#zawia

  • Si formano a Gaeta le forze d’élite della famigerata Guardia Costiera libica

    Non bastava addestrare in Italia gli equipaggi delle motovedette libiche che sparano sui migranti nel Mediterraneo o li catturano in mare (oltre 15.000 nei primi sette mesi del 2021) per poi deportarli e torturarli nei famigerati centri di detenzione / lager in Libia. Dalla scorsa estate è nella #Scuola_Nautica della #Guardia_di_Finanza di #Gaeta che si “formano” pure le componenti subacquee di nuova costituzione della #Guardia_Costiera e della #General_Administration_for_Coastal_Security (#GACS).

    La presenza a Gaeta delle unità d’élite della #Libyan_Coast_Guard_and_Port_Security (#LCGPS) dipendente dal Ministero della Difesa e della GACS del Ministero dell’Interno è documentata dall’Ufficio Amministrazione - Sezione Acquisti della Guardia di Finanza. Il 18 giugno 2021 l’ente ha autorizzato la spesa per un servizio di interpretariato in lingua araba a favore dei sommozzatori libici “partecipanti al corso di addestramento che inizierà il 21 giugno 2021 presso la Scuola Nautica nell’ambito della Missione bilaterale della Guardia di Finanza in Libia”. Nell’atto amministrativo non vengono fornite informazioni né sul numero degli allievi-sub libici né la durata del corso, il primo di questa tipologia effettuato in Italia.

    Dal 29 agosto al 29 settembre del 2019 ne era stato promosso e finanziato uno simile a #Spalato, in Croazia da #EUNAVFOR_MED (la forza navale europea per le operazioni anti-migranti nel Mediterraneo, meglio nota come #Missione_Irini). Le attività vennero svolte in collaborazione con la Marina militare croate e riguardarono dodici sommozzatori della Guardia costiera e della Marina libica.

    A fine ottobre 2020 un’altra attività addestrativa del personale subacqueo venne condotta in Libia da personale della Marina militare della Turchia, provocando molte gelosie in Italia e finanche le ire dell’(ex) ammiraglio #Giuseppe_De_Giorgi, già comandante della Nato Response Force e Capo di Stato Maggiore della Marina Militare dal 2013 al 2016.

    “In un tweet, la Marina turca riferisce che le operazioni rientrano a pieno nel novero di attività di supporto, consultazione e addestramento militare e di sicurezza incluse nell’accordo raggiunto nel novembre del 2019 tra il GNA tripolino e Ankara: non può sfuggire come questo avvenimento sia un ulteriore affondo turco a nostre spese e l’ennesimo spregio all’Italia”, scrisse l’ammiraglio #De_Giorgi su Difesaonline. “Nelle foto allegate al tweet, infatti, sono presenti le navi che proprio l’Italia nel 2018 aveva donato alla Libia in seguito all’accordo siglato con il primo #Memorandum che avrebbe previsto da parte nostra la presa in carico della collaborazione con la Guardia Costiera libica, non solo per tenere a bada il fenomeno migratorio in generale, ma soprattutto per dare un freno al vergognoso traffico di esseri umani. In particolare, si può vedere la motovedetta #Ubari_660, gemella della #Fezzan_658, entrambe della classe #Corrubia”.

    “Oltre al danno, anche la beffa di veder usare le nostre navi per un addestramento che condurrà un altro Stato, la Turchia”, concluse l’ex Capo di Stato della Marina. “Mentre Erdogan riporta la Tripolitania nella sfera d’influenza ottomana si conferma l’assenteismo italiano conseguenza di una leadership spaesata, impotente, priva di autorevolezza, inadeguata”.

    Le durissime parole dell’ammiraglio De Giorgi hanno colpito in pieno il bersaglio; così dal cappello dell’esecutivo Draghi è uscito bello e pronto per i sommozzatori libici un corso d’addestramento estivo a Gaeta, viaggio, vitto e alloggio, tutto pagato.

    Il personale dell’ultrachiacchierata Guardia costiera della Libia ha iniziato ad addestrarsi presso la Scuola Nautica della Guardia di Finanza nella primavera del 2017. Trentanove militari e tre tutor giunsero in aereo nella base dell’aeronautica di Pratica di Mare (Roma) il 1° aprile e vennero poi addestrati a Gaeta per un mese. “A selezionarli sono stati i vertici della Marina libica tra i 93 militari che hanno superato il primo modulo formativo di 14 settimane, svolto nell’ambito della missione europea Eunavformed, a bordo della nave olandese Rotterdam e della nostra nave San Giorgio”, riportò la redazione di Latina del quotidiano Il Messaggero.

    Nella scuola laziale i libici furono formati prevalentemente alla conduzione delle quattro motovedette della classe “#Bigliani”, già di appartenenza della Guardia di Finanza, donate alla Libia tra il 2009 e il 2010 e successivamente riparate in Italia dopo i danneggiamenti ricevuti nel corso dei bombardamenti NATO del 2011. Le quattro unità, rinominate #Ras_al_Jadar, #Zuwarah, #Sabratha e #Zawia sono quelle poi impiegate per i pattugliamenti delle coste della #Tripolitania e la spietata caccia ai natanti dei migranti in fuga dai conflitti e dalle carestie di Africa e Medio Oriente.

    Per la cronaca, alla cerimonia di chiusura del primo corso di formazione degli equipaggi libici intervenne a Gaeta l’allora ministro dell’Interno #Marco_Minniti. Ai giornalisti, #Minniti annunciò che entro la fine del mese di giugno 2017 il governo italiano avrebbe consegnato alla Libia una decina di motovedette. “Quando il programma di fornitura delle imbarcazioni sarà terminato la Marina libica sarà tra le strutture più importanti dell’Africa settentrionale”, dichiarò con enfasi Marco Minniti. “Lì si dovranno incrementare le azioni congiunte e coordinate per il controllo contro il terrorismo e i trafficanti di esseri umani: missioni cruciali per tutta la comunità internazionale”.

    Un secondo corso di formazione per 19 ufficiali della Guardia costiera libica venne svolto nel giugno 2017 ancora un volta presso la Scuola Nautica della Guardia di Finanza di Gaeta. Nel corso del 2018, con fondi del Ministero dell’Interno vennero svolti invece due corsi della durata ognuno di tre settimane per 28 militari libici, costo giornaliero stimato 606 euro per allievo.

    Nell’ambito del #Sea_Horse_Mediterranean_Project, il progetto UE di “cooperazione e scambio di informazioni nell’area mediterranea tra gli Stati membri dell’Unione di Spagna, Italia, Francia, Malta, Grecia, Cipro e Portogallo e i paesi nordafricani nel quadro di #EUROSUR”, (valore complessivo di 7,1 milioni di euro), la Guardia di Finanza ha concluso uno specifico accordo con la Guardia Civil spagnola, capofila del programma, per erogare sempre nel 2018 un corso di conduzione di unità navali per 63 libici tra guardiacoste del Ministero della Difesa e personale degli Organi per la sicurezza del Ministero dell’Interno.

    Istituzionalmente la Scuola Nautica della Guardia di Finanza di Gaeta provvede alla formazione tecnico-operativa degli allievi finanzieri destinati al contingente mare, nonché all’aggiornamento ed alla specializzazione di ufficiali impiegati nel servizio navale. In passato ha svolto attività di formazione a favore del personale militare e della polizia della Repubblica d’Albania e della Guardia Civil spagnola.

    L’Istituto ha partecipato anche a due missioni internazionali: la prima sul fiume Danubio, nell’ambito dell’embargo introdotto nel maggio 1992 dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro l’allora esistente Repubblica Federale di Jugoslavia; poi, a fine anni ’90, a Valona (Albania) per fornire assistenza e consulenza ai locali organi polizia nella “lotta ai traffici illeciti”.

    Adesso per la Scuola di Gaeta è scattata l’ora dell’addestramento dei reparti d’élite delle forze navali di Tripoli, sommozzatori in testa.

    http://antoniomazzeoblog.blogspot.com/2021/11/si-formano-gaeta-le-forze-delite-della.html

    –-> Articolo pubblicato in Africa ExPress il 30 novembre 2021, https://www.africa-express.info/2021/11/30/addestrata-in-italia-la-guardia-costiera-libica-accusata-di-crimini

    #Gaeta #formation #gardes-côtes_libyens #asile #migrations #réfugiés #Italie #Libye #frontières #Méditerranée #plongeurs

    –---

    Ajouté à la métaiste sur les formations des gardes-côtes lybiens sur le territoire européen :
    https://seenthis.net/messages/938454

    ping @isskein

  • L’équation des #refoulements en Libye : depuis le début #2018 près de 15000 boat-people ont été reconduits en #Libye où sont enregistrés plus de 56000 réfugiés et demandeurs d’asile. Parmi eux, en un an, 900 ont été réinstallés. Que deviennent les autres ?

    https://twitter.com/Migreurop/status/1053981625321771008

    #push-back #refoulement #statistiques #chiffres #Méditerranée #pull-back #réinstallation

    Source :
    Flash update Libya (UNHCR)

    Population Movements
    As of 11 October, the Libyan Coast Guard (LCG) rescued/intercepted 14,156 refugees and migrants (9,801 men, 2,126 women and 1,373 children) at sea during 108 operations. So far in 2018, the LCG recovered 99 bodies from the sea. The number of individualsdis embarked in Libya has gradually increased over the past weeks when compared to the month of August (552 individuals in August, 1,265 individuals in September and 884 individuals so far in October). An increase in disembarkations may be expected as the sea iscurrently very calm.
    During the reporting period, 174 refugees and migrants (163 men, eight women and three children) disembarked in #Alkhums (97 km southwest of Tripoli) and #Zawia (45 km west of Tripoli). The group was comprised mainly of Bangladeshi and Sudanese nationals. UNHCR and its partner International Medical Corps (IMC) provided core-relief items (CRIs) and vital medical assistance both at the disembarkation points and in the detention centres to which individuals were subsequently transferred by the authorities. So far in 2018, UNHCR has registered 11,401 refugees and asylum-seekers, bringing the total of individuals registered to 56,045.

