• Sortie aujourd’hui en librairie de « Pommes de terre contre gratte-ciel » de Gilles Dauvé et de « Patriarcat et accumulation à l’échelle mondiale » de Maria Mies

    Plus la crise écologique s’aggrave, plus l’écologie devient une idéo­lo­gie domi­nante. Elle nous promet un monde « décar­boné » grâce au tout-électrique, au tout-numé­ri­que et au « nucléaire vert ». Mais capi­ta­lisme et écologie sont incom­pa­ti­bles. Le capi­ta­lisme repose sur l’exploi­ta­tion de pro­lé­tai­res dans des entre­pri­ses for­cées par la concur­rence d’accu­mu­ler plus de valeur que leurs riva­les. La quête inces­sante de pro­duc­ti­vité entraîne sur­pro­duc­tion, sur­consom­ma­tion… aux effets des­truc­teurs pour les pro­lé­tai­res, pour l’huma­nité et pour la pla­nète. Il n’y aura pas de « révo­lu­tion écologique » sans révo­lu­tion sociale qui rompt avec les rap­ports de classe.

    https://entremonde.net/pommes-de-terre-contre-gratte-ciel

    Publié en 1986, ce livre nova­teur a été salué comme un chan­ge­ment de para­digme majeur pour la théo­rie fémi­niste et reste une contri­bu­tion essen­tielle à la théo­rie du déve­lop­pe­ment capi­ta­liste. En détrui­sant l’auto­no­mie des femmes, les hommes ont pu acqué­rir du capi­tal pro­duc­tif et accu­mu­ler des riches­ses. La vio­lence contre les femmes dans des pays comme l’Inde n’est donc pas un ves­tige de la société ancienne, mais un élément du pro­ces­sus de moder­ni­sa­tion. Retraçant les ori­gi­nes socia­les de la divi­sion sexuelle du tra­vail, Mies pro­pose une his­toire des pro­ces­sus connexes de colo­ni­sa­tion et d’« assi­gna­tion domes­ti­que » et étend cette ana­lyse à la nou­velle divi­sion inter­na­tio­nale du tra­vail. Préface de Silvia Federici.

    https://entremonde.net/patriarchy-and-accumulation-on-a

    #écologie #féminisme #communisme #livres #édition

  • « Des électeurs ordinaires » : à la découverte de la vision racialisée du monde des partisans du RN

    Le sociologue Félicien Faury décortique la mécanique du vote Rassemblement national, après un travail de terrain réalisé entre 2016 et 2022 dans le sud-est de la France.

    [...]

    Ses conversations avec les électeurs donnent à voir des « logiques communes », un rapport au monde qui oriente vers le vote Le Pen. « Les scènes fiscales, scolaires et résidentielles deviennent les théâtres de compétitions sociales racialisées, dans lesquels les groupes minoritaires, construits et essentialisés en tant que tels, sont perçus et jugés comme des concurrents illégitimes », décrit l’auteur. La prégnance de cette vision du monde dans le quartier ou au travail conduit à légitimer le vote Le Pen, à le priver de son stigmate de l’extrémisme et, in fine, à le renforcer.

    A l’automne 2023, un débat avait opposé deux interprétations du vote populaire pour le RN, que l’on peut ainsi schématiser : d’un côté, les économistes Julia Cagé et Thomas Piketty, auteurs d’une somme de géographie électorale (Une histoire du conflit politique, Seuil, 2023), pour qui les inégalités socio-économiques sont le principal déterminant du vote RN ; de l’autre, le sondeur de l’Institut français d’opinion publique, Jérôme Fourquet, qui, dans La France d’après. Tableau politique (Seuil, 2023), soulignait le primat de la question identitaire.

    Le travail de terrain de Félicien Faury invite à pencher fortement en faveur de la seconde analyse. Il dissèque la manière dont les expériences de classe de l’#électorat RN rejoignent toutes la question raciale. Le chercheur prend toujours soin de situer cette vision raciste dans le contexte d’une société où se perpétuent les processus de racialisation. De la part d’électeurs en risque de déclassement social, écrit-il, « le vote RN doit aussi se concevoir comme un vote produit depuis une position dominante sur le plan racial, dans l’objectif de sa conservation ou de sa fortification ».
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/05/24/des-electeurs-ordinaires-a-la-decouverte-de-la-vision-racialisee-du-monde-de

    https://justpaste.it/a4997

    #extrême_droite #RN #racisme #livre

  • Lecture d’un extrait du livre « Vivarium » de Tanguy Viel, paru aux Éditions de Minuit, en 2024.

    https://liminaire.fr/radio-marelle/article/vivarium-de-tanguy-viel

    Dans cette série de fragments, éclats de vie, d’écriture et leurs échos souterrains, Tanguy Viel compose un recueil d’expériences, oscillant entre perceptions et réflexions, cherchant à saisir le réel et le présent, à transmettre le vécu aussi bien que le vivant. « J’écris aussi, et surtout, avoue-t-il, pour adhérer au monde. » Ce que le corps a traversé et ce qu’il reste « de villes et de visages, de rencontres et de lectures, d’horloges et de ciels, d’enfance et de sommeil. » Réflexion sur le temps, le langage, la mémoire et la création.

    (...) #Radio_Marelle, #Écriture, #Livre, #Lecture, #En_lisant_en_écrivant, #Podcast, #Art, #Poésie, #Littérature, #Mémoire, #Paysage, #Temps (...)

    https://liminaire.fr/IMG/mp4/en_lisant_vivarium_tanguy_viel-2.mp4

    http://www.leseditionsdeminuit.fr/livre-Vivarium-3429-1-1-0-1.html

  • “Sotto l’acqua”. Le storie dimenticate dei borghi alpini sommersi in nome del “progresso”

    I grandi invasi per la produzione di energia idroelettrica hanno segnato nei primi decenni del Novecento l’inizio della colonizzazione dei territori montani. #Fabio_Balocco, giornalista e scrittore di tematiche ambientali, ne ha raccolto le vicende in un libro. Un lavoro prezioso anche per comprendere l’attuale dibattito su nuove dighe e bacini a favore di agricoltura intensiva e innevamento artificiale

    Un campanile solitario emerge dalle acque del Lago di Rèsia, in Val Venosta, un invaso realizzato per produrre energia idroelettrica. Quella che per i turisti di oggi è una curiosa attrazione, è in realtà ciò che rimane di una borgata alpina sommersa in nome del “progresso”. Quella del campanile che sorge dalle acque è un’immagine iconica che in tanti conoscono. Ma non si tratta di un caso isolato: molti altri abitati alpini furono sommersi nello scorso secolo, sacrificati sullo stesso altare. Soprattutto nel Piemonte occidentale, dove subirono la sorte le borgate di Osiglia, Pontechianale, Ceresole Reale, Valgrisenche, e un intero Comune come Agàro, nell’Ossola. A raccontare queste storie pressoché dimenticate è il giornalista e scrittore Fabio Balocco nel suo recente saggio “Sotto l’acqua. Storie di invasi e di borghi sommersi” pubblicato da LAReditore.

    Balocco, perché ha scelto di raccontare queste storie?
    FB Tutto è iniziato con un’inchiesta per la rivista Alp (mensile specializzato in montagna e alpinismo, chiuso nel 2013, ndr) che feci a metà anni Novanta, incentrata proprio su queste storie dei borghi sommersi per produrre energia. Un fenomeno che caratterizzò soprattutto gli anni Venti e Trenta del Novecento per alimentare le industrie della pianura. Sono sempre stato attratto dalle storie “minime”, quelle dei perdenti, in questo caso le popolazioni alpine sacrificate appunto sull’altare dello sviluppo. È quella che io chiamo “la storia con la esse minuscola”. La nascita del libro è dovuta sia al fatto che siamo sulla soglia del secolo da quando iniziarono i primi lavori e sia dal ritorno nel dibattito politico del tema di nuovi invasi. Infine, penso sia necessario parlarne per ricordare che nessuna attività umana è esente da costi ambientali e talvolta anche sociali, come in questi casi che ho trattato.

    Nel libro afferma che l’idroelettrico ha portato ai primi conflitti nelle terre alte, tradendo la popolazione alpina. In che modo è successo?
    FB I grandi invasi per produzione di energia idroelettrica hanno segnato l’inizio della colonizzazione dei territori montani, che fino ad allora non erano stati intaccati dal punto di vista ambientale e sociale da parte del capitale della pianura. Queste opere costituirono l’inizio della colonizzazione di quelle che oggi vengono anche definite “terre alte”, colonizzazione che è proseguita soprattutto con gli impianti sciistici e le seconde case. Vale poi la pensa di sottolineare che almeno due invasi, quello di Ceresole Reale e quello di Beauregard, in Valgrisenche, comportarono la sommersione di due dei più suggestivi paesaggi delle Alpi occidentali.

    Che ruolo hanno avuto le dighe nello spopolamento delle terre alpine?
    FB È bene ricordare che nell’arco alpino occidentale lo spopolamento era già in atto agli inizi del Novecento in quanto spesso per gli abitanti delle vallate alpine era più facile trovare lavoro oltreconfine. Un caso esemplare è quello della migrazione verso la Francia che caratterizzò la Val Varaita, dove fu realizzato l’invaso di Pontechianale. Le dighe non contribuirono in modo diretto allo spopolamento ma causarono l’allontanamento di centinaia di persone dalle loro case che venivano sommerse dalle acque, e molti di questi espropriati non ricevettero neppure un compenso adeguato a comprare un nuovo alloggio, oppure persero tutto il denaro a causa dell’inflazione, come accadde a Osiglia, a seguito dello scoppio Seconda guerra mondiale. Queste popolazioni subirono passivamente le imposizioni, senza mettere in atto delle vere e proprie lotte anche se sapevano che avrebbero subito perdite enormi. Ci furono solo alcuni casi isolati di abitanti che furono portati via a forza. Questo a differenza di quanto avvenuto in Francia, a Tignes, negli anni Quaranta, dove dovette intervenire l’esercito per sgomberare la popolazione. Da noi il sentimento comune fu di rassegnazione.

    Un’altra caratteristica di queste storie è lo scarso preavviso.
    FB Tutto l’iter di approvazione di queste opere avvenne sotto traccia e gli abitanti lo vennero a sapere in modo indiretto, quasi di straforo. Semplicemente si accorgevano della presenza di “stranieri”, spesso tecnici venuti a effettuare lavori di prospezione, e solo con un passaparola successivo venivano a conoscenza dell’imminente costruzione della diga. Anche il tempo a loro lasciato per abbandonare le abitazioni fu di solito molto breve. Le imprese della pianura stavano realizzando degli interessi superiori e non erano interessate a informare adeguatamente le popolazioni coinvolte. Le opere furono realizzate da grandi imprese specializzate che si portavano dietro il loro personale. Si trattava di lavori spesso molto specialistici e solo per le mansioni di bassa manovalanza venne impegnata la popolazione locale. D’altra parte, questo incontro tra il personale delle imprese e i locali portò a conseguenze di carattere sociale in quanto i lavori durarono diversi anni e questa intrusione portò anche alla nascita di nuovi nuclei familiari.

    Differente è il caso di Badalucco, dove negli anni Sessanta gli abitanti riuscirono a opporsi alla costruzione della diga. In che modo?
    FB Badalucco è sempre un Comune alpino, sito in Valle Argentina, in provincia di Imperia e anche lì si voleva realizzare un grande invaso all’inizio degli anni Sessanta. Ma qui le cose andarono in maniera diversa, sicuramente anche perché nel 1959 c’era stata una grave tragedia in Francia quando la diga del Malpasset crollò provocando la morte di quasi 500 persone. A Badalucco ci fu quindi una vera e propria sollevazione popolare guidata dallo stesso sindaco del Comune, sollevazione che, anche attraverso scontri violenti, portò alla rinuncia da parte dell’impresa. L’Enel ha tentato di recuperare il progetto (seppure in forma ridotta) nei decenni successivi trovando però sempre a una forte opposizione locale, che dura tuttora.

