#yvan_sagnet

  • Rifiuti, prostituzione e caporali: l’inferno di Rosarno

    Viaggio nel #ghetto più grande d’Italia. Più di 2500 migranti ammassati nella baraccopoli della Piana di #Gioia_Tauro. Il rapporto dei Medici per i diritti umani (Medu) si chiama “#Terraingiusta” e racconta “le condizioni spaventose” in cui vivono gli ospiti della spianata in provincia di #Reggio_Calabria


    http://www.repubblica.it/cronaca/2017/04/12/news/rifiuti_droga_e_caporali_l_inferno_di_rosarno_viaggio_nel_ghetto_piu_gran
    #déchets #prostitution #caporalato #Rosarno #rapport #Italie #Calabre

    • Magdalena, che difende i braccianti dal caporalato

      #Magdalena_Jarczak è arrivata in Italia nel 2001, in cerca di lavoro. Ha passato mesi d’inferno nelle campagne pugliesi. Ma ha avuto il coraggio di ribellarsi ai caporali e oggi è diventata la paladina dei braccianti senza diritti


      http://www.donnamoderna.com/news/italia/braccianti-agricoli-caporalato-magdalena-jarczak

    • Red gold and blood money: the fight to end modern slavery in Italy’s agricultural sector

      For #Yvan_Sagnet, a Cameroonian migrant working in a tomato field in Puglia, Italy, the last straw came on a hot summer’s day in 2011. The harvest was in full swing. Teams of undocumented labourers were busy working at 42°C with no access to water or toilet facilities.


      https://www.equaltimes.org/red-gold-and-blood-money-the-fight?lang=en
      #tomate #Pouilles

    • Rosarno, otto anni dopo: nella baraccopoli degli immigrati, senza acqua corrente né elettricità

      Il #ghetto di #San_Ferdinando è rimasto lo stesso, uomini che vivono nel fango e in condizioni igieniche pessime in attesa di una giornata di lavoro a cottimo. Lì dove il 7 gennaio del 2010 era scoppiata una rivolta non è cambiato niente

      http://www.corriere.it/video-articoli/2017/12/28/rosarno-otto-anni-dopo-baraccopoli-immigrati-senza-acqua-corrente-ne-elettricita/e7b13272-ebe2-11e7-9fa2-1bd82b1c1e98.shtml

    • “Bastonati e investiti dagli italiani”. Nell’inferno di Rosarno che attende Salvini

      Nelle baraccopoli 2.500 braccianti vivono in condizioni disumane. Emergency: “Almeno 30 colpiti volontariamente dagli automobilisti”

      http://www.lastampa.it/2018/03/17/italia/cronache/bastonati-e-investiti-dagli-italiani-nellinferno-di-rosarno-che-attende-salvini-XfsEbYNLD5vD2hPYq9aoKJ/pagina.html

    • Caporalato, i nuovi schiavisti minacciano #Marco_Omizzolo. Ma lui non si arrende

      Lui si chiama Marco Omizzolo, sociologo, giornalista, responsabile scientifico della associazione In Migrazione. Da anni studia, scrive e denuncia le infiltrazioni della camorra nell’agro-pontino, ricostruisce la catena del malaffare e della corruzione, ricostruisce e documenta la tragedia del caporalato e le nuove forme della schiavitù che segnano le esistenze di migliaia di esseri umani, a prescindere dal colore della pelle e da luogo di nascita.

      I nuovi schiavisti non fanno distinzione tra bianchi, gialli e neri, inseguono solo l’odore dei soldi. Marco Omizzolo, e con lui altri coraggiosi cronisti di quella terra, non ha solo scritto e descritto, ma è anche andato, accompagnato da un avvocato, e dai sindacalisti della Cgil, davanti ai caporali, e poi li ha denunciati e ha contribuito a mettere in moto indagini e inchieste che hanno infastidito chi ha bisogno del buio per realizzare profitti e affari che, spesso, si intrecciano con lo spaccio della droga e lo sfruttamento della prostituzione.


      https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/03/18/caporalato-i-nuovi-schiavisti-minacciano-marco-omizzolo-ma-lui-non-si-arrende/4233199
      #résistance

    • A Rosarno, la tendopoli delle donne

      Becky Moses, giovane nigeriana, muore carbonizzata in un ennesimo incendio scoppiato nella tendopoli di San Ferdinando a Rosarno. Questa volta è una donna, non è una bracciante e non raccoglie arance. Finora il popolo della tendopoli innalzato alle cronache è maschio, bracciante impiegato nella raccolta degli agrumi.

      Le immagini che ci accompagnano dalla famosa rivolta del 2010 sono di centinaia di migranti uomini africani scesi in piazza, per le vie del paese, pieni di rabbia, per protestare contro le violenze fisiche subite, lo sfruttamento nei campi e la vita da bestie vissuta in casupole fatiscenti sparse nelle campagne della piana di Rosarno e Gioia Tauro. In seguito alla rivolta l’anno dopo viene allestita la prima tendopoli a San Ferdinando, lontano dal paese, nella zona industriale, fatta di capannoni vuoti e abbandonati realizzati con la legge 488, ma le cui attività produttive non sono mai partite.

