• Bulgaria : lottare per vivere, lottare per morire

    Di morti insepolti, notti insonni e domande che non avranno risposta

    “ГРАНИЦИТЕ УБИВАТ”, ovvero “I confini uccidono”. Questa scritta campeggia su delle vecchie cisterne arrugginite lungo la statale 79, la strada che collega Elhovo a Burgas, seguendo il confine bulgaro-turco fino al Mar Nero. L’abbiamo fatta noi del Collettivo Rotte Balcaniche (https://www.facebook.com/profile.php?id=100078755275162), rossa come il sangue che abbiamo visto scorrere in queste colline. Volevamo imprimere nello spazio fisico un ricordo di chi proprio tra questi boschi ha vissuto i suoi ultimi istanti, lasciare un segno perché la memoria avesse una dimensione materiale. Dall’altra parte, volevamo lanciare un monito, per parlare a chi continua a transitare su questa strada ignorandone la puzza di morte e a chi ne è direttamente responsabile, per dire “noi sappiamo e non dimenticheremo”. Ne è uscita una semplice scritta che forse in pochi noteranno. Racchiude le lacrime che accompagnano i ricordi e un urlo che monta dentro, l’amore e la rabbia.

    Dall’anno passato il confine bulgaro-turco è tornato ad essere la prima porta terrestre d’Europa. I dati diffusi dalla Polizia di frontiera bulgara contano infatti oltre 158 mila tentativi di ingresso illegale nel territorio impediti nei primi nove mesi del 2023, a fronte dei 115 mila nel corrispondente periodo del 2022, anno in cui le medesime statistiche erano già più che triplicate 1. Il movimento delle persone cambia a seconda delle politiche di confine, come un flusso d’acqua alla ricerca di un varco, così la totale militarizzazione del confine di terra greco-turco, che si snoda lungo il fiume Evros, ha spostato le rotte migratorie verso la più porosa frontiera bulgara. Dall’altro lato, la sempre più aggressiva politica di deportazioni di Erdogan – che ha già ricollocato con la forza 600 mila rifugiatə sirianə nel nord-ovest del paese, sotto il controllo turco, e promette di raggiungere presto la soglia del milione – costringe gli oltre tre milioni di sirianə che vivono in Turchia a muoversi verso luoghi più sicuri.

    Abbiamo iniziato a conoscere la violenza della polizia bulgara più di un anno fa, non nelle inchieste giornalistiche ma nei racconti delle persone migranti che incontravamo in Serbia, mentre ci occupavamo di distribuire cibo e docce calde a chi veniva picchiatə e respintə dalle guardie di frontiera ungheresi. Siamo un gruppo di persone solidali che dal 2018 ha cominciato a viaggiare lungo le rotte balcaniche per supportare attivamente lə migrantə in cammino, e da allora non ci siamo più fermatə. Anche se nel tempo siamo cresciutə, rimaniamo un collettivo autorganizzato senza nessun riconoscimento formale. Proprio per questo, abbiamo deciso di muoverci verso i contesti caratterizzati da maggior repressione, laddove i soggetti più istituzionali faticano a trovare agibilità e le pratiche di solidarietà assumono un valore conflittuale e politico. Uno dei nostri obiettivi è quello di essere l’anti-confine, costruendo vie sicure attraverso le frontiere, ferrovie sotterranee. Tuttavia, non avremmo mai pensato di diventare un “rescue team”, un equipaggio di terra, ovvero di occuparci di ricerca e soccorso delle persone disperse – vive e morte – nelle foreste della Bulgaria.

    La prima operazione di salvataggio in cui ci siamo imbattutə risale alle notte tra il 19 e il 20 luglio. Stavo per andare a dormire, verso l’una, quando sento insistentemente suonare il telefono del Collettivo – telefono attraverso cui gestiamo le richieste di aiuto delle persone che vivono nei campi rifugiati della regione meridionale della Bulgaria 2. Era M., un signore siriano residente nel campo di Harmanli, che avevo conosciuto pochi giorni prima. «C’è una donna incinta sulla strada 79, serve un’ambulanza». Con lei, le sue due bambine di tre e sei anni. Chiamiamo il 112, numero unico per le emergenze, dopo averla messa al corrente che probabilmente prima dell’ambulanza sarebbe arrivata la polizia, e non potevamo sapere cosa sarebbe successo. Dopo aver capito che il centralino ci stava mentendo, insinuando che le squadre di soccorso erano uscite senza aver trovato nessuno alle coordinate che avevamo segnalato, decidiamo di muoverci in prima persona. Da allora, si sono alternate settimane più e meno intense di uscite e ricerche. Abbiamo un database che raccoglie la quarantina di casi di cui ci siamo in diversi modi occupatə da fine luglio e metà ottobre: nomi, storie e foto che nessunə vorrebbe vedere. In questi mesi tre mesi si è sviluppata anche una rete di associazioni con cui collaboriamo nella gestione delle emergenze, che comprende in particolare #CRG (#Consolidated_Rescue_Group: https://www.facebook.com/C.R.G.2022), gruppo di volontariə sirianə che fa un incredibile lavoro di raccolta di segnalazioni di “distress” e “missing people” ai confini d’Europa, nonché di relazione con lə familiari.

    Ricostruire questo tipo di situazioni è sempre complicato: le informazioni sono frammentate, la cronologia degli eventi incerta, l’intervento delle autorità poco prevedibile. Spesso ci troviamo ad unire tessere di un puzzle che non combacia. Sono le persone migranti stesse a lanciare l’SOS, oppure, se non hanno un telefono o è scarico, le “guide” 3 che le accompagnano nel viaggio. Le richieste riportano i dati anagrafici, le coordinate, lo stato di salute della persona. Le famiglie contattano poi organizzazioni solidali come CRG, che tra lə migrantə sirianə è un riferimento fidato. L’unica cosa che noi possiamo fare – ma che nessun altro fa – è “metterci il corpo”, frapporci tra la polizia e le persone migranti. Il fatto che ci siano delle persone bianche ed europee nel luogo dell’emergenza obbliga i soccorsi ad arrivare, e scoraggia la polizia dal respingere e torturare. Infatti, è la gerarchia dei corpi che determina quanto una persona è “salvabile”, e le vite migranti valgono meno di zero. Nella notte del 5 agosto, mentre andavamo a recuperare il cadavere di H., siamo fermatə da un furgone scuro, senza insegne della polizia. È una pattuglia del corpo speciale dell’esercito che si occupa di cattura e respingimento. Gli diciamo la verità: stiamo andando a cercare un ragazzo morto nel bosco, abbiamo già avvisato il 112. Uno dei soldati vuole delle prove, gli mostriamo allora la foto scattata dai compagni di viaggio. Vedendo il cadavere, si mette a ridere, “it’s funny”, dice.

    Ogni strada è un vicolo cieco che conduce alla border police, che non ha nessun interesse a salvare le vite ma solo ad incriminare chi le salva. Dobbiamo chiamare subito il 112, accettando il rischio che la polizia possa arrivare prima di noi e respingere le persone in Turchia, lasciandole nude e ferite nel bosco di frontiera, per poi essere costrette a riprovare quel viaggio mortale o imprigionate e deportate in Siria? Oppure non chiamare il 112, perdendo così quel briciolo di possibilità che veramente un’ambulanza possa, prima o poi, arrivare e potenzialmente salvare una vita? Il momento dell’intervento mette ogni volta di fronte a domande impossibili, che rivelano l’asimmetria di potere tra noi e le autorità, di cui non riusciamo a prevedere le mosse. Alcuni cambiamenti, però, li abbiamo osservati con continuità anche nel comportamento della polizia. Se inizialmente le nostre azioni sono riuscite più volte ad evitare l’omissione di soccorso, salvando persone che altrimenti sarebbero state semplicemente lasciate morire, nell’ultimo mese le nostre ricerche sono andate quasi sempre a vuoto. Questo perché la polizia arriva alle coordinate prima di noi, anche quando non avvisiamo, o ci intercetta lungo la strada impedendoci di continuare. Probabilmente non sono fatalità ma stanno controllando i nostri movimenti, per provare a toglierci questo spazio di azione che ci illudevamo di aver conquistato.

    Tuttavia, sappiamo che i casi che abbiamo intercettato sono solo una parte del totale. Le segnalazioni che arrivano attraverso CRG riguardano quasi esclusivamente persone di origini siriane, mentre raramente abbiamo ricevuto richieste di altre nazionalità, che sappiamo però essere presenti. Inoltre, la dottoressa Mileva, capo di dipartimento dell’obitorio di Burgas, racconta che quasi ogni giorno arriva un cadavere, “la maggior parte sono pieni di vermi, alcuni sono stati mangiati da animali selvatici”. Non sanno più dove metterli, le celle frigorifere sono piene di corpi non identificati ma le famiglie non hanno la possibilità di venire in Bulgaria per avviare le pratiche di riconoscimento, rimpatrio e sepoltura. Infatti, è impossibile ottenere un visto per venire in Europa, nemmeno per riconoscere un figlio – e non ci si può muovere nemmeno da altri paesi europei se si è richiedenti asilo. In alternativa, servono i soldi per la delega ad unə avvocatə e per effettuare il test del DNA attraverso l’ambasciata. Le procedure burocratiche non conoscono pietà. Le politiche di confine agiscono tanto sul corpo vivo quanto su quello morto, quindi sulla possibilità di vivere il lutto, di avere semplicemente la certezza di aver perso una sorella, una madre, un fratello. Solo per sapere se piangere. Anche la morte è una conquista sociale.

    «Sono una sorella inquieta da 11 mesi. Non dormo più la notte e passo delle giornate tranquille solo grazie ai sedativi e alle pillole per la depressione. Ovunque abbia chiesto aiuto, sono rimasta senza risposte. Vi chiedo, se è possibile, di prendermi per mano, se c’è bisogno di denaro, sono pronta a indebitarmi per trovare mio fratello e salvare la mia vecchia madre da questa lenta morte». Così ci scrive S., dalla Svezia. Suo fratello aveva 30 anni, era scappato dall’Afghanistan dopo il ritorno dei Talebani, perché lavorava per l’esercito americano. Aveva lasciato la Turchia per dirigersi verso la Bulgaria il 21 settembre 2022, ma il 25 non era più stato in grado di continuare il cammino a causa dei dolori alle gambe. In un video, gli smuggler che guidavano il viaggio spiegano che lo avrebbero lasciato in un determinato punto, nei pressi della strada 79, e che dopo aver riposato si sarebbe dovuto consegnare alla polizia. Da allora di lui si sono perse le tracce. Non è stato ritrovato nella foresta, né nei campi rifugiati, né tra i corpi dell’obitorio. È come se fosse stato inghiottito dalla frontiera. S. ci invia i nomi, le foto e le date di scomparsa di altre 14 persone, quasi tutte afghane, scomparse l’anno scorso. Lei è in contatto con tutte le famiglie. Neanche noi abbiamo risposte: più la segnalazione è datata più è difficile poter fare qualcosa. Sappiamo che la cosa più probabile è che i corpi siano marciti nel sottobosco, ma cosa dire allə familiari che ancora conservano un’irrazionale speranza? Ormai si cammina sulle ossa di chi era venuto prima, e lì era rimasto.

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    1. РЕЗУЛТАТИ ОТ ДЕЙНОСТТА НА МВР ПРЕЗ 2022 г., Противодействие на миграционния натиск и граничен контрол (Risultati delle attività del Ministero dell’Interno nel 2022, Contrasto alla pressione migratoria e controllo delle frontiere), p. 14.
    2. Per quanto riguarda lə richiedenti asilo, il sistema di “accoglienza” bulgaro è gestito dall’agenzia governativa SAR, e si articola nei campi ROC (Registration and reception center) di Voenna Rampa (Sofia), Ovcha Kupel (Sofia), Vrajdebna (Sofia), Banya (Nova Zagora) e Harmanli, oltre al transit centre di Pastrogor (situato nel comune di Svilengrad), dove si effettuano proceduredi asilo accelerate. […] I centri di detenzione sono due: Busmantsi e Lyubimets. Per approfondire, è disponibile il report scritto dal Collettivo.
    3. Anche così sono chiamati gli smuggler che conducono le persone nel viaggio a piedi.

    https://www.meltingpot.org/2023/10/bulgaria-lottare-per-vivere-lottare-per-morire

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    • Bulgaria, lasciar morire è uccidere

      Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino: la cronaca di un’omissione di soccorso sulla frontiera bulgaro-turca


      I fatti si riferiscono alla notte tra il 19 e il 20 luglio 2023. Per tutelare le persone coinvolte, diffondiamo questo report dopo alcune settimane. Dopo questo primo intervento, come Collettivo Rotte Balcaniche continuiamo ad affrontare emergenze simili, agendo in prima persona nella ricerca e soccorso delle persone bloccate nei boschi lungo la frontiera bulgaro-turca.

      01.00 di notte, suona il telefono del Collettivo. “We got a pregnant woman on Route 79“, a contattarci è un residente nel campo di Harmanli, amico del marito della donna e da noi conosciuto qualche settimana prima. E’ assistito da un’interprete, anch’esso residente nel campo. Teme di essere accusato di smuggling, chiede se possiamo essere noi a chiamare un’ambulanza. La route 79 è una delle strade più pattugliate dalla border police, in quanto passaggio quasi obbligato per chi ha attraversato il confine turco e si muove verso Sofia. Con l’aiuto dell’interprete chiamiamo la donna: è all’ottavo mese di gravidanza e, con le due figlie piccole, sono sole nella jungle. Stremate, sono state lasciate vicino alla strada dal gruppo con cui stavano camminando, in attesa di soccorsi. Ci dà la sua localizzazione: 42.12.31.6N 27.00.20.9E. Le spieghiamo che il numero dell’ambulanza è lo stesso della polizia: c’è il rischio che venga respinta illegalmente in Turchia. Lei lo sa e ci chiede di farlo ugualmente.

      Ore 02.00, prima chiamata al 112. La registriamo, come tutte le successive. Non ci viene posta nessuna domanda sulle condizioni della donna o delle bambine, ma siamo tenuti 11 minuti al telefono per spiegare come siamo venuti in contatto con la donna, come ha attraversato il confine e da dove viene, chi siamo, cosa facciamo in Bulgaria. Sospettano un caso di trafficking e dobbiamo comunicare loro il numero dell’”intermediario” tra noi e lei. Ci sentiamo sotto interrogatorio. “In a couple of minutes our units are gonna be there to search the woman“, sono le 02.06. Ci rendiamo conto di non aver parlato con dei soccorritori, ma con dei poliziotti.

      Ore 03.21, è passata un’ora e tutto tace: richiamiamo il 112. Chiediamo se hanno chiamato la donna, ci rispondono: “we tried contacting but we can’t reach the phone number“. La donna ci dice che in realtà non l’hanno mai chiamata. Comunichiamo di nuovo la sua localizzazione: 42.12.37.6N 27.00.21.5E. Aggiungiamo che è molto vicino alla strada, ci rispondono: “not exactly, it’s more like inside of the woods“, “it’s exactly like near the border, and it’s inside of a wood region, it’s a forest, not a street“. Per fugare ogni dubbio, chiediamo: “do you confirm that the coordinates are near to route 79?“. Ci tengono in attesa, rispondono: “they are near a main road. Can’t exactly specify if it’s 79“. Diciamo che la donna è svenuta. “Can she dial us? Can she call so we can get a bit more information?“. Non capiamo di che ulteriori informazioni abbiano bisogno, siamo increduli: “She’s not conscious so I don’t think she’ll be able to make the call“. Suggeriscono allora che l’interprete si metta in contatto diretto con loro. Sospettiamo che vogliano tagliarci fuori. Sono passati 18 minuti, la chiamata è stata una farsa. Se prima temevamo le conseguenze dell’arrivo della polizia, ora abbiamo paura che non arrivi nessuno. Decidiamo di metterci in strada, ci aspetta 1h e 40 di viaggio.

      Ore 04.42, terza chiamata. Ci chiedono di nuovo tutte le informazioni, ancora una volta comunichiamo le coordinate gps. Diciamo che stiamo andando in loco ed incalziamo: “Are there any news on the research?“. “I can’t tell this“. Attraverso l’interprete rimaniamo in costante contatto con la donna. Conferma che non è arrivata alcuna searching unit. La farsa sta diventando una tragedia.

      Ore 06.18, quarta chiamata. Siamo sul posto e la strada è deserta. Vogliamo essere irreprensibili ed informarli che siamo arrivati. Ripetiamo per l’ennesima volta che chiamiamo per una donna incinta in gravi condizioni. Il dialogo è allucinante, ricominciano con le domande: “which month?“, “which baby is this? First? Second?“, “how old does she look like?“, “how do you know she’s there? she called you or what?“. Gli comunichiamo che stiamo per iniziare a cercarla, ci rispondono: “we are looking for her also“. Interveniamo: “Well, where are you because there is no one here, we are on the spot and there is no one“. Si giustificano: “you have new information because obviously she is not at the one coordinates you gave“, “the police went three times to the coordinates and they didn’t find the woman, the coordinates are wrong“. Ancora una volta, capiamo che stanno mentendo.

      Faremo una quinta chiamata alle 06.43, quando l’avremo già trovata. Ci richiederanno le coordinate e ci diranno di aspettarli lungo la strada.

      La nostra ricerca dura pochi minuti. La donna ci invia di nuovo la posizione: 42.12.36.3N 27.00.43.3E. Risulta essere a 500 metri dalle coordinate precedenti, ma ancor più vicina alla strada. Gridiamo “hello” e ci facciamo guidare dalle voci: la troviamo letteralmente a due metri dalla strada, su un leggero pendio, accasciata sotto un albero e le bambine al suo fianco. Vengono dalla Siria, le bambine hanno 4 e 7 anni. Lei è troppo debole per alzarsi. Abbiamo per loro sono dell’acqua e del pane. C’è lì anche un ragazzo, probabilmente minorenne, che le ha trovate ed è rimasto ad aiutarle. Lo avvertiamo che arriverà la polizia. Non vuole essere respinto in Turchia, riparte solo e senza zaino. Noi ci guardiamo attorno: la “foresta” si rivela essere una piccola striscia alberata di qualche metro, che separa la strada dai campi agricoli.

      Dopo poco passa una ronda della border police, si fermano e ci avvicinano con la mano sulla pistola. Non erano stati avvertiti: ci aggrediscono con mille domande senza interessarsi alla donna ed alle bambine. Ci prendono i telefoni, ci cancellano le foto fatte all’arrivo delle volanti. Decidiamo di chiamare un’avvocata locale nostra conoscente: lei ci risponde che nei boschi è normale che i soccorsi tardino e ci suggerisce di andarcene per lasciar lavorare la polizia. Nel frattempo arrivano anche la gendarmerie e la local police.

      Manca solo l’unica cosa necessaria e richiesta: l’ambulanza, che non arriverà mai.

      Ore 07.45, la polizia ci scorta nel paese più vicino – Sredets – dove ci ha assicurato esserci un ospedale. Cercano di dividere la donna e le bambine in auto diverse. Chiediamo di portarle noi tutte assieme in macchina. A Sredets, tuttavia, siamo condotti nella centrale della border police. Troviamo decine di guardie di frontiera vestite mimetiche, armate di mitraglie, che escono a turno su mezzi militari, due agenti olandesi di Frontex, un poliziotto bulgaro con la maglia del fascio littorio dei raduni di Predappio. Siamo relegati nel fondo di un corridoio, in piedi, circondati da cinque poliziotti. Il più giovane urla e ci dice che saremo trattenuti “perché stai facendo passare migranti clandestini“. Chiediamo acqua ed un bagno per la donna e le bambine, inizialmente ce li negano. Rimaniamo in attesa, ora ci dicono che non possono andare in ospedale in quanto senza documenti, sono in stato di arresto.

      Ore 09.00, arriva finalmente un medico: parla solamente in bulgaro, visita la donna in corridoio senza alcuna privacy, chiedendole di scoprire la pancia davanti ai 5 poliziotti. Chiamiamo ancora una volta l’avvocata, vogliamo chiedere che la donna sia portata in un ambulatorio e che abbia un interprete. Rimaniamo inascoltati. Dopo a malapena 5 minuti il medico conclude la sua visita, consigliando solamente di bere molta acqua.

      Ore 09.35, ci riportano i nostri documenti e ci invitano ad andarcene. E’ l’ultima volta che vediamo la donna e le bambine. Il telefono le viene sequestrato. Non viene loro permesso di fare la richiesta di asilo e vengono portate nel pre-removal detention centre di Lyubimets. Prima di condurci all’uscita, si presenta un tale ispettore Palov che ci chiede di firmare tre carte. Avrebbero giustificato le ore passate in centrale come conversazione avuta con l’ispettore, previa convocazione ufficiale. Rifiutiamo.

      Sulla via del ritorno ripercorriamo la Route 79, è estremamente pattugliata dalla polizia. Pensiamo alle tante persone che ogni notte muoiono senza nemmeno poter chiedere aiuto, oltre alle poche che lo chiedono invano. Lungo le frontiere di terra come di mare, l’omissione di soccorso è una precisa strategia delle autorità.

      L’indomani incontriamo l’amico del marito della donna. Sa che non potrà più fare qualcosa di simile: sarebbe accusato di smuggling e perderebbe ogni possibilità di ricostruirsi una vita in Europa. Invece noi, attivisti indipendenti, possiamo e dobbiamo continuare: abbiamo molto meno da perdere. Ci è chiara l’urgenza di agire in prima persona e disobbedire a chi uccide lasciando morire.

      Dopo 20 giorni dall’accaduto riusciamo ad incontrare la donna con le bambine, che sono state finalmente trasferite al campo aperto di Harmanli. Sono state trattenute quindi nel centro di detenzione di Lyubimets per ben 19 giorni. La donna ci riferisce che, durante la loro permanenza, non è mai stata portata in ospedale per eseguire accertamenti, necessari soprattutto per quanto riguarda la gravidanza; è stata solamente visitata dal medico del centro, una visita molto superficiale e frettolosa, molto simile a quella ricevuta alla stazione di polizia di Sredets. Ci dà inoltre il suo consenso alla pubblicazione di questo report.

      https://www.meltingpot.org/2023/08/bulgaria-lasciar-morire-e-uccidere

      #laisser_mourir

    • Bulgaria, per tutti i morti di frontiera

      Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino: un racconto di come i confini d’Europa uccidono nel silenzio e nell’indifferenza


      Da fine giugno il Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino è ripartito per un nuovo progetto di solidarietà attiva e monitoraggio verso la frontiera più esterna dell’Unione Europea, al confine tra Bulgaria e Turchia.
      Pubblichiamo il secondo report delle “operazioni di ricerca e soccorso” che il Collettivo sta portando avanti, in cui si racconta del ritrovamento del corpo senza vita di H., un uomo siriano che aveva deciso di sfidare la fortezza Europa. Come lui moltə altrə tentano il viaggio ogni giorno, e muoiono nelle foreste senza che nessuno lo sappia. Al Collettivo è sembrato importante diffondere questa storia perchè parla anche di tutte le altre storie che non potranno essere raccontate, affinché non rimangano seppellite nel silenzio dei confini.

      Ore 12, circa, al numero del collettivo viene segnalata la presenza del corpo di un ragazzo siriano di trent’anni, H., morto durante un tentativo di game in prossimità della route 79. Abbiamo il contatto di un fratello, che comunica con noi attraverso un cugino che fa da interprete. Chiedono aiuto nel gestire il recupero, il riconoscimento e il rimpatrio del corpo; ci mandano le coordinate e capiamo che il corpo si trova in mezzo ad un bosco ma vicino ad un sentiero: probabilmente i suoi compagni di viaggio lo hanno lasciato lì così che fosse facilmente raggiungibile. Nelle ore successive capiamo insieme come muoverci.

      Ore 15, un’associazione del territorio con cui collaboriamo chiama una prima volta il 112, il numero unico per le emergenze. Ci dice che il caso è stato preso in carico e che le autorità hanno iniziato le ricerche. Alla luce di altri episodi simili, decidiamo di non fidarci e iniziamo a pensare che potrebbe essere necessario metterci in viaggio.

      Ore 16.46, chiamiamo anche noi il 112, per mettere pressione ed assicurarci che effettivamente ci sia una squadra di ricerca in loco: decidiamo di dire all’operatore che c’è una persona in condizioni critiche persa nei boschi e diamo le coordinate precise. Come risposta ci chiede il nome e, prima ancora di informazioni sul suo stato di salute, la sua nazionalità. E’ zona di frontiera: probabilmente, la risposta a questa domanda è fondamentale per capire che priorità dare alla chiamata e chi allertare. Quando diciamo che è siriano, arriva in automatico la domanda: “How did he cross the border? Legally or illegally?“. Diciamo che non lo sappiamo, ribadiamo che H. ha bisogno di soccorso immediato, potrebbe essere morto. L’operatore accetta la nostra segnalazione e ci dice che polizia e assistenza medica sono state allertate. Chiediamo di poter avere aggiornamenti, ma non possono richiamarci. Richiameremo noi.

      Ore 17.54, richiamiamo. L’operatrice ci chiede se il gruppo di emergenza è arrivato in loco, probabilmente pensando che noi siamo insieme ad H. La informiamo che in realtà siamo a un’ora e mezzo di distanza, ma che ci possiamo muovere se necessario. Ci dice che la border police “was there” e che “everything will be okay if you called us“, ma non ha informazioni sulle sorti di H. Le chiediamo, sempre memori delle false informazioni degli altri casi, come può essere sicura che una pattuglia si sia recata in loco; solo a questo punto chiama la border police. “It was my mistake“, ci dice riprendendo la chiamata: gli agenti non lo hanno trovato, “but they are looking for him“. Alle nostre orecchie suona come una conferma del fatto che nessuna pattuglia sia uscita a cercarlo. L’operatrice chiude la chiamata con un: “If you can, go to this place, [to] this GPS coordinates, because they couldn’t find this person yet. If you have any information call us again“. Forti di questo via libera e incazzatə di dover supplire alle mancanze della polizia ci mettiamo in viaggio.

      Ore 18.30, partiamo, chiamando il 112 a intervalli regolari lungo la strada: emerge grande indifferenza, che diventa a tratti strafottenza rispetto alla nostra insistenza: “So what do you want now? We don’t give information, we have the signal, police is informed“. Diciamo che siamo per strada: “Okay“.

      Ore 20.24, parcheggiamo la macchina lungo una strada sterrata in mezzo al bosco. Iniziamo a camminare verso le coordinate mentre il sole dietro di noi inizia a tramontare. Richiamiamo il 112, informando del fatto che non vediamo pattuglie della polizia in giro, nonostante tutte le fantomatiche ricerche già partite. Ci viene risposto che la polizia è stata alle coordinate che noi abbiamo dato e non ha trovato nessuno; gli avvenimenti delle ore successive dimostreranno che questa informazione è falsa.

      “I talked with Border Police, today they have been in this place searching for this guy, they haven’t find anybody, so“

      “So? […] What are they going to do?“

      “What do you want from us [seccato]? They haven’t found anyone […]“

      “They can keep searching.”

      “[aggressivo] They haven’t found anybody on this place. What do you want from us? […] On this location there is no one. […] You give the location and there is no one on this location“.

      Ore 21.30, arriviamo alle coordinate attraverso un bosco segnato da zaini e bottiglie vuote che suggeriscono il passaggio di persone in game. Il corpo di H. è lì, non un metro più avanti, non uno più indietro. I suoi compagni di viaggio, nonostante la situazione di bisogno che la rotta impone, hanno avuto l’accortezza di lasciargli a fianco il suo zaino, il suo telefono e qualche farmaco. E’ evidente come nessuna pattuglia della polizia sia stata sul posto, probabilmente nessuna è neanche mai uscita dalla centrale. Ci siamo mosse insieme a una catena di bugie. Richiamiamo il 112 e l’operatrice allerta la border police. Questa volta, visto il tempo in cui rimaniamo in chiamata in attesa, parrebbe veramente.

      Ore 21.52, nessuno in vista. Richiamiamo insistendo per sapere dove sia l’unità di emergenza, dato che temiamo ancora una volta l’assoluto disinteresse di chi di dovere. Ci viene risposto: “Police crew is on another case, when they finish the case they will come to you. […] There is too many case for police, they have only few car“. Vista la quantità di posti di blocco e di automobili della polizia che abbiamo incrociato lungo la route 79 e i racconti dei suoi interventi continui, capillari e violenti in “protezione” dei confini orientali dell’UE, non ci pare proprio che la polizia non possegga mezzi. Evidentemente, di nuovo, è una questione di priorità dei casi e dei fini di questi: ci si muove per controllare e respingere, non per soccorrere. Insistiamo, ci chiedono informazioni su di noi e sulla macchina:

      “How many people are you?“

      “Three people“

      “Only women?”

      “Yes…”

      “Have patience and stay there, they will come“.

      Abbiamo la forte percezione che il fatto di essere solo ragazze velocizzerà l’intervento e che di certo nessuno si muoverà per H.: il pull factor per l’intervento della polizia siamo diventate noi, le fanciulle italiane in mezzo al bosco da salvare. Esplicitiamo tra di noi la necessità di mettere in chiaro, all’eventuale arrivo della polizia, che la priorità per noi è il recupero del corpo di H. Sentiamo anche lə compagnə che sono rimastə a casa: davanti all’ennesimo aggiornamento di stallo, in tre decidono di partire da Harmanli e di raggiungerci alle coordinate; per loro si prospetta un’ora e mezzo in furgone: lungo la strada, verranno fermati tre volte a posti di blocco, essendo i furgoni uno dei mezzi preferiti dagli smuggler per muovere le persone migranti verso Sofia.

      Ore 22, continuiamo con le chiamate di pressione al 112. E’ una donna a rispondere: la sua voce suona a tratti preoccupata. Anche nella violenza della situazione, registriamo come la socializzazione di genere sia determinante rispetto alla postura di cura. Si connette con la border police: “Police is coming to you in 5…2 minutes“, ci dice in un tentativo di rassicurarci. Purtroppo, sappiamo bene che le pratiche della polizia sono lontane da quelle di cura e non ci illudiamo: l’attesa continuerà. Come previsto, un’ora dopo non è ancora arrivato nessuno. All’ennesima chiamata, il centralinista ci chiede informazioni sulla morfologia del territorio intorno a noi. Questa richiesta conferma quello che ormai già sapevamo: la polizia, lì, non è mai arrivata.

      Ore 23.45, delle luci illuminano il campo in cui siamo sedute ormai da ore vicine al corpo di H. E’ una macchina della polizia di frontiera, con sopra una pattuglia mista di normal police e border police. Nessuna traccia di ambulanza, personale medico o polizia scientifica. Ci chiedono di mostrargli il corpo. Lo illuminano distrattamente, fanno qualche chiamata alla centrale e tornano a noi: ci chiedono come siamo venute a sapere del caso e perchè siamo lì. Gli ribadiamo che è stata un’operatrice del 112 a suggerici ciò: la cosa ci permette di giustificare la nostra presenza in zona di confine, a fianco ad un corpo senza vita ed evitare le accuse di smuggling.

      Ore 23.57, ci propongono di riaccompagnarci alla nostra macchina, neanche 10 minuti dopo essere arrivati. Noi chiediamo cosa ne sarà del corpo di H. e un agente ci risponde che arriverà un’unità di emergenza apposita. Esplicitiamo la nostra volontà di aspettarne l’arrivo, vogliamo tentare di ottenere il maggior numero di informazioni da comunicare alla famiglia e siamo preoccupate che, se noi lasciamo il campo, anche la pattuglia abbandonerà il corpo. Straniti, e forse impreparati alla nostra presenza e insistenza, provano a convincerci ad andare, illustrando una serie farsesca di pericoli che vanno dal fatto che sia zona di frontiera interdetta alla presenza di pericolosi migranti e calabroni giganti. Di base, recepiamo che non hanno una motivazioni valida per impedirci di rimanere.

      Quando il gruppo di Harmanli arriva vicino a noi, la polizia li sente arrivare prima di vederli e pensa che siano un gruppo di migranti; a questo stimolo, risponde con la prontezza che non ha mai dimostrato rispetto alle nostre sollecitazioni. Scatta verso di loro con la mano a pistola e manganello e le torce puntate verso il bosco. Li trova, ma il loro colore della pelle è nello spettro della legittimità. Va tutto bene, possono arrivare da noi. Della pattuglia di sei poliziotti, tre vanno via in macchina, tre si fermano effettivamente per la notte; ci chiediamo se sarebbe andata allo stesso modo se noi con i nostri occhi bianchi ed europei non fossimo stati presenti. Lo stallo continua, sostanzialmente, fino a mattina: la situazione è surreale, con noi sdraiati a pochi metri dalla polizia e dal corpo di H. L’immagine che ne esce parla di negligenza delle istituzioni, della gerarchia di vite che il confine crea e dell’abbandono sistematico dei corpi che vi si muovono intorno, se non per un loro possibile respingimento.

      Ore 8 di mattina, l’indifferenza continua anche quando arriva la scientifica, che si muove sbrigativa e sommaria intorno al corpo di H., vestendo jeans e scattando qualche fotografia simbolica. Il tutto non dura più di 30 minuti, alla fine dei quali il corpo parte nella macchina della border police, senza comunicazione alcuna sulla sua direzione e sulle sue sorti. Dopo la solita strategia di insistenza, riusciamo ad apprendere che verrà portato all’obitorio di Burgas, ma non hanno nulla da dirci su quello che avverrà dopo: l’ipotesi di un rimpatrio della salma o di un possibile funerale pare non sfiorare nemmeno i loro pensieri. Scopriremo solo in seguito, durante una c​hiamata con la famiglia, che H., nella migliore delle ipotesi, verrà seppellito in Bulgaria, solo grazie alla presenza sul territorio bulgaro di un parente di sangue, da poco deportato dalla Germania secondo le direttive di Dublino, che ha potuto riconoscere ufficialmente il corpo. Si rende palese, ancora una volta, l’indifferenza delle autorità nei confronti di H., un corpo ritenuto illegittimo che non merita nemmeno una sepoltura. La morte è normalizzata in questi spazi di confine e l’indifferenza sistemica diventa un’arma, al pari della violenza sui corpi e dei respingimenti, per definire chi ha diritto a una vita degna, o semplicemente a una vita.

      https://www.meltingpot.org/2023/08/bulgaria-per-tutti-i-morti-di-frontiera

  • #Pantelleria, arrivati più di 150 migranti nelle ultime 24 ore

    Sono 161 i migranti sbarcati o soccorsi in mare nelle ultime 24 ore al largo di Pantelleria. Quasi tutti tunisini, tra loro una decina di donne, e 35 minori, dei quali 27 non accompagnati. A intervenire sono state le unità della guardia costiera.

    L’ultimo soccorso in mare stamattina, a bordo di una unità in difficoltà c’erano 13 uomini, 3 minori e una donna. Si tratta di sbarchi e viaggi autonomi, non ci sono scafisti, persone che lasciano la Tunisia a bordo di mezzi di fortuna, gommoni o barche, in un caso addirittura in mare è stato soccorso un migrante che navigava in solitaria su di un barchino. Trattenuti nel centro di accoglienza dell’Isola, gli ultimi sbarcati nelle prossime 48 ore verranno trasferiti, con il traghetto di linea, al centro di identificazione di contrada Milo a Trapani.

    Nell’ultimo anno, durante tutto il 2022, a Pantelleria il numero dIe migranti giunti sull’isola ha superato quota 6 mila.

    Intanto domani una imbarcazione Ong dovrebbe giungere in porto a Trapani con a bordo 78 migranti soccorsi nel Mediterraneo. Si attende l’ufficialità dal Viminale.

    Frattanto si è tenuta stamane dinanzi al gup del Tribunale di Trapani, giudice Samuele Corso, l’ulteriore udienza del procedimento relativo all’indagine sui cosiddetti “taxi del mare”. Si tratta dell’inchiesta che nel 2017 portò la magistratura trapanese a sequestrare la nave Juventa della Ong tedesca Jugend Rettet. L’udienza preliminare ha come imputati 21 persone, componenti di equipaggi di altre due Ong, Medici Senza Frontiere e Save the Children. Nell’udienza di oggi le difese hanno proseguito a proporre al giudice eccezioni preliminari, le ultime odierne hanno riguardato la richiesta di nullità dell’avviso conclusione indagini, in quanto la discovery degli atti all’epoca depositati avrebbe mostrato l’assenza di documenti giudiziari e prodotti successivamente. Il prossimo 14 aprile toccherà ai pm Agnello, Mucaria e Sardoni, replicare a queste eccezioni.

    L’udienza preliminare va avanti da oltre un anno, mentre si attende il responso della Cassazione sulla competenza territoriale del Tribunale di Trapani. Il giudice Corso infatti alla precedente udienza ha deciso di trasmettere gli atti alla massima Corte, questo dopo altre eccezioni delle difese. Se venisse accolta una parte del procedimento verrebbe trasmesso non ad uno ma a diversi Tribunali coincidenti con i porti dove sono stati sbarcati i migranti soccorsi da queste tre Ong nel periodo compreso tra il 2016 e il 2017.

    https://livesicilia.it/pantelleria-arrivati-piu-di-150-migranti-nelle-ultime-24-ore
    #île #Italie #routes_migratoires #asile #migrations #réfugiés #Méditerranée #île_de_Pantelleria

  • Calabria, la seconda porta per l’Italia

    La rotta migratoria che dalla Turchia porta alle coste calabresi è in continuo aumento, anche prima della strage di Steccato di Cutro. Cronache dal futuro hotspot di Roccella Jonica

    Il naufragio avvenuto la notte fra sabato 25 e domenica 26 febbraio a 200 metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone, ha messo sotto i riflettori una rotta migratoria finora praticamente ignorata dall’opinione pubblica. Eppure la Calabria è il secondo approdo in Italia, dopo l’isola di Lampedusa. Dalla Turchia alla Calabria, la traversata dura dai cinque ai sette giorni di navigazione, il doppio di quella che dal Nord Africa porta alla Sicilia. Il tratto in mare è solo l’ultima estenuante parte di un viaggio che per migliaia di persone è iniziato mesi prima.

    Sulle spiagge calabresi sono arrivati migranti dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iran, dal Pakistan e dall’Armenia: persone il più delle volte in fuga da una parte di pianeta in guerra da decenni. Sono anche arrivati cittadini ucraini, turchi, russi, egiziani, migranti a loro volta spesso coinvolti dai trafficanti nel trasporto degli altri profughi dalle coste meridionali della Turchia, trampolino di un continuo flusso di esseri umani a questa seconda porta d’ingresso in Italia.

    L’inchiesta in breve

    - Per i migranti, la Calabria è la seconda porta d’accesso all’Italia. Nel 2022 gli arrivi sono stati più di 18mila, contro i 10mila del 2021. Anche prima della strage di Steccato di Cutro, la rotta dalla Turchia alla Calabria destava preoccupazioni: è molto più lunga e meno sorvegliata del triangolo tra Libia, Tunisia e Sicilia.
    - Il Governo Meloni ha dichiarato guerra agli “scafisti” ma in realtà già oggi tanti timonieri delle barche finiscono in carcere. Solo nel 2022 sono stati 61, secondo i dati del Tribunale di Locri. Su 29 procedimenti penali per traffico di esseri umani, il 65% è già a sentenza.
    - Ma gli scafisti non sono i trafficanti, per quanto il governo mescoli le responsabilità. E ci sarà mercato finché esisterà la domanda di oltrepassare i confini senza documenti. La rotta dalla Turchia alla Calabria, infatti, ha incrementato le partenze dopo che si sono ridotte le partenze verso la Grecia.
    – L’avamposto dell’accoglienza calabrese è Roccella Jonica, principale destinazione di chi sbarca in Calabria. L’arrivo di persone in stato di necessità è continuo, ma la struttura di prima accoglienza non è adeguata ai numeri.

    Secondo i dati elaborati da Pagella Politica (https://pagellapolitica.it/articoli/dove-sbarcano-migranti-italia), nel 2022 in Calabria ci sono stati in tutto 18.092 sbarchi (tra autonomi, ovvero senza che le imbarcazioni di migranti siano state intercettate da altre navi, attraverso l’intervento della Guardia costiera o con l’aiuto delle ong), mentre in Sicilia, l’ingresso principale all’Europa, sono stati 78.586. Il tasso di crescita in Calabria è molto significativo, visto che nel 2021 gli approdi sono stati pochi più di 10 mila.

    Dal primo sbarco nella Locride alla fine degli anni ‘90 a oggi, quasi niente in questo viaggio è cambiato. Medesima la rotta che collega le province sud orientali della Turchia a quelle della Calabria ionica così come identiche, ed estenuanti, continuano ad essere le modalità di questa traversata. Anche la zona di sbarco individuata dai trafficanti resta incatenata ai soliti posti: pochi chilometri di costa compresi tra Cirò e Le Castella e tra Monasterace e Palizzi, estremo pezzo meridionale delle province di Crotone e Reggio Calabria. Si tratta di un fenomeno radicato nel tempo, ma ogni anno affrontato dalle istituzioni alla stregua di una nuova emergenza in termini di sicurezza.

