• La Suisse présente de graves déficits dans la lutte contre la violence liée au genre

    Le premier rapport sur la mise en œuvre de la Convention d’Istanbul en Suisse a été publié le 15 novembre 2022. Les expert·e·x·s sur la lutte contre la violence du Conseil de l’Europe concluent que la Suisse ne remplit pas de nombreuses exigences de la Convention, entrée en vigueur en 2018, en ce qui concerne la violence liée au genre, la violence sexualisée et la violence domestique. Commentaire de BRAVA (anciennement TERRE DES FEMMES Suisse)

    Après presque deux ans d’enquête, le groupe d’expert·e·x·s indépendant·e·x·s du Conseil de l’Europe (GREVIO) a publié son premier rapport sur la mise en œuvre des mesures contre la violence liée au genre, sexualisée et domestique que la Suisse s’est engagée à prendre avec la Convention d’Istanbul (CI).

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/11/20/la-suisse-presente-de-graves-deficits-dans-la-

    #féminisme #suisse #violence

  • Violences

    Dans sa nouvelle création qui prend le titre de « Violences », Léa Drouet s’attache surtout à nous faire passer de l’autre côté des gros intitulés. Le long d’une écriture sensible qui se compose au croisement du corps, du son et de la scénographie, elle nous conduit sur le bord des images de la violence telles qu’elles sont agencées pour nous choquer et, nous sidérant, nous empêcher non seulement d’agir mais déjà de sentir.

    Résister à l’assignation à la passivité commence peut-être ici : pouvoir éprouver et expérimenter. Reprendre l’expérience de la violence non plus seulement en tant qu’elle est subie par les uns et exercée par les autres, mais en tant qu’elle nous traverse tous et chacun. La violence n’est pas que le lot d’un pouvoir qui nous rend impuissants. Elle est aussi une puissance que nous pouvons déployer pour reprendre des capacités de voir, d’agir et de vivre autrement. Seule en scène, Léa Drouet commence par suivre le parcours de sa grand-mère Mado qui, petite fille, dut traverser des champs et des routes pour échapper à la rafle du Vél d’Hiv’. À partir de là, la metteuse en scène retrace la traversée des frontières qui conduit aujourd’hui d’autres enfants à perdre la vie. Dans les interstices qui séparent les morts que l’on compte de toutes les morts qui ne comptent pas, elle tente de recomposer des mémoires ainsi que des histoires pour l’avenir. L’artiste agit sur un espace principalement composé de sables, évoquant des territoires fracturés, séparés par des frontières ou abîmés par des tours. Si le sable sait parfaitement recouvrir les traces et effacer les marques de violence, il est aussi porteur d’empreintes. Léa Drouet façonne ce paysage où le corps engagé passe du témoin à l’actrice et de l’actrice à la narratrice, comme si les lignes de rupture permettaient surtout des rencontres nouvelles. Alors émergent peu à peu d’autres positionnements, d’autres possibilités d’action et d’autres attentions au détail et au petit. Car c’est peut-être dans la fragilité des grains de sable que se distinguent les fondements, friables et solides à la fois, d’un monde capable d’assumer ses conflits autrement que sous la forme du champ de bataille et de l’État de guerre généralisé.

    -- Camille Louis, Dramaturge

    https://vimeo.com/504326442

    https://vaisseau-leadrouet.com/projet/violences

    #frontières #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #violence #art_et_politique #art #théâtre #impuissance #puissance #Léa_Drouet #mémoire #traces #sable #empreintes #conflits

  • Une campagne syndicale et étudiante contre le #harcèlement_moral à l’ENS de Lyon
    https://academia.hypotheses.org/53952

    Les élu-es étudiant-es et la CGT de l’ENS de Lyon lancent une campagne publique d’information sur le harcèlement moral dans l’enseignement supérieur et la recherche. Si l’ENS en tant qu’établissement élitaire présente sans doute des spécificités, il semble malheureusement clair … Continuer la lecture →

    #Actualités_/_News #Expression_syndicale #Santé_au_travail #violences_au_travail

  • Tra i respinti dalla Croazia. La violenza è ancora la prassi lungo le rotte balcaniche

    Ritorno sulla frontiera tra Bosnia ed Erzegovina e Unione europea, a quasi tre anni dall’incendio che distrusse il campo di #Lipa. Le persone incontrate denunciano i respingimenti illegali e le vessazioni delle polizie. Tra gennaio e ottobre 2023 i passaggi nei Balcani occidentali sono stati quasi 100mila. Il videoreportage

    È notte fonda ma la luna piena illumina tutta la valle del fiume Sava. Non è l’ideale per le persone che nell’ombra provano a passare da un confine all’altro, dal Nord della Bosnia ed Erzegovina alla Croazia. “A qualcuno la luna piena dà sicurezza -racconta un ragazzo che arriva dal Sudan- perché vedi bene la strada. Ad altri non piace, perché le guardie ti vedono lontano un miglio”.

    Bosanska Gradiška è uno degli snodi chiave per i migranti che dal Nord della Bosnia tentano di attraversare il fiume per entrare in Croazia, nell’Unione europea. In tanti sono morti nelle acque della Sava, affogati a poche bracciate dalla riva, ma i più giovani, soprattutto in estate, provano ancora a nuotare da una sponda all’altra, da un confine all’altro. I segni del passaggio sono evidenti, ci sono persino tracce di pneumatici e di trascinamento. Sembra la scia di una piccola imbarcazione. Nei villaggi lunga la Sava, da Gradiška in poi, alcuni residenti della zona “noleggiano” le loro barchette per accompagnare i migranti dall’altro lato, per 20 o 30 marchi.

    Si cammina in silenzio, tutto tace, la frontiera ufficiale, quella presidiata dalla polizia, è a pochissimi chilometri. “Ultimamente i migranti si vedono poco in giro -spiega un’attivista della zona- ma ci sono eccome. Adesso si nascondono di più ma si muovono e tanto”. I numeri confermano i “flussi” lungo le rotte negli ultimi mesi. Secondo i dati di Frontex, da gennaio a ottobre gli “attraversamenti” nei Balcani occidentali hanno superato quota 97.300, soprattutto afghani, siriani e turchi. I volontari della zona, però, registrano la presenza anche di persone provenienti dal Nord Africa e dall’Africa sub-sahariana.

    “Tanti arrivano direttamente in Serbia con l’aereo e poi cominciano il viaggio. Altri, invece, arrivano a piedi dalla Turchia o dalla Grecia”. Il cammino, in ogni caso, è faticoso e pericoloso. Il rischio è quello di morire di freddo in inverno o di essere picchiati, di perdere anche quel poco che si ha, di rimanere bloccati per mesi. Cosa che sta accadendo di nuovo, nell’autunno del 2023, lontano dai riflettori un tempo più accesi.

    “Mi hanno spaccato uno zigomo -racconta un ventenne iraniano incontrato nei boschi bosniaci a fine ottobre- è successo l’altra sera. Adesso aspetto qualche giorno prima di ritentare. La polizia croata è la peggiore”. “I miei amici un mese fa sono passati senza problemi”, aggiunge un altro ragazzo, che non dice di dov’è. “E invece a noi ci fanno sputare sangue, letteralmente”. Qualcosa è successo. Fino a qualche settimana fa le autorità croate lasciavano “passare” con più facilità, e per i migranti era diventato relativamente semplice arrivare fino Zagabria o a Fiume, per poi proseguire verso la Slovenia. Poi, però, la protesta dei residenti di alcune cittadine sul confine hanno spinto il governo croato a cambiare ancora una volta politica. Riprendendo così i respingimenti violenti. I metodi brutali della polizia croata sono noti da tempo. I racconti raccolti in questi giorni in Bosnia ed Erzegovina confermano invece che tutte le pratiche più disumane utilizzate in questi anni sono tornare prepotentemente “di moda”.

    https://www.youtube.com/watch?v=IRgHN1sh8ZQ&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Faltreconomia.it%2F&

    I respingimenti della polizia croata hanno avuto un immediato contraccolpo sulle presenze al campo di Lipa, a 25 chilometri da Bihać. Siamo arrivati al campo di mattina con un permesso per entrare e svolgere una visita guidata della struttura. L’unico dato di cui siamo certi è il numero delle presenze. A novembre ci sono all’incirca 1.500 persone, accampate insieme nonostante le condizioni non siano delle migliori. I ragazzi sono spesso costretti a spendere i propri soldi per comprare all’esterno sapone e dentifricio, perché raramente sono a disposizione. “Compriamo anche qualcosa da mangiare -racconta Adam, dalla Siria- perché spesso abbiamo fame, ma è anche l’occasione per fare una pausa e per uscire dal recinto”. Ci spostiamo al negozietto che è stato allestito proprio di fronte all’ingresso del campo. Prendiamo un the mentre i ragazzi si avvicinano numerosi. Due euro per un bicchierino. I prezzi sono alti. Un solo rotolo di carta igienica costa quasi un euro. “Lo compriamo perché non c’è mai nei bagni”, spiega un ragazzo con il sacchetto in mano. Le guardie del campo intanto ci osservano, non gradiscono molto che si parli con i loro “ospiti”, e allora ci spostiamo verso il bosco.