      Rosarno è da tempo conosciuta come la tendopoli più grande di Italia. Nei periodi di raccolta delle arance, da ottobre a marzo, vi vivono circa 2.500 immigrati e tanti di loro oggi vi risiedono in modo permanente anche tutto l’anno. Da anni si ricercano soluzioni, si investono finanziamenti ma di fatto si moltiplicano solo campi mai del tutto attrezzati. Inconcepibilmente l’ultima tendopoli è stata costruita priva di spazi dove poter cucinare mentre era previsto un servizio di catering, scelta insensata se pensiamo che ad abitare questa tendopoli vi sono una ventina di etnie con culture sul cibo tra loro diversissime. Il cibo, come si sa, è uno degli elementi che permette di mantenere la propria identità. E le persone, nei loro processi migratori, hanno bisogno di poter continuare a prepararsi un pasto secondo le proprie usanze e culture, e molte volte questo contribuisce un po’ ad alleviare le sofferenze che le migrazioni portano con sé, a rimanere ancorati alle proprie identità e radici culturali.

      Nei giorni che hanno proceduto le festività dell’ultimo Natale, Blessing è arrivata nella nostra comunità dopo essere stata presa in una retata della polizia mescolata con maman e sfruttatori che costringevano lei e altre ragazze a prostituirsi in strada. Anch’essa passata dalla tendopoli di Rosarno e poi spostata in altri luoghi della Calabria. Blessing ha dormito per due giorni interi, come se il suo corpo e la sua mente avessero avuto bisogno di allontanare da sé mesi e mesi di violenze e soprusi. Al suo risveglio abbiamo preparato insieme la cena di Natale per tutti, lei il suo piatto nigeriano e io quello calabrese. Ore e ore in cucina e lentamente lievitava quel sapore della vita che nutre identità diverse e dignità uguali.

      Così a San Ferdinando i migranti della nuova tendopoli vanno a cucinare e mangiare nella vecchia tendopoli, dove pur vivendo condizioni di grande degrado, con tende e baracche costruite con legni e plastiche riciclate, preferiscono continuare a preparare con fornelli e bracieri improvvisati i pasti secondo le loro usanze. E come in tutti gli slum qui pullula la vita, tra docce e latrine a cielo aperto, cumuli di rifiuti e spazzatura, dormitori con materassi messi direttamente sulla terra battuta, spazi di vita che non conoscono intimità.

      La tendopoli è anche un luogo di mercato, dove crescono piccoli business, minime attività commerciali avviate tra chi vende carne, chi ripara biciclette, chi gestisce piccoli night, chi vende bevande. Però il cibo viene condiviso, e chi non ne ha viene qui a cercarlo. Si forma così una sorta di “cittadella” tra persone che non sempre parlano la stessa lingua, una cittadella dove si può nascere e si può anche morire. Ma è anche un luogo di violenze, soprusi e sfruttamenti dove il più forte prevarica sul più debole.

      Alla tendopoli non arrivano più soltanto braccianti per la stagione agrumicola, spesso arrivano migranti richiedenti asilo in fase di ricorso contro il diniego da parte delle Commissioni territoriali. L’incertezza sulla regolarità di soggiorno non tocca solo i richiedenti asilo in fase di ricorso ma pure i titolari di permesso di soggiorno per motivi di lavoro e che in assenza di una forma contrattuale rischiano di non vedersi rinnovato il documento. Sono migranti che vivono condizioni di forte precarietà sia in termini abitativi che lavorativi. Vi è un ritorno in agricoltura anche di lavoratori stranieri che vivevano e lavoravano nel nostro Nord ma che con la crisi delle attività produttive hanno perduto il lavoro. Altri arrivano non sapendo in quale altro luogo andare, cercando un riparo, e trovando un sostegno tra i migranti dello stesso paese o continente. La tendopoli diventa così un luogo di mera sopravvivenza.

      Arrivata in Italia Becky era stata ospite in un progetto Sprar. Alcune settimane prima, però, si è vista rifiutare la richiesta di asilo politico e ha dovuto lasciare il progetto. In alcune realtà territoriali anche se hai fatto ricorso sei comunque costretta ad andar via. Ha cercato cosi, come altri, un appoggio presso i connazionali che vivono stabilmente nella tendopoli di San Ferdinando.

      La tendopoli per alcuni è un luogo di sosta, un momento di transito per proseguire altrove il viaggio, prima di spostarsi in altri territori come Castelvolturno, Foggia, Falerna, Sibari e adoperarsi nella raccolta agricola di altri prodotti stagionali come il pomodoro o la cipolla. Per le donne è un modo di cambiare il territorio dove prostituirsi, assecondando maman e sfruttatori che hanno bisogno continuamente di “nuova merce”. Per altri il viaggio termina qui, in questo luogo non luogo, e qui possono rimanere anche per anni.

      Negli ultimi due anni la tendopoli di San Ferdinando ha visto aumentare la presenza femminile. Prima le donne si contavano sulla punta delle dita, adesso ce ne sono circa un centinaio, quasi tutte giovanissime e per lo più nigeriane. Campavano nella parte dove è scoppiato l’incendio che ha ucciso Becky e gravemente ustionato due sue connazionali. In gran parte né le donne e né gli uomini nigeriani occupano la filiera di coloro che vanno a lavorare nei campi. Molti uomini sono dediti a imbastire le fila dei traffici di droga e dai proventi della prostituzione possono investire sempre più nello spaccio di cocaina. Le donne nella tendopoli sono, quasi tutte, costrette a prostituirsi sia dentro la tendopoli che nei pressi dei paesi vicini o in altre città calabresi raggiungibili in treno. E fanno quest’attività per 10 o 12 ore al giorno. Se devono raggiungere altre città partono la mattina per tornare la sera. Nelle stazioni da Lamezia Terme, Vibo Valentia, Gioia Tauro puoi incontrare in certe ore queste donne che regolarmente vanno e vengono in treno. In tendopoli i clienti sono gli uomini che la abitano, altrove i clienti sono italiani. I prezzi cambiano; per gli africani il costo è di 10 euro, per i vicini clienti italiani sono 20 euro; ma questi prezzi possono arrivare fino a 30-50 euro nei pressi delle città e secondo le prestazioni. Alcune di queste ragazze finiscono per risiedere nei paesi o nelle città.