    UNHCR Response
    On 9 October, #UNHCR in coordination with the municipality of Benghazi, distributed water tanks, medical waste disposal bins and wheel chairs to 14 hospitals and clinics in Benghazi. This was part of UNHCR’s quick-impact projects (#QIPs). QIPs are small, rapidly implemented projects intended to help create conditions for peaceful coexistence between displaced persons and their hosting communities. QIPs also strengthen the resilience of these communities. So far in 2018, UNHCR implemented 83 QIPs across Libya.
    On 8 October, UNHC partner #CESVI began a three-day school bag distribution campaign at its social centre in Tripoli. The aim is to reach 1,000 children with bags in preparation for the new school year. Due to the liquidity crisis in Libya, the price of school materials has increased over the past years. With this distribution, UNHCR hopes to mitigate the financial impact that the start of the school year has on refugee families.
    UNHCR estimates that 5,893 individuals are detained in Libya, of whom 3,964 are of concern to UNHCR. On 7 October, UNHCR visited #Abu-Slim detention centre to deliver humanitarian assistance and address the concerns of refugees and asylum-seekers held in the facility. UNHCR distributed non-food items including blankets, hygiene kits, dignity kits, sleeping mats and water to all detained individuals. UNHCR carried out a Q&A session with refugees and migrants to discuss UNHCR’s activities and possible solutions for persons of concern. Security permitting, UNHCR will resume its registration activities in detention centres over the coming days, targeting all persons of concern.
    So far in 2018, UNHCR conducted 982 visits to detention centres and registered 3,600 refugees and asylum-seekers. As of 10 October, UNHCR distributed 15,282 core-relief items to refugees and migrants held in detention centres in Libya.
    Throughits partner #IMC, UNHCR continues to provide medical assistance in detention centres in Libya. So far in 2018, IMC provided 21,548 primary health care consultations at the detention centres and 231 medical referrals to public hospitals. As conditions in detention remain extremely dire, UNHCR continues to advocate for alternatives to detention in Libya and for solutions in third countries. Since 1 September 2017, 901 individuals have been submitted for resettlement to eight States (Canada, France, Germany, Italy, Netherlands, Norway, Sweden and Switzerland).

    http://reporting.unhcr.org/sites/default/files/UNHCR%20Libya%20Flash%20Update%20-%205-12OCT18.pdf
    #réinstallation #détention #centres_de_détention #HCR #gardes-côtes_libyens

    ping @_kg_ @isskein

    • Migranti, 100 persone trasferite su cargo e riportate in Libia. Alarm Phone: “Sono sotto choc, credevano di andare in Italia”

      Dopo l’allarme delle scorse ore e la chiamata del premier Conte a Tripoli, le persone (tra cui venti donne e dodici bambini, uno dei quali potrebbe essere morto di stenti) sono state trasferite sull’imbarcazione che batte bandiera della Sierra Leone in direzione Misurata. Ma stando alle ultime informazioni, le tensioni a bordo rendono difficoltoso lo sbarco. Intanto l’ong Sea Watch ha salvato 47 persone e chiede un porto dove attraccare.

      Gli hanno detto che sarebbero sbarcati in Italia e quando hanno scoperto che invece #Lady_Sharm, il cargo battente bandiera della Sierra Leone, li stava riportando a Misurata in Libia, sono iniziate le tensioni a bordo. Secondo Alarm Phone i 100 migranti, che ieri avevano lanciato l’allarme a 50 miglia dalle coste libiche, dicendo che stavano congelando, sono “sotto choc” e si rifiutano di sbarcare. Le comunicazioni però sono molto difficoltose: non ci sono giornalisti sul posto e mancano conferme ufficiali. Le difficoltà di far sbarcare i 100 migranti sono state confermate a ilfattoquotidiano.it. L’episodio ricorda quello della nave Nivin, quando a novembre scorso un gruppo di migranti si rifiutò per giorni di scendere e l’esercito libico decise di fare irruzione sull’imbarcazione.

      Poco dopo la mezzanotte era terminato il trasbordo sul mercantile inviato da Tripoli in loro soccorso. Le persone – tra cui venti donne e dodici bambini, uno dei quali potrebbe essere morto di stenti – sono state in balia del mare e del freddo per ore. Ore di angoscia che sono terminate con l’invio dei soccorsi: in serata il mercantile dirottato sul posto dalla Guardia costiera libica – su cui pare sia intervenuto personalmente il premier Giuseppe Conte – ha raggiunto la carretta, cominciando ad imbarcare i migranti. “Verranno portati in salvo nel porto di Misurata”, aveva fatto sapere in serata Palazzo Chigi, che in precedenza aveva sollecitato la guardia costiera libica affinché effettuasse quanto prima l’intervento.


      https://twitter.com/alarm_phone/status/1087403549506658308?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E10
      Parallelamente altri 47 migranti, salvati dalla ong Sea Watch, attendono di avere notizie sulla loro destinazione finale: “Sono terrorizzati” dal possibile ritorno in Libia. “Le loro condizioni di salute sono buone e stazionarie”, ha detto all’agenzia Ansa l’equipaggio, “ma ora a preoccupare sono le condizioni meteo in peggioramento“.

      Di Maio: “D’ora in poi li porteremo a Marsiglia”
      “D’ora in poi i migranti che salviamo nel Mediterraneo glieli portiamo a Marsiglia – ha dichiarato questa mattina il vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, a Rtl 102.5 – Per far stare gli africani in Africa basta che la Francia stia a casa propria”. Il Viminale esprime soddisfazione: “Tutti sani e salvi, e riportati indietro, i 393 immigrati recuperati dalla Guardia Costiera libica nella giornata di ieri. In particolare, 143 sono stati riportati a Tripoli. 144 a Misurata, 106 ad al-Khoms”. La collaborazione funziona, gli scafisti, i trafficanti e i mafiosi devono capire che i loro affari sono finiti. Meno partenze, meno morti, la nostra linea non cambia” commenta il ministro dell’Interno Matteo Salvini.

      L’allarme e le richieste di aiuto inascoltate per ore
      Domenica mattina Alarm Phone, il sistema di allerta telefonico utilizzato per segnalare imbarcazioni in difficoltà, ha ricevuto la segnalazione del natante in avaria al largo di Misurata. Ora per ora, minuto per minuto, ha raccontato via tweet il dramma delle 100 persone stipate nell’imbarcazione facendo il resoconto delle innumerevoli segnalazioni effettuate a Roma, La Valletta e Tripoli, quest’ultima indicata da tutti come autorità competente a coordinare i soccorsi. “Abbiamo chiamato sette numeri differenti della sala operativa della cosiddetta Guardia costiera di Tripoli – raccontano i volontari – ma non abbiamo ricevuto risposta. Malta ci ha fornito un ottavo numero, che non risponde. Tutto questo è ridicolo. Ne basterebbe uno che funzionasse. Abbiamo avvisato Italia e Malta che la Libia non è raggiungibile. Nessuno ha attivato un’operazione di soccorso”.

      Affermazioni respinte dalla Marina libica, che con il suo portavoce, il brigadiere Ayoub Gassem, ha smentito che le richiesta di soccorso siano state ignorate, sottolineando che in mattinata altri 140 migranti sono stati salvati da una motovedetta di Tripoli. Dal canto suo la Guardia costiera italiana ha precisato che, non appena saputo dell’emergenza, “come previsto dalla normativa internazionale sul Sar ha immediatamente contattato la Guardia Costiera libica, nella cui area di responsabilità era in corso l’evento, che ha assunto il coordinamento e non potendo mandare propri mezzi perché impegnati nei precedenti soccorsi, ha inviato sul posto il mercantile della Sierra Leone”.

      I migranti: “Congeliamo, abbiamo paura di morire”
      A bordo del barcone i naufraghi hanno trascorso ore drammatiche: “Stiamo congelando, la situazione è disperata, aiutateci. Abbiamo paura di morire”, dicevano mentre imbarcavano acqua. Altri 47, salvati ieri da un gommone che stava per affondare, sono sulla Sea Watch, sempre al largo della Libia, in attesa di conoscere quale sarà il loro destino. “Nessuno ci dà informazioni, non sappiano cosa fare, quale sarà il porto dove attraccare – dicono dall’equipaggio – “Chiediamo istruzioni e restiamo in attesa. Siamo stati rimandati ai libici che però non rispondono. Non c’è modo di parlare con loro”.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/01/21/migranti-100-persone-trasferite-su-cargo-e-riportate-in-libia-alarm-phone-sono-sotto-choc-credevano-di-andare-in-italia/4911794

    • Il governo italiano elude il divieto di respingimenti collettivi

      La pietà per le 117 vittime del naufragio di venerdì 18 gennaio non è durata a lungo, e sono rimasti inascoltati tutti gli appelli volti a chiedere agli stati il rispetto degli obblighi di soccorso sanciti dal diritto internazionale. Una strage dopo l’altra, e sempre più rapidamente scattano i meccanismi di rimozione. Alla fine i “colpevoli” vengono indicati nelle ONG, ormai praticamente assenti, e non invece tra i governanti che hanno concluso accordi con autorità militari e guardiacoste che non rispettano i diritti umani, ed adesso omettono sistematicamente gli interventi di soccorso in acque internazionali.

      Si è conclusa nel peggiore dei modi l’operazione di ricerca e soccorso in acque internazionali di un gommone con circa cento persone a bordo, segnalato nella mattina di domenica 20 gennaio a circa 50 miglia a nord della città di Misurata. Per ore, che potevano fare la differenza tra la vita e la morte, praticamente per l’intera giornata di domenica, le autorità italiane, maltesi e libiche non hanno risposto alle richieste di aiuto rilanciate dall’organizzazione Alarm Phone.

      Senza l’insistenza delle organizzazioni umanitarie nessuno sarebbe andato a salvare le persone che erano ormai sul punto di annegare, e malgrado questo dato evidente, il ministro dell’interno Salvini non ha trovato altra risposta che inasprire le minacce contro le ONG, colpevoli di avere portato alla luce l’evento di soccorso, e sprattutto di avere salvato, in una precedente oprazione SAR, altre 46 persone portate a bordo della nave Sea Watch. Persone che ancora oggi rimangono abbandonate, con l’equipaggio della nave soccorritrice in alto mare, perchè nessun governo delle diverse zone SAR confinati nel Mediterraneo centrale ( Italia, Malta, Libia) risponde indicando un porto sicuro di sbarco, come sarebbe imposto dalle Convenzioni internazionali del diritto del mare e dal Diritto internazionale dei rifugiati. Sempre, ammesso e non concesso, che di Libia come stato unitario si possa parlare, e di una Guardia costiera “libica” con un Coordinamento centrale (MRCC) si possa disporre per garantire operazioni di soccorso che non possono essere legate alla ridotta capacità di intervento dei suoi assetti navali o alle pressioni diplomatiche di un governo straniero.