    Mentre siamo nella jungle, poco fuori Lipa, incontriamo tre ragazzi siriani che tornano verso il campo dopo essere stati respinti. Hanno l’aria stanca e affranta, anche perché a due di loro la polizia ha sequestrato e spaccato il telefono. Si fermano qualche minuto a raccontare ma poi proseguono, perché hanno bisogno di riposare, bere un po’ d’acqua, riordinare le idee. Nel pomeriggio raggiungiamo il campo Borići, dedicato alle famiglie e ai minori non accompagnati, dove ci sono poco più di 800 persone. Un numero non elevatissimo ma comunque superiore a quello della media degli ultimi mesi. Tra loro ci sono molte persone in arrivo dall’Africa sub-sahariana ma anche diverse famiglie dal Bangladesh. “A volte restano a lungo -spiega uno dei coordinatori del centro, dove abbiamo il permesso di entrare-. E infatti ai bambini facciamo anche da scuola. È un modo per insegnargli la lingua, per trascorrere del tempo sereno e magari fargli ritrovare il sorriso”. L’atmosfera qui è migliore e anche l’accoglienza è meno militaresca, più informale. Finché c’è la luce del sole il clima resta sereno, ma appena fa buio il fermento aumenta.

    Ogni sera i migranti cercano di attraversare il confine arrivando il più vicino possibile con i taxi o con gli autobus e sperano di non incontrare la polizia croata. Di recente, però, succede quasi sempre. Lo raccontano a più riprese le tantissime persone incontrate in questi giorni d’autunno. Grecia, Turchia, Bulgaria, Serbia. Tra i ragazzi che hanno il desiderio di far sapere cosa gli è successo c’è Mohammed, dal Marocco, che ha provato ad attraversare il confine croato sette volte e ha subito maltrattamenti feroci dalla polizia di Zagabria. Poi c’è Samir, 18 anni, dall’Afghanistan, in fuga dai Talebani. E poi c’è Alì, dal Ghana, che ha perso i documenti e non è riuscito a rientrare in Italia dal suo Paese. Tre storie racchiuse in questo video, anche se ci vorrebbero ore e ore di testimonianze. Ore e ore di immagini e denunce, perché quel che accade sotto i nostri occhi fa vergognare.

    https://altreconomia.it/tra-i-respinti-dalla-croazia-la-violenza-e-ancora-la-prassi-lungo-le-ro
    #Balkans #route_des_balkans #asile #migrations #réfugiés #frontières #refoulements #push-backs #Croatie #Bosnie-Herzégovine #Bosanska_Gradiška #Sava #rivière_Sava #rivière #violence #violences_policières #Bihać #Borići

  • 25 novembre : manifestons contre toutes les violences sexistes et sexuelles !

    En cette journée internationale du 25 novembre, dans un contexte de guerres qui se multiplient, notre soutien va à toutes les femmes dans le monde, premières victimes avec les enfants des conflits armés. Nous manifestons particulièrement notre soutien aux femmes d’Ukraine, de Birmanie, de Palestine, d’Israël, du Haut-Karabakh.

    Nous clamons haut et fort notre solidarité avec nos sœurs afghanes maintenues sous le joug d’une oppression effroyable où même aller à l’école devient un acte héroïque.

    Nous réaffirmons notre sororité avec les femmes iraniennes et kurdes en révolte pour leur liberté. Femme, Vie, Liberté.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/11/13/25-novembre-manifestons-contre-toutes-les-viol

    #féminisme #violence

  • Les « traces fragiles » des #rescapés arméniens du #génocide

    L’historienne #Anouche_Kunth publie « Au bord de l’effacement », une enquête délicate sur la marque du passé génocidaire dans les formalités administratives accomplies par les exilés arméniens en France, dans l’entre-deux-guerres.

    Des documents qui racontent « par en dessous » un génocide attesté, quoique toujours nié par les puissances qui l’ont perpétré. Voilà la matière première des recherches de notre invitée, Anouche Kunth, chargée de recherche au CNRS et autrice d’Au bord de l’effacement. Sur les pas d’exilés arméniens dans l’entre-deux-guerres (La Découverte).

    Dans ce livre, l’historienne part de duplicatas de certificats d’identité, autrefois délivrés par l’Office des réfugiés arméniens, et aujourd’hui conservés à l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra). Sous les apparences d’un style bureaucratique, ils offrent aussi, à qui les étudie patiemment, des marques, des ratures et des remarques annexes, qui font écho aux violences, aux spoliations et aux déplacements subis par une population entière, en raison de ses origines.

    Parce que ces documents étaient nécessaires à des unions ou à des départs pour d’autres contrées, ils témoignent aussi des vies reconstruites, et transmises, par les personnes exilées. En ce sens, le travail d’Anouche Kunth contribue à conjurer, sur le plan mémoriel, une « guerre d’extermination de cent ans » dénoncée dans nos colonnes par l’historien Vincent Duclert, auteur d’Arménie. Un génocide sans fin et le monde qui s’éteint (Les Belles Lettres).

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/101123/les-traces-fragiles-des-rescapes-armeniens-du-genocide
    #arméniens #livre #histoire #traces

    • Au bord de l’effacement. Sur les pas d’exilés arméniens dans l’entre-deux-guerres

      Nom, prénom, date et lieu de naissance : trop peu de mots, sur ces certificats administratifs, pour écrire l’histoire de chaque personne épinglée à son état civil, enfoncée dans le sillon de ses empreintes digitales. À mieux les regarder cependant, ces #documents_d'identité portent les marques de bifurcations multiples, de ruptures radicales survenues dans les trajectoires d’Arméniens originaires de l’Empire ottoman et #réfugiés en France au lendemain de la Première Guerre mondiale. La paix, en effet, n’a pas permis aux survivants du génocide (1915-1916) de retourner vivre en Turquie, à la suite des politiques d’exclusion mises en œuvre par le régime kémaliste.
      L’étonnant, ici, n’est pas que l’exil soit affaire de routes, de maisons détruites ou spoliées, de naissances en chemin, de contrats de travail signés à distance, de débarquements à Marseille, de morts précoces et de nouveaux départs vers les Amériques. Mais que d’infimes #traces de ces vies déplacées se soient déposées au détour de formalités ordinaires. Par petites touches, le passé étend ses ombres à travers les liasses.
      Le travail d’Anouche Kunth, d’une rare délicatesse, conjure la #violence de l’#effacement.

      https://www.editionsladecouverte.fr/au_bord_de_l_effacement-9782348057908

  • Maintien de l’ordre : la France s’offre plus de 78 millions d’euros de grenades - POLITIS
    https://www.politis.fr/articles/2023/11/maintien-de-lordre-la-france-soffre-plus-de-78-millions-deuros-de-grenades

    e ministère de l’Intérieur vient de passer sa plus grande commande de grenades de maintien de l’ordre en plus de dix ans. Elle comprend des grenades lacrymogènes, mais aussi des explosives et assourdissantes, dont certaines jamais encore employées. [...]

    Parmi les lauréats, on retrouve aussi Alsetex, qui est, avec Nobel, l’un des deux principaux fournisseurs du gouvernement.

    Alsetex est en Sarthe !
    #violences_policières OUPS #maintien_de_l'ordre

  • CYBERHARCELEMENT : la silenciation des voix minoritaires

    Interview de Laure Salmona par Francine Sporenda

    FS : Vous dites dans votre livre que les réseaux sociaux sont parcourus par les mêmes rapports de force que le reste de la société, et que ce sont les mêmes catégories qui occupent une position dominante en réel qui y accaparent la plus grande partie de l’espace virtuel et en évincent les voix minoritaires. Ces voix minoritaires qui, victimes de cyberharcèlement, doxxing, attaques en meute, etc. finissent par fermer leurs comptes et quitter les RS. Pouvez-vous nous parler de cette silenciation des militantes féministes, antiracistes, etc. sur les RS par le cyberharcèlement ?