      Tessy è originaria di Benin City (Nigeria), la città da cui proviene la maggior parte delle nigeriane. Dopo aver attraversato il Niger è giunta a Saba (Libia) dove è rimasta per 5 mesi chiusa in una casa, violentata e costretta con altre ragazze a prostituirsi, per poi essere imbarcata verso l’Italia. Approdata in Sicilia è stata trasferita in un centro di accoglienza del nord. Dopo alcuni giorni vi è stata prelevata da connazionali e trasferita a Foggia, dove una maman le porta i vestiti e le indica i luoghi in cui dovrà prostituirsi e le regole da osservare. Dopo qualche mese viene spostata a Rosarno nella tendopoli, che Tessy definisce una connection house, il nome col quale si indica un luogo di transito. Vi resta per un certo tempo prima di venire ritrasferita a Lamezia Terme, dove l’attende la maman con casa e programma di lavoro su strada. Per sette mesi è sottoposta ininterrottamente alla prostituzione fino a una retata notturna dei carabinieri, quando viene arrestata insieme ad altre sei ragazze oltre la baby maman, un brother e uno sfruttatore italiano. A seguito di vari colloqui con operatori antitratta, decide di denunciare i suoi sfruttatori e di entrare in un sistema di protezione per vittime di tratta.

      La responsabile del poliambulatorio di Emergency di Polistena che eroga prestazioni sociali e sanitarie a donne migranti presenti nella tendopoli racconta che alcune di esse arrivano al poliambulatorio accompagnate da connazionali. Forse tra loro vi sono anche maman, probabilmente sono quelle stesse a richiedere la visita e garantire il trasporto dalla tendopoli. È un servizio tra tanti altri che viene offerto per mantenere “in forma e salute” i loro “oggetti di produzione” (ovviamente a pagamento, aggiungendolo al debito già contratto nel paese di origine dove le ragazze vengono sottoposte a riti voodoo e mantenute sotto ricatto e altre forme di violenza, fisica e psicologica, fino a quando il debito contratto non verrà sanato. Solitamente il debito iniziale va dai 25 ai 30 mila euro). La funzione delle maman può essere duplice, a volte è lei a organizzare insieme ad altri connazionali il viaggio delle ragazze dalla Nigeria fino al luogo di destinazione dove essa stessa provvederà a far prostituire e a sfruttare le ragazze; altre volte sono considerate come baby maman e non sono altro che ragazze che sono state anch’esse vittime di tratta, a servizio dell’organizzazione che le sottopone a compiti di controllo per la consegna dei proventi della prostituzione al trafficante.

      La rendita garantita da una donna su strada è alta. Si stima che le organizzazioni criminali possano guadagnare, da una donna vittima di tratta immessa nel giro della prostituzione, un profitto fino a 150 mila euro in un anno. Svolgendo una ricerca in Calabria, abbiamo calcolato circa mille donne in strada da Rosarno a Gioia Tauro, da Lamezia Terme ad Amantea, dalla piana di Sibari al litorale jonico del Crotonese. Ovviamente i numeri non sono esaustivi della realtà. Basta un dato per capire la dimensione del fenomeno: 150 milioni di euro di guadagno all’anno, un grande business criminale sulla pelle di mille donne disperate.

      Glory racconta: sono arrivata a Rosarno che non sapevo parlare italiano e neppure lo comprendevo. Mi avevano istruita, ai clienti che mi fermavano su strada avrei dovuto mostrare due o tre dita in segno di 20 o 30 euro e dare tutti i soldi alla mia maman per iniziare a pagare il mio debito.

      Qualcuno la chiama “mafia nera” questa organizzazione criminale nigeriana che sta diventando simile alle mafie nostrane. Questa rete ha messo radici in buona parte dell’Europa ed è strutturata in confederazione di gruppi a volte divisi ma pronti a coalizzarsi. In Calabria si constata la presenza di due grandi organizzazioni, denominate “Black Axe” e “Eiye”. Oltre a essere violentissime, si caratterizzano per l’uso dei rituali magico-religiosi riferiti al voodo. Alcuni dicono che superano le modalità violente della ‘drangheta. Per l’affiliazione all’organizzazione utilizzano simboli che ricordano le nostre mafie, ci si entra per cooptazione e gli adepti devono dimostrare di saper agire con spietatezza e crudeltà. Nel mercato clandestino si occupano della bassa fascia della prostituzione, un settore in cui le nostre cosche criminali non intervengono da tempo. Fatti e indagini ci dicono però che stanno entrando sempre più negli affari di droga, grazie anche alle loro reti internazionali. Non dimentichiamo che il porto di Gioia Tauro, il più grande d’Italia e tra i più rilevanti di Europa e del Mediterraneo, è considerato la porta principale di entrata della droga nel nostro continente.

