par jour (1) et vit en moyenne trois ans, soit à la louche, mille jours (1). Ce qui nous fait 100.000 litres, soit 100 litres d’eau par kilo de viande (100.000 litres : 1000 kg).

      Passons à l’alimentation.

      Un bovin mange en moyenne dix kilos de céréales par jour (1).

      Multiplié par mille jours de rumination, cela fait donc, en trois ans, dix tonnes de céréales dans son écuelle. Un fameux petit dej !

      Or pour faire pousser un kilo de céréales, type mélange maïs/blé, il faut 400 litres d’eau (1) (2).

      Ce qui nous fait 1000 jours x 10 kilos de céréales x 400 litres d’eau divisé par le poids de la bête,… n’essayez pas de suivre, je compte pour vous, abracadabra… !
      Cela fait 4 m3 d’eau par kilo de viande. Ah ! bon quand même ! …Mais est-ce que le compte y est ?

      Par ce biais, on s’en rapproche un peu. 4100 litres d’eau, c’est effectivement beaucoup.

      Mais cela n’en fait toujours pas 15.000.
… Bon sang, mais c’est bien sûr ! J’ai fait mes “calculs” avec le poids d’une bête “sur pied”.

      Or seuls 30 % de l’animal seront effectivement transformés en viande (6).

      Par kilo de viande, cela multiplie par 3,3 notre “consommation” d’eau, soit 13.530 litres. On approche, on approche.

      Qu’est ce que j’ai encore oublié ? OK, le fonctionnement général d’une ferme, et plus encore celui d’un abattoir, divisé par le nombre de vaches, cela doit nécessairement consommer beaucoup de flotte. Le sang, ça tâche, et la bouse aussi. Sans doute assez pour justifier cette différence. OK, je rends les armes. Méluche avait raison.

      On vérifie ? Je fais appel à l’équipe… ou à défaut, à Wikipédia. Bon, finalement, ce sera plutôt decodagri.fr (3).

      Et ici, surprise ! Sur ce site, visiblement inspiré par les éleveurs, on nous explique que depuis 2002, le système Water Footprint Network (WFN) ne calcule pas la vraie consommation d’eau, mais une empreinte virtuelle, comme on calcule par ailleurs l’empreinte carbone de certains produits.
      Dans les chiffres ci-dessus cités, 95 % de “l’estimation” ne concerneraient ainsi ni la vraie consommation d’eau des animaux, nécessaire à ce qu’ils boivent, ni la vraie consommation d’eau des cultures céréalières, nécessaire à ce qu’ils mangent, mais… l’ensemble de l’eau de pluie qui tombe sur la surface des prairies et des champs cultivés, avant de retourner remplir les nappes phréatiques.

      Et qui serait de toutes façons tombée sur le sol, avec ou sans vaches, avec ou sans cultures. Et qu’il semble donc un peu tiré par les cornes de comptabiliser dans le bilan hydrique de nos hamburgers.
      . . . . . . . .
      La suite : https://www.asymptomatique.be/la-vache-qui-buvait-la-meuse

      #Boeuf #vache #viande #eau

      #agriculture #alimentation #élevage #consommation #agroalimentaire #culture #Water_Footprint_Network #WFN #empreinte_carbone

    • Cet article raconte la suite des enquêtes des membres de @wereport sur l’eau, et notamment l’#eau_en_bouteilles.

      Toutes les enquêtes sont à retrouver sur le site de We Report dans la page #Water_Stories :


      https://www.wereport.fr/waterstories

      –-

      voir aussi le #documentaire sur Arte :
      À sec - La grande soif des multinationales

      À l’heure où les ressources hydriques s’amenuisent en Europe, les multinationales de l’eau en bouteille n’entendent pas renoncer à leurs prérogatives. Enquête en France et en Allemagne où les conflits d’intérêts paralysent les espoirs de réglementation.