    LS : Oui, l’espace numérique, qui est un reflet de nos sociétés et où l’on va donc retrouver toutes les oppressions et dominations qui s’y déploient, est aussi devenu un véritable champ de bataille, au sein duquel les cyberviolences servent d’armes aux groupes dominants et conservateurs, leur permettant de museler et de chasser des réseaux sociaux les militant·es qui tentent de renverser les normes établies et de dénoncer les inégalités et discriminations dont iels sont victimes. S’il suffit d’être une femme pour subir des cyberviolences à caractère sexiste, ces violences frappent de manière encore plus intense celles qui militent pour défendre les droits humains et expriment leurs opinions politiques en ligne, car l’enjeu est de les faire taire pour mieux les évincer du débat public. Ainsi les militantes féministes, d’autant plus si elles luttent aussi contre le racisme, les LGBTIQphobies, le validisme, la grossophobie, etc. sont la cible de nombreuses cyberviolences, menaces et intimidations, qui se produisent en ligne mais peuvent, dans 72% des cas, se poursuivre dans l’espace matériel, notamment via des violences physiques et/ou sexuelles pour une victime sur cinq [1]. Ces violences ont aussi de nombreuses conséquences sur la vie et la santé de celles qui en sont victimes, tout comme sur leur liberté d’expression et sur le débat démocratique dans son ensemble, puisqu’elles poussent de nombreuses femmes à s’autocensurer en ligne par crainte des cyberviolences, muselant ainsi tout une frange de la population qui œuvre pour la transformation sociale et l’égalité réelle.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/11/10/cyberharcelement-la-silenciation-des-voix-mino

    #féminisme #violence #harcelement

  • Allegations of extensive sexual abuse at Kenyan offsetting project used by Shell and Netflix
    https://www.theguardian.com/environment/2023/nov/07/accusations-of-widespread-sexual-abuse-at-offsetting-project-used-by-ne

    Male staff at a leading Kenyan carbon-offsetting project used by Netflix, Shell and other large companies have been accused of extensive sexual abuse and harassment over more than a decade, following an investigation by two NGOs.

    The Kasigau Corridor conservation project in southern Kenya, operated by the California-based firm Wildlife Works, generates carbon credits by protecting dryland forests at risk of being destroyed in key elephant, lion and wildlife habitats west of Mombasa. The scheme was the first ever forest protection scheme approved by Verra, the world’s leading certifier of carbon offsets, and has also been accredited for its biodiversity and community benefits, probably generating millions of dollars in revenue in carbon-credit sales.

    #crédits_carbone #violence_sexuelle

  • En Grèce, « les refoulements de migrants » en mer « sont devenus la norme », accuse MSF - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/53007/en-grece-les-refoulements-de-migrants-en-mer-sont-devenus-la-norme-acc

    En Grèce, « les refoulements de migrants » en mer « sont devenus la norme », accuse MSF
    Par Maïa Courtois Publié le : 03/11/2023
    En, les refoulements par les autorités grecques des exilés vers la Turquie sont « devenus la norme » et s’accompagnent de « cycles de violences », dénonce l’ONG Médecins sans frontières (MSF) dans un nouveau rapport publié jeudi. Celui-ci se base sur de nombreux témoignages recueillis au fil des soins médicaux délivrés à des milliers d’exilés sur le sol grec ces deux dernières années.
    Dans un rapport paru ce jeudi 2 novembre, l’ONG Médecins sans frontières (MSF) affirme que les refoulements illégaux de migrants « sont devenus la norme », de même que « l’absence criante de protection pour les personnes qui cherchent la sécurité en Grèce ».Près de 8 000 exilés dont 1 500 enfants ont bénéficié, entre août 2021 et juillet 2023, d’une aide médicale de la part de MSF en Grèce. En se basant sur leurs témoignages, l’organisation souligne que la plupart ont fait l’objet de « plusieurs refoulements », en mer et depuis la terre. Ces refoulements s’accompagnent de violences, également détaillées dans le rapport.
    Les témoignages de ces refoulements en mer sont nombreux.
    Au fil des années, la rédaction d’InfoMigrants a également reçu des témoignages de violences en mer Égée. Une Congolaise avait raconté en 2021 comment les Grecs avaient refoulé leur canot dans les eaux turcs après avoir jeté à l’eau leurs portables et leurs affaires. Un Guinéen a également raconté en 2020 comment les garde-côtes grecs ont percé son embarcation en mer avant de repousser le canot vers les eaux turques.
    MSF rapporte aussi plusieurs témoignages de refoulements depuis la terre. À savoir, des exilés placés de force sur des radeaux de sauvetage et laissés à la dérive vers les eaux turques.
    Pendant ces opérations illégales de refoulements, beaucoup d’exilés reçus par MSF racontent avoir été « pris au piège dans des cycles de violence ». L’organisation a recueilli des témoignages de « violences, agressions physiques, fouilles à nu et fouilles corporelles intrusives », y compris sur des enfants, de la part d’"officiers en uniforme et d’individus masqués non identifiés".Parmi les violences revenant régulièrement dans les témoignages : poignets ou chevilles immobilisés avec des câbles en plastique, coups avec des matraques ou des bâtons, insultes verbales, fouilles corporelles intrusives devant des inconnus, liste MSF.
    Contacté par l’AFP, le ministère grec des Migrations n’avait pas encore réagi, jeudi, au rapport de MSF.
    Le 14 juin, au moins 82 personnes ont péri noyées et des centaines d’autres ont disparu dans le naufrage d’un chalutier qui reliait la Libye à l’Italie, au large de Pylos. Ce naufrage a soulevé de nombreuses questions sur les responsabilités des autorités grecques.
    Malgré les accusations récurrentes de refoulements et de violences, et « malgré des preuves nombreuses et crédibles, les autorités grecques, l’UE et ses États membres n’ont pas demandé de comptes aux auteurs de ces manquements », commente MSF dans son rapport."Nous demandons la fin définitive des refoulements aux frontières, la mise en place d’un système de surveillance indépendant sur les îles de la mer Égée et le renforcement des opérations de recherche et de sauvetage en mer", conclut le Dr Christos Christou, président international de MSF.Malgré la politique de refoulements une nouvelle fois décrite dans ce rapport d’ONG, plus de 29 700 migrants sont arrivés en Grèce au cours des neuf premiers mois de 2023. Soit plus du double des 11 000 enregistrés au cours de la même période l’année dernière.

    #Covid-19#migrant#migration#grece#ue#refoulement#MSF#migrationirregulierelibye#italie#mediterranee#violence#frontiere#droit#sante

  • Recours aux armes « non létales » : 2022 excellent millésime | Paul Rocher (sous X @PaulRocher10) via @colporteur | 05.11.23

    https://twitter.com/PaulRocher10/status/1721262476933706174

    Près de 12 000 tirs policiers sur la population civile en 2022, soit 33 tirs par jour. Voilà ce que montrent les derniers chiffres sur le recours aux armes « non létales ». Hormis les années des #giletsjaunes (2018/19), c’est un nouveau record.

    Au-delà du nombre élevé de tirs sur 1 année, la tendance est frappante. En 2022, les policiers ont tiré 80 fois plus qu’en 2009. Pourtant, ni les manifestants ni la population générale ne sont devenus plus violents. La hausse des violences est celle des #violencespolicières

    Ces données du min. de l’intérieur n’affichent pas les tirs de grenades (assourdissantes, lacrymogène) et ignorent les coups de matraque. Même pour les armes comptabilisées, on assiste à une sous-déclaration. Le niveau réel des #violencespolicières est donc encore plus élevé

    Souvent on entend que les armes non létales seraient une alternative douce aux armes à feu. Pourtant, les derniers chiffres confirment la tendance à la hausse des tirs à l’arme à feu. Pas d’effet de substitution, mais un effet d’amplification de la violence

    Ces derniers temps, on entend beaucoup parler de « décivilisation ». Si elle existe, ces chiffres montrent encore une fois qu’elle ne vient pas de la population . Les données disponibles (⬇️) attestent qu’elle se tient sage, contrairement à la police

    https://www.acatfrance.fr/rapport/lordre-a-quel-prix

  • Confine Serbia-Ungheria: aumenta la militarizzazione e la violenza della polizia

    Una sparatoria (probabilmente tra “trafficanti”) diviene il pretesto per un’ulteriore stretta repressiva

    La zona di confine tra la Serbia e l’Ungheria è da molti anni un luogo di sosta forzata e di transito delle persone migranti. E’ qui, tra la cittadina ungherese di #Röszke e quella serba di #Horgos, che nell’autunno del 2015 venne costruita da Orban la prima barriera “anti-rifugiati” che divenne in poco tempo uno dei simboli della politica dell’Unione europea, replicata poi in molteplici forme.

