• École : et si les familles de milieux populaires ne se laissaient pas faire ?
    https://www.inegalites.fr/Ecole-et-si-les-familles-de-milieux-populaires-ne-se-laissaient-pas-faire

    Il n’est pas nécessaire de lire dans une boule de cristal pour savoir de quelle catégorie sociale seront les élèves qui seront affectés dans les groupes de « niveau faible ». On dit que ce sera provisoire, mais on sait bien que ça risque de devenir définitif. On peut comprendre que des professeurs y voient une solution aux difficultés bien réelles qu’ils rencontrent. On se doute bien aussi que regrouper les élèves en difficulté en protégeant, par là-même, les autres élèves de leur fréquentation va rassurer les parents des élèves qui vont bien, ces Français qui, si on entend le ministre, « payent des impôts » et qui « veulent un retour sur investissement ». Le « retour sur investissement » impliquerait donc l’aggravation du séparatisme scolaire déjà à l’œuvre dans notre école ?

    • Si ça peut aider :

      http://www.afef.org/halte-la-casse-de-lecole-une-riposte-collective-simpose-0

      Ce texte d’appel pour reconstruire l’école républicaine fait suite à une rencontre en ligne, proposée par l’AFEF le 13 décembre 2023, annoncée dans le Café pédagogique du 22 novembre 2023. Les associations, syndicats, chercheurs présents ont approuvé le projet d’une riposte collective aux annonces ministérielles et présidentielle pour l’école, particulièrement inadaptées aux défis éducatifs actuels, et dangereuses. Ils ont décidé d’une action à long terme pour analyser la situation de l’école et de son environnement, pour chercher des propositions communes, notamment lors d’un Grenelle alternatif de l’école, et pour les diffuser largement. Ce texte constitue une première base, un premier état des lieux des problèmes pour lancer ce chantier.

      https://digipad.app/p/623073/e9b15ab6ebcb2

    • On ne peut alors manquer de s’étonner de la diminution des crédits consacrés aux #bourses et aux fonds sociaux alloués en 2024 aux élèves modestes. Certes, la démographie est en baisse, mais on aurait pu en profiter pour augmenter le montant des bourses en période d’inflation sévère. Ne sait-on pas que ces aides sont essentielles pour aider à acheter une tenue de sport, à payer la cantine ou une sortie scolaire ? On n’ose imaginer qu’on prendrait dans les crédits destinés aux familles pauvres pour financer l’#uniforme scolaire de leurs enfants… Il est vrai aussi qu’on ne peut pas augmenter comme il le faudrait les bourses et les fonds sociaux pour les élèves pauvres et trouver, « en même temps », l’argent que la loi de 2019 oblige le ministère de l’Éducation nationale à donner aux écoles maternelles privées.

      [...] On aurait tort de minimiser l’ampleur du ressentiment des milieux populaires face à l’échec scolaire encore trop massif de leurs enfants. Les politiques actuelles, en accentuant les inégalités sociales face à l’école, précipitent les classes populaires dans les bras de l’extrême droite.

      #école #école_privée #collège_unique #ségrégation #groupes_de_niveau

    • Les politiques actuelles, en accentuant les inégalités sociales face à l’école, précipitent les classes populaires dans les bras de l’extrême droite.

      Et un malheur n’arrivant jamais seul, l’extrême-droite ne fera strictement « pas grand chose » pour améliorer le sort des « classes populaires ». L’extrême-droite n’a pas besoin de prendre le pouvoir : elle est déjà en train de gouverner.
      (La victoire idéologique, toussa)

  • La “geografia” della speculazione che fa il prezzo dei beni agricoli

    La guerra tra Ucraina e Russia non incide sul prezzo dei cereali, che dipende piuttosto dalla strategia dei grandi fondi che possiedono le aziende produttrici, controllano le Borse merci di tutto e scommettono sui rialzi

    Il prezzo dei cereali e in generale dei beni agricoli non dipende certo dal blocco del Mar Nero, come molto spesso si racconta, e neppure da altre circostanze troppo specifiche. La produzione mondiale di cereali, secondo le stime dell’Agenzia delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), si avvicina ai tremila milioni di tonnellate, di cui i cereali ucraini rappresentano poco più del 2%. Un’inezia rispetto al totale. Inoltre il grano ucraino si dirige in gran parte verso i Paesi limitrofi che hanno a più riprese minacciato e adottato misure protezionistiche, per evitare la concorrenza nei confronti dei propri grani. Alla luce di ciò i cereali del Mar Nero non sono certo in grado di determinare la fame in Africa né l’aumento dei prezzi.

    Considerazioni analoghe sono possibili per la produzione di patate e legumi che è, in media, vicina ai 500 milioni di tonnellate annue; considerata una popolazione mondiale di quasi otto miliardi, ciò significherebbe una disponibilità di 150 grammi per persona al giorno. Aggiungendo ai cereali, alle patate e ai legumi la produzione di tutto ciò che serve per realizzare pasti completi, tra cui sale, zucchero e semi oleaginosi, si arriva a una dotazione alimentare pro-capite di 1,5 chilogrammi al giorno. Appare chiaro allora che i prezzi non salgono perché esiste una condizione di carenza di offerta alimentare globale.

    Le difficoltà di approvvigionamento di vaste parti della popolazione del Pianeta dipendono invece da altro: dalla distribuzione profondamente diseguale delle produzioni complessive, dalla natura delle diete adottate, rispetto alle quali la carne sottrae un’enorme quantità di risorse, dalle dinamiche del commercio internazionale e soprattutto dalle modalità di determinazione dei prezzi.

    A tale riguardo occorre porsi una domanda ineludibile: da che cosa dipendono le periodiche impennate di prezzo dei generi agricoli che causano poi drammatiche crisi alimentari? Per rispondere a un simile quesito, bisogna in sintesi descrivere proprio come si formano tali prezzi. La loro determinazione avviene nelle grandi Borse merci del Pianeta, in particolare in quelle di Chicago, Parigi e Mumbai. Un primo elemento da tenere ben presente è a chi appartengono queste Borse; non si tratta infatti -a partire dal Chicago mercantile exchange (Cme)- di istituzioni “pubbliche”, ma di realtà private i cui principali azionisti sono i più grandi fondi finanziari globali. Nel caso di Chicago, i pacchetti più rilevanti sono in mano a Vanguard, BlackRock, JP Morgan, State Street Corporation e Capital International Investors.

    A questo dato se ne aggiunge un altro fondamentale. Soprattutto nelle Borse di Chicago e di Parigi la stragrande maggioranza degli operatori non è costituita da soggetti che producono e comprano realmente il grano, ma da grandi fondi finanziari e da quelli specializzati nel settore agricolo che, senza aver alcun contratto di compravendita dei beni, scommettono sull’andamento dei prezzi. In altre parole: per ogni contratto reale nelle Borse merci, i fondi finanziari operano centinaia di migliaia di scommesse che sono in grado di determinare poi i prezzi reali. Se le aspettative sono orientate all’aumento dei prezzi, scommettono al rialzo e trascinano così i prezzi a livelli insostenibili per intere popolazioni.

    All’origine dell’inflazione alimentare e della fame, si pongono quindi gli strumenti finanziari che sono prodotti dai fondi. Se prendiamo in esame chi sono questi “scommettitori”, troviamo di nuovo gli stessi soggetti (a partire da Vanguard e BlackRock) che sono, come appena ricordato, i “proprietari” delle Borse stesse. In estrema sintesi: pochissimi fondi sono azionisti del luogo dello scambio e sono i principali player di prezzo, pur non avendo nulla a che fare con la produzione e il commercio reali dei beni agricoli scambiati. Tuttavia, la finanziarizzazione di tali, vitali, processi di determinazione dei prezzi di beni essenziali per la sopravvivenza di intere comunità presenta un ulteriore elemento sconcertante.

    Come detto, nelle Borse, a fronte di tanti fondi finanziari, ci sono pochi produttori. Ma chi sono questi ultimi? Nel caso dei cereali si tratta di quattro grandi società: Archer-Daniels Midland, Bunge, Cargill e Dreyfus. Le prime due in particolare sono possedute dai grandi fondi, Vanguard, BlackRock e State Street, che sono, appunto, i medesimi operatori finanziari nelle Borse merci di Parigi e Chicago. L’intera dinamica della formazione dei prezzi agricoli, su cui incidono molto poco le retribuzioni del lavoro contadino, strutturalmente molto basse, risulta pertanto nelle mani di colossi finanziari che controllano Borse, scommesse e produzione: un gigantesco monopolio mondiale rispetto al quale ogni altra variabile, persino quella dell’offerta complessiva di beni agricoli, appare decisamente secondaria.

    È superfluo dire che con l’inflazione “impazzita” le sole società di produzione dei beni agricoli hanno distribuito oltre 30 miliardi di dollari di dividendi in meno di due anni, destinati in larga parte ai fondi finanziari che le possiedono e che hanno sommato quei miliardi ai profitti giganteschi maturati dalla finanza delle scommesse. La narrazione costruita sulle chiusure del Mar Nero c’entra davvero poco mentre sarebbe utile ricordare quanto sostenuto a più riprese dalla Fao, secondo cui per ogni punto percentuale di aumento dei prezzi dei beni agricoli si generano dieci milioni di nuovi affamati.

    https://altreconomia.it/la-geografia-della-speculazione-che-fa-il-prezzo-dei-beni-agricoli
    #spéculation #alimentation #biens_agricoles #prix #céréales #Ukraine #blé #alimentation #pénurie #viande #commerce_international #bourses #Chicago_mercantile_exchange (#Cme) #fonds_financiers #inflation #famine #faim #Vanguard #BlackRock #financiarisation #Archer-Daniels_Midland #Bunge #Cargill #Dreyfus #prix_agricoles #dividendes #Mer_Noire

  • Le coût de la vie étudiante en hausse de près de 600 euros par an, selon l’UNEF
    https://www.lemonde.fr/campus/article/2023/08/14/le-cout-de-la-vie-etudiante-en-hausse-de-6-47-selon-l-unef_6185370_4401467.h

    Dans une étude publiée lundi pointant une augmentation de 6,47 %, le syndicat étudiant anticipe un « stade de précarité majeure », aggravé par l’inflation.

    Explosion des dépenses alimentaires et bourses insuffisantes : l’#inflation ne fait qu’aggraver l’augmentation du coût de la vie pour les étudiants (...).
    Pour l’année 2023-2024, les frais inhérents aux études augmentent de 6,47 %, selon l’organisation. Le même taux que celui annoncé un an auparavant. Cette hausse représenterait un budget supplémentaire nécessaire de 594,76 euros pour l’année, soit 49,56 euros de plus par mois.

    « Jamais, en dix-neuf ans d’enquête de l’UNEF l’évolution du coût de la vie étudiante n’avait atteint de tels sommets », souligne le syndicat (...)

    Le budget des étudiants est alourdi en particulier par les hausses de frais de transports (+ 5,91 % pour les non-boursiers, + 3,95 % pour les boursiers), d’alimentation (+ 14,3 %) et d’électricité (+ 10,1 %).

    Le gouvernement a prévu une revalorisation du montant des #bourses étudiantes à hauteur de plus de 500 millions d’euros, permettant à 35 000 nouveaux étudiants de devenir #boursiers dès la rentrée. Le montant des bourses, variant désormais de 145,40 à 633,50 euros par mois, reste toutefois « largement insuffisant » pour vivre, pointe l’UNEF.

    le rapport Unef semble pour l’instant ne pas avoir fait l’objet d’une publication ouaibe, donc pas d’évaluation de la médiane du budget étudiant (si cela existe, faudrait alors parler parents, emplois) mais quelques mots sur le #logement chez l’oiseau mort

    https://twitter.com/UNEF/status/1690992446983884800

    Le logement reste le 1er poste de dépense des étudiant·e·s. Là encore, nous payons les mensonges d’
    @EmmanuelMacron. Il avait annoncé 60 000 nouveaux logements entre 2017 et 2022. En 2023, nous en sommes à ... 3067 nouveaux logements #CROUS, soit 5,11% de ce qui avait été promis

    Les bourses sur critères sociaux (BCS) de l’enseignement supérieur
    https://drees.solidarites-sante.gouv.fr/sites/default/files/2022-09/Minima22%20Fiche%2032%20%20-%20Les%20bourses%20sur%20cr

    Durant l’année universitaire 2020-2021, près de 750 000 étudiants ont perçu une bourse sur critères sociaux (BCS) du ministère de l’Enseignement supérieur et de la Recherche (MESR). Délivrée en fonction de leur situation financière et familiale, cette bourse
    est la principale aide financière du MESR versée aux étudiants (94 % des étudiants aidés par ce dernier sont boursiers sur critères sociaux et 95 % des montants d’aides versées sont des BCS). La part de boursiers parmi les étudiants présents au sein des formations éligibles a augmenté de 1,6 point entre les années universitaires 2019-2020 et 2020-2021, pour atteindre 38,4 %.

    #étudiants #étudiants_boursiers #alimentation #électricité #transports

  • ★ BIOGRAPHIE DE FERNAND PELLOUTIER - Socialisme libertaire

    Fernand Pelloutier naquit à Paris, le 1er octobre 1867.

    Il descendait d’une vieille famille lyonnaise chassée de France par la révocation de l’Édit de Nantes et dont un des membres, Simon Pelloutier (1694 – 1757) a laissé une Histoire des Celtes en 8 volumes, qui est, disent les biographes, « le seul titre, mais incontestable, qu’il ait à l’estime de la postérité ».

    Fernand Pelloutier fit ses études primaires à Paris, et ses études classiques d’abord au Petit Séminaire de Guérande (d’où il se fit expulser, au bout de trois ans, après deux tentatives déjouées d’évasion), puis au collège de Saint-Nazaire qu’il quitta après avoir échoué au baccalauréat.

    Eh 1885, encore potache, il collabore à la Démocratie de l’Ouest que dirige un ouvrier typographe, Eugène Couronné, puis fonde successivement : L’Épingle, Ruy Blas, La Plage, petites revues littéraires qui ont le sort de ces fleurs « que le matin voit naître et le soir voit mourir » (...)

    #FernandPelloutier #anarchisme #BoursesduTravail #syndicalisme #SocialismeLibertaire #histoire

    ⏩ Lire l’article complet…

    ▶️ https://www.socialisme-libertaire.fr/2023/04/biographie-de-fernand-pelloutier.html

    • dans la foulée annonce de 500 millions de plus pour les bourses :-)
      le SNU en 2023 c’est 140 M€, avant de devenir obligatoire oour un budget prévisionnel approximé de 2 milliards, montant dont le sénat avait souligné l’importance de manière critique (mais cette fois ça ira, le reliquat non dévolu au x bourses ira à du gaz lacrymo et des GM2L et des heures supp et des primes de risques pour les schmidts)
      #SNU #Bourses #étudiants #Lycéens #jeunes #revenu

      édit titre de gauche stupide chez Politesse, c’est pas tant la pression de la jeunesse que la menace latente de voir le thème émerger comme conflictuel. une précaution, une anticipation, liée à la mobilisation actuelle, plutôt qu’une réponse, la modification des bourses avec budget augmentée est une réponse à la scandalisation rampante de la pauvreté des étudiant (les files au distribution alimentaire, quelques chiffres rendus publics, peu d’actions de lutte en tant que telles)

    • SNU obligatoire : simple report ou renoncement ?
      https://blogs.alternatives-economiques.fr/abherve/2023/03/30/snu-obligatoire-simple-report-ou-renoncement

      Comme les médias s’en font écho, l’annonce du caractère obligatoire du SNU est reportée sine die. En tous cas le président de la République a annulé le déplacement prévu à Toulon (comme l’annonce BFM Var) où il devait l’officialiser, concrétisant ses annonces précédentes.

      On comprend bien que cette annonce était inopportune au moment où les jeunes se mobilisent de plus en plus dans la rue, étoffant les effectifs des manifestants en relayant des salariés que la succession des journées de grève met en difficulté financière

      En tous cas, les Armées qui ne voulaient pas s’impliquer dans ce qui n’avait qu’une apparence militaire, l’uniforme et la levée des couleurs, sans avoir aucun apport à une mission de défense semblent avoir gagné, leur investissement dans le SNU ne devrait pas figurer dans la loi de la programmation militaire.

      Le caractère obligatoire reviendra-t-il à l’ordre du jour alors que les questions de faisabilité apparaissent difficilement surmontables, comme l’a montré le rapport du Sénat (voir Le Sénat met en exergue les difficultés à vaincre pour pouvoir généraliser le SNU) et que l’engagement d’une dépense nouvelle importante n’apparait pas en phase avec la volonté de réduction de la dépense publique affichée ? On peut en douter

      En attendant le SNU volontaire peine toujours à recruter, 32 000 jeunes seulement s’étant présentés pour pourvoir les 50 000 postes disponibles. L’opération de promotion concoctée par Sarah El Haïry, dont le Canard enchainé du 29 mars 2023 se fait écho sous le titre « Le SNU se met à nu »

      La caravane qui sillonne la France et s’installera dans 25 villes pour promouvoir ce SNU semble avoir un succès mitigé si on en croit Sud-Ouest qui titre « Service national universel : la caravane du SNU n’a pas attiré les foules à Périgueux » et mentionne « une cinquantaine de jeunes sont venus se renseigner et cinq volontaires se sont inscrits dans la journée, d’après les organisateurs »

      edit

  • #Fernand_Pelloutier #anarchisme #socialisme #syndicalisme #révolutionnaire #anticapitalisme

    Le 13 mars 1901 : la mort de Fernand Pelloutier, anarchiste, syndicaliste, révolutionnaire – 🔴 Info Libertaire

    « NOUS SOMMES (…) CE QUE LES POLITICIENS NE SONT PAS, DES RÉVOLTÉS DE TOUTES LES HEURES, DES HOMMES VRAIMENT SANS DIEU, SANS MAÎTRE ET SANS PATRIE, LES ENNEMIS IRRÉCONCILIABLES DE TOUT DESPOTISME, C’EST-À-DIRE DES LOIS ET DES DICTATURES, Y COMPRIS CELLE DU PROLÉTARIAT. »

    ▶️ Lire le texte complet…

    ▶️ https://www.infolibertaire.net/le-13-mars-1901-la-mort-de-fernand-pelloutier-anarchiste-syndicalist

  • Après la polémique des « #collages », la Région stoppe certaines #bourses

    En 2021, après la polémique à Sciences Po, Laurent #Wauquiez avait suspendu l’ensemble de ses coopérations avec l’établissement. Et cette année, les élèves ont été exclus des bourses de mobilité internationale.

    Souvenez-vous : en 2021 éclatait la polémique à #Sciences_Po_Grenoble (#IEP), qui se soldait par la suspension, par sa hiérarchie, de Klaus Kinzler, l’un des deux enseignants accusés d’islamophobie par un groupe d’étudiants. Peu après, le président de la Région Auvergne-Rhône-Alpes, Laurent Wauquiez (LR), annonçait le #gel de l’ensemble des #financements_régionaux versés à l’établissement qu’il accusait de soutenir des « #pratiques_communautaristes ». « Je ne lâcherai pas sur Sciences Po Grenoble. Qu’une institution de notre territoire, qui forme des cadres, ait été capable de laisser jeter en pâture un professeur, avec les conséquences que cela aurait pu avoir, je ne peux pas l’accepter », avait lancé l’élu.

    « C’est totalement discriminatoire et injuste » disent les élus insoumis

    L’affaire rebondit aujourd’hui, puisque le groupe des Insoumis de la Région nous a fait part d’une décision prise jeudi lors de la commission « Enseignement supérieur » : l’#exclusion des étudiants de Sciences Po Grenoble du dispositif de bourse à la #mobilité_internationale, habituellement proposé par la Région. « Ce choix est inacceptable, les premières victimes seront les étudiants qui, pour bon nombre d’entre eux, ne pourront effectuer leur année à l’étranger, pourtant obligatoire dans leur cursus […] La Région rompt le principe d’égalité entre tous les étudiants pour l’accès aux bourses », déclarent les Insoumis régionaux.

    Et la conseillère LFI, Émilie Marche, de rajouter : « C’est totalement discriminatoire et injuste. En commission, je me suis élevée contre cette décision, et je leur ai rappelé que cela pénalisait les étudiants qui ne sont pas tous des gauchistes, comme ils disent. Mais cela n’a rien changé. »


    https://twitter.com/emiliemPG/status/1598685798362071040

    On a contacté l’exécutif régional, qui nous a confirmé les faits : « Depuis décembre 2021, la Région a suspendu l’ensemble de ses financements et de ses coopérations avec Sciences Po Grenoble suite à la longue dérive idéologique et communautariste de sa direction. La suspension d’un enseignant accusé d’avoir fait état de la dégradation des conditions d’enseignement dans cet établissement fut un nouveau cap franchi que la Région ne peut accepter. Si l’an dernier, ces subventions avaient été maintenues, c’est qu’elles avaient déjà été votées. Cette année, la suspension de l’ensemble des aides entre totalement en vigueur ».

    https://www.ledauphine.com/education/2022/12/02/isere-sciences-po-grenoble-apres-la-polemique-des-collages-la-region-sto

    Pour rappel, un extrait d’un article du Monde (20.12.2021) :

    Dans un message publié sur Twitter, le président de la #région_Auvergne-Rhône-Alpes, #Laurent_Wauquiez, a cependant fait savoir qu’il suspendrait les financements régionaux – environ 100 000 euros par an hors investissements sur projets – à l’IEP de Grenoble, du fait de la « longue dérive idéologique et communautariste » , qui vient de « franchir un nouveau cap » avec la suspension de l’enseignant. Selon lui, « une minorité a confisqué le débat » au sein de l’établissement, « sans que la direction prenne la mesure de cette dérive préoccupante » .

    https://seenthis.net/messages/940669

    #aura #région_aura

    –---

    ajouté à la métaliste atour de ce qu’on a surnommé l’#affaire_de_Grenoble :
    https://seenthis.net/messages/943294

  • Norvégiennes et Norvégiens viennent de se faire plumer de 170 milliards d’euros au 1er semestre 2022
    https://www.lessentiel.lu/fr/story/le-plus-gros-fonds-souverain-au-monde-a-perdu-170-milliards-d-euros-au-1e
    Le plus gros fonds souverain a perdu 170 milliards d’euros au 1er semestre
    Le fonds souverain de la Norvège a perdu quelque 1 680 milliards de couronnes (170 milliards d’euros) au premier semestre, plombé en particulier par les valeurs technologiques.

    Alimenté par les revenus pétroliers de l’État norvégien, l’énorme bas de laine a essuyé un rendement négatif de 14,4% sur les six premiers mois de l’année, voyant sa valeur tomber à 11 657 milliards de couronnes fin juin. « C’est, en pourcentage, le deuxième plus gros recul semestriel » de l’histoire du fonds, abondé depuis 1996, « et le plus gros recul en couronnes », a noté le chef du fonds, Nicolai Tangen, lors d’une présentation.

    Depuis le début de l’année, les marchés ont été chahutés par la hausse des taux d’intérêt, une inflation élevée à cause notamment de l’envolée des prix de l’énergie, et la guerre en Ukraine, autant de facteurs qui alimentent les craintes de récession. Ce sont principalement les investissements en actions qui ont pesé sur les performances du fonds avec une perte de 17%.

    Pénalisé par la sortie de la pandémie de Covid-19, le secteur technologique a, à lui seul, généré une perte de quelque 414 milliards de couronnes (-28%) pour le fonds, entraîné vers le bas par des géants comme Meta, la maison-mère de Facebook, Amazon, Apple et Microsoft. Seule exception, les valeurs énergétiques ont pris 13%, dopées par la flambée des cours.

    Un rebond cet été
    Les actions représentaient 68,5% du portefeuille fin juin. Le fonds norvégien est présent au capital de quelque 9 300 entreprises et contrôle environ 1,3% de la capitalisation boursière mondiale. Les placements en obligations (28,3% des actifs) ont perdu 9,3% tandis que les investissements dans l’immobilier non coté (3% du portefeuille) ont gagné 7,1%.

    Actif encore marginal (0,1% des investissements), les projets d’énergies renouvelables non cotés en Bourse ont aussi accusé une perte de 13,3%. L’ensemble de ces investissements est réalisé hors de Norvège, plus gros exportateur d’hydrocarbures d’Europe de l’Ouest, afin de ne pas surchauffer l’économie nationale.

    Si les performances financières du premier semestre ont été mauvaises, le fonds a repris des couleurs cet été grâce au rebond des Bourses : mercredi, selon le compteur qui tourne en direct sur le site de la banque centrale norvégienne, il pesait plus de 12 300 milliards de couronnes.

    #vol #escroquerie #finances #banques #spéculation #capitalisation #bourses #retraites par #capitalisation #retraites #économie #pauvreté #inégalités

  • L’enquête de l’#Université_de_Genève montre un système académique à bout de souffle

    Les situations de #précarité et de #harcèlement relevées ne sont pas des cas isolés, mais bien la conséquence d’un mal structurel qui ronge le #système_académique, estime l’association genevoise du corps intermédiaire.

    Un système « à bout de souffle ». C’est ce qui ressort de l’étude commandée par l’Université de Genève (#Unige), qui désirait faire un #état_des_lieux de la situation professionnelle du #corps_intermédiaire, aux rudes conditions de travail. Les propos sont de Mathilde Matras, membre du comité de l’Association commune du corps intermédiaire des collaborateur·rice·s de l’enseignement et de la recherche (#Accorder). « Les conclusions de cette #enquête montrent que les problèmes pesant sur les #personnels du corps intermédiaire ne sont pas des cas individuels, mais bien un #mal_structurel », analyse cette assistante doctorante à la Faculté des lettres de l’institution genevoise.

    Le corps intermédiaire représente les chercheurs non titularisés, c’est-à-dire non professeurs. Il englobe les jeunes en début de carrière tels que les #post-doctorants, mais aussi d’autres grades et postes tels que les #collaborateurs_scientifiques, les #chargés_de_cours et autres #maîtres-assistants. A Genève, ce sont 3800 personnes qui sont concernées. Majoritairement sous contrat à durée déterminée, ils disent souffrir de la précarité inhérente à leur profession. De tels contrats sont la conséquence de l’organisation du #financement de la science, où la majorité des #bourses sont allouées sur de courtes périodes, allant d’un à quatre ans.

    L’#excellence se résume à la #productivité

    La présente enquête, pour laquelle l’association Accorder a été consultée, a établi que la moitié des répondants disent craindre de glisser dans la précarité. « C’est plus qu’un sentiment, c’est vraiment de la précarité, nuance Mathilde Matras. Une grande partie des personnes qui se disent précaires sont âgées de 35 à 40 ans et ont parfois derrière elles sept à huit ans de contrats courts ; 50% ne prennent pas l’intégralité de leurs congés et 95% disent travailler sur leur temps libre. Le système académique actuel résume l’#excellence_scientifique d’un chercheur à sa productivité », commente Mathilde Matras.

    Par ailleurs, les cas de harcèlement sont en nombre inquiétant : 22% des répondants disent y avoir été confrontés personnellement. Par ailleurs, 3,4% des sondés ont affirmé être victimes de #harcèlement_sexuel et 12,9% signalent avoir été témoins de tels agissements. Pour Mathilde Matras, « une personne sur cinq confrontée au harcèlement, c’est alarmant. On peut y voir notamment les effets d’une trop grande #concentration_des_pouvoirs par le #corps_professoral, ce qui favorise de multiples #abus ». Et comme souvent, personne n’ose parler, soit par solidarité, soit par crainte pour sa #carrière, ajoute la chercheuse.

    Le rectorat de l’Unige dit mettre en place un plan d’action pour améliorer la situation. Il prévoit notamment de mieux informer sur les carrières, de valoriser les voies non académiques au sein de l’université et enfin de déployer des formations complémentaires « facilitant la transition hors de l’alma mater ». Un premier pas dans un chantier qui s’annonce immense, et qui de par son caractère structurel dépasse le cadre de l’université.

    https://www.letemps.ch/sciences/lenquete-luniversite-geneve-montre-un-systeme-academique-bout-souffle

    #université #facs #Suisse #Genève #rapport #silence #risques

    –-

    ajouté à la métaliste sur les conditions de travail et la précarité dans les universités suisses :
    https://seenthis.net/messages/945135

    • ENQUETE #CCER

      #Conditions_de_travail et de carrière du corps intermédiaire à l’Université de Genève

      L’Université de Genève (UNIGE) a mené pendant l’été 2021 une enquête approfondie sur les conditions de travail et de carrière du corps des collaborateurs/trices de l’enseignement et de la recherche (CCER). Les résultats ont mis en lumière des points de satisfaction ainsi que plusieurs points problématiques.

      L’enquête menée par l’UNIGE a été élaborée par le Rectorat après consultation des membres de l’association représentative du CCER ACCORDER, de l’Assemblée de l’Université, de la Commission du Personnel et de deux expertes en gestion des ressources humaines. Elle repose sur un questionnaire comprenant trois parties distinctes. La première partie, très courte, se concentre sur l’ambition de carrière des membres du CCER et l’attractivité des postes CCER de l’UNIGE ; la deuxième partie approfondit sept thématiques liées au cadre professionnel ; la troisième partie cherche à objectiver les risques impactant le développement des carrières académiques.

      Cette enquête a obtenu 772 réponses (20% du public considéré) au questionnaire court, et 542 à l’ensemble des questions. La distribution des répondant-es parmi les différentes Facultés et Centres reflète correctement leurs poids respectifs.
      Vidéo de présentation par la vice-rectrice Brigitte Galliot de l’enquête sur les conditions de TRAVAIL et dE CARRIERES du CCER

      https://www.unige.ch/doctorat/fr/enquete-2021-sur-le-ccer

  • #Leonardo sbarca in #Somalia, la sua fondazione promuove l’italiano e addestra l’esercito

    Leonardo punta a rafforzare la propria presenza in Corno d’Africa e affida l’affaire all’ex ministro dell’Interno Marco Minniti (Pd), alla guida della Fondazione Med-Or costituita dall’holding del complesso militare-industriale italiano per promuovere progetti di “cooperazione” e scambi culturali-accademici con i Paesi del cosiddetto Mediterraneo allargato (Med) e del Medio ed Estremo Oriente (Or).

    Il 21 dicembre 2021 è stato firmato a Roma un Memorandum of Understanding tra la Fondazione Med-Or e la Repubblica Federale di Somalia per la “promozione della lingua italiana in Somalia e il sostegno all’alta formazione, attraverso l’erogazione di borse di studio e corsi di formazione professionale”.

    A sottoscrivere l’accordo Marco Minniti e il Ministro degli Affari Esteri somalo Abdisaid Muse Ali, ma all’evento erano presenti pure il Ministro degli Esteri e della Cooperazione Internazionale Luigi Di Maio, il Ministro della Pubblica Istruzione somalo Abdullahi Abukar Haji e l’intero stato maggiore di Leonardo S.p.A., il presidente Luciano Carta (generale ritirato della Guardia di finanza), l’amministratore delegato Alessandro Profumo, il direttore generale Valerio Cioffi e Letizia Colucci, direttrice generale della Fondazione Med-Or.

    “La Somalia è un Paese strategico nei complessi equilibri dell’Africa Orientale ed è un partner fondamentale per noi nel Corno d’Africa”, ha dichiarato l’ex ministro Minniti. “L’interesse e l’impegno di Med-Or verso l’ex colonia italiana sono in linea con quanto fatto nel corso degli ultimi anni. Consolideremo la cooperazione in numerosi campi e le relazioni comuni, insieme alle istituzioni somale”.

    Il Memorandum firmato con la Repubblica di Somalia segue altri due progetti promossi e finanziati in Africa dalla Fondazione di Leonardo: il primo con la Mohammed VI Polytechnic University di Rabat (finanziamento di alcune borse di studio presso la LUISS “Guido Carli” di Roma, destinate a studenti provenienti dal Marocco); il secondo con la consegna alla Repubblica del Niger di una cinquantina di concentratori di ossigeno per alcune strutture sanitarie impegnate nell’assistenza a malati di Covid-19.

    La presenza a Roma alla firma dell’accordo di “cooperazione” dei massimi vertici di Leonardo S.p.A., conferma l’intenzione del gruppo di penetrare nel redditizio mercato dei sistemi d’arma del martoriato Corno d’Africa. Risale a tre anni fa l’ultima importante commessa nella regione, la fornitura al governo federale somalo di sistemi ATC – Air Traffic Control. Nello specifico, la controllata Selex ES Technologies Limited (SETL) con sede in Kenya, ha installato nel 2018 a Mogadiscio un Centro Nazionale ACC (Air Control Centre) per l’integrazione degli strumenti operativi di controllo aereo e tre torri radar in altrettanti aeroporti del Paese per un totale di 16 postazioni operatore, oltre a un sistema radio VHF e una rete satellitare.

    Una trattativa per la fornitura di un sofisticato sistema radar è in corso tra Leonardo e le autorità militari di Gibuti, la piccola enclave tra Eritrea, Etiopia e Somaliland, strategica per il controllo dello Stretto Bab El Mandeb che separa il Mar Rosso dal Golfo di Aden, principale rotta commerciale e petrolifera tra l’Asia e l’Europa.

    Il 30 gennaio 2020 i manager del gruppo italiano hanno accompagnato una delegazione della Repubblica di Gibuti (presenti tra gli altri il ministro della Difesa Hassan Omar Mohamed e l’ambasciatore a Parigi Ayeid Mousseid Yahya) in visita alla 4ª Brigata Telecomunicazioni e Sistemi per la Difesa Aerea e l’Assistenza al Volo dell’Aeronautica Militare di Borgo Piave, l’ente responsabile della realizzazione, installazione e manutenzione dei sistemi radar, di telecomunicazioni e radio assistenze al volo e alla navigazione aerea.

    “Gli ospiti sono stati accolti dal Comandante della 4ª Brigata, generale Vincenzo Falzarano”, riporta la nota dell’ufficio stampa dell’Aeronautica italiana. “La visita ha interessato il Sistema FADR (Fixed Air Defence Radar, modello RAT–31DL, prodotto da Leonardo, nda) che costituisce la struttura portante del sistema di Difesa Aerea. Il FADR è un radar di sorveglianza a lungo raggio (oltre 470 chilometri) e l’Aeronautica Militare, grazie alla sinergia con il mondo industriale nazionale, lo ha utilizzato per il rinnovamento tecnologico di dodici radar fissi a copertura dell’intero spazio aereo nazionale”.

    Come nel caso del Niger, la Fondazione Med-Or di Leonardo S.p.A. sembra voler privilegiare le regioni del continente africano dove operano stabilmente le forze armate italiane. In Corno d’Africa l’Italia è presente nell’ambito di due missioni internazionali, EUTM Somalia (European Union Training Mission to contribute to the training of Somali security forces) e MIADIT.

    L’operazione EUTM ha preso il via nell’aprile 2010 dopo la decisione dell’Unione Europea di “contribuire al rafforzamento del Governo Federale di Transizione della Somalia attraverso l’addestramento delle Forze di sicurezza somale”. Inizialmente il personale militare UE era schierato in Uganda e operava in stretta collaborazione con le forze armate ugandesi.

    Furono costituititi un quartier generale a Kampala, una base addestrativa a Bihanga (250 km a ovest della capitale) e un ufficio di collegamento a Nairobi (Kenya). Quando le condizioni di sicurezza in Somalia sembrarono migliori, EUTM inaugurò un centro di formazione presso l’aeroporto internazionale di Mogadiscio (aprile 2013) e, dall’inizio del 2014, sia il quartier generale sia i centri addestrativi furono trasferiti in territorio somalo.

    “Focus iniziale della Missione EUTM è stato l’addestramento delle reclute somale e la formazione di istruttori delle Somali National Security Forces, capaci di gestire in proprio l’addestramento di sottufficiali e della truppa”, spiega il Ministero della Difesa italiano. “Con il crescente impegno della Comunità Internazionale e dell’UE nel processo di stabilizzazione del Corno d’Africa, è stato previsto un ulteriore sviluppo della missione. Dall’aprile 2015, con il 4° mandato, essa si è concentrata sempre più sulla componente legata alla consulenza operativa, logistica e amministrativa del Ministero della Difesa e dello Stato Maggiore somalo”. Dal 15 febbraio 2014 il Comando di EUTM è assegnato all’Italia e il contingente nazionale impiegato è di 148 militari e 20 mezzi terrestri.