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    All’inizio fu #Riace

    Il primo luglio del 1998, un tecnico di laboratorio percorre in auto la strada che di solito dalla scuola in cui lavora lo riporta a casa. Solo all’apparenza si avvia un pomeriggio qualunque di un giorno qualsiasi della sua vita. A un certo punto della strada però vede qualcosa di inconsueto. Sulla spiaggia vicina a quella che 25 anni prima aveva restituito i famosi Bronzi, è approdato dalle coste turche un barcone carico di profughi curdi. Questo è l’inizio di una storia che conoscono tutti: quella di Mimmo Lucano e dell’accoglienza di Riace. Il borgo è uno dei tanti “paesi sdoppiati” della Ionica in cui il centro storico va verso lo spopolamento, mentre la vita si riorganizza a valle, lungo la costa. Le case vuote per ospitare i migranti non mancano. Lucano inizia poi a studiare alcune pratiche di accoglienza attuate in un altro Comune “sdoppiato”, Badolato. Da questo incontro nasce un percorso politico che lo porta a diventare sindaco nel 2004.

    Per Riace, ottiene fondi regionali per la ristrutturazione delle case dismesse nel borgo e fornisce accoglienza e ospitalità ai rifugiati e ai richiedenti asilo che lavorano nel Comune attraverso laboratori artigiani e, nell’attesa dell’erogazione dei fondi, spendono per le proprie necessità una moneta locale creata ad hoc. Rieletto per un secondo mandato nel 2009, Lucano diventa sempre più conosciuto fino a quando, nel 2016, la rivista americana Fortune lo inserisce al quarantesimo posto fra i 50 leader più influenti al mondo. Nell’ottobre del 2017, però, la Procura di Locri lo iscrive nel registro degli indagati per truffa, abuso d’ufficio e peculato proprio nell’ambito della gestione del sistema d’accoglienza di Riace. Sostenuto da manifestazioni di solidarietà in tutta Italia, Lucano sarà comunque messo agli arresti domiciliari, sospeso dal ruolo di sindaco e subirà anche il divieto di dimora a Riace. Il 30 settembre 2021 il Tribunale di Locri lo condanna a 13 anni e 4 mesi di reclusione, praticamente raddoppiando le richieste del pubblico ministero e nel 2022 si apre il processo d’Appello a Reggio Calabria, con la procura generale che il 26 ottobre chiede 10 anni e 3 mesi per Lucano.

    Qualunque sarà il suo verdetto finale, questo è comunque un processo giudiziario che porta con sé effetti incontrovertibili. Oggi a Riace arrivano alla spicciolata richiedenti asilo e rifugiati per i quali è scaduto il tempo di permanenza nelle strutture “ufficiali”. Cercano diritti basilari, soprattutto quello all’assistenza sanitaria. Per loro la destinazione è l’ambulatorio Jimuel, fondato nel 2017 dal medico anestesista Isidoro Napoli, per tutti Sisi. Insieme a lui una ventina di medici volontari, fra cui una cardiologa, due ginecologhe, un pediatra, un ecografista e diversi radiologi, presta la propria opera gratuita a chiunque ne abbia bisogno.

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    L’emergenza è in mare

    Le barche che ingrossano la rotta turca sono nella maggioranza dei casi velieri monoalbero in vetroresina, rubati nei porti dell’Anatolia e poi guidati a motore. In condizioni ottimali potrebbero trasportare in sicurezza al massimo una ventina di persone e possono essere guidati per piccoli tragitti turistici anche senza disporre di una grossa esperienza nautica. Viaggiano invece per notti e giorni senza sosta, in media con dieci volte il carico di persone consentito, e non solo non possono contare su sufficienti presidi di salvataggio, ma spesso i migranti non sanno nemmeno nuotare.

    L’emergenza c’è insomma, ma è in mare, ed è di natura umanitaria. È difficile stabilire quanti eventi di naufragio siano avvenuti nei decenni di navigazione al largo delle coste italiane, anche perché sullo specchio d’acqua che fa da scenario a questo evento mancano le ong, a differenza della rotta dalla Libia alla Sicilia. La prima strage di cui si ha conoscenza risale al 2007, quando annegarono in sette a largo di Roccella Jonica, ma tragedie meno eclatanti per il numero di persone coinvolte sono purtroppo frequenti.

    Mohamed Nasim è afghano ed è approdato vicino Crotone a metà giugno, in una giornata di mare calmo. Era fra i pochi a parlare inglese, perciò alla mediatrice culturale e al personale della Guardia di finanza che l’hanno interrogato e verbalizzato ha ricostruito al dettaglio le tappe del suo viaggio. Racconta di essere partito dal suo Paese per l’Iran, dove è rimasto tre mesi, per poi raggiungere Istanbul, dove è rimasto circa nove mesi. Per organizzare il viaggio ha ricevuto i contatti necessari da altri connazionali già arrivati in Europa. Ha avuto un numero di telefono che ha contattato, poi ha versato circa 10 mila euro da un conto corrente iraniano a un altro. Racconta che tramite sua madre i soldi sono stati spostati sul conto corrente di un “garante terzo” in Turchia, il quale liquiderà i trafficanti solo dopo il suo arrivo in Italia, elemento che differisce da quanto accade lungo la rotta del Mediterraneo Centrale. Alla domanda sul come siano stati avvertiti del suo arrivo risponde: «Loro lo sanno».

    Racconta di essere partito da Bodrum, l’antica Alicarnasso. Nell’antichità era sede della tomba di Mausolo, una delle sette meraviglie del mondo, oggi è un porto turistico frequentato dalla borghesia turca. Dell’organizzazione ricorda «un uomo grande e grosso» che ha requisito i cellulari e distrutto le Sim card, minacciando che altrimenti sarebbero stati scoperti dalle polizie europee. Prima di andarsene, ha ordinato a tutti di restare sottocoperta e di muoversi il meno possibile per evitare di ribaltarsi. Le stanze erano tre, ognuna delle quali con venti persone. Per i primi tre giorni, i migranti non hanno potuto mangiare. Qualunque imbarcazione in quelle condizioni, è da considerare a rischio naufragio. A dirlo è la logica prima che i regolamenti internazionali. Ed è la regola, lungo la rotta dalla Turchia alla Calabria.
    Scafisti VS trafficanti

    Dalla politica da anni viene riproposta una soluzione che finora non ha risolto nulla: la caccia allo scafista. La parola indica chi guida le imbarcazioni, ritenuti parte dell’organizzazione criminale anche quando si tratta di un migrante che ha accettato il compito solo per pagare di meno. Durante il Consiglio dei ministri organizzato a Cutro il 9 marzo, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha annunciato il decreto legge per «sconfiggere la tratta di esseri umani responsabile di questa tragedia». Per gli scafisti, il decreto introduce il reato di «morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina», con pene dai dieci ai 30 anni. «Il reato – ha aggiunto la presidente del Consiglio in conferenza stampa – verrà perseguito dall’Italia anche se commesso fuori dai confini nazionali».

    Nelle parole della prima ministra non c’è distinzione tra trafficanti, cioè coloro che organizzano le traversate, e scafisti; né tra tratta di persone, reato previsto per chi forza o induce una persona a entrare in Italia illegalmente per sfruttarla, e traffico di esseri umani, che invece riguarda l’organizzazione dell’ingresso in Italia di persone prive di documenti. Per quest’ultima fattispecie, le pene per lo scafista sono già inquadrate dall’articolo 12 del Testo Unico Immigrazione. E già oggi nelle carceri di Locri e di Reggio Calabria sono diversi i detenuti, alcuni già condannati, per questo reato, circostanza che però non ha interrotto le partenze.

    I presunti scafisti sono giovani, quasi tutti sotto i 30 anni. Al 29 di novembre del 2022, al Tribunale di Locri, competente per territorio nella zona con il maggior numero degli approdi di questa rotta, risultano 29 procedimenti penali svolti nel corso dell’anno con l’accusa di traffico di esseri umani. Di questi procedimenti, oltre il 65% è arrivato a sentenza con giudizio immediato, direttissimo o abbreviato e solo il 31% risulta in fase di indagini preliminari.

    Dal 2009, le aggravanti previste per gli scafisti sono severe e di immediata verifica, come il favoreggiamento qualificato che scatta se le persone introdotte illegalmente in Italia grazie alla condotta dell’imputato siano più di cinque persone, e fanno sì che le pene e le multe comminate siano davvero significative: nei casi più estremi si arriva fino a 15 anni di carcere e un milione di euro di sanzione.

    Secondo i dati della Procura le persone fermate o arrestate con questa accusa nella Locride sono in totale 61 nel 2022. La loro provenienza nel 2022 – a causa anche della guerra in Ucraina – è molto cambiata rispetto agli anni scorsi: vengono soprattutto dalla Turchia (34%) e dall’Egitto (21%), mentre in passato la nazionalità più frequente era ucraina. Nonostante i tentativi di coinvolgere le Direzioni distrettuali antimafia allo scopo di allargare le indagini e individuare i vertici delle organizzazioni, finora i risultati sono stati pochi.

    Come è cambiata la migrazione dalla Turchia verso i Paesi europei

    L’incremento delle partenze dalla Turchia si può spiegare per un concatenarsi di diversi fattori, spiega Luigi Achilli, ricercatore che insegna all’istituto universitario europeo (Eui) di Firenze che in questi anni ha lavorato sulla comparazione tra i traffici lungo il confine USA-Messico e lungo le rotte del Mediterraneo. «È come quando tappi una falla e l’acqua sgorga più forte da un’altra parte – spiega -. Negli scorsi anni, soprattutto quelli successivi alle crisi siriane, molti sono rimasti bloccati in Turchia e così ha ripreso vigore soprattutto la rotta del Mediterraneo centrale. Però in Libia le dinamiche sono cambiate e il business della migrazione si è trasformato in un business della detenzione». E la Libia è diventata un nuovo tappo.

    Invece oggi in Turchia i controlli delle autorità di frontiera sono meno severi, soprattutto a seguito del terremoto dello scorso 6 febbraio, che ha provocato la morte di almeno 49 mila persone. Non ci sono grossi gruppi criminali, ma piccole organizzazioni che agiscono con il sostegno almeno di alcune autorità locali.

    Nel 2016, l’Unione europea ha stretto un accordo con la Turchia affinché bloccasse i migranti sul proprio territorio, impedendo loro di prendere il mare. Finora la Grecia è stata nettamente la meta principale. Per ogni richiedente asilo respinto in Turchia dalle isole greche, l’accordo prevede anche che i Paesi europei avrebbero preso un richiedente asilo residente in Turchia. L’accordo ha portato fino al 2020 sei miliardi di euro nelle casse turche, a cui si è aggiunta la promessa di altri tre miliardi nel triennio 2021-2023. Evidentemente in questo momento è sufficiente per sigillare la rotta verso la Grecia, ma non verso l’Italia.

    «Per le organizzazioni criminali – aggiunge Achilli – questo significa puntare sul viaggio che dalle coste sud orientali della Turchia arriva in Italia bypassando la Grecia, trovando qualcuno disposto a guidare le barche».
    La guerra senza quartiere agli scafisti difficilmente sarà un deterrente per le partenze: «I trafficanti esistono e continueranno a esistere finché ci sarà criminalizzazione dell’immigrazione – continua Achilli -. Per la mia esperienza non bisogna guardare a sistemi verticistici e a grosse organizzazioni internazionali, ma a piccoli gruppi locali spesso composti a loro volta da migranti». Per quanto possano girare molti soldi in queste attività, invece che concentrarsi in organizzazioni verticistiche, si perdono in mille rivoli. «Per la criminalità organizzata – conclude – resta più conveniente il viaggio di una barca piena di cocaina invece che di persone povere».

    Il centro nevralgico della prima accoglienza calabrese

    Il centro nevralgico dei soccorsi e della prima accoglienza in Calabria è il Porto turistico delle Grazie di Roccella Jonica, in provincia di Reggio Calabria. Qui i 1.200 migranti arrivati nel 2020 sono diventati più di cinquemila nel 2021. Numeri già superati nei soli primi sei mesi del 2022 e in crescita esponenziale dalla seconda metà di agosto in poi, quando in questa struttura di prima accoglienza hanno cominciato a susseguirsi arrivi con un media registrata, nel periodo di punta fra il 18 agosto e il 22 settembre, di 50 persone ogni 24 ore. Il bilancio finale nel 2022 di Roccella Jonica si è attestato su 86 eventi di sbarco e 6.994 persone accolte. Se si tiene conto dei circa 20 sbarchi autonomi registrati, per la Questura si tratta di circa novemila persone arrivate in un anno in un paese che conta soli seimila abitanti.

    L’attività di questo centro è stata avviata dalla prefettura di Reggio Calabria il 25 ottobre del 2021 e si avvale della presenza di diversi enti, istituzioni, organizzazioni e realtà associative. Innanzitutto, la Croce Rossa Italiana con il Comitato Riviera dei Gelsomini, che ha allestito una tensostruttura che può ospitare circa 150 persone e che impiega giornalmente dodici fra operatori e volontari. Si occupano della distribuzione di generi di prima necessità e di conforto al momento dell’arrivo al porto delle persone migranti, alla distribuzione dei kit igiene e vestiario forniti dalla Prefettura e a tutte le attività di supporto per gli accolti fino al loro successivo trasferimento in altre strutture.

    Tutti i giorni è presente anche il personale di Medici Senza Frontiere, ong che opera un’equipe composta da un medico, un infermiere e due mediatori culturali. È anche presente personale dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (UNHCR) e sono operative anche due unità Save The Children con compiti di supporto psicosociale, di informativa legale e ascolto. Sono presenti anche due professionisti dell’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (EUAA, la vecchia EASO, ndr) con il compito di supporto nell’attività di informativa sull’asilo. Per quanto riguarda la sicurezza, le forze dell’ordine assicurano un presidio interforze h24 con tre equipaggi e, infine, con un team di undici unità, c’è anche Frontex, l’agenzia europea per il pattugliamento dei confini, a cui spetta il compito di intervistare i migranti, scambiare informazioni con le forze di polizia ed essere di supporto alla Polizia scientifica. Sono loro, con le difficoltà dettate dalla delicatezza dell’intervento e dalla scarsità di risorse a disposizione, a presidiare questa scalcinata porta d’Europa.

    La giornata tipo al Porto delle Grazie inizia molto presto. Il primo approdo annunciato conta una cinquantina di persone da accogliere. Pochi uomini, di più le donne e tanti bambini, alcuni davvero piccolissimi. Una motovedetta della Guardia di finanza li ha intercettati a bordo di un’imbarcazione alla deriva subito dopo il sorgere del sole, a largo di Riace e appena dentro il limite delle acque territoriali. Li scorta in modo lento e vigile lungo la linea della costa, davanti a turisti e bagnanti che hanno imparato a considerare la scena come parte del paesaggio. Intanto al porto si mette in moto il meccanismo per l’accoglienza che, anche se ormai rodato, comporta sempre qualche nervosismo.

    Le forze dell’ordine pattugliano entrambi i lati dello spazio adibito alla prima accoglienza. Lo spazio è off-limits per i giornalisti, ma sulle sue criticità si esprime chiara una relazione ispettiva del Siulp (Sindacato italiano unitario lavoratori polizia) di Reggio Calabria datata 5 luglio 2022. Un documento che parla di clima «assolutamente invivibile durante il periodo estivo, tanto da costringere i migranti a trascorrere la notte all’esterno», in una piccola pineta «attigua alle ridicole mura perimetrali, assolutamente inefficaci ed inefficienti, che favoriscono l’allontanamento arbitrario degli ospiti».

    Il rapporto, corredato di foto, mette in fila le numerose falle rilevate dal sindacato di polizia all’interno della tensostruttura e racconta anche di un tentativo di fuga di massa esacerbato dalle condizioni di invivibilità. «Esasperazione determinata da attese snervanti, da caldo asfissiante e dai ritardi alle operazioni di identificazione a loro volta alimentate dalla farraginosa difficoltà di reperire mediatori culturali. Mediatori che vedono un contratto rinnovato, ma non perfezionato dalla Corte dei conti con parallelo devastante effetto nelle realtà periferiche: costringere i locali utilizzatori di quel servizio – ufficio immigrazioni – a reperire volta per volta, in occasione di sbarchi, interpreti di varie lingue e dialetti e richiedere le necessarie autorizzazioni preventive in Prefettura per “contratti occasionali” di lavoro».

    Secondo il Siulp di Reggio Calabria, impattanti sulla normale regolarità del servizio sono anche i miasmi causati dal mancato adeguamento fognario: vengono anche segnalate e puntualmente fotografate buche scavate con le mani per tentativi di fuga favorite dalla scarsa illuminazione, tutto in una forbice tra personale operante e ospiti migranti che si presenta troppo larga, con gli operatori della Polizia di stato e dei Carabinieri (uno ogni circa 15 ospiti, secondo il rapporto) «sottoposti a condizioni di lavoro disumane e indegne, con i colleghi costretti ad una esposizione continua al sole anche per più di 12 ore al giorno».

    Negli ultimi mesi si accoda la serie di operazioni ispettive intraprese dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Il lavoro di monitoraggio della struttura ha fatto emergere che come a Lampedusa «si è in procinto di realizzare a Roccella Jonica un punto di crisi sul modello “hotspot”, per il quale sarebbero in corso di esecuzione le attività necessarie» e «una gestione che risponde come di consueto ad una logica emergenziale, informale e scarsamente strutturata, tanto da un punto di vista materiale quanto procedurale, che implica, naturalmente, la contrazione dei diritti delle persone ospitate all’interno della struttura».

    Il clima di tensioni e stress è palpabile già al mattino del nostro arrivo, quando gli operatori chiamati a fare le pulizie dopo la notte – a garantire cioè che le panche e le brande occupate dai migranti arrivati la notte prima siano pronte per quelli che stanno arrivando – sollecitano ad alta voce l’aiuto dei mediatori culturali e degli agenti: è un’operazione che va fatta presto e bene, e non può permettersi resistenze. Dopo un po’ di discussioni si procede con i primi aiuti umanitari, le interviste e le foto, si prosegue con i tamponi e le visite mediche. Si impartiscono e ricevono ordini, file di persone esauste si spostano caracollando. Il caldo è davvero asfissiante, e solo la pineta attigua alla struttura riesce a dare qualche cono d’ombra di riparo, che in poco si riempie di colori e di voci.

    Poco dopo le due del pomeriggio, approda un’altra imbarcazione: il termometro segna 38 gradi, l’umidità percepita è sfiancante. Il gruppo di nuovi arrivati, stipato su un piccolo veliero con bandiera statunitense, viene scortato fino alla banchina Sud, proprio davanti al tendone allestito dalla Croce Rossa. Qualche ora più tardi, la Guardia costiera scorta un nuovo veliero, poco più che un rottame, intercettato a oltre 70 miglia al largo della costa. Sono passate da poco le 18:00, non c’è stato nemmeno il tempo di ripulire il piazzale dalle coperte termiche e dai beni di prima necessità utilizzati per il gruppo precedente. Questa volta arrivano in 76, in prevalenza siriani, partiti dalla spiaggia di Abdeh, in Libano, un porto anomalo rispetto alla rotta consuetudinaria. Tra loro ci sono una ventina di bambini, tre hanno meno di un anno.

    Il sole tramonta ma gli sbarchi non si fermano. Una motovedetta della Guardia di finanza sta trainando l’ennesimo piccolo veliero. Quando i due natanti rientrano, è da poco passata l’una del mattino. Il monoalbero viene svuotato dei suoi passeggeri poco alla volta, lentamente. Le luci sono fioche e riflettono i propri raggi dal mare nero. All’interno e all’esterno dell’imbarcazione i viaggiatori appaiono immobili, stipati letteralmente come tonni. Questa volta sono in 85: tanti adolescenti non accompagnati e diversi anziani che hanno fatto l’ultima parte del viaggio in coperta, viste le temperature più rigide della notte. I più piccoli vengono fuori dalla pancia della barca per ultimi, stretti al collo dei soccorritori, alle 2:30 del mattino.

    Fino a notte tarda il piazzale del porto è ancora in piena attività: qui davvero non ci si riposa mai. La segnalazione dell’ennesimo barchino è arrivata dai mezzi aerei che monitorano questa porzione di Mediterraneo. Ad uscire questa volta sarà una pattuglia della Capitaneria. Manca qualche minuto alle tre del mattino, una nuova giornata di questa storia infinita sta per cominciare.

    https://www.youtube.com/watch?v=-Z1vpHa5W3I&embeds_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2F&feature=


    https://irpimedia.irpi.eu/mediterraneocentrale-calabria-seconda-porta-per-italia-rocella-jonica
    #Calabre #Méditerranée #routes_migratoires #Italie #Turquie #Roccella_Jonica #migrations #asile #réfugiés #Riace #hotspot #statistiques #chiffres #Steccato_di_Cutro

    voir aussi:
    https://seenthis.net/messages/995483

    • Dove sbarcano di più i migranti in Italia

      Nel 2022 circa il 75 per cento è arrivato in Sicilia, poi seguono la Calabria e la Puglia

      Nella serata di martedì 24 gennaio il governo ha indicato alla nave Ong Geo Barents, con a bordo 69 migranti soccorsi al largo della Libia, di dirigersi verso la città di La Spezia, in Liguria. Nelle scorse settimane altre navi Ong avevano dovuto far sbarcare le persone salvate nel Mar Mediterraneo in porti del Nord e Centro Italia, come Ancona, nelle Marche, e Ravenna, in Emilia-Romagna.

      Secondo il governo, che nelle scorse settimane ha approvato anche un nuovo codice di condotta per le Ong, questa strategia è giustificata dall’elevato numero di sbarchi nelle regioni meridionali. Secondo i critici, invece, il governo vuole rendere più complicate le operazioni di salvataggio delle Ong, con giorni aggiuntivi di navigazione prima di arrivare in un porto, a fronte di numeri ridotti rispetto a quelli degli sbarchi totali.

      Numeri alla mano, vediamo negli scorsi anni dove sono sbarcati di più i migranti in Italia, che poi vengono ripartiti nei centri di accoglienza sul territorio nazionale.

      Secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), nel 2022 in Italia sono sbarcati circa 105 mila migranti, di cui oltre 10 mila a bordo di navi Ong, un numero pari a circa il 10 per cento. Il restante 90 per cento dei migranti sbarcati è stato soccorso dalle navi della Guardia costiera oppure ha raggiunto autonomamente le coste italiane.

      Secondo le elaborazioni dei dati fatte da Vittorio Nicoletta, dottorando in decision systems all’Université Laval del Québec (Canada), nel 2022 quasi il 75 per cento dei migranti è sbarcato in Sicilia. Al secondo posto troviamo la Calabria, con il 17 per cento circa degli sbarchi, seguita dalla Puglia, con meno del 5 per cento.

      Nel 2021, quando gli sbarchi erano stati meno di 70 mila, la percentuale di migranti arrivati con le navi Ong era stata intorno all’11 per cento. La regione con più sbarchi era stata la Sicilia, seguita da Calabria e Puglia. La stessa classifica delle regioni vale per il 2020, mentre nel 2019 la Puglia era al secondo posto, tra Sicilia e Calabria. Nel complesso, tra il 2019 e il 2022, oltre 160 mila migranti sono sbarcati sulle coste siciliane.

      https://pagellapolitica.it/articoli/dove-sbarcano-migranti-italia
      #arrivées

  • Au #col_du_Portillon, entre la #France et l’#Espagne, la #frontière de l’absurde

    L’ordre est tombé d’en haut. Fin 2020, Emmanuel Macron annonce la fermeture d’une quinzaine de points de passage entre la France et l’Espagne. Du jour au lendemain, le quotidien des habitants des #Pyrénées est bouleversé.

    C’est une histoire minuscule. Un #col_routier fermé aux confins des Pyrénées françaises des mois durant sans que personne n’y comprenne rien. Ni les Français ni les Espagnols des villages alentour, pas même les élus et les forces de l’ordre chargés de faire respecter cette fermeture. L’histoire de cette « mauvaise décision », qui a compliqué la vie de milliers de personnes pendant treize mois, débute à l’automne 2020.

    Les journaux gardent en mémoire la visite d’Emmanuel Macron au Perthus, le poste-frontière des Pyrénées-Orientales, département devenu depuis quelques années la voie privilégiée des migrants venus du Maroc, d’Algérie et d’Afrique subsaharienne. Sous un grand soleil, inhabituel un 5 novembre, le président de la République, un masque noir sur le visage, avait alors annoncé une fermeture temporaire des frontières françaises d’une ampleur jamais connue depuis la création de l’espace Schengen, en 1985 : une quinzaine de points de passage, situés tout le long des 650 kilomètres de frontière entre la France et l’Espagne, seraient désormais barrés.

    L’objectif officiel, selon les autorités, étant « d’intensifier très fortement les contrôles aux frontières » pour « lutter contre la menace terroriste, la lutte contre les trafics et la contrebande (drogue, cigarettes, alcools…) mais aussi contre l’immigration clandestine ». Aux préfets concernés de s’organiser. Ils ont eu deux mois.

    Une mesure « ubuesque »

    6 janvier 2021. Loin du Perthus, à quelque 300 kilomètres de là, il est 20 heures lorsque les premières automobiles sont refoulées au col du Portillon, l’un des points de passage concernés par cette mesure. Ce jour-là, il n’y a pourtant pas plus de neige que d’habitude. La frontière est fermée jusqu’à nouvel ordre, annoncent les gendarmes. Lutte contre le terrorisme. Les refoulés sont dubitatifs. Et inquiets. La dernière fois qu’on les a rembarrés comme ça, c’était au lendemain de l’attaque de Charlie Hebdo, quand, comme partout, les contrôles aux frontières avaient été renforcés. Ça aurait recommencé ? A la radio et à la télévision, on ne parle pourtant que de l’assaut du Capitole, à Washington, par des centaines de trumpistes survoltés, pas d’une attaque en France.

    « Ça n’a l’air de rien, mais, deux fois cinquante minutes au lieu de deux fois quinze minutes, ça vous change une journée. » Michel, retraité

    Comme il n’existe pas trente-six manières de matérialiser une frontière, Etienne Guyot, le préfet de la région Occitanie et de la Haute-Garonne, a fait installer de gros plots en béton armé et autant d’agents de la police aux frontières (PAF) en travers de cette route qui permet de relier Bagnères-de-Luchon à la ville espagnole de Bossòst, située dans le val d’Aran. Au bout de quelques jours, parce que les plots étaient trop espacés, les agents ont fait ajouter des tas de gravier et de terre pour éviter le passage des motos et des vélos. Mais les deux-roues ont aimé gravir les petits cailloux. De gros rochers sont donc venus compléter l’installation.

    Ce chantier à 1 280 mètres d’altitude, au milieu d’une route perdue des Pyrénées, n’a pas intéressé grand monde. Quelques entrefilets dans la presse locale – et encore, relégués dans les dernières pages – pour un non-événement dans un endroit qui ne dit rien à personne, sauf aux mordus du Tour de France (magnifique victoire de Raymond Poulidor au Portillon en 1964) et aux habitants du coin.

    Cette décision – l’une de celles qui se traduisent dans les enquêtes d’opinion par une défiance vis-à-vis des dirigeants – a été vécue comme « ubuesque », « injuste », « imposée par des Parisiens qui ne connaissent pas le terrain ». Elle a achevé d’excéder une région déjà énervée par un confinement jugé excessif en milieu rural et, avant cela, par une taxe carbone mal vécue dans un territoire où la voiture est indispensable.

    « Le carburant ça finit par chiffrer »

    Si la fermeture du col n’a engendré aucune conséquence tragique, elle a sérieusement entamé des activités sociales et économiques déjà fragilisées après le Covid-19. Prenez Michel, retraité paisible à Bagnères-de-Luchon, habitué à faire ses courses trois fois par semaine à Bossòst, côté espagnol. Un petit quart d’heure sépare les deux villes si l’on emprunte le col du Portillon, avec une distance d’à peine 17 kilomètres. Mais, depuis janvier 2021, il faut faire le tour et franchir le pont du Roi. Soit un détour de 42 kilomètres. « Ça n’a l’air de rien, concède le septuagénaire. Mais, deux fois cinquante minutes au lieu de deux fois quinze minutes, ça vous change une journée. Et le carburant, ça finit par chiffrer. »

    Dans ce coin, le Pays Comminges, qui s’étend depuis les coteaux de Gascogne jusqu’à la frontière espagnole, la frontière n’existait pas. « Pas dans les têtes, en tout cas », assure Pierre Médevielle. Bien que le sénateur indépendant de la Haute-Garonne boive de l’eau plate à l’heure du déjeuner, il correspond en tout point à l’idée que l’on se fait d’un élu de la Ve République du siècle dernier. Il donne rendez-vous dans un restaurant qui sert du canard, il a 62 ans, un look gentleman-farmer de circonstance (un week-end en circonscription), une passion pour la chasse et la pêche, une fidélité de longue date pour les partis centristes et une connaissance encyclopédique de l’histoire de sa région.

    Le Comminges, c’est plus de 77 000 habitants, une densité de 36 habitants au kilomètre carré, un déclin démographique inquiétant, une vallée difficile à développer, un accès routier complexe… Une véritable petite diagonale du vide dans le Sud-Ouest. « Juste après le Covid, la fermeture du Portillon a été vécue comme une sanction, explique le sénateur. Elle a bouleversé le quotidien de nombreux frontaliers. »

    Des questions laissées sans réponse

    Les Aranais vont et viennent dans les hôpitaux et les cabinets médicaux de Toulouse et de Saint-Gaudens – un accord de coopération sanitaire lie les deux pays –, et leurs enfants sont parfois scolarisés dans les écoles et le collège de Luchon. Les Français considèrent, eux, le val d’Aran comme un grand supermarché low cost planté au milieu d’une nature superbe. Ils achètent, à Bossòst – des alcools, des cigarettes et des produits bon marché conditionnés dans d’immenses contenants (céréales, pâte à tartiner, shampoing, jus d’orange…). Le samedi matin, les Espagnols, eux, se fournissent en fromage et en chocolat côté français, dans le gigantesque Leclerc d’Estancarbon. D’un côté comme de l’autre, on parle l’occitan, qu’on appelle gascon en France et aranais en Espagne.

    Pierre Médevielle a fait comme il a pu. Il a posé des questions dans l’Hémicycle. Il a adressé des courriers au ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin. Il a beaucoup discuté avec celui qui est alors le secrétaire d’Etat chargé de la ruralité, Joël Giraud, et avec son homologue espagnol, Francés Boya Alós, chargé du défi démographique (l’autre nom de la ruralité). Ils ont tous trois fait état des pétitions citoyennes et des motions votées par les élus des communes concernées, suppliant Gérald Darmanin de revenir sur une décision « incompréhensible ».

    Eric Azemar, le maire de Bagnères-de-Luchon, estime, lui, les conséquences « catastrophiques » pour sa ville, notamment pour la station thermale, déjà éprouvée par la pandémie : « De 11 000 curistes, nous sommes passés à 3 000 en 2020 et à peine à 5 000 en 2021. » Il a appris la fermeture de la frontière le matin même du 6 janvier 2021. En recevant l’arrêté préfectoral. « Point. » Point ? « Point. » En treize mois, aucun de ces élus n’est parvenu à arracher un courriel ou la moindre invitation à une petite réunion de crise à la préfecture. Rien. Le silence.

    Contourner l’obstacle

    « Le mépris », déplore Patrice Armengol, le Français sur qui cette décision a le plus pesé. Il vit à Bagnères-de-Luchon et travaille exactement au niveau du Portillon mais côté espagnol. A 2 kilomètres près, il n’était pas concerné par cette affaire, mais, voilà, son parc animalier, l’Aran Park – km 6 puerto del Portillón –, est, comme son nom et son adresse l’indiquent, installé dans le val d’Aran. Val d’Aran, Catalogne, Espagne. Il a cru devenir fou, il est devenu obsessionnel. « Leur barrage était mal fichu mais aussi illégal, commente-t-il. Là, vous voyez, le panneau ? Le barrage était à 1 kilomètre de la frontière française. »

    C’est exact. Appuyé contre son 4 × 4, il fait défiler les photos du barrage, prises au fil des mois. Lui est allé travailler tous les jours en franchissant le col : il roulait en voiture jusqu’au barrage, déchargeait les kilos de viande et de fruits secs périmés achetés pour ses bêtes dans les supermarchés français, franchissait le barrage à pied et chargeait le tout dans une autre voiture garée de l’autre côté des plots. Le soir, il laissait une voiture côté espagnol et repartait dans celle qui l’attendait côté français. « Ils m’ont laissé faire, heureusement », dit-il.

    Il a trouvé héroïques les habitants qui, autour du col de Banyuls, dans les Pyrénées-Orientales, ont régulièrement déplacé les blocs de pierre avec toujours le même message : « Les Albères ne sont pas une frontière. » Le geste ne manquait pas de panache, mais lui-même ne s’y serait pas risqué : « Une violation des frontières, c’est grave. Je n’avais pas envie d’aller en prison pour ça. » Patrice Armengol s’est donc contenté de limiter les dégâts. S’il a perdu près d’un tiers de ses visiteurs, il a pu maintenir le salaire de ses trois employés espagnols à plein temps.

    La fin du calvaire mais pas du mystère

    Gemma Segura, 32 ans, s’occupe des visites scolaires dans le parc et, pour défendre l’ouverture du col, elle a rejoint l’association des commerçants de Bossòst, où elle vit. Fille d’un boucher à la retraite et d’une enseignante d’aranais, elle est née à Saint-Gaudens comme beaucoup de frontaliers espagnols. « Je suis toujours allée chez le médecin à Saint-Gaudens et mes grands-mères consultent des cardiologues français. Nos banques sont françaises. Nos familles vivent des deux côtés de la frontière. Et, quand je jouais au foot, je participais à la Coupe du Comminges, en France. »

    « Les gens s’interrogent et on ne sait pas quoi répondre. On applique les décisions prises en haut. » Un agent chargé de surveiller la zone

    Après des études de sciences de l’environnement à Barcelone, elle a préféré revenir ici, dans ce coin, certes un peu enclavé, mais si beau. Certains parlent aujourd’hui de quitter Bossòst, leurs commerces ayant été vides pendant des mois. Mais le « miracle » s’est enfin produit le 1er février 2022, et, cette fois, l’information a fait la « une » de La Dépêche du Midi : « Le col du Portillon est enfin ouvert. »

    De nouveau, personne n’a compris. La possibilité d’une ouverture avait été rejetée par le premier ministre Jean Castex lui-même à peine un mois plus tôt lors d’un déplacement à Madrid. Perplexité du maire de Bagnères-de-Luchon : « Pourquoi maintenant ? Il y a sans doute une raison logique, le ministre ne fait pas ça pour s’amuser. » Même les agents chargés de surveiller la zone sont surpris : « Pourquoi avoir fermé ? C’était mystérieux, mais on l’a fait. Et, maintenant, on ouvre, mais on doit intensifier les contrôles. Les gens s’interrogent et on ne sait pas quoi répondre. On applique les décisions prises en haut. »

    « En haut », au ministère de l’intérieur et à la préfecture, on est peu disert sur le sujet. Le service de presse de la préfecture nous a envoyé, sans empressement, ces explications parcimonieuses : « Depuis quelques mois, la police aux frontières a constaté une recrudescence de passeurs au cours de différentes opérations menées sur les points de passage autorisés. (…) Les dispositifs de contrôle sur la frontière ont permis de nombreuses interpellations de passeurs (quatorze en 2021 et un en 2022). »

    Une voie migratoire sous surveillance

    Ces chiffres sont autant d’histoires qui atterrissent sur le bureau du procureur de Saint-Gaudens, Christophe Amunzateguy. Le tribunal, comme les rues de la ville, est désert ce 31 janvier. Il est 18 heures et Christophe Amunzateguy, qui assure la permanence, est parfaitement seul. Comme tout le monde ici, les décisions de la préfecture le prennent de court. On ne l’informe de rien, jamais. Il pointe du doigt le journal ouvert sur son bureau. « Je l’apprends par La Dépêche. La préfecture ne m’en a pas informé. »

    Il parle de l’ouverture du col du Portillon. Il lit à voix haute que le préfet promet des renforts. « Eh bien, très bonne nouvelle, mais, s’il y a des renforts, il y aura une multiplication des interpellations et, s’il y a des interpellations, c’est pour qui ? Pour moi. » Dans cette juridiction, l’une des plus petites de France, ils ne sont que deux procureurs et six magistrats du siège. Après avoir connu les parquets turbulents de Nancy et de Lille – il a suivi l’affaire du Carlton –, Christophe Amunzateguy se sent « dépaysé » dans ce « bout du monde ». « C’est une expérience, résume-t-il. Ici, on fait tout, tout seul. »

    « C’est ça, aussi, l’histoire du Comminges, une communauté de destins d’un côté et de l’autre de la frontière » Jacques Simon

    C’est au mois de septembre 2021, soit neuf mois après la fermeture du col du Portillon, que la « vague » d’arrivée de migrants s’est amplifiée. La police de l’air et des frontières l’a alerté à la mi-août : des clandestins arriveraient par le point de passage du pont du Roi. Ce mois-là, les interpellations se sont succédé : quatorze d’un coup.

    Sur les quatre derniers mois de 2021, neuf passeurs algériens ont été condamnés à des peines de prison ferme en Haute-Garonne. Et seize passeurs ont été jugés à Saint-Gaudens en 2021. Le profil ? « Des personnes de nationalité algérienne, explique le procureur. Par pur opportunisme, elles prennent en charge des personnes en situation irrégulière et leur font passer la frontière contre 200 à 600 euros, dans leur voiture ou dans une voiture de location. »

    Une délinquance d’opportunité

    Au début de l’année 2022, ça a recommencé. Le 4 janvier, à 10 h 40, alors qu’ils contrôlaient une Golf à Melles – la routine –, les agents de la PAF ont aperçu un Scénic tenter une manœuvre de demi-tour avant que quatre passagers n’en descendent précipitamment et se mettent à courir. Tentative désespérée et totalement vaine : tous ont été arrêtés en un rien de temps. Le chauffeur de la Golf a été embarqué aussitôt que les agents se sont aperçus qu’il était le propriétaire officiel du Scénic. Tous ont été conduits au tribunal de Saint-Gaudens, où le procureur a pu reconstituer leur parcours.

    Arrivés d’Algérie quelques jours plus tôt, les trois passagers à l’arrière du Scénic tentaient de gagner Toulouse. Un premier passeur, payé 200 euros, les a d’abord conduits à Alicante où le chauffeur de la Golf les a contactés par téléphone. Chargé de les conduire à la gare de Toulouse contre 200 euros par personne, il a roulé toute la nuit avant de crever. Un de ses « amis » est venu de France (en Scénic) pour réparer la voiture et les « aider » à poursuivre le voyage, qui s’est donc terminé à Melles.

    Concernant les conducteurs du Scénic et de la Golf, la conclusion est la même que pour l’écrasante majorité des dossiers de 2021 : « Ils sont en free-lance. » Dans le vocabulaire de la justice, ça s’appelle de la « délinquance d’opportunité ». Les passeurs n’appartiennent pas à des réseaux ; ils arrondissent leurs fins de mois.

    Les passeurs du 4 janvier ont été condamnés à quatre et six mois d’emprisonnement et incarcérés à la maison d’arrêt de Seysses (Haute-Garonne). L’un des deux a écopé de cinq ans d’interdiction du territoire français et leurs deux véhicules ont été saisis. Le procureur assume cet usage de la « manière forte » : garde à vue systématique, comparution immédiate, saisie des véhicules (« ils sont sans valeur, ce sont des poubelles »), confiscation du numéraire trouvé sur les passeurs (« je ne prends pas l’argent sur les personnes transportées »). Il précise ne pas en faire une question de politique migratoire mais prendre au sérieux la question de la traite des êtres humains : « On ne se fait pas d’argent sur le malheur des autres. »

    La frontière, terre de fantasme

    Christophe Amunzateguy se souvient du 19 janvier 2021. Il était dans son bureau, seul comme d’habitude, quand il a reçu un coup de fil de la gendarmerie lui signalant qu’une bande d’activistes habillés en bleu et circulant à bord de trois pick-up a déroulé une banderole sur une zone EDF située dans le col du Portillon. Sur les réseaux sociaux, il apprend qu’il s’agit de militants de Génération identitaire, un mouvement d’ultra-droite, tout à fait au courant, eux, contrairement au reste du pays, que le col du Portillon a été bloqué.

    Le procureur découvre, quelques jours plus tard, une vidéo de l’opération commentée par Thaïs d’Escufon, la porte-parole du groupuscule, affirmant qu’il est « scandaleux qu’un migrant puisse traverser la frontière ». Elle a été condamnée au mois de septembre 2021 à deux mois d’emprisonnement avec sursis pour les « injures publiques » proférées dans cette vidéo.