      Dopo una giornata in cui le autorità libiche avevano lasciato cadere le richieste di intervento, a 50 miglia a nord di Misurata, da parte delle autorità italiane, l’intervento del Presidente del Consiglio Conte, e di non meglio precisate componenti diplomatiche, ha indotto il governo di Tripoli a dirottare verso il gommone una nave cargo la Lady Shar con bandiera della Sierra Leone, ma in precedenza immatricolata con altro nome presso i registri maltesi, la nave commerciale più vicina in navigazione nella zona dei soccorsi, ed a effettuare un primo trasbordo dei naufraghi ormai stremati dal freddo. Successivamente, per quanto si è appreso dai media, sembrerebbe che alcune motovedette libiche avrebbero trasportato alcune persone a terra, riportandole nel porto di Misurata, dunque molto vicine al luogo dal quale erano state fatte partire dai trafficanti su un gommone fatiscente, approfittando del temporaneo miglioramento delle condizioni meteo. In realtà risulta che ai migranti “soccorsi” a bordo della nave commerciale “coordinata” dalle autorità libiche nessuno avesse detto che la nave li avrebbe sbarcati a Misurata. E che anzi qualcuno li aveva rassicurati che sarebbero stati sbarcati in Italia.

      Secondo le notizie più recenti però, una parte dei naufraghi starebbe facendo resistenza ancora a bordo della nave che li ha soccorsi, e si profilano altre violenze ai danni dei naufraghi, come già verificato proprio a Misurata, nel caso dello sbarco-irruzione operato a bordo della NIVIN. I naufraghi erano stati sbarcati con la forza dopo una irruzione delle milizie armate che sparavano con fucili proiettili di gomma ad altezza d’uomo. Mentre giornalisti ed operatori umanitari pure presenti nel porto di Misurata venivano tenuti lontani. Non ci sono state più notizie sulla sorte di quelle persone, fatte scomparire nel nulla. Questa è la “Libia”, meglio il territorio controllato dal governo di Tripoli e dalle milizie alleate, con cui collabora il governo italiano.

      A nulla sono serviti gli appelli perchè i migranti, che si trovavano ormai in acque internazionali, molto vicini al limite della zona SAR maltese, fossero portati in un porto sicuro Un place of safety (POS) che non si trova certo in Libia, neppure a Misurata come i fatti dimostrano. In Libia non ci sono place of safety per chi viene intercettato in alto mare, anche secondo quanto recentemente dichiarato dal Commissario per le Nazioni Unite per i rifugiati Grandi, sulla base di rapporti delle stesse Nazioni Unite, che documentano gli abusi che subiscono i migranti intercettati in alto mare e riportati indietro dalla sedicente Guardia costiera “libica”. Per comprendere la gravità delle violazioni del diritto internazionale commesse in questa occasione dal governo italiano occorre una breve ricostruzione dei rapporti intercorsi in questi ultimi due anni tra l’Italia ed il governo di Tripoli.

      2.Dopo gli accordi con la Libia del 2 febbraio 2017, ratificati dal Vertice euromediterraneo de La Valletta, a Malta, il giorno successivo, le autorità italiane hanno sempre operato per aggirare il divieto di respingimenti collettivi in mare, affermato dalla sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo il 23 febbraio 2012 nel caso Hirsi.

      Occorreva chudere, o almeno ridurre in modo sostanziale, gli arrivi di migranti dalla Libia, dopo che i principali partiti allora di opposizione, e soprattutto la Lega ed i Cinquestelle, avevano conquistato fasce sempre più larghe di elettorato, utilizzando in modo strumentale l’allarme che si era fatto derivare dall’elevato numero di arrivi di migranti negli anni dal 2013 al 2016, effetto della crisi siriana e di una situazione di crescente instabilità in Libia e negli altri paesi dell’africa subsahariana. Per tutto questo occorreva delegare alla guardia costiera “libica” quell’attività di intercettazione e di respingimento collettivo che le unità italiane, in particolare la Guardia di finanza, non potevano più svolgere come avevano fatto nel 2009 e nel 2010, con Maroni ministro dell’interno. Cosa importava se le motovedette libiche non avevano a bordo neppure salvagenti o mezzi collettivi di salvataggio, in dotazione invece sulle navi delle ONG ?

      In questa direzione, con il supporto dell’Unione Europea ( missione Eunavfor Med) si sono addestrati centinaia di guardiacoste, nella veste di Guardia costiera “libica”, e si erano fornite motovedette e risorse finanziarie (Africa Trust Fund). Prima ancora che si arrivasse alla proclamazione di una zona SAR “libica”, si era quindi intensificata la collaborazione operativa con la sedicente Guardia costiera “libica”, come documentato dalla sentenze della magistratura di Catania, Ragusa e Palermo, al punto che i giudici arrivavano al punto di osservare quasi come scontato che il coordinamento sostanziale delle attività di ricerca e salvataggio (SAR) svolte dai libici in acque internazionali fosse di fatto demandato alle autorità italiane, presenti nel porto militare di Tripoli con la missione NAURAS.

      In un primo periodo, anche sulla base di operazioi di disinformazione alimentate da gruppi della estrema destra europea (GEFIRA), si cercavo di rallentare, se non dissuadere, con una forte pressione mediatica le attività delle navi delle ONG che operavano nelle acque del Mediterraneo centrale, per colmare un vuoto determinato dalla fine dell’operazione Mare Nostrum (2014) e poi dal progressivo ritiro degli assetti navali dell’operazione TRITON di Frontex.

      Nel giugno del 2017 un piano articolato su sette punti,proposto dall’allora ministro dell’interno Minniti, veniva proposto all’Unione Europea che lo approvava e si impegnava a finanziarlo. Tra le azioni previste dal piano rientravano anche le attività di collaborazione e coordinamento con la Guardia costiera “libica”. Gli obiettivi proposti all’Unione europea erano i seguenti :”  1) rafforzare la capacità della Libia nella sorveglianza marittima; 2) dare loro assistenza per la definizione di un’area marittima Sar (Search and rescue, ricerca e salvataggio); 3) istituire una Mrcc (maritime rescue coordination centre), una centrale operativa di coordinamento di salvataggio; 4) assistere la guardia costiera di Tripoli nelle procedure Sar; 5) irrobustire la cooperazione tra le agenzie internazionali e le autorità libiche; 6) intensificare gli interscambi operativi marittimi con l’Italia e gli altri stati Ue; 7) sviluppare le capacità di intervento ai confini di terra nel controllo dei traffici di esseri umani e di soccorso ai migranti in fuga.

      Con il Codice di condotta Minniti, alla fine del mese di luglio del 2017, venivano stabiliti obblighi pretestuosi che esulavano dalle prescrizioni stabilite nelle Convenzioni internazionali e si introduceva il principio che le navi private delle ONG avrebbeo dovuto operare nelle attività SAR senza interferire con le attività di soccorso che nel frattempo venivano affidate alla sedicente Guardia costiera libica, allora coordinata direttamente da personale italo-libico a bordo di una nave della Marina militare italiana della missione NAURAS di stanza nel porto militare di Abu Sittah a Tripoli. Tra le attività di supporto della missione Nauras a Tripoli, rientrava, fino al 28 giugno scorso, anche“l’importante compito di aiutare i libici a interfacciarsi con la Centrale operativa della Guardia costiera a Roma che coordina le operazioni di ricerca soccorso nel Mediterraneo centrale”. Questo coordinamento italiano delle attività di intercettazione in mare, affidate gia’ nella prima parte di quest’anno alla cd. Guardia costiera “libica“.

      Una previsione che contrastava con il riconoscimento della superiorità gerarchica ( rispetto al codice di condotta ed agli accordi bilterali) delle norme di diritto internazionale o di rango costituzionale, dal momento che già allora risultava evidente quanto gravi fossero le violazioni dei diritti ( e dei corpi) dei migranti sempre più frequenti in Libia, paese che ancora oggi non risulta firmatario della Convenzione di Ginevra sui rifugiati). Violazioni gravisssime che lasciavano segni evidenti nei corpi e nello spirito anche nelle persone che erano state bloccate in mare, in acque internazionali e riportate a terra in mano alle stesse milizie dalle quali erano fuggite.

      Il 26 luglio del 2017, all’indomani dell’incontro organizzato a Parigi sulla Libia, l’ex premier Gentiloni dichiarava addirittura che il capo del governo di Tripoli Serraj avrebbe chiesto l’aiuto dell’Italia ” in acque libiche con unità navali, per il contrasto ai trafficanti di esseri umani”.

      Nel mese di agosto del 2017 si concretizzava l’offensiva di alcune procure contro le navi delle ONG, con sequestri ed incriminazioni sempre più gravi, dopo una violenta campagna mediatica nei loro confronti, e soprattutto dopo che i loro equipaggi erano stati “infiltrati” da agenti sotto copertura che fornivano una ricostruzione artefatta delle attività di soccorso che avrebbe dovuto mostrare una “collusione” tra i trafficanti, gli scafisti, e gli operatori umanitari. Una “collusione” che veniva presto smontata da indagini difensive che dimostravano la artificiosità delle prove raccolte a base delle prime denunce, ma che comunque resta oggetto di un procedimento penale a Trapani. Il procedimento penale contro l’equipaggio della nave Juventa della ONG Jugend Rettet è infatti ancora in corso, mentre la Procura di Palermo ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione di un analogo procedimento penale avviato presso il Tribunale di Palermo, contro la ONG spagnola Open Arms e contro la ONG tedesca Sea Watch. Anche per la Procura di Palermo nessun porto libico si poteva qualificare come “Place of safety (POS)” luogo di sbarco sicuro, e dunque bene avevano fatto le ONG, peraltro sotto coordinamento della Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC), che in quel periodo avevano sbarcato in porti italiani i naufraghi raccolti nelle acque internazionali a nord della Libia.

      Dopo una serie di comunicati stampa e pesanti interventi mediatici, nonchè una audizione in Parlamento, la Procura di Catania non giungeva invece a formulare alcuno specifico capo di accusa, corrispondente alle prime dichiarazioni del Procuratore capo. Il processo avviato con il sequestro della nave Open Arms a Pozzallo nel mese di marzo del 2018, rimane ancora aperto, presso il Tribunale di Ragusa, dove il procedimento avviato a catania è stato trasferito per la caduta delle contestazioni relative alle ipotesi associative. Ma la nave è stata dissequestrata, dopo che il Giudice delle indagini preliminari, e poi il Tribunale di Ragusa, hanno ritenuto la Libia priva di porti sicuri e dunque conforme al diritto il comportamento del comandante che non aveva chiesto alle autorità libiche la indicazione di un porto di sbarco, ma sie era diretto invece verso le coste maltesi ed italiane per chiedere un POS (Place of safety), ricevendo anche da Malta un netto rifiuto di sbarco. Il Giudice delle indagini preliminari di Catania, decidendo su questo caso, rilevava il sostanziale coordinamento da parte delle autorità italiane (Operazione Nauras) delle attività di ricerca e salvataggio (SAR) condotte dalle autorità libiche nelle occasioni denunciate. Il Gip di Catania osservava in particolare che ” Anche questa eccezione non può essere condivisa, poiché le motovedette libiche erano intervenute per effettuare una operazione di soccorso, come richiesto da IMRCC di Roma e sotto l’egida italiana con le navi militari di stanza a Tripoli, e perciò non si può parlare minimamente di respingimento, ma solamente di soccorso e salvataggio in mare”.