    Il governo promette di realizzare nuove dighe e invasi. È una decisione sensata? Che effetti può avere sui territori montani?
    FB A parte i mini bacini per la produzione di neve artificiale nelle stazioni sciistiche, oggi vi sono due grandi filoni distinti: uno è il “vecchio” progetto “Mille dighe” voluto da Eni, Enel e Coldiretti con il supporto di Cassa depositi e prestiti, che consiste nella realizzazione di un gran numero di piccoli invasi a sostegno soprattutto dell’agricoltura, ma anche per la fornitura di acqua potabile. Poi vi sono invece i progetti di nuovi grandi sbarramenti, come quello previsto lungo il torrente Vanoi, tra Veneto e Trentino, o quelli di Combanera, in Val di Lanzo, e di Ingria, in Val Soana, in Piemonte. Come dicevo, oggi l’esigenza primaria non è tanto la produzione di elettricità quanto soprattutto l’irrigazione e, in minor misura, l’idropotabile. Si vogliono realizzare queste opere senza però affrontare i problemi delle perdite degli acquedotti (che spesso sono dei colabrodo) né il nostro modello di agricoltura. Ad esempio, la maggior parte dell’acqua utilizzata per i campi finisce in coltivazioni, come il mais, per produrre mangimi destinati agli allevamenti intensivi. Questo senza considerare gli impatti ambientali e territoriali che le nuove opere causerebbero. In buona sostanza, bisognerebbe ripensare il nostro modello di sviluppo prima di tornare a colonizzare nuovamente le terre alte.

    https://altreconomia.it/sotto-lacqua-le-storie-dimenticate-dei-borghi-alpini-sommersi-in-nome-d

    #montagne #Alpes #disparitions #progrès #villages #barrages #barrages_hydro-électriques #énergie_hydro-électrique #énergie #colonisation #industrialisation #histoire #histoires #disparition #terre_alte #Badalucco #Osiglia #Pontechianale #Ceresole_Reale #Valgrisenche #Agàro #Beauregard #Ceresole_Reale #Mille_dighe #Vanoi #Combanera #Ingria

    • Sotto l’acqua. Storie di invasi e di borghi sommersi

      Circa un secolo fa iniziò, nel nostro paese, il fenomeno dell’industrializzazione. Ma questo aveva bisogno della forza trainante dell’energia elettrica. Si pensò allora al potenziale rappresentato dagli innumerevoli corsi d’acqua che innervavano le valli alpine. Ed ecco la realizzazione di grandi bacini di accumulo per produrre quella che oggi chiamiamo energia pulita o rinnovabile. Ma qualsiasi azione dell’uomo sull’ambiente non è a costo zero e, nel caso dei grandi invasi idroelettrici, il costo fu anche e soprattutto rappresentato dal sacrificio di intere borgate o comuni che venivano sommersi dalle acque. Quest’opera racconta, tramite testimonianze, ricordi e fotografie, com’erano quei luoghi, seppur limitandosi all’arco alpino occidentale. Prima che se ne perda per sempre la memoria.

      https://www.ibs.it/sotto-acqua-storie-di-invasi-libro-fabio-balocco/e/9791255450597

      #livre

  • I luoghi della memoria dell’Italia fascista

    Il territorio di questo paese conserva molte tracce del suo passato fascista sotto forma di edifici, monumenti, ma anche nomi di strade, vie o scuole. In alcuni casi, quando simboli, monumenti e intitolazioni sono presenti nella nostra vita quotidiana senza essere oggetto di commemorazione o ricostruzione memoriale specifica, essi giacciono lì, muti per la maggior parte della popolazione, ma presenti e disponibili a diversi tipi di riattivazione. In altri casi questi luoghi sono invece oggetto di commemorazioni e cerimonie, per lo più presidi di una memoria minoritaria, ma che riappare carsicamente nella storia d’Italia, coltivate da minoranze neofasciste o della nuova destra, che cercano di costruire un ponte che legittimi il presente attraverso la storia del passato fascista, ma anche che permetta di coltivare costruzioni identitarie antidemocratiche.

    Per riflettere su questi fenomeni, l’Istituto nazionale Ferruccio Parri ha avviato un progetto che ha l’obiettivo di mappare e ricostruire progressivamente la storia dei ‘luoghi della memoria’ locale e nazionale del fascismo storico (1919-1945). Obiettivo del progetto è individuare e analizzare i monumenti e le intitolazioni di strade e edifici pubblici che sono stati costruiti come luoghi della memoria del fascismo durante il regime o negli anni successivi alla Liberazione del paese.

    Questa mappatura ha l’obiettivo di verificare la geografia di questi monumenti e di queste intitolazioni ricorrenti; leggerne la stratificazione storica e in ogni caso ricostruire la storia di questi luoghi della memoria, del significato che hanno assunto del tempo e di come sono stati modificati dal tempo o dagli uomini e dalle donne di questo paese. Questa ricerca dovrebbe così permettere di leggere e analizzare i diversi modi in cui nelle composite comunità locali e territoriali la memoria del fascismo è stata preservata e/o ricostruita, come questa costruzione si collochi in relazione con altre memorie politiche e come, nel corso di questi anni, in concomitanza con la rilegittimazione in corso dell’esperienza fascista, queste memorie si siano ridefinite e rialimentate. Questo progetto ha nutrito anche una riflessione scientifica più articolata, che è stata ripresa e riarticolata nel volume curato da Giulia Albanese e Lucia Ceci intitolato I luoghi del fascismo. Memoria, politica e rimozione (Viella, 2022).

    Questo progetto è coordinato da Giulia Albanese insieme a un gruppo di lavoro del comitato scientifico del Parri composto da Filippo Focardi (direttore scientifico dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri), Mirco Carrattieri, Lucia Ceci, Costantino Di Sante, Carlo Greppi, Metella Montanari, Nicola Labanca. Questo gruppo, a partire dal 2021, è stato sostituito dai membri del nuovo Comitato scientifico del Parri (2021-2024): Filippo Focardi (Direttore scientifico, Presidente), Laura Bordoni, Lucia Ceci, Annalisa Cegna, Chiara Colombini, Andrea Di Michele, Nicola Labanca, Matteo Mazzoni, Santo Peli, Antonella Salomoni, Giovanni Scirocco.

    Il progetto del sito e del database è stato realizzato da Igor Pizzirusso.
    Antonio Spinelli e Giulia Dodi hanno invece curato redazione, approfondimento scientifico e validazione delle schede (oltre a contribuire con ulteriori segnalazioni).
    Fondamentale è stato il lavoro dei volontari della rete degli istituti per la storia della resistenza che hanno inviato segnalazioni o realizzato il primo censimento, ma anche da studiosi indipendenti che hanno collaborato all’individuazione dei luoghi e alla loro schedatura. Questa ricerca è dunque il frutto di un progetto collaborativo e in progress, ma ciascuna scheda riporta l’indicazione dell’autore della compilazione.

    L’Istituto nazionale Ferruccio Parri ha aperto una collaborazione con Postcolonialitaly.com, per rendere disponibili a quel progetto i luoghi coloniali censiti in questo sito e ricevere le schede di quel sito con riferimento ai luoghi coloniali che sono pertinenti per questo progetto. Nella scheda descrittiva daremo conto di eventuali schede derivate da quel progetto.


    https://www.luoghifascismo.it

    #Italie_fasciste #fascisme #Italie #cartographie #traces #visualisation #mémoire #toponymie #toponymie_politique #toponymie_fasciste

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    • I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione

      Cosa resta dei monumenti, dei complessi architettonici, delle opere d’arte attraverso cui il fascismo intese esplicitamente celebrare e tramandare sé stesso? Quale uso è stato fatto nell’Italia repubblicana di queste tracce materiali?

      In che modo la memoria dei luoghi del fascismo somiglia a quanto è avvenuto in altri stati con esperienze analoghe?

      Il volume indaga questi temi a partire da alcuni luoghi particolarmente significativi nella storia italiana (presenti in città come Roma, Milano, Latina, Livorno, Padova o in piccoli centri della Calabria) e di alcuni paesi europei (Germania, Spagna, Portogallo). Il lavoro si inserisce in un ampio progetto di ricerca dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri finalizzato alla mappatura dei luoghi della memoria commemorativa del fascismo in Italia.

      https://www.viella.it/libro/9791254691908

      #livre

  • Le invisibili

    L’oscuro passato di un’Italia coloniale raggiunge il presente attraverso le generazioni. Le storie private di due famiglie catapultano il lettore in una Storia che, come ogni altra epoca che l’ha preceduta e che seguirà, si consuma sul corpo delle donne, mentre nessuno guarda.

    https://neripozza.it/libro/9788854529120

    #livre #Italie_coloniale #colonialisme_italien #roman #Italie_coloniale #femmes #Elena_Rausa

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  • La memoria rimossa del massacro di Debre Libanos e dell’età coloniale italiana

    Tra il 20 e il 29 maggio 1937 le truppe italiane massacrarono più di duemila monaci e pellegrini al monastero etiope. Una strage che, come altri crimini di guerra commessi nelle colonie, trova spazio a fatica nel discorso pubblico, nonostante i passi fatti da storiografia e letteratura. Con quel passato il nostro Paese non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale.

    “Questo avvocato militare mi ha comunicato proprio in questo momento che habet raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debra Libanos con gli autori dello attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore. Prego farmi assicurazione comunicandomi il numero di essi”.

    È il 19 maggio 1937. Con queste poche parole Rodolfo Graziani, “viceré d’Etiopia”, dà il via al massacro dei monaci di Debre Libanos, uno dei monasteri più importanti del Paese, il cuore della chiesa etiopica. Solo tre mesi prima Graziani era sopravvissuto a un attentato da parte di due giovani eritrei, ex collaboratori dell’amministrazione coloniale italiana, che agirono isolatamente, seppur vicini alla resistenza anti-italiana. La reazione fu spietata: tra il 19 e il 21 febbraio le truppe italiane, appoggiate dai civili e dalle squadre fasciste, uccisero quasi 20mila abitanti di Addis Abeba.

    Le violenze proseguirono per mesi e si allargarono in tutta la regione dello Scioa fino a raggiungere la città-monastero di Debre Libanos, a circa 150 chilometri dalla capitale etiope dove tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo il più grande eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano.

    “Vennero massacrate circa duemila persone tra monaci e pellegrini perché ritenuti in qualche modo conniventi con l’attentato a Graziani -spiega ad Altreconomia Paolo Borruso, docente di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano e autore del saggio “Debre Libanos 1937” (Laterza, 2020)-. Si è trattato di un vero e proprio crimine di guerra, poiché l’eccidio è stato qualcosa che è andato al di là della logica militare, andando a colpire dei religiosi, peraltro cristiani e inermi”.

    Al pari di molte altre vicende legate al passato coloniale italiano, a partire proprio dal massacro di Addis Abeba, anche la tragica vicenda di Debre Libanos è rimasta ai margini del discorso pubblico. Manca una memoria consapevole sulle responsabilità per gli eccidi e le violenze commesse dagli italiani nel corso della loro “avventura” coloniale per andare alla ricerca di un “posto al sole” in Libia, in Eritrea, Somalia ed Etiopia al pari delle altre nazioni europee, vengono ancora oggi occultate dalla coscienza pubblica.

    “La storiografia, a partire dal lavoro di Angelo Del Boca, ha fatto enormi passi avanti. Non c’è un problema di ricerca storica sul tema, quello che manca, piuttosto, è la conoscenza di quello che è avvenuto in quella fase storica al di là dei circoli degli addetti ai lavori”, puntualizza Valeria Deplano, docente di storia contemporanea all’Università di Cagliari e autrice, assieme ad Alessandro Pes di “Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni” (Carocci, 2024).

    Se da un lato è molto difficile oggi trovare chi nega pubblicamente l’uso dei gas in Etiopia, dall’altro è ancora molto diffusa l’idea che le violenze furono delle eccezioni riconducibili alle decisioni di pochi, dei vertici: il mito degli italiani “brava gente”, dunque, resiste ancora a ben sedici anni di distanza dalla pubblicazione dell’omonimo libro di Angelo Del Boca.

    Che l’Italia non abbia ancora fatto compiutamente i conti con il proprio passato coloniale lo dimostrano, ad esempio, le accese polemiche attorno alle richieste avanzate da attivisti e comunità afro-discendenti per modificare e contestualizzare la toponomastica delle nostre città o per una ri-significazione dei di monumenti che celebrano il colonialismo italiano (ad esempio l’obelisco che celebra i cinquecento caduti italiani nella battaglia di Dogali a Roma, nei pressi della Stazione Termini) (https://altreconomia.it/perche-serve-mappare-i-segni-del-fascismo-presenti-nelle-nostre-citta). Temi che vengono promossi, tra gli altri, dalla rete Yekatit 12-19 febbraio il cui obiettivo è quello contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia e che vorrebbe il riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano.