    Questo territorio al nord della Serbia rimane oggi uno dei punti più caldi delle rotte balcaniche settentrionali, essendo – al pari del confine tra Bosnia-Erzegovina e Croazia – uno snodo fondamentale per l’accesso all’Europa e quindi per le politiche di controllo e respingimento. Diversi report e costanti attività di monitoraggio hanno descritto nel dettaglio la violenza e la brutalità della polizia nei confronti di persone in movimento sia sul lato serbo che su quello ungherese.

    Nel rapporto trimestrale del 2023 riferito ai mesi di luglio, agosto e settembre 1, la Ong #KlikAktiv di Belgrado ha indicato le tendenze in atto. Il report è frutto di osservazioni durante le visite agli insediamenti informali ai confini esterni dell’UE con la Serbia e della raccolta di testimonianze e foto delle condizioni di vita, e fornisce anche informazioni sul contesto, compreso il quadro giuridico e le scelte politiche relative alla gestione della migrazione. In particolare, l’organizzazione punta l’attenzione sui respingimenti da e verso la Serbia, sulla violenza della polizia serba e sulla morte delle persone lungo il percorso. Una parte è dedicata anche alle sparatorie avvenute in quei mesi nell’area settentrionale del Paese e delle reti di passatori (smugglers) sospettate di esserne all’origine. Sono illustrati anche alcuni dati: la maggior parte delle persone incontrate dall’Ong proveniva da Siria e Afghanistan (94%); il punto di “ingresso” più comune in Serbia è dalla Bulgaria (con il 40% che a settembre è entrato solo attraverso la Macedonia settentrionale), mentre i tragitti più utilizzati per uscire dal Paese sono quelli verso la Bosnia-Erzegovina e l’Ungheria, con quest’ultima che ha anche il primato dei respingimenti. Klikaktiv ha, infine, continuato a rilevare un numero significativo di minori non accompagnati negli insediamenti informali presenti nella zona di confine, perfino ragazzini di età inferiore ai 14 anni provenienti soprattutto dalla Siria.

    Un episodio emblematico è quello raccontato da No Name Kitchen, che opera a Subotica supportando centinaia di persone che vivono fuori dai campi ufficiali negli edifici abbandonati.
    L’Ong tramite la pagina facebook ha denunciato un violento pushback nei confronti di quattro ragazzi marocchini. Racconta di aver incontrato il gruppo fuori dal campo di #Subotica la notte del 25 ottobre, dopo essere stati informati della gravità delle condizioni fisiche di uno dei giovani: «La polizia lo ha colpito molto violentemente causandogli una ferita aperta sulla fronte e una grave commozione cerebrale. Anche gli altri tre amici indossavano bende in testa. M. e i tre amici sono stati arrestati e brutalmente attaccati da tre poliziotti ungheresi, dopo aver attraversato il villaggio serbo di #Martonoš».

    «L’estrema violenza usata in questa repressione ci lascia senza parole – scrivono le attiviste -. Il gruppo ha segnalato di essere stato picchiato in mezzo alla foresta alle 23 da due poliziotti maschi. Usavano soprattutto manganelli per infliggere ferite. Mentre il gruppo stava soffrendo terribilmente, il terzo poliziotto ha iniziato a filmare la scena».

    No Name Kitchen spiega che il ragazzo per la quantità di botte ricevute in testa ha perso conoscenza ed è stato trasportato in un ospedale nella città ungherese di Szeged dove è stato rapidamente curato e rilasciato senza ulteriori visite mediche nonostante i sintomi indichino un potenziale trauma cerebrale. Insieme al gruppo di amici è stato illegalmente rispedito in Serbia senza che nessuno si preoccupasse delle sue condizioni di salute.

    Il pretesto “perfetto”

    E’ in questo contesto, nel quale la mobilità umana viene pesantemente repressa, che un nuovo scontro tra gruppi di migranti, probabilmente smugglers, ha portato alla morte di tre persone e al ferimento di un’altra. Le uniche notizie sono legate ad un comunicato diramato dal ministero dell’interno serbo, dove si legge che la polizia ha poi fatto irruzione in alcuni edifici abbandonati nell’area di Horgos, sequestrando armi e munizioni, trovando inoltre 79 persone di varie nazionalità che sono state trasferite nei campi di ricezione. L’operazione – che ha coinvolto le unità anti-terrorismo, la gendermerie e gli elicotteri della polizia – ha portato all’arresto di quattro cittadini afghani e due turchi sospettati di possesso illegale di armi ed esplosivi.

    La sparatoria e le morti sono diventate così il nuovo pretesto per portare un’ulteriore stretta e militarizzazione nell’intera zona di confine. Il presidente serbo Vucic ha infatti dichiarato che potrebbe far intervenire l’esercito per risolvere la situazione se le forze di polizia non si dimostreranno all’altezza, avvertendo così il suo stesso Ministro degli Interni Gasic: “[…] non è la prima volta che parlo con il Ministro degli Interni. O farete le cose che dovete fare, o direte che non siete in grado di farle. Mettetevi in guardia, farò intervenire l’esercito e faremo piazza pulita, li arresteremo e li metteremo dietro le sbarre”, ha detto intervenendo in televisione. Dopo la sparatoria è stato stipulato un accordo di cooperazione tra lo stesso Gasic e il Ministro degli Interni ungherese Pinter, in un incontro al valico di frontiera di Reska, dove hanno discusso della lotta “all’immigrazione irregolare” e dell’utilizzo di ufficiali ungheresi a supporto dei colleghi serbi. “Per combattere la criminalità organizzata e la migrazione irregolare, è stato proposto di istituire un gruppo di lavoro congiunto tra i membri dei ministeri degli Interni di Serbia e Ungheria”, riporta il comunicato congiunto 2.

    Le autorità hanno inoltre comunicato a tutte le organizzazioni umanitarie che sono attive nei campi profughi dislocati nella zona che temporaneamente non potranno lavorare al loro interno. Alcuni testimoni affermano che i successivi controlli di polizia hanno portato a fermi e diversi episodi di violenza.

    https://www.youtube.com/watch?v=l43XWHlj8uw&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.meltingpot.org%

    «Negli ultimi mesi le operazioni poliziesche sono diventate dei veri e propri “rastrellamenti” nelle strade, nelle stazioni e nei negozi della regione di Subotica e Sombor.»

    Gli ultimi aggiornamenti di No Name Kitchen sono del 2 novembre, quando le attiviste hanno visitato il campo ufficiale a Subotica e lo hanno trovato completamente vuoto. Il campo solitamente ospita più di 300 persone tra uomini, donne, ragazzi e famiglie, e la polizia l’ha sgomberato il 31 ottobre deportando con la forza le persone. «Ci è stato detto che durante lo sgombero ci sono stati pestaggi e violenza. Non sappiamo dove siano state portate queste persone, ma sembra che la chiusura di tutti i campi serbi faccia parte dell’ultima azione promossa dallo Stato per reprimere l’immigrazione irregolare al confine tra Serbia e Ungheria».

    «Recentemente – osserva l’organizzazione – è stato pubblicato un video che mostra le forze militari e di polizia che rastrellano ostelli e insediamenti informali alla ricerca di bande di smuggler e persone migranti. La clip di 7 minuti è accompagnata da musica che ricorda un videogioco di guerra. Le forze militari armate con il volto coperto vengono filmate mentre arrestano e sfrattano le persone dagli edifici».

    La caccia ai migranti è diventata la norma, di fatto impedendo la circolazione delle persone migranti anche all’interno del territorio serbo, attraverso una politica di deportazioni dal nord al sud, verso i campi al confine con la Macedonia e il Kosovo, rallentando il viaggio delle persone e alimentando così il circuito economico connesso al movimento dei migranti, che coinvolge – tra gli altri – gli apparati dello stato stessi e i network di smuggling. Dall’altra parte, le guerre intestine tra le organizzazioni di smuggling forniscono il pretesto perfetto per la repressione governativa, che però si abbatte in modo generalizzato sulle persone migranti senza scalfire le organizzazioni criminali che si propone di colpire. Dopo diverse inchieste giornalistiche firmate da Balkan Insight negli ultimi mesi, la credibilità delle autorità serbe è a pezzi agli occhi dell’opinione pubblica, perché è stata dimostrata più volte la complicità tra gli apparati di polizia e le bande di smuggler, svelando un sistema dove economicamente tutti ci guadagnano, sulla pelle delle persone migranti 3.

    https://www.meltingpot.org/2023/11/confine-serbia-ungheria-aumenta-la-militarizzazione-e-la-violenza-della-
    #Serbie #Hongrie #militarisation_des_frontières #frontières #migrations #asile #réfugiés #Balkans #route_des_Balkans #violence

    • The Third Quarterly Report in 2023

      The report covers trends observed in the field during our team’s visits to the informal settlements at the EU’s external borders with Serbia during July, August and September 2023, including testimonies and quotes of refugees, as well as the photos of the living conditions. The report also provides information on the context, including important legal framework and political trends regarding migration management in the country. We particularly shed light on push backs to and from Serbia, violence by the Serbian police and deaths of refugees on the route. We also wrote about recent shootings in the northern area of the country and smuggling networks suspected to be behind them.