      A chi è utile la tendopoli di Rosarno? È una domanda a cui difficilmente potremmo rispondere se non con il rischio di darne letture circoscritte, punti di vista che ne ignorano altri. Nel corso degli anni i flussi dei finanziamenti arrivati per la tendopoli, non hanno cambiato nulla, il “modus operandi” è sempre lo stesso. Le strutture sono concepite come emergenziali e temporanee, la tendopoli è una misura “ponte” limitata nel tempo per offrire risposte a persone che non possono usufruire immediatamente di una abitazione, ma di fatto diventa permanente. E vi è anche il rischio che molti di questi soldi possano essere utilizzati da clan mafiosi attraverso ditte di costruzione e manutenzione a loro sottomesse, per il completamento dei diversi lavori. Rosarno è uno tra i vari comuni calabresi che è stato sciolto per mafia. Il lavoro nella piana di Rosarno è caratterizzato dalle forme di un’agricoltura assistita, sfruttata dalle multinazionali e dalla grande distribuzione che vi fa sopra ingenti profitti comprando gli agrumi a bassissimo costo. Oggi dei migranti che vivono a Rosarno meno della metà è occupata in agricoltura, oltretutto essi sono sottoposti a turni e ciascuno può fare al massimo due o tre giornate a settimana. San Ferdinando è divenuta lentamente non solo una tendopoli del “tempo della raccolta delle arance”, ma uno slum, un campo, una favela, una bidonville – cioè un insediamento umano densamente popolato con condizioni di vita di forte degrado, e a forte rischio sociale e sanitario. Oltre all’agricoltura vi si vive di occupazioni informali, un brulicare di attività rivolte all’interno e all’esterno dell’insediamento. La prostituzione è una di queste.

      Se la tendopoli non è più per tutti un luogo di transito o di “transumanza”, allora per chi vi rimane stabilmente, che vita può esserci in un contesto come questo? E queste persone aspirano ancora a qualcosa? Resta difficile a persone come noi, noi europei, cogliere la drammaticità della sopravvivenza che spinge a rimanere in luoghi simili quando ogni fatica di poter cambiare è stata troncata. È lo spazio di una umanità espulsa, e questi spazi degli espulsi, come sottolinea Saskia Sassen, “esigono con forza di essere riconosciuti sul piano concettuale. Sono tanti, stanno crescendo e vanno diversificandosi. Sono realtà concettualmente sotterranee che devono essere portate alla luce. Sono potenzialmente i nuovi spazi in cui agire, in cui creare economie locali, nuove storie, nuovi modi di appartenenza.”

      Tra i diseredati e gli espulsi vi sono persone che nonostante le sofferenze a cui sono state sottoposte nelle condizioni più degradanti, riescono ancora a esprimere una capacità di fronteggiare le situazioni dinanzi a circostanze avverse. Anche quando i loro corpi sono stati abusati, violati, schiavizzati hanno avuto la forza e l’energia di non abbrutire, di rimanere ancorati alla vita e di riemergere con capacità vitali tali da mutare il corso delle proprie esistenze e da far tornare nella loro vita quotidiana le aspirazioni sopite o nuovi orizzonti. Spesso si tratta di donne, di donne che hanno ben chiaro che “la vita passata non si dimentica”.

      Faith ventenne, uscita dalla strada, lavora in pizzeria. Sta facendo anche un corso per pizzaiola. Vuole ritornare nei prossimi anni in Nigeria e aprire una pizzeria. “Sai, ho letto che a Lagos stanno aprendo delle pizzerie e che vanno molto bene. La mia pizza sarà di gusto nigeriano-italiano”. E pure Mercy, tornata alla vita dopo un lungo periodo in cui è stata sottoposta a tratta e sfruttamento sessuale, mi racconta di sua figlia oggi diciottenne: “Sai, è tanto brava a scuola, sta finendo le superiori e vuole prendere medicina. Sono orgogliosa di questa mia figlia che sa quello che vuole. Farò di tutto per aiutarla a mantenersi agli studi.”

      http://gliasinirivista.org/2018/04/rosarno-la-tendopoli-delle-donne
      #femmes

    • Shattered dreams: life in Italy’s migrant camps - a photo essay

      Photographer #Sean_Smith went to Camp San Ferdinando and #Campobello in southern Italy to meet the residents.
      When Matteo Salvini took over as Italy’s interior minister in June, he made one thing clear: the “good times” for asylum seekers and migrants were over.

      But at the San Ferdinando ghetto in southern Italy the “good times” never properly arrived in the first place. This was home to Sacko Soumayla, a 29-year-old Malian trade unionist who was fighting for the rights of migrant workers. Soumayla was shot in the head by an Italian while rummaging for metal to repair his makeshift home.

      It is also home to almost 1,000 migrants, who live in 400 shacks resembling cargo containers. These homes are cobbled together with metal, wood and plastic. They are scorching in the summer and bitterly cold in winter.

      Almost all of the inhabitants are from sub-Saharan Africa. They are forced to work for little more than €2 an hour picking “made in Italy” delicacies such as olives and tomatoes. They have been called “new slaves”, and their limbo is San Ferdinando.

      The San Ferdinando camp was established in about 2010. Migrants from all over the country descended on the countryside around Rosarno, in southern Calabria, a stronghold of the ruthless local Mafia, the ‘Ndrangheta.

      The shacks began to increase in number and San Ferdinando was transformed into a shantytown. Some shacks function as a repair shop for the bicycles that migrants use to reach the fields, others serve as butcher shops or taverns.

      The days are monotonous. With no electricity in the camp it is not easy for the residents to idle away the time. Some fill their days with repairing their shack, while others prepare meals, usually with rice and chicken.

      Thierno shares his shack with Osmane. They both arrived from Senegal in 2015. Thierno, whose wife died during childbirth, has a daughter who lives with her grandmother back at home.