    “C’è un rifiuto a riconoscere il fatto che i monumenti e le strade intitolate a generali e luoghi di battaglia sono incompatibili con i valori di cui la Repubblica dovrebbe farsi garante”, sottolinea Deplano ricordando come fu proprio nel secondo Dopoguerra che si costruì un racconto del colonialismo finalizzato a separare quello “cattivo” del regime fascista da quello “buono” dell’Italia liberale. Una narrazione funzionale all’obiettivo di ottenere dalle Nazioni Unite un ruolo nella gestione di alcune ex colonie alla fine della Seconda guerra mondiale: se l’Eritrea (la “colonia primigenia”) nel 1952 entra a far parte della Federazione etiopica per decisione dell’Onu, Roma ottenne invece l’Amministrazione fiduciaria della Somalia, esercitando un impatto significativo sulle sorti di quel Paese per decenni.

    “Invece ci fu continuità -sottolinea Deplano-. Furono i governi liberali a occupare l’Eritrea nel 1882 e ad aprire le carceri dove vennero rinchiusi i dissidenti eritrei, a dichiarare guerra all’Impero ottomano per occupare la Libia nel 1911 dove l’Italia fu il primo Paese a utilizzare la deportazione della popolazione civile come arma di guerra. Il fascismo ha proseguito lungo questa linea con ancora maggiore enfasi, applicando in Africa la stessa violenza che aveva già messo in atto sul territorio nazionale”.

    Con quel passato l’Italia non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale. Come ricorda Paolo Borruso in un articolo pubblicato su Avvenire (https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta), Graziani venne condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per i crimini commessi in Africa. Le ex colonie ricevettero indennizzi irrisori e persino gli oggetti sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia non furono mai ritrovati.

    “Gli italiani non possono ricordare solo quelle pagine della loro storia funzionali alla costruzione di un’immagine positiva, serve una consapevolezza nuova”, riflette Borruso. Che mette l’accento anche su una “discrasia pericolosa: da un lato la giusta memoria delle stragi nazi-fasciste commesse ‘in Italia’ e dall’altro la pubblica amnesia sulle violenze commesse ‘dall’Italia’ nelle sue colonie in Africa. Questo distacco dalla storia è molto preoccupante perché lascia la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti, aprendo vuoti insidiosi e facilmente colmabili da slogan e da letture semplificate del passato, fino alla riemersione di epiteti e attributi razzisti, che si pensava superati e che finiscono per involgarire la coscienza civile su cui si è costruita l’Italia democratica”.

    Se agli storici spetta il compito di scrivere la storia, agli scrittori spetta quello di tracciare fili rossi tra passato e presente, portando alla luce memorie sepolte per analizzarle e contestualizzarle. Lo ha fatto, ad esempio, la scrittrice Elena Rausa autrice di “Le invisibili” (Neri Pozza 2024) (https://neripozza.it/libro/9788854529120), un romanzo che si apre ad Addis Abeba, durante la rappresaglia del 1937 per concludersi in anni più recenti e che dà voce a uno dei “reduci” dell’avventura coloniale italiana e a suo figlio. “Ho voluto indagare in che modo le memorie negate dei traumi inflitti o subiti continuano a influenzare l’oggi -spiega ad Altreconomia-. Tutto ciò che non viene raccontato continua a esercitare delle influenze inconsapevoli: si stima che un italiano su cinque abbia nella propria storia familiare dei cimeli legati alle campagne militari per la conquista dell’Eritrea, della Libia, della Somalia e dell’Etiopia. In larga parte sono uomini che hanno fatto o, più facilmente, hanno visto cose di cui pochi hanno parlato”.

    A confermare queste osservazioni, Paolo Borruso richiama il suo ultimo saggio “Testimone di un massacro” (Guerini 2022) (https://www.guerini.it/index.php/prodotto/testimone-di-un-massacro), relativa al diario di un ufficiale alpino che partecipò a numerose azioni repressive in Etiopia, al comando di un reparto di ascari (indigeni arruolati), fino alla strage di Debre Libanos, sia pur con mansioni indirette di sorveglianza del territorio: una testimonianza unica, mai apparsa nella memorialistica coloniale italiana.

    Un altro filo rosso è legato alle date: l’invasione dell’Etiopia da parte delle truppe dell’Italia fascista ebbe inizio il 3 ottobre 1935. Quasi ottant’anni dopo, nel 2013, in quello stesso giorno più di trecento profughi, in larga parte eritrei ed etiopi, perdevano la vita davanti all’isola di Lampedusa. Migranti provenienti da Paesi che hanno con l’Italia un legame storico.

    E se oggi la migrazione segue una rotta che va da Sud verso Nord, in passato il percorso è stato inverso: “Come il protagonista del mio romanzo, anche il mio bisnonno è partito per l’Etiopia, ma non per combattere -racconta-. Migliaia di persone lasciarono l’Italia per lavorare in Etiopia e molti rimasero anche dopo il 1941. Anche in quel caso a partire furono persone che si misero in viaggio alla ricerca di condizioni migliori di vita per sé e per i propri figli. Ricordare anche quella parte di storia migratoria italiana significa riconoscere la radice inconsapevole del nostro modo di guardare chi oggi lascia la propria terra per compiere un viaggio inverso”.

    https://altreconomia.it/la-memoria-rimossa-del-massacro-di-debre-libanos-e-delleta-coloniale-it
    #colonialisme #Italie_coloniale #colonialisme_italien #massacre #Debre_Libanos #monastère #Ethiopie #histoire_coloniale #Rodolfo_Graziani #fascisme #Scioa #violence #crimes_de_guerre #mémoire #italiani_brava_gente #passé_colonial #toponymie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #déportations

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    https://seenthis.net/messages/871953

    • Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia

      Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All’eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant’anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858141083
      #livre #Paolo_Borruso

    • Storia. Su Debre Libanos il dovere della memoria è conquista di civiltà

      Dal 21 al 27 maggio 1937 il viceré Graziani fece uccidere duemila etiopi. Un eccidio coloniale a lungo rimosso che chiede l’attenzione delle istituzioni e della storiografia.

      Il nome di Debre Libanos è tristemente legato al più grave crimine di guerra italiano, ordinato dal viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani come rappresaglia per un attentato da cui era sfuggito. È il più antico santuario cristiano dell’Etiopia, meta di pellegrini da tutto il paese. Il 12 Ginbot (20 maggio) ricorre la memoria della traslazione, nel 1370, dei resti di san Tekla Haymanot – fondatore nel XIII secolo della prima comunità monastica in quel sito –: è la festa più sacra dell’anno, particolarmente attesa a Debre Libanos non solo tra i monaci, ma da tutti i cristiani etiopici provenienti da ogni parte del paese. È il giorno di massima affluenza di persone nel monastero. Ed è il motivo che spinse il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani ad una cinica pianificazione fin nei minimi dettagli. Tra il 21 e il 27 maggio 1937 i militari italiani, sotto la guida del generale Pietro Maletti, presidiarono il santuario e prelevarono i presenti, caricandoli a gruppi su camion verso luoghi isolati, dove ebbero luogo le esecuzioni, ordinate ai reparti coloniali musulmani per scongiurare possibili ritrosie degli ascari cristiani di fronte a correligionari. Nonostante le 452 esecuzioni dichiarate da Graziani per cautelarsi da eventuali inchieste, le indagini più recenti attestano un numero molto più alto, compreso tra le 1.800 e le 2.200.

      Sono passati 86 anni da quel tragico episodio, che andò molto al di là di una strategia puramente militare. Un «crimine di guerra», appunto, per il quale i responsabili non furono mai processati. Nel dopoguerra Graziani fu condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per le violenze inflitte in Africa, e scontò solo quattro mesi in seguito ad amnistia, divenendo nel 1952 presidente onorario del Movimento sociale italiano, erede diretto del fascismo.

      Nell’Italia del dopoguerra, le esigenze del nuovo corso democratico spinsero a rimuovere memorie e responsabilità di quella violenta e imbarazzante stagione, potenziali ostacoli ad una sua collocazione nel campo occidentale auspicata da Usa e Inghilterra. Dei risarcimenti previsti dai trattati di pace del ‘47, fu elargita una cifra irrisoria, oltre i termini temporali stabiliti di dieci anni; i beni e arredi sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia, mai ritrovati; unica restituzione, il noto obelisco di Axum, avvenuta nel 2004 (dopo quasi 60 anni!). Paradossalmente, la copertura dell’episodio parve una scelta obbligata anche per l’Etiopia di Haile Selassie, in nome di una ripresa del paese, dopo la fine dell’occupazione coloniale e della guerra mondiale, e di una inedita leadership internazionale negli anni della decolonizzazione, nonostante la persistenza di una ferita profonda mai rimarginata.

      Solo negli anni settanta, a partire dagli studi di Angelo Del Boca, l’«assordante» silenzio attorno ai «crimini» dell’Italia in Africa ha cominciato a dissolversi, decostruendo faticosamente il mito dell’«italiano brava gente». La storiografia ambiva divenire un polo di interlocuzione importante per la “memoria” pubblica del paese ed apriva la strada a nuove relazioni con l’Etiopia. Ne fu un segnale la visita ad Addis Abeba del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nel 1997, il quale richiamò il tributo di sangue versato dal popolo etiopico durante la dolorosa esperienza dell’occupazione fascista e la necessità di quella memoria per rilanciare proficui rapporti di pace e cooperazione. Ricordo, successivamente, la proposta di Del Boca, nel 2006, di istituire una “giornata della memoria” per le vittime del colonialismo italiano, ma neppure fu discussa in parlamento, e quindi fu archiviata. È qui che la storiografia è chiamata a consolidare gli anticorpi di fronte rimozioni e amnesie che rischiano di erodere rapidamente la coscienza pubblica. È il caso del monumento in onore del maresciallo Graziani, eretto nel 2012 ad Affile, nel Lazio, con i fondi della Regione, ultimo eclatante atto di oscuramento della memoria, suscitando immediate reazioni della comunità scientifica e dell’associazionismo italiano.

      A partire dal 2016, alcuni articoli apparsi sulla stampa, tra cui ripetuti interventi di Andrea Riccardi, e lo sconcertante film documentario Debre Libanos, realizzato da Antonello Carvigiani per TV 2000, hanno richiamato l’attenzione su quell’eccidio fascista. Un riconoscimento pubblico venne esplicitato in quell’anno dal presidente Mattarella ad Addis Abeba, quando in un eloquente “silenzio” depose una corona di fiori al monumento della vittoria Meyazia 27, in piazza Arat Kilo, in memoria dei caduti della resistenza etiopica dell’epoca e salutò uno ad uno ex partigiani etiopici, ormai anziani. Sotto queste sollecitazioni, l’allora ministero della difesa emanò un comunicato stampa, che richiamava la tragica rappresaglia con cui «il regime fascista fece strage della comunità dei copti; monaci, studenti, e fedeli del monastero di Debra Libanos. L’eccidio durò vari giorni, crudele e metodico. In Italia con il silenzio di tutti, durante il fascismo ma anche dopo, l’episodio era stato dimenticato […]», e si assumeva l’impegno ad approfondirne le dinamiche storiche con la costituzione di un’apposita commissione di studiosi, militari ed esperti. Altre urgenze, tuttavia, s’imposero nell’agenda politica e l’iniziativa non ebbe seguito.