      3.L’aggiramento della sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Hirsi era ormai realizzato. Con l’insediamento del nuovo governo Salvini-Di Maio-Conte, già nelle prime dichiarazioni del ministro dell’interno si percepiva un ulteriore inasprimento della linea di condotta delle autorità italiane nelle occasioni ancora frequenti di interventi di ricerca e soccorso in acque internazionali sulla rotta libica operati dalle navi delle ONG. Per tutta l’estate dello scorso anno era una guerra aperta contro le ONG, con espedienti burocratici, come le pressio i sugli stati di bandiera delle navi umanitarie perchè le cancellassero dai registri navali, e con la minaccia di altre sanzioni penali, unico strumento per “chiudere i porti”.

      Cresceva anche la pressione diplomatica sulla Libia e sull’IMO a Londra (Organizzazione marittima internazionale che fa capo alle Nazioni Unite) perchè fosse riconosciuta una zona SAR “libica” in modo da delegare completamente, almeno sulla carta, il coordinamento delle attività di salvataggio ad assetti libici ed alla costituenda Centrale operativa libica (IRCC). Una autentica finzione, dal momento che la Libia non ha ancora oggi organi di governo o forze armate uniche per tutto il suo vasto territorio, coste e mare territoriale compreso, controllato da milizie in perenne conflitto tra loro. Il 28 giugno 2018, l’IMO inseriva nei suoi data base la autoproclamata zona SAR “libica” comunicata dal governo di Tripoli che neppure riusciva a controllare il territorio dell’intera città, ma che veniva incontro alle richieste del governo italiano, dopo che una prima richiesta rivolta dai libici all’IMO nel dicembre del 2017 era stata ritirata per la evidente mancanza dei requisiti richiesti a livello internazionale per il riconoscimento di una zona SAR.

      Se fino al 28 giugno scorso era almeno chiaro che le responsabilità di coordinamento spettavano tutte alla Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC), a partire da quella data, con la notifica di una zona SAR “libica” da parte del governo di Tripoli all’IMO a Londra,a partire da quella data è venuta meno qualsiasi certezza circa le responsabilità di coordinamento dei soccorsi, e dunque di individuazione del punto di sbarco. Non si è riusciti neppure a risolvere il problema ricorrente della sovrapposizione tra la zona SAR maltese e la zona SAR italiana, a sud di Lampedusa e Malta, già occasione di conflitti di competenze, che avevano portato a tragedie con centinaia di morti, come in occasione della cd. strage dei bambini dell’11 ottobre 2013. Per quella strage è ancora in corso un procedimento penale presso il Tribunale di Roma, dopo due richieste di archiviazione da parte delle procure di Agrigento e Roma.

      Intanto il responsabile della sedicente Guardia costiera libica da Tripoli annunciava che gli assetti militari a sua disposizione non avrebbero proceduto a svolgere attività di ricerca e soccorso che non fossero coordinate da autorità libiche con mezzi decisi da Tripoli, dunque con totale esclusione di ogni possibilità di collaborazione con le ONG, ancora presenti nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Per le Nazioni Unite, invece,e dunque per qualunque governo del mondo, “la Libia non può essere considerata un luogo sicuro di sbarco”, come ricorda il più recente rapporto diffuso a livello mondiale. Anche se nei punti di sbarco compaiono le pettorine azzurre dell’UNHCR, coloro che ancora riescono a tentare la pericolosa traversata del Mediterraneo, e che “vengono sempre più spesso intercettati o soccorsi dalla Guardia costiera libica che li riconduce in Libia”, ritrovano l’inferno da dove erano fuggiti. Dopo lo sbarco e la consegna di un kit di prima accoglienza finiscono nelle mani delle milizie che controllano i centri di detenzione.

      In una visita in Libia ai primi di luglio, Human Rights Watch ha intervistato le forze della guardia costiera libica, decine di rifugiati e migranti detenuti in centri a Tripoli, Zuara e Misurata, e funzionari di organizzazioni internazionali. I richiedenti asilo detenuti e i migranti intervistati hanno espresso gravi accuse di abusi da parte delle guardie e dei trafficanti, e alcuni hanno riferito di comportamenti aggressivi da parte delle forze della guardie costiera durante le operazioni di salvataggio in mare. Human Rights Watch ha confermato che le forze della guardia costiera libica mancano della capacità di assicurare operazioni di ricerca e soccorso sicure ed efficaci.

      4. La competenza nelle attività SAR o la individuazione del place of safety non possono derogare i principi fondamentali affermati in favore dei rifugiati ai quali sono parificati i richiedenti asilo. In base alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati (art.33), “nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (refouler) – in nessun modo – un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche. Il beneficio di detta disposizione non potrà tuttavia essere invocato da un rifugiato per il quale vi siano gravi motivi per considerarlo un pericolo per la sicurezza dello Stato in cui si trova, oppure da un rifugiato il quale, essendo stato oggetto di una condanna già passata in giudicato per un crimine o un delitto particolarmente grave, rappresenti una minaccia per la comunità di detto Stato”.

      In ogni caso, le espulsioni collettive sono vietate dal quarto protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo firmato a Strasburgo il 16 settembre 1963 (cfr. art. 19.1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).

      L’art.33 della Convenzione di Ginevra che impone il divieto di respingimento delle persone verso paesi che non ne garantiscono i diritti fondamentali, in coerenza con l’art. 10 della Costituzione italiana, rendono del tutto privo di basi legali, e dunque non vincolante, qualsiasi ordine di riconsegna dei naufraghi ai libici impartito dopo i soccorsi a navi private che si trovino in acque internazionali. Va ricordato che né la Libia, né le diverse entità statali in cui risulta divisa, hanno sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, ne garantiscono un effettiva salvaguardia dei diritti fondamentali delle persone, per non parlare della condizione di abuso alla quale,dopo la riconduzione a terra, sono sistematicamente esposti donne e minori ( ma adesso anche molti adulti di sesso maschile).

      Se è vero che in base all’art. 25 della Convenzione UNCLOS lo stato può comunque impedire l’ingresso nei propri porti ad una nave sospettata di trasportare migranti irregolari, è altrettanto da considerare che se uno Stato respinge una imbarcazione carica di naufraghi soccorsi in acque internazionali, senza controllare se a bordo vi siano dei richiedenti asilo o soggetti non respingibili, o altrimenti inespellibili, come donne abusate e/o in stato di gravidanza e minori, e senza esaminare se essi possiedano i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, commette una violazione del principio di non respingimento sancito dall’art. 33 par. 1 della Convenzione del 1951 se i territori (Stati terzi o alto mare) verso cui la nave è respinta non offrono garanzie sufficienti per l’incolumità dei migranti. L’articolo 10 del Testo Unico sull’immigrazione 256/98 prevede ancora espressamente la possibilità di applicare il respingimento differito (comma 2) alle persone straniere che sono state “temporaneamente ammessi nel territorio per necessità di pubblico soccorso”. Dunque anche l’ordinamento interno prevede che in caso di eventi di ricerca e soccorso in mare non si possa procedere ad operazioni di respingimento che peraltro assumerebbero il carattere di respingimenti collettivi, vietati dall’art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU e dall’art.19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

      La Convenzione di Palermo contro il crimine transnazionale ed i due Protocolli allegati, contro la tratta e contro il traffico di esseri umani, che pure prevedono accordi con i paesi di origine e transito dei migranti, antepongono la salvaguardia della vita umana in mare alla lotta contro quella che si definisce immigrazione “illegale”. In base all’art.7 del Protocollo contro il traffico, (Cooperazione) “Gli Stati Parte cooperano nella maniera più ampia per prevenire e reprimere il traffico di migranti via mare, ai sensi del diritto internazionale del mare”. Secondo l’art. 9 dello stesso Protocollo “Qualsiasi misura presa, adottata o applicata conformemente al presente capitolo tiene debitamente conto della necessità di non ostacolare o modificare: a) i diritti e gli obblighi degli Stati costieri e l’esercizio della loro giurisdizione, ai sensi del diritto internazionale del mare. Particolarmente importante l’art. 16 del Protocollo che prevede Misure di tutela e di assistenza: (1) Nell’applicazione del presente Protocollo, ogni Stato Parte prende, compatibilmente con i suoi obblighi derivanti dal diritto internazionale, misure adeguate, comprese quelle di carattere legislativo se necessario, per preservare e tutelare i diritti delle persone che sono state oggetto delle condotte di cui all’articolo 6 del presente Protocollo, come riconosciuti ai sensi del diritto internazionale applicabile, in particolare il diritto alla vita e il diritto a non essere sottoposto a tortura o altri trattamenti o pene inumani o degradanti. (2) Ogni Stato Parte prende le misure opportune per fornire ai migranti un’adeguata tutela contro la violenza che può essere loro inflitta, sia da singoli individui che da
      gruppi, in quanto oggetto delle condotte di cui all’articolo 6 del presente Protocollo. (3) Ogni Stato Parte fornisce un’assistenza adeguata ai migranti la cui vita, o incolumità, è in pericolo dal fatto di essere stati oggetto delle condotte di cui all’articolo 6 del presente Protocollo. (4) Nell’applicare le disposizioni del presente articolo, gli Stati Parte prendono in
      considerazione le particolari esigenze delle donne e dei bambini.

      Un ulteriore clausola di salvaguardia si ritrova all’art.19 del Protocollo addizionale contro il traffico: (1) Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica diritti, obblighi e responsabilità degli Stati e individui ai sensi del diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale dei diritti dell’uomo e, in particolare, laddove applicabile, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 relativi allo Status di Rifugiati e il principio di non allontanamento”.

      Per effetto degli articoli 10 e 117 della Costituzione italiana le Convenzioni internazionali che l’Italia ha sottoscritto si impongono sulle scelte dell’esecutivo e non possono essere violate da leggi interne o accordi internazionali. Dunque il diritto alla vita ed al soccorso in mare è un diritto fondamentale che non si può ponderare sulla base di altri interessi dello stato pure rilevanti, come la difesa delle frontiere o la lotta alle reti di trafficanti.