      In Senegal he owned a small factory with five employees. Over the years, Thierno has attempted to turn his dwelling into his notion of “home”. He built a makeshift porch outside his front door, and sourced materials from a nearby dump, such as using car seats from abandoned vehicles as sofas.

      In the kitchen, made from wooden planks and complete with a gas hob, there is a small table with two chairs. Dinner is served here for everyone. The rule is to offer a meal to anyone unable to earn money during the week.

      Thierno’s shack is a meeting point for friends returning home from the fields in the late afternoon. One of them wears a shirt bearing the face of Sacko, the man from Mali killed in June.

      There’s just enough time to smoke a few cigarettes, and chat about their condition. A frequent point of discussion is the exhausting wait that forces them to put their lives on hold while the authorities evaluate their asylum requests.

      Thierno says: “It’s a maze with no way out. To obtain a permit of stay you must have residence, but many of us have no stable home. Some years ago the authorities decided to recognise San Ferdinando as an official residence.

      “It was a brilliant idea for the authorities, who in doing so found a way to keep us out of the cities. San Ferdinando was subsequently transformed into a bona fide ghetto, which every year continues to attract migrants who simply want to request refugee status, and in the meantime they slowly become slaves for the farmers.”

      This is not the Europe that Thierno and his friends dreamed about, nor is it the Italy for which they risked death in the desert, torture in Libya, or drowning at sea, to reach. What’s more, it is not easy for them to admit to their family members back home that their dreams have been shattered.

      In the evening, while a small fire glows to light their shacks, it’s time to phone relatives back home. Asuma Yaw, a 45-year-old Ghanaian, lives next door to Thierno. He left Ghana in 2015 in search of work in Europe and to pay for his daughter’s university education.

      He says: “I left for her, I’m old now. My only hope is my daughter. What would I say to her if one day she told me that she wanted to come to Europe? I’d tell her to have her paperwork in order to avoid falling into a trap like this.”

      The number of informal migrant labour camps is increasing, according to local rights groups.

      In Sicily, a group of about 15 migrants live in a factory in the countryside around Campobello di Mazara in western Sicily. They are survivors of an illegal camp like San Ferdinando, which for four years had housed exploited African migrants during the olive harvest. That camp was razed by the authorities because of mounting concerns about health.

      Today, the survivors of that camp have moved into abandoned buildings in the surrounding countryside. They’ve made repeated requests to the local council to provide public housing they can rent. But the locals have closed their doors.

      According to trade unions and associations, more than a dozen illegal camps have been destroyed in Italy over the past three years. In March 2017, the authorities dismantled a settlement in Rignano Garganico, the largest migrant labour camp in Europe accommodating 3,000 workers . A year earlier, bulldozers had destroyed camps in Nardò, Salento, and Borreano, Basilicata.

      Despite all this, new camps continue to spring up, sometimes on the ruins of the demolished shantytowns. The truth is simple, according to the Italian Union of farmers (UILA), 36% of workers employed in the agricultural sector are foreigners, mainly from Africa.

      Without them, Italy’s agricultural sector would implode. Without Thierno, Asuma, and more than 10,000 other migrants who are exploited in the fields, the ‘‘good times’’ for Salvini’s Italy would be over.


      https://www.theguardian.com/world/2018/oct/10/life-in-italy-migrant-camps-a-photo-essay?CMP=share_btn_tw
      #photographie

  • #Funky_tomato

    Funky Tomato è un pomodoro di alta qualità prodotto e trasformato in aree ad alto sfruttamento della terra e della manodopera – quali la Campania e la Basilicata – attraverso una filiera partecipata, legale e trasparente.

    Funky Tomato è un pomodoro di alta qualità perché prodotto da una rete di piccoli agricoltori nel rispetto della Carta d’Intenti Funky Tomato, cioè usando tecniche artigianali a basso impatto ambientale, tutelando i diritti dei lavoratori e integrando nelle aziende i braccianti stranieri vittime dello sfruttamento della filiera del pomodoro da industria. Leggi la Carta d’Intenti Funky Tomato.

    Le filiere attuali descrivono processi produttivi basati sullo scambio finanziario, ove il principale parametro di relazione è subordinato ad un rapporto gerarchico fondato sulla capacità di generare speculazione. Tale meccanismo trasforma il consumatore da elemento che innesca la filiera a obiettivo da raggiungere per ottenerne maggior crescita finanziaria. E il lavoratore in soggetto subordinato alla vitalità del processo speculativo.

    Per costruire una risposta pare quindi necessario trasformare la filiera in comunità mettendo in rete capacità e criticità attraverso il meccanismo della scelta e della partecipazione. Il parametro di relazione tra le parti non è quindi più la disponibilità finanziaria bensì il rapporto sociale. Il consumatore, da obiettivo torna ad essere elemento in relazione con la comunità. E la comunità diventa lo spazio che si fa’ carico delle capacità economiche.

    Funky Tomato si articola per questo in due comunità solidali di scopo – in Campania e in Basilicata – volte alla produzione, trasformazione, distribuzione e commercializzazione del pomodoro Funky Tomato per generare un’alternativa reale al caporalato e ai ghetti.