    Que la frontière soit depuis toujours un espace naturel de trafics et de contrebande n’est un secret pour personne. Pourquoi fermer maintenant ? En vérité, explique le procureur, c’est du côté des Pyrénées-Orientales qu’il faut chercher la réponse. En 2021, 13 000 personnes venues du Maghreb et d’Afrique subsaharienne ont été interpellées au sud de Perpignan, à Cerbère. Un chiffre « record » qui a entraîné l’intensification des contrôles. Les passeurs ont donc choisi d’emprunter des voies moins surveillées. Le bouche-à-oreille a fait du point de passage du pont du Roi une entrée possible.

    Le procureur est formel : le phénomène est contenu. Quant au fantasme des migrants qui franchissent les montagnes à pied, cela lui paraît improbable. L’hiver, c’est impraticable ; aux beaux jours, il faut être un alpiniste chevronné et bien connaître le coin. Un peu plus loin, du côté du Pas de la Case, deux passeurs de tabac sont morts en montagne : l’un, algérien, de froid, en 2018, et l’autre, camerounais, après une chute, en 2020.

    La route de la liberté

    Ces chemins, désormais surveillés et fermés, ont longtemps été synonymes de liberté. C’est par là qu’ont fui les milliers de réfugiés espagnols lors de la Retirada, en 1939, après la guerre civile. Par là aussi que, dans l’autre sens, beaucoup ont pu échapper aux nazis au début des années 1940. La mémoire de cette histoire est ravivée par ceux qui l’ont vécue et par leurs descendants qui se regroupent en associations depuis une vingtaine d’années.

    « Sur cette chaîne pyrénéenne, on évalue à 39 000 personnes les personnes qui fuyaient le nazisme », explique Jacques Simon, fondateur et président des Chemins de la liberté par le Comminges et le val d’Aran, créée en mars 2018. Son grand projet est de labelliser la nationale 125, depuis le rond-point de la Croix-du-Bazert, à Gourdan-Polignan, jusqu’au pont du Roi, pour en faire une « route de la liberté » comme il existe une route des vins, une route de la ligne Maginot et une Voie sacrée.

    L’un des récits de traversée que raconte souvent Jacques Simon est celui qui concerne seize compagnons partis clandestinement de la gare de Saléchan la nuit du 25 octobre 1943. En pleine montée du pic du Burat, les passeurs se perdent et les trois femmes du groupe, dont une enfant, peinent. « Leurs chaussures n’étaient pas adaptées et elles portaient des bas en rayonne. C’est une matière qui brûle au contact de la neige, explique Jacques Simon, qui a recueilli les souvenirs des derniers témoins. Elles ont fini pieds nus. » Le groupe est arrivé en Espagne et tous ont survécu.

    « On ne sera jamais riches, mais on a du temps. Pour être en famille, pour retaper notre baraque, pour faire des conserves. » Philippe Petriccione

    Parmi eux, Paul Mifsud, 97 ans, l’un des deux résistants commingeois toujours en vie. Le second, Jean Baqué, 101 ans, avait 19 ans quand il s’est engagé dans la Résistance. Arrêté par la milice en novembre 1943, il parvient à s’échapper des sous-sols de l’hôtel Family, le siège de la Gestapo à Tarbes. Dans sa fuite, il prend une balle dans les reins, ce qui ne l’empêche pas d’enfourcher un vélo pour se réfugier chez un républicain espagnol. « Il m’a caché dans le grenier à foin et a fait venir un docteur. »

    En décembre 2021, Jean Baqué est retourné sur les lieux, à Vic-en-Bigorre. Il est tombé sur le propriétaire actuel, qui lui a raconté que l’Espagnol, Louis Otin, avait été fusillé en 1944 par la milice. « Je ne l’avais jamais su. » Jean Baqué a organisé quelques jours plus tard une cérémonie en sa mémoire dans le bois de Caixon, là où l’homme a été assassiné. « C’est ça, aussi, l’histoire du Comminges, une communauté de destins d’un côté et de l’autre de la frontière », résume Jacques Simon.

    L’ivresse des sommets

    Ces chemins, Philippe Petriccione les connaît comme sa poche et il accepte de nous guider. A l’approche du col du Portillon, en apercevant depuis son 4 × 4 quatre agents de la PAF occupés à contrôler des véhicules, le guide de haute montagne raconte un souvenir qui date du lendemain de l’attentat contre Charlie Hebdo, en janvier 2015. C’était ici même : « Les Mossos d’Esquadra [la force de police de la communauté autonome de Catalogne] ont débarqué. Ils ne sont pas toujours très tendres. Ils ont toqué à la vitre de ma bagnole avec le canon de leur fusil. J’avais envie de leur dire : “C’est bon, moi, je vais faire du ski, les gars.” »

    Le 4 × 4 s’engage sur un chemin. Les stalactites le long des rochers enchantent les passagers, le gel sous les roues, moins. Philippe arrête la voiture. « On y va à pied. » En réalité, « on y va » à raquettes. Après quelques kilomètres, la vue spectaculaire lui redonne le sourire. C’est pour cela qu’il est venu vivre à la montagne. Né à Paris dans le 18e arrondissement, il a vécu ici et là avant de s’installer il y a une dizaine d’années à Luchon avec sa femme et leurs enfants. « On ne sera jamais riches, mais on a du temps. Pour être en famille, pour retaper notre baraque, pour faire des conserves. »

    On se tient face à un vallon enneigé dont les pentes raides dévalent dans un cirque de verdure. Le guide tend le bras vers le côté gauche. Il montre une brèche recouverte de glace : le port de Vénasque, à 2 444 mètres d’altitude (« col » se dit « port » dans les Pyrénées) : « Il est devenu célèbre sous Napoléon, qui a eu une idée de stratège. Il s’est dit : “Je vais faire passer mon armée par là.” Il a tracé un chemin pour passer avec les chevaux et les canons. » On distingue la limite géographique appelée le carrefour des Trois-Provinces. A gauche, la Catalogne. A droite, l’Aragon et, face à nous, la Haute-Garonne. Il y a huit ports, soit autant de passages possibles pour traverser le massif. « L’histoire dit que 5 000 personnes sont passées en quarante-huit heures en avril 1938… »

    Philippe connaît par cœur cet épisode, puisqu’il a l’habitude de le raconter aux touristes et aux collégiens qui viennent parfois depuis Toulouse découvrir « en vrai » ces chemins. Il fait comme aujourd’hui. Il tend le bras et montre au loin les pentes raides de ce paysage de la Maladeta et la vue sur l’Aneto, le plus haut sommet du massif. Un rectangle sombre perce l’étendue blanche. En approchant, on distingue une borne en béton, « F356E » : c’est la frontière. F pour France, E pour Espagne. Ces bornes, il y en a 602 tout le long de la frontière. Le tracé, qui date de la fin du XIXe siècle, part de la borne numéro 1, sur les bords de la Bidassoa, et va jusqu’au pied du cap Cerbère, en Méditerranée, explique le guide. Allongé sur la neige, il répète qu’ici c’est une montagne particulière. « Il n’y a jamais personne. »

    https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2022/04/29/au-col-du-portillon-entre-la-france-et-l-espagne-la-frontiere-de-l-absurde_6

    #montagne #frontières #fermeture #points_de_passage #contrôles_frontaliers #terrorisme #lutte_contre_le_terrorisme #Bagnères-de-Luchon #Bossòst #val_d'Aran #plots #PAF #gravier #terre #rochers #Pays_Comminges #gascon #aranais #migrations #asile #réfugiés #pont_du_Roi #délinquance_d’opportunité #passeurs #politique_migratoire #traite_d'êtres_humains #génération_identitaire #Thaïs_d’Escufon #Cerbère #parcours_migratoires #routes_migratoires #Pas_de_la_Case #histoire

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  • Réfugiés : contourner la #Croatie par le « #triangle » #Serbie - #Roumanie - #Hongrie

    Une nouvelle route migratoire s’est ouverte dans les Balkans : en Serbie, de plus en plus d’exilés tentent de contourner les barbelés barrant la #Hongrie en faisant un crochet par la Roumanie, avant d’espérer rejoindre les pays riches de l’Union européenne. Un chemin plus long et pas moins risqué, conséquence des politiques sécuritaires imposées par les 27.

    Il est 18h30, le jour commence à baisser sur la plaine de #Voïvodine. Un groupe d’une cinquantaine de jeunes hommes, sacs sur le dos et duvets en bandoulière, marche d’un pas décidé le long de la petite route de campagne qui relie les villages serbes de #Majdan et de #Rabe. Deux frontières de l’Union européenne (UE) se trouvent à quelques kilomètres de là : celle de la Hongrie, barrée depuis la fin 2015 d’une immense clôture barbelée, et celle de la Roumanie, moins surveillée pour le moment.

    Tous s’apprêtent à tenter le « #game », ce « jeu » qui consiste à échapper à la police et à pénétrer dans l’UE, en passant par « le triangle ». Le triangle, c’est cette nouvelle route migratoire à trois côtés qui permet de rejoindre la Hongrie, l’entrée de l’espace Schengen, depuis la Serbie, en faisant un crochet par la Roumanie. « Nous avons été contraints de prendre de nouvelles dispositions devant les signes clairs de l’augmentation du nombre de personnes traversant illégalement depuis la Serbie », explique #Frontex, l’Agence européenne de protection des frontières. Aujourd’hui, 87 de ses fonctionnaires patrouillent au côté de la police roumaine.

    Depuis l’automne 2020, le nombre de passages par cet itinéraire, plus long, est en effet en forte hausse. Les #statistiques des passages illégaux étant impossibles à tenir, l’indicateur le plus parlant reste l’analyse des demandes d’asiles, qui ont explosé en Roumanie l’année dernière, passant de 2626 à 6156, soit une hausse de 137%, avec un pic brutal à partir du mois d’octobre. Selon les chiffres de l’Inspectoratul General pentru Imigrări, les services d’immigrations roumains, 92% de ces demandeurs d’asile étaient entrés depuis la Serbie.

    “La Roumanie et la Hongrie, c’est mieux que la Croatie.”

    Beaucoup de ceux qui espèrent passer par le « triangle » ont d’abord tenté leur chance via la Bosnie-Herzégovine et la Croatie avant de rebrousser chemin. « C’est difficile là-bas », raconte Ahmed, un Algérien d’une trentaine d’années, qui squatte une maison abandonnée de Majdan avec cinq de ses compatriotes. « Il y a des policiers qui patrouillent cagoulés. Ils te frappent et te prennent tout : ton argent, ton téléphone et tes vêtements. Je connais des gens qui ont dû être emmenés à l’hôpital. » Pour lui, pas de doutes, « la Roumanie et la Hongrie, c’est mieux ».

    La route du « triangle » a commencé à devenir plus fréquentée dès la fin de l’été 2020, au moment où la situation virait au chaos dans le canton bosnien d’#Una_Sana et que les violences de la police croate s’exacerbaient encore un peu plus. Quelques semaines plus tard, les multiples alertes des organisations humanitaires ont fini par faire réagir la Commission européenne. Ylva Johansson, la Commissaire suédoise en charge des affaires intérieures a même dénoncé des « traitements inhumains et dégradants » commis contre les exilés à la frontière croato-bosnienne, promettant une « discussion approfondie » avec les autorités de Zagreb. De son côté, le Conseil de l’Europe appelait les autorités croates à mettre fin aux actes de tortures contre les migrants et à punir les policiers responsables. Depuis, sur le terrain, rien n’a changé.

    Pire, l’incendie du camp de #Lipa, près de #Bihać, fin décembre, a encore aggravé la crise. Pendant que les autorités bosniennes se renvoyaient la balle et que des centaines de personnes grelottaient sans toit sous la neige, les arrivées se sont multipliées dans le Nord de la Serbie. « Rien que dans les villages de Majdan et Rabe, il y avait en permanence plus de 300 personnes cet hiver », estime Jeremy Ristord, le coordinateur de Médecins sans frontières (MSF) en Serbie. La plupart squattent les nombreuses maisons abandonnées. Dans cette zone frontalière, beaucoup d’habitants appartiennent aux minorités hongroise et roumaine, et Budapest comme Bucarest leur ont généreusement délivré des passeports après leur intégration dans l’UE. Munis de ces précieux sésames européens, les plus jeunes sont massivement partis chercher fortune ailleurs dès la fin des années 2000.

    Siri, un Palestinien dont la famille était réfugiée dans un camp de Syrie depuis les années 1960, squatte une masure défoncée à l’entrée de Rabe. En tout, ils sont neuf, dont trois filles. Cela fait de longs mois que le jeune homme de 27 ans est coincé en Serbie. Keffieh sur la tête, il tente de garder le sourire en racontant son interminable odyssée entamée voilà bientôt dix ans. Dès les premiers combats en 2011, il a fui avec sa famille vers la Jordanie, puis le Liban avant de se retrouver en Turquie. Finalement, il a pris la route des Balkans l’an dernier, avec l’espoir de rejoindre une partie des siens, installés en Allemagne, près de Stuttgart.

    “La police m’a arrêté, tabassé et on m’a renvoyé ici. Sans rien.”

    Il y a quelques jours, Siri à réussi à arriver jusqu’à #Szeged, dans le sud de la Hongrie, via la Roumanie. « La #police m’a arrêté, tabassé et on m’a renvoyé ici. Sans rien », souffle-t-il. À côté de lui, un téléphone crachote la mélodie de Get up, Stand up, l’hymne reggae de Bob Marley appelant les opprimés à se battre pour leurs droits. « On a de quoi s’acheter un peu de vivres et des cigarettes. On remplit des bidons d’eau pour nous laver dans ce qui reste de la salle de bains », raconte une des filles, assise sur un des matelas qui recouvrent le sol de la seule petite pièce habitable, chauffée par un poêle à bois décati.

    De rares organisations humanitaires viennent en aide à ces exilés massés aux portes de l’Union européennes. Basé à Belgrade, le petit collectif #Klikaktiv y passe chaque semaine, pour de l’assistance juridique et du soutien psychosocial. « Ils préfèrent être ici, tout près de la #frontière, plutôt que de rester dans les camps officiels du gouvernement serbe », explique Milica Švabić, la juriste de l’organisation. Malgré la précarité et l’#hostilité grandissante des populations locales. « Le discours a changé ces dernières années en Serbie. On ne parle plus de ’réfugiés’, mais de ’migrants’ venus islamiser la Serbie et l’Europe », regrette son collègue Vuk Vučković. Des #milices d’extrême-droite patrouillent même depuis un an pour « nettoyer » le pays de ces « détritus ».

    « La centaine d’habitants qui restent dans les villages de Rabe et de Majdan sont méfiants et plutôt rudes avec les réfugiés », confirme Abraham Rudolf. Ce sexagénaire à la retraite habite une modeste bâtisse à l’entrée de Majdan, adossée à une ruine squattée par des candidats à l’exil. « C’est vrai qu’ils ont fait beaucoup de #dégâts et qu’il n’y a personne pour dédommager. Ils brûlent les charpentes des toits pour se chauffer. Leurs conditions d’hygiène sont terribles. » Tant pis si de temps en temps, ils lui volent quelques légumes dans son potager. « Je me mets à leur place, il fait froid et ils ont faim. Au vrai, ils ne font de mal à personne et ils font même vivre l’épicerie du village. »

    Si le « triangle » reste a priori moins dangereux que l’itinéraire via la Croatie, les #violences_policières contre les sans papiers y sont pourtant monnaie courante. « Plus de 13 000 témoignages de #refoulements irréguliers depuis la Roumanie ont été recueillis durant l’année 2020 », avance l’ONG Save the Children.

    “C’est dur, mais on n’a pas le choix. Mon mari a déserté l’armée de Bachar. S’il rentre, il sera condamné à mort.”

    Ces violences répétées ont d’ailleurs conduit MSF à réévaluer sa mission en Serbie et à la concentrer sur une assistance à ces victimes. « Plus de 30% de nos consultations concernent des #traumatismes physiques », précise Jérémy Ristor. « Une moitié sont liés à des violences intentionnelles, dont l’immense majorité sont perpétrées lors des #push-backs. L’autre moitié sont liés à des #accidents : fractures, entorses ou plaies ouvertes. Ce sont les conséquences directes de la sécurisation des frontières de l’UE. »

    Hanan est tombée sur le dos en sautant de la clôture hongroise et n’a jamais été soignée. Depuis, cette Syrienne de 33 ans souffre dès qu’elle marche. Mais pas question pour elle de renoncer à son objectif : gagner l’Allemagne, avec son mari et leur neveu, dont les parents ont été tués dans les combats à Alep. « On a essayé toutes les routes », raconte l’ancienne étudiante en littérature anglaise, dans un français impeccable. « On a traversé deux fois le Danube vers la Roumanie. Ici, par le triangle, on a tenté douze fois et par les frontières de la Croatie et de la Hongrie, sept fois. » Cette fois encore, la police roumaine les a expulsés vers le poste-frontière de Rabe, officiellement fermé à cause du coronavirus. « C’est dur, mais on n’a pas le choix. Mon mari a déserté l’armée de Bachar avec son arme. S’il rentre, il sera condamné à mort. »

    Qu’importe la hauteur des murs placés sur leur route et la terrible #répression_policière, les exilés du nord de la Serbie finiront tôt ou tard par passer. Comme le déplore les humanitaires, la politique ultra-sécuritaire de l’UE ne fait qu’exacerber leur #vulnérabilité face aux trafiquants et leur précarité, tant pécuniaire que sanitaire. La seule question est celle du prix qu’ils auront à paieront pour réussir le « game ». Ces derniers mois, les prix se sont remis à flamber : entrer dans l’Union européenne via la Serbie se monnaierait jusqu’à 2000 euros.

    https://www.courrierdesbalkans.fr/Refugies-contourner-la-Croatie-par-le-triangle-Serbie-Roumanie-Ho
    #routes_migratoires #migrations #Balkans #route_des_Balkans #asile #migrations #réfugiés #contournement #Bihac #frontières #the_game

    ping @isskein @karine4

  • –-> carte pour illustrer la dangerosité des routes migratoires (17’000 morts en #Méditerranée)
    Titre de l’article : Verdens dødeligste migrantrute : Minst 17 000 har druknet i Middelhavet – på sju år

    ... une carte qui, en réalité, reproduit la rhétorique de l’#invasion...

    https://www.bistandsaktuelt.no/nyheter/2021/17-000-har-druknet-i-middelhavet-pa-syv-ar
    #migrations #flèches #rouge #réfugiés #routes_migratoires
    #mer_Méditerranée

    ping @fbahoken
    via @reka

  • Réactivation des anciennes routes migratoires en Méditerranée occidentale

    « Les anciennes routes migratoires sont de nouveau activées en Méditerranée occidentale », c’est ce qui ressort du dernier rapport d’Alarm Phone, assistance téléphonique pour les personnes en situation de détresse en mer Méditerranée. Selon ce document, les candidats à la migration irrégulière vers l’Espagne arrivent désormais en très grande majorité du Sud du Maroc ou d’Algérie. Selon le HCR, 1.460 candidats sont arrivés entre juin et août 2020 (en plus des 2.555 arrivées de janvier à mai). Le mois de septembre a vu une nouvelle augmentation importante des arrivées avec plus de 2.000 personnes, ce qui porte le nombre total d’arrivées aux îles Canaries en 2020 à 6.116 personnes (au 27 septembre). Ce chiffre est six fois supérieur à celui de la même période en 2019. Un cinquième de ces personnes sont des femmes. Parfois, il y a eu des centaines d’arrivées dans une même journée, comme le 6 septembre qui a vu 140 arrivées en six bateaux, le 8 septembre avec 160 arrivées en sept bateaux et le 15 septembre avec 130 arrivées en dix bateaux. Toutefois, le rapport précise que le nombre d’arrivées aux îles Canaries reste loin de celui de la ”crise de los cayucos” de 2006, lorsque plus de 30.000 personnes étaient arrivées à bord de bateaux de pêche en bois, en provenance de Mauritanie et du Sénégal. Aujourd’hui, les candidats marocains et algériens représentent 60% de l’ensemble des arrivées. Pourtant, les départs du Sud du Maroc ne sont pas la règle puisqu’il y a d’autres départs de plus en plus nombreux de la Mauritanie, du Sénégal et de la Gambie. Ces candidats doivent passer des jours, parfois même une semaine, en mer, presque toujours confrontés à des vents et à des conditions météorologiques défavorables. Leur seul espoir est d’être secourus par le Salvamento Maritimo, mais la zone de patrouille la SAR espagnole s’étend sur un million de kilomètres carrés. Ce territoire est terriblement vaste au cas où un bateau s’y perd, ou encore si un de ses moteurs tombe en panne ou si les personnes à bord n’ont aucun moyen de communication. A rappeler que la route des Canaries est depuis longtemps connue comme la plus meurtrière de la Méditerranée. Cependant, et même en cas de débarquement aux îles Canaries, les difficultés sont loin d’être terminées. Ces derniers mois ont considérablement aggravé la situation. En l’absence de transferts de personnes vers l’Espagne, les capacités sont déjà au-delà du point de rupture. Depuis deux mois en particulier, les nouveaux arrivants sont contraints de camper sur l’asphalte du port à leur arrivée, de dormir sur des terrains de sport, dans des entrepôts portuaires ou même dans des complexes touristiques. Depuis que les tests de la Covid-19 ont été rendus obligatoires pour les candidats à la migration en juin, il y a de longues journées d’attente sous des tentes de fortune et dans des conditions déplorables, sous un soleil de plomb avec des températures supérieures à 40°C. Le port d’Arguineguín a accueilli entre 300 et 450 personnes ces dernières semaines et les mouillages sont bondés de bateaux en bois utilisés pour le voyage. La deuxième grande évolution constatée par le rapport d’Alarm Phone concerne la forte augmentation des arrivées en provenance d’Algérie. Du mois de janvier à août, 41% des candidats à la migration à destination de l’Espagne étaient des ressortissants algériens (contre 8% pour la période équivalente en 2019). Comme toujours, les raisons en sont multiples. « Le système politique de l’ancien président Bouteflika et la crise socioéconomique apparemment insoluble conduisent souvent à la décision de quitter le pays. La crise déclenchée par la Covid-19 et les contre-mesures prises pour empêcher sa propagation ont rendu la vie quotidienne de nombreux migrants encore plus difficile. Comme un passeport algérien n’offre pratiquement aucune chance d’obtention d’un visa pour l’UE, les Algériens sont contraints de s’embarquer sur la dangereuse route maritime. Tout comme leurs voisins marocains, ils ou elles sont immédiatement séparés des autres arrivants et font l’objet d’une procédure d’expulsion accélérée. Les Algériens sont renvoyés rapidement et de force dans leur pays d’origine », explique le document. Concernant cette réactivation des anciennes routes migratoires, Mohammed Charef, directeur de l’Observatoire régional des migrations, espaces et sociétés (ORMES) (Faculté des lettres et des sciences humaines d’Agadir) nous avait indiqué dans une récente édition que cette réactivation est tout à fait normale dans un contexte de contrôle forcé des frontières. « Vous fermez les portes devant un migrant, il passe par la fenêtre. Et c’est connu que dès qu’un lieu de passage est surveillé, il devient plus dangereux et plus cher et, du coup, on cherche de nouvelles routes ou on revient aux anciennes qui ont tendance à être oubliées mais pas totalement. Prenez le cas du Maroc, Gibraltar a constitué, durant le début des années 2000, le point de passage essentiel pour les migrants, mais dès l’installation d’un système européen de surveillance, la situation a complètement changé avec l’émergence d’autres routes comme celle des Iles Canaries (qui ont constitué pendant les années 2007, 2008 et 2009 un point de passage important vers l’Espagne), l’Algérie, la Tunisie, la Libye et la Turquie par la suite », a-t-il précisé. Et d’observer que la question migratoire demeurera d’actualité tant qu’il y aura un déséquilibre mondial sur tous les plans (économique, social, juridique…) et tant qu’il y aura un besoin européen de migrants. « Il y a tout un pan de l’économie européenne qui dépend de la main-d’œuvre irrégulière. Même dans les forums internationaux, le patronat défend cette main-d’œuvre considérée comme moins coûteuse, maniable à volonté et corvéable à merci… », avait-il conclu.

    https://www.libe.ma/Reactivation-des-anciennes-routes-migratoires-en-Mediterranee-occidentale_a1212
    #parcours_migratoires #itinéraires_migratoires #nouvelles_routes #routes_migratoires #asile #migrations #réfugiés #Méditerranée #Méditerranée_occidentale #Canaries #îles_Canaries #Mauritanie #Sénégal

    • Arriban 1.100 inmigrantes en un día, la cifra más alta desde ‘la crisis de los cayucos’ de 2006

      Segunda manifestación en Arguineguín para reclamar la clausura del campamento de acogida del muelle

      Casi 1.100 inmigrantes, uno de ellos muerto, llegaron a Canarias a lo largo de ayer sábado a bordo de 20 embarcaciones, la cifra más alta en una sola jornada desde la “crisis de los cayucos” de 2006-2007, según las cifras que facilita el 112 una vez completados los recuentos en tierra. En concreto, los servicios de emergencia de las islas atendieron a 1.096 personas llegadas a las costas o rescatadas por Salvamento Marítimo en el Atlántico: 643 en 16 barcas en Gran Canaria, 271 en dos cayucos en Tenerife, 159 en un cayuco y una patera en El Hierro y 23 en una barquilla en La Gomera.

      Se trata de la afluencia de inmigrantes más alta del año en un solo día, con 363 personas más de las que se registraron el pasado 9 de octubre, cuando fueron rescatadas 733 personas en Canarias coincidiendo con la visita al campamento de Arguineguín del ministro de Inclusión Social y Migraciones, José Luis Escrivá.

      La Ruta Canaria se ha cobrado además este sábado una nueva vida, la de uno de los ocupantes de un cayuco localizado a 61 kilómetros de El Hierro, cuando se encontraba a la deriva. Media docena de buques de Salvamento Marítimo han participado en los diferentes rescates del día desde las cuatro de la madrugada, cuando se detectaron varias pateras a 18 millas al sur de Gran Canaria los radares del Servicio Integral de Vigilancia Exterior.

      También ayer, por segundo sábado consecutivo, vecinos de Mogán recorrieron ayer en manifestación en las calles de Arguineguín para reclamar medidas inmediatas al Estado para la gestión de la crisis migratoria que afecta a Canarias, y concretamente al municipio, donde se mantiene el campamento de emergencia que acoge a las personas migrantes que llegan a las costas del Archipiélago.

      El Ayuntamiento de Mogán informó que la manifestación fue convocada por la Cofradía de Pescadores de Arguineguín, que reivindica el traslado de las personas migrantes del puerto hacia instalaciones acondicionadas.

      https://www.laprovincia.es/canarias/2020/11/08/arriban-1-100-inmigrantes-dia-22571928.html

    • Llegan 600 migrantes durante la noche a Canarias en veinte pateras, que se suman al más de un millar de este sábado

      Todas las pateras fueron rescatadas por Salvamento Marítimo y trasladadas hasta el Muelle de Arguineguín, en Gran Canaria

      Unos 600 migrantes han llegado a Canarias durante la pasada noche a bordo de un total de 20 embarcaciones irregulares, según ha informado el Centro Coordinador de Emergencias y Seguridad (Cecoes) 112.

      Todas las pateras fueron rescatadas por Salvamento Marítimo y trasladadas hasta el Muelle de Arguineguín (Gran Canaria) para ser asistidos por Servicio de Urgencias Canario (SUC), Cruz Roja y personal del centro de salud de la zona.

      Esta veintena de embarcaciones irregulares se suman al goteo de constante de pateras durante el fin de semana, ya que durante la jornada del sábado fueron un total de 18 con más de 1.000 personas.

      https://www.laprovincia.es/canarias/2020/11/08/canarias-migrantes-22652765.html

    • 500 migrantes han muerto intentando llegar a Canarias en una semana

      Según la ONG Caminando Fronteras, 480 senegaleses han perdido la vida cuando intentaban llegar a Canarias en pateras o cayucos durante la última semana de octubre. «Es una tragedia terrible que en sólo unos días se hayan perdido tantas vidas, este año la ruta de Canarias está dejando una cifra de muertos vergonzosa», explica Helena Maleno, portavoz de la ONG

      El récord de llegadas de pateras y cayucos hasta Canarias también ha disparado otra cifra: la de los fallecidos en naufragios. Según la ONG Caminando Fronteras, durante la última semana de octubre, unos 480 migrantes fallecían en su intento por llegar al Archipiélago. Todos eran senegaleses que morían en el Atlántico cuando viajaban en pateras o cayucos. «Es una tragedia terrible que en sólo una semana haya tantas víctimas. Estamos recabando todas las informaciones que podemos sobre los naufragios de la ruta del Atlántico y estamos comprobando que las cifras de 2020 son vergonzosas», asegura Helena Maleno, portavoz de la ONG.

      Según Maleno, hace unos días recibieron llamadas de jóvenes internautas senegaleses alertándoles de estas muertes. «Teníamos constancia de dos de los naufragios y estos jóvenes nos han aportado informaciones de la Marina senegalesa y de otras organizaciones con la que hemos sumado estas 480 víctimas», cuenta la portavoz.

      Estos jóvenes internautas han organizado una jornada de duelo nacional para el próximo 13 de noviembre para recordar a las víctimas del fenómeno migratorio.

      https://cadenaser.com/emisora/2020/11/11/ser_las_palmas/1605095452_244277.html?ssm=fb

      #décès #morts #mourir_en_mer

    • Tiendas de campaña y camastros: así es el campamento para migrantes que reemplaza al de #Arguineguín

      Un año después de que se reactivara la ruta migratoria canaria en noviembre de 2019, los esperados espacios cedidos por el Ministerio de Defensa para albergar migrantes comienzan a habilitarse. La Brigada Canarias XVI del Mando de Canarias del Ejército de Tierra empezó este miércoles a levantar el campamento que gestionará el Ministerio del Interior en el antiguo polvorín de Barranco Seco, en Gran Canaria, a solo tres kilómetros del Centro de Internamiento de Extranjeros.

      El campamento está integrado por tiendas de campaña y 200 literas militares y tiene una capacidad total para 800 personas."En Arguineguín no todos dormían en camas o en literas", justifican desde Defensa en declaraciones recogidas por Desalambre.

      Según ha confirmado el departamento que dirige Fernando Grande-Marlaska, la finalidad de este espacio es que los agentes de la Policía Nacional procedan a la filiación de las personas llegadas por vía marítima a la Isla. Esta misma mañana, los propios militares procedieron a desinfectar la zona. Otro de los espacios cedidos por Defensa es el antiguo cuartel del Regimiento Canarias 50 en el barrio de La Isleta

      El antiguo polvorín de Barranco Seco sustituirá al campamento de emergencia levantado por Cruz Roja en el muelle de Arguineguín, cuyo desmantelamiento ya fue anunciado por Grande-Marlaska durante su visita a Gran Canaria en compañía de la comisaria europea Ylva Johansson. En la actualidad, unas 2.000 personas permanecen hacinadas en el puerto a la espera de los resultados de la PCR obligatoria a la que se someten al llegar al Archipiélago. La Comisión Española de Ayuda al Refugiado (CEAR) y Humans Right Watch ya advirtieron de que en el muelle no había carpas para todos, haciendo que cientos de migrantes se vieran obligados a dormir en el suelo y a la intemperie entre ratas, tal y como denunció el presidente del Cabildo de Gran Canaria, Antonio Morales, en un vídeo.

      https://www.eldiario.es/canariasahora/migraciones/tiendas-campana-camastros-campamento-migrantes-reemplaza-arguineguin_3_6408

    • ACNUR y la OIM ayudarán a Canarias a gestionar la crisis migratoria

      Las organizaciones darán su apoyo con tres efectivos destacados en Gran Canaria desde el próximo mes de enero. Quieren dar «una respuesta digna y humana» a esta «situación de emergencia».

      El Alto Comisionado de Naciones Unidas para los Refugiados (ACNUR) y la Organización Internacional para las Migraciones (OIM) ayudarán, con tres efectivos destacados en Gran Canaria desde el próximo mes de enero, a gestionar la crisis migratoria que afecta a Canarias. Así se han comprometido este lunes con el presidente canario, Ángel Víctor Torres, las representantes en España de ambas entidades Sophie Muller (ACNUR) y María Jesús Herrera (OIM), en el inicio de una visita institucional de tres días a Gran Canaria y Tenerife donde conocerán de primera mano la asistencia que se presta a las personas rescatadas de pateras y cayucos procedentes de África.

      Ambas representantes han mostrado a Torres la predisposición de las dos entidades dependientes de la ONU a ayudar a esta comunidad autónoma a dar «una respuesta digna y humana» a esta «situación de emergencia» en lo referido a la acogida, a la protección internacional que asista a estas personas, al respeto de los derechos humanos y al cumplimiento de las medidas anticovid-19.

      Después de que a Canarias hayan llegado este año 17.411 migrantes africanos, la mitad de ellos en el último mes, y de que el Gobierno español anunciara el pasado viernes un plan de choque para afrontar esta emergencia migratoria, ACNUR y la OIM quieren ver cómo pueden colaborar con las medidas propuestas, si bien advierten «cierto retraso» a la hora de habilitar los recursos necesarios para ello.

      Para responder a la solicitud de ayuda que les ha hecho el Gobierno canario, Muller y Herrera visitarán en estos tres días los «puntos calientes» de la ruta en Tenerife y Gran Canaria, donde 1.955 personas pernoctaron este domingo en el muelle de Arguineguín, tras un fin de semana con 1.347 rescatados, y elevarán un «plan de trabajo» a las direcciones de las entidades que representan. Por parte de ACNUR, Muller ha estimado que el plan de choque presentado por el Gobierno de España «incluye medidas para proporcionar una acogida más digna y humana a un volumen de llegadas muy importante».

      «El tiempo ha pasado, la situación ha empeorado y ahora hay un plan anunciado que estamos estudiando. Nos ponemos a disposición para ver cómo se puede implementar con los recursos necesarios, que vemos que están llegando, lo que consideramos una muy buena noticia. Vamos a ver cómo se implementan», ha afirmado la representante de ACNUR para España.

      Muller ha confiado en que la puesta en marcha de estas medidas de emergencia por parte del Gobierno español «sea muy humana» y ha informado de que en su visita a Gran Canaria y Tenerife pretende «ver muy en detalle la situación para poder analizarla de manera transversal, tanto respecto a las llegadas como al acceso de estas personas a servicios y derechos».

      «No pedimos promesas, estamos aquí para compartir con las autoridades nuestro análisis y previsiones y llamar la atención respecto de sus obligaciones internacionales», ha aseverado al ser preguntada por la confianza que ACNUR tiene en el plan de choque anunciado por España.

      «Desde hace meses, hemos visto que no ha sido nada fácil» absorber los flujos migratorios que registra la ruta atlántica, ha admitido Muller, quien ha estimado que, aunque «ha habido muchos intentos de poner en marcha recursos, no ha sido posible concretarlos» hasta ahora, que se «está a punto de hacerlo», por lo que ha recalcado que desde ACNUR no se quiere «criticar antes de ver si esto es así y hay esperanza de que esta vez sí va a ser posible».

      La jefa de misión para España de la OIM, María Jesús Herrera, ha asegurado que las dos organizaciones dependientes de la ONU están «preparadas para poder asistir al Gobierno». Por ello, vienen para ver en qué pueden ser útiles para que se respeten todas las medidas de seguridad ante la covid-19, los derechos de las personas que llegan, «como se está haciendo», y apostar también «por la solidaridad de las poblaciones locales españolas ante una situación internacional tan complicada».

      Herrera ha avanzado que la OIM hará «algunas propuestas para que la situación pueda mejorar» en Canarias y, como no tiene competencia en acogida, esta entidad «está dispuesta a lo que haga falta» para ayudar, como ya ha hecho en otros lugares, en «ofrecer información de primera llegada, asistencia sanitaria o retorno voluntario asistido», unas medidas que puede coordinar desde Gran Canaria, con personal propio, desde el próximo mes de enero.

      Herrera ha advertido que la OIM «no puede intervenir» en las decisiones del Gobierno español «sobre si hay o no movilidad», en referencia a los reparos que muestran tanto la Administración estatal como la propia Comisión Europea a la hora de promover derivaciones de migrantes rescatados en esta frontera sur de Europa a otras comunidades autónomas o países miembros de la UE. «Lo que queremos es que haya una política de coordinación mayor y vemos un cambio importante de coordinación en las últimas medidas anunciadas, que consideramos fundamental», ha aseverado.

      https://www.publico.es/sociedad/migracion-acnur-oim-ayudaran-canarias-gestionar-crisis-migratoria.html
      #OIM #IOM #HCR

    • El Gobierno despliega campamentos para la crisis migratoria en Canarias

      El plan de acogida para casi 7.000 personas mantiene el tapón en las islas

      El ministro de Inclusión, Seguridad Social y Migraciones, José Luis Escrivá, anunció este viernes que de aquí a finales de año Canarias contará con 7.000 plazas de acogida provisionales en carpas para vaciar el puerto de Arguineguín y los establecimientos hoteleros. El ministro aseguró en Las Palmas que esta medida aspira a “reconducir la crisis migratoria” de las islas. También se iniciarán obras para habilitar cuarteles cedidos por Defensa y consolidar una red fija de acogida en el archipiélago. El plan supone asumir que la presión migratoria en Canarias continuará. La acogida se centrará en las islas.

      “Está claro que podríamos haber llegado antes y que podríamos haber tenido mayor capacidad de anticipación, pero lo importante es mirar hacia delante”, aseguró José Luis Escrivá durante su visita del viernes. El ministro de Migraciones compareció ante los medios acompañado por el presidente de Canarias, Ángel Víctor Torres (PSOE), la secretaria de Estado de Migraciones, Hana Jalloul, y el ministro de Transportes, Movilidad y Agenda Urbana, José Luis Ábalos, tras visitar el centro de Salvamento Marítimo de Las Palmas de Gran Canaria. Junto a ellos, Escrivá presentó un plan de acogida de urgencia.

      En lo que va de año, han llegado a las costas canarias alrededor de 18.300 personas; el 65% de ellas, a Gran Canaria; el 20%, a Tenerife; y el 10%, a Fuerteventura. Del total, Escrivá calcula que apenas el 10% se puede considerar vulnerable o podrá acceder al estatus de refugiado. El epicentro de este fenómeno migratorio ha sido el puerto de Arguineguín, que aloja en la actualidad a poco más de 1.300 personas, si bien ha llegado a registrar picos de 2.300 en un dique de apenas 3.600 metros cuadrados. Además, 17 hoteles y edificios de apartamentos alojan a 5.500 migrantes, según los datos del Ministerio.

      Está previsto que las personas acogidas en los hoteles sean realojadas en las carpas provisionales de media docena de instalaciones. El ministro ha explicado que este plan de actuación constará de dos fases: una primera con soluciones de emergencia y otra, en la que se tratarán de crear redes estables.

      En Gran Canaria, el Colegio León contará con 300 plazas en carpas, si bien en un futuro se habilitarán 400 plazas en interior. Además, se está trabajando en el cuartel militar Canarias 50, que contará con 650 plazas provisionales y estará disponible a partir de diciembre. Actualmente, dicho acuartelamiento ha pasado a ser propiedad del Ministerio de Inclusión, si bien se traspasará al Ayuntamiento de Las Palmas de Gran Canaria en cuanto acabe la fase de emergencia. Más adelante, este cuartel contará con 1.150 plazas en módulos prefabricados. Además, Bankia ha cedido una nave de 7.000 metros cuadrados en un polígono industrial de la capital en cuyo interior hay capacidad para 500 personas.

      Tenerife, por su parte, cuenta ya con el cuartel de Las Canteras, que tiene capacidad para 1.800 plazas en 10 edificios. En el futuro, llegará a 2.000 plazas. Migraciones, además, está acondicionando el terreno en Las Raíces, en El Rosario. Esta es una cesión temporal del Ministerio de Defensa, donde hasta diciembre instalarán 1.500 plazas en carpas. En Fuerteventura, por último, está el acuartelamiento el Matorral, que contará con 700 plazas. Una vez que acabe esta primera fase, Gran Canaria dispondrá de 1.950 nuevas plazas de acogida; Tenerife, de 3.250 plazas, y Fuerteventura, de 700. A estas hay que añadir las 1.100 plazas en centros que dependen del ministerio que ya están en uso.

      Los recursos estables, que se irán desarrollando progresivamente a lo largo de 2021, llegarán a un total de 6.450 plazas y se financiarán con 43 millones del Fondo de Recuperación de la UE.

      La Secretaría de Estado de Migraciones tendrá en Canarias un centro de coordinación con personal estable que permita organizar las situaciones de emergencia de forma rápida, en la que también estará representada la Delegación del Gobierno en Canarias. Este centro estará en marcha en 15 días.