      Non è dunque possibile che un ministro dell’interno proclami la sua insofferenza per il diritto internazionale, o che lo ritenga un ostacolo alle sue politiche di “chiusura dei porti”. La creazione della zona SAR libica è servita proprio per aggirare i divieti di respingimento e gli obblighi di salvataggio imposti agli stati dal Diritto internazionale. Era tutto chiaro da mesi. Non sono certo le ONG complici dei trafficanti libici, quanto piuttosto quei governi che fanno accordi con le milizie per bloccare e detenere i migranti prima che possano attraversare il Mediterraneo.

      Va ricordato infine che nel caso di avvistamenti o chiamate di soccorso non seguiti da tempestivi interventi di ricerca e salvataggio potrebbero configurarsi gravi responsabilità penali. Come ricordano Caffio e Leanza (Il SAR Mediterraneo) “è da ritenersi in conclusione che responsabilità sarebbero ipotizzabili nei seguenti casi:1) non intervento di navi le quali siano a conoscenza della situazione (anche a seguito di warning emanato dalle autorità italiane) e siano in condizione di intervenire in tempo utile in ragione della distanza e della velocità sempre che non sussistano condizioni ostative attinenti la sicurezza della navigazione e delle persone che sono a bordo nonché alla tipologia di nave (si pensi alle navi gasiere) sprovviste di spazi per ospitare le persone salvate o addirittura pericolose nei loro confronti;2) mancata emissione di warning ai mercantili in transito da parte delle autorità SAR italiane”.

      5. Occorre trovare al più prsto un porto sicuro di sbarco per le 47 persone soccorse ieri dalla nave SEA WATCH, per le quali nè Malta, nè Italia hanno finora indicato quanto dovuto in base alle Convenzioi internazionali. La Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979 (Convenzione SAR) obbliga gli Stati parte a “…garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo in mare… senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali tale persona viene trovata” (Capitolo 2.1.10) ed a “ […] fornirle le prime cure mediche o di altro genere ed a trasferirla in un luogo sicuro”. (Capitolo 1.3.2)

      Per “luogo di sbarco sicuro” (Place of safety-POS) si deve intendere un luogo in cui si ritiene che le operazioni di soccorso debbano concludersi e in cui la sicurezza per la vita dei sopravvissuti non è minacciata, dove possono essere soddisfatte le necessità umane di base e possono essere definite le modalità di trasporto dei sopravvissuti verso la destinazione successiva o finale tenendo conto della protezione dei loro diritti fondamentali nel rispetto del principio di non respingimento…» (Regolamento Frontex 656/2014).

      L’adempimento degli obblighi internazionali di salvaguardia della vita umana in mare e la tempestiva indicazione di un porto sicuro di sbarco non possono diventare merce di scambio per modificare le politiche dell’Unione Europea.

      Gli interessi nazionali diretti alla “difesa dei confini” non possono consentire di cancellare sostanzialmente gli articoli 10 e 117 della Costituzione italiana che affermano la piena operatività, nel nostro ordinamento interno, delle Convenzioni internazionali che l’Italia ha sottoscritto e ratificato. Rimane inalterata la diretta efficacia cogente dei Regolamenti dell’Unione Europea che forniscono una definizione vincolante ( anche per i ministri dell’interno) di “luogo di sbarco sicuro”.

      Qualunque trattativa per la distribuzione, pure auspicabile, di naufraghi tra diversi paesi europei può avvenire soltanto quando le persone hanno raggiunto un porto di sbarco sicuro, perché la nave soccorritrice va considerata in base al diritto internazionale come un luogo sicuro “transitorio”, e la permanenza a bordo di persone già duramente provate non può diventare arma di ricatto tra gli stati. Di certo non rileva nella individuazione del porto di sbarco sicuro la bandiera dell’unità soccorritrice, altro argomento utilizzato per impedire o ritardare lo sbarco nei porti italiani delle persone soccorse in mare.

      6. Una volta che il Centro nazionale di coordinamento di soccorso marittimo della Guardia Costiera di Roma(I.M.R.C.C.)abbia comunque ricevuto la segnalazione di un’emergenza e assunto il coordinamento iniziale delle operazioni di soccorso -anche se l’emergenza si è sviluppata fuori dalla propria area di competenza SAR – questo impone alle autorità italiane di portare a compimento il salvataggio individuando il luogo sicuro di sbarco dei naufraghi. Se le autorità di Malta hanno negato il loro consenso allo sbarco in un porto di quello Stato, l’Italia non può negare lo sbarco in un proprio porto sicuro, che diventa essenziale per completare le operazioni di salvataggio. Se, come risulta dagli ultimi rapporti delle Nazioni Unite, e come riconosce persino il ministro degli esteri Moavero la Libia non garantisce “porti di sbarco sicuri”, spetta al ministero dell’interno, di concerto con la Centrale operativa della guardia costiera (IMRCC) di Roma, indicare con la massima sollecitudine un porto di sbarco sicuro, anche se l’evento SAR si è verificato nelle acque internazionali che ricadono nella pretesa SAR libica.

      Se gli ordini di “chiusura dei porti ”, impartiti in modo informale dal ministro dell’interno, continueranno a produrre l’effetto di bloccare in alto mare, in acque internazionali, decine di persone particolarmente vulnerabili, come lo sono tutti coloro che provengono oggi dalla Libia, sarebbe violato l’inalienabile diritto delle persone, quale che sia il loro stato giuridico, “a non subire trattamenti inumani o degradanti”( Articolo 3 della CEDU). Trattamenti direttamente riferibili al ministero dell’interno che non indica un porto sicuro di sbarco e che potrebbero ben configurarsi qualora, a seguito di un ennesimo braccio di ferro tra gli stati europei, la permanenza a bordo dei naufraghi, malgrado il prodigarsi degli operatori umanitari, dovesse procurare ulteriori sofferenze, se non gravi rischi per la salute o per la stessa vita. Non si può ammettere che in acque internazionali ci siano persone sottratte a qualsiasi giurisdizione. Anche se non interviene direttamente con i suoi mezzi, fino a quando non intervengono direttamente unità navali o aeree, o centrali di coordinamento SAR di altri paesi, le persone che chiamano soccorso dall’alto mare si trovano sotto la giurisdizione del primo paese che riceve la chiamata di soccorso, dal cui esito tempestivo può dipendere la vita o la morte.

      In caso di violazione del divieto di respingimenti collettivi ( articolo 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU) o del divieto di trattamenti inumani od degradanti (art.3 CEDU), imposti agli stati nei confronti di tutte le persone che ricadono nella loro giurisdizione, come sono i naufraghi soccorsi in operazioni coordinate, almeno nella fase iniziale, da una autorità statale, si potrebbero ipotizzare ricorsi in via di urgenza alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Mentre se il conflitto tra gli stati ( in particolare Italia e Malta) nella individuazione di un POS (porto sicuro di sbarco) si dovesse ripetere, dovrebbe occuparsene la Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

      https://dossierlibia.lasciatecientrare.it/il-governo-italiano-elude-il-divieto-di-respingimenti

  • Fuir une dictature et mourir de faim en Italie, après avoir traversé la Méditerranée et passé des mois dans des centres en Libye.
    10 personnes à ses funérailles.
    Et l’Europe n’a pas honte.

    Ragusa, il funerale dell’eritreo morto di fame dopo la traversata verso l’Italia

    Il parroco di Modica: «Di lui sappiamo solo che è un nostro fratello»


    http://palermo.repubblica.it/cronaca/2018/03/20/news/ragusa_il_funerale_dell_eritreo_morto_di_fame_dopo_la_traversata_
    #mourir_de_faim #faim #Libye #torture #asile #migrations #fermeture_des_frontières #Méditerranée

    • Nawal Sos a décidé de faire un travail de récolte de témoignage de personnes qui ont vécu l’#enfer libyen, suite à la saisie du bateau de l’ONG Open Arms en Méditerranée.

      Pour celles et ceux qui ne connaissent pas Nawal :
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Nawal_Soufi

      Voici le premier témoignage qu’elle a publié sur FB, que je copie-colle de la page web de Nawal :

      Questa e’ la testimonianza del primo rifugiato che ha dato la disponibilita’ a comparire davanti a qualsiasi corte italiana per raccontare i suoi giorni passati tra gli scafisti in Libia.

      Il 9 aprile del 2015 sono arrivato a casa dello scafista. Da casa sua sono partito via mare il 4 maggio del 2015. Erano le due di notte. In questo periodo le mie condizioni di salute erano particolari ed ero con uno/due ragazzi. Gli altri stavano peggio di me, dentro delle stanze dove la capienza era di dieci persone e in cui venivano rinchiuse settanta/ottanta/cento persone. Ci veniva dato solamente un pasto a giornata ed esso era composto da pane e acqua. L’acqua non bastava per tutti. Non c’erano servizi igienici per fare i propri bisogni. Prima dell’arrivo alla casa dello scafista viene raccontato che la situazione sarà perfetta e la casa grande in modo da garantire le migliori condizioni e che esiste un accordo con la guardia costiera. Appena si arriva a casa dello scafista si trovano altre condizioni. Una delle promesse che erano state fatte era quella di partire in poche ore, al massimo ventiquattro via mare. La verità è però che è necessario aspettare in base agli accordi con la guardia costiera: se vengono raggiunti dopo una settimana si parte dopo una settimana altrimenti è necessario aspettare fino a un mese, come è stato per me. Se una persona paga molto gli verrà fornito un salvagente altrimenti bisognerà affrontare il viaggio senza. Qualcuno portava con sé il salvagente mentre altri credevano alle parole dello scafista e non lo portavano. Anche sul salvagente cominciavano le false promesse: «Domani vi porteremo i salvagenti..». A seguito di queste promesse iniziavano a farsi strada delle tensioni con lo scafista. Le barche di legno su cui avremmo dovuto viaggiare erano a due piani: nel piano di sotto vi era la sala motore dov’è lo spazio per ogni essere umano non supera 30 x 30 cm massimo 40. Mettevano le persone una sopra l’altra. Le persone che venivano messe sotto erano le persone che pagavano di meno. Ovviamente lo scafista aveva tutto l’interesse di mettere in questo spazio il maggior numero di persone possibili per guadagnare sempre più con la scusante di usare questo guadagno per pagare la guardia costiera libica, la manutenzione della barca e altre persone necessarie per partire. Proprio nella sala motore ci sono stati vari casi di morti. La maggior parte della barche veniva comprata da Ras Agedir e Ben Gerdan, in Tunisia. Le barche arrivavano dalla Tunisia in pieno giorno, passando dalla dogana senza essere tassate né controllate. Le barche venivano portate al porto e ristrutturate davanti agli occhi di tutti. Una volta riempite le barche venivano fatte partire in pieno giorno (dalle prime ore del mattino fino alle due del pomeriggio) senza essere fermate dalla guardia costiera libica. Le uniche a essere fermate erano quelle degli scafisti che non pagavano mazzette ed esse venivano riportate indietro e i migranti arrestati. La guardia costiera chiedeva poi un riscatto allo scafista per liberare le persone. Così facendo lo obbligavano la volta dopo a pagare una mazzetta prima di far partire le sue imbarcazioni.
      In un caso molti siriani erano saliti su quella che chiamavamo «l’imbarcazione dei medici». Questi medici avevano comprato la barca per partire senza pagare gli scafisti ed erano partiti. A bordo c’erano 80/100 persone. Sono stati seguiti da individui non identificati che gli hanno sparato contro causando la morte di tutte le persone a bordo. Non si sa se siano stati degli scafisti o la guardia costiera.
      I contatti tra la guardia costiera libica e gli scafisti risultano evidenti nel momento in cui le persone fermate in mare e riportate a terra vengono liberate tramite pagamento di un riscatto da parte degli scafisti. Queste stesse persone riescono poi a partire con lo stesso scafista via mare senza essere fermate.
      In Libia, dove ho vissuto due anni, le condizioni di vita sono molto difficili. Gli stessi libici hanno iniziato a lottare per ottenere qualcosa da mangiare e per me, in quanto siriano senza possibilità di andare da qualsiasi altra parte, l’unica cosa importante era poter lavorare e vivere. Conosco molti ingegneri e molti professionisti che hanno lasciato la loro vita per venire in Libia a fare qualsiasi tipo di lavoro pur di sopravvivere. Non avevo quindi altra soluzione se non quella di partire via mare verso l’Europa. Sono partito e sono arrivato a Lampedusa e da lì ho raggiunto Catania.