      Some of the key trends identified in the reporting period were:

      - Majority of all Klikaktiv’s beneficiaries were from: Syria and Afghanistan (94% combined). Most common entry point: Bulgaria (with 40% who entered through North Macedonia in September) Most common attempted exit points: to Hungary and to Bosnia and Herzegovina.

      – Push backs from the EU Member States have continued in the reporting period - majority of which happened from Hungary to Serbia. Push backs by the Serbian police were reported by people on the move on the border with Bulgaria in joint operation with Austrian police, and on the border with North Macedonia together with German police.

      - Klikaktiv continued to note a significant number of unaccompanied boys in informal settlements in the border area, particularly those younger than 14 years old, mostly from Syria.

      - Although in smaller numbers compared to refugees from Syria and Afghanistan, we continued to meet Turkish citizens who came to Serbia legally and tried to continue to the EU irregularly.

      These trends are further elaborated on in the report, as well as other information and cases from the field.

      You can download the full report here: https://drive.google.com/file/d/1nQiQvm4atW8ltpjTFTTBGeMseJvzsEO_/view

      https://klikaktiv.org
      #rapport #push-backs #refoulements

  • #Taux_de_change : retour sur la politique israélienne des #otages

    Eyal Weizman, fondateur du collectif Forensic Architecture, revient sur la manière dont les #civils installés autour de #Gaza ont servi de « #mur_vivant » lors des massacres du 7 octobre perpétrés par le #Hamas, et retrace l’évolution de la politique israélienne à l’égard des otages.

    Au printemps 1956, huit ans après la Nakba (un terme arabe qui désigne « la catastrophe » ou « le désastre » que fut pour les Palestiniens la création d’Israël), un groupe de fedayins palestiniens franchit le fossé qui sépare Gaza de l’État d’Israël. D’un côté se trouvent 300 000 Palestiniens, dont 200 000 réfugiés expulsés de la région ; de l’autre, une poignée de nouvelles installations israéliennes. Les combattants palestiniens tentent de pénétrer dans le kibboutz de Nahal Oz, tuent Roi Rotberg, un agent de sécurité, et emportent son corps à Gaza, mais le rendent après l’intervention des Nations unies.

    #Moshe_Dayan, alors chef de l’état-major général d’Israël, se trouvait par hasard sur place pour un mariage et a demandé à prononcer, le soir suivant, l’éloge funèbre de Rotber. Parlant des hommes qui ont tué #Rotberg, il a demandé : « Pourquoi devrions-nous nous plaindre de la #haine qu’ils nous portent ? Pendant huit ans, ils se sont assis dans les camps de réfugiés de Gaza et ont vu de leurs yeux comment nous avons transformé les terres et les villages où eux et leurs ancêtres vivaient autrefois. » Cette reconnaissance de ce que les Palestiniens avaient perdu, les hommes politiques israéliens d’aujourd’hui ne peuvent plus se permettre de l’exprimer. Mais Dayan ne défendait pas le #droit_au_retour : il a terminé son discours en affirmant que les Israéliens devaient se préparer à une #guerre_permanente et amère, dans laquelle ce qu’Israël appelait les « #installations_frontalières » joueraient un rôle majeur.

    Au fil des ans, le #fossé s’est transformé en un système complexe de #fortifications - une #zone_tampon de 300 mètres, où plus de deux cents manifestants palestiniens ont été tués par balle en 2018 et 2019 et des milliers d’autres blessés, plusieurs couches de #clôtures en barbelés, des #murs en béton s’étendant sous terre, des mitrailleuses télécommandées - et des équipements de #surveillance, dont des tours de guet, des caméras de vidéosurveillance, des capteurs radar et des ballons espions. À cela s’ajoute une série de #bases_militaires, dont certaines situées à proximité ou à l’intérieur des installations civiles qui forment ce que l’on appelle l’#enveloppe_de_Gaza.

    Empêcher le retour des réfugiés

    Le #7_octobre_2023, lors d’une attaque coordonnée, le Hamas a frappé tous les éléments de ce système interconnecté. #Nahal_Oz, l’installation la plus proche de la clôture, a été l’un des points névralgiques de l’attaque. Le terme « #Nahal » fait référence à l’unité militaire qui a créé les installations frontalières. Les installations du Nahal ont débuté comme des avant-postes militaires et sont devenues des villages civils, principalement de type #kibboutz. Mais la transformation n’est jamais achevée et certains résidents sont censés se comporter en défenseurs quand la communauté est attaquée.

    La « #terre_des_absents » a été la #tabula_rasa sur laquelle les planificateurs israéliens ont dessiné le projet des colons sionistes après les expulsions de 1948. Son architecte en chef était #Arieh_Sharon, diplômé du Bauhaus, qui a étudié avec Walter Gropius et Hannes Meyer avant de s’installer en Palestine en 1931, où il a construit des lotissements, des coopératives de travailleurs, des hôpitaux et des cinémas. Lors de la création de l’État d’Israël, David Ben Gourion l’a nommé à la tête du département de planification du gouvernement. Dans The Object of Zionism (2018), l’historien de l’architecture Zvi Efrat explique que, bien que le plan directeur de Sharon soit fondé sur les principes les plus récents du design moderniste, il avait plusieurs autres objectifs : fournir des logements aux vagues d’immigrants arrivés après la Seconde Guerre mondiale, déplacer les populations juives du centre vers la périphérie, sécuriser la frontière et occuper le territoire afin de rendre plus difficile le retour des réfugiés.

    Dans les années 1950 et 1960, le #plan_directeur de Sharon et de ses successeurs a conduit à la construction, dans les « #zones_frontalières », définies à l’époque comme représentant environ 40 % du pays, de centres régionaux ou « #villes_de_développement » qui desservaient une constellation d’#implantations_agraires. Ces villes de développement devaient accueillir les immigrants juifs d’Afrique du Nord – les Juifs arabes – qui allaient être prolétarisés et devenir des ouvriers d’usine. Les implantations agraires de type kibboutz et #moshav étaient destinées aux pionniers du #mouvement_ouvrier, principalement d’Europe de l’Est. Les #terres appartenant aux villages palestiniens de #Dayr_Sunayd, #Simsim, #Najd, #Huj, #Al_Huhrraqa, #Al_Zurai’y, #Abu_Sitta, #Wuhaidat, ainsi qu’aux tribus bédouines #Tarabin et #Hanajre, sont occupées par les villes de développement #Sderot et #Ofakim et les kibboutzim de #Re’im, #Mefalsim, #Kissufim et #Erez. Toutes ces installations ont été visées le 7 octobre.

    La première #clôture

    À la suite de l’#occupation_israélienne de 1967, le gouvernement a établi des installations entre les principaux centres de population palestinienne à Gaza même, dont la plus grande était #Gush_Katif, près de Rafah, à la frontière égyptienne ; au total, les #colonies israéliennes couvraient 20 % du territoire de Gaza. Au début des années 1980, la région de Gaza et ses environs a également accueilli de nombreux Israéliens évacués du Sinaï après l’accord de paix avec l’Égypte.

    La première clôture autour du territoire a été construite entre 1994 et 1996, période considérée comme l’apogée du « #processus_de_paix ». Gaza était désormais isolée du reste du monde. Lorsque, en réponse à la résistance palestinienne, les colonies israéliennes de Gaza ont été démantelées en 2005, certaines des personnes évacuées ont choisi de s’installer près des frontières de Gaza. Un deuxième système de clôture, plus évolué, a été achevé peu après. En 2007, un an après la prise de pouvoir du Hamas à Gaza, Israël a entamé un #siège à grande échelle, contrôlant et limitant les flux entrants de produits vitaux - #nourriture, #médicaments, #électricité et #essence.

    L’#armée_israélienne a fixé les privations à un niveau tel que la vie à Gaza s’en trouve presque complètement paralysée. Associé à une série de campagnes de #bombardements qui, selon les Nations unies, ont causé la mort de 3 500 Palestiniens entre 2008 et septembre 2023, le siège a provoqué une #catastrophe_humanitaire d’une ampleur sans précédent : les institutions civiles, les hôpitaux, les systèmes d’approvisionnement en eau et d’hygiène sont à peine capables de fonctionner et l’électricité n’est disponible que pendant la moitié de la journée environ. Près de la moitié de la population de Gaza est au #chômage et plus de 80 % dépend de l’#aide pour satisfaire ses besoins essentiels.