      L’attuale disattenzione da parte delle istituzioni dello Stato italiano chiama nuovamente in causa la storiografia per la sua funzione civile di preservazione della memoria storica. C’è, qui, una discrasia da colmare: a fronte degli eccidi nazifascisti sul territorio italiano – oggi noti, con luoghi memoriali di alto valore simbolico per la storia nazionale –, il massacro di Debre Libanos è accaduto in Africa, fuori dal territorio nazionale, in un’area rimasta, per decenni, assente anche sul piano storiografico, le cui responsabilità sono ascrivibili direttamente all’Italia e non possono essere negate né oscurate. Occorre, in questo senso, allargare i confini della memoria storica, rinsaldando il rapporto tra storia e memoria come un argine di resistenza fondamentale per la difesa di una cultura civile, oggi provata da un crescente e preoccupante distacco dal vissuto storico. Lo smarrimento del contatto con “quel” passato coloniale, e con quella lunga storia di rapporti con l’Africa, rischia di lasciare la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti e discriminatorie, potenziali o in atto.

      https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta

  • Exposer l’humanisme
    https://laviedesidees.fr/Exposer-l-humanisme

    L’exposition L’Invention de la #Renaissance nous fait pénétrer dans le monde intellectuel et matériel des humanistes au travail, depuis leurs sources d’inspiration antiques jusqu’à leur lieu de retraite. Elle témoigne aussi de la manière dont les manuscrits ont voyagé vers la France au XVe siècle.

    #Histoire #Entretiens_vidéo #Antiquité #livre #humanisme #peinture #beaux-arts
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20240517_renaissance.pdf

  • Démanteler la catastrophe : tactiques et stratégies, Les soulèvements de la terre
    https://lundi.am/Demanteler-la-catastrophe-tactiques-et-strategies

    edit Sommaire et premières pages

    https://lafabrique.fr/wp-content/uploads/2023/12/Premières-secoussesBAT-pages-1-5-6-15-20-copie.pdf

    « Faire redescendre l’écologie sur #terre » écrivions-nous dans l’appel fondateur de janvier 2021. Il ne s’agit pas d’une simple formule, mais bien d’une ligne politique. Si la Terre est un objet céleste, c’est plutôt du sol et de la glèbe qu’il est ici question. Faire redescendre l’écologie sur terre, c’est renoncer à vouloir « sauver la planète ». Cette ambition de superhéros est bien trop grande pour nous. La Terre n’a pas besoin de nous. Elle nous a précédé·es et nous survivra. Cette prétention est aussi démesurée que ses conséquences sont dérisoires. Elle se réduit bien souvent à réclamer qu’un hypothétique « gouvernement mondial » prenne des « mesures » contre le bouleversement climatique.
    Comme le ciel, le #climat paraît hors de notre portée. Telle une totalité inaccessible, il nous surplombe et nous excède. La première vague du « mouvement climat » nous a confronté·es à cette impuissance. De COP en marches massives, de camps actions climat en rapports du GIEC, nous ne sommes pas par- venus à infléchir significativement le ravage en cours. Face à cette impasse, nous faisons le pari d’une écologie terre à terre qui s’ancre dans les luttes foncières et territoriales.

    (...) La question foncière se situe à l’intersection de la question écologique, de la question sociale et de la question coloniale.

    #capitalisme #écologie #désarmement #SdlT #livre

    • « Premières secousses » : le manifeste des Soulèvements de la Terre
      https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/04/26/premieres-secousses-le-manifeste-des-soulevements-de-la-terre_6230064_3232.h

      Après avoir échappé à la dissolution, le mouvement détaille ses pratiques militantes radicales et tente de structurer sa pensée politique.
      Par Nabil Wakim

      Livre. Comment structurer la pensée radicale quand les fumées des grenades lacrymogènes se sont dissipées ? Dans un livre manifeste, intitulé Premières secousses (La Fabrique, 296 pages, 15 euros) et signé collectivement Les Soulèvements de la Terre, cette organisation polymorphe tente de définir les grandes lignes politiques d’un mouvement jusqu’ici en priorité tourné vers l’action.

      Le contexte, d’abord : après les manifestations contre l’installation de gigantesques retenues d’eau à Sainte-Soline (Deux-Sèvres) et les opérations menées contre des cimenteries, le ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin, avait demandé la dissolution du groupe. Une décision ensuite annulée par le Conseil d’Etat. Le collectif le souligne d’ailleurs dès les premières lignes : « Ce livre avait toutes les chances d’être interdit et mis au pilon au moment où nous avons commencé à l’écrire. » Un ouvrage à la forme étonnante, qui mêle une justification a posteriori des actes les plus visibles, une autohistoire des luttes des Soulèvements et une réflexion intellectuelle sur la radicalité des mouvements sociaux.

      Le moins que l’on puisse dire, c’est que la tentative ratée de dissolution n’a pas refroidi les ardeurs des militants. Dès les premières pages, le livre explique que le mouvement se reconnaît en premier lieu dans trois modes d’action. D’abord, le #blocage, défini comme « une suspension d’une infrastructure responsable du ravage écologique » – arrêter un chantier, par exemple. Le « désarmement », présenté comme la « mise en pièces d’infrastructures ou de chantiers qui accélèrent la catastrophe en cours », autrement dit, le #sabotage. Et, enfin, « l’#occupation_de_terres » – à la manière de la ZAD de Notre-Dame-des-Landes (Loire-Atlantique), souvent citée en exemple.

      Radicalisation des modes d’action

      Une part importante de l’ouvrage raconte d’ailleurs la façon dont les Soulèvements ont progressivement radicalisé leurs modes d’action, et réussi à entraîner dans leur sillage d’autres militants, qu’il s’agisse d’agriculteurs, de syndicalistes ou d’écologistes. Le livre raconte par le menu la bataille qui s’est déroulée autour des #mégabassines dans le pays niortais. Et explique comment les actions de sabotage ou d’occupation de lieux n’étaient pas forcément consensuelles au départ. Elles le sont progressivement devenues, estiment les auteurs, dans l’enthousiasme de la contestation commune mais aussi face à la #répression.

      « Nous n’avions pas anticipé l’ampleur inédite du feu qui s’est abattu sur nous ce jour-là », reconnaissent ainsi les militants à propos des affrontements de Sainte-Soline. « Tactiquement, nous sommes défaits. Politiquement, mille questions se posent. Sensiblement, c’est dur », analysent encore Les Soulèvements, qui entrent en détail dans les débats du mouvement après ces événements.

      Si l’#agro-industrie se trouve dans le viseur du mouvement, c’est également le cas du secteur du #ciment, considéré comme « l’une des industries les plus universellement associées au ravage environnemental ». Le livre est moins centré sur le secteur des énergies fossiles, pourtant premier responsable du réchauffement climatique.

      Il s’agit, par ailleurs, de marquer ses positions, en se différenciant de mouvements écologistes plus classiques, trop focalisés, selon les auteurs, sur la question climatique. « L’écologie qui fait la morale est au mieux impuissante, au pire contre-productive », écrivent Les Soulèvements de la Terre. Les militants insistent toutefois, dans le même temps, sur la nécessité de la « #composition », une démarche qui justifie le fait de travailler avec des activistes plus traditionnels qui acceptent de défiler à leurs côtés, sans se mêler aux actions de sabotage, mais sans les condamner.

      Dessiner les prochaines étapes

      Sur le fond, Les Soulèvements de la Terre mettent l’accent sur une articulation entre les questions écologiques, sociales et coloniales. Et vont puiser – en vrac – leurs références intellectuelles dans les œuvres de Karl Marx, d’Edouard Glissant, de Kristin Ross ou de la philosophe Simone Weil, dans l’histoire de la Commune de Paris ou celle du syndicalisme révolutionnaire. Ils prennent néanmoins un malin plaisir à souligner un désaccord politique avec le chercheur suédois Andreas Malm, auteur, chez le même éditeur, de Comment saboter un pipeline – et considéré par le ministère de l’intérieur comme l’un des inspirateurs du mouvement.

      Les auteurs tentent également de dessiner les prochaines étapes de leur engagement, en insistant sur la nécessaire organisation par la base et par les collectifs locaux, et en refusant un « léninisme vert » autoritaire. Forts de leur expérience dans les modes d’action radicaux, Les Soulèvements se rêvent en « force d’intervention » militante, en soutien à des mouvements sociaux. Mais souhaitent aussi participer à rendre certains territoires « ingouvernables » pour les institutions – comme un message adressé directement au ministre de l’intérieur.

      #organisation_politique #tactique #stratégie

  • Demain, une Europe agroécologique. Se nourrir sans #pesticides, faire revivre la #biodiversité

    Le temps est venu pour l’agroécologie de changer d’échelle : une production intégralement agroécologique, exempte de pesticides et d ’engrais de synthèse, est aujourd’hui envisageable à travers toute l’Europe. Au cœur de ce modèle porté par une nouvelle génération d’agriculteurs et d’agronomes : la disparition de l’élevage industriel qui rend possible l’autonomie fourragère et améliore la contribution de l’Europe aux équilibres alimentaires mondiaux. Loin d’être réservée à quelques fermes pionnières, l’agroécologie peut transformer en profondeur nos #paysages pour le plus grand bénéfice du climat, de notre santé ainsi que celle de la #faune et de la #flore. Appuyant son propos sur une modélisation quantifiée, cet ouvrage explore également les modes d’#organisation_sociale et économique et les #choix_politiques qui peuvent rendre ce #scénario plausible et désirable.
    On a dix ans pour lancer l’Europe sur les rails de l’agroécologie afin qu’en 2050 l’hypothèse devienne réalité.

    https://www.actes-sud.fr/catalogue/sciences-humaines-et-sociales-sciences/demain-une-europe-agroecologique

    #agriculture_biologique #agroécologie #livre #Xavier_POUX

  • Relier les rives. Sur les traces des morts en Méditerranée

    Sur le port de #Catane, à l’est de la Sicile, des milliers de personnes en péril débarquent, accompagnées des corps de celles qui n’ont pas survécu à la traversée de la Méditerranée. Dans un contexte d’#indifférence générale à cette #hécatombe et un environnement politique marqué par la criminalisation des migrants, un petit groupe d’habitants et d’habitantes s’est mobilisé pour redonner un nom aux défunts et joindre leurs familles. L’ouvrage retrace cette initiative locale inédite, qu’aucune autorité nationale ou européenne n’avait entreprise jusque-là de façon systématique.
    Au cours des visites répétées au #cimetière, des lectures de dossiers administratifs et des enquêtes conduites pour suivre les pistes susceptibles de relier un corps à une histoire, un attachement particulier à ces inconnus naît. Le livre raconte les vies des morts auprès de celles et ceux qui les accueillent sur l’autre rivage. Il explore les tentatives collectives et intimes menées pour tracer un chemin entre nous et les autres.
    Émaillé d’extraits de textes rédigés par des hommes et des femmes soucieux d’empêcher l’oubli, ainsi que des poèmes et des chansons qui donnent, à leurs yeux, sens à leur engagement, ce récit entend restituer la dimension sensible de leurs investigations. Il rend également perceptible la fragilité des liens invisibles et rarement mis en mots qui unissent des vivants à des morts dont ils ne savent (presque) rien.

    https://www.editionsladecouverte.fr/relier_les_rives-9782348083761
    #livre #Filippo_Furri #Carolina_Kobelinsky #mourir_aux_frontières #Italie #morts_aux_frontières #migrations #réfugiés #Méditerranée #identification

  • Pour une politique écoféministe

    Dans son livre « Pour une politique écoféministe. Comment réussir la #révolution_écologique », qui paraît aujourd’hui aux éditions le passager clandestin et aux Éditions Wildproject, la chercheuse et activiste australienne #Ariel_Salleh déconstruit le système « productif-reproductif » capitaliste et patriarcal à partir d’un #matérialisme_incarné, pour déjouer la #domination croisée de la Nature et des femmes. Extraits choisis.

    https://www.terrestres.org/2024/05/10/pour-une-politique-ecofeministe

    #écoféminisme #féminisme #écologie #patriarcat #production #reproduction #capitalisme #livre

    • Pour une politique écoféministe

      La moitié de la population mondiale pratique au quotidien des valeurs dites féminines – qui s’avèrent être aussi des valeurs écologiques. Loin de tout essentialisme, Ariel Salleh met en évidence le rôle majeur des femmes, mais aussi des paysan·nes et des peuples autochtones, dans le soin et le maintien des milieux de vie, un travail vital mais invisible aux yeux du capital. Là où le prolétariat de Marx a échoué, elles et ils sont en mesure de constituer une nouvelle classe révolutionnaire – le moteur manquant d’une véritable révolution écologique.