      No a las derivaciones

      Este plan de acogida de Migraciones supone que las islas Canarias van a seguir siendo una suerte de tapón migratorio. El ministro del Interior, Fernando Grande-Marlaska, ha descartado de hecho este viernes el traslado masivo o regular de inmigrantes desde Canarias hacia la Península, una decisión que ha vinculado con “las políticas migratorias, que son del conjunto de la UE, y no solo de España”, informa Efe. El ministro se encontraba de viaje en Rabat (Marruecos), donde se reunió con su homólogo, Abdeluafi Laftit, para tratar de contener el fenómeno migratorio. “Cuando se habla de traslado a la Península [digo]: hay que luchar contra la emigración irregular y evitar que se establezcan vías de entrada irregular a Europa”.

      Este anuncio choca con las palabras pronunciadas este viernes por el presidente canario, quien reiteró la voluntad de aceptar “solidariamente un porcentaje de migrantes” y se mostró tajante: “Me niego rotundamente a que Canarias reciba el 100% de los migrantes. No podemos solos. No podemos con eso”, aseguró tras recordar que en lo que va de año han perdido la vida entre 500 y 1.000 personas intentando alcanzar las islas.

      Diversas comunidades autónomas, entre ellas la de Castilla y León, se han mostrado dispuestas a recibir migrantes. El ministro de Migraciones, José Luis Escrivá, puntualizó sin embargo que las derivaciones se ceñirán a personas vulnerables.

      https://elpais.com/espana/2020-11-20/el-gobierno-habilitara-7000-plazas-hasta-diciembre-en-carpas-para-vaciar-arg

    • Sur les îles Canaries, les arrivées massives de migrants africains font craindre l’apparition d’une « nouvelle Lesbos »

      L’archipel espagnol connaît une brusque accélération de l’immigration provoquée par la crise liée au Covid-19 et par une surveillance accrue des entrées en Europe par la Méditerranée.

      Un port transformé en campement de fortune, des migrants transférés de manière précipitée dans des hôtels ou d’anciennes installations militaires : depuis le début de l’année, plus de 16 700 migrants africains sont arrivés illégalement sur les côtes des îles Canaries.

      Débordée par ces arrivées, l’Espagne a activé sa diplomatie : vendredi 20 novembre, le ministre de l’intérieur, Fernando Grande-Marlaska, doit se rendre à Rabat, au Maroc, avant une visite au Sénégal de la ministre des affaires étrangères, Arancha Gonzales, samedi.

      L’archipel de l’océan Atlantique, situé au large des côtes nord-ouest du continent africain, connaît en 2020 une immigration onze fois supérieure aux niveaux atteints en 2019. Selon le gouvernement régional des Canaries, au moins cinq cents personnes ont péri durant ces tentatives de traversée extrêmement dangereuses, les côtes africaines les plus proches se trouvant à plus d’une centaine de kilomètres.

      La crise est centrée actuellement sur Arguineguin, un petit port de l’île de Grande Canarie, l’une des sept îles de l’archipel. Depuis plusieurs jours, ce port abrite environ deux mille migrants, dans des tentes de campagne, où ils sont testés contre le Covid-19. Et si de l’eau et de la nourriture leur sont fournies, les conditions de vie sur place sont dénoncées par plusieurs organisations humanitaires.

      Quelles sont les causes de cette nouvelle crise migratoire ?

      La brusque accélération du nombre de traversées est « plus ou moins » équivalente à celle de l’année 2006, quand 30 000 migrants étaient arrivés aux Canaries en quelques mois, selon l’estimation d’un porte-parole de la Croix-Rouge à l’Agence France-Presse (AFP).

      « Beaucoup fuient les persécutions et la violence dans la région du Sahel ou en Côte-d’Ivoire, tandis que d’autres partent en raison de l’extrême pauvreté, ont estimé l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) et le Haut-Commissariat aux réfugiés (HCR) dans un communiqué commun, le 16 novembre. Les conséquences de la pandémie de Covid-19, l’insécurité alimentaire et le changement climatique sont parmi les autres facteurs à l’origine de cet exode. »

      Depuis plusieurs mois, les migrants africains ont aussi préféré la route des Canaries à celles de la Méditerranée, à la suite du renforcement des contrôles frontaliers permis par les accords conclus entre l’Union européenne (UE) avec la Libye, ainsi que la Turquie. La coopération entre l’Espagne et le Maroc sur la surveillance du détroit de Gibraltar a aussi été renforcée en 2019, poussant les réseaux de passeurs à proposer des traversées depuis le littoral du sud du pays, directement orienté vers l’archipel des îles Canaries. « Quand vous fermez une route [migratoire], une autre s’ouvre, plus chère et plus dangereuse », a commenté Judith Sunderland, vice-directrice pour l’Europe de l’organisation Human Rights Watch (HRW).

      Quels sont les dangers de la traversée vers les Canaries ?

      La route des Canaries « est la plus dangereuse, c’est celle où [les migrants] prennent le plus de risques, et il y a donc plus de morts », a déclaré à l’AFP le préfet de l’archipel, Anselmo Pestana. « Ils peuvent mettre quarante-huit heures ou plus d’une semaine, avec une mer traîtresse, des vents qui tournent et peuvent transformer les nuits en un véritable enfer », précise à l’agence Txema Santana, membre de la Commission espagnole d’aide aux réfugiés, une organisation non gouvernementale (ONG) locale.

      Les moyens de transports gérés par les réseaux de passeurs consistent en de longues pirogues en bois, fragiles et surchargées pour de tels trajets : une vingtaine d’opérations de secours menées en seulement vingt-quatre heures, entre le 18 et 19 novembre, ont permis de sauver 630 migrants, selon les chiffres de Salvamento Maritimo, une organisation de secours en mer.

      Depuis la fin de l’été, les naufrages se multiplient : deux embarcations transportant près de trois cents migrants ont notamment été secourues de justesse, le 26 octobre, après une panne de moteur au large de la Mauritanie. Quelques jours plus tôt, un incendie s’était déclaré à bord d’une pirogue au large de Mbour, à plus de 80 kilomètres au sud-est de Dakar, provoqué par « une explosion du moteur et des fûts de carburant à bord ». L’estimation officielle du nombre de morts est depuis contestée par les familles de disparus dont les corps n’ont pas été retrouvés.

      Quelle est la réponse des autorités ?

      « Nous n’allons pas transformer les Canaries en une nouvelle Lesbos », a assuré lundi le ministre de l’intérieur espagnol, Fernando Grande-Marlaska, en référence à l’emblématique île grecque, porte de l’Union européenne (UE) dont les camps sont submergés et avec des conditions de vie dénoncées par de nombreuses organisations internationales. Vendredi, celui-ci doit se rendre en visite à Rabat et rencontrer les autorités « pour renforcer la collaboration et travailler de manière conjointe (…) pour éviter ces départs » de migrants, a détaillé la ministre de la politique territoriale espagnole, Carolina Darias.

      Pour Madrid, empêcher une saturation des capacités d’accueil de l’archipel passe par l’accentuation d’une « politique de retour » déjà engagée depuis plusieurs années : à peine arrivés sur l’île, les migrants auxquels il est adressé un ordre d’expulsion sont le plus rapidement raccompagnés en avion vers leur pays d’origine. Une stratégie soutenue par la Commission européenne, qui plaide pour « augmenter les retours » des migrants « qui n’ont pas besoin de protection internationale », a expliqué sa commissaire aux affaires intérieures, la Suédoise Ylva Johansson, en visite la semaine dernière dans les Canaries.

      L’une des responsables de l’ONG Amnesty International en Espagne, Virginia Alvarez, a déploré, mercredi 18 novembre, des mesures prises trop tardivement alors que les premières alertes avaient été lancées « dès septembre ». L’organisation humanitaire a également demandé que le droit d’asile soit garanti aux migrants remplissant les conditions et qu’une aide juridique soit proposée à ceux risquant l’expulsion. Mme Carolina Darias a, de son côté, annoncé vouloir renforcer les moyens de surveillance maritimes et aériens, en détachant plusieurs navires, un sous-marin, un avion et un hélicoptère entre les Canaries et l’Afrique.

      https://www.lemonde.fr/international/article/2020/11/20/les-arrivees-massives-de-migrants-africains-font-craindre-l-apparition-d-une

    • Immigration.Les Canaries espagnoles deviennent-elles des “#îles-prisons” pour les migrants ?

      Le ministère de l’Intérieur espagnol refuse de transférer les clandestins dans des centres d’accueil de la péninsule, donc de l’Union européenne. Plus de 18 000 personnes ont été recueillies en mer depuis le début l’année avant d’être transférées vers l’archipel, raconte El País.

      La crise migratoire que vit l’archipel espagnol des Canaries, avec plus de 18 000 personnes secourues cette année, est devenue une véritable poudrière sociale et politique.

      Les transferts des migrants vers le nouveau centre de prise en charge temporaire des étrangers (CATE) de Barranco Seco (Grande Canarie) [dans des installations militaires] a commencé le mercredi 18 novembre.

      Il s’agit de soulager le quai d’Arguineguín, dans la ville de Mogán, dans le sud de l’île de Grande Canarie. Le quai est saturé par l’afflux constant de pateras, ces embarcations de fortune sur lesquelles les migrants tentent d’atteindre les Canaries.
      Une incitation ?

      Entre-temps, le gouvernement ne parvient pas à s’entendre sur la façon de résoudre cette crise. L’équipe du ministre de l’Inclusion, des Migrations et de la Sécurité sociale, José Luis Escrivá, mise sur les transferts vers la péninsule pour soulager la pression sur les Canaries. Mais le ministre de l’Intérieur, Fernando Grande-Marlaska, rejette en bloc l’idée de laisser entrer des migrants en grand nombre dans la péninsule. D’autres ministères compétents en matière migratoire soutiennent la thèse de l’Intérieur et estiment que faciliter le transit vers le continent constituerait une incitation et pourrait provoquer davantage d’arrivées.

      Depuis le début de l’année, moins de 1 800 migrants ont été autorisés à débarquer sur la péninsule, selon des sources proches du dossier. “Cela se fait de façon ponctuelle, en accordant la priorité à des profils bénéficiant d’une protection internationale ainsi qu’à des collectifs vulnérables”, affirment des sources officielles. Ces migrants ne sont pas les seuls à avoir quitté l’archipel.
      Une pression maximale

      Outre les quelque 200 expulsions qui ont pu être effectuées depuis le début de l’année, il y a un nombre indéterminé de migrants, surtout marocains, qui sont parvenus à se rendre d’eux-mêmes sur la péninsule, munis de leurs passeports, mais le dispositif reste soumis à une pression maximale.

      Pour la direction générale des migrations, qui héberge environ 1 200 personnes dans des centres d’accueil, et 5 000 autres dans des hôtels et des appartements évacués en raison de la pandémie, faute d’autres lieux d’accueil dans les îles, ces transferts sont essentiels. Le réseau d’accueil ne peut tenir le choc qu’à condition qu’il y ait une rotation des usagers.
      La solution provisoire des hôtels

      Dans la péninsule, la rotation est possible, car les migrants arrivés en pateras [par le détroit de Gibraltar] ne restent pas indéfiniment dans les centres d’accueil et finissent par partir chercher du travail, à moins qu’ils ne se regroupent avec des proches ou des connaissances en Espagne et dans d’autres pays de l’UE, lorsqu’ils en ont la possibilité.

      Dans les îles, avec le volume d’arrivées actuel et le nombre limité de départs, la saturation menace. De plus, les hôtels représentent une solution provisoire et coûteuse, sans compter que cela suscite un rejet de la part d’une partie des hôteliers et de la population canariens.

      José Luis Escrivá, selon des sources impliquées dans la gestion de la crise, a voulu affréter un bateau pour transporter 800 personnes, mais le ministère de l’Intérieur s’y est opposé catégoriquement.

      Les seuls transferts autorisés sont par groupes de 30 ou 40 personnes qui voyagent hebdomadairement par bateau ou par avion, si l’on en croit certains des migrants ainsi transférés ainsi que des responsables de la prise en charge de ceux qui viennent d’arriver.
      Opacité quasi totale

      Les tensions avec le ministère de Grande-Marlaska sur cette question durent depuis l’année dernière, quand les arrivées sur l’archipel ont commencé à grimper.

      L’opacité avec laquelle sont gérés ces transferts est quasi totale. Il y a un mois, la Croix-Rouge a confirmé à El País qu’environ 1 200 personnes avaient été transférées des centres de l’archipel vers des structures d’autres provinces, entre septembre 2019 et octobre 2020.

      Les migrants en question ont été répartis sur plusieurs vols ou ont traversé par bateau, la priorité ayant été accordée aux femmes et aux enfants, mais d’autres profils ont été privilégiés, notamment ceux qui avaient des proches dans différents pays de l’UE, qu’ils souhaitaient retrouver. Un mois après que les derniers chiffres ont été publiés, période pendant laquelle près de 9 000 personnes supplémentaires ont débarqué, les porte-parole de l’Intérieur, de la direction des migrations et de la Delegación del Gobierno [équivalent de la préfecture] se refusent à actualiser les données.

      Le problème dépasse les frontières de la péninsule. L’Union européenne et des partenaires comme la France, qui absorbe un volume important des migrants entrés illégalement sur le territoire espagnol, font pression sur l’Espagne pour qu’elle freine le transit vers le continent des migrants ayant débarqué aux Canaries.

      La commissaire de l’Intérieur de l’UE, la Suédoise Ylva Johansson, l’a fait savoir clairement lors de sa visite sur l’archipel en compagnie de Grande-Marlaska, le 6 novembre. “Les personnes qui n’ont pas besoin d’une protection internationale, les migrants économiques doivent être renvoyés dans leurs pays”, a souligné la commissaire.

      La difficulté à laquelle est confrontée l’Espagne – comme d’ailleurs tous ses partenaires européens – est qu’elle ne parvient pas à renvoyer dans leurs pays tous les migrants en situation irrégulière qu’elle reçoit. Les expulsions, qui viennent de reprendre en direction de la Mauritanie et du Maroc, et qui devraient redémarrer vers le Sénégal, ne se traduisent que par un nombre limité de retours.
      Des “réponses évasives”

      Entre-temps, les autorités canariennes vivent la crise dans une profonde anxiété et réclament des solutions au gouvernement de Madrid. Le chef du gouvernement autonome canarien, le socialiste Ángel Víctor Torres, assurait il y a peu :

      L’une des mesures essentielles et urgentes est que les personnes qui sont aux Canaries, dans un esprit de solidarité et en tenant compte de la situation dans notre pays, soient transférées vers d’autres régions autonomes, et bien entendu vers l’UE, qui doit définir le modèle dont elle veut se doter pour le présent et pour l’avenir.”

      Le président du Cabildo de Grande-Canarie [l’administration locale de l’île], Antonio Morales, assure avoir posé la question des transferts lors d’une réunion avec la commissaire Ylva Johansson et le ministre Grande-Marlarska, à l’occasion de sa visite du 6 novembre dernier :

      J’ai dit clairement à la commissaire que nous n’allions pas accepter de devenir une île-prison, mais je n’ai eu droit qu’à des réponses évasives. Le problème des transferts a été un sujet tabou pendant cette réunion, l’Europe ne veut pas qu’on en parle”.

      Ce dossier est déjà devenu un grave problème politique. La grande inquiétude est que Vox, le parti d’extrême droite, n’instrumentalise cette crise pour alimenter son discours xénophobe. La pression s’accroît. Et les transferts massifs vers la péninsule ne sont toujours pas une vraie solution pour le gouvernement.

      https://www.courrierinternational.com/article/immigration-les-canaries-espagnoles-deviennent-elles-des-iles

    • Le Défenseur du Peuple qui demande la fermeture du camp d’#Arguineguín

      El Defensor del Pueblo pide a Interior el cierre del muelle de Arguineguín

      El Defensor del Pueblo ha remitido un escrito al Ministerio del Interior en el que pide el cierre del campamento del muelle de Arguineguín, en Gran Canaria, que este jueves albergaba casi un millar de migrantes, aunque ha llegado a alojar a 2.600 personas a principios de noviembre.

      Según han confirmado a Efe fuentes de la institución, la petición se produce después de que un equipo del Defensor del Pueblo hiciera por sorpresa el pasado día 16 una visita al muelle de Arguineguín, en Gran Canaria, junto a una ronda de inspecciones por la red de acogida de las islas para comprobar el trato que reciben los inmigrantes cuando llegan en cayucos o pateras a Canarias.

      El equipo técnico del Defensor del Pueblo estuvo varias horas en el campamento de emergencia de Cruz Roja de este puerto del sur de Gran Canaria para revisar sus condiciones.

      A la vista de esta inspección, la institución ha remitido esta petición de cierre del muelle de Arguineguín porque se podrían estar vulnerando derechos fundamentales.

      Las llegadas de inmigrantes se siguiendo sucediendo este jueves en una jornada en la que el muelle de Arguineguín ha vuelto a albergar a un millar de personas.

      Salvamento Marítimo desembarcó en el muelle de Arguineguín a 348 ocupantes de once embarcaciones, dos de ellos bebés, a quienes ha auxiliado al sur de Gran Canaria hasta primera hora de esta tarde del jueves.

      El muelle se abrió el 20 de agosto con capacidad teórica de 400 personas. Numerosas organizaciones como Human Rights Watch, la Comisión Española de Ayuda al Refugiado o Amnistía Internacional o el propio Gobierno de Canarias han reclamado de forma reiterada su cierre por la vulneración de derechos humanos contra los inmigrantes.

      Interior ha mostrado su intención de cerrarlo por no reunir condiciones para la acogida, pero los inmigrantes siguen llegando.

      El juez del Centro de Internamiento de Extranjeros (CIE), Arcadio Díez Tejera, ha revelado testimonios de personas que han permanecido hasta tres semanas, cuando el máximo deben ser 72 horas, lo mismo que HRW, cuya responsable para Europa, Judith Sunderland, visitó el muelle y se entrevistó con inmigrantes que había estado allí retenidos.

      Todos duermen en el suelo con mantas cedidas por Cruz Roja. Solo se les sirven bocadillos, para no usar cubiertos por seguridad. El compromiso de Migraciones es habilitar campamentos, sobre todo en instalaciones militares, para albergar a 7.000 personas, un número similar al que albergan los hoteles en estos momentos.

      https://www.eldiario.es/canariasahora/migraciones/defensor-pueblo-pide-interior-cierre-muelle-arguineguin_1_6464131.html

    • les conditions d’accueil déplorables et la non garantie des Droits des migrants:

      Un día dentro del campamento para migrantes de Arguineguín

      Menos de un litro de agua por persona, sin duchas, luchando por un cartón sobre el que dormir y comiendo hasta dos semanas tres bocadillos diarios y zumos envasados

      El cartón es duro e incómodo, pero es «mejor que dormir sobre el asfalto». S. no está acostumbrado a la fría brisa que se levanta por las noches en el muelle de Arguineguín. En la región de Marruecos en la que nació, el calor envuelve las calles incluso cuando se pone el sol. Cuando acababa el día, él y sus compañeros pedían al personal que trabaja en el muelle los cartones de las cajas que se utilizaban para cargar alimentos o material sanitario. No siempre había para todos, y eso era motivo de crispación. Al final, agazapándose, encontraban hueco suficiente dentro de las tiendas de campaña. En otras ocasiones se quedaban a la intemperie y construían casetas improvisadas colgando mantas con cuerdas sobre las vallas amarillas para poder cubrirse.

      Era habitual que quienes dormían en este borde del puerto sintieran en mitad de la madrugada el impacto de gotas frías del mar en la piel. En el campamento del sur de Gran Canaria, que ha albergado hasta 2.600 personas pese a tener capacidad para 400, a S. le costaba dormir. Algunas veces pasaba horas observando el techo de la carpa, preguntándose si valdría la pena haber apostado su vida en el mar por un futuro mejor. También pensaba en si su madre y sus hermanos estarían bien. Le habría gustado decirles que ha logrado tocar tierra firme, pero su teléfono no tiene batería y no podía cargarlo allí.

      Los migrantes de Arguineguín abrían los ojos con el primer rayo de sol. Otras veces, lo que les despertaba era la sirena de alguna ambulancia o el ajetreo de un nuevo rescate. Para desayunar, un bocadillo de atún y millo o de pechuga de pollo y un zumo envasado. Lo mismo para almorzar y también para cenar. Los días en los que se multiplicaban los desembarcos en el muelle y había hasta 2.000 migrantes en el campamento, el personal de Cruz Roja no daba abasto. Las comidas se solapaban, y el reparto del almuerzo terminaba cuando llegaba la hora de comenzar a distribuir la cena.

      Algo similar ocurría con el agua. Fuentes consultadas que han estado presentes dentro del campamento y que prefieren no revelar su identidad explican que se da una garrafa por grupos de ocho a diez personas, sin vasos. Uno de los migrantes que estuvo internado más de una semana explica que en su tienda de campaña había 110 personas, por lo que les repartían doce garrafas de ocho litros por la mañana y por la tarde. Menos de un litro por persona pese a las altas temperaturas que caracterizan a este punto de la isla.

      Morir por infecciones

      Tampoco hay duchas ni agua para lavarse las manos más allá de las botellas que tienen para beber, ni siquiera pueden lavar sus manos antes del rezo. Suelen permanecer con la misma ropa hasta que se marchan. Según fuentes que han trabajado en el campamento, cuando el volumen de personas es muy alto solo se da ropa nueva a quienes llevan prendas muy deterioradas o empapadas de la travesía. «Si no hay para todos, no pueden dársela a unos sí y a otros no. Hay mucha gente que sigue descalza o con zapatos que no son de su talla», apuntan. En cuanto al acceso a mascarillas, reciben una quirúrgica a su llegada. «Es obligatoria. Si la pedimos nos dan una nueva, pero a veces no quedan», cuenta S.

      Cuando pisan Arguineguín, se procede a su filiación. En un mismo paquete viene la hoja de registro y una pulsera. El brazalete incluye el número de la patera en la que han llegado y, en lugar del nombre y apellido de cada una de ellos, otra cifra. La pulsera es roja si la persona ha precisado atención médica en el muelle, y verde si se encuentran «bien». Después reciben asistencia médica. Una de las carpas del muelle funciona como pequeño hospital, pero las personas en un estado de extrema gravedad son evacuadas a los hospitales de la isla. Ambos están a más de una hora de distancia.

      El estado de salud y de ánimo de los migrantes aglomerados en el muelle va cayendo con el paso de los días. En algunos casos, sobre todo en el de las personas que viajan desde países subsaharianos, se desvanecen en cuanto pisan tierra después de haber estado hasta dos semanas en un cayuco. Tras recibir una primera asistencia, son ubicados en carpas, en las que no se pueden mezclar personas que hayan llegado en embarcaciones diferentes, como medida de prevención para contener la COVID-19. Cada una de las tiendas está bordeada por una valla amarilla. Cuando llega la hora del reparto de la comida, quienes se encuentran muy mal «apenas tienen fuerzas para levantarse y salir a recoger el bocadillo».

      Fuentes del Servicio Canario de Salud que han atendido a los migrantes tras su paso por el muelle de Arguineguín explican que las lesiones que presentan como consecuencia de permanecer tirados en el puerto se suman a las afecciones propias del viaje en patera. Las secuelas de la travesía son deshidratación, heridas y úlceras de presión mantenida en glúteos, caderas y rodillas, por pasar mucho tiempo en la misma posición. Después de su paso por el «campamento de la vergüenza», las peores patologías aparecen como consecuencia de una falta de higiene. «Pueden morir por infecciones y cuadros de deshidratación», apuntan.

      El equipo médico se configuró en un primer momento para la realización de pruebas PCR y seguimiento de cuarentenas. Sin embargo, los casos con los que se han encontrado permiten concluir que el virus «ha pasado a otro plano» porque «la base está fallando»: «Estamos hablando de valores y de respeto. Las necesidades de comida, bebida e higiene no están cubiertas». Atravesar todos estos obstáculos fuera y dentro de las fronteras españolas también supone un fuerte impacto para la salud mental, provocando traumas y estados de shock.

      A las mujeres, los profesionales sanitarios y el personal de Cruz Roja les hace una entrevista más larga y se analiza su situación con mayor profundidad, ante el riesgo de que hayan llegado a Canarias como víctimas de redes de trata o de haber sufrido violaciones en el trayecto. En su caso y en el de los menores, su reubicación en otros espacios desde el muelle es más ágil.

      Con las manos atadas

      Entre los ocupantes del campamento de Arguineguín hay un gesto que se repite a diario. Unen sus muñecas formando una cruz y alzan sus brazos hacia el cielo. «Es como una prisión», explica S. Esta misma señal también se reproduce en el CATE de Barranco Seco. Este domingo, un hombre que permanece allí protagonizó un pequeño altercado al hacer señas a los medios de comunicación gritando y mostrando su pasaporte. Dos magistrados han establecido en la última semana que las personas llegadas en patera a las Islas no pueden ser retenidos en el muelle más de 72 horas en contra de su voluntad. El Ministerio del Interior ha asegurado que son los propios agentes de la Policía quienes informan a los migrantes de su derecho a marcharse. Sin embargo, jóvenes como Khalil (nombre ficticio) aseguran que «no hay información». «Cuando la pedimos dicen que no nos pueden responder porque hay mucha gente. Si lo hubiera sabido, no habría estado allí once días».

      Solo este fin de semana, al menos cinco familias han podido reencontrarse en Gran Canaria. «Su madre nos ha llamado llorando muy preocupada. Ella no sabía que él iba a irse de Marruecos en patera, porque si no, no le habría dejado marcharse», cuenta Abdel a las puertas del campamento de Cruz Roja en busca de un joven de 27 años que llevaba al menos 8 días en Arguineguín. Después de al menos una hora de espera, la Policía Nacional localizó al chico, identificó a las personas que lo iban a buscar y lo dejó marchar.

      Según Efe, está circulando una pauta de recomendaciones no oficiales de qué hacer tanto en Arguineguín como en el CATE de Barranco Seco si un inmigrante quiere marcharse o si un familiar acude a buscarlo. El consejo que, según Efe, han recibido los agentes es consultar formalmente a la Sala si procede o no la salida en caso de que en ese momento no haya funcionarios de Extranjería y dejarlos salir si no se comunica que siguen detenidos.

      Los problemas de información y la falta de asistencia letrada de los migrantes ya ha sido denunciada en otras ocasiones. A muchos de ellos se les ha entregado una orden de expulsión sin haber tenido entrevistas con ningún abogado. También el decano del Colegio de Abogados de Las Palmas, Rafael Massieu, denunció el «absolutamente insuficiente» número de traductores e intérpretes en el muelle, sin tener en cuenta que las personas que llegan no hablan español y, en ocasiones, tampoco inglés o francés.

      S. ya ha salido del muelle. Aún conserva su pulsera verde y un documento que no entendía del todo bien. Es una orden de devolución que lo empuja de nuevo al «infierno» de Marruecos. «Tengo mucho miedo de volver, es peor que una prisión. Allí no hay opción de tener una vida decente, ni acceso a los derechos más elementales. Mi abuelo está enfermo. Allí tengo a mi madre y a mis hermanos. Soy el único sustento de mi familia, pero allí las oportunidades de empleo son prácticamente inexistentes y el salario es muy bajo. Quiero mejorar la situación de mi familia».

      https://www.eldiario.es/canariasahora/migraciones/dia-campamento-migrantes-arguineguin_130_6463425.html

    • les migrants qui quittent les îles pour la péninsule à leurs frais dans des vols commerciaux réguliers :

      Decenas de migrantes sortean el bloqueo de Interior y viajan por su cuenta de Canarias a la Península

      Aunque el Gobierno obstaculiza los traslados a la Península de quienes llegan en patera al archipiélago, migrantes marroquíes logran viajar a otros puntos del país en vuelos comerciales

      En el aeropuerto de Las Palmas, en la puerta de embarque de un vuelo regular con destino Málaga, cuatro policías nacionales revisan la documentación de un grupo de alrededor de 40 hombres marroquíes. Algunos aún calzan las mismas zapatillas proporcionadas por Cruz Roja en el puerto de Arguineguín tras su llegada en patera. Tras mostrar su pasaporte y el billete, comprado por ellos mismos, la mayoría accede sin problema al avión en el que dejará atrás las islas, esquivando el tapón migratorio en el que el Ministerio del Interior pretende convertir Canarias.

      Aunque el Gobierno obstaculiza los traslados a la Península de quienes llegan en patera al Archipiélago, decenas de migrantes, mayoritariamente marroquíes, llevan meses abandonando las islas por su cuenta de manera paulatina. El Ministerio del Interior sostiene que las personas que llegan a Canarias en situación irregular «no tienen documentación acreditativa para poder trasladarse porque tienen abierto un expediente de expulsión». Sin embargo, en la práctica, los viajeros, nacionales o extranjeros, no tienen que pasar por un control de Extranjería para tomar vuelos en territorio Schengen y, por lo general, solo están obligados a mostrar su pasaporte antes del embarque.

      Según fuentes policiales, por esta razón, la Policía Nacional está realizando controles de identificación extraordinarios en los aeropuertos canarios con el objetivo de evitar la salida de las islas de migrantes en situación irregular. Según indican, se han «intensificado» los controles «en origen» desde el mes de septiembre.

      elDiario.es viajó este lunes de Las Palmas a Málaga con un grupo de alrededor de 40 migrantes, llegados en patera a Gran Canaria en las últimas semanas. La mayoría de los jóvenes marroquíes accedió al avión sin problema, con sus pasaportes, en el vuelo de Ryanair número FR3351. Además del control habitual realizado en la puerta de embarque por parte del personal de la compañía, las personas con rasgos magrebíes sí fueron sometidas a un chequeo policial antes de embarcar. Cuatro agentes comprobaron que las imágenes de sus documentos coincidían con sus rostros y los dejaron pasar. Los miembros de las fuerzas de seguridad no solicitaron ningún documento adicional.

      La explicación del Ministerio del Interior es contradictoria. Por un lado, sostienen que los migrantes llegados a Málaga «estarían autorizados para viajar». Por otro, defienden que las derivaciones oficiales a la Península se limitan a aquellas personas de «perfil vulnerable», es decir, demandantes de protección internacional, enfermos, mujeres embarazadas, o personas de países con los que España no cuenta con un acuerdo de expulsión. Los jóvenes que viajaron a Málaga procedían de Marruecos, a donde el Gobierno reactivó las deportaciones el pasado 20 de noviembre.

      Los traslados autorizados de migrantes desde Canarias a la Península son competencia de los ministerios de Migraciones e Interior. El departamento dirigido por José Luis Escrivá envía al equipo de Fernando Grande-Marlaska una serie de listados de posibles personas a derivar a la Península, propuestos por las ONG que gestionan su acogida. Interior se encarga de autorizar una parte de estos, muy reducida desde principios de este año, a los que proporciona salvoconductos que permiten su viaje a pesar de encontrarse en situación irregular. El billete es financiado por la organización, que también los recoge en el lugar de destino, donde cuentan con una plaza en el sistema de atención humanitaria.

      Este no fue el caso de Hisam, una de las personas que viajó este lunes a Málaga por su cuenta. El joven marroquí, originario de un pueblo próximo a Marrakech, se compró su billete con el escaso dinero que le quedaba, y no llevaba ningún salvoconducto que facilitase su entrada en la Península. Hisam no sabe leer ni escribir, pero aprendió desde pequeño a trabajar en el campo como temporero. La sequía de este último año y el impacto de la pandemia en la economía marroquí han frenado sus oportunidades laborales, explicó, por lo que el joven decidió migrar a España a través de Canarias.

      Su trayecto migratorio no había acabado al bajar de la patera. Su objetivo era llegar a Almería, donde le esperaba su hermano para empezar de nuevo. Asegura que pasó 10 días en el campamento de migrantes improvisado del muelle de Arguineguín y, después de unos días de estancia en las plazas de acogida habilitada en los hoteles de Gran Canaria, se compró un billete junto a otros compañeros. Al aeropuerto llegó desubicado, ya que era la primera vez que viajaba. Estaba visiblemente nervioso.

      Desde Alternativa Sindical de Policía (ASP) afirman que las salidas no oficiales desde el aeropuerto de Las Palmas son habituales. «Si la foto del pasaporte corresponde con el pasajero, entonces puede pasar. Son vuelos comerciales en los que las personas se compran su billete y vuelan como un pasajero más, ya está. Pueden hacerlo y lo están haciendo», sostiene Bristol Cabrera, secretario provincial del sindicato policial en Las Palmas. «Las personas que llegan desde Marruecos y que están en España con el pasaporte pueden volar sin ningún problema. Pagan su billete y se pueden mover con su pasaporte aunque cuenten con una orden de expulsión», indica.

      «Está pasando», añade José Javier Sánchez, responsable de Inclusión Social de Cruz Roja. «Mucha gente ha salido de Canarias por su cuenta. Aunque ahora mismo no creemos que sea un número muy significativo», continúa. Desde la organización de la que depende la gestión de la mayoría de plazas de acogida de migrantes en Canarias aseguran haber percibido el abandono paulatino de sus recursos de acogida por parte de algunos migrantes que, con su pasaporte, deciden viajar sin contar con la autorización de Interior.
      El tabú de los traslados a la Península

      Antes del estado de alarma, la ONG contabilizaba el número de personas que abandonaba las plazas de acogida por su propia voluntad. Esas que, de un día para otro, desaparecen. Del 1 de enero al 15 de marzo, «cerca de 1.500 personas» se fueron por sus propios medios, sostienen desde Cruz Roja. No obstante, una vez finalizado el confinamiento, la organización considera que los abandonos de las plazas de acogida detectados durante estos meses no supone un «número significativo» con respecto a las llegadas registradas. «Si cada semana se fuesen 40 en cada vuelo, tendríamos 600 o 700 plazas libres al mes, y no estamos notando esa descongestión del número de plazas. Creemos que se están yendo poco a poco, en grupos más reducidos», indica Sánchez.

      En estos momentos no tienen cifras de los migrantes «desaparecidos» de sus recursos de acogida. Según aclara, Cruz Roja dejó de contabilizar este dato debido al «desbordamiento» en el que trabaja su personal tras el pico de llegadas registrado en los últimos meses.

      Ni Interior ni Migraciones dan apenas información acerca de los desplazamientos a la Península. El departamento dirigido por Fernando Grande-Marlaska esconde las cifras oficiales de los traslados autorizados. Su Ministerio rechaza acelerar las salidas del Archipiélago porque considera que podría generar un «efecto llamada». Según informaron fuentes policiales a Europa Press, este año se han producido 1.500 traslados desde las islas a la Península. No obstante, esta cifra es muy inferior al recuento realizado por Cruz Roja, que eleva el dato a las 2.200 migrantes derivados al resto de España solo a través de la mediación de su organización desde septiembre de 2019.

      A fecha del 15 de noviembre, 16.760 personas han alcanzado Canarias de forma irregular. De ellas, solo 7.214 se encuentran acogidas en la red de emergencia desplegada por el Gobierno en las islas, según fuentes de la Secretaría de Estado de Migraciones; cerca de 2.000 menores extranjeros no acompañados están tutelados por el Gobierno regional, aunque el dato no solo incluye los niños llegados esta año; y un millar de personas estaban alojadas en el muelle de Arguineguín. Del total de llegadas, entre 1.500 y 2.000 migrantes han sido trasladados a la Península de menara oficial. Atendiendo a estos datos, no cuadran las cifras acerca del número de migrantes albergados en el Archipiélago. Sobran, como mínimo, alrededor de 4.000 personas de las que se desconoce su paradero.

      Otro grupo de cerca de treintena de inmigrantes marroquíes voló por su cuenta desde Canarias a Sevilla esta semana. A su llegada, varios agentes los esperaban en el aeropuerto y fueron trasladados a la Jefatura Superior de Policía. Según fuentes policiales, estas personas fueron sometidas a un control de identificación en el aeropuerto de Las Palmas y, por ello, varios agentes aguardaban su llegada en la capital andaluza.

      Según SOS Racismo, «una decena» de migrantes marroquíes que aseguran haber viajado por su cuenta desde el Archipiélago a Sevilla se encuentran en estos momentos encerradas en el CIE de Aluche. Según la organización, estas personas llevan internadas en el centro desde la semana del 10 de noviembre.

      Al llegar al aeropuerto de Málaga, los jóvenes marroquíes que lograron esquivar el bloqueo de Interior fueron recogidos por sus familiares desde otros puntos de Andalucía. Otros buscaban la manera de trasladarse por su cuenta a su destino final. A Hisham no le quedaba dinero para comprar un billete de autobús hasta Almería. Se había gastado lo poco que tenía en el avión, por lo que llamó a su hermano para que fuese a buscarle.

      https://www.eldiario.es/desalambre/decenas-migrantes-sortean-bloqueo-interior-viajan-peninsula-cuenta_1_646338

    • Adiós al campamento que vulneró durante cuatro meses los derechos de miles de migrantes

      Todo comenzó el 3 de agosto, cuando 71 migrantes pasaron la noche a ras de suelo en Arguineguín. Más de cien días más tarde y después de hacinar a 2.600 personas en un espacio para 400, Interior ha desmantelado el campamento

      Adiós al muelle de la vergüenza. El ministro del Interior, Fernando Grande-Marlaska, anunció el 6 de noviembre en su visita a Canarias que «en las próximas semanas» disolvería el campamento. «No será una clausura parcial. No volverá a albergar migrantes», aseveró. 23 días más tarde y después de casi cuatro meses de funcionamiento, el campamento para migrantes levantado sobre el puerto de Arguineguín, al sur de Gran Canaria, ha sido desmantelado. Un retén de cribado sanitario será lo único que quede allí, según explicó el presidente del Gobierno autonómico, Ángel Víctor Torres. Todo comenzó el 3 de agosto. Bajo una carpa de Cruz Roja y a ras de suelo pasaron la noche 71 personas que llegaron a la isla en distintas embarcaciones desde El Aaiún, en el Sáhara Occidental. Quedaron a la espera de un lugar donde se procediera a su filiación y se les practicara la prueba PCR. «La verdad es que no es lo más ideal, pero es la única forma en la que han podido pasar la noche ahí», reconocieron entonces desde Cruz Roja.

      A partir de ese momento, la estampa comenzó a reproducirse a diario. En lugar de una sola carpa llegó a haber doce, y frente a los 71 migrantes que pernoctaron en el muelle ese lunes de verano, se hacinaron hasta 2.600, aunque la capacidad teórica del espacio era de 400 personas. El pasado viernes, después de una visita sorpresa, el Defensor del Pueblo pidió a Interior el cierre del campamento porque «se podrían estar vulnerando los derechos fundamentales». Esta petición se sumaba a las de CEAR, Amnistía Internacional o del propio Ejecutivo regional.

      La conversión del puerto de referencia de la Salvamar en un campamento precario pilló por sorpresa a todas las administraciones con competencias en la gestión de la crisis migratoria. Sin embargo, la alarma que saltó el 26 de mayo y que pasó inadvertida para las áreas de gobierno responsables ya había sentado un precedente. A la una de la madrugada de ese martes, Cruz Roja anunció que una patera había sido rescatada en las costas de Gran Canaria. Pasó la noche, y a las ocho de la mañana la entidad informó de que el grupo seguía en el muelle de Arguineguín. Por la tarde, el grupo fue trasladado a una nave del Puerto de Las Palmas habilitada ese mismo día.

      La solución tampoco resultó la más acertada para las ONG, los profesionales del Servicio Canario de Salud (SCS) y las Fuerzas y Cuerpos de Seguridad del Estado. El almacén no tenía camas, ventilación, ni duchas. Además, fueron los propios agentes de la Policía Nacional los encargados de barrer el polvo y los restos de cartón y madera del almacén «con una manguera y escobas», tal y como denunció en un oficio emitido a la Delegación del Gobierno en Canarias el jefe superior de Policía. Con el tiempo, el establecimiento fue bautizado también como la nave de la vergüenza.

      Este lugar estaba previsto como un espacio dedicado en exclusiva a la filiación de migrantes por la Policía Nacional, que custodiaba el almacén y que no podía mantener retenidas a las personas más de las 72 horas que permite la Ley de Enjuiciamiento Criminal, que solo contempla como excepciones los casos de terrorismo. Sin embargo, este primer grupo llegó a pasar más de tres días. La reacción de la Policía Nacional fue dirigir un escrito al delegado del Gobierno, Anselmo Pestana, y abandonar la nave. Los migrantes ya no estaban bajo custodia policial, pero tampoco sabían cuál era su situación administrativa ni a dónde podían dirigirse. Entonces, unas horas más tarde, fueron desplazados a recursos de Cruz Roja.
      Derechos humanos

      «Las condiciones no aseguran ni su dignidad, ni su salud». La directora adjunta de Human Rights Watch para Europa, Judith Sunderland, se trasladó el 7 de noviembre a Arguineguín, y criticó la gestión migratoria de España: «El país podría dar un ejemplo más positivo con pleno respeto a los derechos de las personas, que en el muelle no se están respetando».

      El juez de control del Centro de Internamiento de Extranjeros (CIE) de Barranco Seco, Arcadio Díaz Tejera, también denunció que se haya permitido «que personas titulares de derechos humanos pasen dos semanas en estas condiciones». El magistrado se sintió «avergonzado» con la estampa que se observó durante tres meses en este muelle: «Las Islas son las que dan la cara por toda Europa ante los pueblos colonizados que nos devuelven la visita. Canarias nunca ha sido así. Nunca nos hemos portado así con la gente».