    Dal 2013 le forze armate italiane sono impegnate pure nella Missione Bilaterale di Addestramento delle Forze di Polizia somale e gibutiane – MIADIT. “La missione è volta a favorire la stabilità e la sicurezza della Somalia e dell’intera regione del Corno d’Africa, accrescendo le capacità nel settore della sicurezza e del controllo del territorio da parte delle forze di polizia somale”, spiega ancora il Ministero della Difesa. “L’obiettivo a lungo termine è quello di rigenerare la polizia federale somala mettendola innanzitutto in grado di operare nel complesso scenario e successivamente, con i corsi training of trainers, portarla gradualmente all’autosufficienza formativa”.

    Il contingente nazionale impiegato è di 53 militari e 4 mezzi dell’Arma dei Carabinieri. I moduli addestrativi sono diretti a 150-200 agenti somali e gibutini alla volta e hanno una durata di 12 settimane.

    Le attività spaziano dall’addestramento individuale al combattimento, agli interventi nei centri abitati, alle tecniche di controllo del territorio e gestione della folla, alla ricerca e neutralizzazione di armi ed esplosivi. Sempre secondo la Difesa, gli istruttori dei Carabinieri hanno già addestrato oltre 2.600 unità appartenenti alla Polizia Somala, alla Polizia Nazionale e alla Gendarmeria Gibutiana, contribuendo inoltre alla ristrutturazione dell’Accademia di Polizia di Mogadiscio.

    https://www.africa-express.info/2021/12/24/leonardo-sbarca-in-somalia-la-sua-fondazione-promuove-litaliano-e-a

    #Italie #néo-colonialisme
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  • #Liberté_académique et #justice_sociale

    On assiste en #Amérique_du_Nord à une recomposition du paysage académique, qui met l’exercice des #libertés_universitaires aux prises avec des questions de justice sociale, liées, mais pas seulement, au militantisme « #woke », souvent mal compris. Publication du premier volet d’un entretien au long cours avec #Isabelle_Arseneau et #Arnaud_Bernadet, professeurs à l’Université McGill de Montréal.

    Alors que se multiplient en France les prises de position sur les #libertés_académiques – voir par exemple cette « défense et illustration » -, un débat à la fois vif et très nourri se développe au #Canada depuis plus d’un an, après que des universitaires ont dû faire face à des plaintes pour #racisme, parfois à des suspensions de leur contrat, en raison de l’utilisation pédagogique qu’ils avaient faite des mots « #nègre » ou « #sauvages ». Significativement, un sondage récent auprès des professeurs d’université du Québec indique qu’une majorité d’entre eux pratiquent diverses formes d’#autocensure. C’est dans ce contexte qu’Isabelle Arseneau et Arnaud Bernadet, professeurs au Département des littératures de langue française, de traduction et de création de l’Université McGill de Montréal, ont été conduits à intervenir activement dans le débat, au sein de leur #université, mais aussi par des prises de position publiques dans la presse et surtout par la rédaction d’un mémoire, solidement argumenté et très remarqué, qui a été soumis et présenté devant la Commission scientifique et technique indépendante sur la reconnaissance de la liberté académique dans le milieu universitaire.

    Initiée en février 2021 par le premier ministre du Québec, François Legault, cette commission a auditionné de nombreux acteurs, dont les contributions sont souvent de grande qualité. On peut télécharger ici le mémoire des deux universitaires et suivre leur audition grâce à ce lien (début à 5 :15 :00). La lecture du présent entretien peut éclairer et compléter aussi bien le mémoire que l’audition. En raison de sa longueur, je publie cet entretien en deux parties. La première partie est consacrée aux exemples concrets de remise en cause de la liberté de citer certains mots en contexte universitaire et traite des conséquences de ces pratiques sur les libertés académiques. Cette première partie intègre aussi une analyse critique de la tribune parue ce jour dans Le Devoir, co-signée par Blanquer et le ministre de l’Education du Québec, lesquels s’attaquent ensemble et de front à la cancel culture. La seconde partie, à paraître le vendredi 29 octobre, portera plus précisément sur le mouvement « woke », ses origines et ses implications politiques, mais aussi sur les rapports entre science et société. Je tiens à remercier chaleureusement Isabelle Arseneau et Arnaud Bernadet d’avoir accepté de répondre à mes questions et d’avoir pris le temps de construire des réponses précises et argumentées, dont la valeur tient tout autant à la prise critique de ces deux universitaires qu’aux disciplines qui sont les leurs et qui informent leur réflexion. Ils coordonnent actuellement un volume collectif interdisciplinaire, Libertés universitaires : un an de débat au Québec (2020-2021), à paraître prochainement.

    Entretien, première partie

    1. Pourriez-vous exposer le plus factuellement possible ce qui s’est passé au mois de septembre 2020 à l’université d’Ottawa et à l’université McGill de Montréal ?

    Isabelle Arseneau. À l’automne 2020 éclatait à l’Université d’Ottawa une affaire qui a passionné le Québec et a connu d’importantes suites politiques : à l’occasion d’une séance d’enseignement virtuel sur la représentation des identités en art, une chargée de cours, #Verushka_Lieutenant-Duval, expliquait à ses étudiants comment l’injure « #nigger » a été réutilisée par les communautés afro-américaines comme marqueur subversif dans les années 1960. Parce qu’elle a mentionné le mot lui-même en classe, l’enseignante est devenue aussitôt la cible de #plaintes pour racisme et, au terme d’une cabale dans les #réseaux_sociaux, elle a été suspendue temporairement par son administration. Au même moment, des incidents à peu près analogues se produisaient au Département des littératures de langue française, de traduction et de création de l’Université McGill, où nous sommes tous les deux professeurs. Dans un cours d’introduction à la littérature québécoise, une chargée de cours a mis à l’étude Forestiers et voyageurs de #Joseph-Charles_Taché, un recueil de contes folkloriques paru en 1863 et qui relate les aventures d’un « Père Michel » qui arpente le pays et documente ses « mœurs et légendes ». Des étudiants interrompent la séance d’enseignement virtuel et reprochent à l’enseignante de leur avoir fait lire sans avertissement préalable une œuvre contenant les mots « Nègres » et « Sauvages ». Quelques jours plus tard, des plaintes pour racisme sont déposées contre elle. Le dossier est alors immédiatement pris en charge par la Faculté des Arts, qui lui suggère de s’excuser auprès de sa classe et d’adapter son enseignement aux étudiants que pourrait offenser la lecture des six autres classiques de la littérature québécoise prévus au syllabus (dont L’Hiver de force de Réjean Ducharme et Les Fous de Bassan d’Anne Hébert). Parmi les mesures d’accommodement, on lui conseille de fournir des « avertissements de contenu » (« #trigger_warnings ») pour chacune des œuvres à l’étude ; de se garder de prononcer à voix haute les mots jugés sensibles et de leur préférer des expressions ou des lettres de remplacement (« n », « s », « mot en n » « mot en s »). Trois mois plus tard, nous apprendrons grâce au travail d’enquête de la journaliste Isabelle Hachey (1) que les plaignants ont pu obtenir, après la date limite d’abandon, un remboursement de leurs frais de scolarité et les trois crédits associés à ce cours qu’ils n’ont cependant jamais suivi et pour lequel ils n’ont validé qu’une partie du travail.

    Lorsque j’ai imaginé notre doctorante en train de caviarder ses notes de cours et ses présentations Powerpoint, ça a fait tilt. Un an plus tôt, je travaillais à la Public Library de New York sur un manuscrit du XIIIe siècle dont la première image avait été grattée par un lecteur ou un possesseur offensé par le couple enlacé qu’elle donnait jusque-là à voir. La superposition de ces gestes de censure posés à plusieurs siècles d’intervalle témoignait d’un recul de la liberté universitaire que j’associais alors plus spontanément aux campus américains, sans pour autant nous imaginer à l’abri de cette vague venue du sud (2). Devant de tels dérapages, mon collègue Arnaud Bernadet et moi avons communiqué avec tous les étages de la hiérarchie mcgilloise. Las de nous heurter à des fins de non-recevoir, nous avons cosigné une série de trois lettres dans lesquelles nous avons dénoncé la gestion clientéliste de notre université (3). Malgré nos sorties répétées dans les médias traditionnels, McGill est demeurée silencieuse et elle l’est encore à ce jour.

    2. Pour être concret, qu’est-ce qui fait que l’emploi du mot « nègre » ou « sauvages » dans un cours est légitime ?

    Isabelle Arseneau. Vous évoquez l’emploi d’un mot dans un cadre pédagogique et il me semble que toute la question est là, dans le terme « emploi ». À première vue, le contexte de l’énonciation didactique ne se distingue pas des autres interactions sociales et ne justifie pas qu’on puisse déroger aux tabous linguistiques. Or il se joue dans la salle de classe autre chose que dans la conversation ordinaire : lorsque nous enseignons, nous n’employons pas les mots tabous, nous les citons, un peu comme s’il y avait entre nous et les textes lus ou la matière enseignée des guillemets. C’est de cette distinction capitale qu’ont voulu rendre compte les sciences du langage en opposant le signe en usage et le signe en mention. Citer le titre Nègres blancs d’Amérique ou le terme « Sauvages » dans Forestiers et Voyageurs ne revient pas à utiliser ces mêmes termes. De la même façon, il y a une différence entre traiter quelqu’un de « nègre » dans un bus et relever les occurrences du terme dans une archive, une traite commerciale de l’Ancien Régime ou un texte littéraire, même contemporain. Dans le premier cas, il s’agit d’un mot en usage, qui relève, à n’en pas douter, d’un discours violemment haineux et raciste ; dans l’autre, on n’emploie pas mais on mentionne des emplois, ce qui est différent. Bien plus, le mot indexe ici des représentations socialement et historiquement situées, que le professeur a la tâche de restituer (pour peu qu’on lui fournisse les conditions pour le faire). Si cette distinction entre l’usage et la mention s’applique à n’importe quel contexte d’énonciation, il va de soi qu’elle est très fréquente et pleinement justifiée — « légitime », oui — en contexte pédagogique. Il ne s’agit donc bien évidemment pas de remettre en circulation — en usage — des mots chargés de haine mais de pouvoir continuer à mentionner tous les mots, même les plus délicats, dans le contexte d’un exercice bien balisé, l’enseignement, dont on semble oublier qu’il suppose d’emblée un certain registre de langue.

    3. Ce qui étonne à partir de ces exemples – et il y en a d’autres du même type -, c’est que l’administration et la direction des universités soutiennent les demandes des étudiants, condamnent les enseignants et vont selon vous jusqu’à enfreindre des règles élémentaires de déontologie et d’éthique. Comment l’expliquez-vous ? L’institution universitaire a-t-elle renoncé à défendre ses personnels ?

    Arnaud Bernadet. Il faut naturellement conserver à l’esprit ici ce qui sépare les universités nord-américaines des institutions françaises. On soulignera deux différences majeures. D’une part, elles sont acquises depuis longtemps au principe d’autonomie. Elles se gèrent elles-mêmes, tout en restant imputables devant l’État, notamment au plan financier. Soulignons par ailleurs qu’au Canada les questions éducatives relèvent avant tout des compétences des provinces et non du pouvoir fédéral. D’autre part, ces universités obéissent à un modèle entrepreneurial. Encore convient-il là encore d’introduire des nuances assez fortes, notamment en ce qui concerne le réseau québécois, très hétérogène. Pour simplifier à l’extrême, les universités francophones sont plus proches du modèle européen, tandis que les universités anglophones, répliques immédiates de leurs voisines états-uniennes, semblent davantage inféodées aux pratiques néo-libérales.

    Quoi qu’il en soit, la situation décrite n’a rien d’inédit. Ce qui s’est passé à l’Université d’Ottawa ou à l’Université McGill s’observe depuis une dizaine d’années aux États-Unis. La question a été très bien documentée, au tournant de l’année 2014 sous la forme d’articles puis de livres, par deux sociologues, Bradley Campbell et Jason Manning (The Rise of Victimhood Culture) et deux psychologues, Jonathan Haidt et Greg Lukianoff (The Coddling of the American Mind). Au reste, on ne compte plus sur les campus, et parmi les plus progressistes, ceux de l’Ouest (Oregon, État de Washington, Californie) ou de la Nouvelle-Angleterre en particulier, les demandes de censure, les techniques de deplatforming ou de “désinvitation”, les calomnies sur les médias sociaux, les démissions du personnel - des phénomènes qu’on observe également dans d’autres milieux (culture, médias, politique). En mai dernier, Rima Azar, professeure en psychologie de la santé, a été suspendue par l’Université Mount Allison du Nouveau-Brunswick, pour avoir qualifié sur son blog Black Lives Matter d’organisation radicale…

    Il y a sans doute plusieurs raisons à l’attitude des administrateurs. En tout premier lieu : un modèle néo-libéral très avancé de l’enseignement et de la recherche, et ce qui lui est corrélé, une philosophie managériale orientée vers un consumérisme éducatif. Une autre explication serait la manière dont ces mêmes universités réagissent à la mouvance appelée “woke”. Le terme est sujet à de nombreux malentendus. Il fait désormais partie de l’arsenal polémique au même titre que “réac” ou “facho”. Intégré en 2017 dans l’Oxford English Dictionary, il a été à la même date récupéré et instrumentalisé par les droites conservatrices ou identitaires. Mais pas seulement : il a pu être ciblé par les gauches traditionnelles (marxistes, libertaires, sociales-démocrates) qui perçoivent dans l’émergence de ce nouveau courant un risque de déclassement. Pour ce qui regarde notre propos, l’illusion qu’il importe de dissiper, ce serait de ne le comprendre qu’à l’aune du militantisme et des associations, sur une base strictement horizontale. Ce qui n’enlève rien à la nécessité de leurs combats, et des causes qu’ils embrassent. Loin s’en faut. Mais justement, il s’agit avec le “wokism” et la “wokeness” d’un phénomène nettement plus composite qui, à ce titre, déborde ses origines liées aux luttes des communautés noires contre l’oppression qu’elles subissaient ou subissent encore. Ce phénomène, plus large mais absolument cohérent, n’est pas étranger à la sociologie élitaire des universités nord-américaines, on y reviendra dans la deuxième partie de cet entretien. Car ni l’un ni l’autre ne se sont si simplement inventés dans la rue. Leur univers est aussi la salle de classe.

    4. Au regard des événements dans ces deux universités, quelle analyse faites-vous de l’évolution des libertés académiques au Québec ?

    Arnaud Bernadet. Au moment où éclatait ce qu’il est convenu d’appeler désormais “l’affaire Verushka Lieutenant-Duval”, le Québec cultivait cette douce illusion de se croire à l’abri de ce genre d’événements. Mais les idées et les pratiques ne s’arrêtent pas à la frontière avec le Canada anglais ou avec les États-Unis. Le cas de censure survenu à McGill (et des incidents d’autre nature se sont produits dans cet établissement) a relocalisé la question en plein cœur de Montréal, et a montré combien les cultures et les sociétés sont poreuses les unes vis-à-vis des autres. Comme dans nombre de démocraties, on assiste au Québec à un recul des libertés publiques, la liberté académique étant l’une d’entre elles au même titre que la liberté d’expression. Encore faut-il nuancer, car le ministère de l’enseignement supérieur a su anticiper les problèmes. En septembre 2020, le scientifique en chef Rémi Quirion a remis un rapport qui portait plus largement sur L’université québécoise du futur, son évolution, les défis auxquels elle fait face, etc. Or en plus de formuler des recommandations, il y observe une “précarisation significative” de la liberté académique, un “accroissement de la rectitude politique”, imputée aux attentes ou aux convictions de “groupes particuliers”, agissant au nom de “valeurs extra-universitaires”, et pour finir, l’absence de “protection législative à large portée” entourant la liberté académique au Québec, une carence qui remonte à la Révolution tranquille. En février 2021, le premier ministre François Legault annonçait la création d’une Commission scientifique et technique indépendante sur la reconnaissance de la liberté académique en contexte universitaire. Cette commission qui n’a pas fini de siéger a rendu une partie de ses résultats, notamment des sondages effectués auprès du corps professoral (ce qui inclut les chargés de cours) : 60 % d’entre eux affirment avoir évité d’utiliser certains mots, 35 % disent avoir même recouru à l’autocensure en sabrant certains sujets de cours. La recherche est également affectée. Ce tableau n’est guère rassurant, mais il répond à celles et ceux qui, depuis des mois, à commencer dans le milieu enseignant lui-même, doublent la censure par le déni et préfèrent ignorer les faits. À l’évidence, des mesures s’imposent aujourd’hui, proportionnées au diagnostic rendu.

    5. La liberté académique est habituellement conçue comme celle des universitaires, des enseignants-chercheurs, pour reprendre la catégorie administrative en usage en France. Vous l’étendez dans votre mémoire à l’ensemble de la communauté universitaire, en particulier aux jeunes chercheurs, mais aussi aux personnels administratifs et aux étudiants ? Pourriez-vous éclairer ce point ?

    Arnaud Bernadet. Ce qui est en jeu ici n’est autre que l’extension et les applications du concept de liberté académique. Bien sûr, un étudiant ne jouit pas des mêmes dispositions qu’un professeur, par exemple le droit à exercer l’évaluation de ses propres camarades de classe. Mais a priori nous considérons que n’importe quel membre de la communauté universitaire est titulaire de la liberté académique. Celle-ci n’a pas été inventée pour donner aux enseignants et chercheurs quelque “pouvoir” irréaliste et exorbitant, mais pour satisfaire aux deux missions fondamentales que leur a confiées la société : assurer la formation des esprits par l’avancement des connaissances. En ce domaine, l’écart est-il significatif entre le choix d’un thème ou d’un corpus par un professeur, et un exposé oral préparé par un étudiant ? Dans chaque cas, on présumera que l’accès aux sources, la production des connaissances, le recours à l’argumentation y poursuivent les mêmes objectifs de vérité. De même, les administrateurs, et notamment les plus haut placés, doivent pouvoir bénéficier de la liberté académique, dans l’éventualité où elle entrerait en conflit avec des objectifs de gouvernance, qui se révéleraient contraires à ce qu’ils estimeraient être les valeurs universitaires fondamentales.

    6. Entre ce que certains considèrent comme des recherches “militantes” et les orientations néolibérales et managériales du gouvernement des universités, qu’est-ce qui vous semble être le plus grand danger pour les libertés académiques ?

    Arnaud Bernadet. Ce sont des préoccupations d’ordre différent à première vue. Les unes semblent opérer à l’interne, en raison de l’évolution des disciplines. Les autres paraissent être plutôt impulsées à l’externe, en vertu d’une approche productiviste des universités. Toutes montrent que le monde de l’enseignement et de la recherche est soumis à de multiples pressions. Aussi surprenant que cela paraisse, il n’est pas exclu que ces deux aspects se rejoignent et se complètent. Dans un article récent de The Chronicle of Higher Education (03.10.2021), Justin Sider (professeur de littérature anglaise à l’Université d’Oklahoma) a bien montré que les préoccupations en matière de justice sociale sont en train de changer la nature même des enseignements. Loin de la vision désintéressée des savoirs, ceux-ci serviraient dorénavant les étudiants à leur entrée dans la vie active, pour changer l’ordre des choses, combattre les inégalités, etc. C’est une réponse à la conception utilitariste de l’université, imposée depuis plusieurs décennies par le modèle néolibéral. Et c’est ce qu’ont fort bien compris certains administrateurs qui, une main sur le cœur, l’autre près du portefeuille, aimeraient donc vendre désormais à leurs “clients” des programmes ou de nouveaux curricula portant sur la justice sociale.

    7. La défense des libertés académiques, en l’occurrence la liberté pédagogique et la liberté de recherche d’utiliser tous les mots comme objet de savoir, est-elle absolue, inconditionnelle ? Ne risque-t-elle pas de renforcer un effet d’exclusion pour les minorités ?

    Isabelle Arseneau. Elle est plutôt à notre avis non-négociable (aucun principe n’est absolu). Mais pour cela, il est impératif de désamalgamer des dossiers bien distincts : d’une part, le travail de terrain qu’il faut encore mener en matière d’équité, de diversité et d’inclusion (qu’il est désormais commun de désigner par l’acronyme « ÉDI ») ; d’autre part, les fondements de la mission universitaire, c’est-à-dire créer et transmettre des savoirs. Les faux parallèles que l’on trace entre la liberté académique et les « ÉDI » desservent autant la première que les secondes et on remarque une nette tendance chez certaines universités plus clairement néolibérales à utiliser la liberté académique comme un vulgaire pansement pour régler des dossiers sur lesquels elles accusent parfois de regrettables retards. Bien ironiquement, ce militantisme d’apparat ne fait nullement progresser les différentes causes auxquelles il s’associe et a parfois l’effet inverse. Revenons à l’exemple concret qui s’est produit chez nous : recommander à une enseignante de s’excuser pour avoir prononcé et fait lire un mot jugé sensible et aller jusqu’à rembourser leurs frais de scolarité à des étudiants heurtés, voilà des gestes « spectaculaires » qui fleurent bon le langage de l’inclusion mais qui transpirent le clientélisme (« Satisfaction garantie ou argent remis ! »). Car une fois que l’on a censuré un mot, caviardé un passage, proscrit l’étude d’une œuvre, qu’a-t-on fait, vraiment, pour l’équité salariale hommes-femmes ; pour l’inclusion des minorités toujours aussi invisibles sur notre campus ; pour la diversification (culturelle, certes, mais également économique) des corps enseignant et étudiant, etc. ? Rien. Les accommodements offerts aux plaignants sont d’ailleurs loin d’avoir créé plus d’équité ; ils ont au contraire engendré une série d’inégalités : entre les étudiants d’abord, qui n’ont pas eu droit au même traitement dans le contexte difficile de la pandémie et de l’enseignement à distance ; entre les chargés de cours ensuite, qui n’ont pas eu à faire une même quantité de travail pour un même salaire ; et, enfin, entre les universités, toutes soumises au même système de financement public, dont le calcul repose en bonne partie sur l’unité-crédit. Les salles de classe ont bon dos : elles sont devenues les voies de sortie faciles pour des institutions qui s’achètent grâce à elles un vernis de justice sociale qui tarde à se traduire par des avancées concrètes sur les campus. Confondre les dossiers ne servira personne.

    8. Reste que ce qui est perçu par des acteurs de la défense de droits des minorités comme l’exercice d’une liberté d’expression est vécu et analysé par d’autres acteurs comme une atteinte à la liberté académique, en particulier la liberté pédagogique. La situation n’est-elle pas une impasse propre à aviver les tensions et créer une polémique permanente ? Comment sortir de cette impasse ?

    Isabelle Arseneau. En effet, on peut vite avoir l’impression d’un cul-de-sac ou d’un cercle vicieux difficile à briser, surtout au vu de la polarisation actuelle des discours, qu’aggravent les médias sociaux. Dans ce brouhaha de paroles et de réactions à vif, je ne sais pas si on s’entend et encore moins si on s’écoute. Chose certaine, il faudra dans un premier temps tenter de régler les problèmes qui atteignent aujourd’hui les établissements postsecondaires depuis l’intérieur de leurs murs. En effet, la responsabilité me semble revenir d’abord aux dirigeants de nos institutions, à la condition de réorienter les efforts vers les bonnes cibles et, comme je le disais à l’instant, de distinguer les dossiers. À partir du moment où l’on cessera de confondre les dossiers et où l’on résistera aux raccourcis faciles et tendancieux, des chantiers distincts s’ouvriront naturellement.

    Du côté des dossiers liés à l’équité et à la diversité, il me semble nécessaire de mener de vrais travaux d’enquête et d’analyse de terrain et de formuler des propositions concrètes qui s’appuient sur des données plutôt que des mesures cosmétiques qui suivent l’air du temps (il ne suffit pas, comme on a pu le faire chez nous, de recommander la censure d’un mot, de retirer une statue ou de renommer une équipe de football). Plus on tardera à s’y mettre vraiment et à joindre le geste à la parole, plus longtemps on échouera à réunir les conditions nécessaires au dialogue serein et décomplexé. Il nous reste d’ailleurs à débusquer les taches aveugles, par exemple celles liées à la diversité économique de nos campus (ou son absence), une donnée trop souvent exclue de la réflexion, qui préfère se fixer sur la seule dimension identitaire. Du côté de la liberté universitaire, il est nécessaire de la réaffirmer d’abord et de la protéger ensuite, en reprenant le travail depuis le début s’il le faut. C’est ce qu’a fait à date récente la Mission nommée par le recteur de l’Université de Montréal, Daniel Jutras. Les travaux de ce comité ont abouti à l’élaboration d’un énoncé de principes fort habile. Ce dernier, qui a été adopté à l’unanimité par l’assemblée universitaire, distingue très nettement les dossiers et les contextes : en même temps qu’il déclare qu’« aucun mot, aucun concept, aucune image, aucune œuvre ne sauraient être exclus a priori du débat et de l’examen critique dans le cadre de l’enseignement et de la recherche universitaires », le libellé rappelle que l’université « condamne les propos haineux et qu’en aucun cas, une personne tenant de tels propos ne peut se retrancher derrière ses libertés universitaires ou, de façon générale, sa liberté d’expression » (4). Il est également urgent de mettre en œuvre une pédagogie ciblant expressément les libertés publiques, la liberté académique et la liberté d’expression. C’est d’ailleurs une carence mise au jour par l’enquête de la Commission, qui révèle que 58% des professeurs interrogés « affirment ne pas savoir si leur établissement possède des documents officiels assurant la protection de la liberté universitaire » et que 85% des répondants étudiants « considèrent que les universités devraient déployer plus d’efforts pour faire connaître les dispositions sur la protection de la liberté universitaire ». Il reste donc beaucoup de travail à faire sur le plan de la diffusion de l’information intra muros. Heureusement, nos établissements ont déjà en leur possession les outils nécessaires à l’implantation de ce type d’apprentissage pratique (au moment de leur admission, nos étudiants doivent déjà compléter des tutoriels de sensibilisation au plagiat et aux violences sexuelles, par exemple).

    Enfin, il revient aux dirigeants de nos universités de s’assurer de mettre en place un climat propice à la réflexion et au dialogue sur des sujets parfois délicats, par exemple en se gardant d’insinuer que ceux qui défendent la liberté universitaire seraient de facto hostiles à la diversité et à l’équité, comme a pu le faire notre vice-recteur dans une lettre publiée dans La Presse en février dernier. Ça, déjà, ce serait un geste à la hauteur de la fonction.

    9. Quelle perception avez-vous de la forme qu’a pris la remise en cause des libertés académiques en France avec la polémique sur l’islamo-gauchisme initiée par deux membres du gouvernement – Blanquer et Vidal – et poursuivi avec le Manifeste des 100 ?

    Arnaud Bernadet. Un sentiment de profonde perplexité. La comparaison entre “l’islamo-gauchisme”, qui nous semble en grande partie un épouvantail agité par le pouvoir macroniste, et le “wokism” états-unien ou canadien - qui est une réalité complexe mais mesurable, dont on précisera les contours la semaine prochaine - se révèle aussi artificielle qu’infondée. Un tel rapprochement est même en soi très dangereux, et peut servir de nouveaux amalgames comme il apparaît nettement dans la lettre publiée hier par Jean-Michel Blanquer et Jean-François Roberge : “L’école pour la liberté, contre l’obscurantisme”. Déplions-la un instant. Les deux ministres de l’Éducation, de France et du Québec, ne sont pas officiellement en charge des dossiers universitaires (assurés par Frédérique Vidal et Danielle McCann). D’une même voix, Blanquer et Roberge condamnent - à juste titre - l’autodafé commis en 2019 dans plusieurs écoles du sud-ouest de l’Ontario sur des encyclopédies, des bandes-dessinées et des ouvrages de jeunesse qui portaient atteinte à l’image des premières nations. Or on a appris par la suite que l’instigatrice de cette purge littéraire, Suzie Kies, œuvrait comme conseillère au sein du Parti Libéral du Canada sur les questions autochtones. Elle révélait ainsi une évidente collusion avec le pouvoir fédéral. Inutile de dire par conséquent que l’intervention de nos deux ministres ressortit à une stratégie d’abord politique. En position fragile face à Ottawa, dont les mesures interventionnistes ne sont pas toujours compatibles avec son esprit d’indépendance, le Québec se cherche des appuis du côté de la France. Au nom de la “liberté d’expression”, la France tacle également Justin Trudeau, dont les positions modérées au moment de l’assassinat de Samuel Paty ont fortement déplu. Ce faisant, le Québec et la France se donnent aussi comme des sociétés alternatives, le Canada étant implicitement associé aux États-Unis dont il ne serait plus que la copie : un lieu où prospéreraient une “idéologie” et des “méthodes” - bannissement, censure, effacement de l’histoire - qui menaceraient le “respect” et l’esprit de “tolérance” auxquels s’adossent “nos démocraties”. Au lieu de quoi, non seulement “l’égalité” mais aussi la “laïcité” seraient garantes au Québec comme en France d’un “pacte” capable d’unir la “communauté” sur la base “de connaissances, de compétences et de principes fondés sur des valeurs universelles”, sans que celles-ci soient d’ailleurs clairement précisées. On ne peut s’empêcher toutefois de penser que les deux auteurs prennent le risque par ce biais de légitimer les guerres culturelles, issues au départ des universités états-uniennes, en les étendant aux rapports entre anglophones et francophones. Au reste, la cible déclarée du texte, qui privilégie plutôt l’allusion et se garde habilement de nommer, reste la “cancel culture” aux mains des “assassins de la mémoire”. On observera qu’il n’est nulle part question de “wokes”, de décolonialisme ou d’antiracisme par exemple. D’un “militantisme délétère” (mais lequel, exactement ?) on passe enfin aux dangers de la “radicalisation”, dans laquelle chacun mettra ce qu’il veut bien y entendre, des extrémismes politiques (national-populisme, alt-right, néo-nazisme, etc.) et des fondamentalismes religieux. Pour finir, la résistance aux formes actuelles de “l’obscurantisme” est l’occasion de revaloriser le rôle de l’éducation au sein des démocraties. Elle est aussi un moyen de renouer avec l’héritage rationaliste des Lumières. Mais les deux ministres retombent dans le piège civilisationniste, qui consiste à arrimer - sans sourciller devant la contradiction - les “valeurs universelles” à “nos sociétés occidentales”. Le marqueur identitaire “nos” est capital dans le texte. Il efface d’un même geste les peuples autochtones qui étaient mentionnés au début de l’article, comme s’ils ne faisaient pas partie, notamment pour le Québec, de cette “mémoire” que les deux auteurs appellent justement à défendre, ou comme s’ils étaient d’emblée assimilés et assimilables à cette vision occidentale ? De lui-même, l’article s’expose ici à la critique décoloniale, particulièrement répandue sur les campus nord-américains, celle-là même qu’il voudrait récuser. Qu’on en accepte ou non les prémisses, cette critique ne peut pas être non plus passée sous silence. Il faut s’y confronter. Car elle a au moins cette vertu de rappeler que l’héritage des Lumières ne va pas sans failles. On a le droit d’en rejeter les diverses formulations, mais il convient dans ce cas de les discuter. Car elles nous obligent à penser ensemble - et autrement - les termes du problème ici posé : universalité, communauté et diversité.

    10. La forme d’un « énoncé » encadrant la liberté académique et adopté par le parlement québécois vous semble-t-elle un bon compromis politique ? Pourquoi le soutenir plutôt qu’une loi ? Un énoncé national de référence, laissant chaque établissement en disposer librement, aura-t-il une véritable efficacité ?

    Isabelle Arseneau. Au moment de la rédaction de notre mémoire, les choses nous semblaient sans doute un peu moins urgentes que depuis la publication des résultats de la collecte d’informations réalisée par la Commission indépendante sur la reconnaissance de la liberté académique en contexte universitaire. Les chiffres publiés en septembre dernier confirment ce que nous avons remarqué sur le terrain et ce que suggéraient déjà les mémoires, les témoignages et les avis d’experts récoltés dans le cadre des travaux des commissaires : nous avons affaire à un problème significatif plutôt qu’à un épiphénomène surmédiatisé (comme on a pu l’entendre dire). Les résultats colligés reflètent cependant un phénomène encore plus généralisé que ce que l’on imaginait et d’une ampleur que, pour ma part, je sous-estimais.

    Dans le contexte d’une situation sérieuse mais non encore critique, l’idée d’un énoncé m’a donc toujours semblé plus séduisante (et modérée !) que celle d’une politique nationale, qui ouvrirait la porte à l’ingérence de l’État dans les affaires universitaires. Or que faire des universités qui ne font plus leurs devoirs ? L’« énoncé sur la liberté universitaire » de l’Université McGill, qui protège les chercheurs des « contraintes de la rectitude politique », ne nous a été d’aucune utilité à l’automne 2020. Comment contraindre notre institution à respecter les règles du jeu dont elle s’est elle-même dotée ? Nous osons croire qu’un énoncé national, le plus ouvert et le plus généreux possible, pourrait aider les établissements comme le nôtre à surmonter certaines difficultés internes. Mais nous sommes de plus en plus conscients qu’il faudra sans doute se doter un jour de mécanismes plus concrets qu’un énoncé non contraignant.

    Arnaud Bernadet. Nous avons eu de longues discussions à ce sujet, et elles ne sont probablement pas terminées. C’est un point de divergence entre nous. Bien entendu, on peut se ranger derrière la solution modérée comme on l’a d’abord fait. Malgré tout, je persiste à croire qu’une loi aurait plus de poids et d’efficience qu’un énoncé. L’intervention de l’État est nécessaire dans le cas présent, et me semble ici le contraire même de l’ingérence. Une démocratie digne de ce nom doit veiller à garantir les libertés publiques qui en sont au fondement. Or, en ce domaine, la liberté académique est précieuse. Ce qui a lieu sur les campus est exceptionnel, cela ne se passe nulle part ailleurs dans la société : la quête de la vérité, la dynamique contradictoire des points de vue, l’expression critique et l’émancipation des esprits. Je rappellerai qu’inscrire le principe de la liberté académique dans la loi est aussi le vœu exprimé par la Fédération Québécoise des Professeures et Professeurs d’Université. Actuellement, un tel principe figure plutôt au titre du droit contractuel, c’est-à-dire dans les conventions collectives des établissements québécois (quand celles-ci existent !) Une loi remettrait donc à niveau les universités de la province, elle préviendrait toute espèce d’inégalité de traitement d’une institution à l’autre. Elle comblerait la carence dont on parlait tout à l’heure, qui remonte à la Révolution tranquille. Elle renforcerait finalement l’autonomie des universités au lieu de la fragiliser. Ce serait aussi l’occasion pour le Québec de réaffirmer clairement ses prérogatives en matière éducative contre les ingérences - bien réelles celles-là - du pouvoir fédéral qui tend de plus en plus à imposer sa vision pancanadienne au mépris des particularités francophones. Enfin, ne nous leurrons pas : il n’y a aucune raison objective pour que les incidents qui se sont multipliés en Amérique du Nord depuis une dizaine d’années, et qui nourrissent de tous bords - on vient de le voir - de nombreux combats voire dérives idéologiques, cessent tout à coup. La loi doit pouvoir protéger les fonctions et les missions des universités québécoises, à ce jour de plus en plus perturbées.

    Entretien réalisé par écrit au mois d’octobre 2021

    Notes :

    1. Isabelle Hachey, « Le clientélisme, c’est ça » (La Presse, 22.02.2021)

    2. Jean-François Nadeau, « La censure contamine les milieux universitaires » (Le Devoir, 01.04.2017)

    3. Isabelle Arseneau et Arnaud Bernadet, « Universités : censure et liberté » (La Presse, 15.12.2020) ; « Les dérives éthiques de l’esprit gestionnaire » (La Presse, 29.02.2021) ; « Université McGill : une politique du déni » (La Presse, 26.02.2021).

    4. « Rapport de la Mission du recteur sur la liberté d’expression en contexte universitaire », juin 2021 : https://www.umontreal.ca/public/www/images/missiondurecteur/Rapport-Mission-juin2021.pdf

    https://blogs.mediapart.fr/pascal-maillard/blog/211021/liberte-academique-et-justice-sociale

    #ESR

    ping @karine4 @_kg_ @isskein

    –-

    ajouté à la métaliste autour du terme l’#islamo-gauchisme... mais aussi du #woke et du #wokisme, #cancel_culture, etc.
    https://seenthis.net/messages/943271

    • La liberté académique aux prises avec de nouvelles #menaces

      Colloques, séminaires, publications (Duclos et Fjeld, Frangville et alii) : depuis quelques années, et avec une accélération notoire ces derniers mois, le thème de la liberté académique est de plus en plus exploré comme objet scientifique. La liberté académique suscite d’autant plus l’intérêt des chercheurs qu’elle est aujourd’hui, en de nombreux endroits du monde, fragilisée.