      Engagée dans les luttes contre l’exploitation des terres aborigènes dans les années 1970, Ariel Salleh priorise le rôle des femmes des Suds. Selon elle, l’écoféminisme est la synthèse de quatre révolutions – écologique, féministe, socialiste et décoloniale – qui ne pourront pas aboutir les unes sans les autres.

      Un manuel politique pour refonder le mouvement écologiste.

      https://www.lepassagerclandestin.fr/catalogue/boomerang/pour-politique-ecofeministe

  • Lecture d’un extrait du livre « Border la bête » de Lune Vuillemin, paru aux Éditions La Contre Allée, en 2024.

    https://liminaire.fr/radio-marelle/article/border-la-bete-de-lune-vuillemin

    Une femme traverse les grands espaces de l’Ontario après la mort d’un proche. Elle rencontre Arden et Jeff, une femme et un homme « imprévisibles et magnifiques » qui s’occupent de soigner les bêtes meurtries qu’ils recueillent dans leur refuge pour animaux sauvages. Un combat qu’elle va partager en trouvant refuge chez eux « pour se défaire de ses fantômes, de ses fêlures, de ses colères. » Au plus près de la faune et de la flore, ils vont se rapprocher, se reconnaître, et s’aimer. Un récit sensible et sensoriel sur la place des humains et leur rapport au vivant. « Quelque chose qui n’est ni un poème, ni une lettre, ni un chant, ni une prière, ni un cri, mais peut-être tout cela à la fois. » Une langue nouvelle.

    (...) #Radio_Marelle, #Écriture, #Livre, #Lecture, #En_lisant_en_écrivant, #Podcast, #Cinéma, #Poésie, #Littérature, #Édition (...)

    https://liminaire.fr/IMG/mp4/en_lisant_border_la_be_te_lune_vuillemin.mp4

    https://xn---allelacontreallee-ewb.com/catalogue/border-la-bete

  • Le città visibili

    Dove inizia il cambiamento del Paese.

    Nelle città di tutto il mondo stanno cambiando gli abitanti, i loro desideri e le loro priorità: la casa, lo spazio pubblico, il modello di sostenibilità ambientale, il modo di lavorare.

    In Europa, come negli Stati Uniti, esiste una visione più o meno condivisa del modo in cui rendere le città più sostenibili, più giuste, più belle.

    Ed è una visione che si confronta con tante difficoltà, con le abitudini e i conservatorismi non solo della politica e dell’impresa, ma anche dei singoli cittadini: rompere gli equilibri è faticoso.

    Pierfrancesco Maran, assessore del Comune di Milano alla Mobilità, all’Urbanistica e ora alla Casa, racconta la sua esperienza sul campo in queste pagine che affrontano le sfide e i nodi della trasformazione di una metropoli moderna, tra nuova identità e riscoperta delle tradizioni, all’insegna dell’innovazione nella progettazione del verde, dell’edilizia, della qualità dell’aria, del turismo e dei grandi eventi, della valorizzazione delle periferie e dell’economia della conoscenza.

    Una riflessione concreta di grande attualità sull’oggi e sul domani dei luoghi del cambiamento attraverso cui passa il futuro del Paese.

    Le parole di Francesco Costa

    «Come sono le città oggi e come diventeranno domani. Chi sono le persone che le abitano, come stanno cambiando le loro vite e i loro lavori. Pierfrancesco Maran, uno dei protagonisti della trasformazione di Milano degli ultimi anni, racconta difficoltà, opportunità, contraddizioni che vivono le aree urbane in questo periodo di grandi scossoni sociali, con lo spirito di chi cerca sempre soluzioni nuove. Una guida al presente delle città per essere pronti al prossimo futuro.»

    La necessità di comprendere i bisogni di chi abita le città

    «Siamo così saturi di immagini e notizie da far fatica a distinguere quelle importanti, a prenderci il giusto tempo per riflettere e analizzare, a volte siamo addirittura socialmente obbligati a esplicitare una nostra opinione su fatti complessi, prima ancora di averla completamente formata. Negli ultimi mesi, anche grazie a questo libro, ho potuto dedicare tempo per riflettere, per comprendere i bisogni di chi abita le città, per ragionare sulle opportunità di domani, studiare qual è lo spirito del tempo degli abitanti della città, nativi e nuovi arrivati.»

    Il futuro delle città

    «Nelle città di tutto il mondo stanno cambiando gli abitanti, i loro desideri e le loro priorità: la casa, lo spazio pubblico, il modello di sostenibilità ambientale, il modo di lavorare. In Europa, come negli Stati Uniti, esiste una visione più o meno condivisa del modo in cui rendere le città più sostenibili, più giuste, più belle. Ed è una visione che si confronta con tante difficoltà, con le abitudini e i conservatorismi non solo della politica e dell’impresa, ma anche dei singoli cittadini: rompere gli equilibri è faticoso.»

    https://www.solferinolibri.it/libri/le-citta-visibili

    #livre #villes #urban_matter #changement #soutenabilité #Pierfrancesco_Maran

  • Campi di lavoro e lavoro nei campi

    Dall’agosto 1940 e fino alla fine del 1945 vennero internati, in numerosi campi sparsi sull’insieme del territorio ticinese, mediamente circa un migliaio di soldati stranieri, i quali rappresentarono una categoria specifica dell’insieme dei profughi accolti durante la Seconda guerra mondiale. Si trattò in gran parte di soldati polacchi, ma nei campi allestiti in Ticino risiedettero per periodi di tempo variabili pure francesi, italiani, tedeschi, austriaci, sovietici, indiani e vietnamiti, nonché un contingente di combattenti provenienti dal continente africano. Chi erano questi uomini? A quale regime furono sottoposti e perché? Dove sorsero i campi in cui furono confinati? Come trascorrevano le loro giornate? Quali furono i rapporti con la popolazione locale? Quale memoria della loro presenza si è sedimentata in Ticino? Attingendo a fonti archivistiche sinora poco sfruttate, il volume analizza e approfondisce il tema dell’internamento militare sul piano regionale, facendolo costantemente dialogare in senso verticale con quello nazionale. La pluralità degli approcci adottati e dei punti di vista considerati ha consentito di fare emergere alcune specificità ticinesi e, in altri casi, di fare luce su aspetti finora poco studiati dell’internamento militare nel suo insieme. Colmando una lacuna storiografica e fornendo un quadro esaustivo delle coordinate geografiche e temporali dell’internamento militare, il libro si presta a fungere da strumento imprescindibile per chiunque voglia affrontare la tematica della presenza di internati militari in Ticino ed eventualmente approfondirla sul piano locale.

    #livre
    #camps_de_travail #Tessin #Suisse #histoire #réfugiés_ukrainiens #réfugiés_polonais #Pologne #deuxième_guerre_mondiale #seconde_guerre_mondiale #WWII #mémoire

    • Polish Army in Insubrica region: the case study of Polish internees in Losone

      During the German campaign in the West, in June 1940, 2nd Polish Infantry Division under command of Bronisław Prugar-Ketling (1891-1948) was sent to the French region of Belfort to support 8th French army. After being cut off from supply, approximately 12,000 to 13,000 Polish soldiers of this Infantry Division, crossed the Swiss border on 19-20 June 1940, south of Ajoie, avoiding thus the German capture.

      The soldiers were interned in Switzerland according to the Hague Convention. After a failed attempt to concentrate all Pole servicemen in only one camp in Büren an der Aare, Polish soldiers were dispersed throughout Switzerland. From 1941, barrack camps were set up in all Switzerland, where these Poles soldiers were interned until December 1945. In the Insubrica region, many Polish soldiers were gathered and managed in Losone, nearby Locarno and Ascona.

      These interned Poles soldiers made mainly group-wise work assignments for the Swiss national defence works, related to the national infrastructure like constructions of roads and bridges, drainage of swamps as well as general works in the agriculture. A total of 450 kilometers in paths, bridges and canals were built alone in Ticino by these servicemen. At present, monuments and commemorative plaques commemorate the involuntary stay of these Polish soldiers people throughout the Ticino region. After the war, around 500 Poles were able to settle down in Switzerland, obtaining the Swiss citizenship.

      In addition to building and paving roads between Arcegno and Golino in the Canton Ticino, the Polish army soldiers, interned in the Losone camp during 1941-1945, worked hard to reclaim approximately 100 hectares of the land in the municipality of Losone between “Saleggi” and “Gerre”. This hard work reshaped radically the landscape of the region in the mid of the 1940s.

      Thanks to the intervention of Polish soldiers, a large amount of uncultivated agricultural areas in Ticino could be developed and, later, transformed in tourist and industrial zones.

      A hard work of Polish prisoners allowed a creation of a very important agricultural zone in Losone that persisted for many years until a construction of the famous 18 holes Golf place (shown in the centre of the map that can be seen above).

      Further in the North, in the 1980’s, an important industrial settlement called “Zandone” was created (on the left side of the above shown map). The Polish work allowed to erect a large camping in Melezza and the “Scuderia delle cavalli delle Gerre” in the area of Zandone. Between Arcegno and Golino, Polish soldiers managed to pave a road, that is named today “strada dei polacchi” (in English: Polish road).

      Polish soldiers were interned also in other parts of Switzerland and left unmistakable traces of their hard work. There are several so-called Polenweg‘s, which are roads that were built by Polish soldiers during the Second World War in Switzerland.

      https://insubricahistorica.ch/blog/2018/04/16/polish-army-in-insubrica-region-case-of-losone
      #Losone

      –-

      Gli internati polacchi nel Locarnese e Valle Maggia

      Avevamo già scritto nell’aprile 2018 su Insubrica Historica un breve contributo sugli internati polacchi nella regione Insubrica. Durante dei lavori di ricerca per un imminente pubblicazione di Insubrica Historica sul Locarnese, abbiamo ritrovato ulteriori dettagli, che valgono la pena di essere condivisi.

      La presenza degli internati polacchi in Ticino e soprattutto nel Locarnese è legata soprattutto alla caserma di Losone posta nella località Piana di Arbigo, la quale ospitò ben oltre la fine del conflitto un ingente numero di soldati polacchi, circa un migliaio. Da questa caserma vennero impiegati per diversi lavori di bonifica. La loro presenza viene ricordata nel Locarnese per la Strada dei Polacchi da Arcegno a Golino, o ancora ad Orselina per la cappella della Madonna di “Ostra Brama”.

      Vi erano però diversi altri campi di lavoro distribuiti nella regione, i quali ospitavano anche loro soldati polacchi. In particolare grazie ad un recente articolo di Fabio Cheda Gli internati polacchi a Maggia, vi sono alcuni dettagli di questi campi nella Valle Maggia.

      I campi erano distribuiti nella maniera seguente: ai Ronchini di Aurigeno (15-30 militi), a Bignasco (10-15 militi), a Cevio (40-50 militi), a Linescio (30-35 militi), presso l’edificio “Cortao di Bonitt” a Maggia (30-35 militi), al Piano di Peccia (fino a 15 militi) e a San Carlo (100-200 militi). Nella sola Valle Maggia vi era circa il 15% (n=200) del totale dei soldati polacchi internati in Svizzera (n=12’000) durante la guerra. La maggior parte di loro erano entrati in Svizzera nella regione del Giura Francese, duranta la disfatta dell’esercito francese nell’estate del 1940.

      L’ubicazione di alcuni di questi campi e località di lavoro come a Lodano, lascia dedurre che l’impiego di questi soldati non era confinato al solo settore agricolo ma soprattutto anche nel disboscamento delle superfici forestali della Valle.

      «Questi baldi giovanotti facevano girare spesso la testa alle ragazze e alle mogli locali, tenendo in considerazione che gran parte degli uomini del paese erano impegnati nel servizio militare. È appurato che i Polacchi abbiano lasciato il segno: una donna si presentò un giorno ai capi responsabili mostrando il ventre gonfio…» (Fabio Cheda, A tu per tu, Dicembre 2020)

      Sempre secondo Fabio Cheda, il rapporto dei soldati polacchi con la popolazione era esemplare. Molto positivo, soprattutto con le signorine della Valle, tanto che vennero celebrati anche dei matrimoni.