    Il progetto prevede, inoltre, l’istituzione del Fondo Funky Tomato a governance partecipata che garantisca all’agricoltore e ai lavoratori stabilità e continuità nella produzione e ai fruitori la possibilità di partecipare ai processi di costruzione della produzione futura. Il Fondo è costituito attraverso quote donate da tutti gli attori della filiera – enti pubblici, privati, società civile – che credono nella necessità di disegnare un’economia condivisa fondata sul rispetto dei diritti e della natura.

    http://www.funkytomato.it
    #tomates #Italie #agriculture_solidaire #alternative

    • Funky Tomato, il pomodoro diventa sostenibile

      SALERNO – Quest’anno la Cooperativa Sociale Capovolti ha deciso di aderire alla rete Funky Tomato per favorire una filiera partecipata, legale e trasparente del pomodoro. Siccome la cooperativa di Montecorvino Pugliano, in provincia di Salerno, è un’azienda biologica certificata ICEA, la produzione del pomodorino è eseguita secondo i criteri della natura. Il terreno di base è stato arricchito semplicemente con letame naturale e nessun trattamento aggiuntivo è adoperato.

      http://static2.blog.corriereobjects.it/wfprwpc/sociale/wp-content/blogs.dir/196/files/2016/07/5482753_orig-632x355.jpg?v=1468854905
      http://sociale.corriere.it/funky-tomato-il-pomodoro-diventa-sostenibile

    • #Sfrutta_Zero, la salsa anti-caporali

      Mutuo soccorso. Dalla Puglia la sfida al caporalato si organizza con il mutualismo 2.0. La nuova filiera del pomodoro dove migranti, precari e contadini si organizzano contro il razzismo. 15 mila bottiglie di salsa prodotte tra Bari e Nardò nel 2016. E quest’anno i cooperanti puntano a superare il record dell’auto-produzione. Come ripartire dal mutuo soccorso: pagare il lavoro, creare casse di resistenza. E poi: coinvolgere i consumatori, connettersi alla rete nazionale «#Fuori_mercato»


      https://ilmanifesto.it/sfrutta-zero-la-salsa-anti-caporali

    • Le Città Invisibili - La #città_del_riscatto

      Due sono le storie di questo documentario, per raccontare la “città del riscatto”, quella che unisce la Puglia al Lazio. I protagonisti sono, da una parte, i ragazzi di “Sfruttazero” a #Nardò, dall’altra i ragazzi della cooperativa sociale “Barikamà, sul Lago di Martignano, alle porte di Roma. Si chiama “#Netzanet” il progetto pugliese davvero rivoluzionario legato alla salsa di pomodoro: l’idea è quella di superare il caporalato e unire italiani e stranieri nella produzione solidale di salsa di pomodoro biologica, a filiera etica, cioè nel rispetto di tutti i lavoratori, contro lo sfruttamento. #Barikamà (che in lingua Bambara’ significa Resistente) è, invece, una cooperativa che porta avanti un progetto di micro-reddito e consiste nell’inserimento sociale attraverso la produzione e vendita di yogurt ed ortaggi biologici. I fondatori della Cooperativa, tutti africani, dopo essersi ribellati allo sfruttamento nei campi di Rosarno, hanno trovato in questo modo il loro riscatto sociale ed economico.

      https://www.youtube.com/watch?v=L_IafgwawEM&feature=youtu.be


      #documentaire #film

    • How a Young Cameroonian Sparked a Revolt Against Migrant Exploitation in Italy

      At 26, #Yvan_Sagnet organized the “#Nardò_uprising,” a two-month strike held by migrant workers which led to the trial of 12 people for slavery and the first anti-gang-master law in the country.
      Yvan Sagnet was born in Cameroon in 1985, but grew up dreaming of Italy. From the time he was a child, he had always been fascinated by the country and, most of all, by Juventus FC, a soccer team from Turin, and its most famous player, Roberto Baggio. So when he was granted a student visa to attend the Polytechnic University of Turin in 2007, his dream suddenly seemed within reach.

      But university was a lot harder than he had imagined. And after he failed two exams early on, his scholarship was pulled, meaning he had to find some extra money to cover his tuition. In need of some quick cash, he didn’t think twice about signing up when a friend told him about the seasonal tomato-picking jobs in southern Italy.

      When Sagnet arrived in the town of Nardò, in Puglia, he was shocked: The area was scattered with improvised camps where around 800 day laborers—mostly migrants, both legal and undocumented—were being exploited by so-called caporali (gang masters). The caporale’s job was to find readily available handpickers on behalf of farmers, eventually taking a cut from the worker’s wages while also charging them for the most basic amenities, like transportation, food, and water.

      At the farms, migrants were made to work for up to 14 hours a day in extreme heat without an employment contract, earning far below the minimum wage. “I discovered the dark side of Italy,” Sagnet recalls. “A side made of ghettos, with migrants living in inhumane conditions, often sleeping either on the ground, in tents, or in makeshift shacks.”

      Sagnet decided that leading a strike seemed the only solution to that kind of abuse. And so, in summer 2011, the then 26-year-old helped organize the “Nardò uprising”—the first large-scale strike held by migrant laborers in Italy. For two months that summer, migrants refused to work in a bid to improve their working and living conditions. The outcome was disruptive. Before then, no one had dared to challenge the power of gang masters and corrupt farmers in Nardò.

      But for Sagnet, it was just the beginning. In 2012 he wrote a book about the uprising called Love Your Dream, then joined CGIL (Italy’s biggest labor union), through which he conducted a series of investigations into the treatment of workers across the country. He is now the leader of No Cap (No Caporalato), an organization fighting against the exploitation of migrants in Italy.

      In 2011, life in #masseria_Boncuri—as the ghetto was known—was in the hands of the gang masters. They demanded to be paid for almost everything, from water and food to transport and mattresses. The long work shifts under the blazing sun were unbearable.

      “To me it wasn’t just exploitation, it was modern slavery,” says Sagnet. “Gang masters would verbally and physically abuse us. I knew from very early on that we needed to do something radical like revolt.”