      À qui appartient l’eau sous nos pieds ? Depuis des décennies, les grandes multinationales de l’eau en bouteille amplifient leur pression sur les nappes phréatiques, au détriment des populations locales. Dans la région auvergnate de Volvic, l’État a accordé à la multinationale Danone de nouveaux droits de prélèvement, alors même que le niveau des réserves d’eau atteignait un niveau alarmant. Plusieurs sources historiques sont désormais taries, laissant sinistré le secteur autrefois florissant de la pisciculture. À Vittel, dans les Vosges, Nestlé Waters – premier employeur de la région – contrôle le territoire dont il surexploite sciemment l’aquifère. La firme suisse se trouve désormais embourbée dans une affaire de prise illégale d’intérêts doublée d’un scandale de pollution des sols. De l’autre côté du Rhin, c’est le géant Coca-Cola qui projette d’exploiter un troisième puits sur son site de Lunebourg, en Basse-Saxe, avec pour projet de multiplier par deux les volumes ponctionnés. Contre ces colosses apparemment tout-puissants, les collectifs citoyens qui s’organisent peinent à faire le poids.

      Robert Schmidt et Alexander Abdelilah enquêtent sur un système opaque dont les prétentions au développement durable ne sont que poudre aux yeux, et rencontre des militants associatifs, personnalités politiques ou simples citoyens investis dans un combat pour faire évoluer la législation sur le sujet – à l’image de l’avocate et ancienne ministre Corinne Lepage ou de la députée Mathilde Panot, qui a dirigé la commission d’enquête parlementaire relative à la mainmise sur la ressource en eau par les intérêts privés. Pour faire de l’accès à l’or bleu un droit fondamental, le chemin reste encore long et semé d’embûches.

      https://www.arte.tv/fr/videos/099777-000-A/a-sec-la-grande-soif-des-multinationales
      #film_documentaire

  • L’eau devient un produit financier en Californie | Les Echos
    https://www.lesechos.fr/finance-marches/marches-financiers/leau-devient-un-produit-financier-en-californie-1255502

    La Bourse de Chicago et le Nasdaq vont lancer des contrats à terme sur l’eau de Californie. Ces instruments financiers permettront de se couvrir contre la volatilité des prix de cette ressource naturelle sous tension dans l’Etat américain.

    Après avoir fait fortune en anticipant l’effondrement du marché immobilier américain, Michael Burry a concentré ses investissements sur une matière première : l’eau. L’investisseur rendu célèbre par le livre de Micheal Lewis « Le casse du siècle » et le film « The Big Short » expliquait en 2010 avoir investi dans des exploitations agricoles disposant de réserves hydriques sur place.

    En 2020, Wall Street lui donne une nouvelle fois raison : les opérateurs de Bourse, le Chicago Mercantile Exchange (CME) et le Nasdaq s’apprêtent à lancer d’ici à la fin de l’année des contrats à terme sur l’eau californienne. Une grande première pour cette ressource naturelle, devenue une matière première et un actif au même titre que le blé, le cuivre ou le pétrole.

  • [Bruxelles m’habite] 3e capsule sonore de BNA-BBOT, autour des thèmes agriculture urbaine et logement - #34
    http://www.radiopanik.org/emissions/bruxelles-m-habite/-34-2

    Au menu de ce 34e épisode de Bruxelles M’Habite, on invite des membres de #saule (Symbiose Agriculture Urbaine Logement Ecosystème). C’est un projet de co-création (financé par Innoviris) réunissant des citoyen.ne.s, des professionnel.le.s de l’agriculture urbaine, des chercheur.seuse.s, des spécialistes de l’information sociale et des urbanistes. L’objectif est de réfléchir ensemble aux liens possibles entre les projets d’agriculture et de nouveaux logements en ville. Le projet se centre sur la Ferme du #chant_des_cailles à #Watermael-Boitsfort et sur le quartier des Archiducs – Logis-Floréal.

    On diffuse aussi la 3e capsule carte postale sonore réalisée à partir de sons récoltés par BNA (Bruxelles Nous Appartient), qui travaille sur la mémoire sonore de notre Les thèmes d’inspiration : agriculture urbaine (...)