      La création en 2021 par l’#Open_Society_University_Network (un partenariat entre la Central European University et le Bard College à New York) d’un #Observatoire_mondial_des_libertés_académiques atteste d’une inquiétante réalité. C’est en effet au moment où des libertés sont fragilisées qu’advient le besoin d’en analyser les fondements, d’en explorer les définitions, de les ériger en objets de recherche, mais aussi de mettre en œuvre un système de veille pour les protéger.

      S’il est évident que les #régimes_autoritaires sont par définition des ennemis des libertés académiques, ce qui arrive aujourd’hui dans des #pays_démocratiques témoigne de pratiques qui transcendent les frontières entre #régime_autoritaire et #régime_démocratique, frontières qui elles-mêmes tendent à se brouiller.

      La liberté académique menacée dans les pays autoritaires…

      S’appuyant sur une régulation par les pairs (la « communauté des compétents ») et une indépendance structurelle par rapport aux pouvoirs, la liberté de recherche, d’enseignement et d’opinion favorise la critique autant qu’elle en est l’expression et l’émanation. Elle est la condition d’une pensée féconde qui progresse par le débat, la confrontation d’idées, de paradigmes, d’axiomes, d’expériences.

      Cette liberté dérange en contextes autoritaires, où tout un répertoire d’actions s’offre aux gouvernements pour museler les académiques : outre l’emprisonnement pur et simple, dont sont victimes des collègues – on pense notamment à #Fariba_Adelkhah, prisonnière scientifique en #Iran ; à #Ahmadreza_Djalali, condamné à mort en Iran ; à #Ilham_Tohti, dont on est sans nouvelles depuis sa condamnation à perpétuité en# Chine, et à des dizaines d’autres académiques ouïghours disparus ou emprisonnés sans procès ; à #Iouri_Dmitriev, condamné à treize ans de détention en #Russie –, les régimes autoritaires mettent en œuvre #poursuites_judiciaires et #criminalisation, #licenciements_abusifs, #harcèlement, #surveillance et #intimidation.


      https://twitter.com/AnkyraWitch/status/1359630006993977348

      L’historien turc Candan Badem parlait en 2017 d’#académicide pour qualifier la vague de #répression qui s’abattait dans son pays sur les « universitaires pour la paix », criminalisés pour avoir signé une pétition pour la paix dans les régions kurdes. La notion de « #crime_contre_l’histoire », forgée par l’historien Antoon de Baets, a été reprise en 2021 par la FIDH et l’historien Grigori Vaïpan) pour qualifier les atteintes portées à l’histoire et aux historiens en Russie. Ce crime contre l’histoire en Russie s’amplifie avec les attaques récentes contre l’ONG #Memorial menacée de dissolution.

      En effet, loin d’être l’apanage des institutions académiques officielles, la liberté académique et de recherche, d’une grande rigueur, se déploie parfois de façon plus inventive et courageuse dans des structures de la #société_civile. En #Biélorussie, le sort de #Tatiana_Kuzina, comme celui d’#Artiom_Boyarski, jeune chimiste talentueux emprisonné pour avoir refusé publiquement une bourse du nom du président Loukachenko, ne sont que deux exemples parmi des dizaines et des dizaines de chercheurs menacés, dont une grande partie a déjà pris le chemin de l’exil depuis l’intensification des répressions après les élections d’août 2020 et la mobilisation qui s’en est suivie.

      La liste ci-dessus n’est bien sûr pas exhaustive, les cas étant nombreux dans bien des pays – on pense, par exemple, à celui de #Saïd_Djabelkhir en #Algérie.

      … mais aussi dans les #démocraties

      Les #régressions que l’on observe au sein même de l’Union européenne – le cas du déménagement forcé de la #Central_European_University de Budapest vers Vienne, sous la pression du gouvernement de Viktor Orban, en est un exemple criant – montrent que les dérives anti-démocratiques se déclinent dans le champ académique, après que d’autres libertés – liberté de la presse, autonomie de la société civile – ont été atteintes.

      Les pays considérés comme démocratiques ne sont pas épargnés non plus par les tentatives des autorités politiques de peser sur les recherches académiques. Récemment, en #France, les ministres de l’Éducation nationale et de l’Enseignement supérieur ont affirmé que le monde académique serait « ravagé par l’#islamo-gauchisme » et irrespectueux des « #valeurs_de_la_République » – des attaques qui ont provoqué un concert de protestations au sein de la communauté des chercheurs. En France toujours, de nombreux historiens se sont mobilisés en 2020 contre les modalités d’application d’une instruction interministérielle restreignant l’accès à des fonds d’#archives sur l’#histoire_coloniale, en contradiction avec une loi de 2008.


      https://twitter.com/VivementLundi/status/1355564397314387972

      Au #Danemark, en juin 2021, plus de 260 universitaires spécialistes des questions migratoires et de genre rapportaient quant à eux dans un communiqué public les intimidations croissantes subies pour leurs recherches qualifiées de « #gauchisme_identitaire » et de « #pseudo-science » par des députés les accusant de « déguiser la politique en science ».

      D’autres offensives peuvent être menées de façon plus sournoise, à la faveur de #politiques_néolibérales assumées et de mise en #concurrence des universités et donc du champ du savoir et de la pensée. La conjonction de #logiques_libérales sur le plan économique et autoritaires sur le plan politique conduit à la multiplication de politiques souvent largement assumées par les États eux-mêmes : accréditations sélectives, retrait de #financements à des universités ou à certains programmes – les objets plus récents et fragiles comme les #études_de_genre ou études sur les #migrations se trouvant souvent en première ligne.

      Ce brouillage entre régimes politiques, conjugué à la #marchandisation_du_savoir, trouve également à s’incarner dans la façon dont des acteurs issus de régimes autoritaires viennent s’installer au sein du monde démocratique : c’est le cas notamment de la Chine avec l’implantation d’#Instituts_Confucius au cœur même des universités, qui conduisent, dans certains cas, à des logiques d’#autocensure ; ou de l’afflux d’étudiants fortunés en provenance de pays autoritaires, qui par leurs frais d’inscriptions très élevés renflouent les caisses d’universités désargentées, comme en Australie.

      Ces logiques de #dépendance_financière obèrent l’essence et la condition même de la #recherche_académique : son #indépendance. Plus généralement, la #marchandisation de l’#enseignement_supérieur, conséquence de son #sous-financement public, menace l’#intégrité_scientifique de chercheurs et d’universités de plus en plus poussées à se tourner vers des fonds privés.

      La mobilisation de la communauté universitaire

      Il y a donc là une combinaison d’attaques protéiformes, à l’aune des changements politiques, technologiques, économiques et financiers qui modifient en profondeur les modalités du travail. La mise en place de programmes de solidarité à destination de chercheurs en danger (#PAUSE, #bourses_Philipp_Schwartz en Allemagne, #bourses de solidarité à l’Université libre de Bruxelles), l’existence d’organisations visant à documenter les attaques exercées sur des chercheurs #Scholars_at_Risk, #International_Rescue_Fund, #CARA et la création de ce tout nouvel observatoire mondial des libertés académiques évoqué plus haut montrent que la communauté académique a pris conscience du danger. Puissent du fond de sa prison résonner les mots de l’historien Iouri Dmitriev : « Les libertés académiques, jamais, ne deviendront une notion abstraite. »

      https://theconversation.com/la-liberte-academique-aux-prises-avec-de-nouvelles-menaces-171682

    • « #Wokisme » : un « #front_républicain » contre l’éveil aux #injustices

      CHRONIQUE DE LA #BATAILLE_CULTURELLE. L’usage du mot « wokisme » vise à disqualifier son adversaire, mais aussi à entretenir un #déni : l’absence de volonté politique à prendre au sérieux les demandes d’#égalité, de #justice, de respect des #droits_humains.

      Invoqué ad nauseam, le « wokisme » a fait irruption dans un débat public déjà singulièrement dégradé. Il a fait florès à l’ère du buzz et des clashs, rejoignant l’« #islamogauchisme » au registre de ces fameux mots fourre-tout dont la principale fonction est de dénigrer et disqualifier son adversaire, tout en réduisant les maux de la société à quelques syllabes magiques. Sur la scène politique et intellectuelle, le « wokisme » a même réussi là où la menace de l’#extrême_droite a échoué : la formation d’un « front républicain ». Mais pas n’importe quel front républicain…

      Formellement, les racines du « wokisme » renvoient à l’idée d’« #éveil » aux #injustices, aux #inégalités et autres #discriminations subies par les minorités, qu’elles soient sexuelles, ethniques ou religieuses. Comment cet « éveil » a-t-il mué en une sorte d’#injure_publique constitutive d’une #menace existentielle pour la République ?

      Si le terme « woke » est historiquement lié à la lutte des #Afro-Américains pour les #droits_civiques, il se trouve désormais au cœur de mobilisations d’une jeunesse militante animée par les causes féministes et antiracistes. Ces mobilisations traduisent en acte l’#intersectionnalité théorisée par #Kimberlé_Williams_Crenshaw*, mais le recours à certains procédés ou techniques est perçu comme une atteinte à la #liberté_d’expression (avec les appels à la #censure d’une œuvre, à l’annulation d’une exposition ou d’une représentation, au déboulonnage d’une statue, etc.) ou à l’égalité (avec les « réunions non mixtes choisies et temporaires » restreignant l’accès à celles-ci à certaines catégories de personnes partageant un même problème, une même discrimination). Le débat autour de ces pratiques est complexe et légitime. Mais parler en France du développement d’une « cancel culture » qu’elles sont censées symboliser est abusif, tant elles demeurent extrêmement marginales dans les sphères universitaires et artistiques. Leur nombre comme leur diffusion sont inversement proportionnels à leur écho politico-médiatique. D’où provient ce contraste ou décalage ?

      Une rupture du contrat social

      En réalité, au-delà de la critique/condamnation du phénomène « woke », la crispation radicale qu’il suscite dans l’hexagone puise ses racines dans une absence de volonté politique à prendre au sérieux les demandes d’égalité, de justice, de respect des droits humains. Un défaut d’écoute et de volonté qui se nourrit lui-même d’un mécanisme de déni, à savoir un mécanisme de défense face à une réalité insupportable, difficile à assumer intellectuellement et politiquement.

      D’un côté, une série de rapports publics et d’études universitaires** pointent la prégnance des inégalités et des discriminations à l’embauche, au logement, au contrôle policier ou même à l’école. Non seulement les discriminations sapent le sentiment d’appartenance à la communauté nationale, mais la reproduction des inégalités est en partie liée à la reproduction des discriminations.

      De l’autre, le déni et l’#inaction perdurent face à ces problèmes systémiques. Il n’existe pas de véritable politique publique de lutte contre les discriminations à l’échelle nationale. L’État n’a pas engagé de programme spécifique qui ciblerait des axes prioritaires et se déclinerait aux différents niveaux de l’action publique.

      L’appel à l’« éveil » est un appel à la prise de conscience d’une rupture consommée de notre contrat social. La réalité implacable d’inégalités et de discriminations criantes nourrit en effet une #citoyenneté à plusieurs vitesses qui contredit les termes du récit/#pacte_républicain, celui d’une promesse d’égalité et d’#émancipation.

      Que l’objet si mal identifié que représente le « wokisme » soit fustigé par la droite et l’extrême-droite n’a rien de surprenant : la lutte contre les #logiques_de_domination ne fait partie ni de leur corpus idéologique ni de leur agenda programmatique. En revanche, il est plus significatif qu’une large partie de la gauche se détourne des questions de l’égalité et de la #lutte_contre_les_discriminations, pour mieux se mobiliser contre tout ce qui peut apparaître comme une menace contre un « #universalisme_républicain » aussi abstrait que déconnecté des réalités vécues par cette jeunesse française engagée en faveur de ces causes.

      Les polémiques autour du « wokisme » contribuent ainsi à forger cet arc politique et intellectuel qui atteste la convergence, voire la jonction de deux blocs conservateurs, « de droite » et « de gauche », unis dans un même « front républicain », dans un même déni des maux d’une société d’inégaux.

      https://www.nouvelobs.com/idees/20210928.OBS49202/wokisme-un-front-republicain-contre-l-eveil-aux-injustices.html

      #récit_républicain

    • « Le mot “#woke” a été transformé en instrument d’occultation des discriminations raciales »

      Pour le sociologue #Alain_Policar, le « wokisme » désigne désormais péjorativement ceux qui sont engagés dans des courants politiques qui se réclament pourtant de l’approfondissement des principes démocratiques.

      Faut-il rompre avec le principe de « #color_blindness » (« indifférence à la couleur ») au fondement de l’#égalitarisme_libéral ? Ce principe, rappelons-le, accompagne la philosophie individualiste et contractualiste à laquelle adhèrent les #démocraties. Or, en prenant en considération des pratiques par lesquelles des catégories fondées sur des étiquettes « raciales » subsistent dans les sociétés postcolonialistes, on affirme l’existence d’un ordre politico-juridique au sein duquel la « #race » reste un principe de vision et de division du monde social.

      Comme l’écrit #Stéphane_Troussel, président du conseil départemental de Seine-Saint-Denis, « la République a un problème avec le #corps des individus, elle ne sait que faire de ces #différences_physiques, de ces couleurs multiples, de ces #orientations diverses, parce qu’elle a affirmé que pour traiter chacun et chacune également elle devait être #aveugle » ( Le Monde du 7 avril).

      Dès lors, ignorer cette #réalité, rester indifférent à la #couleur, n’est-ce pas consentir à la perpétuation des injustices ? C’est ce consentement qui s’exprime dans l’opération idéologique d’appropriation d’un mot, « woke », pour le transformer en instrument d’occultation de la réalité des discriminations fondées sur la couleur de peau. Désormais le wokisme désigne péjorativement ceux qui sont engagés dans les luttes antiracistes, féministes, LGBT ou même écologistes. Il ne se caractérise pas par son contenu, mais par sa fonction, à savoir, selon un article récent de l’agrégé de philosophie Valentin Denis sur le site AOC , « stigmatiser des courants politiques souvent incommensurables tout en évitant de se demander ce qu’ils ont à dire . Ces courants politiques, pourtant, ne réclament-ils pas en définitive l’approfondissement des #principes_démocratiques ?

      Une #justice_corrective

      Parmi les moyens de cet approfondissement, l’ affirmative action (« #action_compensatoire »), en tant qu’expression d’une justice corrective fondée sur la #reconnaissance des #torts subis par le passé et, bien souvent, qui restent encore vifs dans le présent, est suspectée de substituer le #multiculturalisme_normatif au #modèle_républicain d’#intégration. Ces mesures correctives seraient, lit-on souvent, une remise en cause radicale du #mérite_individuel. Mais cet argument est extrêmement faible : est-il cohérent d’invoquer la #justice_sociale (dont les antiwokedisent se préoccuper) et, en même temps, de valoriser le #mérite ? L’appréciation de celui-ci n’est-elle pas liée à l’#utilité_sociale accordée à un ensemble de #performances dont la réalisation dépend d’#atouts (en particulier, un milieu familial favorable) distribués de façon moralement arbitraire ? La justice sociale exige, en réalité, que ce qui dépend des circonstances, et non des choix, soit compensé.

      Percevoir et dénoncer les mécanismes qui maintiennent les hiérarchies héritées de l’#ordre_colonial constitue l’étape nécessaire à la reconnaissance du lien entre cet ordre et la persistance d’un #racisme_quotidien. Il est important (même si le concept de « #racisme_systémique », appliqué à nos sociétés contemporaines, est décrit comme une « fable » par certains auteurs, égarés par les passions idéologiques qu’ils dénoncent chez leurs adversaires) d’admettre l’idée que, même si les agents sont dépourvus de #préjugés_racistes, la discrimination fonctionne. En quelque sorte, on peut avoir du #racisme_sans_racistes, comme l’a montré Eduardo Bonilla-Silva dans son livre de 2003, Racism without Racists [Rowman & Littlefield Publishers, non traduit] . Cet auteur avait, en 1997, publié un article canonique sur le #racisme_institutionnel dans lequel il rejetait, en se réclamant du psychiatre et essayiste Frantz Fanon [1925-1961], les approches du racisme « comme une #bizarrerie_mentale, comme une #faille_psychologique » .

      Le reflet de pratiques structurelles

      En fait, les institutions peuvent être racialement oppressives, même sans qu’aucun individu ou aucun groupe ne puisse être tenu pour responsable du tort subi. Cette importante idée avait déjà été exprimée par William E. B. Du Bois dans Pénombre de l’aube. Essai d’autobiographie d’un concept de race (1940, traduit chez Vendémiaire, 2020), ouvrage dans lequel il décrivait le racisme comme un #ordre_structurel, intériorisé par les individus et ne dépendant pas seulement de la mauvaise volonté de quelques-uns. On a pu reprocher à ces analyses d’essentialiser les Blancs, de leur attribuer une sorte de #racisme_ontologique, alors qu’elles mettent au jour les #préjugés produits par l’ignorance ou le déni historique.

      On comprend, par conséquent, qu’il est essentiel de ne pas confondre, d’une part, l’expression des #émotions, de la #colère, du #ressentiment, et, d’autre part, les discriminations, par exemple à l’embauche ou au logement, lesquelles sont le reflet de #pratiques_structurelles concrètes. Le racisme est avant tout un rapport social, un #système_de_domination qui s’exerce sur des groupes racisés par le groupe racisant. Il doit être appréhendé du point de vue de ses effets sur l’ensemble de la société, et non seulement à travers ses expressions les plus violentes.

      #Alexis_de_Tocqueville avait parfaitement décrit cette réalité [dans De la démocratie en Amérique, 1835 et 1840] en évoquant la nécessaire destruction, une fois l’esclavage aboli, de trois préjugés, qu’il disait être « bien plus insaisissables et plus tenaces que lui : le préjugé du maître, le préjugé de race, et enfin le préjugé du Blanc . Et il ajoutait : « J’aperçois l’#esclavage qui recule ; le préjugé qu’il a fait naître est immobile. » Ce #préjugé_de_race était, écrivait-il encore, « plus fort dans les Etats qui ont aboli l’esclavage que dans ceux où il existe encore, et nulle part il ne se montre aussi intolérant que dans les Etats où la servitude a toujours été inconnue . Tocqueville serait-il un militant woke ?

      Note(s) :

      Alain Policar est sociologue au Centre de recherches politiques de Sciences Po (Cevipof). Dernier livre paru : « L’Universalisme en procès » (Le Bord de l’eau, 160p., 16 euros)

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/12/28/alain-policar-le-mot-woke-a-ete-transforme-en-instrument-d-occultation-des-d

      #WEB_Du_Bois

      signalé par @colporteur ici :
      https://seenthis.net/messages/941602

    • L’agitation de la chimère « wokisme » ou l’empêchement du débat

      Wokisme est un néologisme malin : employé comme nom, il suggère l’existence d’un mouvement homogène et cohérent, constitué autour d’une prétendue « idéologie woke ». Ou comment stigmatiser des courants politiques progressistes pour mieux détourner le regard des discriminations que ceux-ci dénoncent. D’un point de vue rhétorique, le terme produit une version totalement caricaturée d’un adversaire fantasmé.

      (#paywall)
      https://aoc.media/opinion/2021/11/25/lagitation-de-la-chimere-wokisme-ou-lempechement-du-debat

    • Europe’s War on Woke

      Why elites across the Atlantic are freaking out about the concept of structural racism.

      On my 32nd birthday, I agreed to appear on Répliques, a popular show on the France Culture radio channel hosted by the illustrious Alain Finkielkraut. Now 72 and a household name in France, Finkielkraut is a public intellectual of the variety that exists only on the Left Bank: a child of 1968 who now wears Loro Piana blazers and rails against “la cancel culture.” The other guest that day—January 9, less than 72 hours after the US Capitol insurrection—was Pascal Bruckner, 72, another well-known French writer who’d just published “The Almost Perfect Culprit: The Construction of the White Scapegoat,” his latest of many essays on this theme. Happy birthday to me.

      The topic of our discussion was the only one that interested the French elite in January 2021: not the raging pandemic but “the Franco-American divide,” the Huntington-esque clash of two apparently great civilizations and their respective social models—one “universalist,” one “communitarian”—on the question of race and identity politics. To Finkielkraut, Bruckner, and the establishment they still represent, American writers like me seek to impose a “woke” agenda on an otherwise harmonious, egalitarian society. Americans who argue for social justice are guilty of “cultural imperialism,” of ideological projection—even of bad faith.

      This has become a refrain not merely in France but across Europe. To be sure, the terms of this social-media-fueled debate are unmistakably American; “woke” and “cancel culture” could emerge from no other context. But in the United States, these terms have a particular valence that mostly has to do with the push for racial equality and against systemic racism. In Europe, what is labeled “woke” is often whatever social movement a particular country’s establishment fears the most. This turns out to be an ideal way of discrediting those movements: To call them “woke” is to call them American, and to call them American is to say they don’t apply to Europe.

      In France, “wokeism” came to the fore in response to a recent slew of terror attacks, most notably the gruesome beheading in October 2020 of the schoolteacher Samuel Paty. After years of similar Islamist attacks—notably the massacre at the offices of the newspaper Charlie Hebdo in January 2015 and the ISIS-inspired assaults on the Hypercacher kosher supermarket and the Bataclan concert hall in November 2015—the reaction in France reached a tipping point. Emmanuel Macron’s government had already launched a campaign against what it calls “Islamist separatism,” but Paty’s killing saw a conversation about understandable trauma degenerate into public hysteria. The government launched a full-scale culture war, fomenting its own American-style psychodrama while purporting to do the opposite. Soon its ministers began railing against “islamo-gauchisme” (Islamo-leftism) in universities, Muslim mothers in hijabs chaperoning school field trips, and halal meats in supermarkets.

      But most of all, they began railing against the ideas that, in their view, somehow augmented and abetted these divisions: American-inspired anti-racism and “wokeness.” Macron said it himself in a speech that was widely praised by the French establishment for its alleged nuance: “We have left the intellectual debate to others, to those outside of the Republic, by ideologizing it, sometimes yielding to other academic traditions…. I see certain social science theories entirely imported from the United States.” In October, the French government inaugurated a think tank, the Laboratoire de la République, designed to combat these “woke” theories, which, according to the think tank’s founder, Jean-Michel Blanquer, Macron’s education minister, “led to the rise of Donald Trump.”

      As the apparent emissaries of this pernicious “Anglo-Saxon” identitarian agenda, US journalists covering this moment in France have come under the spotlight, especially when we ask, for instance, what islamo-gauchisme actually means—if indeed it means anything at all. Macron himself has lashed out at foreign journalists, even sending a letter to the editor of the Financial Times rebutting what he saw as an error-ridden op-ed that took a stance he could not bear. “I will not allow anybody to claim that France, or its government, is fostering racism against Muslims,” he wrote. Hence my own invitation to appear on France Culture, a kind of voir dire before the entire nation.

      Finkielkraut began the segment with a tirade against The New York Times and then began discussing US “campus culture,” mentioning Yale’s Tim Barringer and an art history syllabus that no longer includes as many “dead white males.” Eventually I asked how, three days after January 6, we could discuss the United States without mentioning the violent insurrection that had just taken place at the seat of American democracy. Finkielkraut became agitated. “And for you also, [what about] the fact that in the American Congress, Emanuel Cleaver, representative of Missouri, presiding over a new inauguration ceremony, finished by saying the words ‘amen and a-women’?” he asked. “Ça vous dérangez pas?” I said it didn’t bother me in the least, and he got even more agitated. “I don’t understand what you say, James McAuley, because cancel culture exists! It exists!”

      The man knew what he was talking about: Three days after our conversation, Finkielkraut was dropped from a regular gig at France’s LCI television for defending his old pal Olivier Duhamel of Sciences Po, who was embroiled in a pedophilia scandal that had taken France by storm. Duhamel was accused by his stepdaughter, Camille Kouchener, of raping her twin brother when the two were in their early teens. Finkielkraut speculated that there may have been consent between the two parties, and, in any case, a 14-year-old was “not the same thing” as a child.

      I tell this story because it is a useful encapsulation of France’s—and Europe’s—war on woke, a conflict that has assumed various forms in different national contexts but that still grips the continent. On one level, there is a certain comedy to it: The self-professed classical liberal turns out to be an apologist for child molestation. In fact, the anti-woke comedy is now quite literally being written and directed by actual comedians who, on this one issue, seem incapable of anything but earnestness. John Cleese, 81, the face of Monty Python and a public supporter of Brexit, has announced that he will be directing a forthcoming documentary series on Britain’s Channel 4 titled Cancel Me, which will feature extensive interviews with people who have been “canceled”—although no one connected with the show has specified what exactly the word means.

      Indeed, the terms of this debate are an insult to collective intelligence. But if we must use them, we need to understand an important distinction between what is called “cancel culture” and what is called “woke.” The former has been around much longer and refers to tactics that are used across the political spectrum, but historically by those on the right. “Cancel culture” is not the result of an increased awareness of racial disparities or a greater commitment to social justice broadly conceived—both of which are more urgent than ever—but rather a terrible and inevitable consequence of life with the Internet. Hardly anyone can support “cancel culture” in good faith, and yet it is never sufficiently condemned, because people call out such tactics only when their political opponents use them, never when their allies do. “Woke,” on the other hand, does not necessarily imply public shaming; it merely signifies a shift in perspective and perhaps a change in behavior. Carelessly equating the two is a convenient way to brand social justice activism as inherently illiberal—and to silence long-overdue conversations about race and inequality that far too many otherwise reasonable people find personally threatening.

      But Europe is not America, and in Europe there have been far fewer incidents that could be construed as “cancellations”—again, I feel stupid even using the word—than in the United States. “Wokeism” is really a phenomenon of the Anglosphere, and with the exception of the United Kingdom, the social justice movement has gained far less traction in Europe than it has in US cultural institutions—newspapers, universities, museums, and foundations. In terms of race and identity, many European cultural institutions would have been seen as woefully behind the times by their US counterparts even before the so-called “great awokening.” Yet Europe has gone fully anti-woke, even without much wokeness to fight.

      So much of Europe’s anti-woke movement has focused on opposing and attempting to refute allegations of “institutional” or “structural” racism. Yet despite the 20th-century continental origins of structuralism (especially in France) as a mode of social analysis—not to mention the Francophone writers who have shaped the way American thinkers conceive of race—many European elites dismiss these critiques as unwelcome intrusions into the public discourse that project the preoccupations of a nation built on slavery (and thus understandably obsessed with race) onto societies that are vastly different. Europe, they insist, has a different history, one in which race—especially in the form of the simple binary opposition of Black and white—plays a less central role. There is, of course, some truth to this rejoinder: Different countries do indeed have different histories and different debates. But when Europeans accuse their American critics of projection, they do so not to point out the very real divergences in the US and European discussions and even conceptions of race and racism. Rather, the charge is typically meant to stifle the discussion altogether—even when that discussion is being led by European citizens describing their own lived experiences.

      France, where I reside, proudly sees itself as a “universalist” republic of equal citizens that officially recognizes no differences among them. Indeed, since 1978, it has been illegal to collect statistics on race, ethnicity, or religion—a policy that is largely a response to what happened during the Second World War, when authorities singled out Jewish citizens to be deported to Nazi concentration camps. The French view is that such categories should play no role in public life, that the only community that counts is the national community. To be anti-woke, then, is to be seen as a discerning thinker, one who can rise above crude, reductive identity categories.

      The reality of daily life in France is anything but universalist. The French state does indeed make racial distinctions among citizens, particularly in the realm of policing. The prevalence of police identity checks in France, which stem from a 1993 law intended to curb illegal immigration, is a perennial source of controversy. They disproportionately target Black and Arab men, which is one reason the killing of George Floyd resonated so strongly here. Last summer I spoke to Jacques Toubon, a former conservative politician who was then serving as the French government’s civil liberties ombudsman (he is now retired). Toubon was honest in his assessment: “Our thesis, our values, our rules—constitutional, etc.—they are universalist,” he said. “They do not recognize difference. But there is a tension between this and the reality.”

      One of the most jarring examples of this tension came in November 2020, when Sarah El Haïry, Macron’s youth minister, traveled to Poitiers to discuss the question of religion in society at a local high school. By and large, the students—many of whom were people of color—asked very thoughtful questions. One of them, Emilie, 16, said that she didn’t see the recognition of religious or ethnic differences as divisive. “Just because you are a Christian or a Muslim does not represent a threat to society,” she said. “For me, diversity is an opportunity.” These and similar remarks did not sit well with El Haïry, who nonetheless kept her cool until another student asked about police brutality. At that point, El Haïry got up from her chair and interrupted the student. “You have to love the police, because they are there to protect us on a daily basis,” she said. “They cannot be racist because they are republican!”

      For El Haïry, to question such assumptions would be to question something foundational and profound about the way France understands itself. The problem is that more and more French citizens are doing just that, especially young people like the students in Poitiers, and the government seems utterly incapable of responding.

      Although there is no official data to this effect—again, because of universalist ideology—France is estimated to be the most ethnically diverse society in Western Europe. It is home to large North African, West African, Southeast Asian, and Caribbean populations, and it has the largest Muslim and Jewish communities on the continent. By any objective measure, that makes France a multicultural society—but this reality apparently cannot be admitted or understood.

      Macron, who has done far more than any previous French president to recognize the lived experiences and historical traumas of various minority groups, seems to be aware of this blind spot, but he stops short of acknowledging it. Earlier this year, I attended a roundtable discussion with Macron and a small group of other Anglophone correspondents. One thing he said during that interview has stuck with me: “Universalism is not, in my eyes, a doctrine of assimilation—not at all. It is not the negation of differences…. I believe in plurality in universalism, but that is to say, whatever our differences, our citizenship makes us build a universal together.” This is simply the definition of a multicultural society, an outline of the Anglo-Saxon social model otherwise so despised in France.

      Europe’s reaction to the brutal killing of George Floyd in may 2020 was fascinating to observe. The initial shock at the terrifyingly mundane horrors of US life quickly gave way to protest movements that decried police brutality and the unaddressed legacy of Europe’s colonial past. This was when the question of structural racism entered the conversation. In Britain, Prime Minister Boris Johnson responded to the massive protests throughout the country by establishing the Commission on Race and Ethnic Disparities, an independent group charged with investigating the reality of discrimination and coming up with proposals for rectifying racial disparities in public institutions. The commission’s report, published in April 2021, heralded Britain as “a model for other White-majority countries” on racial issues and devoted three pages to the problems with the language of “structural racism.”

      One big problem with this language, the report implied, is that “structural racism” is a feeling, and feelings are not facts. “References to ‘systemic’, ‘institutional’ or ‘structural racism’ may relate to specific processes which can be identified, but they can also relate to the feeling described by many ethnic minorities of ‘not belonging,’” the report said. “There is certainly a class of actions, behaviours and incidents at the organisational level which cause ethnic minorities to lack a sense of belonging. This is often informally expressed as feeling ‘othered.’” But even that modest concession was immediately qualified. “However, as with hate incidents, this can have a highly subjective dimension for those tasked with investigating the claim.” Finally, the report concluded, the terms in question were inherently extreme. “Terms like ‘structural racism’ have roots in a critique of capitalism, which states that racism is inextricably linked to capitalism. So by that definition, until that system is abolished racism will flourish.”

      The effect of these language games is simply to limit the terms available to describe a phenomenon that indeed exists. Because structural racism is not some progressive shibboleth: It kills people, which need not be controversial or even political to admit. For one recent example in the UK, look no further than Covid-19 deaths. The nation’s Office for National Statistics concluded that Black citizens were more than four times as likely to die of Covid as white citizens, while British citizens of Bangladeshi and Pakistani heritage were more than three times as likely to die. These disparities were present even among health workers directly employed by the state: Of the National Health Service clinical staff who succumbed to the virus, a staggering 60 percent were “BAME”—Black, Asian, or minority ethnic, a term that the government’s report deemed “no longer helpful” and “demeaning.” Beyond Covid-19, reports show that Black British women are more than four times as likely to die in pregnancy or childbirth as their white counterparts; British women of an Asian ethnic background die at twice the rate of white women.

      In the countries of Europe as in the United States, the battle over “woke” ideas is also a battle over each nation’s history—how it is written, how it is taught, how it is understood.

      Perhaps nowhere is this more acutely felt than in Britain, where the inescapable legacy of empire has become the center of an increasingly acrimonious public debate. Of particular note has been the furor over how to think about Winston Churchill, who remains something of a national avatar. In September, the Winston Churchill Memorial Trust renamed itself the Churchill Fellowship, removed certain pictures of the former prime minister from its website, and seemed to distance itself from its namesake. “Many of his views on race are widely seen as unacceptable today, a view that we share,” the Churchill Fellowship declared. This followed the November 2020 decision by Britain’s beloved National Trust, which operates an extensive network of stately homes throughout the country, to demarcate about 100 properties with explicit ties to slavery and colonialism.

      These moves elicited the ire of many conservatives, including the prime minister. “We need to focus on addressing the present and not attempt to rewrite the past and get sucked into the never-ending debate about which well-known historical figures are sufficiently pure or politically correct to remain in public view,” Johnson’s spokesman said in response to the Churchill brouhaha. But for Hilary McGrady, the head of the National Trust, “the genie is out of the bottle in terms of people wanting to understand where wealth came from,” she told London’s Evening Standard. McGrady justified the trust’s decision by saying that as public sensibilities change, so too must institutions. “One thing that possibly has changed is there may be things people find offensive, and we have to be sensitive about that.”

      A fierce countermovement to these institutional changes has already emerged. In the words of David Abulafia, 71, an acclaimed historian of the Mediterranean at Cambridge University and one of the principal architects of this countermovement, “We can never surrender to the woke witch hunt against our island story.”

      This was the actual title of an op-ed by Abulafia that the Daily Mail published in early September, which attacked “today’s woke zealots” who “exploit history as an instrument of propaganda—and as a means of bullying the rest of us.” The piece also announced the History Reclaimed initiative, of which Abulafia is a cofounder: a new online platform run by a board of frustrated British historians who seek to “provide context, explanation and balance in a debate in which condemnation is too often preferred to understanding.” As a historian myself, I should say that I greatly admire Abulafia’s work, particularly its wide-ranging synthesis and its literary quality, neither of which is easy to achieve and both of which have been models for me in my own work. Which is why I was surprised to find a piece by him in the Daily Mail, a right-wing tabloid not exactly known for academic rigor. When I spoke with Abulafia about it, he seemed a little embarrassed. “It’s basically an interview that they turn into text and then send back to you,” he told me. “Some of the sentences have been generated by the Daily Mail.”

      As in the United States, the UK’s Black Lives Matter protests led to the toppling of statues, including the one in downtown Bristol of Edward Colston, a 17th-century merchant whose wealth derived in part from his active involvement in the slave trade. Abulafia told me he prefers a “retain and explain” approach, which means keeping such statues in place but adding context to them when necessary. I asked him about the public presentation of statues and whether by their very prominence they command an implicit honor and respect. He seemed unconvinced. “You look at statues and you’re not particularly aware of what they show,” he said.

      “What do you do about Simon de Montfort?” Abulafia continued. “He is commemorated at Parliament, and he did manage to rein in the power of monarchy. But he was also responsible for some horrific pogroms against the Jews. Everyone has a different perspective on these people. It seems to me that what we have to say is that human beings are complex; we often have contradictory ideas, mishmash that goes in any number of different directions. Churchill defeated the Nazis, but lower down the page one might mention that he held views on race that are not our own. Maintaining that sense of proportion is important.”

      All of these are reasonable points, but what I still don’t understand is why history as it was understood by a previous generation must be the history understood by future generations. Statues are not history; they are interpretations of history created at a certain moment in time. Historians rebuke previous interpretations of the past on the page all the time; we rewrite accounts of well-known events according to our own contemporary perspectives and biases. What is so sacred about a statue?

      I asked Abulafia why all of this felt so personal to him, because it doesn’t feel that way to me. He replied, “I think there’s an element of this: There is a feeling that younger scholars might be disadvantaged if they don’t support particular views of the past. I can think of examples of younger scholars who’ve been very careful on this issue, who are not really taking sides on that issue.” But I am exactly such a younger scholar, and no one has ever forced me to uphold a certain opinion, either at Harvard or at Oxford. For Abulafia, however, this is a terrifying moment. “One of the things that really worries me about this whole business is the lack of opportunities for debate.”