      “I discovered the dark side of Italy. A side made of ghettos, with migrants living in inhumane conditions, often sleeping either on the ground, in tents, or in makeshift shacks.”

      The opportunity to convince others came when the caporal decided to require all workers to start picking tomatoes one by one instead of scooping them in bunches, a slower technique which meant working longer for the same amount of money. For Sagnet and his colleagues, that was unacceptable considering the little they were already getting paid. When the gang master refused to listen, they decided to stop working, launching a minirevolt.

      Sagnet and the organizers had to mobilize nearly 1,000 workers who didn’t share the same language, culture, or nationality. Convincing them that taking action was in their best interests was the first big challenge. “Many people had been working like that for years, so they were used to it,” Sagnet says. “They assumed going on strike would be pointless.”

      At first, only a small minority wanted to take action. “We had to gain people’s trust,” he says. “And we did so through a campaign of information—organizing meetings that clearly outlined our objectives—and with a very practical social outreach strategy.”

      On the first day of the strike, Sagnet organized a roadblock on the highway between Nardò and the city of Lecce, one of the region’s main arterial roads, to get the attention of the local authorities and the general public about the working conditions.

      The second step was to organize protests to block access to the farms. “The day after we set the picket, we could already see that we were making a difference,” Sagnet recalls. “Masseria Boncuri had created a production standstill on the farm, and that’s when I knew we were winning.”

      There was one obvious downside to going on strike: The workers were not getting paid. “Since I had become a referee of sorts,” Sagnet explains, “workers would come to me and ask what I was going to do about the fact that they had nothing to eat. Going on strike wasn’t the same for Italians and migrants—as a migrant you’re on your own, often without an extended family or support network to lean on.”

      Facing a potential hunger crisis, Sagnet had to come up with a plan. With the help of volunteers and activists, Sagnet and his team decided to reach out to the general public for help. “The response from the people of Nardò and across Italy was overwhelming,” he says. Before the strike they had no idea the scale of what was going on in their own region, Sagnet tells me. “Donations were coming in from all over the country. Every night, people would bring rice, milk, bread. This is how we didn’t starve.”

      To keep their wider support network going, they worked hard to educate the public on the issue by developing strong relationships with the media. Sagnet used part of that relationship to highlight how the migrants in particular were taking a huge risk by going on strike to stand alongside Italians in their fight for workers’ rights. “Our cause showed immigrants in a different, positive light,” he says. “After all, it was everybody’s struggle.”

      Sagnet’s focus on the struggle eventually paid off. The Nardò uprising inevitably put pressure on politicians, who in turn responded by approving the first anti-gang-master law—legislation that stopped agents from cutting into the workers’ wages. The strike also led some local farmers to introduce regular contracts, giving more money to the workers. (The regular contracts and higher wages are independent from the law; they were implemented as a side result by the local farmers in Nardò.) All this was introduced just a week after the strike ended, in September 2011. “For us [the law] was a huge success, because it finally gave the police a tool to crack down on gang masters,” Sagnet explains. “By the end of the 2011 harvest season, we had gone from 3 percent of workers having employment contracts to 60 percent.”

      “Our cause showed immigrants in a different, positive light,” he says. “After all, it was everybody’s struggle.”

      In addition, charges were eventually brought against the gang masters and farmers who had exploited the workers, leading to a 2017 trial in which 12 people were convicted of enslavement and human trafficking.

      After the uprising, Sagnet started working for CGIL. “I asked [CGIL] to change their approach: to go into the fields and see the exploitation for themselves.” By taking that approach, Sagnet adds, “We discovered that the same system that was in place in Nardò was widespread.”

      Sagnet has since made it a priority to raise awareness among migrant agricultural workers—who, according to his estimates, make up 60 percent of this seasonal workforce. “Workers in the ghettos don’t know what unions are,” he tells me. “They do not speak Italian or have access to information. They think it’s normal to live and work like that. Without help, there can be no investigations or arrests.”

      On the contrary, he adds, if workers aren’t involved, “those who exploit us and put us in those conditions will always win. Authorities are either slow, or complicit, or corrupt. What I’m seeing is a class struggle going on—but at the moment there’s just one side, the one represented by power.”


      https://www.vice.com/en_us/article/qv9xwm/how-a-young-cameroonian-sparked-a-revolt-against-migrant-exploitation-in-italy

    • TOMATO-PASSATE DI QUA

      Un progetto sviluppato da un gruppo di giovani provenienti da Gambia, Italia e Mali con l’obiettivo di produrre passate di pomodoro dalla coltivazione di un terreno a rischio abbandono. I partecipanti al progetto hanno scambiato le loro conoscenze in agricoltura, sperimentando tecniche di coltivazioni usate in diversi paesi del mondo e hanno prodotto 400 litri di passate che sono state acquistate a sostegno del progetto. “Tomato” ha permesso ai partecipanti di ricevere un compenso equo per il lavoro svolto, in contrasto con lo sfruttamento e l’esclusione sociale dei braccianti agricoli soprattutto del settore della produzione di pomodori. (Estate-Autunno 2016)

      http://www.risehub.org

    • Esclavage en Italie

      Originaires d’Afrique ou d’Europe de l’est, des centaines de milliers de travailleurs sont employés dans les campagnes italiennes pour récolter tomates, oranges et olives, en échange d’un salaire de misère. #Yvan_Sagnet milite pour mettre fin à cette situation de non-droit, et a créé une association visant à labelliser les produits récoltés de manière éthique.