    L’enveloppe de Gaza

    Le gouvernement israélien offre de généreux #avantages_fiscaux (une réduction de 20 % de l’impôt sur le revenu par exemple) aux habitants des installations autour de Gaza, dont beaucoup longent une route parallèle à la ligne de démarcation, à quelques kilomètres de celle-ci. L’enveloppe de Gaza comprend 58 installations situées à moins de 10 km de la frontière et comptant 70 000 habitants. Au cours des dix-sept années depuis la prise de pouvoir par le Hamas, malgré les tirs sporadiques de roquettes et de mortiers palestiniens et les bombardements israéliens sur le territoire situé à quelques kilomètres de là, les installations n’ont cessé d’augmenter. La hausse des prix de l’immobilier dans la région de Tel-Aviv et les collines ouvertes de la région (que les agents immobiliers appellent la « Toscane du nord du Néguev ») a entraîné un afflux de la classe moyenne.

    De l’autre côté de la barrière, les conditions se sont détériorées de manière inversement proportionnelle à la prospérité croissante de la région. Les installations sont un élément central du système d’#enfermement imposé à Gaza, mais leurs habitants tendent à différer des colons religieux de Cisjordanie. Démontrant l’aveuglement partiel de la gauche israélienne, certaines personnes installées dans le Néguev sont impliquées dans le #mouvement_pacifiste.

    Le 7 octobre, les combattants du Hamas ont forcé les éléments interconnectés du réseau de siège. Des tireurs d’élite ont tiré sur les caméras qui surplombent la zone interdite et ont lancé des grenades sur les #tours_de_communication. Des barrages de roquettes ont saturé l’#espace_radar. Plutôt que de creuser des tunnels sous les clôtures, les combattants sont venus par le sol. Les observateurs israéliens ne les ont pas vus ou n’ont pas pu communiquer assez rapidement ce qu’ils ont vu.

    Les combattants ont fait sauter ou ouvert quelques douzaines de brèches dans la clôture, élargies par les bulldozers palestiniens. Certains combattants du Hamas ont utilisé des parapentes pour franchir la frontière. Plus d’un millier d’entre eux ont pris d’assaut les bases militaires. L’armée israélienne, aveuglée et muette, n’a pas de vision claire du champ de bataille et les détachements mettent des heures à arriver. Des images incroyables sont apparues sur Internet : des adolescents palestiniens ont suivi les combattants à vélo ou à cheval, sur une terre dont ils avaient peut-être entendu parler par leurs grands-parents, maintenant transformée au point d’en être méconnaissable.

    Les #massacres du 7 octobre

    Les événements auraient pu s’arrêter là, mais ce ne fut pas le cas. Après les bases, ce furent les installations, les horribles massacres maison par maison, et le meurtre d’adolescents lors d’une fête. Des familles ont été brûlées ou abattues dans leurs maisons, des civils incluant des enfants et des personnes âgées ont été prises en otage. Au total, les combattants ont tué environ 1 300 civils et soldats. Plus de 200 personnes ont été capturées et emmenées à Gaza. Jusqu’alors, rien, dans la #violence ni la #répression, n’avait rendu de tels actes inévitables ou justifiés.

    Israël a mis des décennies à brouiller la ligne de démarcation entre les fonctions civiles et militaires des installations, mais cette ligne a aujourd’hui été brouillée d’une manière jamais envisagée par le gouvernement israélien. Les habitants civils cooptés pour faire partie du mur vivant de l’enveloppe de Gaza ont subi le pire des deux mondes. Ils ne pouvaient pas se défendre comme des soldats et n’étaient pas protégés comme des civils.

    Les images des installations dévastées ont permis à l’armée israélienne d’obtenir carte blanche de la part de la communauté internationale et de lever les restrictions qui avaient pu être imposées précédemment. Les hommes politiques israéliens ont appelé à la #vengeance, avec un langage explicite et annihilationiste. Les commentateurs ont déclaré que Gaza devrait être « rayée de la surface de la Terre » et que « l’heure de la Nakba 2 a sonné ». #Revital_Gottlieb, membre du Likoud à la Knesset, a tweeté : « Abattez les bâtiments ! Bombardez sans distinction ! Assez de cette impuissance. Vous le pouvez. Il y a une légitimité mondiale ! Détruisez Gaza. Sans pitié ! »

    L’échange de prisonniers

    Les otages civils des installations dont Israël a fait un « mur vivant » sont devenus pour le Hamas un #bouclier_humain et des atouts pour la #négociation. Quelle que soit la façon dont le #conflit se termine, que le Hamas soit ou non au pouvoir (et je parie sur la première solution), Israël ne pourra pas éviter de négocier l’#échange_de_prisonniers. Pour le Hamas, il s’agit des 6 000 Palestiniens actuellement dans les prisons israéliennes, dont beaucoup sont en #détention_administrative sans procès. La prise en otages d’Israéliens a occupé une place centrale dans la #lutte_armée palestinienne tout au long des 75 années de conflit. Avec des otages, l’#OLP et d’autres groupes cherchaient à contraindre Israël à reconnaître implicitement l’existence d’une nation palestinienne.

    Dans les années 1960, la position israélienne consistait à nier l’existence d’un peuple palestinien, et donc qu’il était logiquement impossible de reconnaître l’OLP comme son représentant légitime. Ce déni signifiait également qu’il n’y avait pas à reconnaître les combattants palestiniens comme des combattants légitimes au regard du droit international, et donc leur accorder le statut de #prisonniers_de_guerre conformément aux conventions de Genève. Les Palestiniens capturés étaient maintenus dans un #vide_juridique, un peu comme les « combattants illégaux » de l’après 11-septembre.

    En juillet 1968, le Front populaire de libération de la Palestine (FPLP) a détourné un vol d’El-Al et l’a fait atterrir en Algérie, inaugurant une série de détournements, dont l’objectif explicite était la libération de prisonniers palestiniens. L’incident d’Algérie a conduit à l’échange de 22 otages israéliens contre 16 prisonniers palestiniens, bien que le gouvernement israélien ait nié un tel accord. Seize contre 22 : ce taux d’échange n’allait pas durer longtemps. En septembre 1982, après l’invasion du Liban par Israël, le Commandement général du FPLP d’Ahmed Jibril a capturé trois soldats de l’armée israélienne ; trois ans plus tard, dans le cadre de ce qui a été appelé l’accord Jibril, Israël et le FPLP-CG sont finalement parvenus à un accord d’échange de prisonniers : trois soldats contre 1 150 prisonniers palestiniens. Dans l’accord de 2011 pour la libération de Gilad Shalit, capturé par le Hamas en 2006, le taux d’échange était encore plus favorable aux Palestiniens : 1 027 prisonniers pour un seul soldat israélien.
    Directive Hannibal

    Anticipant de devoir conclure de nombreux accords de ce type, Israël s’est mis à arrêter arbitrairement davantage de Palestiniens, y compris des mineurs, afin d’augmenter ses atouts en vue d’un échange futur. Il a également conservé les corps de combattants palestiniens, qui devaient être restitués dans le cadre d’un éventuel échange. Tout cela renforce l’idée que la vie d’un colonisateur vaut mille fois plus que la vie d’un colonisé, calcul qui évoque inévitablement l’histoire du #colonialisme et du commerce d’êtres humains. Mais ici, le taux de change est mobilisé par les Palestiniens pour inverser la profonde asymétrie coloniale structurelle.

    Tous les États ne traitent pas de la même manière la capture de leurs soldats et de leurs citoyens. Les Européens et les Japonais procèdent généralement à des échanges secrets de prisonniers ou négocient des rançons. Les États-Unis et le Royaume-Uni affirment publiquement qu’ils ne négocient pas et n’accèdent pas aux demandes des ravisseurs et, bien qu’ils n’aient pas toujours respecté cette règle à la lettre, ils ont privilégié l’abstention et le silence lorsqu’une opération de sauvetage semblait impossible.

    Cette attitude est considérée comme un « moindre mal » et fait partie de ce que les théoriciens des jeux militaires appellent le « jeu répété » : chaque action est évaluée en fonction de ses éventuelles conséquences à long terme, les avantages d’obtenir la libération d’un prisonnier étant mis en balance avec le risque que l’échange aboutisse à l’avenir à la capture d’autres soldats ou civils.