      https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=580561452301350&id=100010425011901
      J’espère voir les autres témoignages aussi... mais elle les publie sur FB, du coup, je pense que je vais certainement ne pas tout voir.

    • Deuxième témoignage :

      Questa e’ la seconda persona che ha dato la sua disponibilita’ a comparire di fronte a qualsiasi Corte italiana per raccontare il suo viaggio e forse altri compagni di viaggio che erane nella stessa barca si uniranno a lui.
      Testimonianza di: Ragazzo Palestinese di Gaza
      (Per ovvi motivi non posso citare in nome qui)

      Traduzione in italiano:

      Per quanto riguarda il traffico degli esseri umani avviene tra Zebrata e Zuara in Libia. Tra i trafficanti e la guardia costiera libica c’è un accordo di pagamento per far partire le imbarcazioni. Al trafficante che non paga la guardia costiera gli viene affondata l’imbarcazione. La squadra della guardia costiera che fa questi accordi e’ quella di Al Anqaa’ العنقاء appartenente alla zona di Ezzawi. Otto mesi fa siamo partiti da Zebrata e siamo stati rapiti dalla guardia costiera libica. Dopo il rapimento abbiamo detto loro che siamo partiti tramite lo scafista che si chiama Ahmed Dabbashi. E la risposta della guardia costiera è stata: se solo ci aveste detto che eravate partiti tramite lo scafista Ahmed Debbash tutto ciò non sarebbe successo.

      Je n’arrive pas à copier-coller le link FB (arrghhh)

    • Time to Investigate European Agents for Crimes against Migrants in Libya

      In March 2011, the ICC Office of the Prosecutor of the international criminal court opened its investigation into the situation in Libya, following a referral by the UN Security Council. The investigation concerns crimes against humanity in Libya starting 15 February 2011, including the crimes against humanity of murder and persecution, allegedly committed by Libyan agents. As the ICC Prosecutor explained to the UN Security Council in her statement of 8 May 2017, the investigation also concerns “serious and widespread crimes against migrants attempting to transit through Libya.” Fatou Bensouda labels Libya as a “marketplace for the trafficking of human beings.” As she says, “thousands of vulnerable migrants, including women and children, are being held in detention centres across Libya in often inhumane condition.” The findings are corroborated by the UN Support Mission in Libya (UNMSIL) and the Panel of Experts established pursuant to Resolution 1973 (2011). Both report on the atrocities to which migrants are subjected, not only by armed militias, smugglers and traffickers, but also by the new Libyan Coast Guard and the Department for Combatting Illegal Migration of the UN-backed Al Sarraj’s Government of National Accord – established with EU and Italian support.

      https://www.ejiltalk.org/time-to-investigate-european-agents-for-crimes-against-migrants-in-libya

    • UN report details scale and horror of detention in Libya

      Armed groups in Libya, including those affiliated with the State, hold thousands of people in prolonged arbitrary and unlawful detention, and submit them to torture and other human rights violations and abuses, according to a UN report published on Tuesday.

      “Men, women and children across Libya are arbitrarily detained or unlawfully deprived of their liberty based on their tribal or family links and perceived political affiliations,” the report by the UN Human Rights Office says. “Victims have little or no recourse to judicial remedy or reparations, while members of armed groups enjoy total impunity.”

      “This report lays bare not only the appalling abuses and violations experienced by Libyans deprived of their liberty, but the sheer horror and arbitrariness of such detentions, both for the victims and their families,” said UN High Commissioner for Human Rights Zeid Ra’ad Al Hussein. “These violations and abuses need to stop – and those responsible for such crimes should be held fully to account.”

      Since renewed hostilities broke out in 2014, armed groups on all sides have rounded up suspected opponents, critics, activists, medical professionals, journalists and politicians, the report says. Hostage-taking for prisoner exchanges or ransom is also common. Those detained arbitrarily or unlawfully also include people held in relation to the 2011 armed conflict - many without charge, trial or sentence for over six years.

      The report, published in cooperation with the UN Support Mission in Libya (UNSMIL), summarizes the main human rights concerns regarding detention in Libya since the signing of the Libyan Political Agreement (LPA) on 17 December 2015 until 1 January 2018. The implementation of provisions in the LPA to address the situation of people detained arbitrarily for prolonged periods of time has stalled, it notes.

      “Rather than reining in armed groups and integrating their members under State command and control structures, successive Libyan governments have increasingly relied on them for law enforcement, including arrests and detention; paid them salaries; and provided them with equipment and uniforms,” the report says. As a result, their power has grown unchecked and they have remained free of effective government oversight.

      Some 6,500 people were estimated to be held in official prisons overseen by the Judicial Police of the Ministry of Justice, as of October 2017. There are no available statistics for facilities nominally under the Ministries of Interior and Defence, nor for those run directly by armed groups.

      “These facilities are notorious for endemic torture and other human rights violations or abuses,” the report says. For example, the detention facility at Mitiga airbase in Tripoli holds an estimated 2,600 men, women and children, most without access to judicial authorities. In Kuweifiya prison, the largest detention facility in eastern Libya, some 1,800 people are believed to be held.

      Armed groups routinely deny people any contact with the outside world when they are first detained. “Distraught families search for their detained family members, travel to known detention facilities, plead for the help of acquaintances with connections to armed groups, security or intelligence bodies, and exchange information with other families of detainees or missing persons,” the report highlights.

      There have also been consistent allegations of deaths in custody. The bodies of hundreds of individuals taken and held by armed groups have been uncovered in streets, hospitals, and rubbish dumps, many with bound limbs and marks of torture and gunshot wounds.

      “The widespread prolonged arbitrary and unlawful detention and endemic human rights abuses in custody in Libya require urgent action by the Libyan authorities, with support from the international community,” the report says. Such action needs to provide redress to victims and their families, and to prevent the repetition of such crimes.

      “As a first step, the State and non-State actors that effectively control territory and exercise government-like functions must release those detained arbitrarily or otherwise unlawfully deprived of their liberty. All those lawfully detained must be transferred to official prisons under effective and exclusive State control,” it says.

      The report calls on the authorities to publicly and unequivocally condemn torture, ill-treatment and summary executions of those detained, and ensure accountability for such crimes.

      “Failure to act will not only inflict additional suffering on thousands of detainees and their families and lead to further loss of life. It will also be detrimental to any stabilization, peacebuilding and reconciliation efforts,” it concludes.

      http://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=22931&LangID=E

      Lien vers le #rapport du #OHCHR :


      http://www.ohchr.org/Documents/Countries/LY/AbuseBehindBarsArbitraryUnlawful_EN.pdf
      #détention_arbitraire #torture #décès #morts #détention

    • L’inferno libico nelle poesie di #Segen

      #Tesfalidet_Tesfom è il vero nome del migrante eritreo morto il giorno dopo il suo sbarco a Pozzallo del 12 marzo dalla nave Proactiva della ong spagnola Open Arms. Dopo aver lottato tra la vita e la morte all’ospedale maggiore di Modica nel suo portafogli sono state ritrovate delle bellissime e strazianti poesie. In esclusiva su Vita.it la sua storia e le sue poesie


      http://www.vita.it/it/story/2018/04/10/linferno-libico-nelle-poesie-di-segen/210
      #poésie

      Les poésies de Segen :

      Non ti allarmare fratello mio
      Non ti allarmare fratello mio,
dimmi, non sono forse tuo fratello?

      Perché non chiedi notizie di me?
      
È davvero così bello vivere da soli,

      se dimentichi tuo fratello al momento del bisogno?
      Cerco vostre notizie e mi sento soffocare
      
non riesco a fare neanche chiamate perse,

      chiedo aiuto,
      
la vita con i suoi problemi provvisori
      
mi pesa troppo.
      Ti prego fratello, prova a comprendermi,
      
chiedo a te perché sei mio fratello,
      
ti prego aiutami,
      
perché non chiedi notizie di me, non sono forse tuo fratello?
      Nessuno mi aiuta,
      
e neanche mi consola,

      si può essere provati dalla difficoltà,
      
ma dimenticarsi del proprio fratello non fa onore,
      
il tempo vola con i suoi rimpianti,

      io non ti odio,

      ma è sempre meglio avere un fratello.
      No, non dirmi che hai scelto la solitudine,

      se esisti e perché ci sei
 con le tue false promesse,

      mentre io ti cerco sempre,
      saresti stato così crudele se fossimo stati figli dello stesso sangue?
      

Ora non ho nulla,
      
perché in questa vita nulla ho trovato,

      se porto pazienza non significa che sono sazio
      
perché chiunque avrà la sua ricompensa,
      
io e te fratello ne usciremo vittoriosi 
affidandoci a Dio.