      Según los testimonios de trabajadores del campamento y migrantes que estuvieron en él, la ausencia de carpas para todos en los momentos de más afluencia en el muelle conducía a las personas a pedir cartones para dormir y a atar mantas con cuerdas para no dormir a la intemperie. Para desayunar recibían un bocadillo de atún y millo o de pechuga de pollo y un zumo envasado. Lo mismo para almorzar y también para cenar. Los días en los que se multiplicaban los desembarcos en el muelle y había hasta 2.000 migrantes en el campamento, el personal de Cruz Roja no daba abasto. Las comidas se solapaban, y el reparto del almuerzo terminaba cuando llegaba la hora de comenzar a distribuir la cena.

      Algo similar ocurría con el agua. Se daba una garrafa por grupos de ocho a diez personas, sin vasos. Uno de los migrantes que estuvo internado más de una semana explica que en su tienda de campaña había 110 personas, por lo que les repartían doce garrafas de ocho litros por la mañana y por la tarde. Menos de un litro por persona pese a las altas temperaturas que caracterizan a este punto de la isla.

      En el muelle no había agua corriente para lavarse ni ducharse, por lo que a veces debían utilizar el agua potable para poder asearse antes del rezo. Tampoco tenían cargadores para poder cargar sus teléfonos e informar a sus familias de que habían sobrevivido a la travesía.
      Sin asistencia jurídica

      Algunos de los migrantes que entraron al muelle de Arguineguín salieron con una orden de devolución sin haber visto antes a un abogado. El defensor del pueblo en funciones, Francisco Fernández Marugán, abrió una investigación ante la queja elevada por el Colegio de Abogados de Las Palmas sobre la garantías en la asistencia jurídica de las personas migrantes que llegan a Canarias por vía marítima. Esta falta de asistencia letrada se produjo «de manera sistemática» en los últimos meses, por lo que el Consejo General de la Abogacía y los letrados del Colegio de Abogados reclaman que los migrantes cuenten con la «preceptiva asistencia jurídica que les informe de sus derechos y les guíe en todo el proceso».

      Fuentes de la Abogacía señalaron a este medio que algunos letrados se justifican apelando a la insalubridad del muelle de Arguineguín. Por ello, «se limitan a firmar el papel» que les da la Policía, sin entrevistarse con los migrantes tampoco en los hoteles donde son acogidos cuando los resultados de la PCR prueban que han dado negativo en coronavirus.
      La jueza no vio delito

      El Ayuntamiento de Mogán llevó a los tribunales las condiciones en las que estaban los migrantes en el muelle. Sin embargo, el caso fue archivado por el Juzgado de Instrucción número 2 de San Bartolomé de Tirajana. La magistrada que firmó el auto estableció que los hechos denunciados carecían «de relevancia a efectos penales», aunque reconoció que la situación era «deplorable». En el mismo escrito, la jueza determinó que los migrantes podían marcharse libremente de Arguineguín pasadas las 72 horas. «No ha quedado probado que los mismos estén en dicho recinto en contra de su voluntad, ni que se les haya impedido abandonarlo. No existe prueba alguna que acredite que los ciudadanos [...] al intentar abandonar las mismas hayan regresado por la fuerza».

      Sin embargo, algunos de los jóvenes que han pasado más de una semana sin acceso a duchas y durmiendo a la intemperie aseguran que nadie les informó de que podían irse. «Si lo hubiera sabido, no habría estado allí once días», asegura Abdel (nombre ficticio), que llegó en patera desde Marruecos el pasado 7 de noviembre a Gran Canaria. «No hay información y, cuando nosotros la pedimos dicen que no nos pueden responder porque hay mucha gente», recuerda. Por su parte, el Ministerio del Interior aseguró que «sí eran conocedores de ello».

      Tampoco la magistrada vio delito en la retención de migrantes más de 72 horas en el muelle. «El delito de detención ilegal exige un dolo específico, es decir, la voluntad de privar a otro de su libertad durante cierto tiempo. Si tal propósito no resulta evidente por las circunstancias del caso, no se cometería este delito», matiza la magistrada en el auto. Además, explicó que la permanencia de personas en el puerto durante semanas estaba provocada también por la crisis sanitaria: «No se puede realizar labor alguna - ni administrativa, ni judicial - hasta obtener los resultados de las pruebas PCR realizadas a todos los migrantes que llegan a Canarias».
      Días de tregua

      El delegado del Gobierno en Canarias ha explicado que las personas que permanecían hasta este domingo en el muelle han sido reubicadas en distintos recursos, algunos de ellos gestionados por el Ministerio del Interior, como el #CATE (#Centro_de Atención_Temporal_para_Extranjeros) de #Barranco_Seco, y otros por la cartera de Migraciones, como los complejos hoteleros del sur de Gran Canaria. Este fin de semana no ha llegado ninguna embarcación a la isla. Anselmo Pestana ha reconocido que estos «días de tregua» han permitido cumplir con el objetivo de levantar el campamento y ha justificado que el uso del muelle durante todo este tiempo se debe a la «falta de alternativas» para ubicar a las personas llegadas por vía marítima al Archipiélago. «Esperamos hacer una gestión mejor, pero recordemos la dimensión de lo que ha ocurrido. En tres días de noviembre llegaron a Canarias tantos migrantes como todo el año pasado», apuntó. Entre el 6 y 8 de noviembre, casi 2.000 personas sobrevivieron a la ruta canaria.

      El presidente canario celebró el fin de este campamento «insostenible», pero insiste en que «aún queda mucho por hacer». «Es importantísimo dispensar un trato humano digno a estas personas que se juegan la vida en la peligrosa travesía del Atlántico. También es necesario el control en origen, luchar contra las mafias, agilizar tránsitos y repatriaciones», propuso. También aprovechó para lanzar un mensaje a la población canaria: «No lo olviden. A nadie le gusta dejar atrás a la familia. Como aquellos canarios y canarias, nuestros antepasados, que se vieron obligados a dejarlo todo y a buscar otras orillas. Lo llevamos en el ADN. En Canarias no cabe la xenofobia».

      https://www.eldiario.es/canariasahora/migraciones/campamento-puso-peligro-derechos-humanos-miles-migrantes_1_6469637.html

    • Más de 1.500 kilómetros de travesía en cayuco para llegar a la isla más remota de Canarias

      El Hierro, el territorio más occidental del Archipiélago y con una población de 11.000 habitantes, se ha convertido este año en la tercera isla con más llegadas de pateras y cayucos, después de Gran Canaria y Tenerife

      Más de 500 personas han surcado en cayuco más de 1.500 kilómetros de mar para llegar a El Hierro desde Senegal y Mauritania. Esta pequeña isla canaria de 268,7 kilómetros cuadrados de superficie y 11.000 habitantes se ha convertido en la tercera del Archipiélago con más llegadas de migrantes a sus costas durante la crisis de 2020, después de Gran Canaria y Tenerife. La larga distancia que existe entre el territorio canario más alejado de África y los principales puntos de partida (Senegal, Gambia e incluso Guinea Bissau) hacen que el viaje sea más largo y más peligroso. La médico de urgencias Inmaculada Mora Peces lleva trabajando con personas migrantes desde 1994, pero recuerda al detalle la tarde del 7 de noviembre. Un buque mercante avistó a una patera con cuatro ocupantes y alertó a Salvamento Marítimo, que envió un helicóptero para su rescate. Parecía algo sencillo, pero terminó en una tragedia. Sin esperarlo, el Helimer 2020 también encontró a 33 millas del puerto herreño de La Restinga un cayuco con 160 personas, una de ellas muerta. Durante la noche, el patrón había caído al mar sin que nadie se diera cuenta. Entonces, la embarcación quedó a la deriva.

      La Salvamar Adhara acudió a la zona, subió a bordo a los cuatro migrantes de la pequeña patera y remolcó el cayuco. Ya en tierra firme, otro de los migrantes de la gran embarcación tuvo que ser trasladado de urgencia a Tenerife en estado grave y otros diez necesitaron asistencia sanitaria por deshidratación. “Estuvieron unos diez días en alta mar, hacinados. Al tercero se quedaron sin agua y comenzaron a beber del mar”, recuerda el cirujano Marc Vallvé. Para evitar la saturación del pequeño hospital de El Hierro ante el aumento de las llegadas, un grupo de sanitarios se organizó para acudir a los centros de acogida y atender allí las necesidades específicas que presentan los migrantes. Allí hacían seguimiento de las principales lesiones de los migrantes: quemaduras, úlceras, infecciones, problemas en la piel y el denominado “pie de patera”. Esta última es una lesión que aparece con frecuencia en los glúteos y en los pies. «Pasan sentados en la misma posición varios días, sus pies se mojan con agua salada, entonces van creándose llagas». En otras ocasiones se han encontrado con personas que sufren hemorragias digestivas o insuficiencias renales. Todas ellas son consecuencia del viaje, en el que permanecen en la misma posición en un espacio en el que también hacen sus necesidades.

      Ese 7 de noviembre evocó a la población herreña al 9 de agosto de 2006. Ese verano, en medio de la denominada crisis de los cayucos -el único precedente para la isla en materia migratoria-, un cayuco con 172 personas llegó por sus propios medios a La Restinga. Una embarcación de 30 metros de eslora y 3,5 de manga, construida de madera y fibra, atravesó el océano desde Senegal en un viaje de doce días. La mayoría de sus ocupantes pasó la noche en El Hierro y al día siguiente fueron derivados a Tenerife. Otros tuvieron que ser trasladados a centros hospitalarios por deshidratación e hipotermia.

      En su penúltima guardia, Mora atendió a 23 personas llegadas en una patera, entre ellas tres mujeres embarazadas y un menor de tres años. De pronto, cuando ya habían sido atendidas todas las personas, un técnico vio un zapato bajo la lona. Allí, tendido en el suelo, el cuerpo de un joven maliense de 19 años con hipotermia. Rápidamente fue trasladado al hospital con fiebre y con una frecuencia cardíaca de 180 latidos por minuto. «Salvó la vida de milagro», recuerda la doctora. El chico despertó en una ambulancia sin saber dónde estaba y con una única petición: hablar con su padre y decirle que había llegado a «español». Otro hombre al que atendió presentó una hemorragia digestiva, «probablemente como consecuencia del estrés del viaje».

      Los incidentes en este tramo se han sucedido. A principios de 2020, el 9 de febrero, una patera con 20 personas fue rescatada a 800 kilómetros del sur de la isla. Dos personas murieron en el intento y otras dos tuvieron que ser ingresadas como consecuencia de la travesía. El 24 de noviembre, Salvamento Marítimo tuvo que pedir a varios veleros que participaban en una regata trasatlántica que ayudaran a los ocupantes de una embarcación con tres menores avistada a 190 kilómetros al suroeste. Hace cinco días, otra embarcación con 49 personas llegó por sí misma a este mismo puerto. Todos eran hombres y entre ellos había un menor. Otros 48 migrantes llegaron el 8 de diciembre al municipio El Pinar. Cuatro personas tuvieron que ser derivadas al hospital con diversas patologías. En otra ocasión, encontraron la embarcación vacía. «Los cuerpos de los ocupantes estarán en el océano», aclara Mora.
      ¿Por qué El Hierro?

      Lanzarote, Fuerteventura o Gran Canaria componen la provincia oriental de Canarias y, en consecuencia, la más próxima a la costa occidental africana, con solo 120 kilómetros de distancia entre la localidad majorera de Gran Tarajal y Tarfaya (Marruecos). Con esta situación geográfica cabe preguntarse por qué tantas embarcaciones han alcanzado El Hierro, pero la complejidad y diversidad de las rutas migratorias hacia el Archipiélago despeja esta incógnita. El director insular de la isla, José Carlos Hernández Santana, ha dedicado su carrera a la atención a migrantes y al ámbito humanitario. Hernández recuerda que en latitud, El Hierro es la isla que está más al sur y, en consecuencia, La Restinga es el primer puerto con el que se encuentran. “No es que haya menos control ni menos vigilancia”, subraya.

      Del total de personas llegadas, 303 permanecen en cuatro centros habilitados y gestionados por Cruz Roja. Se trata de una residencia de estudiantes, un centro de día cedido por el Gobierno de Canarias que no se estaba utilizando, una pequeña casa ofrecida por el Cabildo insular reservada para mujeres y niños y un pabellón deportivo en Valverde, la capital. En este polideportivo se han instalado carpas con catres militares. Allí tienen libros, mesas y espacio para rezar. El único inconveniente es el frío.

      El resto, tal y como ha confirmado la Delegación del Gobierno, ha sido reubicado en espacios de acogida de otras islas una vez que terminan la cuarentena obligatoria establecida por la pandemia de COVID-19 y con una PCR negativa. Entre ellas, Tenerife, Gran Canaria y Lanzarote. El sanitario Marc Vallvé apunta que algunas personas han sido trasladadas en proceso de curación. “Algunos se han ido con vendajes. Nosotros ya no les podemos hacer seguimiento. Espero que allá donde lleguen se les siga atendiendo”. El presidente de la máxima corporación insular, Alpidio Armas (PSOE), asegura que los recursos de El Hierro “aún no están al límite” y celebra que la isla esté cumpliendo con su “cuota de solidaridad”, atendiendo a las personas que llegan a sus costas con “dignidad y solidaridad”. “La situación ahora es asumible”.

      A la isla han llegado en lo que va de año siete mujeres y varios menores, la más pequeña una niña de cuatro años. “Siempre les ofrecemos la atención sanitaria de forma individual, con un biombo para tratarlas. Cuando no hay hombres alrededor se sienten más aliviadas. Conseguimos que fueran todas agrupadas en un mismo espacio y ahora han creado un grupo de amigas”, cuenta Marc Vallvé. El cirujano asegura que el equipo médico se preocupa por saber si han sufrido abusos y violaciones durante el camino, pero hasta el momento ninguna ha hablado sobre el viaje.

      Inmaculada Mora recuerda el caso de una mujer que tuvo que ser trasladada al hospital por un fuerte dolor abdominal, «probablemente por haber bebido agua de mar». Estaba alterada y desorientada. Cuatro días después, la doctora pudo ir a visitarla en compañía de un intérprete. Lo único que ella intentaba explicar era que quería llamar por teléfono a su madre para contarle que estaba bien". Para los profesionales sanitarios es difícil comunicarse con las mujeres y llegar a saber si han sufrido algún tipo de abuso por el camino. «Muchas veces vienen de países con bajos niveles de desarrollo y sin alfabetización, por lo tanto, no hablan inglés, francés, ni portugués», apunta Inmaculada. Un obstáculo al que se suma la ausencia de intérpretes y, en concreto, de mujeres africanas que ejercen esta profesión en Canarias. «A veces ni siquiera pueden abrirse con mujeres blancas, porque creen que puedes querer aprovecharte de ellas y sacarles información», matiza la doctora. Buena parte de las mujeres que emprenden la ruta del norte, «nada más bajarse del Jeep y llegar a Marruecos son violadas». Por ello, pueden llegar embarazadas.
      Lugar de tolerancia

      Detrás del ruido de las manifestaciones y concentraciones xenófobas que han surgido en otras islas, alentadas por partidos políticos de extrema derecha, la pequeña población herreña convive tranquila con las comunidades migrantes con las que comparten territorio. “El Hierro es una isla que ha pasado penumbra, por lo que el grado de aceptación es grande”, asegura el director insular. Según él, la coordinación entre administraciones también ha permitido que el fenómeno no se perciba como un problema.

      Marc Vallvé apunta que los vecinos y vecinas han felicitado a los médicos por su labor, ofreciéndoles incluso darles ropa para que se las hagan llegar a los migrantes. Incluso entre los propios sanitarios se piden consejos, se apoyan y se vuelcan con la situación. Sin embargo, señala que en otros casos la desinformación ha permitido la circulación de bulos desmentidos en más de una ocasión y relacionados con supuestas “ayudas económicas que reciben al llegar”. Otro de los grandes temores de la población está relacionado con la COVID-19. “Lo que sí nos han trasladado es que les da miedo que aumenten los contagios. Debemos tener en cuenta que el 25% de la población herreña tiene más de 65 años”.

      Hasta el 20 de marzo, El Hierro era uno de los únicos puntos que había logrado esquivar al virus. Junto a La Gomera y a La Graciosa, sirvió de avanzadilla al resto del país en la desescalada. En este momento, según los datos del Gobierno de Canarias, no cuenta con ningún caso activo y registra un fallecido por la enfermedad. Estas estadísticas no contabilizan a los positivos llegados por mar, ya que para contabilizar “deben estar empadronados”. El cirujano asegura que la cifra de personas que llegan contagiadas es muy baja. A todas se les practica una prueba PCR y cumplen las cuarentenas pertinentes.

      Vallvé, en estos siete meses de estancia en la isla, ha podido poner nombre y apellidos a quienes antes solo veía por televisión. No cuentan con intérpretes, por lo que aprovechan a los migrantes que hablan español, inglés o francés. Si no, utilizan “el lenguaje universal” de los gestos. “Conocí a un chico de Costa de Marfil que llegó hace diez años, cuando aún era menor. Cumplió la mayoría de edad, se le caducó el pasaporte y fue deportado. Ahora ha vuelto a intentarlo. Esta vez con su hermano pequeño”.

      https://www.eldiario.es/canariasahora/migraciones/1-500-kilometros-travesia-cayuco-llegar-isla-remota-canarias_1_6516156.html

      #El_hierro

  • Canarias recibe más de 1.000 migrantes a bordo de 37 pateras en 72 horas

    Las islas Canarias han recibido unos 1.015 migrantes a bordo de un total de 37 pateras y cayucos en las últimas 72 horas coincidiendo con los tres días de visita del ministro de Inclusión, Seguridad Social y Migraciones, José Luis Escrivá, al archipiélago.

    Según ha informado Cruz Roja, por islas, desde el pasado jueves Gran Canaria contabiliza 429 migrantes en 27 embarcaciones irregulares, Tenerife 485 en cuatro pateras y cayucos, Lanzarote 95 personas en cinco embarcaciones y Fuerteventura seis migrantes en una patera. Asimismo, el Muelle de Arguineguín, en el municipio grancanario de Mogán, acoge en la actualidad un total de 375 personas mientras que, según dijo el propio Escrivá este viernes, unos 2.700 migrantes están alojados en hoteles de las islas al no contarse con recursos habitacionales suficientes para el volumen de pateras que están llegado.

    Con esta tendencia, el ministro de Migraciones, José Luis Escrivá, ha advertido de que Canarias se puede enfrentar a una crisis migratoria similar a la que vivió entre 2004 y 2008, de ahí que haya considerado que el Gobierno español “tiene que dar una respuesta equivalente” a este repunte.

    Tras reunirse en la Delegación del Gobierno en Canarias con su titular, Anselmo Pestana, el presidente del Ejecutivo regional, Ángel Víctor Torres, y el presidente del Cabildo de Gran Canaria, Antonio Morales, Escrivá ha admitido que el muelle de Arguineguín, donde Salvamento desembarca a los inmigrantes que rescata en el mar cerca de esta isla, no reúne las condiciones que requiere la recepción de estas personas.

    Por ello, el ministro ha admitido la necesidad de buscar soluciones y dotar a Gran Canaria de “las capacidades” que posee Tenerife para atender a estas personas durante las primeras 72 horas tras su llegada a la isla, tras las que pasan a la red de acogida que gestiona el departamento que dirige través de ONG como Cruz Roja.

    Escrivá también ha estimado que esta red de acogida de inmigrantes presenta deficiencias en Gran Canaria, una situación que ha achacado a que “no se ha sido capaz de pensar que pudiera volver una crisis migratoria”, por lo que ha agradecido a los ayuntamientos y cabildos canarios que han cedido instalaciones para estos fines, así como a los establecimientos hoteleros que albergan a 2.700 personas llegadas a las islas en pateras o cayucos.

    El ministro se ha comprometido a tratar de convencer al Ministerio de Defensa para que ceda infraestructuras que tiene en La Isleta, de forma que pueda ampliarse la capacidad de acogida de Gran Canaria, para lo que también ha dicho que su departamento trabaja con la Sareb en busca de opciones adecuadas en todas las islas.

    Sobre las repercusiones que está teniendo en Canarias este repunte migratorio, el presidente regional, Ángel Víctor Torres, ha manifestado que “es necesario que los ministros visiten” el archipiélago “para que conozcan en persona esta grave crisis”, de forma que puedan “coordinarse las medidas” interministeriales que se precisan.

    Por ello, ha considerado que es necesario que tanto los titulares de Interior y Defensa como el propio presidente del Gobierno español regresen al archipiélago para analizar sobre el terreno las soluciones que corresponde dar a esta “emergencia”, entre las que ha citado la necesaria reactivación de las políticas de devolución y derivación.

    Para Torres, quien ha recordado que el Gobierno canario y los cabildos de las siete islas tutelan a un millar de menores inmigrantes no acompañados llegados a las islas en barquillas, la UE “ha fallado estrepitosamente en la política migratoria” porque “esto no puede ser un problema de la frontera sur”.

    https://www.lavanguardia.com/local/canarias/20201010/483981293385/canarias-1000-migrantes-pateras-72-horas.html
    #Canaries #îles_Canaries #asile #migrations #réfugiés #routes_migratoires #itinéraires_migratoires

  • Overlapping crises in Lebanon fuel a new migration to Cyprus

    Driven by increasingly desperate economic circumstances and security concerns in the wake of last month’s Beirut port explosion, a growing number of people are boarding smugglers’ boats in Lebanon’s northern city of Tripoli bound for Cyprus, an EU member state around 160 kilometres away by sea.

    The uptick was thrown into sharp relief on 14 September when a boat packed with 37 people was found adrift off the coast of Lebanon and rescued by the marine task force of UNIFIL, a UN peacekeeping mission that has operated in the country since 1978. At least six people from the boat died, including two children, and six are missing at sea.

    Between the start of July and 14 September, at least 21 boats left Lebanon for Cyprus, according to statistics provided by the UN’s refugee agency, UNHCR. This compares to 17 in the whole of 2019. The majority of this year’s trips have happened since 29 August.

    Overall, more than 52,000 asylum seekers and migrants have crossed the Mediterranean so far this year, and compared to Libya, Tunisia, and Turkey – where most of these boat journeys originate – departures from Lebanon are still low. But given the deteriorating situation in the county and the sudden increase in numbers, the attempted crossings represent a significant new trend.

    Fishermen at the harbour in the Tripoli suburb of Al Mina told The New Humanitarian that groups of would-be migrants have been leaving in recent weeks on fishing vessels to the small island of Rankin off the coast, under the pretense of going for a day’s swimming outing. They then wait on the island to be picked up and taken onward, normally to Cyprus.

    Lebanese politicians have periodically used the threat of a wave of refugees heading for Europe to coax more funds from international donors. Former foreign minister Gebran Bassil told French President Emmanuel Macron after the 4 August port explosion that “those whom we welcome generously, may take the escape route towards you in the event of the disintegration of Lebanon.”

    The vast majority of those trying to reach Cyprus – many hope to continue on to Germany or other countries in mainland Europe – have been Syrian refugees, whose situation in Lebanon was precarious long before its descent into full-on financial and political meltdown over the past year.

    Syrians are still the largest group, but as the coronavirus pandemic has exacerbated the multiple crises facing Lebanon – the country recorded a record 1,006 COVID-19 cases on 20 September, precipitating calls for a new lockdown – Lebanese residents of Tripoli told The New Humanitarian that an increasing number of Lebanese citizens are attempting, or considering, the sea route.

    “How many people are thinking about it? All of us, without exception,” Mohammed al-Jindi, a 32-year-old father of two who manages a mobile phone shop in Tripoli, said of people he knows in the city.

    The Lebanese lira, officially pegged to the dollar at a rate of about 1,500, has lost 80 percent of its value over the past year. Prices of many basic goods have skyrocketed, and more than half of the population is now estimated to be living in poverty. The port explosion – which destroyed some 15,000 metric tonnes of wheat and displaced as many as 300,000 families, at least temporarily – has compounded fears about worsening poverty and food insecurity.

    Adding to the uncertainty, it has been nearly a year since the outbreak of a protest movement calling for the ouster of Lebanon’s long-ruling political class, blamed for much of the country’s dysfunction, including the port explosion. The economic and political turbulence has led to fears about insecurity, wielded as a threat by some political parties. These fears were underscored by violent clashes in Beirut’s suburbs that left two dead at the end of August.

    “In desperate situations, whether in search of safety, protection, or basic survival, people will move, whatever the danger,” Mireille Girard, UNHCR representative in Lebanon, said in a statement following the 14 September incident. “Addressing the reasons of these desperate journeys and the swift collective rescue of people distressed at sea are key.”
    ‘It’s the only choice’

    Al-Jindi is planning to take the sea route himself and bring his family later. But so far he has been unable to scrape together the approximately $1,000 required by smugglers – the ones he has contacted insist on being paid in scarce US dollars, not Lebanese lira. The currency crisis means al-Jindi’s monthly salary of 900,000 Lebanese lira, previously worth $600, is now worth only around $120.

    The port explosion in Beirut added insecurity to al-Jindi’s list of worries. He lives in the neighbourhood of Bab al Tabbaneh – which has sporadically clashed for years with the adjacent neighborhood of Jabal Mohsen – and fears a return of the conflict.

    “I don’t want to let my children live the same experiences… the sound of explosions, the sound of shooting,” al-Jindi said. After the port explosion, he added, “1,000 percent, now I have a greater desire to leave.”

    Paying for a smuggler’s services is beyond the reach of many Lebanese. But members of the country’s shrinking middle class, frustrated with a lack of opportunities, are also contemplating the Mediterranean journey.

    “I don’t want to let my children live the same experiences… the sound of explosions, the sound of shooting.”

    Educated young people are more likely to apply for emigration through legal routes.

    According to Lebanese research firm Information International, about 66,800 Lebanese emigrated in 2019, an increase from the previous year. The firm also reported a 36 percent increase in departures from the Beirut airport after the explosion.

    But with COVID-19 travel restrictions and the general trend of tightening borders around the world, some Lebanese are also turning to the sea.

    Unable to find steady work since he graduated from university with a degree in IT two years ago, 22-year-old Mohammed Ahmad had applied for a visa to Canada, without success, before deciding to take his chances on the sea route. Before the port explosion, Ahmad had already struck a deal with a purported smuggler to take him to Cyprus and then Greece for 10 million Lebanese lira (the equivalent of around $1,200 at the black exchange market rate). The explosion has only strengthened his resolve.

    “Before, you could think, ‘Maybe the dollar will go down, maybe the situation will get better,’” said Ahmad. “Now, you can’t think that way. We know how the situation is.”

    Mustapha Masri, 21, a fourth-year accounting student at Lebanese University, said he hadn’t planned on leaving Lebanon, “but year after year the situation got worse.” Like Ahmad, Masri first tried emigrating legally, but without success.

    A few months ago, acquaintances referred him to a smuggler. He began selling his belongings to raise the funds for the trip, beginning with his laptop, which he traded for a cheaper one. Even his parents were willing to sell valuables to help him, Masri said.

    “In the beginning, they were against it, but after Australia and Germany denied me, they agreed,” Masri said. “It’s the only choice.”

    Increasing movement

    The past two months have shown a significant uptick in crossings.

    According to UNHCR statistics, in all of 2019, only eight boats from Lebanon arrived in Cyprus, seven were intercepted by Lebanese authorities before getting to the open sea, and two went missing at sea.

    In 2020, three boats are known to have left Lebanon for Cyprus in July, followed by 16 in the weeks between 29 August and 9 September, said UNHCR spokeswoman Lisa Abou Khaled. Eight of those boats were confirmed to have reached Cyprus and another two were reported to have arrived but could not be verified, she said. Another five were intercepted by Lebanese authorities and four were pushed back by Cypriot authorities before they reached the island and returned to Lebanon.

    “From our conversations with the individuals, we understand that the majority tried to leave Lebanon because of their dire socio-economic situation and struggle to survive, and that a couple of families left because of the impact of the blast,” Abou Khaled said.

    The pushbacks by Cypriot authorities have raised concerns among refugee rights advocates, who allege that Cyprus is violating the principle of non-refoulement, which states that refugees and asylum seekers should not be forcibly returned to a country where they might face persecution.

    Loizos Michael, spokesman for the Cypriot Ministry of Interior, said of the arriving migrants: “At this point we can only confirm the increase in boats arriving in Cyprus…The Cypriot government is in close cooperation with the Lebanese authorities and within this framework are trying to respond to the issue.”

    In 2002, Lebanon and Cyprus signed a bilateral agreement to cooperate in combating organised crime, including illegal immigration and human trafficking.

    Peter Stano, a spokesman for the European Union, said that the EU Commission takes allegations of pushbacks “very seriously”, adding, “It is essential… that fundamental rights, and EU law more broadly, is fully respected.”
    Worth the risk?

    The sea route to Cyprus is often deadly, as the 14 September incident underscored. To increase their earnings, smugglers pack small vessels beyond their capacity. More than 70 people have died or gone missing in 2020 on the Eastern Mediterranean sea route – which includes boats bound for Cyprus and Greece – up from 59 all of last year.

    Those who TNH spoke to who were contemplating the crossing said they were aware of the dangers but they still considered it worth the risk to attempt the journey.

    “I don’t believe all the talk that life there is like paradise.”

    “There are a lot of people who have gone and arrived, so I don’t want to think from the perspective that I might not arrive,” said Ahmad, the 22-year-old IT graduate. He was sanguine too about what he might find if he makes it to Europe. “I don’t believe all the talk that life there is like paradise and so on, but I’ll go and see,” he said.

    But the plans of both Ahmad and Masri hit a glitch.

    The two young men – who do not know each other – had been expecting to travel last month. Both had paid a percentage of the agreed-upon fee to the purported smuggler as a deposit, the equivalent of about $100. In both cases, soon after they paid, the smuggler disappeared. When they tried contacting him, they found his line had been disconnected.

    Still, they haven’t given up.

    “If I found someone else, I would go – 100 percent,” Masri said. “Anything is better than here.”

    https://www.thenewhumanitarian.org/news-feature/2020/09/21/Lebanon-Cyprus-Beirut-security-economy-migration

    #Chypre #Liban #migrations #asile #réfugiés #routes_migratoires #itinéraires_migratoires #migrants_libanais #réfugiés_libanais #Méditerranée #mer_Méditerranée

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  • La pandémie a réactivé la route des migrants vers les îles Canaries

    La semaine dernière, 27 migrants sont décédés en mer au large des îles Canaries. Cette route depuis l’Afrique est à nouveau largement utilisée par les passeurs depuis la pandémie, alors qu’en #Méditerranée de nombreux Tunisiens tentent désormais de gagner l’Italie.

    « Cette route vers les Canaries, utilisée en 2005-2006, n’avait plus été utilisée pendant de nombreuses années et a été réactivée », explique l’envoyé spécial pour la situation en Méditerranée centrale du Haut Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR) vendredi dans a Matinale. « Depuis le début de l’année, on voit six fois plus de départs des côtes marocaines, du #Sahara_occidental, de la #Mauritanie, du #Sénégal et de la #Gambie vers les Canaries », précise Vincent Cochetel.

    Des frontières fermées mais poreuses

    Plus de 40 pays africains ont pourtant fermé leurs frontières pour cause de pandémie. Mais « ce n’est pas des frontières toujours très faciles à contrôler », souligne ce responsable au HCR. « Il s’agit de déserts, de lieux très peu habités, et les trafiquants multiplient les offres pour essayer d’amener un maximum de clients vers les pays d’Afrique du Nord ».

    Et avec ce déplacement géographique partiel des traversées par la mer, l’Espagne se retrouve directement touchée. « L’Espagne a toujours été un pays d’arrivées, mais principalement pour de jeunes Marocains », rappelle Vincent Cochetel. « Aujourd’hui, on voit une baisse des départs du Maroc directement vers la Péninsule ibérique. L’augmentation des départs se fait surtout vers les îles Canaries ».

    La désillusion des Tunisiens

    Et si les traversées diminuent depuis les côtes marocaines, c’est désormais la Tunisie qui est devenue le premier pays de départ - principalement vers l’Italie. « En termes de chiffres, cela reste gérable », assure l’envoyé spécial pour la situation en Méditerranée centrale. « On parle de 10’000 personnes, dont 34% ont été sauvées ou interceptées par les garde-côtes tunisiens et ramenées sur les côtes tunisiennes. Mais c’est une augmentation très forte, qui touche les populations pauvres du sud de la Tunisie principalement ».

    Cette forte progression des Tunisiens voulant rejoindre l’Europe s’explique notamment par le #désespoir et les #désillusions. « Beaucoup de gens attendaient des changements politiques en Tunisie qui ne sont pas encore intervenus », explique #Vincent_Cochetel. C’est l’effet aussi de la pandémie et des mesures restrictives imposées sur le plan de la fermeture des frontières avec la Libye. « Les gens ne voient pas d’autre #espoir que dans leur #mobilité_personnelle. Et bien entendu les passeurs jouent là-dessus et vendent leurs projets de mort facilement ».

    https://www.rts.ch/info/monde/11531202-la-pandemie-a-reactive-la-route-des-migrants-vers-les-iles-canaries.htm

    #Canaries #routes_migratoires #parcours_migratoires #asile #migrations #réfugiés #îles_Canaries #tunisiens #migrants_tunisiens #réfugiés_tunisiens

    ping @_kg_

  • Migrants : les traversées depuis le #Maghreb bousculées par le Covid

    Au début de la crise sanitaire, les chercheuses #Nabila_Moussaoui et #Chadia_Arab ont constaté une baisse des départs depuis les côtes algériennes et marocaines vers l’Europe, et même quelques traversées « retours ». Depuis, les tentatives de passage ont largement repris.

    Jusqu’à quel point le phénomène de « harraga », qui désigne un départ clandestin par la mer depuis les pays du Maghreb vers l’Europe, a été touché par la pandémie de Covid-19 ? Mediapart donne la parole à deux spécialistes des migrations internationales : Nabila Moussaoui, anthropologue, enseignante-chercheuse à l’université Oran II-Mohamed Ben Ahmed et doctorante à l’université Toulouse II-Jean-Jaurès, et la géographe Chadia Arab, chargée de recherche au CNRS (UMR ESO-Angers), enseignante à l’université d’Angers.

    En Algérie, de nombreux départs clandestins se font depuis l’Oranie, que Nabila Moussaoui surnomme "La Mecque des harragas". © NB

    Avec la fermeture des frontières, la pandémie a-t-elle eu une incidence sur le phénomène de harraga ?

    Nabila Moussaoui : Elle a modifié le cours normal de la vie quotidienne sur tous les plans. Inattendue, elle a poussé les États à prendre des décisions rapides pour limiter les dégâts. La fermeture des frontières, de cette façon inédite, a eu des incidences à plusieurs niveaux. En Algérie, où la harraga est une réalité permanente, beaucoup de jeunes ont renoncé au départ ou l’ont reporté. Tout comme le « Hirak » [le mouvement de contestation sociale ayant touché l’Algérie dès février 2019 – ndlr] à ses débuts, la crise sanitaire a été un moment d’incertitude où la vie humaine a été doublement menacée pour les #harragas.

    Chadia Arab, géographe et chargée de recherche au CNRS, UMR ESO-Angers. © DR
    Chadia Arab : Le Maroc a pris la décision de fermer ses frontières dès le 13 mars, avant certains pays européens. Les harragas de toutes nationalités se sont retrouvés dans des situations compliquées. Dans les deux enclaves espagnoles au Maroc, Ceuta et Melilla, des Marocains ne peuvent pas rentrer chez eux. Des demandeurs d’asile sont aussi en attente, dans des conditions parfois dramatiques (voir notre reportage sur ce sujet en 2019).

    La presse locale a fait état de plusieurs cas de harraga « inversée » : des Marocains et Algériens partis clandestinement pour l’Espagne seraient revenus dans leur pays d’origine durant la crise sanitaire. Un épiphénomène ?

    Nabila Moussaoui : Ça n’a pas été rendu officiel par les autorités mais beaucoup de rumeurs ont circulé quant au retour de migrants par voie maritime, en Algérie comme au Maroc. Travaillant essentiellement sur l’Oranie, j’ai eu des récits de retours de harraga d’Espagne par les côtes de Mostaganem. Un quotidien algérien arabophone a rapporté les mêmes faits, mais je ne peux me prononcer sur leur véracité. Il s’agirait de jeunes (reste à définir sociologiquement ce jeune et la tranche d’âge dans laquelle il se situe) rentrés par les côtes mostaganemoises. Ils seraient une dizaine, originaires de Mostaganem et Relizane. Je trouve curieux qu’il n’y ait pas de harragas d’Oran, qui reste une ville de départ très prisée. Mais si retour il y a, c’est un épisode ponctuel, imposé par la conjoncture.

    Chadia Arab : Les journaux marocains, algériens et espagnols ont évoqué des cas. Je ne pense pas que ce soit un phénomène massif mais il est néanmoins important d’en parler. Il faudrait rappeler que d’une part, dans une histoire récente, des cas de harragas ne supportant pas la vie difficile en Europe sont revenus dans leur pays d’origine. D’autre part, dans les années 1950, les Espagnols fuyant la dictature de Franco empruntaient des barques de fortune pour traverser les 13 kilomètres séparant les côtes espagnoles du Maroc pour s’y réfugier.

    Comment l’analysez-vous ?

    Chadia Arab : Les deux pays majoritairement prisés par les harragas sont l’Espagne et l’Italie, deux pays européens et méditerranéens fortement touchés par l’épidémie. Leur situation géographique explique une partie de ces cas de harraga de retour. Mais c’est surtout la crise économique et sociale qui accompagne cette crise sanitaire qui pousse ces migrants à choisir de rentrer chez eux. Les conditions des migrants sans papiers en Europe sont dramatiques et sont exacerbées par la crise du Covid. Sans papiers mais surtout sans ressources, parfois sans logement, ils ne peuvent même pas travailler dans un pays où le confinement ne permet pas la recherche d’emploi. Les risques sont démultipliés chez des personnes déjà fragilisées par leur statut administratif et leur condition sociale. Il est normal qu’avec ce contexte, un certain nombre d’entre eux réfléchissent à rentrer. Par ailleurs, la gestion de la crise, surtout au début, n’était pas au rendez-vous pour rassurer les populations présentes dans ces pays, qu’elles soient migrantes ou non. Le nombre de décès dans les deux pays a aussi inquiété.

    Nabila Moussaoui, chercheuse à l’université Oran II-Mohamed Ben Ahmed. © DR
    Nabila Moussaoui : Les chiffres alarmants de contaminations par le virus du Covid 19 ont effrayé les migrants et le nombre croissant de morts les a plongés dans la panique. Mais la mauvaise gestion de la crise dans les pays européens n’est pas le seul motif. En partant, le harraga s’inscrit dans l’incertitude, même si son départ est un projet réfléchi. En bravant la mer, il brave la mort, mais celle-ci fait partie du projet initial. Mourir d’une épidémie loin des siens reste « hors contrôle » pour le harraga, avec le risque d’être enterré loin de la terre d’islam, s’il échappe à l’incinération, qui n’est pas de sa culture. Le harraga s’inscrit dans une logique de réussite, il est vu comme un héros « qui prend sa vie en main ». Mais dans ce contexte, sa mort serait synonyme d’échec social. Elle serait assimilée au suicide, comme le stipule la fatwa relative à la harraga en Algérie, le plus grand des péchés dans la religion musulmane.

    Où en est le phénomène de harraga aujourd’hui ?

    Nabila Moussaoui : Au début du Hirak, les départs ont régressé, puis cessé, pour reprendre de manière alarmante au moment de l’annonce de la date des élections. Le même constat est valable aujourd’hui avec cette crise sanitaire : après le flou, les interrogations et la peur vient la résilience.

    Chadia Arab : Ce que nous avons appris de la société civile qui travaille avec les migrants, c’est que la fermeture des frontières ne limite pas la volonté de migrer. Et bien que les personnes ne puissent plus voyager, le transit des camions et conteneurs se poursuit. Dans le port de Tanger, les harragas continuent à tenter d’échapper à la vigilance des contrôles qui se sont renforcés pendant la crise sanitaire. Ils surveillent nuit et jour la possibilité de s’engouffrer sous un camion ou à l’intérieur d’un bateau pour tenter l’aventure migratoire vers l’Europe (lire notre reportage à Tanger).

    L’inquiétude qu’on peut avoir, c’est sur la dangerosité du « hrig » [« brûler les frontières », soit le départ clandestin – ndlr]. Ces migrants risquent leur vie à chaque tentative, et les arrestations peuvent être rudes et violentes. Plusieurs associations en Europe et au Maghreb (Euromed Right, Sea-Watch, Fmas, Gadem, Ftdes, Amdh, etc.) ont dénoncé les tensions et la vulnérabilité, encore plus fortes en temps de crise sanitaire, dans les centres de détention [Ceti de Melilla et Ceuta, El Wardia en Tunisie, les centres en Libye, à Chypre et Malte – ndlr]. Des bateaux flottants sont venus remplacer ces hotspots pour enfermer les migrants retrouvés en mer. Melilla est un des passages empruntés par ces harragas. Six cents Tunisiens risquent actuellement leur vie à Melilla et peuvent être expulsés à tout moment. La situation déjà dramatique des harragas s’aggrave donc.