    Lorsqu’un Israélien est capturé, sa famille, ses amis et ses partisans descendent dans la rue pour faire campagne en faveur de sa libération. Le plus souvent, le gouvernement y consent et conclut un accord. L’armée israélienne déconseille généralement au gouvernement de conclure des accords d’échange, soulignant le risque pour la sécurité que représentent les captifs libérés, en particulier les commandants de haut rang, et la probabilité qu’ils encouragent les combattants palestiniens à prendre davantage d’otages. Yahya Sinwar, qui est aujourd’hui le chef du Hamas, a été libéré dans le cadre de l’#accord_Shalit. Une importante campagne civile contre ces échanges a été menée par le mouvement religieux de colons #Gush_Emunim, qui y voyait une manifestation de la fragilité de la société « laïque et libérale » d’Israël.

    En 1986, à la suite de l’#accord_Jibril, l’armée israélienne a publié la directive controversée Hannibal, un ordre opérationnel secret conçu pour être invoqué lors de la capture d’un soldat israélien par une force armée irrégulière. L’armée a nié cette interprétation, mais les soldats israéliens l’ont comprise comme une autorisation de tuer un camarade avant qu’il ne soit fait prisonnier. En 1999, #Shaul_Mofaz, alors chef de l’état-major général, a expliqué cette politique en ces termes : « Avec toute la douleur que cela implique, un soldat enlevé, contrairement à un soldat tué, est un problème national. »

    Bien que l’armée ait affirmé que le nom de la directive avait été choisi au hasard par un programme informatique, il est tout à fait approprié. Le général carthaginois Hannibal Barca s’est suicidé en 181 avant J.-C. pour ne pas tomber aux mains des Romains. Ceux-ci avaient fait preuve d’une détermination similaire trente ans plus tôt : lorsque Hannibal tenta d’obtenir une rançon pour les soldats qu’il avait capturés lors de sa victoire à Cannes, le Sénat, après un débat houleux, refusa et les prisonniers furent exécutés.

    Le 1er août 2014, lors de l’offensive sur Gaza connue sous le nom d’« #opération_Bordure_protectrice », des combattants palestiniens ont capturé un soldat de Tsahal près de Rafah, et la #directive_Hannibal est entrée en vigueur. L’armée de l’air a bombardé le système de tunnels où avait été emmené le soldat, tuant 135 civils palestiniens, dont des familles entières. L’armée a depuis annulé la directive. Toutefois, la plupart des bombardements actuels vise les #tunnels où se trouvent les postes de commandement du Hamas et les otages : le gouvernement semble ainsi, par ces bombardements aveugles, non seulement menacer les Gazaouis d’une #destruction sans précédent, mais aussi revenir au principe de préférer des captifs morts à un accord. #Bezalel_Smotrich, ministre israélien des finances, a appelé à frapper le Hamas « sans pitié, sans prendre sérieusement en considération la question des captifs ». #Gilad_Erdan, ambassadeur d’Israël auprès des Nations unies, a déclaré que les otages « ne nous empêcheraient pas de faire ce que nous devons faire ». Mais dans cette guerre, le sort des #civils de Gaza et des Israéliens capturés est étroitement lié, tout comme celui des deux peuples.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/041123/taux-de-change-retour-sur-la-politique-israelienne-des-otages
    #Israël #Palestine #Eyal_Weizman #à_lire

  • Des #fouilles_corporelles « sexualisées » frappent les migrants aux frontières de l’Europe

    Déshabillés, humiliés, maltraités. Des femmes et des hommes venus demander asile racontent avoir subi des fouilles corporelles et génitales brutales, effectuées par des personnes censées garder les frontières de l’UE en Grèce.

    Corfou (Grèce).– Clémentine Ngono* n’a jamais voulu venir en Europe. Cependant, des expériences répétées de violence et d’agression l’ont forcée à fuir. D’abord son pays d’origine, le Cameroun, puis la Turquie. Aux premières heures du 15 septembre 2021, elle est montée à bord d’un canot pneumatique gris, en compagnie de son mari, de son fils de six mois et de 33 autres personnes. Qui savaient que le voyage serait dangereux. Conscientes que les autorités grecques pourraient les refouler, elles ont tout de même tenté leur chance.

    Juste après le lever du soleil, le groupe a atteint l’île grecque de Samos. Très vite, un navire des gardes-côtes les a arrêtées. Un groupe d’hommes encagoulés les a embarquées. Une fois sur le bateau de la patrouille grecque, les personnes ont été mises à genoux puis, une par une, ont reçu l’ordre de se lever et de se déshabiller devant tout le monde. Celles et ceux qui osaient résister ont été menacé·es et battu·es, leurs vêtements arrachés et déchirés. Une fois toutes les personnes nues, l’un des hommes masqués a commencé la fouille au corps, n’hésitant pas à toucher les seins et les parties génitales des femmes.

    « Il nous fouillait partout », se souvient Clémentine Ngono, horrifiée, en pressant deux doigts l’un contre l’autre et en les pointant sur son abdomen. « C’est ainsi qu’il a mis sa main dans mon vagin », dit-elle en faisant une pause avant d’ajouter : « Et dans mon anus. » Les hommes, qui ont utilisé les mêmes gants en plastique pour fouiller tout le groupe, ont pris son téléphone et les 500 euros qu’elle avait sur elle.

    Plus tard, le groupe a été abandonné sur des radeaux de sauvetage en Méditerranée. Aujourd’hui encore, Clémentine Ngono ne peut oublier la honte qu’elle a ressentie. « C’était une telle humiliation », dit-elle lors d’un entretien en juillet 2023 à Corfou, où elle travaille pendant l’été comme femme de chambre. Clémentine Ngono a intenté une action en justice, déclarant que la fouille corporelle et génitale forcée était « extrêmement invasive et offensante ». Son cas pourrait toutefois s’inscrire dans une tendance plus large.

    Début 2023, le Comité contre la torture (CPT) du Conseil de l’Europe a critiqué les nombreux cas de mauvais traitements lors des « refoulements » aux frontières de l’Union européenne (UE). Selon son rapport, les autorités frontalières obligent parfois les demandeurs et demandeuses d’asile à repasser la frontière « entièrement nus ». Le Border Violence Monitoring Network, une coalition d’organisations non gouvernementales, fait état de pratiques similaires.

    De même, dans un rapport publié jeudi 2 novembre, Médecins sans frontières (MSF) a recueilli plusieurs témoignages de réfugié·es racontant des fouilles corporelles et génitales sexualisées par de supposés gardes-frontières. Ces derniers obligeraient les demandeurs et demandeuses d’asile à se déshabiller avant de procéder à des fouilles vaginales et anales en public, parfois sans changer de gants. Les fouilles des femmes seraient effectuées par des hommes, comme dans le cas de Clémentine Ngono.
    « Le but était de nous humilier »

    Mediapart s’est entretenu avec plusieurs victimes, des avocats, des ONG, et a examiné des documents internes de l’agence européenne de gardes-côtes Frontex. L’image qui en ressort est celle d’une pratique normalisée : celle de mises à nu et de fouilles génitales forcées lors des refoulements par les autorités frontalières grecques. Ces pratiques semblent avoir un objectif central : dissuader les personnes de réessayer tout en volant leurs objets de valeur et leur argent.

    Meral Şimşek jette sa cigarette à moitié consumée et acquiesce. Cela fait un an que la poétesse kurde est arrivée à Berlin (Allemagne). Meral Şimşek, critique véhémente du régime d’Erdoğan, a été confrontée toute sa vie à la violence et à la persécution des autorités turques. En 2021, les choses ont empiré, elle a alors décidé de quitter son pays.

    Le 29 juin 2021, elle a traversé le fleuve Évros en compagnie d’une femme syrienne, Dicle. « Nous sommes arrivées sur le sol grec », dit-elle dans une vidéo qu’elle a enregistrée au crépuscule. Après plusieurs heures, les deux femmes ont atteint Feres, une petite ville frontalière grecque. Meral Şimşek voulait demander l’asile, mais la police grecque les a interpellées à l’entrée de la ville.

    Après les avoir détenues et battues, les policiers ont emmené les deux femmes dans la rue. Là, ils ont forcé Meral Şimşek à se déshabiller. Ensuite, une policière a fouillé ses parties génitales, en pleine rue. « Ils ont regardé directement dans mon vagin », raconte-t-elle. Pendant ce temps, les autres policiers regardaient. Şimşek se souvient que certains ont fait des commentaires en grec en regardant son corps. Ils ont ensuite fouillé Dicle avec les mêmes gants en plastique. Puis les deux femmes ont été livrées à un groupe d’hommes masqués et reconduites de force en Turquie. « Le but était de nous humilier », dit-elle.