      Tempo sei maestro
      Tempo sei maestro
      per chi ti ama e per chi ti è nemico,
      sai distiunguere il bene dal male,
      chi ti rispetta
      e chi non ti dà valore.
      Senza stancarti mi rendi forte,
      mi insegni il coraggio,
      quante salite e discese abbiamo affrontato,
      hai conquistato la vittoria
      ne hai fatto un capolavoro.
      Sei come un libro, l’archivio infinito del passato
      solo tu dirai chi aveva ragione e chi torto,
      perché conosci i caratteri di ognuno,
      chi sono i furbi, chi trama alle tue spalle,
      chi cerca una scusa,
      pensando che tu non li conosci.
      Vorrei dirti ciò che non rende l’uomo
      un uomo
      finché si sta insieme tutto va bene,
      ti dice di essere il tuo compagno d’infanzia
      ma nel momento del bisogno ti tradisce.
      Ogni giorno che passa, gli errori dell’uomo sono sempre di più,
      lontani dalla Pace,
      presi da Satana,
      esseri umani che non provano pietà
      o un po’ di pena,
      perché rinnegano la Pace
      e hanno scelto il male.
      Si considerano superiori, fanno finta di non sentire,
      gli piace soltanto apparire agli occhi del mondo.
      Quando ti avvicini per chiedere aiuto
      non ottieni nulla da loro,
      non provano neanche un minimo dispiacere,
      però gente mia, miei fratelli,
      una sola cosa posso dirvi:
      nulla è irragiungibile,
      sia che si ha tanto o niente,
      tutto si può risolvere
      con la fede in Dio.
      Ciao, ciao
      Vittoria agli oppressi

    • Vidéo : des migrants échappent à l’enfer libyen en lançant un appel sur #WhatsApp

      Un groupe de migrants nigérians enfermés dans un centre de détention à #Zaouïa, en Libye, est parvenu à filmer une vidéo montrant leurs conditions de vie et appelant à l’aide leur gouvernement en juillet 2018. Envoyée à un ami sur WhatsApp, elle est devenue virale et a été transmise aux Observateurs de France 24. L’organisation internationale pour les migrations a ensuite pu organiser un vol pour les rapatrier au Nigéria. Aujourd’hui sains et saufs, ils racontent ce qu’ils ont vécu.


      http://observers.france24.com/fr/20180928-libye-nigeria-migrants-appel-whatsapp-secours-oim-video
      #réseaux_sociaux #téléphone_portable #smartphone

      Commentaire de Emmanuel Blanchard via la mailing-list Migreurop :

      Au-delà du caractère exceptionnel et « spectaculaire » de cette vidéo, l’article montre bien en creux que les Etats européens et l’#OIM cautionnent et financent de véritables #geôles, sinon des centre de tortures. Le #centre_de_détention #Al_Nasr n’est en effet pas une de ces prisons clandestines tenues par des trafiquant d’êtres humains. Si les institutions et le droit ont un sens en Libye, ce centre est en effet « chapeauté par le gouvernement d’entente nationale libyen – soutenu par l’Occident – via son service de combat contre l’immigration illégale (#DCIM) ». L’OIM y effectue d’ailleurs régulièrement des actions humanitaires et semble y organiser des opérations de retour, telles qu’elles sont préconisées par les Etats européens voulant rendre hermétiques leurs frontières sud.
      Quant au DCIM, je ne sais pas si son budget est précisément connu mais il ne serait pas étonnant qu’il soit abondé par des fonds (d’Etats) européens.

      #IOM

    • ’He died two times’: African migrants face death in Libyan detention centres

      Most of those held in indefinite detention were intercepted in the Mediterranean by EU-funded Libyan coastguard.

      Four young refugees have died in Libya’s Zintan migrant detention centre since mid-September, according to other detainees, who say extremely poor conditions, including a lack of food and medical treatment, led to the deaths.

      The fatalities included a 22-year-old Eritrean man, who died last weekend, according to two people who knew him.

      Most of the refugees detained in centres run by Libya’s #Department_for-Combatting_Illegal_Immigration (#DCIM) were returned to Libya by the EU-backed coastguard, after trying to reach Europe this year.

      The centre in #Zintan, 180 km southwest of Tripoli, was one of the locations the UN Refugee Agency (UNHCR) moved refugees and migrants to after clashes broke out in the capital in August. Nearly 1,400 refugees and migrants were being held there in mid-September, according to UNHCR.

      “At this detention centre, we are almost forgotten,” detainee there said on Wednesday.

      Other aid organisations, including Medecins Sans Frontieres (MSF), criticised the decision to move detainees out of Tripoli at the time.

      “Transferring detainees from one detention centre to another within the same conflict zone cannot be described as an evacuation and it is certainly not a solution,” MSF Libya head of mission Ibrahim Younis said. “The resources and mechanisms exist to bring these people to third countries where their claims for asylum or repatriation can be duly processed. That’s what needs to happen right now, without delay. This is about saving lives.”

      UNHCR couldn’t confirm the reports, but Special Envoy for the Central Mediterranean, Vincent Cochetel, said: “I am saddened by the news of the alleged death of migrants and refugees in detention. Renewed efforts must be made by the Libyan authorities to provide alternatives to detention, to ensure that people are not detained arbitrarily and benefit from the legal safeguards and standards of treatment contained in the Libyan legislation and relevant international instruments Libya is party to.”

      The International Organisation for Migration (IOM), which also works in Libya, did not respond to a request for confirmation or comment. DCIM was not reachable.

      Tens of thousands of refugees and migrants have been locked in indefinite detention by Libyan authorities since Italy and Libya entered into a deal in February 2017, aimed at stopping Africans from reaching Europe across the Mediterranean.

      People in the centres are consistently deprived of food and water, according to more than a dozen detainees in touch with The National from centres across Tripoli. One centre holding more than 200 people has gone the last eight days without food, according to a man being held there.

      Sanitation facilities are poor and severe overcrowding is common. Though the majority of detainees are teenagers or in their twenties, many suffer from ongoing health problems caused or exacerbated by the conditions.

      Aid agencies and researchers in Libya say the lack of a centralised registration system for detainees makes it impossible to track the number of deaths that are happening across “official” Libyan detention centres.

      Earlier this month, a man in his twenties died in Triq al Sikka detention centre in Tripoli, Libya, from an illness that was either caused or exacerbated by the harsh conditions in the centre, as well as a lack of medical attention, according to two fellow detainees.

      One detainee in Triq al Sikka told The National that six others have died there this year, two after being taken to hospital and the rest inside the centre. Four were Eritrean, and three, including a woman, were from Somalia.

      Another former detainee from the same centre told The National he believes the death toll is much higher than that. Earlier this year, the Eritrean man said he tried to tell a UNHCR staff member about the deaths through the bars of the cell he was being held in, but he wasn’t sure if she was listening. The National received no response after contacting the staff member he named.


      https://www.thenational.ae/world/mena/he-died-two-times-african-migrants-face-death-in-libyan-detention-centre

    • Migranti torturati, violentati e lasciati morire in un centro di detenzione della polizia in Libia, tre fermi a Messina

      A riconoscere e denunciare i carcerieri sono state alcune delle vittime, arrivate in Italia con la nave Alex di Mediterranea. Per la prima volta viene contestato il reato di tortura. Patronaggio: «Crimini contro l’umanità, agire a livello internazionale». Gli orrori a #Zawiya, in una struttura ufficiale gestita dalle forze dell’ordine di Tripoli

      https://www.repubblica.it/cronaca/2019/09/16/news/migranti_torture_sui_profughi_in_libia_tre_fermi_a_messina-236123857
      #crimes_contre_l'humanité #viols #justice

    • Torture, rape and murder: inside Tripoli’s refugee detention camps

      Europe poured in aid to help migrants in Libya – but for thousands, life is still hellish and many prefer to risk staying on the streets

      Men press anxious faces against the chicken-wire fence of Triq-al-Sikka migrant detention camp in downtown Tripoli as I enter. “Welcome to hell,” says a Moroccan man, without a smile.

      Triq-al-Sikka is home to 300 men penned into nightmare conditions. Several who are sick lie motionless on dirty mattresses in the yard, left to die or recover in their own time. Three of the six toilets are blocked with sewage, and for many detainees, escape is out of the question as they have no shoes.

      It wasn’t supposed to be this way. After reports of torture and abuse in detention centres, and wanting to stop the flow of people across the Mediterranean, the European Union has since 2016 poured more than £110m into improving conditions for migrants in Libya. But things are now worse than before.

      Among the inmates is Mohammed, from Ghana. In July, he survived an air strike on another centre, in Tajoura on the capital’s south-western outskirts, that killed 53 of his fellow migrants. After surviving on the streets, last month he got a place on a rickety smuggler boat heading for Europe. But it was intercepted by the coastguard. Mohammed fell into the sea and was brought back to this camp. His blue jumper is still stained by sea salt. He is desperate to get word to his wife. “The last time we spoke was the night I tried to cross the sea,” he says. “The soldiers took my money and phone. My wife does not know where I am, whether I am alive or dead.”

      Triq-al-Sikka’s conditions are harsh, but other centres are worse. Inmates tell of camps where militias storm in at night, dragging migrants away to be ransomed back to their families. Tens of thousands of migrants are spread across this city, many sleeping in the streets. Dozens bed down each night under the arches of the city centre’s freeway. Since April, in a sharp escalation of the civil war, eastern warlord Khalifa Haftar has been trying to batter his way into the city in fighting that has left more than 1,000 dead and left tens of thousands of citizens homeless.

      Libya has known nothing but chaos since the 2011 revolution that overthrew Muammar Gaddafi. In 2014, a multi-sided civil war broke out. Taking advantage of this chaos, smugglers transformed Libya into a hub for migrants from three continents trying to reach Europe. But after more than half a million arrivals, European governments have tightened the rules.

      This clampdown is obvious at the gates of a nondescript fenced compound holding white shipping containers in the city centre. It is the UN’s refugee Gathering and Departure Facility, nicknamed Hotel GDF by the migrants. From here, a select few who qualify for asylum get flights via Niger and Rwanda to Europe. But there are 45,000 registered migrants, and in the past year only 2,300 seats on flights for migrants – which have now stopped altogether, with Europe offering no more places. Yet dozens line up outside each day hoping for that magical plane ticket.

      Among those clustered at the fence is Nafisa Saed Musa, 44, who has been a refugee for more than half her life: In 2003, her village in Sudan’s Darfur region was burned down. Her husband and two of her three sons were killed and she fled. After years spent in a series of African refugee camps with her son Abdullah, 27, she joined last year with 14 other Sudanese families, pooling their money, and headed for Libya.

      In southern Libya, Abdullah was arrested by a militia who demanded 5,000 dinars (£2,700) to release him. It took two months to raise the cash, and Abdullah shows marks of torture inflicted on him, some with a branding iron, some with cigarettes. They all left a charity shelter after local residents complained about the presence of migrants, and now Nafisa and her son sleep on the street on dirty mattresses, scrounging cardboard to protect from the autumnal rains, across the street from Hotel GDF. “I have only one dream: a dignified life. I dream of Europe for my son.”