    Avez-vous une estimation du nombre de bateaux ou personnes qui partent chaque jour, et du coût que cela représente ?

    Chadia Arab : À l’époque où le phénomène était vraiment très important, fin des années 1990 et début des années 2000, les migrants pouvaient payer une traversée dans des pateras ou Zodiac 1 000 euros. Aujourd’hui, il semblerait que le tarif ait augmenté pour atteindre jusqu’à 5 000 euros.
    Nabila Moussaoui : Je ne peux pas avancer d’estimation. Les prix augmentent d’année en année, suivant le taux de change du secteur informel, la qualité de l’embarcation, le « professionnalisme » du passeur… Et, bien sûr, les conditions du départ. Les traversées coûtent entre 1 200 et 3 000 euros, selon les périodes, les itinéraires choisis et le nombre de candidats. En cette période de crise, je ne doute pas de l’augmentation des coûts de la traversée, de par la conjoncture au départ et à l’arrivée. Elle doit pouvoir se négocier à partir de 2 000 euros aujourd’hui, « prime de risque de contamination incluse ». La harraga est un business.

    À quoi faut-il s’attendre lors du déconfinement au Maroc (où un confinement total a été instauré depuis le 20 mars) et en Algérie (où un confinement partiel a été étendu à tout le territoire le 4 avril) ?

    Nabila Moussaoui : Pour l’instant, les médias se focalisent sur l’évolution du Covid-19. Que le phénomène ne fasse pas la une des journaux ou des JT ne signifie pas qu’il n’existe plus. Au moment du déconfinement, des chiffres alarmants de harragas partis ou disparus seront révélés. La réalité des crises algériennes dans leur globalité refera surface. La liste des disparus en mer ou des signalements s’allongera. Durant le confinement déjà, des cas de disparitions d’adolescents et de jeunes adultes ont envahi les réseaux sociaux. À Oran, deux mineurs de 17 ans sortis faire des courses ne sont jamais rentrés. La situation politique et socio-économique de l’Algérie peut l’expliquer. La crise a révélé le manque affligeant de structures hospitalières et de moyens, ainsi qu’une impréparation à la gestion de crise. Seule la solidarité « populaire » a permis d’y faire face. Les mesures d’aide sont venues bien plus tard (10 000 dinars, soit 50 euros, que l’État a promis aux familles sans ou à faible revenu), après la pénurie d’aliments de première nécessité et le chômage soudain lié à l’arrêt de l’activité économique, reflétant l’importance du secteur informel dans l’économie.

    Chadia Arab : Avec le déconfinement, les réseaux mafieux vont peut-être s’accentuer. Ce qui est sûr, c’est que l’Europe poursuit sa politique de surveillance des frontières : on l’a vu à Melilla et Ceuta, en Grèce, à Malte ou Chypre. L’externalisation des frontières dans les pays du Maghreb fait aussi le jeu de cette Europe sécuritaire. Ce qui veut dire que l’inquiétude sur les risques subis par les migrants sera toujours présente, et que le droit à la vie des migrants, le droit à la liberté de circulation prônés par plusieurs membres de la société civile maghrébine et européenne ne seront toujours pas d’actualité dans le monde d’après, que beaucoup espéraient plus juste…

    Un mot sur le prochain Tribunal permanent des peuples (TPP), qui devrait avoir lieu à Tunis cette année ?

    Chadia Arab : Le TPP est un tribunal d’opinion qui agit de manière indépendante des États et répond aux demandes des communautés et des peuples dont les droits ont été violés. La prochaine édition se tiendra avant la fin de l’année 2020 à Tunis et se concentrera sur les violations des droits des migrants en pointant du doigt les États du Maghreb, avec des accusations sur le droit à la vie, la non-assistance à personnes en danger, les expulsions collectives, le refoulement, la torture, les déplacements forcés, la violence et l’exploitation au sein des centres de détention. Je pense notamment à ce qui se passe en Libye. C’est organisé par la dynamique du Forum social maghrébin (FSMagh).

    https://www.mediapart.fr/journal/international/070620/migrants-les-traversees-depuis-le-maghreb-bousculees-par-le-covid?onglet=f
    #covid-19 #coronavirus #parcours_migratoires #routes_migratoires #asile #migrations #réfugiés #Méditerranée #mer_Méditerranée #Algérie #Maroc #Tunisie

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  • Chronique Monde | #Mauritanie. Un partenariat européen au goût amer

    La Mauritanie fait figure d’exception au Sahel pour sa relative stabilité. Contrairement à d’autres États de la région, ce pays grand comme presque deux fois la France, à cheval entre le Maghreb et l’Afrique subsaharienne, n’a pas connu d’attentat terroriste depuis 2011. Dans ce contexte, Nouakchott est devenu un partenaire de choix dans le cadre de la lutte internationale contre le terrorisme et l’immigration irrégulière. Face à de tels impératifs, le respect des droits humains sur place passe largement au second plan.

    Tour d’horizon des droits humains

    Depuis le 1er août 2019, la Mauritanie est dirigée par Mohamed Ould El-Ghazaouani. Même si son élection au premier tour est contestée par l’opposition, elle marque la première transition présidentielle pacifique de l’histoire politique mauritanienne. Lors de son investiture, Amnesty International a qualifié de « déplorable » le bilan en matière de droits humains laissé par son prédécesseur, Mohamed Ould Abdel Aziz, citant notamment l’esclavage, les discriminations raciales ainsi que les atteintes à la liberté d’expression, d’association et de réunion.

    Même si l’esclavage a été officiellement aboli en 1981, criminalisé en 2007 et élevé au rang de crime contre l’humanité en 2012, sa pratique touchait environ 43000 personnes en 2016. Dans le même temps, Haratines et Afro- Mauritanien-ne-s restent largement exclu·e·s des postes de responsabilité et donc moins susceptibles de faire valoir leurs droits économiques et sociaux. Depuis l’indépendance, la quasi-totalité des pouvoirs politiques, militaires et économiques est détenue par les Beydanes, une communauté elle-même extrêmement hiérarchisée.

    Celles et ceux qui s’attaquent à ces questions sensibles s’exposent aux représailles de la part de l’État. L’exemple le plus parlant est celui du blogueur Mohamed Ould Mkhaïtir, condamné à mort en 2014 pour « apostasie » après avoir dénoncé l’usage de la religion pour légitimer les pratiques discriminatoires dont est victime la communauté dite des forgerons. Sa peine a depuis été réduite à deux années de prison et il vit actuellement en exil après avoir été libéré en juillet 2019.

    Une tradition d’hospitalité remise en cause

    La Mauritanie est à la fois un pays de transit pour les réfugié-e-s et les migrant-e-s qui se rendent en Afrique du Nord et en Europe et un pays de destination pour celles et ceux à la recherche d’emplois saisonniers dans les secteurs de la pêche et de l’industrie minière ou d’une protection internationale. Signataire de la Convention relative au statut des réfugiés, la Mauritanie a ouvert ses portes en 2012 à plus de 55000 réfugié-e-s malien-ne-s installé-e-s dans le camp de Mbera situé non loin de la frontière malienne.

    Cette politique d’accueil doit néanmoins être nuancée à la lumière de l’externalisation des frontières européennes. L’#Union_européenne (UE) a fait pression sur la Mauritanie pour qu’elle signe en 2003 un #accord_de_réadmission avec l’Espagne qui l’oblige à reprendre sur son territoire non seulement ses nationaux, mais également les ressortissant-e-s de pays tiers dont il est « vérifié » ou « présumé » qu’ils ou elles auraient transité par le territoire mauritanien. Un #centre_de_rétention avait été mis sur pied à #Nouadhibou avec l’aide de l’#Espagne. Il est aujourd’hui fermé (voir VE 135 / décembre 2011 : https://asile.ch/chronique/mauritanie-nouvelle-frontiere-de-leurope).

    Parallèlement, la Mauritanie a reçu entre 2007 et 2013 huit millions d’euros dans le cadre du #Fonds_européen_de_développement afin d’« appuyer et de renforcer les capacités de gestion, de suivi et de planification des flux migratoires » à travers notamment la révision du dispositif pénal relatif aux migrations.

    Résultat : la politique migratoire s’est durcie durant la présidence Aziz. Les autorités ont multiplié les contrôles aux frontières, placé en détention et renvoyé de force des milliers de personnes et soumis certaines d’entre elles à des tortures et mauvais traitements.

    L’ensemble de ces mesures a contribué à déplacer les routes migratoires vers le désert du #Sahara et la #Méditerranée_centrale. Le nombre d’arrivées dans l’archipel espagnol des #Canaries en provenance des côtes mauritaniennes a chuté de 30 000 à moins d’un millier entre 2006 et 2015.

    Cette dynamique est néanmoins en train de s’inverser à mesure que la #Libye apparaît comme une zone de plus en plus inhospitalière. Cette reconfiguration préfigure une recrudescence des naufrages dans l’#Atlantique faute de voies migratoires sûres. Le 4 décembre 2019, une embarcation de fortune partie de #Gambie a sombré au large de #Nouadhibou provoquant la mort d’une soixantaine de personnes.

    https://asile.ch/2020/04/17/chronique-monde-mauritanie-un-partenariat-europeen-au-gout-amer
    #externalisation #asile #migrations #réfugiés #UE #EU #aide_au_développement #développement #coopération_au_développement #contrôles_frontaliers #routes_migratoires
    via @vivre
    ping @rhoumour @isskein @karine4 @_kg_

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    Ajouté à la métaliste « externalisation » :
    https://seenthis.net/messages/731749#message765327

    Et la métaliste aide au développement et conditionnalité de l’aide :
    https://seenthis.net/messages/733358#message768701

  • Migrantes de otro mundo

    La idea de este trabajo colaborativo nació en un taller que dio la directora de CLIP en 2019 con la Fundación Gabo. Allí descubrimos con Alberto Pradilla –hoy en Animal Político y autor de dos reportajes – el primer hilo de esta historia. Semanas después, con el equipo CLIP, pensamos que, por su misma naturaleza andariega, la migración es la historia que sólo se puede contar bien en forma colaborativa, desde las visiones y las sabidurías de múltiples colegas y sus medios. Por eso, nos pusimos a la tarea de crear esta alianza que ha resultado ser más fructífera y potente de lo que imaginamos. Empezamos en una reunión presencial (cuando eso aún se podía) realizada junto con la organización europea Occrp, cuyo editor para América Latina, Nathan Jaccard es también artífice de esta investigación, y desde septiembre nos pusimos manos a la obra. Después de nueve meses, aquí estamos: doce medios americanos, dos europeos; los otros aliados periodísticos, que fuimos buscando a medida que la historia los pedía en Camerún, India, Nepal, y de la mano de un equipo de producción, diseño, desarrollo digital y de audiencias comprometido y excepcional, con esta investigación colaborativa transfronteriza. Nos acompañó en este sueño desde el vamos, la Fundación Avina, y por el camino se sumó la Seattle International Foundation, las dos con gran generosidad. Los mecenas institucionales de CLIP han sido, todo este tiempo, soporte fundamental. Ahora esperamos que, con la ayuda de ustedes los navegantes, esta historia, hasta ahora sumergida en la indolencia y la clandestinidad, salga a la luz y nos inspiren estos valientes migrantes para imaginar un mundo más humano. Aquí verán los créditos de los creadores y mecenas de Migrantes de Otro Mundo.

    https://migrantes-otro-mundo.elclip.org/index.html
    –-> Travail d’investigation de journalistes (18 medias impliqués) sur les routes et les témoignanes des personnes migrantes du continent african et asiatique en Amérique latine.

    #routes_migratoires #parcours_migratoires #Afrique #Amérique_latine #africains #migrations #asile #réfugiés #cartographie #visualisation #webdoc #décès #morts #mourir_aux_frontières #Asie

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    Ajouté à cette métaliste sur les routes migratoires d’Afrique/Asie aux #Amériques :
    https://seenthis.net/messages/857814

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  • #Migration, #Agadez, #Niger : Des #migrants en moins vers l’#Europe, des problèmes en plus en #Afrique

    – Diminution de 75 % des flux migratoires vers le Nord via Agadez en 2017, contribuant plus globalement à la baisse globale des arrivées en Europe par les différents itinéraires méditerranéens. En 2018, 116 647 arrivées ont ainsi été enregistrées, soit 89 % de moins qu’en 2015, ce qui a conduit la Commission européenne à déclarer en 2019 que la crise migratoire était terminée.

    – Mais au-delà de la baisse de ces chiffres, l’approche du « tout sécuritaire » a entraîné cinq conséquences néfastes sur le terrain : érosion des moyens de subsistance pour les populations locales, déstabilisation croissante de la région, poursuite des trafics, accroissement des violations des droits humains des migrants et de l’érosion des relations entre citoyens et gouvernements.

    Via : Insitute For Security Studies (ISS) : https://issafrica.org/research/africa-report/securitisation-of-migration-in-africa-the-case-of-agadez-in-niger

    @cdb_77

  • Monitoring being pitched to fight Covid-19 was tested on refugees

    The pandemic has given a boost to controversial data-driven initiatives to track population movements

    In Italy, social media monitoring companies have been scouring Instagram to see who’s breaking the nationwide lockdown. In Israel, the government has made plans to “sift through geolocation data” collected by the Shin Bet intelligence agency and text people who have been in contact with an infected person. And in the UK, the government has asked mobile operators to share phone users’ aggregate location data to “help to predict broadly how the virus might move”.

    These efforts are just the most visible tip of a rapidly evolving industry combining the exploitation of data from the internet and mobile phones and the increasing number of sensors embedded on Earth and in space. Data scientists are intrigued by the new possibilities for behavioural prediction that such data offers. But they are also coming to terms with the complexity of actually using these data sets, and the ethical and practical problems that lurk within them.

    In the wake of the refugee crisis of 2015, tech companies and research consortiums pushed to develop projects using new data sources to predict movements of migrants into Europe. These ranged from broad efforts to extract intelligence from public social media profiles by hand, to more complex automated manipulation of big data sets through image recognition and machine learning. Two recent efforts have just been shut down, however, and others are yet to produce operational results.

    While IT companies and some areas of the humanitarian sector have applauded new possibilities, critics cite human rights concerns, or point to limitations in what such technological solutions can actually achieve.

    In September last year Frontex, the European border security agency, published a tender for “social media analysis services concerning irregular migration trends and forecasts”. The agency was offering the winning bidder up to €400,000 for “improved risk analysis regarding future irregular migratory movements” and support of Frontex’s anti-immigration operations.

    Frontex “wants to embrace” opportunities arising from the rapid growth of social media platforms, a contracting document outlined. The border agency believes that social media interactions drastically change the way people plan their routes, and thus examining would-be migrants’ online behaviour could help it get ahead of the curve, since these interactions typically occur “well before persons reach the external borders of the EU”.

    Frontex asked bidders to develop lists of key words that could be mined from platforms like Twitter, Facebook, Instagram and YouTube. The winning company would produce a monthly report containing “predictive intelligence ... of irregular flows”.

    Early this year, however, Frontex cancelled the opportunity. It followed swiftly on from another shutdown; Frontex’s sister agency, the European Asylum Support Office (EASO), had fallen foul of the European data protection watchdog, the EDPS, for searching social media content from would-be migrants.

    The EASO had been using the data to flag “shifts in asylum and migration routes, smuggling offers and the discourse among social media community users on key issues – flights, human trafficking and asylum systems/processes”. The search covered a broad range of languages, including Arabic, Pashto, Dari, Urdu, Tigrinya, Amharic, Edo, Pidgin English, Russian, Kurmanji Kurdish, Hausa and French.

    Although the EASO’s mission, as its name suggests, is centred around support for the asylum system, its reports were widely circulated, including to organisations that attempt to limit illegal immigration – Europol, Interpol, member states and Frontex itself.

    In shutting down the EASO’s social media monitoring project, the watchdog cited numerous concerns about process, the impact on fundamental rights and the lack of a legal basis for the work.

    “This processing operation concerns a vast number of social media users,” the EDPS pointed out. Because EASO’s reports are read by border security forces, there was a significant risk that data shared by asylum seekers to help others travel safely to Europe could instead be unfairly used against them without their knowledge.

    Social media monitoring “poses high risks to individuals’ rights and freedoms,” the regulator concluded in an assessment it delivered last November. “It involves the use of personal data in a way that goes beyond their initial purpose, their initial context of publication and in ways that individuals could not reasonably anticipate. This may have a chilling effect on people’s ability and willingness to express themselves and form relationships freely.”

    EASO told the Bureau that the ban had “negative consequences” on “the ability of EU member states to adapt the preparedness, and increase the effectiveness, of their asylum systems” and also noted a “potential harmful impact on the safety of migrants and asylum seekers”.

    Frontex said that its social media analysis tender was cancelled after new European border regulations came into force, but added that it was considering modifying the tender in response to these rules.
    Coronavirus

    Drug shortages put worst-hit Covid-19 patients at risk
    European doctors running low on drugs needed to treat Covid-19 patients
    Big Tobacco criticised for ’coronavirus publicity stunt’ after donating ventilators

    The two shutdowns represented a stumbling block for efforts to track population movements via new technologies and sources of data. But the public health crisis precipitated by the Covid-19 virus has brought such efforts abruptly to wider attention. In doing so it has cast a spotlight on a complex knot of issues. What information is personal, and legally protected? How does that protection work? What do concepts like anonymisation, privacy and consent mean in an age of big data?
    The shape of things to come

    International humanitarian organisations have long been interested in whether they can use nontraditional data sources to help plan disaster responses. As they often operate in inaccessible regions with little available or accurate official data about population sizes and movements, they can benefit from using new big data sources to estimate how many people are moving where. In particular, as well as using social media, recent efforts have sought to combine insights from mobile phones – a vital possession for a refugee or disaster survivor – with images generated by “Earth observation” satellites.

    “Mobiles, satellites and social media are the holy trinity of movement prediction,” said Linnet Taylor, professor at the Tilburg Institute for Law, Technology and Society in the Netherlands, who has been studying the privacy implications of such new data sources. “It’s the shape of things to come.”

    As the devastating impact of the Syrian civil war worsened in 2015, Europe saw itself in crisis. Refugee movements dominated the headlines and while some countries, notably Germany, opened up to more arrivals than usual, others shut down. European agencies and tech companies started to team up with a new offering: a migration hotspot predictor.

    Controversially, they were importing a concept drawn from distant catastrophe zones into decision-making on what should happen within the borders of the EU.

    “Here’s the heart of the matter,” said Nathaniel Raymond, a lecturer at the Yale Jackson Institute for Global Affairs who focuses on the security implications of information communication technologies for vulnerable populations. “In ungoverned frontier cases [European data protection law] doesn’t apply. Use of these technologies might be ethically safer there, and in any case it’s the only thing that is available. When you enter governed space, data volume and ease of manipulation go up. Putting this technology to work in the EU is a total inversion.”
    “Mobiles, satellites and social media are the holy trinity of movement prediction”

    Justin Ginnetti, head of data and analysis at the Internal Displacement Monitoring Centre in Switzerland, made a similar point. His organisation monitors movements to help humanitarian groups provide food, shelter and aid to those forced from their homes, but he casts a skeptical eye on governments using the same technology in the context of migration.

    “Many governments – within the EU and elsewhere – are very interested in these technologies, for reasons that are not the same as ours,” he told the Bureau. He called such technologies “a nuclear fly swatter,” adding: “The key question is: What problem are you really trying to solve with it? For many governments, it’s not preparing to ‘better respond to inflow of people’ – it’s raising red flags, to identify those en route and prevent them from arriving.”
    Eye in the sky

    A key player in marketing this concept was the European Space Agency (ESA) – an organisation based in Paris, with a major spaceport in French Guiana. The ESA’s pitch was to combine its space assets with other people’s data. “Could you be leveraging space technology and data for the benefit of life on Earth?” a recent presentation from the organisation on “disruptive smart technologies” asked. “We’ll work together to make your idea commercially viable.”

    By 2016, technologists at the ESA had spotted an opportunity. “Europe is being confronted with the most significant influxes of migrants and refugees in its history,” a presentation for their Advanced Research in Telecommunications Systems Programme stated. “One burning issue is the lack of timely information on migration trends, flows and rates. Big data applications have been recognised as a potentially powerful tool.” It decided to assess how it could harness such data.

    The ESA reached out to various European agencies, including EASO and Frontex, to offer a stake in what it called “big data applications to boost preparedness and response to migration”. The space agency would fund initial feasibility stages, but wanted any operational work to be jointly funded.

    One such feasibility study was carried out by GMV, a privately owned tech group covering banking, defence, health, telecommunications and satellites. GMV announced in a press release in August 2017 that the study would “assess the added value of big data solutions in the migration sector, namely the reduction of safety risks for migrants, the enhancement of border controls, as well as prevention and response to security issues related with unexpected migration movements”. It would do this by integrating “multiple space assets” with other sources including mobile phones and social media.

    When contacted by the Bureau, a spokeswoman from GMV said that, contrary to the press release, “nothing in the feasibility study related to the enhancement of border controls”.

    In the same year, the technology multinational CGI teamed up with the Dutch Statistics Office to explore similar questions. They started by looking at data around asylum flows from Syria and at how satellite images and social media could indicate changes in migration patterns in Niger, a key route into Europe. Following this experiment, they approached EASO in October 2017. CGI’s presentation of the work noted that at the time EASO was looking for a social media analysis tool that could monitor Facebook groups, predict arrivals of migrants at EU borders, and determine the number of “hotspots” and migrant shelters. CGI pitched a combined project, co-funded by the ESA, to start in 2019 and expand to serve more organisations in 2020.
    The proposal was to identify “hotspot activities”, using phone data to group individuals “according to where they spend the night”

    The idea was called Migration Radar 2.0. The ESA wrote that “analysing social media data allows for better understanding of the behaviour and sentiments of crowds at a particular geographic location and a specific moment in time, which can be indicators of possible migration movements in the immediate future”. Combined with continuous monitoring from space, the result would be an “early warning system” that offered potential future movements and routes, “as well as information about the composition of people in terms of origin, age, gender”.

    Internal notes released by EASO to the Bureau show the sheer range of companies trying to get a slice of the action. The agency had considered offers of services not only from the ESA, GMV, the Dutch Statistics Office and CGI, but also from BIP, a consulting firm, the aerospace group Thales Alenia, the geoinformation specialist EGEOS and Vodafone.

    Some of the pitches were better received than others. An EASO analyst who took notes on the various proposals remarked that “most oversell a bit”. They went on: “Some claimed they could trace GSM [ie mobile networks] but then clarified they could do it for Venezuelans only, and maybe one or two countries in Africa.” Financial implications were not always clearly provided. On the other hand, the official noted, the ESA and its consortium would pay 80% of costs and “we can get collaboration on something we plan to do anyway”.

    The features on offer included automatic alerts, a social media timeline, sentiment analysis, “animated bubbles with asylum applications from countries of origin over time”, the detection and monitoring of smuggling sites, hotspot maps, change detection and border monitoring.

    The document notes a group of services available from Vodafone, for example, in the context of a proposed project to monitor asylum centres in Italy. The proposal was to identify “hotspot activities”, using phone data to group individuals either by nationality or “according to where they spend the night”, and also to test if their movements into the country from abroad could be back-tracked. A tentative estimate for the cost of a pilot project, spread over four municipalities, came to €250,000 – of which an unspecified amount was for “regulatory (privacy) issues”.

    Stumbling blocks

    Elsewhere, efforts to harness social media data for similar purposes were proving problematic. A September 2017 UN study tried to establish whether analysing social media posts, specifically on Twitter, “could provide insights into ... altered routes, or the conversations PoC [“persons of concern”] are having with service providers, including smugglers”. The hypothesis was that this could “better inform the orientation of resource allocations, and advocacy efforts” - but the study was unable to conclude either way, after failing to identify enough relevant data on Twitter.

    The ESA pressed ahead, with four feasibility studies concluding in 2018 and 2019. The Migration Radar project produced a dashboard that showcased the use of satellite imagery for automatically detecting changes in temporary settlement, as well as tools to analyse sentiment on social media. The prototype received positive reviews, its backers wrote, encouraging them to keep developing the product.

    CGI was effusive about the predictive power of its technology, which could automatically detect “groups of people, traces of trucks at unexpected places, tent camps, waste heaps and boats” while offering insight into “the sentiments of migrants at certain moments” and “information that is shared about routes and motives for taking certain routes”. Armed with this data, the company argued that it could create a service which could predict the possible outcomes of migration movements before they happened.

    The ESA’s other “big data applications” study had identified a demand among EU agencies and other potential customers for predictive analyses to ensure “preparedness” and alert systems for migration events. A package of services was proposed, using data drawn from social media and satellites.

    Both projects were slated to evolve into a second, operational phase. But this seems to have never become reality. CGI told the Bureau that “since the completion of the [Migration Radar] project, we have not carried out any extra activities in this domain”.

    The ESA told the Bureau that its studies had “confirmed the usefulness” of combining space technology and big data for monitoring migration movements. The agency added that its corporate partners were working on follow-on projects despite “internal delays”.

    EASO itself told the Bureau that it “took a decision not to get involved” in the various proposals it had received.

    Specialists found a “striking absence” of agreed upon core principles when using the new technologies

    But even as these efforts slowed, others have been pursuing similar goals. The European Commission’s Knowledge Centre on Migration and Demography has proposed a “Big Data for Migration Alliance” to address data access, security and ethics concerns. A new partnership between the ESA and GMV – “Bigmig" – aims to support “migration management and prevention” through a combination of satellite observation and machine-learning techniques (the company emphasised to the Bureau that its focus was humanitarian). And a consortium of universities and private sector partners – GMV among them – has just launched a €3 million EU-funded project, named Hummingbird, to improve predictions of migration patterns, including through analysing phone call records, satellite imagery and social media.

    At a conference in Berlin in October 2019, dozens of specialists from academia, government and the humanitarian sector debated the use of these new technologies for “forecasting human mobility in contexts of crises”. Their conclusions raised numerous red flags. They found a “striking absence” of agreed upon core principles. It was hard to balance the potential good with ethical concerns, because the most useful data tended to be more specific, leading to greater risks of misuse and even, in the worst case scenario, weaponisation of the data. Partnerships with corporations introduced transparency complications. Communication of predictive findings to decision makers, and particularly the “miscommunication of the scope and limitations associated with such findings”, was identified as a particular problem.

    The full consequences of relying on artificial intelligence and “employing large scale, automated, and combined analysis of datasets of different sources” to predict movements in a crisis could not be foreseen, the workshop report concluded. “Humanitarian and political actors who base their decisions on such analytics must therefore carefully reflect on the potential risks.”

    A fresh crisis

    Until recently, discussion of such risks remained mostly confined to scientific papers and NGO workshops. The Covid-19 pandemic has brought it crashing into the mainstream.

    Some see critical advantages to using call data records to trace movements and map the spread of the virus. “Using our mobile technology, we have the potential to build models that help to predict broadly how the virus might move,” an O2 spokesperson said in March. But others believe that it is too late for this to be useful. The UK’s chief scientific officer, Patrick Vallance, told a press conference in March that using this type of data “would have been a good idea in January”.

    Like the 2015 refugee crisis, the global emergency offers an opportunity for industry to get ahead of the curve with innovative uses of big data. At a summit in Downing Street on 11 March, Dominic Cummings asked tech firms “what [they] could bring to the table” to help the fight against Covid-19.

    Human rights advocates worry about the longer term effects of such efforts, however. “Right now, we’re seeing states around the world roll out powerful new surveillance measures and strike up hasty partnerships with tech companies,” Anna Bacciarelli, a technology researcher at Amnesty International, told the Bureau. “While states must act to protect people in this pandemic, it is vital that we ensure that invasive surveillance measures do not become normalised and permanent, beyond their emergency status.”

    More creative methods of surveillance and prediction are not necessarily answering the right question, others warn.

    “The single largest determinant of Covid-19 mortality is healthcare system capacity,” said Sean McDonald, a senior fellow at the Centre for International Governance Innovation, who studied the use of phone data in the west African Ebola outbreak of 2014-5. “But governments are focusing on the pandemic as a problem of people management rather than a problem of building response capacity. More broadly, there is nowhere near enough proof that the science or math underlying the technologies being deployed meaningfully contribute to controlling the virus at all.”

    Legally, this type of data processing raises complicated questions. While European data protection law - the GDPR - generally prohibits processing of “special categories of personal data”, including ethnicity, beliefs, sexual orientation, biometrics and health, it allows such processing in a number of instances (among them public health emergencies). In the case of refugee movement prediction, there are signs that the law is cracking at the seams.
    “There is nowhere near enough proof that the science or math underlying the technologies being deployed meaningfully contribute to controlling the virus at all.”

    Under GDPR, researchers are supposed to make “impact assessments” of how their data processing can affect fundamental rights. If they find potential for concern they should consult their national information commissioner. There is no simple way to know whether such assessments have been produced, however, or whether they were thoroughly carried out.

    Researchers engaged with crunching mobile phone data point to anonymisation and aggregation as effective tools for ensuring privacy is maintained. But the solution is not straightforward, either technically or legally.

    “If telcos are using individual call records or location data to provide intel on the whereabouts, movements or activities of migrants and refugees, they still need a legal basis to use that data for that purpose in the first place – even if the final intelligence report itself does not contain any personal data,” said Ben Hayes, director of AWO, a data rights law firm and consultancy. “The more likely it is that the people concerned may be identified or affected, the more serious this matter becomes.”

    More broadly, experts worry that, faced with the potential of big data technology to illuminate movements of groups of people, the law’s provisions on privacy begin to seem outdated.

    “We’re paying more attention now to privacy under its traditional definition,” Nathaniel Raymond said. “But privacy is not the same as group legibility.” Simply put, while issues around the sensitivity of personal data can be obvious, the combinations of seemingly unrelated data that offer insights about what small groups of people are doing can be hard to foresee, and hard to mitigate. Raymond argues that the concept of privacy as enshrined in the newly minted data protection law is anachronistic. As he puts it, “GDPR is already dead, stuffed and mounted. We’re increasing vulnerability under the colour of law.”

    https://www.thebureauinvestigates.com/stories/2020-04-28/monitoring-being-pitched-to-fight-covid-19-was-first-tested-o
    #cobaye #surveillance #réfugiés #covid-19 #coronavirus #test #smartphone #téléphones_portables #Frontex #frontières #contrôles_frontaliers #Shin_Bet #internet #big_data #droits_humains #réseaux_sociaux #intelligence_prédictive #European_Asylum_Support_Office (#EASO) #EDPS #protection_des_données #humanitaire #images_satellites #technologie #European_Space_Agency (#ESA) #GMV #CGI #Niger #Facebook #Migration_Radar_2.0 #early_warning_system #BIP #Thales_Alenia #EGEOS #complexe_militaro-industriel #Vodafone #GSM #Italie #twitter #détection #routes_migratoires #systèmes_d'alerte #satellites #Knowledge_Centre_on_Migration_and_Demography #Big_Data for_Migration_Alliance #Bigmig #machine-learning #Hummingbird #weaponisation_of_the_data #IA #intelligence_artificielle #données_personnelles

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    signalé ici par @sinehebdo :
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  • Mort de neuf migrants après un #naufrage au large de l’île espagnole de #Lanzarote

    Neuf migrants ont été retrouvés morts au large de Lanzarote après le naufrage de leur embarcation prise dans une forte houle alors qu’ils tentaient de rejoindre cette île des Canaries. Deux autres personnes sont toujours portées disparues.

    Neuf migrants sont morts après le naufrage au large de l’île espagnole de Lanzarote, aux Canaries, de leur embarcation renversée par de fortes vagues, ont indiqué jeudi 7 novembre les autorités de l’archipel. Deux autres migrants sont toujours portés disparus.

    Ce bilan s’est alourdi jeudi après la découverte de quatre nouveaux corps, ont indiqué les autorités locales. Mercredi, cinq corps avaient été retrouvés « en dépit des difficultés dues à la forte houle, responsable du renversement de l’embarcation", avait expliqué l’administration locale de Lanzarote, dans un communiqué.

    "Il y a neuf personnes décédées, en plus des quatre secourues en vie", a indiqué à l’AFP un porte-parole du gouvernement local de Lanzarote, île située au large des côtes marocaines, dans l’océan Atlantique. "Selon certains survivants, quinze personnes étaient à bord de l’embarcation et les services d’urgence continuent de fouiller la zone", a ajouté le porte-parole.

    Les recherches se poursuivaient jeudi avec deux hélicoptères et plusieurs bateaux, en dépit des conditions météorologiques très difficiles "avec des vagues de quatre ou cinq mètres", avait plutôt affirmé Isidoro Blanco, porte-parole des services d’urgence de Lanzarote.

    Selon le récit des rescapés, la quinzaine de personnes aurait pris la mer vendredi. Aucune information n’a été donnée sur leur pays d’origine ni leur identité.

    Selon les chiffres publiés par l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) de l’ONU, au moins 80 personnes sont mortes ou portées disparues, après avoir tenté de parvenir aux Canaries depuis le nord-ouest de l’Afrique en 2019.

    https://www.infomigrants.net/fr/post/20690/mort-de-neuf-migrants-apres-un-naufrage-au-large-de-l-ile-espagnole-de
    #décès #migrations #réfugiés #Lanzarote #Atlantique #océan_atlantique #mourir_en_mer #Canaries #routes_migratoires #itinéraires_migratoires #route_atlantique

    • La côte atlantique, nouveau point de départ de jeunes marocains

      Ces dernières semaines, plusieurs embarcations transportant des jeunes marocains sont parties des villes de Salé, Casablanca, ou encore Safi, pour rejoindre le sud de l’Espagne ou les Canaries. Pour Ali Zoubeidi, docteur en droit public, spécialiste dans le trafic illicite de migrants au Maroc, les départs depuis ces villes situées sur la côte atlantique du pays sont nouveaux, et révèlent le désarroi d’une jeunesse qui, faute de perspectives, se tourne vers un « eldorado » européen.
      Entre fin septembre et début octobre, les corps de 16 personnes ont été repêchés au large de Casablanca, au nord-ouest du Maroc. Les victimes, tous de jeunes marocains, étaient montées à bord d’une embarcation pneumatique, espérant rejoindre le sud de l’Espagne par l’océan Atlantique. Sur la soixantaine de personnes qui se trouvaient à bord, seules trois ont survécu.

      Quelques semaines plus tard, une vidéo publiée sur les réseaux sociaux fait le tour de la presse marocaine. Elle montre Anouar Boukharsa, un sportif marocain détenteur de plusieurs prix de taekwondo régionaux et nationaux, lancer sa médaille à la mer depuis un bateau de fortune en direction des Canaries. Parti de la plage de Souira, au sud de la ville de Safi, avec une dizaine de jeunes marocains comme lui originaires de la région, il est arrivé le 23 octobre à Lanzarote, une île de l’archipel espagnol, après quatre jours de voyage.

      Si le Maroc est devenu ces dernières années une route migratoire majeure, avec des départs s’organisant le plus souvent depuis la côte méditerranéenne, ces deux événements illustrent la présence d’autres points de départ se situant du côté Atlantique. Ali Zoubeidi, docteur en droit public spécialiste dans le trafic illicite de migrants au Maroc, travaille sur l’émergence de ces nouvelles traversées. Il répond aux questions de la rédaction d’InfoMigrants.

      Les départs depuis la côte atlantique du Maroc sont-ils nouveaux ?

      La route atlantique depuis le sud du pays en direction des Canaries avait déjà été réactivée, avec des points de départ dans la région de Tiznit, ou près de Dakhla. On connaissait déjà aussi la route du nord, avec des embarcations qui partent des villes d’Asilah ou de Larache, sur la côte atlantique, pour rejoindre la mer Méditerranée puis le sud de l’Espagne.

      Mais ce que l’on voit émerger maintenant, et c’est très récent, ce sont des points de départ dans le centre, à partir de villes comme Safi - d’où est parti le champion de taekwondo - pour aller aux Canaries, ou de Salé et de Casablanca pour rejoindre la Méditerranée et ensuite le sud de l’Espagne. Ce sont des trajets de plusieurs jours, très dangereux, à bord d’embarcations de pêche traditionnelles ou de bateaux pneumatiques qui sont mis à l’eau sur des plages sauvages, par exemple à Souira, au sud de Safi.

      Les points de départ au sud concernent à la fois des Marocains et des migrants originaires d’Afrique subsaharienne. Ces derniers se retrouvent pour certains au sud du pays après avoir été refoulés du nord par les autorités. [Les autorités marocaines avaient commencé en août 2018 à refouler de force des migrants vers le sud du pays afin de les « soustraire aux réseaux mafieux » du nord, NDLR.]

      Au centre, depuis Safi, Salé, ce sont surtout de jeunes marocains qui partent vers l’Europe.

      Comment expliquer ces départs de jeunes marocains ?

      Même s’il n’y a pas encore de chiffres et données précises sur les départs depuis ces nouvelles zones, ce que l’on observe, c’est vraiment le désespoir de la jeunesse marocaine. Ce sont souvent des jeunes qui décident de quitter le pays en trouvant l’issue la plus proche pour atteindre l’Europe, « l’eldorado ». Dans les vidéos qui sont apparues ces dernières semaines, on a vu plusieurs personnes originaires de Safi partir du sud de leur ville, dont des sportifs. Certains jettent à l’eau leurs médailles, d’autres leurs diplômes. C’est révélateur d’une absence de perspectives pour la jeunesse marocaine, tant au niveau économique, de la santé, qu’au niveau sportif et culturel. Ils savent qu’ils peuvent mourir pendant le trajet, mais ils ne se posent pas la question de ce qu’il pourra ensuite se passer une fois en Espagne.

      C’est vraiment présenté comme une aventure, un challenge entre jeunes. Ce sont aussi des jeunes qui souffrent de l’absence de voie légale d’immigration. Ils se voient refuser des visas pour des raisons économiques, même quand il s’agit pour eux simplement de faire du tourisme ou d’effectuer un déplacement temporaire. Et puis, il y a la mise en scène. On fait des vidéos pendant le passage irrégulier, on se vante pour montrer qu’on y arrive, on fait des dédicaces à sa famille, ses amis : c’est le moment où l’on peut dire « j’ai réussi quelque chose ». Et cela devient un facteur d’attraction pour d’autres. C’est aussi de la publicité dont se servent ensuite les réseaux mafieux.

      Comment s’organisent ces départs ? Quels sont les dangers ?

      Je dirais qu’il y a vraiment des réseaux criminels impliqués dans environ 85% des cas. Le reste étant des amateurs qui s’auto-organisent. Je soulignerais aussi l’importance de la communauté locale, des gens qui habitent sur la côte : dans les quartiers populaires, des pêcheurs sont impliqués. Il y a également des opportunistes, qui n’y connaissent rien, qui prennent contact avec des jeunes via les réseaux sociaux et les arnaquent. Début septembre, pour le cas du naufrage au large de Casablanca d’une embarcation qui se dirigeait vers le sud de l’Espagne, il s’agissait clairement d’une arnaque. Il est extrêmement compliqué de rejoindre les côtes espagnoles depuis Casablanca.

      Il y a également eu le cas de migrants qui avaient été mis dans une embarcation et emmenés d’une côte marocaine à une autre. On leur avait dit de rester cachés pour ne pas être repérés. Au-delà des arnaques, ce sont des routes très dangereuses, autant lorsqu’on part du centre vers les Canaries que du centre vers le sud de l’Espagne. Et, souvent, les jeunes qui partent n’ont pas le réflexe de penser à des numéros de secours qu’ils pourraient appeler en cas de détresse.

      La vidéo du champion de taekwondo, et deux jours avant la photo d’un ancien footballeur lors de sa traversée, sont des signaux d’alarme pour le pays. Le Maroc renforce ses capacités et forme des acteurs à lutter contre ces départs et ces réseaux. Mais il faudra aussi des programmes pour travailler sur les causes profondes qui poussent ces jeunes à partir.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/20425/la-cote-atlantique-nouveau-point-de-depart-de-jeunes-marocains

      #migrants_marocains #jeunes #jeunesse #Asilah #Larache #Salé #Casablanca #Safi

    • Casi 60 muertos en el naufragio de una patera que venía a Canarias

      Al menos 57 inmigrantes de varias nacionalidades han muerto tras naufragar este miércoles su embarcación en aguas del Atlántico a la altura de #Nuadibú (470 kilómetros al norte de Nuakchot), en Mauritania.

      Al menos 57 inmigrantes de varias nacionalidades han muerto tras naufragar este miércoles su embarcación en aguas del Atlántico a la altura de Nuadibú (470 kilómetros al norte de Nuakchot), en Mauritania, según fuentes policiales en esta ciudad.