    #Norma_Prendergast #gregor_beck #Jean_d'Osta #Eric_Van_Osselaer #aporee #Norma_Prendergast,Watermael-Boitsfort,gregor_beck,saule,Jean_d’Osta,Eric_Van_Osselaer,aporee,chant_des_cailles
    http://www.radiopanik.org/media/sounds/bruxelles-m-habite/-34-2_08263__0.mp3

  • Main basse sur l’#eau | ARTE
    https://www.arte.tv/fr/videos/082810-000-A/main-basse-sur-l-eau

    Le prometteur marché de l’eau s’annonce comme le prochain casino mondial. Les géants de la finance se battent déjà pour s’emparer de ce nouvel « or bleu ». Enquête glaçante sur la prochaine bulle spéculative.

    Réchauffement climatique, pollution, pression démographique, extension des surfaces agricoles : partout dans le monde, la demande en eau explose et l’offre se raréfie. En 2050, une personne sur quatre vivra dans un pays affecté par des pénuries. Après l’or et le pétrole, l’"or bleu", ressource la plus convoitée de la planète, attise les appétits des géants de la #finance, qui parient sur sa valeur en hausse, source de #profits mirobolants. Aujourd’hui, des #banques et fonds de placements – Goldman Sachs, HSBC, UBS, Allianz, la Deutsche Bank ou la BNP – s’emploient à créer des #marchés porteurs dans ce secteur et à spéculer, avec, étrangement, l’appui d’ONG écologistes. Lesquelles achètent de l’eau « pour la restituer à la nature », voyant dans ce nouvel ordre libéral un moyen de protéger l’environnement.

    En Australie, continent le plus chaud de la planète, cette #marchandisation de l’eau a pourtant déjà acculé des fermiers à la faillite, au profit de l’#agriculture_industrielle, et la Californie imite ce modèle. Face à cette redoutable offensive, amorcée en Grande-Bretagne dès #Thatcher, la résistance citoyenne s’organise pour défendre le droit à l’eau pour tous et sanctuariser cette ressource vitale limitée, dont dépendront 10 milliards d’habitants sur Terre à l’horizon 2050.

    De l’Australie à l’Europe en passant par les États-Unis, cette investigation décrypte pour la première fois les menaces de la glaçante révolution en cours pour les populations et la planète. Nourri de témoignages de terrain, le film montre aussi le combat, à la fois politique, économique et environnemental, que se livrent les apôtres de la #financiarisation de l’eau douce et ceux, simples citoyens ou villes européennes, qui résistent à cette dérive, considérant son accès comme un droit universel, d’ailleurs reconnu par l’#ONU en 2010. Alors que la bataille de la #gratuité est déjà perdue, le cynisme des joueurs de ce nouveau #casino mondial, au sourire carnassier, fait frémir, l’un d’eux lâchant : « Ce n’est pas parce que l’eau est la vie qu’elle ne doit pas avoir un prix. »

  • #Google_Maps sans les boutons d’interface

    ce #bookmarklet peut être utile pour faire des captures d’écran par exemple
    javascript:document.querySelectorAll("#vasquette,#omnibox-container,.app-viewcard-strip,.noprint,#watermark").forEach(e=>e.parentNode.removeChild(e))

    #de_rien

  • Encore quelques chansons américaines pour ma #compilation anti-Trump
    https://seenthis.net/messages/727919

    Black Joe Lewis - Culture Vulture (2018 #antifasciste)
    https://www.youtube.com/watch?v=0dv5_IB61q0

    Anderson Paak - 6 Summers (2018)
    https://www.youtube.com/watch?v=hk1TrwraZms

    Kirk Fletcher - Two steps forward (2018)
    https://www.youtube.com/watch?v=jRM3M533xUU

    Tedeschi Trucks Band - Shame (2019)
    https://www.youtube.com/watch?v=L6Ju6BCfGhw

    Watermelon Slim - Charlottesville (2019 antifasciste)
    https://www.youtube.com/watch?v=tVJIp39Ky9w

    Watermelon Slim - Mni Wiconi (2019, bon, celle ci est plutôt en faveur des #autochtones)
    https://www.youtube.com/watch?v=vMAQ5GUdYyA

    #Musique_et_politique #Musique #Donald_Trump #USA #Black_Joe_Lewis #Anderson_Paak #Soul #Kirk_Fletcher #Tedeschi_Trucks_Band #Watermelon_Slim #Blues