      Whatever one thinks of “woke” purity tests, it cannot be argued in good faith that the loudest European voices on the anti-woke side of the argument are really interested in “debate.” In France especially, the anti-woke moment has become particularly toxic because its culture warriors—on both the right and the left—have succeeded in associating “le wokeisme” with defenses of Islamist terrorism. Without question, France has faced the brunt of terrorist violence in Europe in recent years: Since 2015, more than 260 people have been killed in a series of attacks, shaking the confidence of all of us who live here. The worst year was 2015, flanked as it was by the Charlie Hebdo and Bataclan concert hall attacks. But something changed after Paty’s brutal murder in 2020. After a long, miserable year of Covid lockdowns, the French elite—politicians and press alike—began looking for something to blame. And so “wokeness” was denounced as an apology for terrorist violence; in the view of the French establishment, to emphasize identity politics was to sow the social fractures that led to Paty’s beheading. “Wokeness” became complicit in the crime, while freedom of expression was reserved for supporters of the French establishment.

      The irony is fairly clear: Those who purported to detest American psychodramas about race and social justice had to rely on—and, in fact, to import—the tools of an American culture war to battle what they felt threatened by in their own country. In the case of Paty’s murder and its aftermath, there was another glaring irony, this time about the values so allegedly dear to the anti-woke contingent. The middle school teacher, who was targeted by a Chechen asylum seeker because he had shown cartoons of the prophet Muhammad as part of a civics lesson about free speech, was immediately lionized as an avatar for the freedom of expression, which the French government quite rightly championed as a value it would always protect. “I will always defend in my country the freedom to speak, to write, to think, to draw,” Macron told Al Jazeera shortly after Paty’s killing. This would have been reassuring had it not been completely disingenuous: Shortly thereafter, Macron presided over a crackdown on “islamo-gauchisme” in French universities, a term his ministers used with an entirely straight face. If there is a single paradox that describes French cultural life in 2021, it is this: “Islamophobia” is a word one is supposed to avoid, but “Islamo-leftism” is a phenomenon one is expected to condemn.

      Hundreds of academics—including at the Centre National de la Recherche Scientifique, France’s most prestigious research body—attacked the government’s crusade against an undefined set of ideas that were somehow complicit in the Islamist terror attacks that had rocked the country. Newspapers like Le Monde came out against the targeting of “islamo-gauchisme,” and there were weeks of tedious newspaper polemics about whether the term harks back to the “Judeo-Bolshevism” of the 1930s (of course it does) or whether it describes a real phenomenon. In any case, the Macron government backtracked in the face of prolonged ridicule. But the trauma of the terror attacks and the emotional hysteria they unleashed will linger: France has also reconfigured its commitment to laïcité, the secularism that the French treat as an unknowable philosophical ideal but that is actually just the freedom to believe or not to believe as each citizen sees fit. Laïcité has become a weapon in the culture war, instrumentalized in the fight against an enemy that the French government assures its critics is radical Islamism but increasingly looks like ordinary Islam.

      The issue of the veil is infamously one of the most polarizing and violent in French public debate. The dominant French view is a function of universalist ideology, which holds that the veil is a symbol of religious oppression; it cannot be worn by choice. A law passed in 2004 prohibits the veil from being worn in high schools, and a separate 2010 law bans the face-covering niqab from being worn anywhere in public, on the grounds that “in free and democratic societies…o exchange between people, no social life is possible, in public space, without reciprocity of look and visibility: people meet and establish relationships with their faces uncovered.” (Needless to say, this republican value was more than slightly complicated by the imposition of a mask mandate during the 2020 pandemic.)

      In any case, when Muslim women wear the veil in public, which is their legal right and in no way a violation of laïcité, they come under attack. In 2019, for instance, then–Health Minister Agnès Buzyn—who is now being investigated for mismanaging the early days of the pandemic—decried the marketing of a runner’s hijab by the French sportswear brand Decathlon, because of the “communitarian” threat it apparently posed to universalism. “I would have preferred a French brand not to promote the veil,” Buzyn said. Likewise, Jean-Michel Blanquer, France’s education minister, conceded that although it was technically legal for mothers to wear head scarves, he wanted to avoid allowing them to chaperone school trips “as much as possible.”

      Nicolas Cadène, the former head of France’s national Observatory of Secularism—a laïcité watchdog, in other words—was constantly criticized by members of the French government for being too “soft” on Muslim communal organizations, with whose leaders he regularly met. Earlier this year, the observatory that Cadène ran was overhauled and replaced with a new commission that took a harder line. He remarked to me, “You have political elites and intellectuals who belong to a closed society—it’s very homogeneous—and who are not well-informed about the reality of society. These are people who in their daily lives are not in contact with those who come from diverse backgrounds. There is a lack of diversity in that elite. France is not the white man—there is a false vision [among] our elites about what France is—but they are afraid of this diversity. They see it as a threat to their reality.”

      As in the United States, there is a certain pathos in the European war on woke, especially in the battalion of crusaders who belong to Cleese and Finkielkraut’s generation. For them, “wokeism” —a term that has no clear meaning and that each would probably define differently—is a personal affront. They see the debate as being somehow about them. The British politician Enoch Powell famously said that all political lives end in failure. A corollary might be that all cultural careers end in irrelevance, a reality that so many of these characters refuse to accept, but that eventually comes for us all—if we are lucky. For many on both sides of the Atlantic, being aggressively anti-woke is a last-ditch attempt at mattering, which is the genuinely pathetic part. But it is difficult to feel pity for those in that camp, because their reflex is, inescapably, an outgrowth of entitlement: To resent new voices taking over is to believe that you always deserve a microphone. The truth is that no one does.

      https://www.thenation.com/article/world/woke-europe-structural-racism

  • #Précarité_étudiante : « On atteint des niveaux inédits », alerte la présidente de l’Unef | Public Senat
    https://www.publicsenat.fr/article/parlementaire/precarite-etudiante-on-atteint-des-niveaux-inedits-alerte-la-presidente-

    Les représentants de quatre #syndicats_étudiants étaient entendus, ce jeudi, au Sénat dans le cadre de la mission d’information sur les conditions de #vie_étudiante considérablement dégradées par la #crise_sanitaire. Ils réclament de vraies #politiques_publiques et notamment une mise à plat du système de #bourses.

  • 20 refugees arrive in Italy with university scholarships

    Twenty refugees from Eritrea, Sudan, South Sudan and the Democratic Republic of Congo arrived in Italy on September 11 thanks to the project University Corridors for Refugees. They will be able to continue their studies at 10 Italian universities through a scholarship.

    Twenty refugees who arrived at Rome’s Fiumicino airport on September 11 will soon be able to continue their studies. They will attend one of 10 Italian universities that have joined the project #University_Corridors_for_Refugees (#UNICORE).
    According to a statement released by the UN refugee agency UNHCR, the students, including a woman, come from Eritrea, Sudan, South Sudan and the Democratic Republic of Congo. They were selected according to their academic accomplishments and motivation by a commission appointed by all the universities participating in the project through a public competition.

    Once they have completed a mandatory quarantine period due to the COVID-19 emergency, the students will start attending courses at the universities of Cagliari, Florence, L’Aquila, Milan (Statale), Padua, Perugia, Pisa, Rome (Luiss), Sassari and Venice (Iuav).

    ’Extraordinary result’, UNHCR

    The project University Corridors for Refugees is promoted with the cooperation of the Italian foreign ministry, the UN Refugee Agency (UNHCR), Italian charity Caritas, the Diaconia Valdese. It was also organized thanks to the support of the University of Bologna (promoter of the first edition in 2019) and a wide network of partners in Ethiopia (Gandhi Charity) and in Italy, which will provide the necessary support to students for the entire duration of the specialization course.

    “We are extremely happy for this extraordinary result,” said Chiara Cardoletti, UNHCR representative for Italy, the Holy See and San Marino.

    “With this initiative Italy proves it is ahead in finding innovative solutions for the protection of refugees.”

    UN goals for the education of refugees

    According to the UNHCR report ’Coming Together for Refugee Education’ published two weeks ago, only 3% of refugees at a global level have access to higher education.

    By 2030, the UN agency has the goal of reaching a 15% enrolment rate in higher education programs for refugees in host countries and third countries also by increasing safe pathways that take into account specific needs and the legitimate aspirations of refugees.

    https://www.infomigrants.net/en/post/27244/20-refugees-arrive-in-italy-with-university-scholarships

    #réfugiés #asile #migrations #université #universités-refuge #villes-refuge #Italie #bourses_d'étude

    –—

    Ajouté à la métaliste des villes-refuge:
    https://seenthis.net/messages/759145

    ping @isskein @karine4

    • Le site web du projet #University_Corridors_for_Refugees (#UNICORE)

      The project University Corridors for Refugees UNICORE 2.0 is promoted by 10 Italian universities with the support of UNHCR, Italian Ministry of Foreign Affairs and International Cooperation, Caritas Italiana, Diaconia Valdese, and other partners. It aims to increase opportunities for refugees currently residing in Ethiopia to continue their higher education in Italy.

      https://universitycorridors.unhcr.it

      https://www.youtube.com/watch?v=lNri937Rn5w&feature=emb_logo

    • Università dell’Aquila: primo corridoio umanitario per studenti rifugiati

      La realizzazione di un “corridoio universitario” per rifugiati quale dimostrazione di sensibilità ed estrema apertura da parte dell’Università dell’Aquila verso studenti meno fortunati e sicuramente più vulnerabili che, diversamente, non avrebbero altre possibilità di realizzare studi universitari.
      Il progetto si è materializzato con l’arrivo all’Aquila, lo scorso martedì 29 settembre, dopo un periodo di quarantena trascorso in strutture protette, del primo studente vincitore del programma “University Corridors for Refugees Unicore 2.0” promosso da dieci atenei italiani con il supporto di Unhcr, Maeci, Caritas italiana, Diaconia valdese e con il contributo di diversi partner locali per L’Aquila quali Adsu, Caritas diocesana, Servizio migrantes della Caritas di Avezzano, Arci, Abruzzo crocevia e Ricostruire insieme.

      In totale sono venti, tra ragazze e ragazzi di diverse nazionalità, titolari di protezione internazionale come rifugiati, coloro che hanno avuto l’opportunità di vincere una borsa di studio, che gli ha permesso di arrivare in Italia in condizioni di sicurezza, con i cosiddetti corridoi universitari, e iscriversi a un corso di Laurea magistrale in una delle università aderenti.

      «Siamo davvero felici di accogliere questo nuovo studente, perseguendo concretamente quegli obiettivi di uguaglianza, pari accesso alle opportunità e di attenzione per la realtà dell’immigrazione che da anni sono al centro delle politiche del nostro ateneo» spiegano i coordinatori del progetto per l’Università dell’Aquila, i docenti Francesca Caroccia e Luigi Gaffuri, referenti del Rettore rispettivamente, per le politiche di uguaglianza e pari opportunità e per la cooperazione internazionale allo sviluppo, evidenziando, inoltre, l’importanza sulle modalità di selezione degli studenti, avvenuti «in base al merito accademico- proseguono i due- e alla motivazione; nel nostro caso, si tratta di un ragazzo che presentava un curriculum davvero degno di nota e che aveva già conseguito una laurea nel suo paese con il massimo dei voti, prima che le vicende politiche stravolgessero la sua esistenza».

      La politica dell’accoglienza è ampiamente attuata dall’Università dell’Aquila, e numerosi sono gli studenti stranieri provenienti da paesi e territori che non garantiscono la tutela dei diritti fondamentali. Integrazione e valorizzazione delle competenze è «divenuta preciso obiettivo programmatico nel 2019, con la sottoscrizione del “Manifesto dell’Università Inclusiva”, una iniziativa promossa dall’Unhcr con cui l’ateneo aquilano, insieme ad altri trentotto atenei italiani, si è impegnato a facilitare l’accesso dei rifugiati al sistema educativo con risorse e competenze adeguate e, si legge in un comunicato stampa, «l’attivazione dei corridoi universitari costituisce dunque la prima linea di attuazione concreta del Manifesto; un risultato straordinario, non scontato anche a causa delle difficoltà dovute all’emergenza da Covid-19 e per la riuscita del quale è stato fondamentale il lavoro di squadra e il coordinamento con i partner e le istituzioni territoriali».

      La prof.ssa Caroccia esprime un particolare ringraziamento al vicesindaco dell’Aquila, Raffaele Daniele, per essersi «impegnato personalmente in alcuni delicati passaggi amministrativi».

      https://www.ilmessaggero.it/abruzzo/universita_aquila_primo_corridoio_umanitario_studenti_rifugiati-5494877

    • La Tavola rotonda di Asai su Università e rifugiati

      Asai – l’Associazione per gli studi africani in Italia – ha organizzato in autunno una serie di tavole rotonde tematiche. Il 2 ottobre si è tenuto l’incontro avente come titolo: Le università italiane e l’accoglienza ai rifugiati: esperienze a confronto.

      Le università italiane si sono aperte ai rifugiati ormai da anni, le esperienze di inclusione e partecipazione si stanno diffondendo sempre più. Sono nati progammi specifici in cui viene garantita la gratuità di accesso agli studi universitari e borse di studio. Ma a fronte di questa situazione generale le domande sono molte e la tavola rotonda organizzata da Asai è stata il luogo (virtuale) in cui proporle a studiosi e ricercatori coinvolti in questi progetti: “esistono mappature di questi programmi e come si può diffonderne la conoscenza? Quali bilanci si possono trarre da queste esperienze? Come possono le associazioni di studiosi d’area e i gruppi di ricerca rafforzarle?”

      Ciò che è emerso è che rimane problematico il riconoscimento dei titoli di studio (anche se non dovrebbe essere obbligatorio per i titolari di asilo politico) ma si prospetta per il futuro l’appoggio di CIMEA e CNVQR – il Coordinamento Nazionale sulla Valutazione delle Qualifiche dei Rifugiati – che dovrebbe risolvere molte situazioni o aiutare a dipanarle.

      Inoltre risulta chiaro che gli studenti rifugiati necessitano di un sostegno nel percorso universitario, perché si trovano di fronte a nuove sfide: come “il doversi abituare ad un sistema universitario e di formazione ben diverso rispetto a quello conosciuto [oppure] la necessità di colmare lacune specifiche, di tipo linguistico o legate a determinate materie e discipline; [o ancora] la necessità di riprendere l’abitudine a studio sistematico, dopo periodi di interruzione e frammentazione dei percorsi biografici, familiari etc e in una persistente situazione, in molti casi, di precarietà”.

      Gli obiettivi primari, sentiti come urgenti dai relatori, sono stati quello di costruire inclusività all’interno dell’università, “con forme di interazione con docenti e studenti e l’individuazione di figure di riferimento responsabili per specifici aspetti del percorso” e quello di produrre una rete sociale di supporto attorno ai percorsi di studio al fine di generare un senso di serenità e tranquillità negli studenti rifugiati.

      Per chi volesse approfondire Asai pubblicherà nel suo sito (sezione tavoli di coordinamento) verbale sintetico e registrazione dell’evento del 9 ottobre 2020:
      https://www.asaiafrica.org/tavoli-tematici-di-coordinamento

      https://viedifuga.org/la-tavola-rotonda-di-asai-su-universita-e-rifugiati

  • Why do wealthy college students get more financial aid? - MarketWatch
    https://www.nerdwallet.com/blog/loans/student-loans/why-rich-students-get-more-financial-aid-than-poor-ones

    It’s a race for #prestige, says Martin Van Der Werf, associate director of editorial and postsecondary policy at the Georgetown University Center on Education and the Workforce.

    “Better prepared students, higher graduation rates and a better chance of attracting students who will later give back to the college — that’s the reward system that’s in place,” says Van Der Werf, adding that there’s no similar reward system for helping low-income students.

    #bourses #universités #états-unis

  • Tribune de la faim. « Privés de jobs, cloîtrés, les étudiants les plus démunis sont tenaillés par la faim et l’angoisse »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/04/15/universite-prives-de-jobs-cloitres-les-etudiants-les-plus-demunis-sont-tenai

    Ils et elles sont des milliers actuellement confinés dans des conditions dramatiques, dénoncent dans une tribune au « Monde » plus d’un millier d’universitaires.

    Tribune. La faim. Vous avez bien lu. C’est elle qui menace les étudiants restés confinés dans les logements de leur centre régional des œuvres universitaires et scolaires (Crous) ou dans leurs studios de location. Depuis un mois déjà, restaurants universitaires, épiceries solidaires et autres relais d’alimentation habituels ont fermé leurs portes. Les campus déserts prennent l’allure de no man’s land.

    Les étudiants qui le pouvaient ont rejoint leur famille. Mais pas les étrangers, pas ceux qui vivent loin de leurs proches ou « en rupture de ban », pas les précaires enfin. Tous ceux-là sont restés isolés, parfois sans connexion Internet, voire sans ordinateur – à plusieurs kilomètres du premier supermarché, s’il peut encore leur être utile. Privés de leurs jobs étudiants, ils n’ont d’autre choix que de rester cloîtrés, tenaillés par la faim. La faim et l’angoisse. Celle qui naît du sentiment d’avoir été oublié de tous.

    Comment en sommes-nous arrivés là ? Les Crous se félicitent d’avoir adopté des « dispositifs d’urgence » : distributions de bons d’achat dématérialisés, prises de contact par téléphone, mises à disposition de paniers repas… En réalité, tributaires de leurs méthodes de recensement et d’évaluation sociale, de tels dispositifs ont moins apaisé la faim que la mauvaise conscience.

    La mobilisation de la société civile

    Leurs rouages se sont empêtrés dans des monceaux de formulaires et de pièces justificatives, interdisant à nombre d’étudiants d’accéder aux soutiens auxquels ils ont droit. Aux lourdeurs administratives et au manque de moyens, humains et financiers, s’est ajoutée l’absence d’information claire et accessible : serveurs saturés, standards téléphoniques occupés, aucun affichage papier sur les campus, assistantes sociales en sous-effectif…

    Pis, loin de prendre la mesure de l’urgence, le Centre national des œuvres universitaires et scolaires (Cnous) aggrave les conditions de vie des plus vulnérables en exonérant de loyer seulement les étudiants qui ont pu regagner leur foyer familial. Tous ceux qui n’ont pu faire autrement que de rester sont mis en demeure de payer. Or, ce sont précisément les plus démunis, ceux que le confinement plonge dans la déréliction.

    Face à cette incurie, la société civile s’est mobilisée. Sur le campus bordelais, par exemple, un collectif composé d’étudiants, de doctorants et de maîtres de conférences s’est constitué pour venir en aide aux étudiants. Grâce aux dons recueillis en ligne, le collectif « Solidarité continuité alimentaire Bordeaux » a livré près de 800 colis alimentaires, sur environ 950 demandes enregistrées. Son action courageuse, menée dans le respect des mesures sanitaires, a été couverte par la presse.

    Besoin d’une aide d’urgence organisée par le gouvernement

    Des actions comparables prennent forme ailleurs. Comble de malchance, la cagnotte en ligne ouverte par le collectif a été bloquée, le gestionnaire du site arguant de mesures de sécurité. Ce blocage a contraint les bénévoles à œuvrer sur leurs deniers personnels, puis à suspendre leurs activités, le 10 avril. Depuis, les demandes continuent d’affluer, sans aucune réponse possible. Certains étudiants ont maintenant passé plusieurs jours sans manger…

    Ce qui est fait pour les sans-domicile-fixe et dans les établissements d’hébergement pour personnes âgées dépendantes (Ehpad) ne l’est toujours pas pour ces invisibles. Question aux universités : pourquoi n’ont-elles pas débloqué d’urgence leurs fonds de solidarité étudiants ? Même si certaines universités ont déjà mis en place des actions d’aide sociale, elles ne sauraient, vu l’ampleur des besoins, se substituer à une aide d’urgence organisée par le gouvernement.

    Quand les pouvoirs publics responsables ne répondent plus et que les bonnes volontés sont dans l’impasse, comment éviter l’escalade ? Isolés, sous-alimentés, incapables de payer leur loyer, a fortiori de continuer d’étudier, certains ont perdu tout espoir. Comment les empêcher de craquer ? Des cas de suicide ou de décès sur les campus ont été déjà été signalés dans la presse. Ces tragédies augurent-elles de la catastrophe à venir ? Que faire pour empêcher le pire d’arriver ?

    Porter assistance aux étudiants

    Les solutions ne peuvent venir que des responsables au plus haut niveau : ceux qui ont entre leurs mains le pouvoir de décider. Autrement dit, le Cnous et le ministère de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation, dont il dépend. C’est à eux qu’il revient d’agir vite, c’est eux que nous interpellons !

    Nous proposons les mesures suivantes : l’annulation immédiate de tous les loyers Crous ; la simplification et l’accélération de toutes les procédures d’aide alimentaire, financière, et informatique, associée à une communication sur le terrain ; la mise en œuvre d’une assistance psychosociale adaptée ; enfin, et il s’agit du simple bon sens, la subordination de la « continuité pédagogique » à la certitude de pouvoir manger à sa faim.

    Car exiger d’étudiants qu’ils continuent d’apprendre et d’être évalués le ventre vide n’est pas seulement absurde, mais cruel et inhumain. C’est ajouter à la peur du lendemain l’angoisse d’échouer. Face à cette pression intolérable, c’est la vie de milliers d’étudiants qui est aujourd’hui menacée. Comme notre président s’y est engagé dans son allocution du 13 avril, il revient au gouvernement de leur porter assistance. Maintenant.

    Premiers signataires : Etienne Balibar, professeur émérite de philosophie politique, université Paris-10-Nanterre ; Ludivine Bantigny, maîtresse de conférences en histoire contemporaine, université de Rouen ; Marc Crépon, directeur de recherches en philosophie, CNRS/ENS/PSL ; Pierre Antoine Fabre, directeur d’études, EHESS ; Bernard Friot, professeur émérite de sociologie, université Paris-10-Nanterre ; Mathilde Larrère, maîtresse de conférences en histoire politique du XIXe siècle, université Gustave-Eiffel ; Frédéric Le Roux, professeur des universités, mathématiques, Sorbonne université ; Jean-Claude Monod, directeur de recherches au CNRS) ; Willy Pelletier, sociologue, université de Picardie, coordinateur général de la fondation Copernic ; Guislaine Refrégier, maîtresse de conférences en biologie, université Paris-Saclay ; Marina Seretti, maîtresse de conférences en philosophie, université Bordeaux-Montaigne ; Nathalie Sigot, professeure d’économie, université Paris-I-Panthéon-Sorbonne ; Barbara Stiegler, professeure de philosophie politique, université Bordeaux-Montaigne ; Constance Valentin, CR CNRS Physique, université de Bordeaux ; Michelle Zancarini-Fournel, professeure émérite d’histoire, université Claude-Bernard-Lyon-1.
    La liste complète des signataires est accessible en cliquant sur ce lien
    https://sites.google.com/view/signataires-tribune-de-la-faim/accueil

    « Les prochaines semaines risquent d’être très compliquées » : confinés et sans job, la vie sur le fil des étudiants précaires, Alice Raybaud, 01 avril 2020
    https://www.lemonde.fr/campus/article/2020/04/01/les-prochaines-semaines-risquent-d-etre-tres-compliquees-confines-et-sans-jo

    Alors que près de la moitié des jeunes financent leurs études grâce à des petits boulots, nombreux sont ceux qui se retrouvent en difficultés financières depuis le début du confinement. Des aides se déploient.

    Trois kg de féculents, des conserves et des produits d’hygiène. Tel est le contenu des paniers qui sont distribués, depuis le 18 mars, à des centaines d’étudiants bordelais confinés dans leurs cités universitaires. Gantés, masqués et toujours un par un, ce sont des doctorants, post-doctorants et maîtres de conférences des universités de la métropole qui se chargent bénévolement de la livraison : une urgence face à la situation de « détresse » de certains jeunes, alertent-ils par le biais de leur collectif, Solidarité : continuité alimentaire Bordeaux.

    Suspension des loyers

    « Avec la fermeture des restaurants universitaires, on s’est rendu compte que certains étudiants n’avaient pas mangé depuis quarante-huit heures, raconte un des membres du collectif. Plus que la continuité pédagogique, l’enjeu est surtout, aujourd’hui, celui de la continuité alimentaire. » Le collectif, qui a lancé une cagnotte en ligne, recense à ce jour plus de 650 demandes sur le campus et a effectué 460 livraisons de paniers, principalement dans les logements Crous.
    « Plus que la continuité pédagogique, l’enjeu est surtout, aujourd’hui, celui de la continuité alimentaire », un membre du collectif bordelais
    Au niveau national, 40 % des étudiants qui résident dans des logements du Crous sont restés sur place, indique le Centre national des œuvres universitaires. Ce public déjà fragile ne bénéficiera pas de la suspension des loyers, annoncée pour tous ceux qui ont quitté les lieux pour rejoindre leur famille, et qui ne paieront donc plus leur logement à partir du 1er avril et jusqu’à leur retour.

    « Pour la majorité des étudiants qui nous contactent, la perte d’un job ou d’un stage est venue se rajouter à une vulnérabilité antérieure, ce qui rend leurs dépenses courantes très compliquées », observe-t-on du côté du collectif bordelais, qui demande la suppression des loyers Crous pour tous. Les étudiants aux emplois souvent précaires sont en effet parmi les premiers à pâtir du confinement. Ces pertes de revenus viennent fragiliser des budgets déjà sur le fil, dans un contexte où près d’un étudiant sur deux travaille pour financer ses études, et où un sur cinq vit déjà sous le seuil de pauvreté (IGAS, 2015).

    « Difficile de se concentrer sur les cours »

    Depuis septembre, Marion, 20 ans, étudiante en science du langage à la Sorbonne-Nouvelle, encadrait les enfants de sa ville de Grigny (Essonne) sur les temps périscolaires. « Mais comme je suis en “contrat volant”, c’est-à-dire qu’on m’appelle seulement selon les besoins, je ne toucherai rien jusqu’à la réouverture des écoles », déplore la jeune femme, qui vit dans un appartement avec son père, au chômage, son frère et sa sœur. Ses revenus permettaient de payer les factures et la nourriture de la famille. « Les prochaines semaines risquent d’être très compliquées », s’inquiète Marion, qui cherche sans relâche un autre job dans un magasin alimentaire. Alors qu’elle s’occupe des devoirs de sa fratrie confinée et qu’elle a dû composer quelques jours avec une coupure d’électricité, « se concentrer sur les cours à distance est difficile », confie-t-elle.

    Pour Claire (le prénom a été modifié), 21 ans, en master métiers de l’enseignement à Colmar, c’est « le flou ». « A la bibliothèque où je travaille, on nous a promis de faire le maximum pour que notre rémunération soit maintenue, mais rien n’est encore sûr. L’aide aux devoirs, qui me permettait de payer ma nourriture, c’est devenu impossible, confie-t-elle. Il faudra diminuer les frais de courses. » Juliette (le prénom a été modifié), étudiante en lettres modernes de 20 ans, faisait de la garde d’enfant, sans contrat. Un « bon plan », habituellement. « Mais dans cette situation, cela veut dire : pas de compensation, et je n’ai pas d’économies de côté, souffle-t-elle. Heureusement, je suis confinée chez ma famille en Bretagne, avec moins de dépenses. Je regarde pour bosser dans une agence d’intérim, en usine, mais mes parents ne sont pas rassurés à l’idée de me laisser sortir… »

    Aides sociales d’urgence

    Pour répondre à ces situations de #précarité, les Crous s’organisent pour délivrer davantage d’aides ponctuelles. Dix millions d’euros supplémentaires ont été débloqués, mardi 31 mars, par le ministère de l’enseignement supérieur. « Des directives nationales nous permettent de monter nos dotations jusqu’à 560 euros, à destination des étudiants nationaux comme internationaux, et cumulables avec les bourses », explique Claire Maumont, responsable du service social au Crous de Poitiers, qui observe qu’un tiers des dernières demandes émanent d’#étudiants touchés par une perte d’#emploi et jusque-là inconnus de leurs services. Pour elle, « l’enjeu, dans cette période difficile, est de garder le lien avec nos étudiants : nos services réalisent du porte-à-porte dans les cités universitaires, avec médecin et infirmière, pour nous assurer de la #santé et de l’alimentation de nos résidents. »

    Encouragées par des directives ministérielles, certaines universités mettent également en place des #aides_sociales_d’urgence, à partir des fonds de la Contribution de vie étudiante et de campus (CVEC). A l’université de Bordeaux, les étudiants en difficulté peuvent par exemple bénéficier d’une aide mensuelle de 200 euros. « On peut décider d’accorder une aide plus importante au cas par cas, et de délivrer des #bons_alimentaires sous forme de carte prépayée en cas d’urgence », précise Anne-Marie Tournepiche, vice-présidente Vie de campus de l’université, qui s’attend à une « augmentation importante des demandes d’aides financières dans les prochains jours ». En outre, les étudiants #autoentrepreneurs pourront bénéficier de l’aide exceptionnelle de 1 500 euros annoncée le mardi 17 mars par le ministère de l’économie.

    Bons alimentaires, aides ponctuelles des universités… Ces mesures ne seront pas suffisantes sur le long terme pour l’Union nationale des étudiants de France (UNEF). « Ces aides sont aléatoires selon les établissements, et parfois compliquées à obtenir, explique Mélanie Luce, présidente du syndicat étudiant. Quant aux aides du Crous, débloquer dix millions d’euros apportera un nouveau souffle mais ne permettra pas de répondre à toutes les situations si le confinement se poursuit. D’autant qu’il y aura des répercussions sur la longueur, notamment sur les jobs d’été, qui sont essentiels pour de nombreux étudiants. » L’UNEF, qui demande la mobilisation de fonds étatiques plus « massifs » s’inquiète aussi de la situation des #étudiants_étrangers, « pour la plupart non éligibles aux #bourses et ne pouvant accéder à toutes les aides d’urgences, qui comptaient sur un job pour vivre et sont désormais dans une situation catastrophique », rappelle Mélanie Luce.

    « Les plus précaires au front »

    C’est le cas de Noélia, étudiante péruvienne de 20 ans, en licence d’espagnol à la Sorbonne-Nouvelle. Grâce à un #job de baby-sitter, en contrat étudiant sur une #plate-forme en ligne, elle arrivait jusque-là « plus ou moins » à gérer ses mois. Mais depuis que Noélia ne peut plus entrer en contact avec l’enfant qu’elle gardait, la plate-forme ne lui a facturé aucune heure.

    « Je ne sais pas si j’aurai le droit au #chômage_partiel. J’ai demandé mais n’ai toujours pas reçu de réponse. Je n’ai plus d’économies car j’ai tout dépensé avec une maladie pour laquelle je suis allée à l’hôpital le mois dernier. Heureusement, je suis hébergée par des amis, mais comment est-ce que je vais faire pour continuer à les aider à payer le #loyer et la nourriture ? Et comment être sûre que je pourrai avoir mes papiers français, pour lesquels on m’a demandé de justifier d’un revenu de 650 euros mensuels ? »

    Pour certains étudiants, notamment ceux qui travaillent dans des grandes surfaces, l’arrêt de leur job n’était pas une option. Lucas, 22 ans, a accepté d’augmenter ses heures dans le magasin bio où il travaille. « Cela me permettra de me renflouer », concède-t-il. Solène, 21 ans, a, elle, essayé de faire valoir son #droit_de_retrait dans son magasin de Dourdan (Essonne). « On me l’a refusé, prétextant la mise en place de protections sanitaires. Sinon, c’était l’abandon de poste et je ne peux pas me le permettre, avec le prêt étudiant de 20 000 euros que je viens de contracter. » Solène se rend donc chaque jour au magasin, avec la peur de rapporter le virus chez elle et de contaminer ses proches. Désabusée, elle déplore : « Ce sont les plus précaires, les petits employés, qu’on envoie au front. »

    #confinement #Crous #dette #prêt_étudiant #premiers_de_corvée #premières_de_corvée

  • Vos #astérisques sont trop étroits pour nos vécus - Les mots sont importants (lmsi.net)
    http://lmsi.net/Vos-asterisques-sont-trop-etroits-pour-nos-vecus
    À propos du #racisme dans l’#enseignement_supérieur_et_la_recherche en France, et de son #déni

    par Collectif #LKJ
    5 mars 2020

    En région parisienne, #Parcoursup fait jouer à plein la #ségrégation territoriale qui oppose les banlieues populaires et leurs facs aux établissements parisiens - et avec elle, l’imaginaire raciste qui l’accompagne. Les facs peuvent pondérer les résultats d’un élève en lycée selon le lieu où ce dernier se trouve, et négocient de surcroît un quota de boursier.e auprès du rectorat. Sans surprise, la filière du droit à Assas, au cœur de Paris, ne recrute que 2% de boursier.es, quand la même filière à l’université de Paris 8 Saint Denis en recrute 16%. En filière éco-gestion, l’université de Villetaneuse accepte 21% de boursier.es, l’université Panthéon-Sorbonne seulement 7%. Et au-delà des universités, il reste les formations sélective - ancien et puissant mécanisme de reproduction des inégalités sociales. HEC, Sciences po, Polytechniques sont les établissements les moins divers socialement, et l’investissement moyen annuel par étudiant.es y est cinq à dix fois plus important que dans les universités, où il avoisine les 4 000 à 6 000 euros.

  • La précarité détruit nos vies

    Communiqué du syndicat Solidaires étudiant-e-s à propos du geste d’un étudiant membre du syndicat de Lyon, qui s’est immolé devant le Crous hier, ainsi que le message qu’il a laissé.
    L’université a réagi, pas encore le ministère, ni le Crous.

    Le message que l’étudiant a laissé :

    #France #immolation #bourse #bourses #suicide #précarité_financière #étudiant #Lyon #Université #CROUS

    • Lyon : un étudiant gravement blessé après s’être immolé devant le Crous

      L’étudiant de 22 ans n’avait pas fait part de ses « difficultés personnelles » à l’université Lyon 2 indique sa présidente, tandis que des syndicats dénoncent « la précarité » de « la vie des étudiant-e-s ».

      Vendredi après-midi, un étudiant de 22 ans originaire de Saint-Étienne a été grièvement brûlé à Lyon après s’être immolé en pleine rue devant un restaurant universitaire situé dans le 7e arrondissement. Le jeune homme, brûlé à 90%, se trouve actuellement « entre la vie et la mort » au Centre des brûlés de l’hôpital Edouard Herriot de Lyon, indiquent les syndicats. Prévenue du geste de son compagnon par un SMS, c’est la petite amie de la victime, étudiante à Lyon 2, qui avait alerté les services de secours.

      Une enquête a été ouverte pour déterminer les raisons de son geste, mais dans un long message publié sur Facebook et relayé ce samedi par le quotidien Le Progrès, l’étudiant avait évoqué ses difficultés financières et justifié son geste par des revendications politiques, accusant notamment « Macron, Hollande, Sarkozy et l’UE ». « Luttons contre la montée du fascisme, qui ne fait que nous diviser, et du libéralisme, qui créé des inégalités. [...] Mon dernier souhait, c’est aussi que mes camarades continuent de lutter pour en finir définitivement avec tout ça », a-t-il souligné dans ce texte.
      Un dispositif de soutien psychologique mis en place

      L’étudiant n’avait pas fait part de ses « difficultés personnelles » à l’université Lyon 2, a appris l’AFP samedi auprès de sa présidente Nathalie Dompnier, qui précise que le jeune homme ne percevait plus sa bourse car il « triplait » sa deuxième année de licence. « L’université lui exprime tout son soutien, ainsi qu’à sa famille, à ses proches et à tou.tes ses camarades », a écrit également la présidente dans un communiqué. Un dispositif de soutien psychologique a été mis en place avec les services d’urgence, tandis qu’une cellule d’écoute sera mise en place dès mardi sur le campus Porte des Alpes pour les étudiants et les équipes, ajoute-t-elle, en précisant qu’un numéro vert spécifique devrait aussi être mis en place la semaine prochaine.
      « La précarité s’étend » pour les syndicats étudiants

      Les fédérations syndicales étudiantes SUD-éducation et Solidaires ont pour leur part dénoncé dans un communiqué commun « la précarité » de « la vie des étudiant-e-s ». « Son acte ne saurait être réduit au seul désespoir, c’est aussi à portée politique. Dans son message, notre camarade décrit la précarité qu’il subit, conséquence des politiques libérales, et le racisme quotidien », pointe le syndicat, qui souligne que « la précarité s’étend » et « broie de plus en plus de vies, y compris la vie des étudiant-e-s ».