      Otros 74 ocupantes de esa misma patera lograron salir con vida tras nadar hasta llegar a la costa de Mauritania, y fueron ellos los que dieron detalles del naufragio.

      La embarcación había partido el pasado jueves desde las costas de Gambia con destino a las Islas Canarias, llevando a bordo un total de 150 ocupantes de distintas nacionalidades.

      La embarcación, que al parecer viajaba siempre cerca de las costas, golpeó un arrecife y volcó; una vez en el agua, solo los que sabían nadar pudieron llegar hasta la costa y salvar la vida.

      Tras encontrar a los supervivientes, las autoridades mauritanas les llevaron hasta un lugar seguro de Nuadibú, donde les proporcionaron cuidados, víveres, ropa y mantas.

      No hay esperanza de encontrar a nuevos supervivientes, según las fuentes, pero continúa el rastreo para tratar de encontrar los cadáveres, que en algunos casos han sido arrojados a tierra por el oleaje.

      Estos últimos serán enterrados esta misma noche en un lugar al exterior de la ciudad.

      https://www.laprovincia.es/sucesos/2019/12/04/60-muertos-naufragio-patera-iba/1233464.html
      #Mauritanie

    • Il naufragio di ieri al largo delle coste mauritane in cui 60 migranti hanno perso la vita mi ha riportato indietro al 2006, quando più di 50.000 migranti avevano intrapreso la rotta delle Canarie con un tragico bilancio di più di 5000 morti nell’Oceano Atlantico.
      In quegli anni andavo spesso alle Canarie per capire quello che succedeva. Su quelle isole e a Melilla, ho cominciato a lavorare sulle politiche di esternalizzazione.
      Che i migranti partano sempre più a sud, dal Gambia questa volta, sapendo che il viaggio é lunghissimo (più di 10 giorni di traversata) e pericolosissimo, si spiega anche con il tentativo di chiusura totale delle altre rotte, quella libica e marocchina, da parte della UE e per la presenza delle navi di Frontex al largo delle coste senegalesi e mauritane.

      https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10220667545986599&set=a.1478670974789&type=3&theater

      #Sara_Prestianni #Gambie

    • Mauritanian coast guard intercepts boat carrying around 190 migrants, IOM says

      A boat carrying around 190 migrants was intercepted by the Mauritanian coast guard on Friday, the UN migration agency said. This comes less than two days after 63 migrants drowned when their vessel sank in the same waters en route from The Gambia. The country’s president has vowed to crack down on people traffickers.

      After the recovery of five additional bodies, the death toll from last Wednesday’s sinking of a fishing boat rose to 63 over the weekend, according to news agencies AP and dpa. The boat was headed northward toward Spain’s Canary Islands from the small coastal town of Barra in the Gambia.

      The International Organization for Migration (IOM) said at least 150 people were traveling on the boat. According to one of the survivors, the boat may have been carrying up to 200 people, as rfi reported. Around 80 survived by swimming ashore.

      Separately, the Mauritanian coast guard on Friday intercepted a vessel carrying around 190 Gambian migrants headed for Spain’s Canary Islands, a Mauritanian security source told news agency AFP.

      Initial estimates said the boat was carrying between 150 and 180 migrants. They are in the process of being identified by the local authorities, said Laura Lungarotti, chief of the IOM in Mauritania.

      Uptick in attempted crossings

      The incidents are indicative of a resurgence in the number of people willing to risk the perilous and poorly monitored sea passage along West Africa’s coast to Spain’s Canary Islands, which was a major route for those seeking jobs and a better life in Europe until Spain stepped up patrols in the mid-2000s, Reuters writes.

      “It is part of this trend of an increasing number of people passing through this route because the central Mediterranean route has been stopped due to the Libya situation,” Lungarotti told Reuters.

      In Italy, the number of migrant arrivals dropped significantly after the Italian government focused its policies on stopping migration to its shores from Libya in 2016.

      From January to December this year, some 14,000 people arrived irregularly in Europe via the central Mediterranean route, down from nearly 25,000 in 2018.

      Recently, however, there has been a rise in migrant boats departing from Libya: In late November, at least 9 boats with more than 600 migrants on board were discovered on the central Mediterranean route in only 48 hours, according to IOM.

      The Canary Islands are located roughly 1,000 kilometers north of Mauritania’s capital on the Atlantic coast, Nouakchott, and some 1,600 kilometers north of the capital of The Gambia, Banjul.

      According to IOM, some 158 people are known to have died trying to reach the Canary Islands so far this year. That’s almost four times as many as last year, when 43 people died.

      ’National tragedy’

      “To lose 60 young lives at sea is a national tragedy and a matter of grave concern to my government,” Gambian President Adama Barrow said on national television. “A full police investigation has been launched to get to the bottom of this serious national disaster. The culprits will be prosecuted according to law,” AFP cited Barrow as saying.

      Last Wednesday’s sinking off Mauritania with at least 63 deaths was one of the deadliest incidents along this route in recent years. According to IOM, it is the largest known loss of life along the so-called western migration route this year, and this year’s sixth deadliest migrant capsizings globally.

      The boat was attempting to reach the Canary Islands when their boat hit a rock. 87 people survived the disaster by swimming ashore, IOM said.

      President Barrow further said funds had been sent to Mauritania to cater to the immediate needs of the survivors admitted to hospital and to finance their repatriation. According to IOM, more than 35,000 Gambian migrants left the small country of just over 2 million and arrived in Europe between 2014 and 2018.

      The Gambia to crack down on traffickers

      On Saturday, Barrow vowed to punish people traffickers as the country mourned the deaths of the Europe-bound migrants. Barrow pledged to “fast track prosecution of cases involving human trafficking.” Law enforcement officials were “instructed to increase surveillance and arrest... criminals involved in human trafficking,” he said.

      A 22-year oppressive rule of former President Yahya Jammeh, Barrow’s predecessor, adversely affected the country’s economy. This contributed to the high number of people trying to migrate to Europe, many of whom ended up stranded in Libya and Niger. Since Jammeh was forced to cede power in 2017, however, some Gambians have started to return.

      In regards to the boat intercepted by the Mauritanian coast guard on Friday, Barrow said “Arrangements have been made to transport them” back to Banjul.

      https://www.infomigrants.net/en/post/21407/mauritanian-coast-guard-intercepts-boat-carrying-around-190-migrants-i

    • Una patera con 26 personas llega a #Tenerife y otras 152 son rescatadas en Alborán y cerca de Gran Canaria

      Salvamento Marítimo traslada este sábado al puerto de Almería a 49 varones que habían quedado aislados dos días por el mal tiempo.

      Una embarcación de Salvamento Marítimo ha rescatado esta noche a una patera con al menos 26 inmigrantes a 50 millas (92 kilómetros) de la isla de Gran Canaria. El equipo de emergencias ha trasladado a los ocupantes de la embarcación precaria al puerto de Arguineguín, una localidad del municipio de Mogán (Gran Canaria) de unos 2.500 habitantes. En otra operación en el mar de Alborán han sido rescatadas 126 personas, de las que 49, todos varones, estaban aislados desde la tarde del pasado jueves en la isla de Alborán por el mal tiempo.

      Según la agencia Efe, que cita fuentes del servicio 112 de Canarias, los rescatados cerca de Gran Canaria son 22 hombres y cuatro mujeres. Según Europa Press, que atribuye la información a fuentes de Cruz Roja, son 24 varones, uno de ellos menor de edad, y cuatro mujeres, entre las que hay una embarazada. Además, otra patera con 26 migrantes de origen subsahariano ha llegado esta madrugada al muelle de Los Abrigos de Granadilla de Abona, un municipio de Tenerife de unos 48.400 habitantes. De estos, nueve son hombres —hay un menor de 16 años— y 17 mujeres, entre las que hay una embarazada y una niña de cinco años.

      Una vez en tierra, el Servicio de Urgencias Canario (SUC) y Cruz Roja asistieron a los ocupantes de las dos pateras, todos en aparente buen estado de salud. Sin embargo, al menos cuatro personas de la patera rescatada a 50 millas de Gran Canaria han tenido que ser derivados a centros sanitarios por patologías leves. De la otra infraembarcación, tres inmigrantes han sido trasladados a ambulatorios por el mismo motivo.

      La operación en aguas de Alborán comenzó en la mañana de este sábado cuando la embarcación Salvamar Spica ha emprendido rumbo a la isla de Alborán para recoger a 49 varones, según ha informado un portavoz de Salvamento Marítimo a Efe . Estos hombres llegaron a la isla de Alborán en patera el pasado jueves sobre las 18.30 horas pero su traslado había sido imposible por el mal tiempo.

      Cuando la Salvamar Spica se dirigía en su búsqueda, el destacamento naval de la Armada en Alborán ha alertado al centro coordinador de Salvamento Marítimo del avistamiento de otra patera a media milla náutica (unos 900 metros) de la isla de Alborán.

      La Salvamar Spica ha recogido a 77 personas, entre ellas 21 mujeres y cuatro menores, de esta patera y posteriormente ha transbordado a los 49 varones llegados a la isla de Alborán y que fueron atendidos desde el jueves por el destacamento naval de la Armada.

      La embarcación de rescate se dirige hacia el puerto de Almería, al que está prevista su llegada sobre las 19.10 horas.

      El aumento de las llegadas de inmigrantes a Canarias ha llevado al colapso a los centros de acogida en esta comunidad. La falta de plazas en los albergues, dependientes de la Secretaría de Estado de Migraciones, ha llegado a tal punto que se han tenido que habilitar habitaciones en un hotel en Las Palmas para mujeres embarazadas y con niños pequeños. Solo hay 200 plazas de acogida en albergues temporales de Tenerife y Gran Canaria, pero en 2019, 1.470 inmigrantes han llegado a las islas.

      La media en los últimas cuatro meses se sitúa en 400 llegadas cada mes, muchas de ellas en pateras en condiciones pésimas. La cifra está muy lejos de los casi 40.000 que arribaron en esta comunidad entre 2005 y 2006 en la llamada crisis de los cayucos, pero existe un aumento con respecto al año pasado —de un 12%— que se debe al reforzamiento de la seguridad en el norte de Marruecos. La dificultad de realizar esa ruta ha aumentado el número de embarcaciones precarias que se dirigen a Canarias para tratar de llegar a territorio español o europeo.

      Este pasado miércoles, al menos 63 inmigrantes de varias nacionalidades murieron tras naufragar su patera en aguas del Atlántico a la altura de Nuadibú (470 kilómetros al norte de Nuakchot), en Mauritania, según confirmó la Organización Internacional para las Migraciones (OIM) en un comunicado. Entre los fallecidos había un niño y siete mujeres. Otros 83 ocupantes de esa misma patera lograron salir con vida tras nadar hasta llegar a la costa de Mauritania, y fueron ellos los que dieron detalles del naufragio. La embarcación precaria había partido el pasado jueves desde las costas de Gambia con destino a las islas Canarias, llevando a bordo entre 150 y 180 ocupantes.

      https://elpais.com/politica/2019/12/07/actualidad/1575708520_470358.html

    • 43 muertos en la patera hundida que venía a Canarias

      La oenegé Caminando Fronteras informa de que hay 21 supervivientes, que fueron rescatados por la marina marroquí - La embarcación se hundió a 24 kilómetros de la costa de Tan-Tan.

      Un total de 43 personas han fallecido al naufragar una patera que se dirigía al Archipiélago, según ha informado la periodista e investigadora en Migraciones y Trata de Seres Humanos, Helena Maleno, en su cuenta de Twitter. La oenegé Caminando Fronteras ha apuntado que 21 personas han sido rescatadas con vida por los servicios de rescate marroquí.

      La agencia Efe informaba esta tarde de que dos personas habían muerto y al menos 19 habían desaparecido al hundirse a unos 24 kilómetros de la costa de Tan-Tan, en Marruecos, una patera que se dirigía hacia Canarias, según explicó Salvamento Marítimo, con la información que recibió de los servicios de rescate de Rabat.

      España envió de urgencia esta mañana hacia la zona a una embarcación de rescate desde Lanzarote, a unos 200 kilómetros de distancia, la Salvamar Al Nair, tras recibir a través de las ONG llamadas telefónicas de socorro de los propios inmigrantes, que pedían auxilio porque su neumática se estaba hundiendo.

      La periodista amplió esta información y asegura que el número de fallecidos asciende a 43 y que sólo dos cadáveres habían sido recuperados.

      https://www.laprovincia.es/sucesos/2020/04/03/43-muertos-patera-diria-canarias/1271515.html

  • Sri Lanka’s new asylum route: A 4,000-km journey across the Indian Ocean

    Faced with tightening borders in Australia and elsewhere, hundreds of Sri Lankan asylum seekers are instead turning to a new migration route stretching 4,000 kilometres across the Indian Ocean.

    Since January 2018, at least 291 Sri Lankans have boarded fishing boats or makeshift rafts to reach the tiny French territories of La Réunion and Mayotte off the coast of Madagascar, the UN’s refugee agency, UNHCR, reported this month.

    The majority of recent arrivals have been turned away and deported before applying for asylum, their claims declared “manifestly unfounded”, according to reports from French authorities. Of 70 Sri Lankans who arrived in February, for example, only six were allowed in, though all asked for asylum, the government on La Réunion said. The remainder were deported to Sri Lanka within days.

    La Cimade, a French NGO that advocates for refugees and migrants, calls these swift rejections “unprecedented rights violations”.

    “Some people were illegally sent back without being able to appeal, without having their asylum application examined, without having been able to consult a lawyer, or without being informed of their rights,” the group said in a statement.

    “New roads are gradually being set up towards the south of the Indian Ocean.”

    The emergence of the route southwest to La Réunion and Mayotte is driven in part by crackdowns on Sri Lankan boat journeys to more common destinations including Southeast Asian nations and Australia, according to Delon Madavan, a researcher who studies South Asian diaspora communities at the Centre d’Études de l’Inde et de l’Asie du Sud in Paris.

    Australia bars asylum seekers who arrive by boat from resettling in the country even if their refugee claims are eventually approved. Controversial offshore detention policies saw thousands of asylum seekers sent to Nauru and Papua New Guinea’s Manus Island, where the UN, Médecins Sans Frontières, and others have documented a mental health crisis among people detained for years. Since May, Australian authorities have reportedly turned away six boats carrying asylum seekers from Sri Lanka.

    “New roads are gradually being set up towards the south of the Indian Ocean” because of hardening immigration laws and “severe conditions of detention”, Madavan told The New Humanitarian.

    Sri Lankans are also drawn to La Réunion in particular because of a large population of South Indian Tamils: “There is a potential network in these receiving islands, which may give support to asylum seekers from Sri Lanka,” Madavan said.
    Minority Muslims and Christians join Tamil asylum seekers

    More than 4,000 Sri Lankans, mostly Tamil minorities, applied for asylum in European countries last year – about 2,000 in France, which has a large Tamil diaspora. The number of yearly applicants has fallen by about half in the last decade.

    Sri Lanka’s bloody civil war – between insurgents drawn from the mostly Hindu Tamil minority and the army and government, which are dominated by the Sinhalese Buddhist majority – ended in 2009. But rights groups say violations, including arbitrary detention, torture, and rape, have continued. Recent political upheaval in Sri Lanka may also be driving asylum claims in France: a growing number are minority Muslims and Christians fleeing violence blamed on Buddhist extremists, according to a May report from OFPRA, the French government department that oversees refugee claims.

    Rights groups have criticised asylum policies in France’s overseas territories – particularly in Mayotte, where people from nearby Comoros, as well as people from Democratic Republic of Congo, Burundi, and Rwanda made up the majority of asylum applicants last year.

    In a 2017 report, France’s human rights commission said seeking asylum in Mayotte was “mission impossible” for Comorians in particular, with new arrivals often detained and deported before asylum requests are recorded.

    Anafé, an association of French organisations that work with refugees and migrants, says maritime border patrols around Mayotte have become a “quasi-military arsenal, rendering access more and more difficult”.

    Asylum claims to La Réunion have been comparatively few: only 18 claims were lodged last year, according to OFPRA statistics.

    But under French law, asylum seekers can be refused entry before applying if their claims are determined to be “manifestly unfounded”.

    In one recent case reported by French authorities, 34 of 120 Sri Lankans who arrived on board a rickety ship in mid-April were allowed to apply for asylum. The rest, including three children, were barred from lodging their claims, and 60 of them were deported by the end of the month – accompanied by dozens of police and gendarmes.

    https://www.thenewhumanitarian.org/news/Sri-Lanka-migration-route-Mayotte-Reunion-Australia-asylum
    #Sri_Lanka #réfugiés_sri-lankais #asile #migrations #réfugiés #routes_migratoires #parcours_migratoire #La_Réunion #Mayotte #France #DOM-TOM #Océane_indien

    • Demande d’asile à la frontière : l’État hors la loi à la Réunion

      Depuis mars 2018, près de 150 demandeurs d’asile en provenance du Sri Lanka sont arrivés à la Réunion par la mer. La préfecture a fait le choix de l’expulsion, de l’enfermement et de l’opacité plutôt que de permettre à ces personnes en quête de protection d’exercer leurs droits. Alors que d’autres embarcations seraient à l’approche, La Cimade alerte des violations des droits répétées et sans précédent sur l’île de la Réunion.
      Les agissements de la préfecture de la Réunion concernant les arrivées sur le sol français de femmes, d’hommes et d’enfants, demandeurs d’asile en provenance du Sri Lanka, inquiètent fortement La Cimade.

      En effet, à chacun des cinq débarquements des bateaux arrivés à La Réunion au depuis mars dernier, l’État est hors la loi. Certaines personnes ont été refoulées illégalement sans avoir pu exercer un recours, sans que leur demande d’asile n’ait été examinée, sans avoir pu consulter un·e· avocat·e· ou sans avoir été informées de leurs droits. D’autres sont privées de libertés dans des conditions opaques, à l’abri du regard des avocat·e·s et des associations pourtant habilitées à intervenir dans la zone d’attente (La Cimade en fait partie). Et pour celles et ceux qui ont été libéré·e·s, l’accès à un hébergement, dans l’attente de l’enregistrement de leur demande d’asile par la préfecture, n’a été possible que grâce à la solidarité citoyenne. En décembre, pendant huit jours, dans l’attente des attestations de demandeur d’asile, un collectif citoyen a pris en charge les frais de mise à l’abri, obligation incombant pourtant à l’État, responsable de les loger et de les nourrir.

      La Cimade a déjà, en octobre dernier, dénoncé l’enferment illégal en zone d’attente. Les violations des droits perdurent pour les 72 personnes arrivées le 5 février 2019. La Cimade a demandé à intervenir dans la zone d’attente créée dans l’hôtel à proximité de l’aéroport. Le ministère de l’intérieur a refusé, malgré la nécessité d’aide juridique exprimée par les personnes au cours des audiences devant le juge des libertés et de la détention. Les avocat·e·s du barreau de Saint-Denis de la Réunion ont dénoncé des atteintes aux droits de la défense et les conditions d’accueil indignes des demandeurs d’asile.

      Lors de l’audience du 9 février, La défense a dû rappeler au juge des libertés sa compétence sur l’enfermement en zone d’attente et son rôle de garant des libertés individuelles en application de l’article 66 de la Constitution. En effet, les échanges entre magistrat·e·s et représentant·e·s de la préfecture ont porté tour à tour, et sans lien avec la compétence du tribunal, sur la situation géopolitique au Sri Lanka, le coût du trajet, ou encore le choix de la France. Alors qu’idées reçues et messages de haines circulent sur les réseaux sociaux et appellent des actes d’apaisement, la tenue de tels propos par des représentant·e·s de l’État et de la justice interroge.

      Si cette situation nouvelle a pu prendre de cours les autorités en mars, La Cimade rappelle que le droit d’asile à la frontière doit être respecté à la Réunion et l’État doit y veiller. L’accueil des personnes qui arrivent par bateaux en provenance du Sri Lanka ou de tout autre pays doit être organisé dans le respect de leur dignité ainsi quand dans celui leurs droits.

      https://www.lacimade.org/demande-dasile-a-la-frontiere-letat-hors-la-loi-a-la-reunion

  • Dozens of migrants in a wooden canoe rescued off Canary Islands

    Dozens of African migrants attempting to reach the Canary Islands in a battered wooden canoe were rescued in waters off the Spanish archipelago on Thursday, emergency services said.

    The 37 migrants, including a child, were rescued by the Spanish coastguard six miles off the island of Gran Canaria after attempting to make the dangerous crossing from North Africa, the Canary Islands emergency services said on Twitter.

    The sub-Saharan migrants were all male, they added.

    While migrant arrivals in Spain as a whole, as of mid-September are down 46% compared to the same period last year, the Canary Islands have seen a 37% rise, according to data from Spain’s Interior Ministry.

    Crossing to the islands, located in the Atlantic Ocean off the Moroccan coast, has become a dangerous route for migrants. Dozens died last year attempting to make the crossing, according to the U.N. International Organization for Migration.


    https://www.reuters.com/article/us-europe-migrants-spain/dozens-of-migrants-in-a-wooden-canoe-rescued-off-canary-islands-idUSKBN1WB1

    #migrations #asile #réfugiés #routes_migratoires #parcours_migratoires #îles_Canaries #Canaries

  • Le Niger, #nouvelle frontière de l’Europe et #laboratoire de l’asile

    Les politiques migratoires européennes, toujours plus restrictives, se tournent vers le Sahel, et notamment vers le Niger – espace de transit entre le nord et le sud du Sahara. Devenu « frontière » de l’Europe, environné par des pays en conflit, le Niger accueille un nombre important de réfugiés sur son sol et renvoie ceux qui n’ont pas le droit à cette protection. Il ne le fait pas seul. La présence de l’Union européenne et des organisations internationales est visible dans le pays ; des opérations militaires y sont menées par des armées étrangères, notamment pour lutter contre la pression terroriste à ses frontières... au risque de brouiller les cartes entre enjeux sécuritaires et enjeux humanitaires.

    On confond souvent son nom avec celui de son voisin anglophone, le Nigéria, et peu de gens savent le placer sur une carte. Pourtant, le Niger est un des grands pays du Sahel, cette bande désertique qui court de l’Atlantique à la mer Rouge, et l’un des rares pays stables d’Afrique de l’Ouest qui offrent encore une possibilité de transit vers la Libye et la Méditerranée. Environné par des pays en conflit ou touchés par le terrorisme de Boko Haram et d’autres groupes, le Niger accueille les populations qui fuient le Mali et la région du lac Tchad et celles évacuées de Libye.

    « Dans ce contexte d’instabilité régionale et de contrôle accru des déplacements, la distinction entre l’approche sécuritaire et l’approche humanitaire s’est brouillée », explique la chercheuse Florence Boyer, fellow de l’Institut Convergences Migrations, actuellement accueillie au Niger à l’Université Abdou Moumouni de Niamey. Géographe et anthropologue (affiliée à l’Urmis au sein de l’IRD, l’Institut de recherche pour le Développement), elle connaît bien le Niger, où elle se rend régulièrement depuis vingt ans pour étudier les migrations internes et externes des Nigériens vers l’Algérie ou la Libye voisines, au nord, et les pays du Golfe de Guinée, au sud et à l’ouest. Sa recherche porte actuellement sur le rôle que le Niger a accepté d’endosser dans la gestion des migrations depuis 2014, à la demande de plusieurs membres de l’Union européenne (UE) pris dans la crise de l’accueil des migrants.
    De la libre circulation au contrôle des frontières

    « Jusqu’à 2015, le Niger est resté cet espace traversé par des milliers d’Africains de l’Ouest et de Nigériens remontant vers la Libye sans qu’il y ait aucune entrave à la circulation ou presque », raconte la chercheuse. La plupart venaient y travailler. Peu tentaient la traversée vers l’Europe, mais dès le début des années 2000, l’UE, Italie en tête, cherche à freiner ce mouvement en négociant avec Kadhafi, déplaçant ainsi la frontière de l’Europe de l’autre côté de la Méditerranée. La chute du dictateur libyen, dans le contexte des révolutions arabes de 2011, bouleverse la donne. Déchirée par une guerre civile, la Libye peine à retenir les migrants qui cherchent une issue vers l’Europe. Par sa position géographique et sa relative stabilité, le Niger s’impose progressivement comme un partenaire de la politique migratoire de l’UE.

    « Le Niger est la nouvelle frontière de l’Italie. »

    Marco Prencipe, ambassadeur d’Italie à Niamey

    Le rôle croissant du Niger dans la gestion des flux migratoires de l’Afrique vers l’Europe a modifié les parcours des migrants, notamment pour ceux qui passent par Agadez, dernière ville du nord avant la traversée du Sahara. Membre du Groupe d’études et de recherches Migrations internationales, Espaces, Sociétés (Germes) à Niamey, Florence Boyer observe ces mouvements et constate la présence grandissante dans la capitale nigérienne du Haut-Commissariat des Nations-Unies pour les réfugiés (HCR) et de l’Organisation internationale des migrations (OIM) chargée, entre autres missions, d’assister les retours de migrants dans leur pays.

    https://www.youtube.com/watch?v=dlIwqYKrw7c

    « L’île de Lampedusa se trouve aussi loin du Nord de l’Italie que de la frontière nigérienne, note Marco Prencipe, l’ambassadeur d’Italie à Niamey, le Niger est la nouvelle frontière de l’Italie. » Une affirmation reprise par plusieurs fonctionnaires de la délégation de l’UE au Niger rencontrés par Florence Boyer et Pascaline Chappart. La chercheuse, sur le terrain à Niamey, effectue une étude comparée sur des mécanismes d’externalisation de la frontière au Niger et au Mexique. « Depuis plusieurs années, la politique extérieure des migrations de l’UE vise à délocaliser les contrôles et à les placer de plus en plus au sud du territoire européen, explique la postdoctorante à l’IRD, le mécanisme est complexe : les enjeux pour l’Europe sont à la fois communautaires et nationaux, chaque État membre ayant sa propre politique ».

    En novembre 2015, lors du sommet euro-africain de La Valette sur la migration, les autorités européennes lancent le Fonds fiduciaire d’urgence pour l’Afrique « en faveur de la stabilité et de la lutte contre les causes profondes de la migration irrégulière et du phénomène des personnes déplacées en Afrique ». Doté à ce jour de 4,2 milliards d’euros, le FFUA finance plusieurs types de projets, associant le développement à la sécurité, la gestion des migrations à la protection humanitaire.

    Le président nigérien considère que son pays, un des plus pauvres de la planète, occupe une position privilégiée pour contrôler les migrations dans la région. Le Niger est désormais le premier bénéficiaire du Fonds fiduciaire, devant des pays de départ comme la Somalie, le Nigéria et surtout l’Érythrée d’où vient le plus grand nombre de demandeurs d’asile en Europe.

    « Le Niger s’y retrouve dans ce mélange des genres entre lutte contre le terrorisme et lutte contre l’immigration “irrégulière”. »

    Florence Boyer, géographe et anthropologue

    Pour l’anthropologue Julien Brachet, « le Niger est peu à peu devenu un pays cobaye des politiques anti-migrations de l’Union européenne, (...) les moyens financiers et matériels pour lutter contre l’immigration irrégulière étant décuplés ». Ainsi, la mission européenne EUCAP Sahel Niger a ouvert une antenne permanente à Agadez en 2016 dans le but d’« assister les autorités nigériennes locales et nationales, ainsi que les forces de sécurité, dans le développement de politiques, de techniques et de procédures permettant d’améliorer le contrôle et la lutte contre les migrations irrégulières ».

    « Tout cela ne serait pas possible sans l’aval du Niger, qui est aussi à la table des négociations, rappelle Florence Boyer. Il ne faut pas oublier qu’il doit faire face à la pression de Boko Haram et d’autres groupes terroristes à ses frontières. Il a donc intérêt à se doter d’instruments et de personnels mieux formés. Le Niger s’y retrouve dans ce mélange des genres entre la lutte contre le terrorisme et la lutte contre l’immigration "irrégulière". »

    Peu avant le sommet de La Valette en 2015, le Niger promulgue la loi n°2015-36 sur « le trafic illicite de migrants ». Elle pénalise l’hébergement et le transport des migrants ayant l’intention de franchir illégalement la frontière. Ceux que l’on qualifiait jusque-là de « chauffeurs » ou de « transporteurs » au volant de « voitures taliban » (des 4x4 pick-up transportant entre 20 et 30 personnes) deviennent des « passeurs ». Une centaine d’arrestations et de saisies de véhicules mettent fin à ce qui était de longue date une source légale de revenus au nord du Niger. « Le but reste de bloquer la route qui mène vers la Libye, explique Pascaline Chappart. L’appui qu’apportent l’UE et certains pays européens en coopérant avec la police, les douanes et la justice nigérienne, particulièrement en les formant et les équipant, a pour but de rendre l’État présent sur l’ensemble de son territoire. »

    Des voix s’élèvent contre ces contrôles installés aux frontières du Niger sous la pression de l’Europe. Pour Hamidou Nabara de l’ONG nigérienne JMED (Jeunesse-Enfance-Migration-Développement), qui lutte contre la pauvreté pour retenir les jeunes désireux de quitter le pays, ces dispositifs violent le principe de la liberté de circulation adopté par les pays d’Afrique de l’Ouest dans le cadre de la Cedeao. « La situation des migrants s’est détériorée, dénonce-t-il, car si la migration s’est tarie, elle continue sous des voies différentes et plus dangereuses ». La traversée du Sahara est plus périlleuse que jamais, confirme Florence Boyer : « Le nombre de routes s’est multiplié loin des contrôles, mais aussi des points d’eau et des secours. À ce jour, nous ne disposons pas d’estimations solides sur le nombre de morts dans le désert, contrairement à ce qui se passe en Méditerranée ».

    Partenaire de la politique migratoire de l’Union européenne, le Niger a également développé une politique de l’asile. Il accepte de recevoir des populations en fuite, expulsées ou évacuées des pays voisins : les expulsés d’Algérie recueillis à la frontière, les rapatriés nigériens dont l’État prend en charge le retour de Libye, les réfugiés en lien avec les conflits de la zone, notamment au Mali et dans la région du lac Tchad, et enfin les personnes évacuées de Libye par le HCR. Le Niger octroie le statut de réfugié à ceux installés sur son sol qui y ont droit. Certains, particulièrement vulnérables selon le HCR, pourront être réinstallés en Europe ou en Amérique du Nord dans des pays volontaires.
    Une plateforme pour la « réinstallation »
    en Europe et en Amérique

    Cette procédure de réinstallation à partir du Niger n’a rien d’exceptionnel. Les Syriens réfugiés au Liban, par exemple, bénéficient aussi de l’action du HCR qui les sélectionne pour déposer une demande d’asile dans un pays dit « sûr ». La particularité du Niger est de servir de plateforme pour la réinstallation de personnes évacuées de Libye. « Le Niger est devenu une sorte de laboratoire de l’asile, raconte Florence Boyer, notamment par la mise en place de l’Emergency Transit Mechanism (ETM). »

    L’ETM, proposé par le HCR, est lancé en août 2017 à Paris par l’Allemagne, l’Espagne, la France et l’Italie — côté UE — et le Niger, le Tchad et la Libye — côté africain. Ils publient une déclaration conjointe sur les « missions de protection en vue de la réinstallation de réfugiés en Europe ». Ce dispositif se présente comme le pendant humanitaire de la politique de lutte contre « les réseaux d’immigration économique irrégulière » et les « retours volontaires » des migrants irréguliers dans leur pays effectués par l’OIM. Le processus s’accélère en novembre de la même année, suite à un reportage de CNN sur des cas d’esclavagisme de migrants en Libye. Fin 2017, 3 800 places sont promises par les pays occidentaux qui participent, à des degrés divers, à ce programme d’urgence. Le HCR annonce 6 606 places aujourd’hui, proposées par 14 pays européens et américains1.

    Trois catégories de personnes peuvent bénéficier de la réinstallation grâce à ce programme : évacués d’urgence depuis la Libye, demandeurs d’asile au sein d’un flux dit « mixte » mêlant migrants et réfugiés et personnes fuyant les conflits du Mali ou du Nigéria. Seule une minorité aura la possibilité d’être réinstallée depuis le Niger vers un pays occidental. Le profiling (selon le vocabulaire du HCR) de ceux qui pourront bénéficier de cette protection s’effectue dès les camps de détention libyens. Il consiste à repérer les plus vulnérables qui pourront prétendre au statut de réfugié et à la réinstallation.

    Une fois évacuées de Libye, ces personnes bénéficient d’une procédure accélérée pour l’obtention du statut de réfugié au Niger. Elles ne posent pas de problème au HCR, qui juge leur récit limpide. La Commission nationale d’éligibilité au statut des réfugiés (CNE), qui est l’administration de l’asile au Niger, accepte de valider la sélection de l’organisation onusienne. Les réfugiés sont pris en charge dans le camp du HCR à Hamdallaye, construit récemment à une vingtaine de kilomètres de la capitale nigérienne, le temps que le HCR prépare la demande de réinstallation dans un pays occidental, multipliant les entretiens avec les réfugiés concernés. Certains pays, comme le Canada ou la Suède, ne mandatent pas leurs services sur place, déléguant au HCR la sélection. D’autres, comme la France, envoient leurs agents pour un nouvel entretien (voir ce reportage sur la visite de l’Ofpra à Niamey fin 2018).

    Parmi les évacués de Libye, moins des deux tiers sont éligibles à une réinstallation dans un pays dit « sûr ».

    Depuis deux ans, près de 4 000 personnes ont été évacuées de Libye dans le but d’être réinstallées, selon le HCR (5 300 autres ont été prises en charge par l’OIM et « retournées » dans leur pays). Un millier ont été évacuées directement vers l’Europe et le Canada et près de 3 000 vers le Niger. C’est peu par rapport aux 50 800 réfugiés et demandeurs d’asile enregistrés auprès de l’organisation onusienne en Libye au 12 août 2019. Et très peu sur l’ensemble des 663 400 migrants qui s’y trouvent selon l’OIM. La guerre civile qui déchire le pays rend la situation encore plus urgente.

    Parmi les personnes évacuées de Libye vers le Niger, moins des deux tiers sont éligibles à une réinstallation dans un pays volontaire, selon le HCR. À ce jour, moins de la moitié ont été effectivement réinstallés, notamment en France (voir notre article sur l’accueil de réfugiés dans les communes rurales françaises).

    Malgré la publicité faite autour du programme de réinstallation, le HCR déplore la lenteur du processus pour répondre à cette situation d’urgence. « Le problème est que les pays de réinstallation n’offrent pas de places assez vite, regrette Fatou Ndiaye, en charge du programme ETM au Niger, alors que notre pays hôte a négocié un maximum de 1 500 évacués sur son sol au même moment. » Le programme coordonné du Niger ne fait pas exception : le HCR rappelait en février 2019 que, sur les 19,9 millions de réfugiés relevant de sa compétence à travers le monde, moins d’1 % sont réinstallés dans un pays sûr.

    Le dispositif ETM, que le HCR du Niger qualifie de « couloir de l’espoir », concerne seulement ceux qui se trouvent dans un camp accessible par l’organisation en Libye (l’un d’eux a été bombardé en juillet dernier) et uniquement sept nationalités considérées par les autorités libyennes (qui n’ont pas signé la convention de Genève) comme pouvant relever du droit d’asile (Éthiopiens Oromo, Érythréens, Iraquiens, Somaliens, Syriens, Palestiniens et Soudanais du Darfour).

    « Si les portes étaient ouvertes dès les pays d’origine, les gens ne paieraient pas des sommes astronomiques pour traverser des routes dangereuses. »

    Pascaline Chappart, socio-anthropologue

    En décembre 2018, des Soudanais manifestaient devant les bureaux d’ETM à Niamey pour dénoncer « un traitement discriminatoire (...) par rapport aux Éthiopiens et Somaliens » favorisés, selon eux, par le programme. La représentante du HCR au Niger a répondu à une radio locale que « la plupart de ces Soudanais [venaient] du Tchad où ils ont déjà été reconnus comme réfugiés et que, techniquement, c’est le Tchad qui les protège et fait la réinstallation ». C’est effectivement la règle en matière de droit humanitaire mais, remarque Florence Boyer, « comment demander à des réfugiés qui ont quitté les camps tchadiens, pour beaucoup en raison de l’insécurité, d’y retourner sans avoir aucune garantie ? ».

    La position de la France

    La question du respect des règles en matière de droit d’asile se pose pour les personnes qui bénéficient du programme d’urgence. En France, par exemple, pas de recours possible auprès de l’Ofpra en cas de refus du statut de réfugié. Pour Pascaline Chappart, qui achève deux ans d’enquêtes au Niger et au Mexique, il y a là une part d’hypocrisie : « Si les portes étaient ouvertes dès les pays d’origine, les gens ne paieraient pas des sommes astronomiques pour traverser des routes dangereuses par la mer ou le désert ». « Il est quasiment impossible dans le pays de départ de se présenter aux consulats des pays “sûrs” pour une demande d’asile », renchérit Florence Boyer. Elle donne l’exemple de Centre-Africains qui ont échappé aux combats dans leur pays, puis à la traite et aux violences au Nigéria, en Algérie puis en Libye, avant de redescendre au Niger : « Ils auraient dû avoir la possibilité de déposer une demande d’asile dès Bangui ! Le cadre législatif les y autorise. »

    En ce matin brûlant d’avril, dans le camp du HCR à Hamdallaye, Mebratu2, un jeune Érythréen de 26 ans, affiche un large sourire. À l’ombre de la tente qu’il partage et a décorée avec d’autres jeunes de son pays, il annonce qu’il s’envolera le 9 mai pour Paris. Comme tant d’autres, il a fui le service militaire à vie imposé par la dictature du président Issayas Afeworki. Mebratu était convaincu que l’Europe lui offrirait la liberté, mais il a dû croupir deux ans dans les prisons libyennes. S’il ne connaît pas sa destination finale en France, il sait d’où il vient : « Je ne pensais pas que je serais vivant aujourd’hui. En Libye, on pouvait mourir pour une plaisanterie. Merci la France. »

    Mebratu a pris un vol pour Paris en mai dernier, financé par l’Union européenne et opéré par l’#OIM. En France, la Délégation interministérielle à l’hébergement et à l’accès au logement (Dihal) confie la prise en charge de ces réinstallés à 24 opérateurs, associations nationales ou locales, pendant un an. Plusieurs départements et localités françaises ont accepté d’accueillir ces réfugiés particulièrement vulnérables après des années d’errance et de violences.

    Pour le deuxième article de notre numéro spécial de rentrée, nous nous rendons en Dordogne dans des communes rurales qui accueillent ces « réinstallés » arrivés via le Niger.

    http://icmigrations.fr/2019/08/30/defacto-10
    #externalisation #asile #migrations #réfugiés #frontières #Europe #UE #EU #sécuritaire #humanitaire #approche_sécuritaire #approche_humanitaire #libre_circulation #fermeture_des_frontières #printemps_arabe #Kadhafi #Libye #Agadez #parcours_migratoires #routes_migratoires #HCR #OIM #IOM #retour_au_pays #renvois #expulsions #Fonds_fiduciaire #Fonds_fiduciaire_d'urgence_pour_l'Afrique #FFUA #développement #sécurité #EUCAP_Sahel_Niger #La_Valette #passeurs #politique_d'asile #réinstallation #hub #Emergency_Transit_Mechanism (#ETM) #retours_volontaires #profiling #tri #sélection #vulnérabilité #évacuation #procédure_accélérée #Hamdallaye #camps_de_réfugiés #ofpra #couloir_de_l’espoir

    co-écrit par @pascaline

    ping @karine4 @_kg_ @isskein

    Ajouté à la métaliste sur l’externalisation des frontières :
    https://seenthis.net/messages/731749#message765325

  • Channel migrants: Two boats found after 86 attempted crossing

    Two boats carrying 21 migrants have been intercepted off the Kent coast after a record 86 made the crossing in one day.

    One man was airlifted to hospital from a dinghy which was carrying 13 people, including three children.

    A second vessel carrying eight men was intercepted and taken to Dover.

    Eighty-six people were detained by Border Force on Tuesday. It is thought to be the highest number of migrants to make the crossing in one day.

    https://www.bbc.com/news/uk-england-kent-49662172
    #frontières #Angleterre #UK #France #migrations #asile #réfugiés #Manche

    #statistiques #chiffres


    https://twitter.com/ElisaPerrigueur/status/1171873291470016515/photo/1
    #routes_migratoires #parcours_migratoires

    • A l’annonce de l’évacuation du camp de Grande Synthe, 1100 personnes, majoritairement Kurdes et iraniennes, s’ajoute celle de 600 autres personnes à Calais, imminente également. Aujourd’hui un migrant a également tenté de partir en Kayak depuis Gravelines.

      https://twitter.com/ElisaPerrigueur/status/1171878005314138113
      Un migrant en kayak secouru dans la Manche alors qu’il tentait de rallier la Grande-Bretagne


      https://www.ouest-france.fr/monde/migrants/un-migrant-en-kayak-secouru-dans-la-manche-alors-qu-il-tentait-de-ralli

    • Près de 80 migrants interceptés dans la Manche en une matinée

      De plus en plus de migrants, Iraniens pour la plupart, n’hésitent pas à traverser la Manche vers l’Angleterre. Les patrouilleurs français et britanniques ont intercepté 79 personnes sur six petits navires, dont un en détresse, dans la matinée de mardi.