      Non tutti i soldati polacchi ebbero la pazienza di restare fino alla fine del conflitto, oppure di ritornare in Pologna. Ve ne sono alcuni che riuscirono anche a fuggire da questi campi di lavoro prima e dopo il conflitto, i quali pur essendo controllati da soldati dell’esercito Elvetico, non sottostavano a rigida disciplina, come invece si ebbe in altri campi soprattutto della Svizzera tedesca.

      https://insubricahistorica.ch/blog/2021/09/30/gli-internati-polacchi-nel-locarnese-e-valle-maggia
      #internement #internés

    • Internati polacchi in Svizzera tra guerra, lavoro e sentimento

      Un’analisi storica sulla presenza degli internati militari polacchi in Svizzera durante la Seconda Guerra Mondiale vuole essere un momento prezioso per una riflessione su noi stessi e sulla nostra terra elvetica: terra di transito in cui i nostri orizzonti hanno potuto incontrarsi, per pochi anni, con un popolo straordinario, che nel dolore, nella perdita e nella sofferenza del conflitto ha saputo dare, oltre che il suo sudore del lavoro - fondamentale per il nostro Paese - durante l’internamento, un esempio unico di dignità, di comunanza e di fratellanza.
      Al di là della politica e delle vicissitudini belliche, gli uomini hanno saputo ritrovarsi, anche soltanto per un istante.

      https://www.editore.ch/shopvm/varia/internati-polacchi-in-svizzera-tra-guerra-lavoro-e-sentimento-detail.html

  • Milan la ville forgée par le #socialwashing - #greenwashing au profit des riches

    Le livre super efficace de Lucia Tozzi raconte la dernière grande #transformation de Milan au bénéfice des profits de la #spéculation financière-immobilière à travers un bombardement de communication du sociawashing mixé avec le greenwashing, donc la #gentification aux dépenses des moins fortunés contraints à migrer ailleurs ou expulsés. Un cas exemplaire de contrerévolution néolibérale pervasive.

    Ceux qui visitent Milan aujourd’hui ne pourront jamais imaginer que jusqu’au début des année 1970 cette ville était la capitale du mouvement ouvrier, avec des grèves et manifs de cent-cinquante mille travailleurs, étudiants et habitants, la plus importante ville industrielle, commerciale et des groupes financiers d’Italie. Depuis la ville n’a pas arrêté de perdre des centaines de milliers d’habitants (aujourd’hui 1.371.850 résidents dont environ 40% qui y sont nés). Et le turnover de ses résidants augmente de plus en plus : de 1971 à 2022 on a eu presque deux millions de nouveaux inscrits à l’état civil et deux millions d’effacés (émigré ailleurs). De 2001 à la fin de 2021 on a eu 40.520 décès plus des naissances. Un turnover que selon Lucia Tozzi arrange bien le « modèle » de ville que les administrateurs et les acteurs dominants poursuivent : une ville de gens qui n’ont pas de racines, qui n’ont pas de mémoire du territoire, qui sont prêtes à être phagocytés par les discours dominant merci au bombardement de la communication pervasive.

    Jusqu’au début des année 2000 Milan était une ville plutôt triste et en déclin. Comme raconte Lucia Tozzi c’est avec l’Expo de 2005 que tout est bouleversé par la stratégie des grands groupes financiers-immobiliers qui misent sur une communication hyper pervasive et efficace mélangeant le discours de la pseudo-conversion verte (le greenwashing à la mode un peu partout dans le monde) et le discours pseudo-social (socialwashing) qui fait croire dans des projets qui en réalité ne font que donner aux privés de plus en plus du patrimoine public ; c’est notamment le cas de ce qu’on appelle le social housing, c.à.d. la privatisation déguisé des logements HLM et ILM ou leur insertion dans le marché des locations et ventes aux prix … de marché qui maintenant à Milan est en voie de s’approcher de celui de Paris.

    La littérature mainstream des intellos et académiciens bien aimés par les acteurs dominants (par exemple Patrick Le Galès) ne rend pas compte de ce processus et au contraire exalte les changements e cours comme une fabuleuse « renaissance » bien gouvernée. Ainsi, Lucia Tozzi n’arrête pas de décrypter cette littérature qui concerne aussi les experts des plusieurs Fondations derrière lesquelles on trouve les groupes financiers-immobilières transnationaux. De fait Milan devient la capitale ou province du capitalisme néo-libéral globalisée. Une ville à la merci de la spéculation du Real Estate, des économies souterraines, la ville la plus polluée d’Europe (comme le montrent les images satellitaires européennes ainsi que l’état des cours d’eaux, des terrains et de l’agriculture des environs, l’énorme quantité d’élevages industriels et aussi les données sur la mortalité). Une réalité effrontément coupée en deux notamment entre la très longue queue de pauvres qui quotidiennement attendent d’avoir un petit sachet d’aliments devant la porte du Pane quotidiano, les familles des périphéries (qui maintenant la langue socialwashing appelle quartier en voie de requalification), la ville des riders et des dizaines de milliers de navetteurs, des étudiants non-résidents qui n’arrivent pas à avoir un lits vue les prix hallucinants, et, de l’autre coté la ville des dizaines de nouveaux tours des grandes firmes et groupes financiers avec autour leurs squares aux bistros et boutiques de luxe. Les acteurs dominants de la ville avec le plein soutien de l’administration (de “gauche”) n’arrêtent pas de construire des logements hyper chers (pas moins de mille euros à chambre et récemment en très forte augmentation).

    Selon le site UE l’Italie est première en UE pour la TVA non collectée (évadée) et la province de Milan (ainsi que toute la Lombardie) est la région avec le plus haut montant d’évasion fiscale et des contributions sociales. 25% des contribuables ont un revenu annuel inférieur à 10 mille euros, 11% ceux avec un revenu entre 10 mille et 15 mille et 26% ceux entre 15 mille et 26 mille ; donc 62% des contribuables n’atteignent pas un revenus annuel de plus de 26 mille euros, alors que 7% dépassent 75 mille euros. Bref, le revenu annuel du quinzième plus riche de la population atteigne 105 mille euros et plus, tandis que le quart le plus pauvre ne dispose que de 4.521 euros.

    Cette situation est en rapide évolution dans le sens quel les moins fortunés sont contraints à émigrer vers les banlieues les plus pauvres. Par ailleurs les contribuables avec les plus hauts revenus sont souvent les fraudeurs du fisc, toujours bien épaulés par des experts dans ce domaine ainsi que dans celui des paradis fiscaux. Remarquons qu’en Italie presque toujours les forces de police et une partie de la magistrature sont complices des illégalismes des acteurs dominants ; cela depuis Berlusconi et l’ex-gauche qui a gouverné en alternance aux droites. Et maintenant, ce n’est pas un hasard que l’actuel gouvernement fasciste ne fait qu’adopter des décrets et lois en faveur de l’évasion fiscale et des contributions sociales, bref des économies souterraines et donc des illégalismes des dominants. Par ailleurs on constate un très fort turnover de la plupart des activités économiques, (surtout bistros, boutiques d’alimentation ou de pacotilles etc., petits restos etc.).

    Mais comme raconte Lucia Tozzi les critiques et contestations de la dérive néolibérale de la ville sont très limitées, marginalisées, obscurées tout d’abord parce que la grande majorité des habitants est prisonnière d’une double piège : celle de la communication très phagocytante/pervasive et celle des réseaux. Il y a un chape de propagande et censure diffusées merci au chantage : “On est toujours sur le bord de l’abime, mais la seule voie du salut est communiquer tous ensemble qu’ici tout va bien ! Que Milan est une exception, un modèle positif, vertueux ! Lors de l’explosion de la pandémie qui a frappé Milan plus que toutes les autres villes italiennes, le maire (de “gauche”) avait lancé le slogan : #milanononsiferma (Milan ne s’arrête pas !) et encore après les fortes critiques reçues il a déclaré : “En ville le retour à la normalité sera dans une paire de mois”. Bref l’idée est que si on collabore tous ensemble on va convaincre le monde que c’est vrai et on va gagner. Quant aux réseaux c’est l’effet de la prolifération énorme des projets et des appels d’offre pour toutes sortes de projets et n’importe quoi. Cela contraigne à se mettre en réseau et à se plier aux règles et cages de ces appels qui inévitablement conduisent à faire et dire ce qui veulent les donneurs des financements.

    La narration dominante dit : « le public n’a pas d’argent et il est nul, le privé fait mieux et rapidement ». La marche dévastatrice de la privatisation a commencé dans le secteur de la santé par œuvre de la région aux mains de la droite la plus ignoble (Comunione e Liberazione, la holding-secte de cathos de droite dont l’alors président de la région était un fidèle adepte -il fut ensuit condamné pour corruption … mais pas pour tous les délits commis pendant presque quinze ans de pouvoir). Depuis la privatisation a grimpé sans arrêt jusqu’au point que progressivement la Mairie a confié aux privés presque tout le patrimoine immobilier (piscines, parcs, squares, places publiques, jardins, écoles, bibliothèques, logements etc. etc.). La justification passée comme indiscutable a été que tout ce patrimoine était délabré, dans un état qui rendait impossible son utilisation et la Mairie n’avait pas l’argent pour les travaux nécessaires à la restauration. Dès lors toute la ville est devenue une suite de zones exclusives maitrisées par les propriétaire de fait des espaces « publics » … interdits à ceux qui par les faciès ou l’allure conformes à des quartiers de riches consommateurs ; chaque espace de ce genre est hyper surveillé par des polices privées, vidéosurveillance à gogo etc.

    Un autre fait emblématique est que la participation aux élections communales a chuté à environ 40%, ce qui permet de gouverner avec à peine 20-22% des ayants droit de vote (c’est aussi le cas de presque toutes les villes italiennes). C’est le triomphe de la post-politique et de la dépolitisation généralisée. Un processus qui convient bien à tous les partis car ainsi ils ont moins de clientèle à cultiver ou acheter. En plus comme le remarque Lucia Tozzi il est éclatant noter que la plus forte abstention concerne les banlieues (comme en France) parce que leurs habitants sont depuis longtemps abandonnés par tous : ils ne correspondent pas à aucun profil convenant pour une ville qui mise sur les consommateurs aisés ou en mesure de dépenser assez pour un after hours, pour la soirées dans les dehors ou les innombrables boites où on mange, on écoute de la musique (souvent horrible) ou quelques jeunes rappeurs… alors il est évident que les moins fortunés des banlieues ne méritent que d’être chassé le plus loin possible de la ville qui doit être réservée surtout sinon uniquement à des résidents aisés et bien réceptifs de la communication des acteurs dominants.

    Bien au-delà de ses spécificités, Milan est une réalité tout à fait similaire à celle que presque toutes les villes aspirent à imiter. L’autrice cite nombre d’exemples, de la New York de Bloomberg à Londres, Paris, Vienne, Berlin, Barcelone etc. et une vaste littérature. Il apparait alors que Milan Mais est sans doute un cas extrême dans une Italie qui maintenant est aux mains d’une coalition de droite qui gouverne avec 27% des ayants droit de vote (le fascisme "démocratique" au pouvoir). Mais comme signale Lucia Tozzi, il est possible contraster cette dérive réactionnaire suivant l’exemple de ville comme Berlin où le mouvement des habitants a réussi à obliger la mairie à investir dans un très grand parc vraiment public totalement en dehors de toutes les visées des entrepreneurs-spéculateurs privés.

    Ce livre mérite d’être publié en français.

    https://blogs.mediapart.fr/salvatore-palidda/blog/030524/milan-la-ville-forgee-par-le-socialwashing-greenwashing-au-profit-de

    #géographie_urbaine #Milan #Italie

  • Taxe sur les livres d’occasion : « parlons-en avant d’improviser ! »
    https://actualitte.com/article/116957/economie/taxe-sur-les-livres-d-occasion-parlons-en-avant-d-improviser

    « On va mettre en place au moins une contribution qui puisse permettre de protéger le prix unique et permettre à nos auteurs, éditeurs et traducteurs d’être mieux aidés. » En visite au Festival du Livre, Emmanuel Macron a annoncé vouloir mettre en place une taxe sur les livres d’occasion. La Bourse Aux Livres réagit dans cette tribune à la déclaration du Président de la République.

    #Edition #Livre_occasion #Librairie

    • Oui, mettons en place des taxations pour aider les jeunes artistes désargentés…
      https://www.lejdd.fr/culture/pagny-biolay-hallyday-la-cour-des-comptes-sinterroge-sur-la-legitimite-de-ces-

      Pourtant décédé en 2017, Johnny Hallyday a fait partie des bénéficiaires des aides à la création entre 2019 et 2022, récoltant 333 890 euros.