      En 2011, un Camerounais a mené une grève couronnée de succès, déclarant la guerre aux « caporaux », ces employeurs criminels qui exploitent les travailleurs précaires en leur extorquant la majeure partie de leurs revenus, allant jusqu’à les menacer de mort s’ils osent se révolter.

      https://www.arte.tv/fr/videos/079474-004-A/arte-regards

      #agriculture #documentaire #film #reportage #esclavage_moderne #saisonniers #dumping_social #abus_de_pouvoir #exploitation_de_la_main-d'oeuvre #caporalato #consommateurs #Pouilles #Basilicata #tomates #bidonville #hébergement #honte #No_cap #globalisation #industrie_agro-alimentaire

      Est présentée aussi l’association fondée par Yvan, #NoCap :

      Rispetto per il lavoro. Niente sfruttamento di manodopera sottopagata o schiavizzata. Contratti di lavoro legali e soprattutto UMANI.
      Rispetto per l’ambiente e il paesaggio. Le attività economiche non devono distruggere le coste, i boschi, le montagne i laghi e le altre risorse naturali che sono la base dell’economia del turismo e generano PIL sostenibile per il Paese.
      Rispetto per la salute dei cittadini. Produzione senza contaminanti e nessuna immissione di sostanze nocive nell’ambiente che inquinano il suolo, avvelenano l’aria o l’acqua e causano malattie.
      Produzione di energia senza emissioni. Decarbonizzazione progressiva dei processi produttivi secondo il modello energetico distribuito e interattivo della Terza Rivoluzione Industriale, incentivando l’attività dell’autoproduzione (prosumer), e l’aggregazione di micro reti digitali di energia rinnovabile integrata nelle attività d’impresa.
      Finanziamento etico delle attività di impresa. Anche i finanziamenti delle attività economiche devono seguire il modello democratico e distribuito, con la massima diffusione del micro credito, dell’azionariato popolare (crowdfunding) e della finanza popolare tramite appositi pacchetti specifici delle banche cooperative e delle casse di credito locali.
      Ritorno alla filiera corta e locale per la diffusione commerciale dei prodotti con l’introduzione di norme di favore per la vendita di filiera corta a vantaggio delle piccole aziende per una giusta distribuzione commerciale.
      Valorizzazione della trasformazione con processi ad alto valore aggiunto realizzati il più vicino possibile ai luoghi di produzione e integrati nei processi aziendali.
      Adozione di pratiche a rifiuti zero sia nella produzione e nella distribuzione. Diminuzione progressiva di imballaggi e sistemi premianti per il riuso e riciclo che devono essere integrati nelle attività aziendali ed incentivate.
      Promozione di nuove proposte turistiche ispirate all’offerta di un “turismo esperienziale” che porti sotto la guida di cittadini esperti, turisti provenienti da realtà urbane a conoscere tramite il lavoro, nelle arti, nell’artigianato e nella coltivazione, secondo la logica espressa da Carlo Petrini, secondo cui oltre a far viaggiare i prodotti verso i consumatori, vanno fatti viaggiare anche i consumatori verso i prodotti.
      I Contratti di Rete Si tratta di un modello di collaborazione tra imprese che consente, pur mantenendo la propria indipendenza, autonomia e specialità, di realizzare progetti ed obiettivi condivisi, incrementando la capacità innovativa e limitando i costi di gestione.

      https://www.nocap.it

    • Italie : une sauce tomate éthique avec un portrait sur l’étiquette pour lutter contre l’exploitation des migrants

      Autour de la ville de #Lecce, dans la région italienne des Pouilles, une coopérative agricole a été créée pour garantir des conditions de travail légales à des migrants sans papiers et de jeunes Italiens précaires… Extrait du magazine « Nous, les Européens » diffusé dimanche 27 septembre 2020 à 10h45 sur France 3.

      Des employeurs sans scrupules profitent de migrants sans papiers pour les exploiter. Mussa, originaire du Soudan, a ainsi fait des récoltes en Italie pour deux euros de l’heure. Autour de la ville de Lecce, qui se veut tolérante et accueillante par tradition, dans la région des Pouilles au sud de la péninsule italienne, des jeunes ont créé une coopérative solidaire pour permettre aux salariés de recueillir le juste fruit de leur travail.

      "Je travaillais seize heures par jour, sous le soleil, sans contrat et sans aucun droit, dit Mussa Siliman, membre de l’association Diritti a Sud (en italien) au magazine « Nous, les Européens » (replay). Alors, on a créé ensemble cette coopérative agricole pour lutter contre l’esclavagisme." Et pour écouler leur récolte, les jeunes de Droits au Sud ont eu l’idée de proposer une sauce tomate labélisée éthique.

      Après la récolte de ces fruits rouges dans le respect des lois sociales, les jeunes vendent la production à Lecce en racontant les histoires des salariés de la coop. « On vous a apporté notre sauce qui lutte contre l’exploitation des migrants, explique à un client la présidente de l’organisation, Rosa Vaglio. Il y a un visage sur chaque étiquette : des jeunes Italiens précaires et des étrangers. »

      Comme d’autres salariés, Mussa a son portrait photographique sur les bocaux de sauce tomate vendus dans cette ville qui se distingue par son sens de l’hospitalité : plus de deux cents familles ouvrent leur maison aux migrants le temps d’un déjeuner. Et à côté de chaque visage, toujours la même mention : « Libero » (Libre).

      https://www.francetvinfo.fr/replay-magazine/france-3/nous-les-europeens/video-italie-une-sauce-tomate-ethique-avec-un-portrait-sur-l-etiquette-

      #sfruttazero #coopérative #libero