      La ministre de l’Enseignement supérieur Frédérique Vidal s’est rendue samedi matin à Lyon pour rencontrer la présidente de l’université et les équipes du CROUS pour leur faire « part de sa profonde émotion face à l’acte dramatique » du jeune homme, « auquel elle a adressé ses premières pensées », selon le ministère.

      https://www.liberation.fr/france/2019/11/10/lyon-un-etudiant-gravement-blesse-apres-s-etre-immole-devant-le-crous_176

    • L’étudiant de 22 ans n’avait pas fait part de ses « difficultés personnelles » à l’université Lyon 2 indique sa présidente

      Il n’avait pas demandé la charité... Marre de ces bureaux où il faut se battre pour ses droits. Ensuite les autorités prétendent en avoir quelque chose à battre, du non-recours, mais répètent à l’envi qu’il y a des primes au fait de faire des recours à l’amiable, des alertes, et que la machine peut arrêter de broyer quand on le demande avec beaucoup d’ardeur. Merde !

    • Mardi 12/11 Rassemblements en solidarité à l’étudiant de Lyon 2 qui s’est immolé vendredi 8/11

      Ci-joints les différents horaires et lieux de rassemblement en solidarité à l’étudiant de Lyon 2 qui s’est immolé vendredi 8/11 devant le CROUS de La madeleine à Lyon 2.

      Le SNESUP-FSU adresse tout son soutien à cet étudiant, et également aux proches et à la famille de cet étudiant.

      Il appelle, avec la FSU, à se rassembler pour lui témoigner notre solidarité et pour dénoncer la précarité étudiante grandissante.

      Toutes et tous les étudiants doivent pouvoir étudier dans des conditions dignes et décentes.

      Aix-en-Provence 13h – CROUS Aix-Marseille / Avignon, 31 avenue Jules Ferry

      Amiens (FSE Amiens) 10h – CROUS Amiens Picardie (25 rue St Leu)

      Angers 12h puis 18h – Restau U Belle Beille (3 Boulevard de Lavoisier)

      Angoulême 12h – Place New York

      Annecy 12h – Au campus d’Annecy, sur le parvis face au resto universitaire (adresse de l’antenne du CROUS) au 3 chemin de Bellevue à Annecy le Vieux

      Avignon 13h – Devant le nouveau batiment du campus Hannah Arendt

      Besançon 18h – devant le CROUS de Bourgogne-Franche-Comté (38 avenue de l’observatoire)

      Bordeaux 18h – CROUS, place du séminaire

      Boulogne-sur-mer 13h – devant l’antenne du Crous rue du Vivier.

      Caen 12h – RU A, Campus 1 de l’Université

      Clermont-Ferrand 18h – Résidence CROUS 25 Rue Etienne Dolet

      Dijon 19h – Place du Bareuzai

      Grenoble 18h – Bâtiment CROUS 351 Allée de Berlioz (St Martin d’Hères)

      Guyane 12h – Université de Guyane bâtiment E

      La Rochelle 13h – Parvis du campus

      Lille 13h – Siège du CROUS de Lille 74 rue de Cambrai

      Limoges 12h – campus Vanteaux devant le CROUS

      Lyon 10h – CROUS de la Madeleine

      Marseille 18h – Faculté des sciences d’Aix-Marseille (3 place Victor Hugo)

      Montpellier 14h – Crous de montpellier : 2 Rue Monteil, 34093 Montpellier

      Metz 13h30 – CROUS de Lorraine au Saulcy

      Nancy 12h – CROUS Resto U 16 cours Léopold

      Nantes 12h – devant le pôle étudiant du campus Tertre

      Niort 17h – CROUS de Niort 7 rue du Galuchet

      Orléans 18h – Devant l’entrée du Forum, coté Bouillon (antenne du CROUS sur la fac)

      Paris, Ile-de-France 18h – Siège du CROUS Port Royal

      Pau 12h30 – CLOUS, 7 rue Saint John Perse

      Perpignan (Jeunes Communistes 66) 13h30 – devant le CROUS de l’Université de Perpignan, 52 avenue Paul Alduy
      https://www.facebook.com/events/439076413424300

      Poitiers 12h30 – RU Rabelais, campus de Poitiers,

      Rennes 18h – Siège du CROUS Rennes-Bretagne, Place Hoche

      Rouen 13h – CROUS de Rouen Normandie

      Saint-Brieuc 18h – CROUS, 1 boulevard Waldeck-Rousseau

      Saint-Denis 16h30 – Départ groupé de Université Paris 8 – Local A079 vers CROUS Port Royal (Paris)

      Saint-Brieuc 18h- Restaurant Universitaire du CROUS

      Saint-Étienne 10h – devant le CROUS du campus Tréfilerie

      Strasbourg 12h – devant le Patio (campus central) puis siège du Crous 1 Quai du Maire Dietrich

      Toulouse 12h30 – Resto U du Mirail (info lutte université Mirail)
      14h – CROUS de Toulouse-Occitanie 58 rue de Taur
      (Sciences Po Toulouse en Lutte, UNLToulouse, Révolution Permanente Toulouse, La repolitique-Sciences Po Toulouse)

      Tours 18h – 5 rue du docteur bretonneau (résidence CROUS)

      https://www.snesup.fr/article/mardi-1211-rassemblements-en-solidarite-letudiant-de-lyon-2-qui-sest-immole-v

    • Anas, 22 ans, s’immole par le feu et nous regardons ailleurs

      C’est un gamin, mon fils, ou votre frère. Il s’appelle #Anas, un étudiant de 22 ans, venu de Saint-Étienne à Lyon, pour apprendre et avancer. C’est un jeune homme, désespéré autant que déterminé, qui, vendredi, a tenté de se tuer sur la place publique. Depuis, la presse détourne les yeux. Des rassemblements sont prévus ce mardi.

      https://blogs.mediapart.fr/david-dufresne/blog/111119/anas-22-ans-simmole-par-le-feu-et-nous-regardons-ailleurs
      Un article de @davduf

    • « J’arrivais en cours en larmes » : #précarité_étudiante, une vie sur le fil

      Des étudiants témoignent de leurs conditions de vie alors que plusieurs rassemblements ont lieu ce mardi en mémoire de ce jeune homme de 22 ans qui a tenté de s’immoler par le feu à Lyon pour dénoncer une précarité grandissante.

      Pendant sa première année d’études supérieures en archéologie et anthropologie, Laura est devenue familière des petits pains au fromage à quelques centimes du supermarché Lidl en face de sa fac. Ils lui servaient de déjeuner les jours où les 3 à 5 euros de la cafétéria, c’était déjà trop. La précarité étudiante, cette Lyonnaise âgée de 24 ans l’a donc bien connue.

      C’est ce qui l’a poussée à arrêter ses études, en début de licence 2. Et qui a conduit un jeune homme de 22 ans à tenter de s’immoler par le feu, le 8 novembre dernier, devant un restaurant universitaire à Lyon. Ce mardi, le syndicat Solidaires étudiant.e.s appelle à se rassembler devant tous les Crous de France, en soutien à cet étudiant aujourd’hui entre la vie et la mort, brûlé à 90 %. En 2017, selon l’Unef, 20 % des étudiants vivaient en dessous du seuil de pauvreté.

      Quand elle commence sa licence, à Lyon, Laura vit encore chez ses parents. Sa mère, auto-entrepreneuse, essaie de lancer son entreprise de traiteur, elle travaille très peu. Son père gagne « trop bien sa vie » pour que la jeune femme puisse être éligible à une bourse. Mais pas assez pour financer ses études, au-delà des frais d’inscriptions, très peu élevées, à l’université. Laura doit se débrouiller pour les transports et les repas.
      Manger du riz ou des pâtes instantanées

      Elle essaie de faire des petits boulots, « des extras dans des bars ou des restaurants ». Elle aurait pu demander une dispense d’assiduité, pour travailler davantage. « Mais j’étais déjà une élève plutôt moyenne, je ne voulais pas me mettre encore plus en difficulté en ratant des cours pour travailler », explique-t-elle. Elle préfère se priver un peu le midi, quand cela devient trop difficile. Mais surtout ne rien demander à ses parents qui « se sont toujours saignés » pour elle, son frère et sa sœur.

      Selon une étude menée par la Mutuelle générale de l’Education nationale (MGEN), 68 % des étudiants sautent des repas de temps à autre, comme Laura, et seulement 60 % disent « manger un peu de tout ». Pour ceux qui ne vivent plus chez leurs parents, cela se traduit souvent par du riz, des pommes de terre ou « des pâtes instantanées à 30 centimes », confie Margot, 26 ans, en 2ème année de thèse d’histoire de l’art contemporain.
      Compter même les dépenses de santé

      Jusqu’à son master 1, la jeune fille bénéficiait pourtant d’une bourse de 550 euros par mois -l’échelon le plus élevé. Mais une fois le loyer, l’électricité de son logement mal isolé, l’abonnement à Internet - indispensable aujourd’hui pour étudier - et les transports payés… il ne reste pas grand-chose pour vivre. Au quotidien, ce sont des petits arrangements permanents : pas de loisirs, ou alors que des activités gratuites, des vêtements d’occasion et de bons amis pas trop maladroits pour se faire couper les cheveux.

      Une vie sur le fil, qui ne permet aucun écart. « Les mois où il faut acheter des livres pour la fac sont compliqués », explique Margot. Ceux où sa vieille voiture tombe en panne encore plus. Mais impossible de s’en séparer : elle en a besoin pour se rendre à l’Ephad où elle fait des remplacements pour compléter son revenu. Même les soins de santé passent à la trappe : selon l’Insee, 13,5 % des étudiants ont déjà renoncé à aller chez le médecin pour des raisons financières. Margot, elle, n’a pas vu de gynécologue depuis quatre ans.
      Friser le burn-out

      Au bout de plusieurs années d’études à tout compter, mal s’alimenter, travailler sur les jours de pause… C’est le stress et l’épuisement qui l’emportent. Margot n’a pris que 6 jours de congé, l’été dernier, depuis le début de ses études il y a 7 ans. En 2ème année de master, elle a commencé à faire des ulcères à l’estomac à répétition.

      Pauline, étudiante boursière en master d’études de cinéma à Lyon a fait « une sorte de burn-out » pendant sa 3e année de licence. A ce moment-là, elle aussi cumulait un job de caissière à Franprix, 15 heures par semaine, et ses études. Une année difficile : « J’arrivais en cours en larmes, se souvient-elle. J’étais épuisée, je m’énervais tout le temps pour rien… Ça a bousillé mon année ». Ses résultats en ont pâti.

      http://www.leparisien.fr/societe/j-arrivais-en-cours-en-larmes-precarite-etudiante-une-vie-sur-le-fil-12-1

    • #Pierre_Ouzoulias interroge Gabriel Attal sur la précarité étiudiante - 13 novembre 2019

      On nous souffle dans l’oreillette que la Ministre serait dans l’Antarticque…

      Ce mercredi 13 novembre, Pierre Ouzoulias, lors de la séance de questions d’actualité au gouvernement, a interrogé Gabriel Attal (en l’absence de Frédérique Vidal) sur la précarité étudiante.

      Voir ci-dessous le texte de sa question ainsi que le lien vers la captation vidéo de la question.

      2019/11/13 - Question d’actualité au Gouvernement - Pierre Ouzoulias - « Précarité étudiante »

      « Plus d’un étudiant sur deux ne mange pas tous les jours à sa faim, près d’un étudiant sur deux a renoncé à se soigner par manque d’argent, il n’y a que 175 000 places en résidences étudiantes pour 700 000 étudiants boursiers et le loyer représente plus de 70 % du budget moyen des étudiants. Plus d’un étudiant sur deux est obligé de travailler pour étudier et subsister. Ils occupent les emplois les plus précaires, les plus harassants et les moins rémunérés. Ainsi, ils composent près de 60 % de la main-d’œuvre des plate-formes de prestations. À tout cela s’ajoutent des conditions d’enseignement indignes et un sous-encadrement pédagogique chronique.
      La grande majorité de la population estudiantine est en souffrance et l’aggravation de sa situation d’existence conduit à la désespérance, à des drames humains et à des gestes désespérés, comme celui d’Anas, qui sont autant de cris de détresse que vous ne pouvez ignorer.
      Les conséquences de ce mal être endémique sont catastrophiques pour notre pays. De moins en moins d’étudiants poursuivent un cursus complet, le nombre de doctorants baisse chaque année et la fuite des cerveaux est maintenant manifeste.
      À cette crise majeure, vous répondez par une baisse des moyens alloués à l’enseignement supérieur. La dépense par étudiant atteint aujourd’hui son plus bas niveau depuis 2008 et votre projet de loi de finances ne porte pas l’ambition politique d’arrêter cette chute.
      À la jeunesse qui souhaite s’investir dans la connaissance, la culture et les œuvres de la pensée, vous renvoyez le message détestable qu’elle ne serait qu’une charge, qu’un fardeau improductif qu’il vaudrait continûment alléger. »

      http://www.sauvonsluniversite.com/spip.php?article8543

    • Immolation d’un étudiant. La stratégie du chox, et les sinistres connards qui en sont responsables - affordance.info, 13 novembre 2019

      "Dans un monde normal la CPU, la conférence des présidents d’université, aurait suspendu l’ensemble de ses travaux, pour une semaine au moins, le temps de comprendre, le temps d’analyser, le temps de chercher ce qui fait qu’en France au 21ème siècle un étudiant décide de s’immoler par le feu devant un CROUS pour dénoncer la précarité et la misère de la jeunesse. La CPU aurait également pu déclarer un genre de minute de silence. Après tout, dans cette « communauté » qu’est l’université, si l’on n’est pas capable de fermer sa gueule et de se recueillir un instant pour cet étudiant là, alors quand le serons-nous ? Mais il n’y a pas eu de minute de silence. Un vieux président qui meurt (Chirac), minute de silence dans toutes les universités. Mais un étudiant qui s’immole par le feu au 21è siècle, et puis rien. "

      Un étudiant s’est donc immolé par le feu devant une université, devant un CROUS, dans un acte politique pour dénoncer explicitement la précarisation qui touche la jeunesse. En France. En 2019. Au 21ème siècle. Celui que l’on nous vantait encore au siècle précédent comme étant celui de « l’économie de la connaissance ». Cette jeunesse qui brûle.

      Cette immolation par le feu, cette image que je n’ai pas vue, elle ne me quitte pas depuis vendredi. Parce que cet étudiant aurait pu être l’un des miens. Il n’était ni plus fragile, ni moins bien entouré, ni plus précaire que la plupart des miens, que j’ai quitté ce matin, et que je vais retrouver demain. Pour leur dire quoi ?

      Dans un monde normal on aurait espéré que ce geste aboutisse au moins à une forme de trêve. Que nous cessions d’être collectivement d’immenses connards et connasses et que nous nous regroupions pour réfléchir. Pour prendre le temps. Pour laisser la douleur et la colère jaillir. Pour mettre des mots sur l’indicible. En France au 21ème siècle un étudiant de 22 ans s’est immolé par le feu parce qu’il était pauvre, précaire, et qu’il n’avait plus droit à aucune aide. Dans un monde normal on aurait espéré que ce geste aboutisse au moins à une forme de trêve. Comme à chaque basculement dans l’horreur. Comme à chaque effet de sidération qui saisit une société toute entière. Le mois de Novembre semble hélas propice à ce genre de sidération. Mais là, rien. Juste rien.

      La ministre Frédérique Vidal a fait une rapide visite au CROUS de Lyon, le vendredi du drame, pour « assurer la communauté universitaire de son soutien ». Ella a aussi exprimé son « soutien » à la famille de cet homme de 22 ans qui s’est immolé par le feu. Et elle s’est barrée. Au Groenland je crois. Ou en Antarctique, je ne sais plus. Pour un voyage bien sûr aussi légitime qu’important. Quand on est ministre de la recherche et de l’enseignement supérieur on ne va pas non plus trop modifier son agenda sous prétexte qu’un étudiant de 22 ans s’est immolé par le feu pour dénoncer la précarité dont tous les étudiants sont aujourd’hui victimes. Vous êtes une sinistre et cynique connasse madame la ministre Vidal.

      Sur Twitter, la ministre Frédérique Vidal a, depuis le Groenland ou l’antarctique, dénoncé « avec la plus grande fermeté » les actes de dégradation commis par les manifestants réunis devant le CROUS de Lyon en hommage à leur camarade toujours actuellement entre la vie et la mort. Car l’important quand un étudiant s’immole par le feu en France au 21ème siècle c’est de bien rappeler à ses camarades étudiants que l’important c’est l’ordre public et qu’il ne faut pas dégrader des biens matériels. Foutez-vous le feu si vous voulez, immolez-vous, mais ayez l’amabilité de bien nettoyer après et pensez à être à l’heure en amphi. Il faut noter que le fil Twitter de la ministre Vidal est parfaitement exempt du moindre Tweet sur un étudiant qui s’est immolé par le feu en France au 21ème siècle. Vous êtes une sinistre et cynique connasse madame la ministre Vidal.

      Dans un monde normal la CPU, la conférence des présidents d’université, aurait suspendu l’ensemble de ses travaux, pour une semaine au moins, le temps de comprendre, le temps d’analyser, le temps de chercher ce qui fait qu’en France au 21ème siècle un étudiant décide de s’immoler par le feu devant un CROUS pour dénoncer la précarité et la misère de la jeunesse. La CPU aurait également pu déclarer un genre de minute de silence. Après tout, dans cette « communauté » qu’est l’université, si l’on n’est pas capable de fermer sa gueule et de se recueillir un instant pour cet étudiant là, alors quand le serons-nous ? Mais il n’y a pas eu de minute de silence. Un vieux président qui meurt (Chirac), minute de silence dans toutes les universités. Mais un étudiant qui s’immole par le feu au 21è siècle, et puis rien. Il n’est pas mort me direz-vous. Bien sûr. Bien sûr. Dans ce monde qui est le notre et qui est tout sauf normal, la CPU a fait un communiqué qui est à lui seul une épure du laconisme le plus brut. Parlant de « tentative de suicide » pour ne surtout pas dire la vérité. Car oui en France chaque année un grand nombre d’étudiants font des tentatives de suicide. Mais ce mois de Novembre du 21ème siècle, en France, un étudiant s’est immolé par le feu. Les gens qui ont signé le communiqué de la CPU sont de sinistres connards.

      Dans un monde normal la présidence de l’université de Lyon aurait eu la décence de ne pas clore son « communiqué » sur l’immolation par le feu de l’un de ses étudiants par un dernier paragraphe « condamnant les blocages » après 6 autres paragraphes expliquant que ce n’est la faute de personne et surtout pas celle de l’université. Les gens de la présidence de l’université de Lyon qui ont signé ce communiqué sont de sinistres connards.

      Dans un monde normal nous serions tous à l’arrêt. Nous aurions arrêté de faire cours, nous aurions organisé des temps de parole avec nos étudiants. Certains collègues l’ont fait. Probablement. Je n’en sais rien. Moi je ne l’ai pas fait. Pas encore. J’ai eu cours hier et aujourd’hui et je n’ai rien fait. Je suis un sinistre connard. Je le ferai peut-être demain. Probablement même.

      http://www.sauvonsluniversite.fr/spip.php?article8542

    • "J’ai un euro par jour pour manger" : trois étudiants témoignent de leur grande précarité

      Plusieurs centaines d’étudiants ont manifesté en France mardi aux abords d’une quarantaine de Crous et d’universités contre la précarité étudiante. Certains ont raconté à franceinfo leur quotidien fragile.

      « La précarité tue. » Avec ce hashtag, des centaines d’étudiants ont réagi sur Twitter après l’immolation par le feu, vendredi, d’un de leurs camarades, devant le siège du Crous, à Lyon. Brûlé à 90% et entre la vie et la mort, cet étudiant en licence de sciences politiques voulait dénoncer la précarité dans laquelle vivent de nombreux jeunes. « Même quand j’avais 450 euros par mois, était-ce suffisant pour vivre ? », s’interrogeait le jeune homme, dans un message posté sur les réseaux sociaux pour expliquer son geste.

      L’université Lyon 2, où est inscrit le jeune homme, a été de nouveau fermée pour la journée, mercredi 13 novembre, après des blocages, menés dans toute la France pour protester contre la précarité. Trois étudiants racontent leurs difficultés à franceinfo.
      Sophie*, 26 ans, une thèse et deux emplois

      « Pour tenter de vivre dignement, je cumule deux emplois », explique Sophie*, 26 ans, étudiante en histoire de l’art à Pau (Pyrénées-Atlantiques). Comme la jeune femme ne souhaitait pas qu’on lui impose un sujet de recherche, elle a dû faire l’impasse d’un contrat de doctorante, qui aurait pu lui permettre de financer une partie de ses études. Elle ne bénéficie pas non plus de bourse. En 2016, 22,7% des étudiants interrogés déclaraient auprès de l’Observatoire national de la vie étudiante (OVE), avoir été confrontés « à d’importantes difficultés financières durant l’année ».

      Sophie, syndiquée depuis sept ans au sein de l’organisation Solidaires étudiant-e-s, à l’origine de l’appel national à manifester devant les Crous, travaille à la bibliothèque de son université et effectue des remplacements dans un établissement d’hébergement pour personnes âgées dépendantes (Ehpad). « Je peux faire jusqu’à 40 heures par semaine, en plus de mes travaux de recherche, mais c’est variable d’un mois à l’autre ». L’étudiante dit gagner entre 900 et 1 000 euros par mois. Difficile de demander de l’aide. Entre « honte » et « dignité », les étudiants veulent être ces « jeunes adultes responsables que la société attend d’eux », analyse Sophie.

      Avec 680 euros de frais fixe (loyer, électricité et téléphone), il lui reste souvent moins de 300 euros pour la nourriture, les livres et l’épargne, en prévision du second semestre. Sophie économise afin de pouvoir se consacrer pleinement à ses études à partir de janvier. « En général, les étudiants qui s’auto-financent tiennent six années », confie la jeune femme. « Moi, je ne tiendrai pas plus de quatre ans. Si j’arrête avant d’avoir rendu ma thèse, j’aurai perdu toutes ces années et développé des maladies chroniques pour rien. » A cause de son rythme de vie, la jeune femme souffre de fatigue et de troubles dépressifs chroniques. Selon l’Observatoire de la vie étudiante, environ 60% des étudiants interrogés en 2016 éprouvaient de la fatigue, autant souffraient de stress quand 45% évoquaient des troubles du sommeil et 32% parlaient de déprime.
      Ugo, 19 ans, un euro par jour pour manger

      « Je me suis fixé cette somme de 1 euro par jour pour manger, pour tenir le mois », explique Ugo, 19 ans, étudiant en deuxième année d’histoire et sociologie à Rennes (Ille-et-Vilaine). Boursier « échelon zéro bis », le plus bas de l’échelle des bourses, le jeune homme touche environ 100 euros par mois. Ses parents, qui ont aussi ses deux petites sœurs à charge, financent son appartement, car il n’est pas éligible pour une chambre au Centre régional des œuvres universitaires et scolaires, le Crous. Ugo gère le reste de ses frais fixes en alternant les pâtes, le riz et les pommes de terre. « Je compte toutes mes sorties », ajoute-t-il.

      Après avoir été livreur dans diverses enseignes, le jeune homme a trouvé un emploi fixe comme agent d’escale à la gare de Rennes. Près d’un étudiant sur deux (46%) travaille en dehors de ses études, selon l’OVE. Intérimaire, son nombre d’heures est variable et il gagne entre 600 et 900 euros par mois.

      J’ai peur de perdre mes aides, alors j’essaie de mettre un maximum de côté cette année, pour ensuite faire un master à Paris.Ugo, étudiantà franceinfo

      Pour pouvoir travailler, Ugo bénéficie d’une « dispense d’assiduité » qui lui permet de « rater » certains cours. En contrepartie, il ne bénéficie pas du contrôle continu et joue « son année » uniquement au moment des examens de fin de semestre. Une absence que toutes les facultés ne permettent pas.
      Karine*, 22 ans, endettée, a arrêté ses études

      « J’étais tellement stressée et dépressive que je n’arrivais plus à aller en cours », lâche Karine, 22 ans. Prise dans un engrenage entre petits boulots, soins psychologiques et cours de sociologie à la faculté de Poitiers (Vienne), la jeune femme a tout arrêté en fin de deuxième année, en 2018.

      Elle a grandi avec peu, sa mère touchant le revenu minimum d’insertion (RSA), mais l’étudiante bouclait difficilement les fins de mois avec 350 euros pour vivre. Karine cumule encore les dettes. Ses petits emplois lui faisaient manquer certains enseignements. « Quand vous êtes boursier, vous avez une obligation d’aller en cours, sinon le Crous vous demande de rembourser », explique la jeune femme qui, un an après, est toujours en litige avec l’organisme. Sollicité par franceinfo, le Crous n’a pas souhaité répondre.

      https://www.francetvinfo.fr/societe/education/j-ai-un-euro-par-jour-pour-manger-trois-etudiants-temoignent-de-leur-gr
      #alimentation

  • Rentrée universitaire : le gouvernement face au chantier des aides sociales aux étudiants, 31 août 2019
    https://www.lemonde.fr/campus/article/2019/08/31/rentree-universitaire-le-gouvernement-face-au-chantier-des-aides-sociales-au

    Le projet d’une « aide globale d’autonomie » sera examiné dans le cadre de la concertation sur le revenu universel d’activité. Beaucoup de questions restent à trancher.

    A quelques semaines du retour des étudiants sur les bancs des amphithéâtres, le gouvernement veut donner une tonalité sociale à la rentrée universitaire. Frédérique Vidal, ministre de l’enseignement supérieur, a annoncé le 20 août une revalorisation des bourses sur critères sociaux de + 1,1 %, soit une enveloppe de 46 millions d’euros. Un coup de pouce salué par les organisations étudiantes. Même s’il est jugé insuffisant, au regard de l’évolution du coût de la rentrée (+ 1,96 % d’après l’enquête de la FAGE) et de la vie étudiante (+ 2,83 % d’après l’UNEF).

    Mais, au-delà de cette annonce, c’est un chantier bien plus vaste qu’a décidé d’ouvrir le gouvernement cette année : celui de l’ensemble des aides destinées aux étudiants, dont les bourses ne sont qu’une partie. Elles représentent 2,1 des 5,7 milliards d’euros d’aides de l’Etat au titre de l’action sociale en faveur des étudiants, le reste allant pour une large part aux aides personnalisées au logement (APL).
    Les bourses étudiantes existeront-elles encore demain sous cette forme ? Une fusion avec les APL est-elle possible, alors que ces dernières, contrairement aux bourses, ne reposent pas sur le revenu de la famille mais sur celui de l’étudiant ? Un soutien financier universel – la revendication historique des syndicats étudiants – est-il envisageable ? Les questions techniques sont nombreuses. Et sensibles

    Une aide « universelle »

    L’une est désormais tranchée : la réflexion autour de cette refonte des aides propres aux étudiants va intervenir dans le cadre de la concertation autour du futur revenu universel d’activité (RUA), le projet de prestation unique regroupant les différents minimas sociaux lancé par Emmanuel Macron dans le cadre du « plan pauvreté ». Ouverte par le gouvernement en juin, celle-ci doit s’achever d’ici à la fin de l’année – avec un projet de loi promis à l’horizon 2020.

    Depuis son arrivée au ministère de l’enseignement supérieur, en 2017, Frédérique Vidal s’est à plusieurs reprises prononcée en faveur d’une « aide globale d’autonomie » pour les étudiants, sans en définir les contours – les premières années du quinquennat avaient été concentrées sur le rattachement des étudiants au régime général de sécurité sociale, avec la suppression des frais de 217 euros qu’ils versaient auparavant. Une ligne directrice est néanmoins avancée : celle de la simplification. « Il existe une multitude d’aides et de guichets, avec parfois un effet d’éviction, des étudiants qui n’ont pas recours à des aides qu’ils pourraient avoir, explique-t-on au ministère de l’enseignement supérieur. Il s’agit de rendre le système plus lisible et d’améliorer l’accès à ces aides. » Pour le reste, « rien n’est tranché », assure-t-on.

    Déjà, l’idée d’une aide véritablement « universelle » apparaît l’option la moins probable, s’inquiète-t-on du côté de l’UNEF, qui soutient ce projet. « On revendique une allocation d’autonomie pour tous, suffisante pour vivre, mais on voit que le revenu universel d’activité ne va pas dans ce sens », craint le syndicat étudiant de gauche.
    « La simplification est une très bonne chose, soutient Antoine Dulin, qui participe à la concertation sur le revenu universel dans le groupe dédié aux jeunes, au titre du Conseil d’orientation des politiques de jeunesse. Mais si on veut lutter contre la pauvreté des étudiants, il faut absolument revaloriser les bourses, qui ne suffisent pas à couvrir la vie étudiante. » Il y a « urgence », tonnent les syndicats étudiants d’une même voix, réclamant une augmentation des montants des bourses et du nombre d’étudiants qui y ont droit.

    « Sacrifice » pour les parents

    D’un côté, la situation des publics les plus défavorisés s’aggrave : « On le voit avec l’augmentation du nombre des Agoraé [des épiceries sociales et solidaires] que nous ouvrons [trois de plus en cette rentrée], pour les étudiants qui ont moins de 7,60 euros de reste à vivre par jour », résume Orlane François, présidente de la FAGE. Un sentiment partagé chez les chefs d’établissements. En BTS, formation qui compte la plus grande part de boursiers dans le supérieur, « il y a de plus en plus de jeunes qui doivent prendre un petit boulot à côté, décrit Philippe Vincent, du syndicat des personnels de direction (SNPDEN). On le voit avec la montée de l’absentéisme. »

    « Les conditions matérielles sont souvent éludées, alors qu’il s’agit d’une question importante dans les études supérieures, devenues quasi-obligatoires pour de nombreux jeunes, avec la montée de la part de bacheliers dans une génération, le poids du diplôme ou encore le chômage, souligne le sociologue Mathias Millet. Or, les difficultés financières altèrent significativement la réussite. »

    « Même les classes moyennes ont de plus en plus de mal à joindre les deux bouts pour les études de leurs enfants », estime Franck Loureiro, secrétaire général adjoint du SGEN-CFDT

    Les 712 000 boursiers sur critères sociaux (sur 2,6 millions d’étudiants) vont des classes populaires aux classes moyennes modestes, avec des bourses qui s’échelonnent de 1 020 euros à 5 612 euros sur dix mois. Actuellement, le plafond du revenu brut global donnant droit à une bourse, pour une famille avec un seul enfant, en étude près de chez lui, s’élève à 33 100 euros. Soit environ 2,4 fois le smic, résume Olivier Bardon, sous-directeur de la vie étudiante au centre national des œuvres universitaires et scolaires (Cnous).

    Il rappelle que la dernière forte progression du nombre de boursiers date de 2008, avec la réforme de Valérie Pécresse, qui a notamment élargi les barèmes en direction des classes moyennes, suivie sous le quinquennat Hollande d’une réforme donnant droit à une aide financière aux boursiers qui n’étaient jusque-là, qu’exonérés des droits d’inscription et des frais de sécurité sociale. Les points de charges, dépendant du nombre d’enfants qui étudient et de la distance entre le domicile et la formation, poussent actuellement le plafond pour accéder à une bourse à 95 600 euros.

    « Même les classes moyennes ont de plus en plus de mal à joindre les deux bouts pour les études de leurs enfants, estime Franck Loureiro, secrétaire général adjoint du syndicat des personnels du supérieur SGEN-CFDT. Elles doivent se saigner à blanc sur le quotidien, ce qui crée un fort sentiment d’injustice. »

    Victor, 22 ans, reconnaît que ses études représentent un « sacrifice » pour ses parents, « qui [l’]ont toujours soutenu », alors que son frère jumeau est également à la fac, ainsi que sa petite sœur depuis l’an dernier. Cet étudiant, qui fait sa rentrée en master 2 au Mans, touche une bourse de l’échelon 1 (l’un des plus faibles) de 160 euros par mois. Il a travaillé jusqu’ici tous les étés, et pendant l’année lors des petites vacances. « Mais sans la bourse, je n’aurais pas pu tenir, détaille-t-il. Il aurait fallu faire un emprunt. »

    Qui sont les boursiers du supérieur
    712 000 boursiers sur critères sociaux en 2018-2019
    Leur nombre a fortement augmenté durant la dernière décennie, avec la progression démographique, mais aussi plusieurs réformes, principalement celle de 2008, qui a élargi l’accès aux bourses. Ils étaient 528 000 en 2008.

    37 % C’est la part d’étudiants boursiers dans les formations ouvrant droit à une bourse du ministère de l’enseignement supérieur, d’après une note statistique ministérielle publiée en janvier. Ils se trouvent en premier lieu en sections de technicien supérieur (55 %), en IUT (44,4 %) et à l’université (39,2 %). Viennent ensuite les classes préparatoires (28,9 %) et les écoles de commerce (13,5 %).

    #étudiants #bourses #revenu

  • #Sanctuary_Scholarship

    We are pleased to offer scholarships for forced migrants to the UK. The Sanctuary Scholarship is open to people who wish to study any undergraduate, postgraduate or research degree. The scholarship covers the cost of tuition and a £10,000 a year award towards living costs, for a maximum of three years.

    There are a limited number of scholarships available. Successful applicants will be chosen using a set of selection criteria. Successful applicants will not have to repay any of the money they receive through the scholarship.

    https://www.leeds.ac.uk/info/123000/international_students/598/sanctuary_scholarship

    Ajouté à cette métaliste :
    https://seenthis.net/messages/746030#message788995

    #bourses_d'étude #asile #migrations #Leeds #université #solidarité #UK #Angleterre

  • #métaliste de liens sur des projets qui visent à intégrer les #réfugiés dans les universités

    En général, sur l’accès aux études universitaires des réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/746028

    Les Hautes écoles face à l’accueil des réfugiés, dans le #monde :
    https://seenthis.net/messages/593418

    Refugees Welcome Map
    https://seenthis.net/messages/475877
    #cartographie #visualisation

    #Science_for_refugees
    https://seenthis.net/messages/474982#message474983
    #science4refugees

    Universities are failing refugees. They must do more to prevent a ’lost generation’ :
    https://seenthis.net/messages/813004

    #études_universitaires #université #asile #migrations #intégration_professionnelle #éducation #accès_aux_études #solidarité #universités-refuge

  • #Frais_d’inscription pour les #étudiants_étrangers : « Une logique contraire au #service_public »

    Le premier ministre Édouard Philippe vient d’annoncer une hausse spectaculaire des frais d’inscription à l’université pour les étudiants étrangers #extra-communautaires. Une mesure inefficace, injuste et contre-productive, selon Hugo Harari-Kermadec, maître de conférences en économie à l’ENS Paris-Saclay.

    La campagne s’appelle « #Choose_France ». Mais pour espérer étudier en France, il faudra surtout être riche. Le premier ministre Édouard Philippe a annoncé lundi 19 novembre une hausse spectaculaire des frais d’inscription à l’université pour les étudiants étrangers extra-communautaires.

    Dorénavant, les étudiants venant des pays situés en dehors de l’Union européenne devront débourser pour leurs frais d’inscription à l’université 2 770 euros en licence (contre 170 euros aujourd’hui) et 3 770 euros en master et doctorat (contre 243 euros en master et 380 euros en doctorat jusqu’à présent) à partir de la rentrée prochaine. Jusqu’alors, ils s’acquittaient des mêmes droits d’inscription que les étudiants français et européens.

    Le premier ministre justifie cette mesure par un raisonnement qui peut sembler incongru : entre 2010 et 2015, le nombre d’étudiants étrangers a baissé de 8 %. Or, pour relancer l’#attractivité de la France, le gouvernement est convaincu qu’il faut que les facs françaises coûtent plus cher.

    La France reste pourtant le quatrième pays d’accueil choisi par 245 000 étudiants. D’ici à 2027, la France espère porter à 500 000 le nombre d’étudiants étrangers qu’elle accueille chaque année.

    Selon Édouard Philippe, les #étudiants_internationaux aujourd’hui inscrits en licence paient moins de 2 % du coût réel de leur formation. Sans compter qu’ils ne paient pas d’impôts en France, ni leurs parents, et ne contribuent donc pas au financement de l’enseignement supérieur. Ainsi, il s’agit de rétablir une forme d’« #équité » parmi les étudiants.

    Pour mieux faire accepter cette mesure sensible car considérée par certains comme discriminatoire, le premier ministre a annoncé la mise en place de 6 000 #bourses d’établissement et l’augmentation du nombre de bourses d’État réservées aux étudiants étrangers, qui passeront de 7 000 à 15 000, et « concerneront prioritairement les étudiants en provenance du Maghreb et des pays d’Afrique », selon le plan présenté.

    Les deux principales organisations syndicales, Fage et Unef, ont pris position contre cette mesure.