      Sinon, l’article est entièrement orienté sur cette histoire de rémunération des auteur·ices (parce qu’ils ont été mal rémunérés la première fois qu’on a vendu le bouquin), alors qu’à ma connaissance, le prix unique du livre est destiné à protéger les « petites » librairies face aux chaînes et aux supermarchés, pas à protéger les artistes désargentés qui vendent trois exemplaires par mois. (D’ailleurs si on commence à se demander comment on redistribue l’argent de la taxe sur les occassions, et comme la logique est tout de même, avec les droits d’auteur, d’une certaine proportionnalité en fonction des ventes, alors évidemment c’est Musso qui va toucher le poignon, pas les auteur·ices qui vendent 1 exemplaire en occaz par mois chez Gibert.)

  • Pour l’amour de l’automobile : retour sur l’histoire de nos désirs
    http://carfree.fr/index.php/2024/04/30/pour-lamour-de-lautomobile-retour-sur-lhistoire-de-nos-desirs

    Voici un article de l’économiste allemand Wolfgang Sachs publié initialement en 1984 et traduit en anglais en 1992 dans la revue Carbusters. Il s’agit d’un extrait du livre « For Love Lire la suite...

    #Fin_de_l'automobile #Insécurité_routière #Livres #Ressources #allemagne #consommation #culture #économie #féminisme #histoire #motorisation #nuisances #société #Suisse

  • Des êtres et des choses, repenser l’#histoire de la #citoyenneté

    Qu’est-ce qu’une barque à Antibes, un coffre à Alger, des terres collectives à Naples ou un mulet abandonné en Espagne disent de la citoyenneté ? L’ouvrage « La Cité des choses » observe les actions de la vie quotidienne et l’histoire de la protection des biens et des personnes pour y répondre.

    La Cité des choses. Une nouvelle histoire de la citoyenneté, voici un titre d’ouvrage bien intriguant. Il n’est pas courant que des esclaves affranchis de l’Antiquité côtoient des artisans migrants du siècle des Lumières, qu’une barque à Antibes se trouve face à un coffre à Alger, ou qu’un hôtel à Turin rencontre un mulet abandonné en Espagne. La Cité des choses. Une nouvelle histoire de la citoyenneté : quelles sont ces « choses » et que signifie « citoyenneté » ?

    Une autre définition de la citoyenneté

    Les auteurs et autrices de La Cité des choses proposent une définition de la citoyenneté qui s’éloigne de la seule conception institutionnelle de ce statut social : « La citoyenneté, dans cet ouvrage, ne correspond pas à un document, à un titre officiellement délivré par une autorité centrale », explique l’historienne Simona Cerutti, directrice avec Thomas Glesener et Isabelle Grangaud de La Cité des choses. « La citoyenneté correspond plutôt au droit de prendre part aux ressources locales. Nous avons utilisé la métaphore du banquet : (le droit) de s’asseoir autour d’une table dans laquelle des ressources de la cité – l’instruction, la santé, le mariage – sont distribuées. »
    D’autres modèles de citoyenneté

    À partir de l’espace méditerranéen, l’ouvrage propose de repenser l’histoire de la citoyenneté en s’affranchissant des seuls modèles politiques occidentaux. « La Méditerranée est un haut lieu d’une histoire traditionnelle de la citoyenneté – des cités de l’Antiquité grecque à l’ère des révolutions en passant par les cités italiennes médiévales. Nous, nous explorons une Méditerranée qui est restée dans l’ombre », avance l’historien Thomas Glesener. « L’histoire classique de la citoyenneté associe cette question à la participation, à l’accès au droit politique, qui passe souvent par le droit de vote. Nous, nous cherchons la citoyenneté dans des actions qui ne sont a priori pas identifiées comme politiques, mais dont nous nous efforçons de montrer leurs dimensions politiques. »
    Suivre les choses pour trouver de la citoyenneté

    De part et d’autre de la Méditerranée, les chercheuses et chercheurs de La Cité des choses enquêtent sur les sociétés du 16e au 21e siècle à partir de ce que leurs sources révèlent de la gestion des « choses » (objets, immeubles, terres, héritages, dettes…). « Ce sont des biens qui ne se réduisent pas à des objets de transaction ou d’appropriation, mais qui prennent de la valeur parce qu’ils sont partagés et qu’ils doivent être protégés », précise Simona Cerutti. Leurs études mettent en lumière l’importance de l’inscription dans une chaîne de succession, dont la trace se suit dans les « choses », pour reconnaître à une personne son statut de citoyen.

    En démontrant une continuité entre choses et personnes, les autrices et auteurs entendent démontrer la capacité des choses à construire et transformer des statuts sociaux. La Cité des choses invite, à travers l’histoire, à concevoir la citoyenneté comme un processus résultant d’interactions et d’actions de la vie quotidienne qui participent à la construction des hiérarchies et des statuts politiques.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/le-cours-de-l-histoire/des-etres-et-des-choses-repenser-l-histoire-de-la-citoyennete-1874850

    • La Cité des choses. Une nouvelle histoire de la citoyenneté

      À partir d’une pluralité d’enquêtes ancrées sur les deux rives de la Méditerranée, du XVIe siècle à nos jours, cet ouvrage entreprend de remettre en perspective l’histoire de la citoyenneté.

      Situant les « choses » au cœur de l’investigation – qu’il s’agisse d’une barque à Antibes, d’un coffre à Alger, d’un hôtel squatté à Turin, d’une mosquée à Tunis, de terres collectives à Naples, d’un mulet abandonné en Espagne –, il dévoile comment les prises en charge des biens distribuent les hiérarchies sociales et les statuts politiques. Ce livre révèle ainsi le pouvoir instituant des actions et des pratiques, par lesquelles les individus construisent leurs appartenances.
      Dès lors, La Cité des choses s’affranchit des seuls modèles politiques occidentaux pour mieux penser la citoyenneté comme un ensemble de droits forgés par des processus localisés échappant à tout déterminisme culturaliste : un enjeu d’une portée politique actuelle évidente.

      http://www.editions-anacharsis.com/La-Cite-des-choses
      #livre

    • Matérialités citoyennes. Un projet d’#abécédaire augmenté (Méditerranée, XVIe-XXIe s.)

      Ce projet éditorial est la fruit de la rencontre entre un programme de recherche, qui place les données empiriques au coeur de son dispositif d’enquête, et d’un dispositif technique permettant de faire coexister et interagir, dans une même fenêtre, trois types de “données” : un texte long (argumentaire), des textes courts (notices) et des fichiers multimédias de toutes sortes (matériaux d’enquête, notes de lectures, interventions filmées, etc.).
      Faire coexister compte-rendus et matériaux d’enquête

      – Le texte long proposera un essai rédigé à plusieurs mains sur les droits de citoyenneté en Méditerranée, du XVIe siècle à aujourd’hui, construit à partir des enquêtes présentées dans l’abécédaire et émaillé de renvois aux différents éléments le composant (notices, matériaux, etc.).
      - Les textes courts, quant à eux, ont été pensés sur le format de notices de dictionnaire (3 à 4 p. maximum), d’un abécédaire plus exactement. En cohérence avec les objets et méthodes du groupe, il ne s’agit en effet pas de produire une série de définitions génériques des grandes catégories généralement mobilisées en SHS pour penser la citoyenneté, mais de restituer brièvement des enquêtes qui mettent en jeu à la fois, le travail du chercheur et toute une série d’objets, statuts, institutions, lieux, etc., par lesquels sont revendiqués, vivifiés, exercés ou éteints des droits de citoyenneté, dans les sociétés méditerranéennes modernes et contemporaines.
      - Au coeur de la pratique des sciences sociales revendiquée par les membres de ce projet, un des objectifs centraux de cette opération éditoriale a consisté, depuis l’origine du projet, à mettre en valeur les données empiriques à partir desquelles sont construites les enquêtes des chercheurs. Aussi, nous avons concentré nos efforts sur la recherche d’une solution technique offrant au lecteur la possibilité d’avoir simultanément accès aux textes et aux matériaux d’analyse qui les fondent (documents d’archives, extraits d’entretiens ou de carnets ethnographiques, enregistrements, photos, cartes, vidéos, sites internet, etc.).

      https://palomed.hypotheses.org

  • Maka – The Documentary
    https://www.meltingpot.org/2024/04/maka-the-documentary

    Maka presenta la storia della prima donna nera ad avere ricevuto un dottorato e ad essere diventata direttrice di un quotidiano in Italia: Geneviève Makaping (Maka). Questo documentario ispirato alla biografia e al pensiero di Maka e distribuito da OpenDDB, racconta la sua dolorosa storia di migrazione dal Camerun attraverso il deserto, l’arrivo in Calabria nel 1982 in seguito alla tragica morte del compagno di viaggio, il successo come giornalista e conduttrice televisiva, e il recente trasferimento e l’attuale attività di insegnante a Mantova. La storia di Maka offre lo spunto per ripensare l’appartenenza nazionale, e il modo in (...)

  • Lecture d’un extrait du livre « L’échec : Comment échouer mieux » de Claro, paru aux Éditions Autrement, Collection Les grands mots, en 2024.

    https://liminaire.fr/radio-marelle/article/l-echec-comment-echouer-mieux-de-claro

    Ce livre de Claro aborde le thème de l’échec en littérature dans un texte multiforme à l’image de son œuvre, entre essai, réflexions, autobiographie, fiction et poésie, le tout agrémenté de nombreuses citations. Traducteur, écrivain, éditeur, l’auteur aborde cette « passion de la défaite » par le biais de la traduction, en effet pour lui l’échec est au fondement même de la traduction. Comment substituer une langue à une autre, un monde à un autre monde, une époque à une autre ? Puis il s’attarde sur l’écriture et la lecture. Échouer en écriture devient la condition même de l’écriture. Un livre vif, stimulant, plein d’humour et de dérision.

    (...) #Radio_Marelle, #Écriture, #Livre, #Lecture, #En_lisant_en_écrivant, #Podcast, #Cinéma, #Poésie, #Littérature, #Édition (...)

    https://liminaire.fr/IMG/mp4/en_lisant_l_e_chec_comment_e_chouer_mieux_claro.mp4

    https://www.autrement.com/lechec/9782080436672

  • Abolir les #prisons, une « #utopie_réelle »

    Dans « Brique par brique, mur par mur », trois chercheurs tentent la première #histoire de l’#abolitionnisme_pénal, qui place la critique radicale de la #prison, de la #justice et de la #police au cœur de ses analyses. Une tradition militante et politique riche. Y compris en Europe.

    « Les #institutions_pénales ne sont pas seulement inefficaces pour nous protéger et régler nos différends, elles sont en plus préjudiciables et néfastes. » Avec Brique par brique, mur par mur (Lux Éditeur), qui paraît en France le 17 mai, #Gwenola_Ricordeau, professeure associée en justice criminelle à l’université de l’État de Californie, #Joël_Charbit, chercheur associé au Centre lillois d’études et de recherches sociologiques et économiques, et #Shaïn_Morisse, doctorant au Centre de recherches sociologiques sur le droit et les institutions pénales, retracent l’archéologie et l’actualité de l’abolitionnisme pénal, qui défend l’abolition de la justice, de la police et de la prison.

    À la faveur de la critique radicale de la prison et de l’incarcération de masse, ce mouvement intellectuel et militant a retrouvé aux États-Unis une vivacité récente. Mais dans le monde occidental, ses racines ont poussé en Europe, dans les années 1970. Souvent ignorée, quand elle n’est pas « calomniée », taxée d’utopique, la tradition de l’abolitionnisme pénal irrigue pourtant de nombreux mouvements de la gauche radicale globale. Entretien avec Shaïn Morisse, l’un des auteurs.

    Mediapart : La France compte un nombre historique de détenus. La surpopulation est endémique, les conditions de détention sont indignes depuis des décennies. Votre livre débute avec un constat : « Les services que les prisons sont censées rendre ne compenseront jamais les torts qu’elles créent depuis leur création »…

    Shaïn Morisse : La prison impose une souffrance institutionnelle. Elle est destructrice pour les individus, leurs proches et leurs communautés. Pour les abolitionnistes, elle perpétue, comme toutes les institutions du système pénal, un ordre social et racial inégalitaire, qui surcriminalise les populations socialement défavorisées et racisées.