      Les traversées de masse se multiplient dans la Manche, malgré l’hiver et les températures glaciales de l’eau. Au moins 79 migrants ont été secourus sur six embarcations distinctes par les patrouilleurs français et britanniques sur la seule matinée de mardi 17 décembre. Les migrants interceptés sont majoritairement Iraniens, Irakiens et Ousbeks.

      Début décembre, 79 autres migrants avaient tenté la traversée de la Manche depuis les côtes françaises sur une même journée, embarqués sur cinq petits bateaux. Ils avaient été arrêtés par les autorités britanniques après avoir été secourus en mer pour la plupart.

      Ce lundi, dix migrants sur une embarcation pneumatique ont été secourus côté français au large de Calais, par la Société nationale de sauvetage en mer (SNSM). Après avoir alerté le Samu, ils ont dû attendre deux heures avant de pouvoir être localisés et pris en charge. À bord du bateau, se trouvaient quatre mineurs. Les rescapés sont tous "sains et saufs", a indiqué la préfecture. Une fois à terre, ils ont été confiés à la police de Boulogne-sur-Mer.

      69 migrants, dont 10 mineurs arrêtés par les Britanniques

      Côté britannique, ce sont 69 migrants qui ont été interceptés en quelques heures seulement, dans la nuit de lundi à mardi.

      D’après le Home office britannique (ministère de l’Intérieur du Royaume-Uni), cité par Sky News, une première embarcation transportant huit migrants iraniens a été stoppée par les patrouilleurs britanniques à 0h45. Trois heures plus tard, 18 personnes, dont deux femmes et deux enfants, ont été secourues sur un second bateau. Leur nationalité n’a pas encore été déterminée pour l’heure.

      Neuf Iraniens, transportés sur une troisième embarcations ont, quant à eux, été interceptés au petit matin vers 5h10. Deux mineurs figurent parmi les migrants à bord.

      Pas moins de vingt minutes plus tard, ce sont 23 personnes embarquées sur un quatrième bateau qui ont été secourues. Les 14 hommes, cinq femmes et quatre mineurs à bord sont de nationalité iranienne, irakienne et ouzbek. Enfin une dernière embarcation avec neuf migrants iraniens à son bord, dont une femme et deux mineurs a été arrêtée par les patrouilleurs britannique vers 7h45.

      L’ensemble des migrants interceptés ont été examinés par du personnel médical avant d’être interrogés par les agents britanniques de l’immigration.

      Les autorités françaises critiquées

      Quelques heures après ces arrestations, la députée britannique de Douvres, Natalie Elphicke, a demandé à rencontrer le ministre britannique de l’Immigration pour exiger de nouvelles mesure de lutte contre l’immigration clandestine.

      "Les Français ont reçu des dizaines de millions de livres de l’argent durement gagné par les contribuables britanniques pour arrêter les départs illégaux depuis leurs côtes. Je veux savoir où est passé l’argent”, a-t-elle déclaré, critiquant la surveillance des départs en mer par les autorités françaises. "Parce que si beaucoup a été fait, il est clair qu’il reste encore beaucoup à faire”, a-t-elle ajouté.

      Londres et Paris ont renforcé depuis janvier 2019 leur coopération dans la lutte contre la multiplication des traversées clandestines de la Manche. Le Royaume-Uni s’est engagé notamment à financer l’achat de drones, de caméras à vision nocturne et de véhicules pour sept millions d’euros.

      Cette année, Londres a renvoyé près de 120 migrants qui sont entrés illégalement dans le pays par voie maritime.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/21636/pres-de-80-migrants-interceptes-dans-la-manche-en-une-matinee

  • The number of EU residence permits issued to Northern and Western African nationals for work purposes fell by 46% and 58% respectively during a period of increasing irregular arrivals on the Central Mediterranean Route

    –-> Evidemment... le lien entre les deux faits (baisse des permis de séjour et augmentation des #arrivées_irrégulières) que l’OIM souligne est très tenu... c’est en réalité le coeur du problème : les personnes passent par des #routes_illégalisées via la #Méditerranée parce qu’ils n’ont pas de possibilités de prendre l’#avion... car l’accès leur est interdit via le non-octroi de #visas...

    #illégalisation #routes_migratoires #routes_illégalisées #permis_de_travail #UE #EU #Afrique_de_l'Ouest #permis_de_séjour #statistiques #chiffres #contextualisation

    Le #rapport d’où l’OIM sort ces chiffres :
    AFRICAN MIGRATION TO THE EU : IRREGULAR MIGRATION IN CONTEXT

    Contrary to common perceptions, migration from Northern and Western Africa to the EU between 2011 and 2017 has been primarily regular. Numbers of African nationals settling legally in the EU – proxied by first residence permits issued for family reunification, education or work purposes – have exceeded irregular sea arrivals for most of the top ten countries of origin of irregular migrants arriving in Italy over the period considered.

    At the same time, both total regular and irregular entries of African nationals to the EU have fallen since 2016, based on available data. First EU residence permits to nationals of countries in Northern and Western Africa have mostly been issued for family reunification over the years. While these have remained stable on average, residence permits granted for work purposes have fallen sharply in the period considered.

    https://gmdac.iom.int/sites/default/files/03_-_residence_permits-bbb.pdf

    #préjugés #regroupement_familial

    ping @reka @isskein @karine4 @_kg_

  • Ethiopians Abused on Gulf Migration Route

    Ethiopians undertaking the perilous journey by boat across the Red Sea or Gulf of Aden face exploitation and torture in Yemen by a network of trafficking groups, Human Rights Watch said today. They also encounter abusive prison conditions in Saudi Arabia before being summarily forcibly deported back to Addis Ababa. Authorities in Ethiopia, Yemen, and Saudi Arabia have taken few if any measures to curb the violence migrants face, to put in place asylum procedures, or to check abuses perpetrated by their own security forces.


    A combination of factors, including unemployment and other economic difficulties, drought, and human rights abuses have driven hundreds of thousands of Ethiopians to migrate over the past decade, traveling by boat over the Red Sea and then by land through Yemen to Saudi Arabia. Saudi Arabia and neighboring Gulf states are favored destinations because of the availability of employment. Most travel irregularly and do not have legal status once they reach Saudi Arabia.

    “Many Ethiopians who hoped for a better life in Saudi Arabia face unspeakable dangers along the journey, including death at sea, torture, and all manners of abuses,” said Felix Horne, senior Africa researcher at Human Rights Watch. “The Ethiopian government, with the support of its international partners, should support people who arrive back in Ethiopia with nothing but the clothes on their back and nowhere to turn for help.”

    Human Rights Watch interviewed 12 Ethiopians in Addis Ababa who had been deported from Saudi Arabia between December 2018 and May 2019. Human Rights Watch also interviewed humanitarian workers and diplomats working on Ethiopia migration-related issues.

    The International Organization for Migration (IOM) estimates as many as 500,000 Ethiopians were in Saudi Arabia when the Saudi government began a deportation campaign in November 2017. The Saudi authorities have arrested, prosecuted, or deported foreigners who violate labor or residency laws or those who crossed the border irregularly. About 260,000 Ethiopians, an average of 10,000 per month, were deported from Saudi Arabia to Ethiopia between May 2017 and March 2019, according to the IOM, and deportations have continued.

    An August 2 Twitter update by Saudi Arabia’s Interior Ministry said that police had arrested 3.6 million people, including 2.8 million for violations of residency rules, 557,000 for labor law violations, and 237,000 for border violations. In addition, authorities detained 61,125 people for crossing the border into Saudi Arabia illegally, 51 percent of them Ethiopians, and referred more than 895,000 people for deportation. Apart from illegal border crossing, these figures are not disaggregated by nationality.

    Eleven of the 12 people interviewed who had been deported had engaged with smuggling and trafficking networks that are regionally linked across Ethiopia, Djibouti, Somalia’s semi-autonomous Puntland state, the self-declared autonomous state of Somaliland, Yemen, and Saudi Arabia. Traffickers outside of Ethiopia, particularly in Yemen, often used violence or threats to extort ransom money from migrants’ family members or contacts, those interviewed told Human Rights Watch. The 12th person was working in Saudi Arabia legally but was deported after trying to help his sister when she arrived illegally.

    Those interviewed described life-threatening journeys as long as 24 hours across the Gulf of Aden or the Red Sea to reach Yemen, in most cases in overcrowded boats, with no food or water, and prevented from moving around by armed smugglers.

    “There were 180 people on the boat, but 25 died,” one man said. “The boat was in trouble and the waves were hitting it. It was overloaded and about to sink so the dallalas [an adaptation of the Arabic word for “middleman” or “broker”] picked some out and threw them into the sea, around 25.”

    Interviewees said they were met and captured by traffickers upon arrival in Yemen. Five said the traffickers physically assaulted them to extort payments from family members or contacts in Ethiopia or Somalia. While camps where migrants were held capture were run by Yemenis, Ethiopians often carried out the abuse. In many cases, relatives said they sold assets such as homes or land to obtain the ransom money.

    After paying the traffickers or escaping, the migrants eventually made their way north to the Saudi-Yemen border, crossing in rural, mountainous areas. Interviewees said Saudi border guards fired at them, killing and injuring others crossing at the same time, and that they saw dead bodies along the crossing routes. Human Rights Watch has previously documented Saudi border guards shooting and killing migrants crossing the border.

    “At the border there are many bodies rotting, decomposing,” a 26-year-old man said: “It is like a graveyard.”

    Six interviewees said they were apprehended by Saudi border police, while five successfully crossed the border but were later arrested. They described abusive prison conditions in several facilities in southern Saudi Arabia, including inadequate food, toilet facilities, and medical care; lack of sanitation; overcrowding; and beatings by guards.

    Planes returning people deported from Saudi Arabia typically arrive in Addis Ababa either at the domestic terminal or the cargo terminal of Bole International Airport. Several humanitarian groups conduct an initial screening to identify the most vulnerable cases, with the rest left to their own devices. Aid workers in Ethiopia said that deportees often arrive with no belongings and no money for food, transportation, or shelter. Upon arrival, they are offered little assistance to help them deal with injuries or psychological trauma, or to support transportation to their home communities, in some cases hundreds of kilometers from Addis Ababa.

    Human Rights Watch learned that much of the migration funding from Ethiopia’s development partners is specifically earmarked to manage migration along the routes from the Horn of Africa to Europe and to assist Ethiopians being returned from Europe, with very little left to support returnees from Saudi Arabia.

    “Saudi Arabia has summarily returned hundreds of thousands of Ethiopians to Addis Ababa who have little to show for their journey except debts and trauma,” Horne said. “Saudi Arabia should protect migrants on its territory and under its control from traffickers, ensure there is no collusion between its agents and these criminals, and provide them with the opportunity to legally challenge their detention and deportation.”

    All interviews were conducted in Amharic, Tigrayan, or Afan Oromo with translation into English. The interviewees were from the four regions of SNNPR (Southern Nations, Nationalities, and Peoples’ Region), Oromia, Amhara, and Tigray. These regions have historically produced the bulk of Ethiopians migrating abroad. To protect interviewees from possible reprisals, pseudonyms are being used in place of their real names. Human Rights Watch wrote to the Ethiopian and Saudi governments seeking comment on abuses described by Ethiopian migrants along the Gulf migration route, but at the time of writing neither had responded.

    Dangerous Boat Journey

    Most of the 11 people interviewed who entered Saudi Arabia without documents described life-threatening boat journeys across the Red Sea from Djibouti, Somaliland, or Puntland to Yemen. They described severely overcrowded boats, beatings, and inadequate food or water on journeys that ranged from 4 to 24 hours. These problems were compounded by dangerous weather conditions or encounters with Saudi/Emirati-led coalition naval vessels patrolling the Yemeni coast.

    “Berhanu” said that Somali smugglers beat people on his boat crossing from Puntland: “They have a setup they use where they place people in spots by weight to keep the boat balanced. If you moved, they beat you.” He said that his trip was lengthened when smugglers were forced to turn the boat around after spotting a light from a naval vessel along the Yemeni coast and wait several hours for it to pass.

    Since March 26, 2015, Saudi Arabia has led a coalition of countries in a military campaign against the Houthi armed group in Yemen. As part of its campaign the Saudi/Emirati-led coalition has imposed a naval blockade on Houthi-controlled Yemeni ports, purportedly to prevent Houthi rebels from importing weapons by sea, but which has also restricted the flow of food, fuel, and medicine to civilians in the country, and included attacks on civilians at sea. Human Rights Watch previously documented a helicopter attack in March 2017 by coalition forces on a boat carrying Somali migrants and refugees returning from Yemen, killing at least 32 of the 145 Somali migrants and refugees on board and one Yemeni civilian.

    Exploitation and Abuses in Yemen

    Once in war-torn Yemen, Ethiopian migrants said they faced kidnappings, beatings, and other abuses by traffickers trying to extort ransom money from them or their family members back home.

    This is not new. Human Rights Watch, in a 2014 report, documented abuses, including torture, of migrants in detention camps in Yemen run by traffickers attempting to extort payments. In 2018, Human Rights Watch documented how Yemeni guards tortured and raped Ethiopian and other Horn of Africa migrants at a detention center in Aden and worked in collaboration with smugglers to send them back to their countries of origin. Recent interviews by Human Rights Watch indicate that the war in Yemen has not significantly affected the abuses against Ethiopians migrating through Yemen to Saudi Arabia. If anything, the conflict, which escalated in 2015, has made the journey more dangerous for migrants who cross into an area of active fighting.

    Seven of the 11 irregular migrants interviewed said they faced detention and extortion by traffickers in Yemen. This occurred in many cases as soon as they reached shore, as smugglers on boats coordinated with the Yemeni traffickers. Migrants said that Yemeni smuggling and trafficking groups always included Ethiopians, often one from each of Oromo, Tigrayan, and Amhara ethnic groups, who generally were responsible for beating and torturing migrants to extort payments. Migrants were generally held in camps for days or weeks until they could provide ransom money, or escape. Ransom payments were usually made by bank transfers from relatives and contacts back in Ethiopia.

    “Abebe” described his experience:

    When we landed… [the traffickers] took us to a place off the road with a tent. Everyone there was armed with guns and they threw us around like garbage. The traffickers were one Yemeni and three Ethiopians – one Tigrayan, one Amhara, and one Oromo…. They started to beat us after we refused to pay, then we had to call our families…. My sister [in Ethiopia] has a house, and the traffickers called her, and they fired a bullet near me that she could hear. They sold the house and sent the money [40,000 Birr, US $1,396].

    “Tesfalem”, said that he was beaten by Yemenis and Ethiopians at a camp he believes was near the port city of Aden:

    They demanded money, but I said I don’t have any. They told me to make a call, but I said I don’t have relatives. They beat me and hung me on the wall by one hand while standing on a chair, then they kicked the chair away and I was swinging by my arm. They beat me on my head with a stick and it was swollen and bled.

    He escaped after three months, was detained in another camp for three months more, and finally escaped again.

    “Biniam” said the men would take turns beating the captured migrants: “The [Ethiopian] who speaks your language beats you, those doing the beating were all Ethiopians. We didn’t think of fighting back against them because we were so tired, and they would kill you if you tried.”

    Two people said that when they landed, the traffickers offered them the opportunity to pay immediately to travel by car to the Saudi border, thereby avoiding the detention camps. One of them, “Getachew,” said that he paid 1,500 Birr (US $52) for the car and escaped mistreatment.

    Others avoided capture when they landed, but then faced the difficult 500 kilometer journey on foot with few resources while trying to avoid capture.

    Dangers faced by Yemeni migrants traveling north were compounded for those who ran into areas of active fighting between Houthi forces and groups aligned with the Saudi/Emirati-led coalition. Two migrants said that their journey was delayed, one by a week, the other by two months, to avoid conflict areas.

    Migrants had no recourse to local authorities and did not report abuses or seek assistance from them. Forces aligned with the Yemeni government and the Houthis have also detained migrants in poor conditions, refused access to protection and asylum procedures, deported migrants en masse in dangerous conditions, and exposed them to abuse. In April 2018, Human Rights Watch reported that Yemeni government officials had tortured, raped, and executed migrants and asylum seekers from the Horn of Africa in a detention center in the southern port city of Aden. The detention center was later shut down.

    The International Organization for Migration (IOM) announced in May that it had initiated a program of voluntary humanitarian returns for irregular Ethiopian migrants held by Yemeni authorities at detention sites in southern Yemen. IOM said that about 5,000 migrants at three sites were held in “unsustainable conditions,” and that the flights from Aden to Ethiopia had stalled because the Saudi/Emirati-led coalition had failed to provide the flights the necessary clearances. The coalition controls Yemen’s airspace.

    Crossing the Border; Abusive Detention inside Saudi Arabia

    Migrants faced new challenges attempting to cross the Saudi-Yemen border. The people interviewed said that the crossing points used by smugglers are in rural, mountainous areas where the border separates Yemen’s Saada Governorate and Saudi Arabia’s Jizan Province. Two said that smugglers separated Ethiopians by their ethnic group and assigned different groups to cross at different border points.

    Ethiopian migrants interviewed were not all able to identify the locations where they crossed. Most indicated points near the Yemeni mountain villages Souq al-Ragu and ‘Izlat Al Thabit, which they called Ragu and Al Thabit. Saudi-aligned media have regularly characterized Souq al-Ragu as a dangerous town from which drug smugglers and irregular migrants cross into Saudi Arabia.

    Migrants recounted pressures to pay for the crossing by smuggling drugs into Saudi Arabia. “Abdi” said he stayed in Souq al-Ragu for 15 days and finally agreed to carry across a 25 kilogram sack of khat in exchange for 500 Saudi Riyals (US$133). Khat is a mild stimulant grown in the Ethiopian highlands and Yemen; it is popular among Yemenis and Saudis, but illegal in Saudi Arabia.

    “Badessa” described Souq al-Ragu as “the crime city:”

    You don’t know who is a trafficker, who is a drug person, but everybody has an angle of some sort. Even Yemenis are afraid of the place, it is run by Ethiopians. It is also a burial place; bodies are gathered of people who had been shot along the border and then they’re buried there. There is no police presence.

    Four of the eleven migrants who crossed the border on foot said Saudi border guards shot at them during their crossings, sometimes after ordering them to stop and other times without warning. Some said they encountered dead bodies along the way. Six said they were apprehended by Saudi border guards or drug police at the border, while five were arrested later.

    “Abebe” said that Saudi border guards shot at his group as they crossed from Izlat Al Thabit:

    They fired bullets, and everyone scattered. People fleeing were shot, my friend was shot in the leg…. One person was shot in the chest and killed and [the Saudi border guards] made us carry him to a place where there was a big excavator. They didn’t let us bury him; the excavator dug a hole and they buried him.

    Berhanu described the scene in the border area: “There were many dead people at the border. You could walk on the corpses. No one comes to bury them.”

    Getachew added: “It is like a graveyard. There are no dogs or hyenas there to eat the bodies, just dead bodies everywhere.”

    Two of the five interviewees who crossed the border without being detained said that Saudi and Ethiopian smugglers and traffickers took them to informal detention camps in southern Saudi towns and held them for ransom. “Yonas” said they took him and 14 others to a camp in the Fayfa area of Jizan Province: “They beat me daily until I called my family. They wanted 10,000 Birr ($349). My father sold his farmland and sent the 10,000 Birr, but then they told me this isn’t enough, we need 20,000 ($698). I had nothing left and decided to escape or die.” He escaped.

    Following their capture, the migrants described abusive conditions in Saudi governmental detention centers and prisons, including overcrowding and inadequate food, water, and medical care. Migrants also described beatings by Saudi guards.

    Nine migrants who were captured while crossing the border illegally or living in Saudi Arabia without documentation spent up to five months in detention before authorities deported them back to Ethiopia. The three others were convicted of criminal offenses that included human trafficking and drug smuggling, resulting in longer periods in detention before being deported.

    The migrants identified about 10 prisons and detention centers where they were held for various periods. The most frequently cited were a center near the town of al-Dayer in Jizan Province along the border, Jizan Central Prison in Jizan city, and the Shmeisi Detention Center east of Jeddah, where migrants are processed for deportation.

    Al-Dayer had the worst conditions, they said, citing overcrowding, inadequate sanitation, food and water, and medical care. Yonas said:

    They tied our feet with chains and they beat us while chained, sometimes you can’t get to the food because you are chained. If you get chained by the toilet it will overflow and flow under you. If you are aggressive you get chained by the toilet. If you are good [behave well], they chain you to another person and you can move around.

    Abraham had a similar description:

    The people there beat us. Ethnic groups [from Ethiopia] fought with each other. The toilet was overflowing. It was like a graveyard and not a place to live. Urine was everywhere and people were defecating. The smell was terrible.

    Other migrants described similarly bad conditions in Jizan Central Prison. “Ibrahim” said that he was a legal migrant working in Saudi Arabia, but that he travelled to Jizan to help his sister, whom Saudi authorities had detained after she crossed from Yemen illegally. Once in Jizan, authorities suspected him of human trafficking and arrested him, put him on trial, and sentenced him to two years in prison, a sentenced he partially served in Jizan Central Prison:

    Jizan prison is so very tough…. You can be sleeping with [beside] someone who has tuberculosis, and if you ask an official to move you, they don’t care. They will beat you. You can’t change clothes, you have one set and that is it, sometimes the guards will illegally bring clothes and sell to you at night.

    He also complained of overcrowding: “When you want to sleep you tell people and they all jostle to make some room, then you sleep for a bit but you wake up because everyone is jostling against each other.”

    Most of the migrants said food was inadequate. Yonas described the situation in al-Dayer: “When they gave food 10 people would gather and fight over it. If you don’t have energy you won’t eat. The fight is over rice and bread.”

    Detainees also said medical care was inadequate and that detainees with symptoms of tuberculosis (such as cough, fever, night sweats, or weight loss) were not isolated from other prisoners. Human Rights Watch interviewed three former detainees who were being treated for tuberculosis after being deported, two of whom said they were held with other detainees despite having symptoms of active tuberculosis.

    Detainees described being beaten by Saudi prison guards when they requested medical care. Abdi said:

    I was beaten once with a stick in Jizan that was like a piece of rebar covered in plastic. I was sick in prison and I used to vomit. They said, ‘why do you do that when people are eating?’ and then they beat me harshly and I told him [the guard], ‘Please kill me.’ He eventually stopped.

    Ibrahim said he was also beaten when he requested medical care for tuberculosis:

    [Prison guards] have a rule that you aren’t supposed to knock on the door [and disturb the guards]. When I got sick in the first six months and asked to go to the clinic, they just beat me with electric wires on the bottom of my feet. I kept asking so they kept beating.

    Detainees said that the other primary impetus for beatings by guards was fighting between different ethnic groups of Ethiopians in detention, largely between ethnic Oromos, Amharas, and Tigrayans. Ethnic tensions are increasingly common back in Ethiopia.

    Detainees said that conditions generally improved once they were transferred to Shmeisi Detention Center, near Jeddah, where they stayed only a few days before receiving temporary travel documents from Ethiopian consular authorities and deported to Ethiopia. The migrants charged with and convicted of crimes had no opportunity to consult legal counsel.

    None of the migrants said they were given the opportunity to legally challenge their deportations, and Saudi Arabia has not established an asylum system under which migrants could apply for protection from deportation where there was a risk of persecution if they were sent back. Saudi Arabia is not a party to the 1951 Refugee Convention.

    Deportation and Future Prospects

    Humanitarian workers and diplomats told Human Rights Watch that since the beginning of Saudi Arabia’s deportation campaign, large numbers of Ethiopian deportees have been transported via special flights by Saudia Airlines to Bole International Airport in Addis Ababa and unloaded in a cargo area away from the main international terminal or at the domestic terminal. When Human Rights Watch visited in May, it appeared that the Saudi flights were suspended during the month of Ramadan, during which strict sunrise-to-sunset fasting is observed by Muslims. All interviewees who were deported in May said they had returned on regular Ethiopian Airlines commercial flights and disembarked at the main terminal with other passengers.

    All of those deported said that they returned to Ethiopia with nothing but the clothes they were wearing, and that Saudi authorities had confiscated their mobile phones and in some cases shoes and belts. “After staying in Jeddah … they had us make a line and take off our shoes,” Abraham said. “Anything that could tie like a belt we had to leave, they wouldn’t let us take it. We were barefoot when we went to the airport.”

    Deportees often have critical needs for assistance, including medical care, some for gunshot wounds. One returnee recovering from tuberculosis said that he did not have enough money to buy food and was going hungry. Abdi said that when he left for Saudi Arabia he weighed 64 kilograms but returned weighing only 47 or 48 kilograms.

    Aid workers and diplomats familiar with migration issues in Ethiopia said that very little international assistance is earmarked for helping deportees from Saudi Arabia for medical care and shelter or money to return and reintegrate in their home villages.

    Over 8 million people are in need of food assistance in Ethiopia, a country of over 100 million. It hosts over 920,000 refugees from neighboring countries and violence along ethnic lines produced over 2.4 internally displaced people in 2018, many of whom have now been returned.

    The IOM registers migrants upon arrival in Ethiopia and to facilitate their return from Saudi Arabia. Several hours after their arrival and once registered, they leave the airport and must fend for themselves. Some said they had never been to Addis before.

    In 2013 and 2014, Saudi Arabia conducted an expulsion campaign similar to the one that began in November 2017. The earlier campaign expelled about 163,000 Ethiopians, according to the IOM. A 2015 Human Rights Watch report found that migrants experienced serious abuses during detention and deportation, including attacks by security forces and private citizens in Saudi Arabia, and inadequate and abusive detention conditions. Human Rights Watch has also previously documented mistreatment of Ethiopian migrants by traffickers and government detention centers in Yemen.

    Aid workers and diplomats said that inadequate funding to assist returning migrants is as a result of several factors, including a focus of many of the European funders on stemming migration to and facilitating returns from Europe, along with competing priorities and the low visibility of the issue compared with migration to Europe.

    During previous mass returns from Saudi Arabia, there was more funding for reintegration and more international media attention in part because there was such a large influx in a short time, aid workers said.

    https://www.hrw.org/news/2019/08/15/ethiopians-abused-gulf-migration-route
    #migrations #asile #violence #réfugiés #réfugiés_éthiopiens #Ethiopie #pays_du_Golfe #route_du_Golfe #mer_Rouge #Golfe_d'Aden #Yémen #Arabie_Saoudite #frontières #violent_borders #torture #trafic_d'êtres_humains #exploitation #routes_migratoires

    signalé par @isskein

    • Migrants endure sea crossing to Yemen and disembark in hell

      Zahra struggled in the blue waters of the Gulf of Aden, grasping for the hands of fellow migrants.

      Hundreds of men, women and teenagers clambered out of a boat and through the surf emerging, exhausted, on the shores of Yemen.

      The 20-year-old Ethiopian saw men armed with automatic rifles waiting for them on the beach and she clenched in terror. She had heard migrants’ stories of brutal traffickers, lurking like monsters in a nightmare. They are known by the Arabic nickname Abdul-Qawi — which means Worshipper of the Strong.

      “What will they do to us?” Zahra thought.

      She and 300 other Africans had just endured six hours crammed in a wooden smuggling boat to cross the narrow strait between the Red Sea and the gulf. When they landed, the traffickers loaded them into trucks and drove them to ramshackle compounds in the desert outside the coastal village of Ras al-Ara.

      There was Zahra’s answer. She was imprisoned for a month in a tin-roofed hut, broiling and hungry, ordered to call home each day to beseech her family to wire $2,000. She said she did not have family to ask for money and pleaded for her freedom.
      Instead, her captors raped her. And they raped the 20 other women with her — for weeks, different men all the time.

      “They used each of the girls,” she told The Associated Press. “Every night there was rape.”

      With its systematic torture, Ras al-Ara is a particular hell on the arduous, 900-mile (1,400 kilometer) journey from the Horn of Africa to oil-rich Saudi Arabia. Migrants leave home on sandaled feet with dreams of escaping poverty. They trek through mountains and deserts, sandstorms and 113-degree temperatures, surviving on crumbs of bread and salty water from ancient wells.

      In Djibouti, long lines of migrants descend single file down mountain slopes to the rocky coastal plain, where many lay eyes on the sea for first time and eventually board the boats. Some find their way safely across war-torn Yemen to Saudi Arabia, only to be caught and tossed back over the border. The lucky ones make it into the kingdom to earn their livings as a servant and laborers.


      But others are stranded in Yemen’s nightmare — in some measure because Europe has been shutting its doors, outsourcing migrants to other countries.

      The European Union began paying Libyan coast guards and militias to stop migrants there, blocking the other main route out of East Africa, through Libya and across the Mediterranean to Europe. The number of Mediterranean crossings plummeted — from 370,000 in 2016 to just over 56,000 so far this year.

      Meanwhile, more than 150,000 migrants landed in Yemen in 2018, a 50% increase from the year before, according to the International Organization for Migration.

      This year, more than 107,000 had arrived by the end of September, along with perhaps tens of thousands more the organization was unable to track — or who were buried in graves along the trail.

      And European policies may be making the Yemen route more dangerous. Funded by the EU, Ethiopia has cracked down on migrant smugglers and intensified border controls. Arrests of known brokers have prompted migrants to turn to unreliable traffickers, taking more dangerous paths and increasing the risk of abuses.

      Many of those migrants end up in Ras al-Ara.

      Nearly every migrant who lands here is imprisoned in hidden compounds while their families are shaken down for money. Like Zahra, they are subjected to daily torments ranging from beatings and rapes to starvation, their screams drowned out by the noise of generators or cars or simply lost in the desert.
      “Out of every thousand, 800 disappear in the lockups,” said a humanitarian worker monitoring the flow of migrants.

      Traffickers who torture are a mix of Yemenis and Ethiopians of different ethnic groups. So victims cannot appeal to tribal loyalties, they are tortured by men from other groups: If the migrants are Oromia, the torturers are Tigrinya.

      At the same time, because the three main ethnic groups don’t speak each others’ languages, Yemeni smugglers need translators to convey orders to the migrants and monitor their phone conversations with their families.

      The AP spoke to more than two dozen Ethiopians who survived torture at Ras al-Ara. Nearly all of them reported witnessing deaths, and one man died of starvation hours after the AP saw him.
      The imprisonment and torture are largely ignored by Yemeni authorities.

      The AP saw trucks full of migrants passing unhindered through military checkpoints as they went from the beaches to drop their human cargo at each desert compound, known in Arabic as a “hosh.”

      “The traffickers move freely, in public, giving bribes at the checkpoints,” said Mohammed Said, a former coast guard officer who now runs a gas station in the center of town.

      From Ras al-Ara, it’s nearly 50 miles in any direction to the next town. Around 8,000 families live in a collection of decaying, one-story stone houses beside dirt roads, a lone hotel and two eateries. The fish market is the center of activity when the daily catch is brought in.

      Nearly the entire population profits from the human trade. Some rent land to traffickers for the holding cells, or work as guards, drivers or translators. For others, traffickers flush with cash are a lucrative market for their food, fuel or the mildly stimulant leaves of qat, which Yemenis and Ethiopians chew daily.

      Locals can rattle off the traffickers’ names. One of them, a Yemeni named Mohammed al-Usili, runs more than 20 hosh. He’s famous for the red Nissan SUV he drives through town.

      Others belong to Sabaha, one of the biggest tribes in southern Yemen, some of whom are famous for their involvement in illicit businesses. Yemenis call the Sabaha “bandits” who have no political loyalties to any of the warring parties.
      Many traffickers speak openly of their activities, but deny they torture, blaming others.

      Yemeni smuggler Ali Hawash was a farmer who went into the human smuggling business a year ago. He disparaged smugglers who prey on poor migrants, torturing them and holding them hostage until relatives pay ransom.

      “I thought we need to have a different way,” he said, “I will help you go to Saudi, you just pay the transit and the transportation. Deal.”

      The flow of migrants to the beach is unending. On a single day, July 24, the AP witnessed seven boats pull into Ras al-Ara, one after the other, starting at 3 a.m., each carrying more than 100 people.

      The migrants climbed out of the boats into the turquoise water. One young man collapsed on the beach, his feet swollen. A woman stepped on something sharp in the water and fell screeching in pain. Others washed their clothes in the waves to get out the vomit, urine and feces from the rugged journey.

      The migrants were lined up and loaded onto trucks. They gripped the iron bars in the truck bed as they were driven along the highway. At each compound, the truck unloaded a group of migrants, like a school bus dropping off students. The migrants disappeared inside.

      From time to time, Ethiopians escape their imprisonment or are released and stagger out of the desert into town.
      Eman Idrees, 27, and her husband were held for eight months by an Ethiopian smuggler.

      She recalled the savage beatings they endured, which left a scar on her shoulder; the smuggler received $700 to take her to Saudi Arabia, but wouldn’t let her go, because “he wanted me.”

      Said, the gas station owner, is horrified by the evidence of torture he has seen, so he has made his station and a nearby mosque into a refuge for migrants. But locals say Said, too, profits from the trafficking, selling fuel for the smugglers’ boats and trucks. But that means the traffickers need him and leave him alone.

      On a day when the AP team was visiting, several young men just out of a compound arrived at the gas station. They showed deep gashes in their arms from ropes that had bound them. One who had bruises from being lashed with a cable said the women imprisoned with him were all raped and that three men had died.

      Another, Ibrahim Hassan, trembled as he showed how he was tied up in a ball, arms behind his back, knees bound against his chest. The 24-year-old said he was bound like that for 11 days and frequently beaten. His torturer, he said, was a fellow Ethiopian but from a rival ethnic group, Tigray, while he is Oromo.

      Hassan said he was freed after his father went door to door in their hometown to borrow money and gather the $2,600 that the smugglers demanded.
      “My family is extremely poor,” Hassan said, breaking down in tears. “My father is a farmer and I have five siblings.”

      Starvation is another punishment used by the traffickers to wear down their victims.

      At Ras al-Ara hospital, four men who looked like living skeletons sat on the floor, picking rice from a bowl with their thin fingers. Their bones protruded from their backs, their rib cages stood out sharply. With no fat on their bodies, they sat on rolled-up cloth because it was too painful to sit directly on bone. They had been imprisoned by traffickers for months, fed once a day with scraps of bread and a sip of water, they said.

      One of them, 23-year-old Abdu Yassin, said he had agreed with smugglers in Ethiopia to pay around $600 for the trip through Yemen to the Saudi border. But when he landed at Ras al-Ara, he was brought to a compound with 71 others, and the traffickers demanded $1,600.

      He cried as he described how he was held for five months and beaten constantly in different positions. He showed the marks from lashings on his back, the scars on his legs where they pressed hot steel into his skin. His finger was crooked after they smashed it with a rock, he said. One day, they tied his legs and dangled him upside down, “like a slaughtered sheep.”
      But the worst was starvation.

      “From hunger, my knees can’t carry my body,” he said. “I haven’t changed my clothes for six months. I haven’t washed. I have nothing.”

      Near the four men, another emaciated man lay on a gurney, his stomach concave, his eyes open but unseeing. Nurses gave him fluids but he died several hours later.

      The torment that leaves the young men and women physically and mentally shattered also leaves them stranded.

      Zahra said she traveled to Yemen “because I wanted to change my life.”

      She came from a broken home. She was a child when her parents divorced. Her mother disappeared, and her father — an engineer — remarried and wanted little to do with Zahra or her sisters. Zahra dropped out of school after the third grade. She worked for years in Djibouti as a servant, sending most of her earnings to her youngest sister back in Ethiopia.

      Unable to save any money, she decided to try her luck elsewhere.

      She spoke in a quiet voice as she described the torments she suffered at the compound.

      “I couldn’t sleep at all throughout these days,” as she suffered from headaches, she said.

      She and the other women were locked in three rooms of the hut, sleeping on the dirt floor, suffocating in the summer heat. They were constantly famished. Zahra suffered from rashes, diarrhea and vomiting.

      One group tried to flee when they were allowed to wash at a well outside. The traffickers used dogs to hunt them down, brought them back and beat them.
      “You can’t imagine,” Zahra said. “We could hear the screams.” After that, they could only wash at gunpoint.

      Finally, early one morning, their captors opened the gates and told Zahra and some of the other women to leave. Apparently, the traffickers gave up on getting money out of them and wanted to make room for others.

      Now Zahra lives in Basateen, a slum on the outskirts of southern Yemen’s main city, Aden, where she shares a room with three other women who also were tortured. .

      Among them is a 17-year-old who fidgets with her hands and avoiding eye contact. She said she had been raped more times than she can count.

      The first time was during the boat crossing from Djibouti, where she was packed in with more than 150 other migrants. Fearing the smugglers, no one dared raise a word of protest as the captain and his crew raped her and the other nine women on board during the eight-hour journey.
      “I am speechless about what happened in the boat,” the 17-year-old said.

      Upon landing, she and the others were taken to a compound, where again she was raped — every day for the next two weeks.

      “We lived 15 days in pain,” she said.

      Zahra said she’s worried she could be pregnant, and the 17-year old said she has pains in her abdomen and back she believes were caused by the rapes — but neither has money to go to a doctor.

      Nor do they have money to continue their travels.

      “I have nothing but the clothes on me,” the 17-year old said. She lost everything, including her only photos of her family.

      Now, she is too afraid to even leave her room in Basateen.
      “If we get out of here,” she said, “we don’t know what would happen to us.”

      Basateen is filled with migrants living in squalid shacks. Some work, trying to earn enough to continue their journey.

      Others, like Abdul-Rahman Taha, languish without hope.

      The son of a dirt-poor farmer, Taha had heard stories of Ethiopians returning from Saudi Arabia with enough money to buy a car or build a house. So he sneaked away from home and began walking. When he reached Djibouti, he called home asking for $400 for smugglers to arrange his trip across Yemen. His father was angry but sold a bull and some goats and sent the money.

      When Taha landed at Ras al-Ara, traffickers took him and 50 other migrants to a holding cell, lined them up and demanded phone numbers. Taha couldn’t ask his father for more money so he told them he didn’t have a number. Over the next days and weeks, he was beaten and left without food and water.

      One night, he gave them a wrong number. The traffickers flew into a rage. One, a beefy, bearded Yemeni, beat Taha’s right leg to a bloody pulp with a steel rod. Taha passed out.

      When he opened his eyes, he saw the sky. He was outdoors, lying on the ground. The traffickers had dumped him and three other migrants in the desert. Taha tried to jostle the others, but they didn’t move — they were dead.
      A passing driver took him to a hospital. There, his leg was amputated.

      Now 17, Taha is stranded. His father died in a car crash a few months ago, leaving Taha’s sister and four younger brothers to fend for themselves back home.

      Taha choked back tears. In one of their phone calls, he remembered, his father had asked him: “Why did you leave?”

      “Without work or money,” Taha told him, “life is unbearable.”

      And so it is still.

      https://apimagesblog.com/blog/migrants-endure-sea-crossing-to-yemen-and-disembark-in-hell
      #réfugiés_éthiopiens #famine #mourir_de_faim #Oromo

    • Sbarcare all’inferno. Per i migranti diretti in Europa la tappa in Yemen vuol dire stupro e tortura

      Il durissimo reportage fotografico di Associated Press in viaggio con i migranti etiopi lungo la rotta che dal Corno d’Africa porta verso la penisola arabica racconta l’orrore perpetrato negli ’#hosh' di #Ras al-Ara che la comunità internazionale non vuole vedere. Le terribili storie di Zahra, Ibrahim, Abdul e gli altri.


      http://www.rainews.it/dl/rainews/media/Sbarcare-all-inferno-Per-i-migranti-diretti-in-Europa-la-tappa-in-Yemen-vuol
      #viol #viols #torture #violences_sexuelles #photographie

  • Vidéo : du #Brésil au #Canada, la nouvelle route de l’exil africain

    On la surnomme « la route de la mort ». Chaque année, des milliers de migrants en quête d’une vie meilleure traversent dix pays, du Brésil au Canada. Ils viennent de Cuba, du Venezuela, d’Haïti, mais aussi, plus récemment, d’Afrique ou d’Asie. Et chaque année, cette route tue, souvent dans l’indifférence générale. Durant cinq mois, nos reporters ont suivi le périple de la Congolaise Rosette et de sa famille sur cette route de tous les dangers. Reportage exceptionnel d’une durée de 36 minutes.


    https://www.france24.com/fr/20180413-video-reporters-doc-bresil-canada-nouvelle-route-exil-africain-mi
    #Afrique #asile #migrations #réfugiés #fermeture_des_frontières #détour #itinéraires_migratoires

    –-> je mets ici pour archivage, et pour compléter cette métaliste sur les #routes_migratoires :
    https://seenthis.net/messages/796636