    Hugo Harari-Kermadec est maître de conférences en économie à l’ENS Paris-Saclay, coauteur de l’ouvrage Arrêtons les frais ! Pour un enseignement supérieur gratuit et émancipateur (Raisons d’agir, 2014) et membre du groupe de recherche Acides (Approches critiques et interdisciplinaires des dynamiques de l’enseignement supérieur).

    Est-ce que cette annonce était attendue ?

    Hugo Harari-Kermadec : On savait depuis la campagne présidentielle que la discussion concernant la hausse des frais d’inscription à l’université était assez avancée. Une note de l’économiste Robert Gary-Bobo évoquait déjà ce sujet et, plus largement, les Macron Leaks font état de discussions entre Thierry Coulhon, devenu conseiller pour l’enseignement supérieur d’Emmanuel Macron, et l’économiste Philippe Aghion sur cette question. Le dernier est moins maximaliste que le premier par ailleurs. C’est donc un mouvement général.

    L’annonce de l’augmentation des frais d’inscription pour les étudiants étrangers extra-communautaires montre qu’une première étape est franchie.

    On a vu comment Parcoursup organise un système où le futur étudiant candidate à un grand nombre de formations, comme dans un marché. L’idée étant qu’au lieu d’être affecté dans la licence de son choix dans la limite des postes disponibles, on est mis en concurrence et, selon la demande, il est plus ou moins difficile d’y entrer. Les plus demandées seraient aussi payantes.

    À long terme, on peut imaginer qu’il y aura une offre concurrentielle marchande. Des établissements privés sont déjà répertoriés dans Parcoursup.

    Bien entendu, le contre-argument principal à cette hausse des frais d’université va être de dire que cela ne concernera pas tout le supérieur, seulement certains établissements et certaines filières. On peut donc aussi supposer que les universités qui ont le plus besoin de financements, celles de banlieues dans les villes grandes et les moyennes, ne seront pas attractives et personne ne voudra payer pour y venir. Ce qui va en définitive accroître les #inégalités et les hiérarchies.

    Le premier ministre a expliqué agir ainsi pour rétablir « une équité » entre étudiants dont les parents paient des impôts en France et les autres. Est-ce un argument recevable selon vous ?

    Non. Les parents d’étudiants étrangers ne paient pas d’impôts en France, certes, mais dans ces cas-là, les adultes qui n’ont pas d’enfants ne devraient pas payer d’impôts non plus. Le premier ministre entre dans une logique où chacun paie ce qu’il consomme, ce qui est l’inverse de la définition du #service_public.

    Au contraire, il y a tout intérêt à ce que les étudiants étrangers viennent étudier en France, qu’ils restent et paient des impôts ensuite. Surtout que, pendant les années où ils seront là, ils devront se loger, se nourrir, bref faire des dépenses. Le coût des études sera de toute façon inférieur à ce qu’ils vont dépenser en vivant en France (4,65 milliards d’euros contre 3 milliards d’euros). C’est plus rentable à long terme que de leur demander de payer ce qu’ils consomment. Surtout qu’en étant étudiant ici, même s’ils repartent, ils garderont un lien avec la France et pourront, par exemple, faire du commerce ou de l’exportation. Il n’y aura pas de perte économique.

    La véritable question d’équité est de rappeler que tout jeune en France a le droit d’être formé. Là, cette mesure peut dissuader les moins fortunés de venir.

    D’autres, comme la présidente de la Conférence des grandes écoles, expliquent que des frais d’inscription modiques nuisent à l’attractivité et donnent l’impression d’une éducation au rabais.

    Là encore, c’est un argument courant de dire que si une formation n’est pas assez chère, c’est qu’elle est de mauvaise #qualité. On pourrait rétorquer que des masters à 3 000 euros ne « font » pas assez chers. Autant les rendre gratuits en disant que l’éducation n’a pas de prix.

    Surtout que ça n’aide pas à augmenter l’attractivité. Le Chili, par exemple, a des prix alignés sur ceux des États-Unis. C’est très onéreux mais il n’y a pas d’étudiants étrangers là-bas. L’université est pourtant de qualité, elle est bien placée dans les classements internationaux. Mais les étudiants asiatiques, qui sont la cible visée, préfèrent aller aux États-Unis, en France ou en Grande-Bretagne.

    Les jeunes prennent aussi en ligne de compte dans leur choix la qualité de vie et le réseau qu’ils auront en s’expatriant pour leurs études. C’est pour cette raison que le « #tourisme_étudiant » est en pleine expansion. Les communautés d’établissements comme PSL à Paris ou Saclay essaient de développer non pas une excellence de la recherche mais des infrastructures pour attirer le plus grand nombre. Dans cette veine-là, à Saclay, un projet de créer le plus grand stade européen est à l’étude.

    Les syndicats étudiants sont contre cette hausse et parlent plutôt de la nécessité d’assouplir la politique de visas, est-ce le problème ?

    En réalité, l’idée du gouvernement n’est pas d’attirer ceux qu’on a toujours attirés, à savoir les étudiants des ex-colonies françaises. En introduisant cette hausse des frais d’inscription, l’État vise à attirer les étudiants asiatiques et les classes moyennes hautes de ces pays au pouvoir d’achat en augmentation. Il ne s’agit pas d’avoir plus d’étudiants étrangers mais surtout de saisir une part de marché.

    On va attribuer des bourses pour compenser la hausse de ces droits d’inscription. Mais alors les aspirants vont devoir prouver qu’ils ont de faibles ressources pour y prétendre. Cela concerne ceux qui n’ont pas les moyens de venir en France étudier. Ceux qui sont suffisamment riches pour venir n’entreront pas dans les critères pour être éligibles à une aide de l’État. Le seul moyen de se sortir de cette situation est de distribuer les aides en fonction de critères scolaires, y compris pour ceux qui peuvent payer. Tout cela ne changera donc rien en termes de #mixité_sociale.

    Y a-t-il eu d’autres tentatives par le passé d’augmenter les frais d’inscriptions pour les étudiants étrangers ?

    Il y a eu toute une série d’expérimentations dans l’enseignement supérieur. Science Po a été précurseur et a augmenté ses frais d’inscription pour tout le monde, en fixant d’abord un maximum de 2 000 euros. Les étrangers extra-communautaires paient toujours le prix le plus élevé car on ne peut pas vérifier leur dossier et la réalité des ressources de leurs parents. Aujourd’hui, au bout de quelques années, le prix de l’année d’étude s’élève à 14 000 euros, ce qui est plus onéreux que les écoles de commerce et correspond aux tarifs pratiqués en Angleterre. La moitié des étudiants de Science Po sont étrangers.

    Cette hausse massive a profondément changé le mode de recrutement des étudiants. Ils veulent faire venir des étudiants étrangers et pour cela leur offrent une expérience de vie dans le centre de Paris. Le recrutement des étudiants français est très sélectif. L’université Paris-Dauphine a opté pour une hausse moins forte, mais visant déjà les étudiants étrangers. Là encore, cela a été progressif. Les masters internationaux en anglais sont passés à 4 000 euros par an.

    En Grande-Bretagne, le tarif standard est de 14 000 euros. Les étudiants étrangers peuvent payer plus. Ils sont donc plus intéressants pour les universités, car les « nationaux » rapportent moins. De fait, des filières comme la philosophie ou la littérature anglaise sont sacrifiées au profit de cursus de médecine, droit ou business, plus susceptibles d’attirer les étudiants asiatiques ou moyen-orientaux.

    Au contraire, en 2005, certains Länder en Allemagne ont essayé d’augmenter ces frais avant de faire machine arrière car la communauté universitaire et les jeunes y étaient réfractaires. Culturellement, cela n’est pas passé et les étudiants pouvaient aller dans le Land d’à côté pour éviter cette hausse.

    Est-ce que cette volonté d’augmentation des frais d’inscription est une tentative de compenser le sous-financement de l’enseignement supérieur ?

    Valérie Pécresse, il y a une dizaine d’années, ou Geneviève Fioraso, plus récemment en 2013, alors en charge de l’enseignement supérieur, ont fait des déclarations dans lesquelles elles expliquaient que les établissements devraient expérimenter des hausse des frais d’inscription. Là, c’est Édouard Philippe qui fait la même préconisation et va plus loin en l’imposant, au mépris de l’autonomie des universités.

    L’enseignement supérieur est toujours une priorité pour tous les gouvernements, mais le financement par étudiant est en baisse et cela ne change pas. Les universités vont modifier leur comportement pour attirer les étudiants étrangers et les nationaux vont s’habituer peu à peu à ce que leurs études leur coûtent de plus en plus cher. Certains pourront se dire qu’il est plus simple dans ce cas de ne pas faire d’études du tout et de gagner le Smic toute leur vie.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/201118/frais-d-inscription-pour-les-etudiants-etrangers-une-logique-contraire-au-
    #université #élitisme #études_supérieures #attractivité #excellence

    • Débat : « Bienvenue en France » aux étudiants étrangers, vraiment ?

      Lundi 19 novembre 2018, le gouvernement français a annoncé une nouvelle stratégie pour attirer plus d’étudiants étrangers en France. Sous un nouveau label « #Bienvenue_en_France » attribué aux établissements exemplaires, le premier ministre, Édouard Philippe, souhaite passer de 320 000 étudiants internationaux aujourd’hui à 500 000 dans les universités de l’Hexagone d’ici 2027. De quelle manière ? Entre autres, en augmentant les frais de scolarité pour les étudiants « extra-européens » !

      Ainsi, dès la rentrée prochaine, ces jeunes devraient payer 2 770 euros au lieu de 170 euros pour s’inscrire en licence, et 3 770 euros pour une formation en master ou en doctorat – contre 243 euros et 380 euros actuellement. Le premier ministre trouve « absurde » et « injuste » qu’un étudiant extra-européen « fortuné » « paie les mêmes droits d’inscription qu’un étudiant français peu fortuné dont les parents résident, travaillent et paient des impôts en France depuis des années ».

      Cette déclaration vient confirmer, encore une fois, l’ambiguïté de la politique française à l’égard des étudiants étrangers. Une politique qui oscille entre un désir d’attractivité, puisé dans une vision libérale marquée par l’ère de la #marchandisation des systèmes d’enseignement supérieur, et une obsession de contrôle affirmée par une #politique_migratoire restrictive, sélective, prospérant dans une logique bureaucratique sécuritaire.

      Un marathon administratif

      En 2017, ce sont plus de 78 000 premiers permis de séjour qui ont été délivrés en France pour « raisons liées à l’éducation ». Des documents obtenus au terme d’un véritable parcours de combattant. Depuis 2010, en effet, tout candidat étranger doit passer par la plate-forme numérique de #Campus_France, un établissement sous la tutelle conjointe du ministère des Affaires étrangères et du ministère chargé de l’Enseignement supérieur, avec un réseau de plus de 200 espaces et antennes dans le monde.

      La candidature, appelée #demande_d’admission_préalable (#DAP), est payante. Pour soumettre un dossier de candidature, les étudiants doivent payer les frais de dossier en espèces, auprès d’une banque accréditée. Le montant varie d’un pays à un autre. Par exemple, pour les candidats sénégalais, il est de 50 000 FCFA (environ 75 euros), pour les étudiants turcs, il est de 430 LT (environ 98 euros), alors que pour les étudiants marocains, il est de 1 900 Dhms (environ 172 euros). Il est clairement mentionné que ces frais de dossier ne sont pas une garantie de préinscription et qu’ils ne sont, en aucun cas, remboursables même en cas de désistement, de non-admission ou de refus de visa.

      Ainsi, dans un premier temps, les étudiants étrangers doivent créer un compte sur le site Campus France et compléter un dossier pédagogique, en saisissant les informations personnelles et les justificatifs de diplômes. Les candidats doivent également fournir un certificat attestant de leur niveau en français, et ce, en effectuant un test de connaissance du français (TCF), payant, ou en présentant un diplôme équivalent.

      L’étape suivante consiste à envoyer le dossier pédagogique aux établissements français dans lesquels le candidat souhaite s’inscrire. En cas d’avis favorable de l’un d’entre eux, les services de Campus France convoquent l’étudiant pour un entretien afin de vérifier l’authenticité des documents fournis, son niveau de français, ses motivations et la cohérence de son projet. À l’issue de cet entretien, l’agent de Campus France donne son avis. S’il est favorable, le candidat est invité à prendre rendez-vous au consulat de France pour déposer sa demande de visa long séjour mention « étudiant ».

      Des démarches coûteuses…

      Tout étudiant ne disposant pas d’une bourse d’études doit présenter une attestation bancaire justifiant « du dépôt d’un ordre de transfert, permanent et irrévocable, d’un montant minimum de la contre-valeur de 615 euros par mois pour la durée du séjour (base de 12 mois pour une année scolaire ou universitaire) ». Cette somme est conséquente, puisque pour un étudiant marocain par exemple, cela représente deux fois le salaire minimum mensuel dans son pays. De fait, pour pouvoir déposer une demande de visa de long séjour pour études en France, un étudiant marocain doit avoir économisé l’équivalent de deux ans de salaire minimum !

      Gardons l’exemple des étudiants marocains, puisqu’ils arrivent en tête de classement des étudiants étrangers en France (38 000 en 2017). Depuis 2015, tous les consulats de France au Maroc ont externalisé la réception des dossiers de demande et de délivrance des #visas à un prestataire privé, la société #TLS-Contact. Ainsi, outre les frais inévitables de #visas – non remboursables en cas de refus, les demandeurs payent aussi des frais de service à TLS-Contact, équivalant à 269 dirhams (autour de 25 euros).

      À leur arrivée en France, les étudiants étrangers doivent se présenter, dans un délai de trois mois à compter de la date d’entrée, aux services de l’Office français de l’immigration et de l’intégration (#OFII) de leur département d’installation, et ce, pour procéder aux formalités d’enregistrement. Une fois l’ensemble de démarches administratives accompli et en s’acquittant d’une taxe de 58 euros sous forme de timbres fiscaux, les passeports de ces étudiants étrangers se voient revêtus d’une vignette attestant l’achèvement des formalités.

      … et sans fin

      Dès leur deuxième année en France, les étudiants étrangers doivent demander une carte de séjour temporaire portant la mention « étudiant ». Selon l’article L.313-7 du CESEDA (Code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile) français, cette carte est accordée à « l’étranger qui établit qu’il suit en France un enseignement ou qu’il y fait des études et qui justifie qu’il dispose de moyens d’existence suffisants ».

      Le niveau de moyens d’existence estimé suffisant est équivalent à la demande initiale du visa long séjour, c’est-à-dire d’au moins 615 euros par mois. Ceci dit, le dossier de demande de cette première carte de séjour temporaire est composé, entre autres, d’un justificatif de ressources financières au montant défini ; un justificatif de domicile ; une attestation d’inscription dans un établissement d’enseignement supérieur et une attestation d’affiliation à une couverture sociale étudiante. La remise de ce premier titre de séjour exige l’acquittement d’une taxe de 79 euros sous forme de timbres fiscaux.

      Arrivés au terme de leur cursus, certains étudiants étrangers trouvent des opportunités d’emploi dans l’Hexagone et décident de s’y établir. Cette décision les expose de front à une nouvelle « carrière de papier » (Spire, 2005) aussi tracassante et complexe que les précédentes. En effet, pour qu’un étudiant étranger puisse séjourner légalement en France à l’issue de ses études supérieures et occuper une activité professionnelle salariée, il est soumis à une procédure administrative dite de « changement de statut », au terme de laquelle il passe de statut « étudiant » à celui de « travailleur temporaire » ou de « salarié ».

      Ceci étant dit, je vous laisse faire le calcul de la somme de tous ces frais (dossier Campus France + TLS-Contact + frais de Visa + timbres fiscaux à l’OFII) que les étudiants extra-européens paient pour poursuivre leurs études supérieures en France. Coûteuse, exigeant plusieurs mois de démarches, la procédure d’obtention d’un visa pour études Jamid, 2018 est révélatrice de la politique d’immigration sélective de la France. Une sélection qui relève à la fois d’une dimension sociale inégalitaire et d’apparentes logiques économiques, prescrites par les besoins économiques du marché du travail français.

      Des mesures contre-productives

      Beaucoup d’étudiants étrangers dépendent au cours de leur expatriation en France des ressources financières que leur procurent leurs familles. Nombreux d’entre eux sont originaires de milieux modestes. Pour subvenir aux différentes exigences matérielles liées au séjour de leurs enfants en France, nombreuses sont les familles qui parfois s’endettent. Avec cette nouvelle politique de frais d’inscriptions qui alourdit les charges pesant sur elles, il ne s’agira plus de « Bienvenue en France », mais plutôt « Allez ailleurs, ne venez pas en France » !

      Si les étudiants étrangers sont souvent considérés comme des candidats « désirables » à l’immigration en France, correspondant parfaitement aux canons de ce que vous appelez « l’#immigration_choisie », il n’en demeure pas moins qu’ils sont traités comme tout étranger, soupçonné en permanence de devenir ultérieurement en situation juridique irrégulière.

      En 2014, Campus France a réalisé une étude auprès d’un échantillon représentatif afin de cerner l’apport économique des étudiants étrangers à la vie du pays. Selon les résultats de cette enquête, en ligne :

      « Alors que le coût de ces étudiants étrangers pour le budget de l’État peut être évalué à 3 milliards d’euros environ, l’apport des étudiants l’économie française se monte à 4,65 milliards d’euros dont : 3 250 millions euros en consommation quotidienne de biens et services ; 563 millions euros en frais d’inscription et de scolarité ; 364 millions euros en dépenses de transport aérien auprès d’opérateurs français ; 466 millions euros de dépenses des proches qui rendent visite aux étudiants. »

      Peut-être les responsables politiques devraient-ils faire un tour pendant leurs vacances dans des villes comme Brest, Nancy ou Mulhouse, où les étudiants étrangers dynamisent la vie locale. Leurs habitants le confirmeront !

      https://theconversation.com/debat-bienvenue-en-france-aux-etudiants-etrangers-vraiment-107291

    • La Cour des comptes préconise une hausse des droits d’inscription à l’université

      L’institution recommande, dans un rapport que s’est procuré « Le Monde », la fin de la quasi-gratuité de l’université, en priorité en master.

      Après la sélection, la quasi-gratuité constitue probablement l’un des derniers principes tabous à l’université, qu’aucun gouvernement n’a remis en cause depuis une trentaine d’années et le projet de loi Devaquet, en 1986, abandonné face aux milliers d’étudiants dans la rue. Dans un rapport intitulé « Les droits d’inscriptions dans l’enseignement supérieur public », que Le Monde s’est procuré, la Cour des comptes remet ce sujet inflammable sur la table et propose rien moins qu’une augmentation substantielle des droits d’inscription, en priorité en master.

      Ce document encore confidentiel de 200 pages, qui doit être transmis aux membres de la commission des finances de l’Assemblée nationale dans les prochains jours, survient dans un contexte qui n’a rien d’anodin. Commandé par le député du Calvados de la majorité LRM (La République en marche), Fabrice le Vigoureux, il ne manquera pas de faire écho aux mesures annoncées par le gouvernement le 19 novembre, sur l’augmentation de plusieurs milliers d’euros des droits d’inscription des étudiants étrangers extra-européens. Celles-ci ont provoqué une levée de boucliers chez les deux principales organisations étudiantes (UNEF et FAGE) et certains syndicats enseignants, dénonçant une première entaille au principe de gratuité risquant d’en appeler d’autres.

      https://www.lemonde.fr/education/article/2018/11/21/la-cour-des-comptes-envisage-une-augmentation-des-droits-d-inscription-a-l-u

    • Pour attirer les étudiants étrangers, le gouvernement veut… les faire fuir

      Le Premier ministre vient d’annoncer le décuplement des frais de scolarité des étudiants étrangers. Injustice faite aux étudiants ressortissants des pays les plus pauvres, coup porté au dynamisme de l’enseignement et de la recherche en France, ce projet emporte avec lui une réforme encore plus radicale : comment ne pas penser qu’après les étrangers viendra le tour de tous les étudiants, avec pour conséquence le renoncement aux études supérieures pour les plus démunis ou un surendettement massif pour ceux qui persisteraient ?

      À les entendre, nous pourrions penser que le président de la République et son Premier ministre, qui se piquent d’être des gens de lettres, ont, récemment, décidé d’apprendre aux Françaises et aux Français à maîtriser toutes les subtilités de la rhétorique. Après le pseudo mea-culpa du premier dans lequel il nous expliquait qu’il n’avait « pas réussi à réconcilier le peuple français avec ses dirigeants », nous donnant ainsi une magnifique illustration de l’« euphémisme » (ainsi que le notait Cécile Alduy sur Twitter).

      https://aoc.media/opinion/2018/11/23/attirer-etudiants-etrangers-gouvernement-veut-faire-fuir
      #paywall

    • Faire payer les étudiants étrangers pour mieux faire s’endetter tous les étudiants

      Six universitaires critiquent la hausse des frais universitaires pour les étudiants étrangers, estimant que « si le gouvernement s’engageait dans cette voie (…) les conséquences sociales de cette politique (…) contribueront à fortement éloigner des jeunes des études supérieures (…) et à l’endettement massif de ceux qui s’y engageraient ».

      Le Premier ministre vient de franchir une nouvelle ligne rouge. Celle qui conduira inexorablement à l’#inégalité de la jeunesse devant le savoir.

      L’annonce a été ainsi faite lors des Rencontres universitaires de la francophonie de l’augmentation des frais d’inscription dans les universités françaises qui passeront de 200 à environ 3 500 euros pour les étudiants extra-communautaires. Une réforme qui serait nécessaire car nous dit Edouard Philippe « Un étudiant étranger fortuné paie les mêmes droits d’inscription qu’un étudiant français peu fortuné dont les parents résident, travaillent et paient des impôts en France depuis des années. C’est absurde et injuste ». Mais rassurons-nous, la tradition humaniste française sera respectée, le nombre de bourses d’études, en priorité en direction des pays du Maghreb et d’Afrique, sera triplé passant de 6000 à 21 000. Et cette mesure devrait même rendre la France plus attractive nous assure sans rire le gouvernement alors même qu’une étude menée par France Stratégie, en 2015 indiquait que le nombre d’étudiants a mécaniquement baissé dans les pays qui ont augmenté leurs droits comme en Suède où la chute a été de 80%.

      Mais ne nous y trompons pas, derrière cette annonce qui se veut de « bon sens », faite en pleine crise des gilets jaunes et le jour de l’annonce du retour du service national pour sans doute passer inaperçue, se cache une réforme plus radicale pour le service public de l’Enseignement Supérieur et concerne bien plus que les 320 000 étudiants étrangers inscrits dans nos universités. Car après les étrangers viendra le tour de tous les étudiants, avec pour conséquences à terme le renoncement aux études supérieures pour les plus démunis ou un surendettement massif pour ceux qui persisteraient.

      En effet, cette histoire est ancienne et nous en connaissons la fin. En Grande-Bretagne, l’idée de faire payer les étrangers a été initiée dès 1980 par M. Thatcher puis amplifiée par T. Blair et les gouvernements successifs. Elle a permis d’installer dans les esprits que l’accès au savoir n’était pas un droit pour tous mais un service comme un autre, et qu’à ce titre l’usager, devait payer pour cela. C’est ainsi que les frais d’inscription qui étaient quasi nuls en 1980 ont vu, après cette réforme réservée initialement aux étrangers, leur augmentation s’étendre progressivement à tous les étudiants et s’élèvent aujourd’hui en moyenne à plus de 10 000£.

      Et n’en doutons pas, il en sera de même en France. D’une part parce que l’Etat se désengage et les universités se paupérisent - cette année l’augmentation 500 millions de leurs budgets est inférieure à l’inflation. D’autre part parce que nombreux sont ceux qui réclament cette augmentation, et depuis fort longtemps. Ainsi la Cour des comptes vient elle même de préconiser cette augmentation dans un rapport commandé par un député de la République en Marche. Pour certains les droits élevés garantiraient un "nouveau contrat entre les étudiants et les universités", augmenteraient leur motivation tandis que leur statut d’usager leur permettrait d’imposer de plus fortes exigences de qualité des services fournis aux universités. Ces frais élevés seraient d’ailleurs un « signal de qualité » en direction des publics internationaux si l’on en croit Anne-Lucie Wack, présidente de la Conférence des grandes écoles. Pour d’autres l’augmentation de ces droits permettrait plus prosaïquement de compenser très partiellement le manque de ressources des universités. Rappelons que ces droits représentent environ 2% des budgets des universités et 10 à 15% de leurs frais de fonctionnement.

      Un argument de « justice sociale » est aussi invoqué. Certains expliquent en effet que des frais uniques et de faible montant est en fait une fiction accentuant les inégalités. Leur raisonnement est le suivant : ce sont les jeunes les plus favorisés qui font les études les plus longues et les moins chères - or cet investissement est payé par toute la Nation, notamment via la demi-part fiscale dont bénéficient leurs parents, Il en résulte un « rendement privé » important puisque les salaires les plus élevés dont bénéficient les actifs diplômés sont ainsi financés par cette subvention publique importante payée par tous. Aussi la quasi gratuité de l’Enseignement Supérieur ne serait pas redistributive et serait contraire aux ambitions d’égalité de la République.

      Selon eux, pour compenser, il faudrait augmenter les frais d’inscription, quitte à le faire avec des tarifs progressifs selon les revenus des parents ou les revenus ultérieurs attendus (les étudiants en médecine ou en droit pourraient payer plus chers). Et pour payer ces frais élevés, la solution préconisée le plus souvent est le recours à l’emprunt, au prêt d’études garanti par l’Etat remboursable avec le premier emploi. Cette politique est celle menée dans de nombreux pays avec les effets néfastes que nous connaissons. Aux Etats-Unis par exemple, modèle des promoteurs de ce financement par l’emprunt, la dette contractée par les étudiants est d’environ 25 000$. Son total qui s’élevait à 500 milliards de dollars en 2008 est aujourd’hui de 1500 milliards de dollars, une menace pour l’économie au moins aussi importante que celle des subprimes en 2008 puisque de plus en plus de jeunes diplômés sont en surendettement et incapables de rembourser leurs dettes. Cet endettement est tel que certains encouragent d’ailleurs les jeunes à ne pas faire d’études.

      Ainsi, partout où cela a été fait, l’augmentation des frais d’inscription réservé aux étrangers a conduit à l’augmentation des frais pour tous puis à l’endettement des étudiants qui voulaient poursuivre leurs études. Si le gouvernement s’engageait dans cette voie comme la logique du processus le suggère, les conséquences sociales de cette politique seront immédiates. Elles contribueront à fortement éloigner des jeunes des études supérieures (seuls 4 jeunes sur 10 obtiennent un diplôme d’enseignement supérieur) et à l’endettement massif de ceux qui s’y engageraient (1 étudiant sur 2 est obligé de travailler pour subvenir à ses besoins).

      Elle sera injuste car ces augmentations pénaliseront essentiellement les familles les plus modestes dont les enfants s’inscrivent dans les premiers cycles universitaires. Par ailleurs, elle conduira de nombreux jeunes à entrer dans la vie active handicapés par un emprunt initial, créant au delà des difficultés individuelles une situation économique potentiellement dangereuse pour le pays.

      Pour faire accepter cette transformation, le gouvernement a choisi indignement de commencer par commodité de montrer du doigt ces étrangers qui viendraient profiter des largesses françaises. C’est faire mine d’oublier que le rayonnement international de la France a besoin d’accueillir ces étudiants étrangers ; la francophonie notamment y perdrait, la Chine ayant de son côté une action de « coopération » extrêmement énergique vers le continent africain. C’est faire mine d’oublier que ces étudiants étrangers par leur consommation participent au développement économique des villes universitaires dans lesquelles ils vivent. C’est faire mine d’oublier que les liens qu’ils auront noués au cours de leur scolarité se retrouveront souvent dans les partenariats économiques et culturels qu’ils pourront établir ensuite entre leur pays d’origine et la France.

      Mais au delà de cette mesure injuste, il s’agit là de la première étape d’un processus plus vaste pour imposer mezza voce une vision libérale de l’Enseignement Supérieur qui fait passer d’un financement public par l’impôt à un financement par endettement privé. Notons que cette politique libérale a déjà été mise en œuvre par le gouvernement dans le secteur hospitalier via le développement des mutuelles privées, notons qu’il vient d’ailleurs de la même façon d’acter des frais d’hospitalisation plus élevés pour les étrangers venant se faire soigner en France. Refusons cette réforme et rappelons avec force que l’université française doit demeurer un service public qui élabore et transmet des savoirs permettant à chacun d’acquérir la maitrise de son destin, professionnel mais aussi intellectuel et citoyen.

      https://blogs.mediapart.fr/edition/les-invites-de-mediapart/article/241118/faire-payer-les-etudiants-etrangers-pour-mieux-faire-sendetter-tous-
      #endettement #taxes_universitaires

    • Message du Directeur du Cabinet de la Ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation adressé aux établissements relevant du ministère français de l’enseignement supérieur

      –-> message reçu par email via mon université

      Mesdames et messieurs les présidents et directeurs,
      Le Gouvernement français a lancé une stratégie d’#attractivité pour les étudiants internationaux incluant :

      – une simplification de la politique des #visas,
      – la multiplication des formations en français langue étrangère et en anglais,
      – une démarche de généralisation et de #labellisation des programmes d’accueil et d’accompagnement des étudiants étrangers mis en place dans les établissements
      – et une campagne de #communication mondiale, sous l’égide de Campus France.

      La France se fixe ainsi l’objectif d’accueillir un demi-million d’étudiants étrangers d’ici 2027. En parallèle, des moyens sont mobilisés pour accompagner le déploiement hors de France des campus et des formations des universités et des écoles françaises, notamment en #Afrique.

      Dès la rentrée 2019, les droits d’inscription seront différenciés en France pour les étudiants internationaux hors Union européenne. Ils resteront inférieurs au tiers du coût réel des formations mais permettront d’augmenter significativement les ressources propres des universités et des écoles. Vous aurez ainsi les moyens de renforcer l’attractivité et la #visibilité de vos établissements vis-à-vis des étudiants internationaux. Dans le même temps, le nombre de #bourses et #exonérations sera triplé.

      J’attire votre attention sur trois points essentiels :
      – Les #droits_différenciés concernent les étudiants internationaux hors Union Européenne, Suisse et Québec. Ils ne s’appliquent pas aux étudiants internationaux d’ores et déjà présents dans vos établissements et qui, à la rentrée 2019, poursuivront leurs études au sein d’un même cycle (L, M ou D). Vos établissements sont par ailleurs en mesure, dans le cadre de leur stratégie d’attractivité et d’accueil, de prévoir une exonération pour les étudiants internationaux changeant de cycle.
      – Le nombre de bourses et exonérations à destination des étudiants étrangers sera triplé, prioritairement à destination des étudiants venus de pays du Maghreb ou d’Afrique. Les universités auront la possibilité d’accorder des bourses et des exonérations, totales ou partielles, notamment dans le cadre des accords de coopération entre universités et écoles (Erasmus+, cotutelle de thèse, par exemple).
      – Les doctorants internationaux bénéficieront de programmes spécifiques de soutien permettant de maintenir l’attractivité des laboratoires de recherche. Les droits d’inscription des doctorants internationaux pourront être pris en charge dans le cadre de financements qui soutiennent les projets de recherche auxquels ils participent.

      Les services du ministère vous feront parvenir les documents techniques nécessaires à la mise en place de ces nouvelles mesures tout au long de l’année.
      Bien cordialement,
      Philippe Baptiste

      –-----

      Qui est concerné par le paiement des droits d’inscription différenciés ?

      Les étudiants extra-européens qui s’inscrivent pour la première fois dans un cycle supérieur de formation en France seront amenés à acquitter des droits d’inscription différenciés. Ces droits concernent les établissements relevant du ministère français de l’enseignement supérieur.

      Ne sont pas concernés par le paiement de ces droits différenciés :
      – Les étudiants ressortissants d’un pays de l’Espace économique européen ou de la Suisse ;
      – Les étudiants de nationalité canadienne domiciliés au Québec, conformément aux accords franco-québécois ;
      – Les étudiants venant en France dans le cadre d’un partenariat entre universités qui prévoit une telle exonération, notamment les étudiants qui ne sont pas ressortissants d’un pays de l’UE et qui sont accueillis dans le cadre des programmes d’échange du type Erasmus+ ;
      – Les étudiants réfugiés ou bénéficiaires de la protection subsidiaire, qui seront naturellement exonérés ;
      – Les étrangers ayant le statut de résidents en France ou dans l’Union européenne ainsi que les étudiants étrangers présents en France au titre de la vie privée et familiale ;
      – Les étudiants déjà inscrits dans un cycle d’étude (Licence, Master ou Doctorat) et le poursuivant en 2019 ;
      – Les étudiants actuellement inscrits dans une formation préparatoire à l’entrée en Licence, Master ou Doctorat (comme les formations en FLE) et entrant dans un cycle en 2019.
      Sont également exonérés les étudiants bénéficiant d’une bourse du Gouvernement français ou d’une exonération de droits d’inscription, accordée par l’ambassade de France dans leur pays d’origine ou de résidence. Les universités pourront également accorder des bourses et des exonérations.

    • #Choose_France

      Sommet sur l’attractivité de la France

      A l’initiative d’Emmanuel Macron, Président de la République française, le sommet sur l’attractivité de la France s’est tenu le lundi 22 Janvier à Versailles en présence de 140 dirigeants d’entreprises internationales.

      A cette occasion Facebook a annoncé le développement de son pôle de recherche sur l’#intelligence_artificielle en France. A ce titre, le nombre de chercheurs du #Facebook_Artificial_Intelligence_Researchers (#FAIR) Paris passera de 30 à 60 et le groupe va investir 10 millions d’euros supplémentaires d’ici 2022, soit un triplement des sommes qu’il y consacre.

      #Google, a lui-aussi fait part, hier, de ses intentions en matière d’intelligence artificielle dans l’Hexagone. L’entreprise va ouvrir un centre de #recherche_fondamentale dévolue à l’intelligence artificielle en France . Il s’agira du troisième centre du groupe en la matière, après ceux de Mountain View, en Californie, et Zurich, en Suisse. Il sera installé dans le siège parisien de Google, qui s’étendra sur 6000 M2 supplémentaire pour devenir un « campus ».

      Enfin, le principal éditeur européen de logiciels, SAP, annoncé hier son intention d’investir 150 Millions d’euros par an en France pendant les cinq prochaines années. Ces investissement concernent la recherche et développement.

      Toujours pour favoriser l’attractivité de la France, Edouard Philippe, Premier Ministre, s’est engagé à développer l’offre scolaire internationale en France. Le gouvernement promet un « #accueil_personnalisé » aux familles qui s’installent en France. « Un numéro de téléphonique unique, un guide interactif et un outil cartographique présentant l’ensemble de l’offre éducative, seront mis à disposition des familles pour simplifier leurs démarches » précise-t-il. Trois nouveaux #lycées_internationaux devraient également voir le jour d’ici la rentrée 2021.

      https://www.campusfrance.org/fr/choose-france

      Dans le dossier de presse ("STRATÉGIE D’ATTRACTIVITÉ
      POUR LES ÉTUDIANTS INTERNATIONAUX"), quelques statistiques et chiffres :

    • Augmenter les frais d’inscription des étudiants étrangers ? Pas en mon nom

      Alors que l’asphyxie financière des universités est méthodiquement planifiée depuis des années par les majorités successives, le Premier ministre a présenté l’augmentation prochaine des droits de scolarité des étudiants étrangers comme un vecteur de ressources nouvelles et d’attractivité à l’international des universités françaises.

      L’augmentation prochaine des frais d’inscription des étudiants non-européens dans l’enseignement supérieur public a été annoncée par le Premier ministre le 19 novembre 2018. Conformément à la tradition de novlangue orwellienne à laquelle le « nouveau monde » a systématiquement recours, il a inséré cette discrimination tarifaire a priori désincitative pour les usagers dans le cadre d’une « stratégie d’attractivité pour les étudiants internationaux », dénommée non sans humour « Bienvenue en France », et n’a pas manqué de présenter comme une « révolution » sa réforme d’essence conservatrice.