      Nearby is Namia, from Sudan, cradling her six-month-old baby daughter, clad in a pink and white babygrow. Her husband was kidnapped by a militia in February and never seen again and she makes frequent trips here asking the UN to look for him. “I hope he is in a detention centre, I hope he is alive.”

      Last week, 200 migrants, kicked out of a detention camp in the south of Tripoli, marched on Hotel GDF and forced their way inside, joining 800 already camped there, in a base designed to hold a maximum of 600.

      The UN High Commissioner for Refugees, which administers the centre, says it has no more flights, unless outside states offer asylum places: “We cannot reinforce the asylum systems there because it is a country at war,” says UNHCR official Filippo Grandi.

      Meanwhile, escape by sea is being closed off, thanks to a controversial deal Italy made with Libya two years ago, in which Rome has paid €90m to train the coastguard. The deal has drastically cut arrivals in Italy from 181,000 in 2016 to 9,300 so far this year, with the coastguard intercepting most smuggling craft and sending migrants on board to detention camps.

      “We have collected testimonies of torture, rape and murder in detention camps,” says Oxfam’s Paolo Pezzati. “The agreement the Italian government signed with Libya in February 2017 has allowed these untold violations.”

      Rome has faced criticism because among the coastguard leaders whose units it funds is Abd al-Rahman Milad, despite his being accused by the UN of being involved in sinking migrant boats and collaborating with people-smugglers. Tripoli says it issued an arrest warrant against him in April, but this is news to Milad. Bearded, well-built and uniformed, he tells me he is back at work and is innocent: “I have nothing to do with trafficking, I am one of the best coastguards in Libya.”

      For migrants and Libyans alike, the outside world’s attitude is a puzzle: it sends aid and scolds Libya for mistreatment, yet offers no way out for migrants. “You see [UN officials] on television, shouting that they no longer want to see people die at sea. I wonder what is the difference between seeing them dying in the sea and letting them die in the middle of a street?” says Libyan Red Crescent worker Assad al-Jafeer, who tours the streets offering aid to migrants. “The men risk being kidnapped and forced to fight by militias, the women risk being taken away and sexually abused.”

      Recent weeks have seen nightly bombing in an air war waged with drones. Women, fearing rape, often sleep on the streets close to police stations for safety, but this brings new danger. “They think 50 metres from a police base is close enough to protect themselves,” says al-Jafeer. “But they are the first targets to be bombed.”

      Interior ministry official Mabrouk Abdelahfid was appointed six months ago and tasked with closing or improving detention centres, but admits reform is slow. He says many camps are outside government control and that the UN has provided no alternative housing for migrants when camps close: “We have already closed three [detention] centres. We believe that in the nine centres under our formal control there are more or less 6,000 people.”

      A common theme among migrants here is a crushing sense of being unwanted and of no value, seen even by aid agencies as an inconvenience. For now, migrants can only endure, with no end in sight for the war. Haftar and Tripoli’s defenders continue slugging it out along a front line snaking through the southern suburbs and few diplomats expect a breakthrough at peace talks being hosted in Berlin later this month.

      Outside Hotel GDF, dusk signals the end of another day with no news of flights and the migrants trudge away to sleep on the streets. To the south, the flashes from the night’s bombardment light up the sky.

      https://www.theguardian.com/world/2019/nov/03/libya-migrants-tripoli-refugees-detention-camps?CMP=share_btn_tw

    • Torture nei campi di detenzione: le nuove immagini choc

      Donna appesa a testa in giù e presa a bastonate: le cronache dell’orrore dal lager di #Bani_Walid, in Libia. Sei morti in due mesi. Spuntano i nomi degli schiavisti: «Ci stuprano e ci uccidono»

      Una giovane eritrea appesa a testa in giù urla mentre viene bastonata ripetutamente nella «#black_room», la sala delle torture presente in molti centri libici per migranti. Il video choc - di cui riportiamo solo alcuni fermo immagine - è stato spedito via smartphone ai familiari della sventurata che devono trovare i soldi per riscattarla e salvarle la vita.
      È quello che accade a Bani Walid, centro di detenzione informale, in mano alle milizie libiche. Ma anche nei centri ufficiali di detenzione, dove i detenuti sono sotto la «protezione» delle autorità di Tripoli pagata dall’Ue e dall’Italia: la situazione sta precipitando con cibo scarso, nessuna assistenza medica, corruzione. In Libia l’Unhcr ha registrato 40mila rifugiati e richiedenti asilo, 6mila dei quali sono rinchiusi nel sistema formato dai 12 centri di detenzione ufficiali, il resto in centri come Bani Walid o in strada. In tutto, stima il «Global detention project», vi sarebbero 33 galere. Vi sono anche detenuti soprattutto africani non registrati la cui stima è impossibile.

      La vita della ragazza del Corno d’Africa appesa, lo abbiamo scritto sette giorni fa, vale 12.500 dollari. Ma nessuno interviene e continuano le cronache dell’orrore da Bani Walid, unanimente considerato il più crudele luogo di tortura della Libia. Un altro detenuto eritreo è morto qui negli ultimi giorni per le torture inferte con bastone, coltello e scariche elettriche perché non poteva pagare. In tutto fanno sei morti in due mesi. Stavolta non siamo riusciti a conoscere le sue generalità e a dargli almeno dignità nella morte. Quando si apre la connessione con l’inferno vicino a noi, arrivano sullo smartphone con il ronzio di un messaggio foto disumane e disperate richieste di aiuto, parole di angoscia e terrore che in Italia e nella Ue abbiamo ignorato girando la testa o incolpando addirittura le vittime.

      «Mangiamo un pane al giorno e uno alla sera, beviamo un bicchiere d’acqua sporca a testa. Non ci sono bagni», scrive uno di loro in un inglese stentato. «Fate in fretta, aiutateci, siamo allo stremo», prosegue. Il gruppo dei 66 prigionieri eritrei che da oltre due mesi è nelle mani dei trafficanti libici si è ridotto a 60 persone stipate nel gruppo di capannoni che formano il mega centro di detenzione in campagna nel quartiere di Tasni al Harbi, alla periferia della città della tribù dei Warfalla, situata nel distretto di Misurata, circa 150 chilometri a sud-est di Tripoli. Lager di proprietà dei trafficanti, inaccessibile all’Unhcr in un crocevia delle rotte migratorie da sud (Sebha) ed est (Kufra) per raggiungere la costa, dove quasi tutti i migranti in Libia si sono fermati e hanno pagato un riscatto per imbarcarsi. Lo conferma lo studio sulla politica economica dei centri di detenzione in Libia commissionato dall’Ue e condotto da «Global Initiative against transnational organized crime» con l’unico mezzo per ora disponibile, le testimonianze dei migranti arrivati in Europa.

      I sequestratori, ci hanno più volte confermato i rifugiati di Eritrea democratica contattati per primi dai connazionali prigionieri, li hanno comperati dal trafficante eritreo Abuselam «Ferensawi», il francese, uno dei maggiori mercanti di carne umana in Libia oggi sparito probabilmente in Qatar per godersi i proventi dei suoi crimini. Bani Walid, in base alle testimonianze raccolte anche dall’avvocato italiano stanziato a Londra Giulia Tranchina, è un grande serbatoio di carne umana proveniente da ogni parte dell’Africa, dove i prigionieri vengono separati per nazionalità. Il prezzo del riscatto varia per provenienza e sta salendo in vista del conflitto. Gli africani del Corno valgono di più per i trafficanti perché somali ed eritrei hanno spesso parenti in occidente che sentono molto i vincoli familiari e pagano. Tre mesi fa, i prigionieri eritrei valevano 10mila dollari, oggi 2.500 dollari in più perché alla borsa della morte la quotazione di chi fugge e viene catturato o di chi prolunga la permanenza per insolvenza e viene più volte rivenduto, sale. Il pagamento va effettuato via money transfer in Sudan o in Egitto.

      Dunque quello che accade in questo bazar di esseri umani è noto alle autorità libiche, ai governi europei e all’Unhcr. Ma nessuno può o vuole fare niente. Secondo le testimonianze di alcuni prigionieri addirittura i poliziotti libici in divisa entrano in alcune costruzioni a comprare detenuti africani per farli lavorare nei campi o nei cantieri come schiavi.
      «Le otto ragazze che sono con noi – prosegue il messaggio inviato dall’inferno da uno dei 60 prigionieri eritrei – vengono picchiate e violentate. Noi non usciamo per lavorare. I carcerieri sono tre e sono libici. Il capo si chiama Hamza, l’altro si chiama Ashetaol e del terzo conosciamo solo il soprannome: Satana». Da altre testimonianze risulta che il boia sia in realtà egiziano e abbia anche un altro nome, Abdellah. Avrebbe assassinato molti detenuti.

      Ma anche nei centri di detenzione pubblici in Libia, la situazione resta perlomeno difficile. Persino nel centro Gdf di Tripoli dell’Acnur per i migranti in fase di ricollocamento gestito dal Ministero dell’Interno libico e dal partner LibAid dove i migranti lasciati liberi da altri centri per le strade della capitale libica a dicembre hanno provato invano a chiedere cibo e rifugio. Il 31 dicembre l’Associated Press ha denunciato con un’inchiesta che almeno sette milioni di euro stanziati dall’Ue per la sicurezza, sono stati intascati dal capo di una milizia e vice direttore del dipartimento libico per il contrasto all’immigrazione. Si tratta di Mohammed Kachlaf, boss del famigerato Abd Al-Rahman Al-Milad detto Bija, che avrebbe accompagnato in Italia nel viaggio documentato da Nello Scavo su Avvenire. È finito sulla lista nera dei trafficanti del consiglio di sicurezza Onu che in effetti gli ha congelato i conti.

      Ma non è servito a nulla. L’agenzia ha scoperto che metà dei dipendenti di LibAid sono prestanome a libro paga delle milizie e dei 50 dinari (35 dollari) al giorno stanziati dall’Unhcr per forniture di cibo a ciascun migrante, ne venivano spesi solamente 2 dinari mentre i pasti cucinati venìvano redistribuiti tra le guardie o immessi nel mercato nero. Secondo l’inchiesta i danari inoltre venivano erogati a società di subappalto libiche gestite dai miliziani con conti correnti in Tunisia, dove venivano cambiati in valuta locale e riciclati. Una email interna dell’agenzia delle Nazioni Unite rivela come tutti ne fossero al corrente, ma non potessero intervenire. L’Acnur ha detto di aver eliminato dal primo gennaio il sistema dei subappalti.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/torture-libia