    Qu’est-ce que l’abolitionnisme pénal ?

    Le point de départ de l’abolitionnisme, c’est de dire, là encore, que le coût social du système pénal est supérieur aux services qu’il est censé rendre. Il y a depuis deux siècles une critique permanente du système pénal. D’abord par des réformistes, jusqu’à l’apparition de l’abolitionnisme dans les années 1960-1970. La différence, c’est que les abolitionnistes ne contestent pas simplement le système pénal dans son fonctionnement ou dans ses dysfonctionnements. Mais dans sa légitimité même.

    Ils et elles estiment que le système pénal est injuste, coûteux et destructeur. Mais aussi qu’il est inefficace et inopérant : il ne dissuade pas, ne réhabilite pas. Il traite une partie infinitésimale des situations potentiellement criminalisables. Sa fonction rétributrice, c’est-à-dire la compensation d’une souffrance commise par une souffrance équivalente, voire supérieure, n’est pas non plus satisfaisante. Certes, il neutralise les individus, soit de façon définitive avec la peine de mort, soit pour un certain temps. Mais comme l’écrit [la militante et universitaire antiraciste – ndlr] Angela Davis, « la prison ne fait pas disparaître les problèmes, elle fait disparaître les êtres humains ».

    La prison semble pourtant plus que jamais plébiscitée, dans nos sociétés contemporaines, comme le meilleur moyen de punir. Et ce depuis des décennies, notamment en lien avec ce que vous nommez dans le livre le « durcissement pénal » à partir des années 1970. Pourquoi ?

    L’abolitionnisme se développe dans les années 1960-1970, dans un contexte d’espoir révolutionnaire et de grandes espérances politiques radicales à gauche. On assiste à une médiatisation de la question carcérale, à une politisation autour des questions pénales. Les prisonniers sont érigés en sujet politique, prennent la parole eux-mêmes. Il y a des mouvements de prisonniers, de la répression mais aussi des réformes pénales radicales. Des sociologues réalisent des études empiriques pour comprendre ce qu’est l’incarcération, ce qui se passe réellement en prison.

    À partir de la fin des années 1970, et plus particulièrement au milieu des années 1980, avec l’avènement du néolibéralisme, les discours abolitionnistes deviennent inaudibles. L’intérêt pour les structures disparaît. On ne voit plus que l’individu, qui serait entièrement responsable de sa destinée. C’est « la loi et l’ordre », l’avènement de discours purement punitifs qui ne voient pas l’aspect problématique de la prison. Pourtant, ce sont toujours les mêmes catégories de population qui se retrouvent en prison. Ce n’est donc pas juste une question d’individus qui n’arriveraient pas à se réinsérer dans la société. Il y a des logiques sociales et structurelles : l’abolitionnisme cherche ainsi à réencastrer le système pénal dans la société.

    L’abolition de la prison, mais aussi « de toutes les institutions qui forment le système pénal, comme la police et les tribunaux », apparaît dans ce contexte comme une « utopie ». C’est un terme que vous assumez d’ailleurs.

    L’abolitionnisme revendique la notion d’utopie, mais une « utopie réelle », ancrée dans les potentiels réels de l’humanité. Il s’agit de donner les moyens aux gens de régler ce que le système pénal nomme « délits » et « crimes » d’une manière pérenne et satisfaisante. L’abolitionnisme ne fournit pas un modèle unique, et ne formule pas des « alternatives ». C’est logique : l’idée n’est pas de remplacer le système pénal par une autre institution. De fait, il implique de changer les structures sociales. Car on ne peut pas régler les problèmes qui sont à la source de ce qu’on appelle communément « le crime » sans considérer la société, l’économie, les différents rapports de domination, que ce soit le patriarcat, le validisme ou le racisme.

    C’est-à-dire que l’abolitionnisme du système pénal n’est possible qu’une fois que la révolution aurait eu lieu ?

    Globalement, la tendance assez générale au sein de l’abolitionnisme est révolutionnaire, surtout aujourd’hui. Pour autant, l’abolition est un horizon politique, tout comme la révolution est un horizon. Si les abolitionnistes ne sont pas des réformistes — ils ne pensent pas que le système pénal peut devenir plus acceptable ou efficace –, ils sont aussi pragmatiques. Il y a eu dans les années 1970 des abolitionnistes social-démocrates, et d’autres qui considèrent qu’on peut s’accommoder d’un certain niveau d’inégalité, d’un peu de capitalisme.

    On a tendance à croire que l’abolitionnisme pénal est d’abord américain, dans un pays où l’esclavage est, comme vous l’écrivez « la matrice du système pénal ». Pour autant, vous montrez qu’il y a une tradition française et européenne riche de l’abolitionnisme. La France, écrivez-vous, a d’ailleurs « joué un rôle prépondérant dans la circulation internationale du modèle de la prison »…

    Avec ce livre, nous voulions faire la première histoire générale de l’abolitionnisme, montrer que c’est un mouvement qui a cinquante ans. Raconter, aussi, que ce n’est pas, comme on le pense, un courant récent importé des États-Unis. La première vague de l’abolitionnisme s’est d’abord développée en Europe. La seconde vague, à partir des années 1990, démarre aux États-Unis. Elle est liée aux mouvements de libération africaine américaine, avec Angela Davis et la fondation du groupe Critical Resistance, qui va être très important pour toute la structuration des luttes abolitionnistes. Mais Angela Davis elle-même a lu des auteurs européens ! Ce qui est vrai, c’est que la question de la race, le féminisme, étaient les grands impensés de l’abolitionnisme européen. À partir des années 1990, l’abolitionnisme états-unien va enrichir la réflexion et intégrer ses questions.

    Avec le mouvement Black Lives Matter, les manifestations immenses qui ont suivi le meurtre policier de George Floyd en 2020, un large mouvement social aux États-Unis réclame le « définancement et le désarmement de la police ». Ce mouvement a obtenu des victoires locales. Pourquoi une telle vitalité de l’abolitionnisme pénal aux États-Unis alors qu’il reste chez nous une pensée marginalisée ?

    Cela tient d’abord à l’exceptionnalisme pénal états-unien : à partir des années 1980, une incarcération de masse a été mise en place. La population carcérale a quintuplé, devenant la plus grande du monde, devant la Russie et la Chine. Dans le même temps, l’État social s’est effondré totalement. Comme le souligne le sociologue Loïc Wacquant, l’État pénal s’est renforcé quand l’État social s’effondrait. Les conséquences ont été profondes. C’est de là qu’est repartie la reconfiguration de l’abolitionnisme aux États-Unis, mais aussi en Amérique du Sud. Mais ces dernières années, il y a tout un renouvellement des enjeux de l’abolitionnisme. C’est aussi vrai en Europe, en lien avec les questions de féminisme, d’antiracisme, en lien aussi avec l’action de la police, la question des frontières, ou la question des centres de rétention administrative (CRA).

    Pour beaucoup de victimes, la peine infligée à l’auteur est une reconnaissance, le début d’un chemin de réparation. Vouloir abolir la prison et la justice pénale, n’est-ce pas les priver de cette réparation possible ?

    Vu l’évidence culturelle du système pénal, il est normal que les gens attendent de lui une forme de reconnaissance du préjudice. Mais l’abolitionnisme affirme que le système pénal néglige profondément les intérêts et les besoins de tout le monde : les victimes, mais aussi les personnes criminalisées. Les abolitionnistes s’intéressent donc à des modes alternatifs de régulation des conflits, de manière radicale, c’est-à-dire en faisant en sorte qu’ils ne se reproduisent pas à l’avenir.

    En quoi consistent-ils ?

    Différents courants se sont développés depuis les années 1970-1980, qui ont pris le nom par exemple de « justice restauratrice » ou « réparatrice » au Canada. Les infractions ne sont plus considérées uniquement comme des transgressions à la loi, qui doivent être sanctionnées, mais comme des conflits ou des situations problématiques qui ont des répercussions personnelles sur la vie des gens et qui doivent être réparées. Donc il ne s’agit pas de punir, mais de remédier au tort subi par les victimes et de reconstituer le lien social.

    À partir des années 1990, ce courant de la justice restauratrice, pensé hors du système pénal, a commencé à être digéré par les différents systèmes pénaux. Elle a été utilisée comme un supplément à la peine : par exemple, elle a été intégrée dans la loi en France avec la loi Taubira en 2014.

    A alors émergé la justice transformatrice, notamment sous l’impulsion de l’abolitionniste canadienne Ruth Morris. Elle ne cherche pas juste à réparer le lien social, mais aussi à changer les individus et la société en général. Depuis plus de dix ans, il y a tout un essor militant et éditorial de la justice transformatrice, souvent initiée par des groupes qui, parce qu’ils sont souvent criminalisés, ne peuvent pas forcément recourir à la police.

    C’est le cas, surtout aux États-Unis (avec des groupes comme Generation Five, CARA, Creative Interventions). On peut citer aussi l’activiste Mariame Kaba. En France, c’est aussi la démarche du collectif Fracas. La justice transformatrice recourt à des pratiques de médiation et de guérison. Elle mobilise une palette de mesures adaptées à chaque problème (refuge, groupe de soutien, etc.). Son but est aussi de changer les valeurs, pratiques et structures qui ont rendu la commission de la violence possible, par un travail culturel et politique.

    Le Code pénal prévoit des crimes et des délits. La vision abolitionniste critique la notion de crime, la « figure mythologique du criminel » comme vous l’écrivez. Est-ce à dire que les crimes n’existent pas ?

    Les abolitionnistes considèrent que le crime est une catégorie « éponge », qui regroupe des actes qui n’ont aucune similitude la plupart du temps, que ce soit sur les situations que ça implique ou les impacts concrets que ça va avoir sur la vie des personnes. Pour les abolitionnistes, la grammaire de la criminalisation ne permet pas de comprendre les situations vécues, les circonstances, les expériences des personnes concernées. C’est pour eux une abstraction qui décontextualise, qui réduit la complexité des situations.

    C’est-à-dire qu’il n’y a pas de victimes et il n’y a pas d’auteurs ?

    Ces actes déplorables qu’il y a derrière la notion de « crime » ils sont là, ils existent. Mais les abolitionnistes partent de ces actes et de ces situations pour ensuite proposer une multiplicité d’interprétations de ces situations et de réponses possibles. Beaucoup d’entre eux remettent en cause la dichotomie auteur-victime, car beaucoup d’auteurs sont aussi victimes d’autres systèmes d’oppression. Les abolitionnistes vont dire que le « crime » n’est pas un point de départ utile pour cadrer les problèmes. Ils vont partir des actes et des situations concrètes.

    Il ne s’agit pas d’excuser telle ou telle personne pour avoir commis tel acte : l’abolitionniste cherche à reproblématiser la question de la responsabilité, pas à dédouaner la personne qui a commis l’acte. Mais c’est aussi hypocrite de voir uniquement la responsabilité individuelle comme le fait le système pénal ; et de ne pas regarder toutes les logiques sociales qui ont permis à cette situation d’advenir.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/230424/abolir-les-prisons-une-utopie-reelle
    #abolitionnisme #emprisonnement

    • Brique par brique, mur par mur. Une histoire de l’abolitionnisme pénal

      Il y a d’abord une évidence : les services que les prisons sont censées rendre ne compenseront jamais les torts qu’elles causent. Depuis les années 1960, ce constat d’un immense gâchis a amené un vaste mouvement à œuvrer à l’abolitionnisme pénal : en finir avec toutes les prisons, mais aussi avec les autres institutions qui forment le système pénal, comme la police et les tribunaux. Ce projet politique poursuit ainsi un objectif ambitieux : rendre vraiment justice aux victimes et répondre à leurs besoins, en plus de prévenir les violences systémiques et interpersonnelles.

      En prenant appui sur les trajectoires transnationales des mouvements politiques qui ont mis au cœur de leur démarche la critique radicale du système carcéral et judiciaire, cet ouvrage, le premier du genre en langue française, offre une documentation indispensable pour inspirer les luttes contemporaines.

      https://luxediteur.com/catalogue/brique-par-brique-mur-par-mur
      #livre