      Pour la rentrée universitaire 2019/2020, à suivre le Premier ministre « les étudiants internationaux qui ne résident pas dans l’Espace économique européen paieront des frais d’inscription correspondant approximativement au tiers du coût réel de leur formation » ; concrètement, et s’agissant en particulier des formations universitaires où sont inscrits 70% des étudiants internationaux, il est annoncé que ces étudiants devront s’acquitter de 2 770 euros de droits de scolarité au lieu des 170 euros actuellement prévus « pour tous » afin de s’inscrire dans l’une des trois années conduisant à la délivrance du diplôme de licence, et 3 770 euros pour une inscription en diplôme de master ou de doctorat – contre 243 euros et 380 euros actuellement (v. l’annexe de l’arrêté du 21 août 2018 fixant les droits de scolarité d’établissements publics d’enseignement supérieur relevant du ministre chargé de l’enseignement supérieur ; plus généralement, v. le chapitre « Les étudiants » que l’auteur de ce blog a publié in : Bernard Beigner et Didier Truchet (dir.), Droit de l’enseignement supérieur, LGDJ, novembre 2018, p. 345-390).

      Le Premier ministre n’a pas précisé si ces futurs tarifs à quatre chiffres s’appliqueront aux seuls étudiants internationaux inscrits pour la première fois à partir du 1er septembre 2019, où s’ils seront également opposables aux étudiants internationaux déjà inscrits en France en cette année universitaire 2018/2019 et qui ont vocation à poursuivre leur cursus l’année prochaine.

      Le discours du Premier ministre prononcé à cette occasion est abstrait et déconnecté des réalités. Il suffit à cet égard de relever que, à le suivre, la loi du 8 mars 2018 relative à l’orientation et à la réussite des étudiants a « amélioré l’accueil et l’accompagnement de nos étudiants et (mis) un terme à un système qui conduisait trop souvent à l’échec en licence ». Or, cette affirmation est factuellement erronée, car d’une part la loi ORE n’a rien changé aux conditions, dramatiques pour un pays tel que le nôtre, d’accueil et d’accompagnement des étudiants – il faudrait drastiquement augmenter le budget des universités pour cela –, et d’autre part Parcoursup, qui est un mécanisme de sélection en forme de supplice chinois, a pour résultat concret de créer des filières universitaires duales : celles où ont été acceptés les meilleurs élèves de terminale qui n’ont pas voulu ou pas pu accéder à l’enseignement supérieur ouvertement sélectif, et où le taux de réussite sera amélioré ; les autres filières « choisies » par défaut au carré voire au cube, où c’est le taux d’échec qui sera amélioré. En termes de « réussite » en licence, Parcoursup est globalement un jeu à somme nulle, aux sens propre et figuré.

      Le Premier ministre affectionne le mot « horizon » – peut-être pour l’aspect visionnaire que tel ou tel Candide, s’il en reste, pourrait prêter à celui qui l’emploie. Il a ainsi évoqué le 6 septembre 2018 « l’horizon 2035 » (sic) – soit dans dix-sept ans – pour la réduction à 50% de la part du nucléaire dans la production d’électricité. S’agissant de la stratégie présentée le 19 novembre, il a visé un peu moins loin dans la perspective temporelle, et s’en est tenu à un « objectif d’atteindre 500 000 étudiants en mobilité à l’horizon 2027 », soit quand même dans neuf ans, sans au demeurant qu’il nous explique pourquoi il a précisément choisi cette année là du 21ème siècle. Il a parallèlement fait savoir que « d’ici 2025, le nombre d’étudiants en mobilité internationale aura doublé, passant de plus de 4,6 à 9 millions ». A supposer que ces prévisions dignes de Nostradamus soient exactes, il faudrait en réalité, pour que la France ne perde pas sa part relative d’attractivité des étudiants en mobilité, plus que doubler leur nombre actuel – 324 000, dont 70% suivent une formation dans les universités – d’ici à 2027, c’est-à-dire donc en accueillir au moins 648 000 et non « seulement » 500 000 comme le projette le Premier ministre.

      Les chiffres avancés par le Premier ministre évoquent « en creux » un fort ralentissement de la dynamique de progression de l’attractivité des universités françaises : une augmentation de 50% du nombre des étudiants internationaux est projetée pour 2027, là où cette augmentation devrait être d’au moins 100%... Il serait utile de s’interroger sur les causes de cette grave perte d’influence de la francophonie, qui ne sont évidemment pas dues à la quasi-gratuité de l’inscription dans les filières universitaires.

      L’explication de cette multiplication par dix ou seize des frais d’inscription des étudiants étrangers laisse pour le moins dubitatif : le Premier ministre trouve « absurde » et « injuste » qu’un étudiant non-européen « fortuné » « paie les mêmes droits d’inscription qu’un étudiant français peu fortuné dont les parents résident, travaillent et paient des impôts en France depuis des années ». Dans le monde théorique d’Edouard Philippe, tous les étudiants non internationaux sont des étudiants français, tous ces étudiants français ont non pas un mais des parents, tous ces étudiants français ont des parents qui tous deux résident en France (quid des ressortissants européens), tous ces étudiants français ont deux parents qui résident en France et qui tous deux paient des impôts, et « donc » qui financent indirectement ces services publics administratifs que sont les établissements universitaires. A contrario, dans le monde théorique d’Edouard Philippe, un étudiant international est originaire d’un pays où le niveau de vie est comparable au nôtre et où donc 2 770 euros ou 3 770 euros représentent « en vrai » 2 770 euros ou 3 770 euros ; cet étudiant arrive en France sans frais ; il y trouve immédiatement, d’un simple clic sur internet, un logement meublé pour lequel il ne paye pas de loyer ; il mange gratis ; il ne s’acquitte d’aucun impôt ou taxe lorsqu’il suit son cursus. La technocratie, c’est exactement cela : un administrateur qui modèle à sa façon, telle qu’il l’imagine, une réalité qu’il ne connait pas, pour lui donner l’aspect qu’il souhaite qu’elle possède et non celui qu’elle a.

      Quant aux ressources supplémentaires susceptibles d’être générées par cette augmentation des frais d’inscription, il suffit d’avoir à l’esprit que la loi de finances peut immédiatement les neutraliser en diminuant d’autant les ressources étatiques attribuées aux universités, par un jeu de bonneteau auquel nous sommes désormais fort habitués depuis mai 2017.

      En clair, ce projet vise à évincer les étudiants africains au profit des étudiants d’autres régions du monde (Maryline Baumard, « Les étudiants africains, laissés-pour-compte de la nouvelle stratégie française », Le Monde, 19 novembre 2018) ainsi que l’a reconnu le Premier ministre par une formule faussement volontariste (« Les étudiants indiens, russes, chinois seront plus nombreux et devront l’être »), et ne fait que préparer les esprits à la hausse des frais d’inscription « pour tous » telle que la préconise la Cour des comptes (965 euros en master et 781 euros en doctorat, pour obtenir 432 millions d’euros de ressources supplémentaires, prélude à une baisse équivalente des dotations étatiques : Camille Stromboni, « La Cour des comptes préconise une augmentation des droits d’inscription à l’université », Le Monde, 21 novembre 2018 ; Camille Stromboni, « La hausse des droits d’inscription pour les étudiants français et européens écartée par le gouvernement », Le Monde, 21 novembre 2018), alors que l’Etat entretient savamment la pénurie, et désormais la disette, budgétaire et financière pour la plupart des universités, là où des établissements « sélectifs » du supérieur sont au contraire favorisés.

      Des voix se sont déjà élevées contre ce projet (v. Eric Fassin et Bertrand Guillaume, « Attirer les plus riches, et en même temps, écarter les plus pauvres », Le Monde, 21 novembre 2018 : « Faire payer leur formation par les étudiants, et non par l’Etat, c’est refuser d’investir collectivement dans l’avenir » ; Augusta Lunardi, « Monsieur le premier ministre, vous ne connaissez pas notre réalité », Le Monde, 21 novembre 2018 ; Menel Zeggard, « Universités françaises, salons de manucure, mêmes combats », Blog Mediapart, 21 novembre 2018 ; Hugo Harari-Kermadec, entretien avec Faïza Zerouala, « Une logique contraire au service public », Mediapart, 20 novembre 2018 ; Hicham Jamid, « Bienvenue en France aux étudiants étrangers, vraiment ? », The Conversation, 20 novembre 2018). Des enseignants-chercheurs des universités ont lancé le 22 novembre 2018 une pétition en ligne « pour le maintien d’un enseignement supérieur ouvert et accessible à tous ».

      A ces justes critiques et réflexions, on ajoutera trois remarques.

      L’une est personnelle à l’auteur de ce blog qui, à l’instar sans doute de beaucoup d’universitaires, tire grande fierté au quotidien d’être partie prenante au fonctionnement d’une institution qui non seulement ne monnaye pas la diffusion des savoirs, mais en offre l’accès au plus large public, sans distinction aucune entre usagers, y compris en termes de nationalité ou de lieu de résidence des parents, autre que la judicieuse continuité entre les parcours scolaire et universitaire prévue à l’article L. 612-2 du Code de l’éducation.

      La deuxième porte sur les montants qu’il est envisagé de demander aux étudiants internationaux, présentés par le Premier ministre, on l’a vu, comme « correspondant approximativement au tiers du coût réel de leur formation ». Pour l’inscription en doctorat en droit au moins, cette affirmation mériterait d’être étayée ou relativisée selon les disciplines : à l’expérience, il semble tout à fait improbable qu’un doctorant en droit « coûte » à l’université 11 310 euros (3 770x3) euros par année d’inscription. On ajoutera, comme directeur de site universitaire accueillant quelque 3 000 étudiants en première et deuxième années de licence en droit ou en science politique, que payer 2 770 euros par an pour étudier dans des locaux inadaptés, sans bibliothèque universitaire, avec une salle de lecture pouvant contenir 100 personnes où la moquette est inchangée depuis l’ouverture du centre au milieu des années 1990, avec des toilettes plus que vétustes, où les amphithéâtres ont une capacité d’accueil de 500 étudiants, est une somme qui paraît largement excessive au regard des prestations matérielles offertes aux usagers.

      La dernière est d’ordre purement juridique, et tient notamment à l’application du principe d’égalité de traitement entre usagers d’un même service public.

      A partir du 1er septembre 2019 donc, il devrait y avoir une distinction tarifaire entre deux catégories d’usagers du service public universitaire, selon leur nationalité : les français et assimilés d’une part ; les étudiants internationaux de l’autre.

      La jurisprudence constante du Conseil d’Etat depuis un arrêt connu de tous les étudiants de deuxième année de licence en droit (CE 10 mai 1974, Denoyez et Chorques), constamment confirmée depuis (v. par exemple, pour une différentiation tarifaire dans l’accès des moins de 26 ans aux musées nationaux : CE 18 janvier 2013, SOS Racisme), n’admet, pour un même service rendu, la légalité de telles distinctions tarifaires établies par le pouvoir réglementaire que si l’une des conditions suivantes peut être remplie, et sous réserve que ces différences ne soient pas manifestement disproportionnées au regard des objectifs poursuivis : l’existence d’une nécessité d’intérêt général en rapport avec les missions des établissements concernées, qui permet de déroger au principe d’égalité ; l’existence entre les usagers de différences de situations appréciables, qui rend inapplicable le principe d’égalité.

      A supposer même que l’objectif poursuivi par le Premier ministre soit intelligible et ne consiste pas uniquement à abonder le budget de l’Etat par un financement spécifique à certains usagers, aucune de ces deux exceptions au principe d’égalité de traitement des usagers du service public de l’enseignement supérieur ne semble ici présente (cependant, pour un point de vue plus nuancé, v. Cédric Mathiot, « Le gouvernement va faire payer plus cher les étudiants étrangers : est-ce légal ? », liberation.fr, 21 novembre 2018 : « concernant les étudiants primo-arrivants, n’ayant donc aucune attache en France, aucun texte ne semble pouvoir empêcher l’application de frais différenciés » - v. toutefois l’article L. 123-2 du Code de l’éducation cité plus loin).

      D’une part, il n’existe pas de différence de situation objectivement appréciable, au regard du fonctionnement de l’université, entre étudiants français ou européens d’un côté et étudiants internationaux de l’autre.

      Certes, le Conseil d’Etat a depuis les années 1980 admis la légalité de tarifs différentiels selon que les parents d’un élève sont ou non contribuables d’une commune (par exemple : la prise en charge d’une partie du coût de la cantine scolaire ou d’une école de musique par le budget communal justifie un tarif préférentiel au profit des élèves domiciliés dans la commune), de sorte qu’il peut paraître cohérent d’instaurer une différentiation des frais d’inscription dans le supérieur selon que les parents des étudiants résident ou non en France. Mais cette analogie est trompeuse, en ce que la jurisprudence établie concerne des services publics locaux et non nationaux (il ne viendrait à personne de prôner une différentiation tarifaire pour l’inscription d’un étudiant dans une université située dans un autre ressort que l’académie où il a passé son bac). Le Conseil d’Etat valide ce type de différentiation tarifaire locale au motif que les parents ne paient par construction jamais d’impôts locaux dans la commune où se trouve le service public dans lequel est inscrit leur enfant, commune où cet enfant ne fait que passer ponctuellement ; or, en l’occurrence, un étudiant international s’établissant en France participera en continu, le temps de sa formation, à l’alimentation du budget de l’Etat d’une manière comparable à celle des étudiants français et assimilés, étant entendu qu’un étudiant n’est normalement pas assujetti à l’impôt sur le revenu, lequel n’est acquitté que par 43% des foyers fiscaux. Davantage même, les étudiants internationaux inscrits dans les universités françaises sont, dès leur arrivée en France, une source importante de recettes pour les finances publiques nationales (v. Campus France, « Au-delà de l’influence : l’apport économique des étudiants étrangers », Note n° 45, novembre 2014 : l’accueil de 295 000 étudiants internationaux coûte 3 milliards d’euros par an mais rapporte dans un même temps 4,65 milliards à la France), et par conséquent participent au moins autant sinon plus encore que la plupart des étudiants français ou assimilés au financement des établissements du supérieur via le budget de l’Etat. Qu’ils soient français ou non, les étudiants sont des usagers dans une situation objectivement identique par rapport au service public national de l’enseignement supérieur - il en va de plus fort ainsi pour ceux des étudiants internationaux qui ne sont pas « néo-arrivants » mais suivent un cursus depuis au moins une année universitaire, même s’ils changent de cycle (passage en master ou en doctorat) en cours de cursus.

      L’on signalera au surplus qu’en évoquant les étudiants non-européens « fortunés », le Premier ministre a laissé entendre que la discrimination tarifaire qu’il a annoncée était en réalité assise sur les ressources des familles, alors qu’il a envisagé la mise en place d’une discrimination tarifaire selon le domicile des familles (celles qui résident en France et celles qui n’y résident pas). Il faudrait choisir...

      D’autre part, on ne voit guère quelle nécessité d’intérêt général en rapport avec les missions du service public universitaire telles que définies par l’article L. 123-2 du Code de l’éducation pourrait justifier la discrimination sur la nationalité annoncée par le Premier ministre.

      On le voit d’autant moins que ce projet discriminatoire paraît manifestement contraire aux 3° et 3 bis° de cet article, qui disposent que le service public de l’enseignement supérieur contribue « à la lutte contre les discriminations, à la réduction des inégalités sociales » et « à la construction d’une société inclusive. A cette fin, il veille à favoriser l’inclusion des individus, sans distinction d’origine (et) de milieu social (…) ». Sans distinction d’origine et de milieu social…

      Au surplus, ce projet est de nature, contrairement à l’objectif affiché, à dé-favoriser l’attractivité des universités françaises, ainsi que l’a reconnu un universitaire pourtant favorable à l’augmentation différenciée des frais d’inscription (Jean-Paul Gayant, « Augmenter les droits d’inscription à l’université, c’est faire le pari de l’excellence », Le Monde, 21 novembre 2018 : « La hausse des droits d’inscription pour les étudiants étrangers devrait, dans un premier temps, faire sensiblement diminuer leurs effectifs dans les établissements français. Mais, dans un second temps, par la grâce (sic) d’un signal de meilleure qualité (sic), leur nombre et leur niveau devrait (sic) substantiellement progresser. C’est enfin le pari de l’excellence (sic) qui est fait dans ce domaine »). On a d’ailleurs déjà indiqué que, en présentant son projet, le Premier ministre faisait lui-même ce pari d’une augmentation de 50% « seulement » du nombre des étudiants internationaux, là où cette augmentation aurait dû être de 100%.

      Enfin, en tout état de cause, l’écart entre les droits de scolarité des étudiants français et européens et ceux qui seront demandés aux étudiants internationaux est à ce point important – une amplitude de dix à seize, on l’a dit –, qu’il paraît impossible d’en déduire « que la différence de traitement qui en résulte n’est pas manifestement disproportionnée au regard de l’objectif » (CE 18 janvier 2013, SOS Racisme, préc.) poursuivi par les annonces du Premier ministre, cette disproportion manifeste paraissant attentatoire au principe d’égalité de traitement des usagers d’un service public.

      Le Premier ministre s’est félicité à l’avance de « l’équité solidaire » (sic) qui consisterait à ajouter 14 000 bourses aux 8 000 existantes au bénéfice des étudiants internationaux, alors que dans la période considérée 180 000 étudiants internationaux de plus sont espérés. Concrètement donc, sur 500 000 étudiants internationaux, 21 000 pourront éventuellement être boursiers - 4% ! -, quand au moins 479 000 ne le seront pas…

      La « stratégie » est claire : elle vise à attirer en France les étudiants internationaux aisés, autrement dit les filles et les fils des « premiers de cordée » dans leurs pays respectifs. C’est à eux et à eux seuls que s’adresse le slogan « Bienvenue en France ».

      Le risque que cette « stratégie » échoue, à l’instar de la politique fiscale du « ruissellement », est non négligeable : on a beaucoup de mal à adhérer à l’intuition que l’augmentation des frais d’inscription pour les seuls étudiants étrangers est susceptible, à conditions d’accueil et à situation budgétaire constantes, de rehausser le prestige des universités françaises à l’international, et donc de faire « ruisseler » les étudiants non-européens vers nos universités.

      Mais en 2027, qui ira demander des comptes à Edouard Philippe si la « révolution » qu’il a annoncée le 19 novembre 2018 se révélait être un cuisant échec ?

      https://blogs.mediapart.fr/paul-cassia/blog/221118/augmenter-les-frais-d-inscription-des-etudiants-etrangers-pas-en-mon

    • Face à la hausse des frais d’inscriptions, 2 étudiantes chinoises s’interrogent sur leur avenir

      Nous recevons aujourd’hui (mettre les noms) pour parler de la hausse des frais d’inscription des étrangers extra-communautaires dans les facultés françaises. Si l’objectif affiché semble ambitieux (faciliter les formalités, augmentation du nombre d’étudiants boursiers), il augmente par contre fortement les frais d’inscription, en les multipliant par 10. Même si ça reste bien en dessous de la plupart des universités européennes, et notamment anglo-saxonnes, cette mesure va impacter lourdement les étudiants déjà engagés dans un cursus universitaires, comme nos 2 invités.

      https://www.youtube.com/watch?v=Z_ORt5UAjmE

    • Attirer les « meilleurs » étudiants étrangers : genèse d’une politique sélective

      La « stratégie d’attractivité pour les étudiants internationaux » présentée par Édouard Philippe le 19 novembre 2018 a suscité beaucoup de réactions dans les milieux universitaires et associatifs, à juste titre. Le premier ministre prétend « gagner la bataille de la concurrence internationale entre nos systèmes d’enseignement supérieur et de recherche » en augmentant fortement les frais de scolarité concernant les étudiants hors de l’Union européenne afin d’accueillir les « étudiants les plus brillants et les plus méritants ».

      C’est oublier que l’une des raisons qui permettent à la France de se positionner parmi les destinations les plus prisées des étudiants internationaux est justement la quasi-gratuité de son système éducatif. S’inscrivant dans le prolongement de la politique de « l’immigration choisie » adoptée sous le gouvernement Sarkozy, la réforme actuelle risque d’accélérer une sélection déjà basée sur le potentiel apport économique de ces étudiants, tel que le perçoit la classe dirigeante, et donc de reconfigurer les caractéristiques des mobilités étudiantes vers la France.
      Un tournant en 2006

      Ce retournement intervient après deux décennies de forte progression des effectifs d’étudiants étrangers inscrits dans l’enseignement supérieur, encouragée par l’assouplissement des conditions d’accueil sur le sol français avec, par exemple, la facilitation de l’obtention du visa décidée en 1998 par le gouvernement Jospin (loi RESEDA). S’y ajoutait l’obligation de motiver les refus de visas opposés aux étudiants ainsi que l’augmentation des bourses du gouvernement français.

      Dans les années 2000, une réforme globale de la politique d’immigration est entreprise, d’abord avec la loi du 26 novembre 2003, sur la lutte contre l’immigration clandestine, puis celle de 2006 qui vise à mieux sélectionner les migrants selon les besoins économiques de la France, et donc à « promouvoir une immigration choisie et une intégration réussie ».

      Différentes mesures entendent ainsi faciliter l’entrée et le séjour en France des étudiants et chercheurs, de préférence ceux qui répondent à la vision sarkoziste du « bon migrant ». C’est dans ce cadre que le gouvernement va mettre en place, en 2005, les Centres pour les études en France (qui deviendront par la suite Campus France). La baisse des flux entre 2005 et 2007 serait peut-être due à l’implantation de ces CEF qui auraient accru la sélection, notamment sur la base de l’origine sociale, comme l’ont montré les travaux d’Alexis Spire.
      La circulaire Guéant de 2011

      La série des mesures restrictives se poursuit en 2011 avec l’introduction de la très médiatisée circulaire de 2011, dite circulaire Guéant, qui limite la possibilité pour les étudiants étrangers diplômés de travailler en France. Celle-ci a eu un effet très ponctuel : le nombre de premiers titres de séjour accordés à des étudiants baisse de 64928 titres en 2011 à 58857 en 2012. Une chute qui touche surtout les étudiants originaires de pays africains.

      Cette circulaire a ainsi non seulement restreint les possibilités de séjour en France, mais a également envoyé un signal négatif aux candidats au départ. En revanche, son impact va se résorber très rapidement, dès son abrogation l’année suivante sous la pression des universitaires et des associations étudiantes. Le nombre d’étudiants étrangers inscrits dans les établissements d’enseignement supérieur en France va continuer à croître à partir de ce moment-là.

      Mais qu’en est-il de la composition de ces migrations ? Cette question est plus complexe, d’autant plus que les données sur l’origine sociale des étudiants étrangers ne sont pas disponibles au niveau national. Nous tentons tout de même donner quelques éléments de réponse et voir tout d’abord que les flux se redistribuent entre les types d’établissements du supérieur.
      Attirer des étudiants étrangers dans les cursus sélectifs

      Si la loi de 1998 a eu surtout un effet sur la croissance des effectifs dans les universités, la politique dite de l’immigration choisie, va surtout favoriser l’inscription d’étudiants étrangers dans les grandes écoles ou des cursus sélectifs comme les classes préparatoires et les IUT. Leur nombre augmente de manière continue jusqu’en 2016 de même que la proportion de ces étudiants qui passe de 22 % à 29 % sur cette période.

      Cette approche privilégie également certaines disciplines, comme les sciences, le génie, le droit, l’économie et la gestion au détriment des lettres et des sciences sociales. Si l’on observe une augmentation importante des étudiants inscrits en sciences depuis 2005, la tendance à la hausse des effectifs en lettres et sciences sociales se tasse.
      Montée en puissance de l’Asie et de l’Amérique

      Cette politique a aussi pour but d’attirer de plus en plus les étudiants en provenance des pays développés ou émergents – comme la Chine, le Brésil ou la Russie – et de décourager la migration en provenance des anciennes colonies. De fait, les effectifs par grande région d’origine montrent une forte augmentation des effectifs d’étudiants en provenance des pays d’Asie, d’Amérique et de l’Union européenne à partir des années 2000. Par contre, si le nombre d’étudiants africains augmente fortement entre 2000 et 2005, les chiffres baissent à partir de la mise en place de la loi de 2006 et ce, jusqu’en 2014.

      Ces données masquent les spécificités nationales, notamment l’augmentation impressionnante du nombre d’étudiants chinois inscrits en France depuis 2000 (2563 en 2000 contre plus de 21 000 en 2009), atteignant en 2007 le même nombre que les étudiants algériens et marocains, dont les effectifs diminuent sur cette période. Les années les plus récentes montrent cependant une inversion de ces tendances. On voit moins bien les tendances pour les pays dont les effectifs sont plus petits, mais notons tout de même une progression stable des effectifs des étudiants brésiliens et russes sur la période.
      Une logique de « marché »

      Les modalités de gestion des migrations étudiantes en France s’inscrivent dans le contexte de l’évolution des relations Nord-Sud et des changements qualitatifs et quantitatifs de l’immigration. Si au tournant des années 60, la France a adopté une vision très positive de la migration étudiante en provenance des pays du Tiers Monde et a largement contribué à la formation des futures élites des pays nouvellement indépendants, dès les années 80, la formation des étudiants étrangers se situe dans le cadre d’une compétition internationale pour les « talents » et se définit en termes de « marché à gagner ». Comme l’écrivent Borgogno et Streiff-Fénart, les enjeux de la coopération internationale sont désormais

      « de pousser les universités françaises à tenir leur rang dans la formation aux technologies de pointe. L’indice d’attractivité d’une université se mesure désormais à son rayonnement « technologique » et à sa capacité d’attirer des étudiants provenant de pays où le niveau technologique est égal ou supérieur à celui de la France ».

      Les gouvernements précédents ont ainsi tracé la voie des réformes actuelles. L’augmentation des frais de scolarité pour les étudiants étrangers extra-communautaires aura pour principal effet d’accélérer des tendances déjà bien engagées conduisant à la reconfiguration des caractéristiques des mobilités étudiantes vers la France, à moins qu’une mobilisation généralisée du secteur universitaire et, plus généralement, de l’ensemble de la société française ne parvienne à contrer ces réformes.

      http://theconversation.com/attirer-les-meilleurs-etudiants-etrangers-genese-dune-politique-sel

    • Vers des études payantes pour tous ?

      L’annonce par le gouvernement d’une hausse des frais d’inscription pour les étudiants non européens est une décision injuste car elle privera d’accès à l’Enseignement supérieur de bons étudiants ayant peu de ressources. Sans compter qu’elle vise à diviser les étudiants. Manière de préparer une hausse générale ?

      Le gouvernement revient sur un engagement d’Emmanuel Macron. Se prépare-t-il à lancer les premières manœuvres d’une attaque encore plus violente et sans précédent contre l’éducation publique et gratuite ? Edouard Philippe vient d’annoncer, lundi, une hausse des frais d’inscription pour les étudiants non communautaires, en les portant à 2 770 euros en licence et 3 770 euros en master. Nous avions annoncé depuis plusieurs années dans des articles et tribunes qu’une telle décision arriverait, en préfiguration d’une hausse généralisée. Dans les prochaines années, il faudra ainsi prévoir entre 4 000 et 8 000 euros par an en licence et autour de 10 000 euros par an en master, et ce pour tous les étudiants, comme le suggère une note remise au candidat Macron en 2017.

      Bien sûr, l’exécutif n’a pas annoncé les prochaines étapes d’une généralisation des frais d’inscription à l’ensemble des étudiants. Ce serait mettre l’ensemble de la jeunesse dans la rue. La stratégie est autrement plus subtile : elle consiste en effet à réformer par étapes, en segmentant les populations pour leur ôter toutes capacités de mobilisation.

      Disons-le d’emblée, la seule annonce de lundi devrait susciter une réaction d’indignation tant elle est injuste et contre-productive : elle est injuste car elle privera d’accès à l’enseignement supérieur de bons étudiants ayant peu de ressources. Elle est contre-productive car elle entravera les coopérations entre établissements français et étrangers. Ajoutons qu’elle semble méconnaître la réalité car, comme le mentionne une étude commandée par Campus France en 2014, les étudiants non communautaires font vivre l’économie et rapportent bien davantage (4,65 milliards d’euros) qu’ils ne coûtent (3 milliards d’euros). Le gouvernement propose certes le triplement des bourses et des exonérations, mais cette usine à gaz ne résoudra rien.
      Généralisation des frais à tous

      Augmenter les frais d’inscription visant les étrangers non communautaires n’a, en fait, d’autre sens que d’ouvrir en douceur la voie d’une généralisation de ces frais à tous.

      Procès d’intention, penseront certains. Pas vraiment si l’on observe qui conseille le président de la République. L’offensive a été relancée par le professeur d’économie Alain Trannoy dans une tribune parue dans le Monde du 9 novembre : fidèle à sa position maintes fois répétée, il y défend le relèvement des droits d’inscription (de 3 000 à 5 000 euros par an en master) assorti d’une refonte du système de bourses pour les étudiants les plus modestes, et surtout la mise en place d’un système de prêts à remboursement contingent au revenu. Or son coauteur habituel sur le sujet n’est autre que Robert Gary-Bobo, l’auteur d’une note pour l’équipe de campagne d’Emmanuel Macron préconisant une réforme par étapes devant aboutir à des frais de scolarité élevés pour tous !

      Dans cette note interne révélée par les « MacronLeaks », son auteur distingue le fond de ses recommandations (qu’il sait socialement et politiquement explosives) et des éléments de stratégie et de communication qui permettront de faire passer l’amère pilule. Pour lui, au risque de faire « hurler les âmes sensibles », il s’agit de relever les frais d’inscription entre 4 000 euros et 8 000 euros par an, voire davantage (le chiffre de 10 000 euros est évoqué pour les masters). La méthode ? « Y aller doucement, mais commencer tout de suite avec les droits d’inscription », peut-on lire. Les prêts octroyés aux étudiants permettraient, selon l’auteur, d’engranger au plus vite « la pompe à finance » en s’assurant que l’argent arrive directement des banques commerciales aux caisses des universités. Il va même plus loin, suggérant de pousser les étudiants à s’endetter en décourageant le paiement au comptant des frais d’inscription. Pour faire avaler la réforme, son auteur propose des éléments de langage : il s’agira de présenter l’endettement étudiant comme un nouveau droit pour l’autonomie des jeunes ou encore de « bannir du vocabulaire les mots de "concurrence" et d’"excellence", détestés par les syndicats d’enseignants et d’étudiants, [pour les] remplacer systématiquement par "ouverture" et "diversité" ».
      Endettement massif des étudiants

      Cette hausse des frais d’inscription n’est qu’une étape, après celle de leur hausse régulière dans les grandes écoles d’ingénieurs publiques. L’Ecole polytechnique a récemment ouvert une licence à 12 000 euros par an (15 000 euros pour les étudiants non communautaires). Cet établissement public par excellence, comme Sciences-Po et d’autres, ouvre ainsi la voie aux licences payantes.

      Pourtant, les expériences internationales en matière de hausse de frais d’inscription devraient nous inciter à ne pas suivre le mouvement : aux Etats-Unis, l’endettement massif des étudiants est devenu l’objet de spéculation et menace de déclencher la prochaine crise financière. En Angleterre, avec un taux de défaillance sur les prêts approchant les 40%, les garanties apportées par l’Etat aux prêts étudiants représentent un coût très élevé pour les finances publiques. De surcroît, les frais d’inscription ne permettent que marginalement de financer les besoins éducatifs en même temps qu’ils contribuent à accroître la polarisation de l’enseignement supérieur entre établissements bien et mal dotés.

      Pourquoi alors vouloir accroître les frais d’inscription alors que ceux-ci se révèlent partout et invariablement inéquitables, inefficaces et incapables de mieux financer l’enseignement supérieur ? Soit le gouvernement est mal informé, soit il vise à écraser les étudiants et futurs travailleurs sous une montagne de dettes qui les rendra dociles et peu enclins à revendiquer. Le découpage de la réforme, en commençant par les étudiants non communautaires, est déjà une manière de désolidariser les étudiants et de rendre toute mobilisation massive plus difficile à organiser. Il y a pourtant là un danger majeur pour toute la population.

      https://www.liberation.fr/debats/2018/11/20/vers-des-etudes-payantes-pour-tous_1693144
      #vocabulaire #mots #terminologie

      Je mets en évidence ce passage :

      Dans cette note interne révélée par les « MacronLeaks », son auteur distingue le fond de ses recommandations (qu’il sait socialement et politiquement explosives) et des éléments de stratégie et de communication qui permettront de faire passer l’amère pilule. Pour lui, au risque de faire « hurler les âmes sensibles », il s’agit de relever les frais d’inscription entre 4 000 euros et 8 000 euros par an, voire davantage (le chiffre de 10 000 euros est évoqué pour les masters). La méthode ? « Y aller doucement, mais commencer tout de suite avec les droits d’inscription », peut-on lire. Les prêts octroyés aux étudiants permettraient, selon l’auteur, d’engranger au plus vite « la pompe à finance » en s’assurant que l’argent arrive directement des banques commerciales aux caisses des universités. Il va même plus loin, suggérant de pousser les étudiants à s’endetter en décourageant le paiement au comptant des frais d’inscription. Pour faire avaler la réforme, son auteur propose des éléments de langage : il s’agira de présenter l’#endettement étudiant comme un nouveau droit pour l’#autonomie des jeunes ou encore de « bannir du vocabulaire les mots de "#concurrence" et d’"#excellence", détestés par les syndicats d’enseignants et d’étudiants, [pour les] remplacer systématiquement par "#ouverture" et "#diversité" ».

    • Lettre reçue de la présidence de l’Université Grenoble Alpes :

      Le gouvernement a annoncé le 19 novembre 2018, par la voix du Premier ministre, le lancement d’une stratégie pour l’attractivité à destination des étudiants internationaux baptisée « Bienvenue en France / Choose France ». L’introduction dès la rentrée 2019-2020 de droits d’inscription différenciés est l’une des six grandes mesures annoncées par le Premier ministre dans le cadre de ce plan.

      Partant du constat de l’augmentation du nombre d’étudiants en mobilité sur le plan mondial et d’un risque de décrochage pour la France, qui accuse par ailleurs un retard dans les dispositifs d’accueil, « Bienvenue en France » se fixe l’objectif d’atteindre 500 000 étudiants en mobilité dans l’Hexagone d’ici à 2027, contre 324 000 actuellement.

      Six mesures sont annoncées pour "favoriser l’attractivité" de la France :

      1. Simplifier la politique de visas
      2. Doubler les enseignements en anglais et en Français Langue Etrangère (FLE)
      3. Créer un label pour améliorer la qualité d’accueil, doté de 10 M€ pour les établissements engagés dans cette démarche.
      4. Appliquer des frais différenciés et tripler les bourses d’études
      5. Accroître la présence et l’attractivité françaises à l’étranger (offres délocalisées, en nombre de places et d’implantations, et renfort de la politique d’aide au développement)
      6. Lancer une campagne mondiale de communication

      La stratégie nationale d’attractivité s’appuie sur deux nouveaux outils :

      – Un fonds d’amorçage doté de 5 millions d’euros (Ministère des Affaires Etrangères), pour les projets de formation construits en commun par des établissements français et étrangers, et les projets de développement de notre offre de formation à l’étranger ;
      – Un fonds de soutien doté de 20 millions d’euros par an (Agence Française de Développement), à compter de 2020.

      L’Université Grenoble Alpes, université de rang mondial, partage l’ambition d’améliorer la visibilité et l’attractivité internationales de ses formations et de sa recherche, tout en améliorant la qualité d’accueil et l’accompagnement de l’ensemble de ses étudiants.

      Forte de ses valeurs humanistes qui accompagnent l’accès aux savoirs et les transformations de nos sociétés, l’Université Grenoble Alpes défend un juste accès à l’université.

      Ainsi, si le Plan d’attractivité répond à des enjeux partagés (simplifier l’obtention de visa, développer l’offre en anglais et en FLE, accroitre les moyens et les services associés à l’accueil des étudiants étrangers …), l’Université Grenoble Alpes veillera scrupuleusement à ce que la mise en application de l’ensemble des mesures soit accompagnée et équitable.

      Conscients des risques engendrés par l’introduction de droits différenciés, nous nous engageons sur les principes suivants :

      – ne pas créer/aggraver les inégalités d’accès à notre université, en proposant un nombre de bourses/exonérations qui préservent les étudiants étrangers les plus fragiles financièrement
      – préserver notre attractivité internationale, en particulier sur les partenariats stratégiques et privilégiés
      – continuer à améliorer les conditions d’accueil et les services pour l’ensemble des étudiants, et notamment les étudiants étrangers (accompagnement à l’installation, remédiation en langue et méthodologie universitaire, aide aux démarches administratives …)
      – continuer à améliorer la qualité de nos enseignements.

      Les conditions de mise en œuvre

      a. Les publics concernés

      Les publics concernés sont les « étudiants extra-européens qui s’inscrivent pour la première fois dans un cycle supérieur de formation en France et seront amenés à acquitter des droits d’inscription différenciés. Ces droits concernent les établissements relevant du ministère français de l’enseignement supérieur ».

      L’Etat précise cette définition par la liste de ceux qui ne sont pas concernés par le paiement de ces droits différenciés :
      – Les étudiants ressortissants d’un pays de l’Espace économique européen ou de la Suisse
      – Les étudiants de nationalité canadienne domiciliés au Québec, conformément aux accords franco-québécois
      – Les étudiants venant en France dans le cadre d’un partenariat entre universités qui prévoit une telle exonération, notamment les étudiants qui ne sont pas ressortissants d’un pays de l’UE et qui sont accueillis dans le cadre des programmes d’échange du type Erasmus+
      – Les étudiants réfugiés ou bénéficiaires de la protection subsidiaire, qui seront naturellement exonérés
      – Les étrangers ayant le statut de résidents en France ou dans l’Union européenne ainsi que les étudiants étrangers présents en France au titre de la vie privée et familiale
      – Les étudiants déjà inscrits dans un cycle d’étude (licence, master ou doctorat) et le poursuivant en 2019
      – Les étudiants actuellement inscrits dans une formation préparatoire à l’entrée en Licence, Master ou Doctorat (comme les formations en FLE) et entrant dans un cycle en 2019
      – Les étudiants bénéficiant d’une bourse du Gouvernement français ou d’une exonération de droits d’inscription, accordée par l’ambassade de France dans leur pays d’origine ou de résidence.

      Les universités pourront également accorder des bourses et des exonérations.

      b. Les frais différenciés et les modalités d’accompagnement

      L’objectif énoncé dans « Bienvenue en France » est que les étudiants extra-communautaires payent un tiers du coût réel de leur formation, soit 2 770 € en licence et 3 770 € en master et doctorat. A ce jour, les étudiants s’acquittent de 170€ de droits d’inscription nationaux pour la licence ou 243€ en master, ainsi que 90€ de CVEC (contribution vie étudiante et de campus), sur un coût total estimé d’environ 9660€ par an.

      Au niveau national, les modalités d’accompagnement prévoient 7 000 bourses gérées par le Ministère des Affaires Etrangères (MAE), auxquelles s’ajouteront "8 000 nouvelles exonérations" et "6 000 bourses d’établissement que les universités et écoles pourront librement attribuer". Il pourra s’agir d’exonérations ou d’aides en numéraire.

      Le nombre de bourses et d’exonérations qui sera financé par l’Etat ne devrait pas être suffisant pour couvrir les besoins des étudiants. Aussi, nous nous engageons à explorer l’ensemble des possibilités qui s’offrent à nous pour proposer les bourses et exonérations complémentaires.

      Il semble ressortir des discussions en cours entre les réseaux des Vice-présidents Formation et des Vice-présidents Relations Internationales avec le cabinet de la Ministre les éléments suivants :

      – Les droits différenciés sont versés directement aux établissements. Ce sont bien des ressources supplémentaires qui ne viendront pas en déduction des dotations actuelles.
      – Les étudiants d’échange (y compris a priori nos doubles diplômes) sont exonérés (soit d’après le calcul du MESRI autour de 12500 étudiants en France) auxquels il faudra donc rajouter les doctorants en cotutelles.
      – Une proposition en cours de discussion est d’exonérer, hors quota, les étudiants déjà en France qui changent de cycle sur les 2 prochaines années.
      – Une politique de formation ouverte vers certaines régions géographiques (ex. masters recrutant fortement dans certains pays d’Afrique des étudiant.e.s avec de faibles moyens financiers) peut reposer sur un taux-plafond d’exonération selon des priorités géographiques ou de formations dont les formations doctorales ou des secteurs particuliers.

      L’établissement communiquera tout nouvel élément relatif à cette stratégie.

    • Le dispositif #Bienvenue_en_France, dans lequel l’augmentation des frais d’inscription est mentionnée, se fonde sur deux études (que je n’ai pas lues) :

      La première :
      L’attractivité de la France pour les étudiants étrangers Perceptions et attentes – Vague 3


      https://www.campusfrance.org/fr/ressource/l-attractivite-de-la-france-pour-les-etudiants-etrangers-perceptions-e
      ... réalisée par #Kantar_Sofres

      La deuxième :
      L’enseignement supérieur français par-delà les frontières : l’urgence d’une stratégie

      Avec plus de 600 programmes à l’étranger, l’enseignement supérieur français s’exporte bien mais reste loin derrière les pionniers anglo-saxons. Un retard concurrentiel qui traduit l’absence de stratégie affirmée des établissements.

      https://www.strategie.gouv.fr/publications/lenseignement-superieur-francais-dela-frontieres-lurgence-dune-strate

    • Etudiants étrangers : une concertation pour calmer la contestation

      La hausse des droits d’inscription ne sera pas appliquée de la même manière dans toutes les universités. L’Etat débloquera 10 millions d’euros « dès le mois de mars » pour les aider à l’appliquer.

      Calmer le jeu en lançant une concertation : le procédé est à la mode. C’est ce que le gouvernement va tenter de faire sur la hausse des droits d’inscription des étudiants étrangers non européens. Le Premier ministre, Edouard Philippe, a annoncé, en novembre, leur multiplication par seize dès septembre prochain, déclenchant une vague de contestation . Selon nos informations, la ministre de l’Enseignement supérieur, Frédérique Vidal, vient de charger cinq personnalités d’ouvrir une concertation qui doit aboutir mi-février.

      A chacun sa stratégie

      Selon la lettre de mission que « Les Echos » ont pu consulter, elle doit déboucher sur dix engagements « très concrets », portant sur la délivrance des visas et titres de séjour, l’accès au logement, la place des enseignements en langue étrangère ou encore la mise en place d’un « référent unique et personnalisé pour tout étudiant international ».

      La ministre entend faire de ces dix engagements un « socle commun », une « référence nationale ». Pour cela, le fonds d’amorçage de 10 millions d’euros annoncé par le Premier ministre sera mis en place « dès le mois de mars ».
      Etablir une sorte de péréquation

      En matière d’accueil, la France « n’est pas à la hauteur », justifie dans cette lettre Frédérique Vidal, qui veut établir une sorte de péréquation : certains étudiants étrangers paieraient plus que d’autres, pour financer un meilleur accueil pour tous.

      Accusée de mettre à mal la relation de la France avec le Maghreb et l’Afrique francophone, Frédérique Vidal assure au contraire vouloir « renforcer » cette relation. Au lieu d’appliquer de manière systématique la hausse des droits d’inscription, elle entend laisser la main aux universités, comme nous l’avions annoncé . « Il appartiendra [...] à chaque université et à chaque école d’affirmer la stratégie d’attractivité qui est la sienne », écrit la ministre. Les universités décideront si un étudiant international, « compte tenu de sa situation particulière », sera amené « ou non » à « acquitter des frais d’inscription différenciés ».

      Le plafond actuel qui fixe le volume d’exonérations de frais d’inscription à 10 % des étudiants inscrits (hors boursiers) pourrait ainsi être revu. Mais le nombre de 30.000 bourses annoncées pour les étudiants internationaux est « bien trop insuffisant » par rapport aux 500.000 attendus d’ici à 2027, critique la Fage qui appelle à une nouvelle mobilisation à Paris le 22 janvier.
      « Pris pour des cons »

      Dans le milieu universitaire, par ailleurs, le profil des personnalités chargées d’animer la concertation fait jaser. Frédérique Vidal en a retenu cinq : Julien Blanchet (Conseil économique, social et environnemental et ex-président de la Fage), Philippe Gillet (Ecole polytechnique fédérale de Lausanne), Minh-Ha Pham (« PSL » - qui regroupe le Collège de France, l’Ecole normale supérieure ou Dauphine), Christophe Strassel (Cour des comptes et ex-directeur de cabinet des ministres de l’Enseignement supérieur sous le quinquennat précédent) et Pierre-Paul Zalio (Ecole normale supérieure Paris-Saclay).

      « Ce panel fait la part belle aux grandes écoles. Où sont les universités, qui sont les principales concernées dans cette affaire ? s’étrangle un président d’université. On a vraiment l’impression d’être pris pour des cons. Si la ministre veut créer un nouveau mouvement dans le sillage des « gilets jaunes », elle est bien partie. »

      https://www.lesechos.fr/politique-societe/societe/0600482225366-etudiants-etrangers-une-concertation-pour-calmer-la-contestat

    • Université : les frais d’inscription serviront à compenser le #désengagement_de_l’Etat

      Annoncée pour redorer l’image des facultés françaises dans le monde, la future hausse des droits d’inscriptions des étrangers pour la rentrée prochaine doit en fait pallier de nouvelles coupes budgétaires.
      Edouard Philippe a annoncé un relèvement très significatif des frais d’inscription à l’université pour les étrangers extracommunautaires : ils passeront de 160 à 2770 euros en licence et de 250 à 3770 euros en master. L’objectif annoncé : mieux financer l’accueil des étrangers en France, dégager des moyens pour proposer des bourses à certains étudiants internationaux et envoyer un signal de qualité aux étudiants – notamment asiatiques – qui verraient en l’actuelle gratuité un signe de médiocrité.

      L’annonce tombe au plus mal pour le gouvernement qui n’aurait pas pu mieux faire s’il avait voulu faire converger les luttes et revendications. Tétanisé par le conflit des gilets jaunes, le ministère de l’Enseignement Supérieur et de la Recherche peine à tenir le cap : alors même que la ministre s’efforçait, dans une lettre datée du 10 décembre, de souligner l’importance de cette réforme pour financer l’accueil des étrangers, son ministère envoyait une lettre aux universités dès le lendemain pour expliquer que les frais d’inscription ainsi rehaussés permettraient en fait… de financer un désengagement de l’Etat. Dans les universités devenues « autonomes » à la suite de la loi Pécresse de 2007, la gestion de la masse salariale est devenue un casse-tête et surtout un boulet financier. En effet, cette masse salariale croît mécaniquement avec l’ancienneté et l’évolution des qualifications. C’est ce que l’on appelle le « glissement-vieillesse-technicité » (GVT) dans le jargon des ressources humaines. En 2008 et 2009, le gouvernement s’était engagé à compenser ces hausses par des dotations ministérielles spécifiques. Finalement, les services du Ministère annoncent que ce GVT « ne fera pas l’objet d’un financement dédié ». Dit autrement, il faudra que les universités le financent sur des ressources propres et le ministère d’ajouter que ces ressources comprennent notamment les « droits d’inscription différenciés pour les étudiants internationaux ». La France choisit donc de suivre le chemin emprunté par d’autres pays, comme l’Angleterre, qui ont décidé le relèvement – par palier mais au final massif – des frais d’inscription.

      Tout l’argumentaire de la ministre, déjà bancal, s’effondre du même coup : les frais d’inscription n’annoncent pas un accroissement des moyens pour les universités mais un effet de vase communicant : les étudiants financeront le désengagement de l’Etat, en s’endettant s’il le faut ! Devant la levée de boucliers des responsables budgétaires des universités, selon l’agence spécialisée AEF, le cabinet a tenté de rassurer tout en jouant à son tour de maladresses en évoquant « le contexte budgétaire actuel très particulier après les annonces ambitieuses du président de la République lundi (hausse du Smic de 100 euros, fin de la CSG pour les retraites de moins de 2 000 euros…) » appelant selon lui à « voir comment construire des solutions concrètes autour du GVT ». Autrement dit, le gouvernement est en train de gratter tout ce qu’il peut pour financer les promesses annoncées par Emmanuel Macron, quitte à se servir sur les frais d’inscription annoncés ! A n’en pas douter, il ne restera rien pour les universités, de la même manière que les recettes de la taxe sur les carburants, dans un autre domaine, étaient détournées du financement de la transition écologique…

      Avant même ces errements révélateurs de la teneur profonde de cette réforme paradoxalement intitulée « Bienvenue en France ! », celle-ci était déjà dénoncée par une écrasante majorité de la communauté scientifique et par les étudiants. Les motions se multiplient en provenance des Conseils d’administration des établissements d’enseignement supérieur, des facultés, des laboratoires de recherche, des revues scientifiques… La Conférence des Présidents des Universités s’inquiète de la réforme de même que différentes organisations professionnelles. Les syndicats des personnels comme des étudiants sont vent debout contre l’augmentation des frais d’inscription. La contestation prend un tour de plus en plus insurrectionnel avec des assemblées générales dans de nombreux établissements. Des universités ont connu ou connaissent des blocages ou fermetures administratives. Des rassemblements et manifestations sont organisés. La jonction avec les revendications des lycées, qui se mobilisent contre Parcoursup et la réforme du baccalauréat, est en train de se faire naturellement puisque ce seront les premiers concernés. Ils sont non seulement solidaires de leurs camarades mais aussi conscients du fait que la hausse qui touche aujourd’hui les étrangers extracommunautaires ne constitue qu’une étape avant une hausse, plus massive encore, qui touchera l’ensemble des étudiants.

      Le gouvernement devrait avoir appris de la crise des gilets jaunes que renoncer suffisamment tôt à une décision injuste et inefficace peut être préférable au déclenchement d’une mobilisation de grande ampleur. Au vu des nombreuses tribunes et motions, au vu de la mobilisation croissante des élèves et des étudiants, il ne pourra pas dire qu’il n’était pas prévenu.

      https://www.liberation.fr/debats/2019/01/31/universite-les-frais-d-inscription-serviront-a-compenser-le-desengagement

    • Plus c’est cher, plus c’est attractif ? Faire payer les étudiants extra-européens

      « Bienvenue en France ! » Le nom de ce programme ne manque pas d’ironie quand on sait l’accueil réservé aux étrangers, étudiants ou pas – comme pour renouveler leur titre de séjour en préfecture. On songe au titre d’un film : Welcome… Campus France préfère d’ailleurs traduire par « Choose France » ! Texte support de mon audition par la commission des Affaires étrangères, mission flash (19 février 2019).

      Depuis le discours d’Édouard Philippe du 19 novembre 2018, le site de Campus France tient « compte des annonces du Premier ministre », « prochainement publiées au Journal Officiel ». Or, trois mois plus tard, le décret n’a toujours pas été publié. Pourtant, les candidatures sur Campus France sont closes, pour la première année de licence, depuis le 15 février. Le fait précède donc le droit. Au moins peut-on déjà estimer les premiers effets de l’annonce. Reste qu’on ne pourra mesurer pleinement le recul de la France qu’au bout de quelques années. En effet, la mise en œuvre de la hausse est progressive : la mesure ne touche pas les personnes qui étudient déjà en France. L’impact sera donc cumulatif.

      Campus France a déjà rendu publique une baisse de 10% des candidatures, mais, pour « répondre aux craintes », la juge « limitée ». Or depuis 2004, le nombre d’étudiants étrangers en France était en progression constante ; ainsi, entre 2011 et 2016, il a augmenté de 12,2% (Campus France, « Chiffres clés », avril 2018, p. 30). La ministre de l’Enseignement supérieur a même traduit ce chiffre provisoire, devant l’Assemblée nationale, par : « une sorte de stabilité ». Pourtant, dans les Universités, les baisses enregistrées à la même date sont beaucoup plus importantes : par exemple, 76% à Poitiers, 83% à Tours, et « seulement » 26% à Rennes 2 et 39% à Lyon 2. À Paris 8 où j’enseigne, la baisse est aujourd’hui de 84%. Or c’est l’université de France où le taux d’étudiants étrangers hors-UE est le plus élevé (24%)…

      Première explication de cet écart considérable : les chiffres de Campus France ne concernent que les candidatures de néo-entrants en première année de licence ; en revanche, les universités prennent en compte toutes les années d’études – y compris le master et le doctorat. Deuxième hypothèse, complémentaire : Campus France inclut dans sa moyenne des établissements déjà payants (Dauphine, Science Po), ou qui échappent à la hausse (les CPGE).

      Malgré ces baisses, la stratégie de hausse revendiquée par le Premier ministre reste centrée sur l’attractivité. C’est donc le point de départ de mon analyse. Pourquoi faire payer les étrangers extra-européens plus qu’avant, et davantage que les Européens, les attirerait-il ? Le premier argument pour séduire les étrangers, sur la vidéo d’accueil de Campus France, c’est pourtant : « un pays où tous les étudiants ont accès à une scolarité subventionnée par l’État ! » Et c’est aussi la première des « 10 bonnes raisons d’étudier en France ».

      L’exécutif ne renonce pas non plus à cet argument : le Premier ministre a justifié les nouveaux montants, « correspondant approximativement au tiers du coût réel de leur formation », en rappelant l’importance de la contribution publique (les deux tiers) (vidéo, à 14 minutes). Quant au Président de la République, il va jusqu’à déclarer à Courcouronnes, le 4 février, qu’avec cette réforme, « on ne fait payer que le dixième du coût réel » (dépêche AEF, 18 février 2019).

      Si le coût moyen est bien de 10 000 € par an, les écarts sont considérables : selon le rapport de la Cour des Comptes sur les frais d’inscription publié en novembre 2018, en DUT, les coûts par étudiant peuvent s’élever jusqu’à 20 000 € ; mais on n’y trouve que 2 % des étudiants étrangers. Ceux-ci sont donc concentrés dans les autres formations universitaires, moins onéreuses (voir Repères et références statistiques Enseignement Formation Recherche 2018, p. 181). Ainsi, en SHS, les coûts sont de 2 736 € par an pour la licence, et 3 882 € pour le master (Cour des comptes, p. 153-154). Ce sont à peu près les 2770 et 3770 € fixés par le gouvernement. En SHS, on va donc demander aux étudiants étrangers de payer non pas un tiers, moins encore un dixième, mais la totalité du coût de leur formation.

      Comment comprendre la logique contre-intuitive selon laquelle l’attractivité de l’enseignement supérieur français, sur la scène internationale, bénéficierait d’une augmentation substantielle des frais ? Sur les marchés internationaux, les entreprises françaises n’essaient-elles pas de baisser leurs prix pour augmenter leur compétitivité ? Il n’empêche : l’idée, pour certains économistes, c’est que le prix ne reflète pas la valeur ; au contraire, ce serait le prix qui fait la valeur.

      Si les étrangers ne viennent pas en plus grand nombre chez nous, affirment ces économistes, ce serait parce qu’un enseignement gratuit ne vaut rien ; et d’ajouter, comme Jean-Pascal Gayant (qui est auditionné aujourd’hui), que ce faible coût « draine des étudiants plutôt moins bons » (sans indiquer toutefois, dans sa tribune du Monde, sur quelle base empirique, sauf à postuler que les plus riches sont meilleurs). Les classes préparatoires, qui restent gratuites, ne sont pourtant pas moins convoitées que Sciences Po, où le prix de la scolarité est très élevé. On se demande aussi comment la France, malgré la quasi-gratuité, est encore la quatrième destination au monde pour les étudiants…

      Pourquoi ne pas parler plutôt du sous-financement de l’enseignement supérieur français, dont la « démocratisation », c’est-à-dire l’ouverture à un public plus large, n’a jamais été accompagnée par un investissement de l’État à la hauteur de ce choix de société ? Le problème des universités françaises n’est-il pas leur pauvreté, plutôt que leur gratuité ? Quand on est invité par des collègues du monde entier, on s’émerveille des conditions matérielles de l’enseignement, alors qu’on est honteux de recevoir des universitaires étrangers. N’importe : plus c’est cher, plus c’est désirable, nous explique-t-on, même à qualité égale.

      Il paraît en effet que la hausse des frais d’inscription serait un « signal » « donnant l’impression que la qualité est plus élevée » : les étrangers ne verraient que le prix, pas le sous-équipement des universités. Je renvoie ici aux critiques de deux économistes, Hugo Harari-Kermadec et David Flacher, du collectif ACIDES, récemment auditionnés par la commission de concertation nommée par la ministre : « Cet argument est extrêmement incohérent. A) Le tarif pour les Français et Européens reste le même, donc les étrangers attirés par l’effet signal des frais à 2 770€ découvriraient, une fois sur place, qu’il s’agit en fait d’un enseignement à 170€ ? B) Il n’est nulle part prévu de modifier les cours, il s’agirait donc de tromper les étrangers ? C) Les frais pratiqués dans les pays (Royaume-Uni, Australie) qui s’inscrivent effectivement dans le marché global de l’enseignement supérieur payant sont bien plus élevés (au-delà de 10 000€ par an en Licence) : le signal serait donc un signal de médiocrité. »

      En tout cas, le même rapport de la Cour des comptes met en garde contre « l’hypothèse risquée d’une augmentation des droits pour les seuls étudiants étrangers » (p. 74-82), et en particulier contre son effet dissuasif : « Il paraît probable que le taux d’éviction soit élevé (jusqu’à 40 % dans l’hypothèse d’une forte hausse des droits), notamment compte tenu de l’origine géographique des étudiants étrangers, en majorité issus du continent africain. » (p. 81).

      Or le Président de la République déclare le 20 mars 2018 dans son discours sur la langue française et la francophonie : « Étudiants indiens, russes, chinois seront plus nombreux et devront l’être. » Six mois plus tard, lors des rencontres universitaires de la francophonie, le Premier ministre martèle : « Plus d’étudiants non-francophones » ! Il convient donc de s’interroger : le véritable objectif ne serait-il pas de faire baisser les chiffres de l’immigration d’Afrique francophone ?

      On sait en effet qu’en France, les étudiants étrangers comptent pour un tiers des étrangers qui arrivent en France chaque année. Selon le 14ème rapport au Parlement sur « Les étrangers en France », publié en 2017, « les étudiants représentent en volume le deuxième motif d’immigration, après les motifs familiaux » (p. 35) Si la hausse des frais d’inscription entraîne une baisse de l’immigration étudiante, ne relève-t-elle pas de la politique d’immigration, plutôt que celle de l’enseignement supérieur ?

      Bien sûr, une autre finalité est invoquée pour justifier cette hausse : les étudiants étrangers financeraient l’enseignement supérieur en France, qui en a bien besoin… Mais n’est-ce pas une illusion ? Notons d’abord que multiplier les bourses par trois réduirait de beaucoup cette cagnotte. Puis écoutons à nouveau la Cour des comptes : « Compte tenu du faible nombre d’étudiants concernés in fine après prise en compte des multiples facteurs d’exonération, une augmentation des droits d’inscription circonscrite aux seuls étudiants non européens, […] n’apporterait donc un financement complémentaire significatif que dans l’hypothèse d’une progression très importante des droits, tendant à les rapprocher du coût réel des formations, ce qui pourrait entraîner un fort effet d’éviction, diminuant d’autant le produit attendu d’une telle hausse. » (p. 82) Autrement dit, faire payer les étrangers ne parviendrait pas à financer correctement l’Université, ce qui reste la meilleure manière de les attirer davantage.

      Pourtant, cette deuxième justification, financière, nous donne sans doute la clé de la mesure annoncée : ce serait le premier pas vers une hausse des frais généralisée. Voilà qui revient à transformer l’enseignement supérieur en un investissement individuel ou familial, et non plus collectif – soit une privatisation du capital humain de la nation. Les étrangers vont-ils servir à « faire avaler la pilule », pour reprendre la formule de l’économiste Robert Gary-Bobo, également auditionné aujourd’hui, en vue d’une hausse généralisée dont la xénophobie ambiante ferait oublier l’impopularité ?

      Le 19 novembre, le Premier ministre déclarait : « Un étudiant étranger fortuné qui vient en France paye le même montant qu’un étudiant français peu fortuné dont les parents résident, travaillent et payent des impôts en France depuis des années. C’est injuste. » Certes, mais les frais ne vont pas différer pas selon que les étudiants étrangers seront riches ou pauvres, ni les bourses (attribuées « au mérite », et non en fonction de leurs revenus, a rappelé la ministre devant la commission des Affaires étrangères de l’Assemblée nationale le 31 janvier 2019, 1h27’44’’). Gageons que dans quelques années, pour justifier d’étendre à tous les frais d’inscription, on nous expliquera qu’il est injuste de faire payer autant les riches Européens que les pauvres…

      Je conclus. D’un point de vue économique, la hausse des frais d’inscription pour les étudiants extra-européens n’est pas rationnelle : d’une part, en fait d’attractivité, elle ne séduira pas les riches, mais elle dissuadera les pauvres ; d’autre part, ces ressources nouvelles ne suffiront nullement à renflouer l’enseignement supérieur. La rationalité de la mesure n’est donc pas celle qui est invoquée. En réalité, il s’agit soit de réduire l’immigration, soit de préparer une hausse généralisée des frais d’inscription. Les deux ne sont pas incompatibles d’ailleurs ; et dans les deux cas, la xénophobie est au cœur de cette stratégie baptisée, dans un langage orwellien, « Bienvenue en France ».

      À l’étranger, parmi nos collègues, et en France, parmi nos étudiants étrangers, nul ne s’y est trompé. Il nous appartient, en tant que Français, d’être également lucides. Les obstacles que notre pays sème sur la route des migrants, étudiants ou pas, sont la première explication du recul de l’attractivité de la France, passée en 2015 de la troisième à la quatrième place dans le monde. La hausse annoncée pourrait bien faire reculer le pays, demain, à la cinquième place, derrière l’Allemagne.

      https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/190219/plus-c-est-cher-plus-c-est-attractif-faire-payer-les-etudiants-extra

    • #Eric_Fassin : « la xénophobie, aujourd’hui, sert à faire avaler la pilule du néo-libéralisme »

      « Quelle est la #rationalité réelle de cette mesure ? La première chose, c’est la #xénophobie. Quel va être le résultat ? Faire baisser le nombre d’immigrés en France, puisqu’on compte, bizarrement, les étudiants parmi les immigrés. […]. Or, l’Afrique francophone, nos anciennes colonies, et bien, c’est environ la moitié des étudiants étrangers en France aujourd’hui. Donc, moins de nos anciennes colonies, et peut-être plus du reste du monde. » « Je crois qu’il faut comprendre que tout cela s’inscrit dans un projet néo-libéral. Et ce projet néo-libéral, il est contenu dans l’argument selon lequel, puisque ces gens ne payent pas l’impôt en France, et bien, ils ne peuvent pas venir étudier en France. En réalité, c’est une conception de l’impôt comme une sorte de cotisation. On ne cotise pas avec l’impôt. L’impôt, c’est une richesse collective qui permet faire des investissements collectifs. Que nous propose aujourd’hui le gouvernement, il nous dit, "ça n’est plus un investissement collectif, c’est un investissement personnel. Il faut que les gens payent." On va bien, à partir de là, que cet investissement personnel, il ne s’arrêtera pas aux étrangers. » « Donc, à quoi sert cette mesure ? Pas à grande chose. Sinon, à introduire une logique néo-libérale, qui sera, à court terme, on peut en être certain étendu aux autres étudiants, c’est à dire aux européens, et en particulier aux français. Donc, c’est la raison pour laquelle il faut se mobiliser. Parce que, si aujourd’hui beaucoup de gens se disent, "c’est bien dommage, mais finalement, ça ne me concerne pas." Ils se trompent. […] La logique qui est introduite aux dépens des étrangers, demain, ça sera une logique qui sera étendu aux dépens des européens et des français. » « La xénophobie, aujourd’hui, sert à faire avaler la pilule du néo-libéralisme. Il est donc encore temps, il est toujours plus nécessaire de se mobiliser contre cette hausse des frais d’inscription. » Merci à Eric Fassin, professeur de sociologie à l’Université Paris 8, pour son analyse du dispositif gouvernemental "Bienvenue en France".

      https://www.youtube.com/watch?v=3AI3se7OzoU

    • Étranger. Tu n’es pas le bienvenu

      La partie semble jouée. Un décret publié le 21 avril prévoit une hausse colossale des frais d’inscription pour les étudiants non-européens.

      À l’université Paris-VIII, où 30% des étudiants sont étrangers, la colère a grondé, étudiants et enseignants se sont époumonés. En vain.

      Une mesure raciste ? Discriminatoire ?
      Pour comprendre les enjeux de ce passage en force Le Quatre Heures retourne sur les bancs de la fac.

      https://lequatreheures.com/episodes/etranger-tu-nes-pas-le-bienvenu

  • Les pistes explosives de Bercy pour réduire les aides sociales, Bertrand Bissuel, Le Monde, 18.05.2018
    Dans une note interne, que « Le Monde » s’est procurée, la direction du budget préconise de revoir le niveau de plusieurs prestations.

    Si le gouvernement ne sait pas comment s’y prendre pour réduire les dépenses publiques, il dispose d’une administration, prestigieuse mais crainte – voire honnie, parfois –, qui saura toujours lui souffler des idées : la direction du budget. Celle-ci a récemment formulé de « premières pistes d’économies » portant sur des dispositifs d’aide aux ménages, en général, et aux personnes démunies. Synthétisées dans un document qui s’intitule « Transformer les prestations sociales », que Le Monde s’est procuré, ces propositions seraient susceptibles – pour plusieurs d’entre elles – de provoquer un tollé si elles étaient mises en œuvre. Il ne s’agit que de « travaux techniques », qui ne se situent pas du tout au « niveau politique », fait-on valoir dans l’entourage du ministre de l’action et des comptes publics, Gérald Darmanin. Mais l’inventivité des hauts fonctionnaires de Bercy pour alléger le montant de la facture peut cependant nourrir quelques inquiétudes.

    La direction du budget part du constat que les prestations sociales constituent « un poids croissant », représentant 26 % des dépenses publiques en 2016 (soit près de cinq points supplémentaires en une quinzaine d’années). « Plusieurs approches [sont] possibles pour maîtriser la dynamique », écrit-elle : ne plus indexer (totalement ou partiellement) la progression des aides à l’évolution des prix, « revoir les règles d’éligibilité », mieux prendre en compte le patrimoine des personnes dans le calcul de l’allocation, encourager le retour à l’emploi – par exemple en conditionnant l’octroi de certains minima sociaux « à des démarches actives de recherche » d’un poste, etc.

    Lire aussi : La hausse des dépenses sociales difficilement soutenable
    http://lemonde.fr/politique/article/2017/10/18/une-hausse-des-depenses-sociales-difficilement-soutenable_5202571_823448.htm

    Le document ne précise pas le montant d’économies induites par les diverses options esquissées, sauf dans un cas : le gel en 2019 des prestations, dites « légalement indexées » (allocations familiales, retraites…), « pourrait rapporter 3,5 milliards d’euros », sans que soient remises en cause les « revalorisations exceptionnelles » de certaines aides, décidées par le gouvernement d’Edouard Philippe (par exemple pour la prime d’activité). La direction du budget ne se place pas dans une optique strictement comptable : sa démarche vise également à améliorer le fonctionnement de dispositifs, dont elle rappelle les imperfections, à ses yeux.

    Allocation adultes handicapés (AAH)
    Des « disparités fortes » sont relevées entre départements dans l’octroi de cette aide. Il est, du coup, proposé de « maîtriser les flux d’entrée en [révisant] les critères d’attribution » et d’« uniformiser (…) les pratiques de prescription ». Les hauts fonctionnaires de Bercy suggèrent par ailleurs de « revoir plus périodiquement le stock » de bénéficiaires de l’AAH et d’« inciter effectivement à la reprise d’activité ».
    Allocation personnalisée pour l’autonomie (APA)
    Destinée aux personnes âgées qui ont de la peine à accomplir des gestes de la vie quotidienne, cette prestation est jugée « trop diluée et insuffisamment redistributive ». Il convient donc de la « recentrer (…) sur les publics prioritaires (…) pour garantir [sa] soutenabilité (…) dans un contexte de vieillissement démographique ». Les « plans d’aide » doivent également être modulés « en fonction du patrimoine » de la personne, ce qui n’est pas le cas à l’heure actuelle, et non des seuls revenus. Les budgétaires de Bercy recommandent, par ailleurs, de se pencher sur « l’articulation de la prestation » avec les avantages fiscaux existants, par exemple l’abattement de 10 % sur les pensions dans le cadre de la déclaration d’impôt sur le revenu.

    Aides personnelles au logement (APL)
    Le dispositif comporte plusieurs limites, aux yeux de Bercy. Parmi elles, le fait que « les APL favorisent (…) les personnes inactives », à niveau égal de ressources. En outre, les « APL étudiants sont peu ciblées et ont trop peu d’effet redistributif », car le montant de la prestation « dépend très peu des ressources réelles (salaires et transferts intrafamiliaux) » des bénéficiaires. Dès lors, une réforme serait la bienvenue, en prévoyant le « non-cumul part fiscal et APL étudiants » – ce qui signifie que les intéressés devraient choisir : soit être rattachés au foyer fiscal de leurs parents, soit percevoir l’aide. Une idée maintes fois évoquée, mais jamais mise en œuvre, à ce stade, de crainte de provoquer des manifestations monstres d’étudiants. Le document formule d’autres pistes « à compter de 2020 », dont l’une est d’intégrer les minima sociaux et les prestations familiales dans la « base ressources » servant au calcul des APL.

    Bourses sur critères sociaux (BCS)
    Accordées aux étudiants « issus de foyers modestes », ces aides ont vu leur montant s’envoler (+ 60 % en dix ans), du fait du dynamisme de la démographie dans l’enseignement supérieur et d’un « rythme de revalorisation discrétionnaire, supérieur à l’inflation ». Le dispositif est « faiblement ciblé », pour la direction du budget, qui souligne que « le nombre de bénéficiaires (…) atteint désormais 27 % des étudiants ». Du coup, plusieurs solutions sont énoncées : « accroître le ciblage », par exemple en abaissant les plafonds de ressources ; geler les revalorisations des barèmes ou, « a minima, en limiter la progression » ; « renforcer le contrôle d’assiduité » – les jeunes qui ne vont pas en cours étant susceptibles de perdre l’aide.

    Des recommandations sont faites également au sujet du revenu de solidarité active (RSA), de l’allocation de solidarité spécifique (pour les chômeurs en fin de droits), le minimum-vieillesse, la prime d’activité et les prestations familiales. Le fait que la direction du budget phosphore sur le sujet n’est nullement une surprise. Dans un entretien accordé au Parisien, M. Darmanin avait déclaré, le 27 avril, que, parmi les sources d’économies, « il y a bien sûr le champ social, qui (…) doit être audité ». Le comité d’experts CAP22, chargé de remettre prochainement un rapport sur la réforme de l’Etat, explore cette thématique.

    Toute la question, désormais, est de savoir si les pistes développées par Bercy seront retenues ou non. Certaines d’entre elles ont peu de chance de prospérer, notamment celles consistant à étaler, voire à annuler les revalorisations exceptionnelles décidées en 2017 par le gouvernement d’Edouard Philippe. Dans l’entourage de M. Darmanin, on affirme que ce sont aux ministères concernés de faire des propositions pour rénover les dispositifs sociaux, tout en reconnaissant que celles-ci ont vocation à être confrontées à « l’expertise » de la direction du budget. Les arbitrages interviendront au cours de l’été, ajoute-t-on. Ils seront guettés avec une bonne dose d’appréhension dans l’opinion.

    #AAH #APL #APA #Bourses #Austérité #inégalités #revenu #guerre_aux_pauvres

    • #Darmanin ne se contente pas d’abuser de son pouvoir à l’encontre de femmes de son entourage. Il est aussi en charge d’écraser d’autres faibles, les #pauvres.
      Ici, c’est le traditionnel ballon d’essai de la fuite organisée (une collaboration État/media, et nul hasard à ce que le détails du rapport soit très sommairement résumé quant au #RSA par exemple) pour tester les réactions, qui sera suivi de mesures estivales. Avant de faire l’objet de nouvelles mesures.
      Un des éléments de langage : « 26% des dépenses publiques vont aux dépenses sociales » masque totalement la dépendance partielle de nombreux non pauvres à ces dépenses sociales (allocations familiales, prestation d’aide au jeune enfant, par exemple) pour les imputer aux losers et autres parasites.
      Sous couvert de rationalisation, une des dispositions clé sera sans doute d’intégrer une prise en compte rigoureuse de « l’épargne » dans le calcul des droits, ce qui n’intervient qu’à la marge aujourd’hui.

      Leurs premiers de cordées de la haute fonction publique, je les voit tenant chacun plusieurs cordes auxquelles sont suspendues par le cou des grappes de mères célibataires, d’étudiants sans le sou, de chômeurs en activité à temps réduit ou pas, de vieux et vieilles et d’une foule d’autres riens.
      #brutes #abus_de_faiblesse #verrou #épargne #minstère_du_budget #prime_d'activité #minimum_vieillesse #droits_sociaux (et pas « aides » comme on nous le répète sans cesse pour ancrer l’idée que c’est « facultatif »).