    Du côté des autorités grecques, ni le ministère de l’intérieur ni le ministère des migrations et de l’asile n’ont commenté ces allégations. Les gardes-côtes grecs ont déclaré que « les pratiques opérationnelles des autorités grecques n’incluent pas de telles méthodes », car elles seraient contraires à l’article 257 du Code de procédure pénale grec.

    Interrogée sur les allégations de fouilles corporelles et génitales forcées, Frontex a déclaré à Mediapart qu’elle « avait connaissance d’une poignée de cas de ce type en Grèce et en Bulgarie ».
    Des témoignages connus de Frontex

    Mediapart a pu avoir accès à plusieurs rapports internes du responsable des droits fondamentaux de Frontex, qui contiennent des allégations et des descriptions de mises à nu forcées, principalement à la frontière de l’Évros. Dans un « rapport d’incident grave » (SIR) portant le numéro 10142/2018, daté du 18 novembre 2018, Frontex indique qu’un groupe de réfugiés aurait été repoussé par les autorités grecques après avoir été agressé physiquement et « obligé à se déshabiller ».

    Le rapport SIR 13400/2022, qui concerne une série de refoulements par les autorités grecques en juillet et août 2022, rapporte que des migrants ont été « forcés de repasser par la rivière après que leurs effets personnels leur ont été confisqués, après avoir été déshabillés et battus ».

    Le rapport SIR 15314/2022 du 30 mai 2023 décrit plusieurs refoulements sur le fleuve Évros. Selon ce rapport, un migrant a été « soumis à des violences physiques, mis à nu de force, ses biens ont été volés ou détruits, avant qu’il reçoive l’ordre de retourner irrégulièrement en Turquie » par les autorités grecques.

    Frontex considère elle-même que les déclarations contenues dans le rapport sont « relativement crédibles ». Si les témoignages sont confirmés, l’agence européenne affirme que cela constituerait « probablement une expulsion collective interdite et un traitement inhumain et dégradant ».

    À Samos, l’avocate Ioanna Begiazi ouvre la porte de son cabinet, dans la vieille ville de Vathi. Elle se souvient du cas de Clémentine Ngono. « Elle est venue nous voir parce qu’elle voulait agir », dit-elle. Et le cas de Clémentine Ngono n’est pas isolé.

    Ioanna Begiazi représente régulièrement des victimes de refoulements illégaux. « Les femmes, en particulier, nous disent que les fouilles génitales sont très fréquentes », explique-t-elle. Mais les hommes sont également concernés, ajoute-t-elle. « Il s’agit d’une forme d’humiliation et de dissuasion », explique Ioanna Begiazi. Une humiliation qualifiée par l’avocate de « sexualisée », et qui aurait pour but de décourager les migrant·es de franchir à nouveau la frontière.

    Ioanna Begiazi explique que les fouilles à nu ne sont en soi pas interdites en Grèce. Mais il faudrait qu’il y ait une raison sérieuse pour une telle intervention, comme des preuves concrètes qu’un acte criminel a été commis. Et même si c’était le cas, il existe de nombreuses réglementations. Les fouilles corporelles doivent notamment être conformes aux règles d’hygiène, les agents qui les pratiquent doivent donc changer de gants pour chaque personne qu’ils fouillent.

    Elles doivent aussi être effectuées dans le respect des droits personnels et de la dignité humaine de l’individu. De plus, les fouilles sont censées se dérouler dans un environnement protégé, en aucun cas devant d’autres personnes, afin de garantir le respect de la vie privée. Enfin, elles doivent être réalisées par des personnes du même sexe sans usage ou menace de violence physique.

    La Cour européenne des droits de l’homme (CEDH) a statué en 2001 que les fouilles corporelles effectuées par les forces de l’ordre peuvent être justifiées dans certains cas. Par exemple, si elles permettent d’empêcher des infractions pénales. Cependant, les déshabillages forcés et les fouilles génitales, qui laissent aux victimes « des sentiments d’angoisse et d’infériorité propres à les humilier et à les avilir », violent l’article 3 de la Convention européenne des droits de l’homme.

    Les témoignages des demandeurs et demandeuses d’asile qui dénoncent des mises à nu et des fouilles génitales forcées conduisent les expert·es des droits humains à penser qu’il pourrait s’agir d’une violation de la Convention européenne des droits de l’homme.

    « C’est l’un des moyens de faire passer le message et de les dissuader », explique l’avocat spécialiste des droits humains Nikola Kovačević. Expert dans le domaine de la migration, le Serbe rapporte avoir également connaissance de cas de déshabillage forcé et de fouilles génitales par les autorités frontalières. Selon lui, elles sont destinées à envoyer un message : « Si vous revenez, cela se reproduira. »

    Kovačević estime que les fouilles corporelles et génitales sexualisées violent l’interdiction de la « torture, des traitements dégradants ou inhumains » ancrée dans la Convention de l’UE sur les droits de l’homme et la Convention des Nations unies contre la torture.

    « Les traitements inhumains et dégradants sont dirigés contre la dignité humaine, explique-t-il. Vous privez une personne de sa dignité, vous la forcez à s’agenouiller, vous lui crachez dessus, vous la déshabillez, vous créez une situation dans laquelle cette personne se sent inférieure. »

    Selon Nikola Kovačević, la frontière entre la torture et les traitements inhumains ou dégradants est parfois floue. Cependant, ces deux délits ont une caractéristique centrale en commun : juridiquement, ils ne permettent aucune exception. « Il n’existe aucune circonstance imaginable qui justifie d’infliger de la douleur et de la souffrance à une personne sans défense », explique l’avocat.

    À Corfou, Clémentine Ngono se lève, essuie la sueur de son front et regarde sa montre. Elle dit être épuisée. Fatiguée par les longues heures de travail à l’hôtel, les factures impayées, le sentiment de culpabilité, par la séparation physique avec son mari, dont la demande d’asile a été rejetée.

    Clémentine Ngono dit qu’elle n’aime pas vraiment parler de ce qu’elle a vécu. Cependant, il est important pour elle que des choses similaires n’arrivent pas à d’autres. « Nous avons besoin de gens qui ont le courage de parler », dit-elle. Sinon, rien ne changera. Pour elle, c’est pénible de parler de ce qui s’est passé mais, dit-elle, « si je peux aider les autres, je le ferai ».

    https://www.mediapart.fr/journal/international/031123/des-fouilles-corporelles-sexualisees-frappent-les-migrants-aux-frontieres-

    #migrations #asile #réfugiés #violence #Grèce #humiliation #mauvais_traitements #organes_génitaux #nudité #fouille_au_corps #honte #fouilles_génitales #gardes-frontières #refoulements #push-backs #vol #Evros #Samos #dissuasion #femmes #humiliation_sexualisée #dignité #déshabillage #dignité_humaine

  • #Ta-Nehisi_Coates Speaks Out Against Israel’s “Segregationist Apartheid Regime” After West Bank Visit

    As pressure builds for a ceasefire after 27 days of Israel’s bombardment of Gaza, author and journalist Ta-Nehisi Coates joins us in a broadcast exclusive interview to discuss his journey to Palestine and Israel and learning about the connection between the struggle of African Americans and Palestinians. “The most shocking thing about my time over there was how uncomplicated it actually is,” says Coates, who calls segregation in Palestine and Israel “evil.” “There’s no way for me, as an African American, to come back and stand before you, to witness segregation and not say anything about it.” Coates acknowledges the suppression of those advocating for Palestinian rights but says this is not new for Black writers and journalists. “I have to measure my fear against the misery that I saw.”

    https://www.democracynow.org/2023/11/2/ta_nehisi_coates

    extraits avec sous-titres en français ici :

    "J’ai passé 10 jours en Palestine, dans les #territoires_occupés et en Israël proprement dit. (...) Je pense que ce qui m’a le plus choqué, c’est que dans tous les éditoriaux ou reportages que j’ai lus sur Israël et sur le conflit avec les Palestiniens, il y a un mot qui revient tout le temps et c’est celui de « #complexité ». (...) Je m’attendais à une situation dans laquelle il était difficile de discerner le bien et le mal, difficile de comprendre la dimension morale, difficile de comprendre le conflit. Et ce qui était peut-être le plus choquant, c’est que j’ai immédiatement compris ce qui se passe là-bas. Le meilleur exemple qui me vient à l’esprit est probablement le deuxième jour, lorsque nous sommes allés à Hébron et que la réalité de l’#occupation est devenue évidente. Nous sortions de Jérusalem-Est en voiture. J’étais avec PalFest, et nous sortions de Jérusalem-Est pour aller en Cisjordanie. Et vous pouviez voir les colonies, ils nous les montraient du doigt. Je me suis soudain rendu compte que je me trouvais dans une région du monde où certaines personnes pouvaient voter et d’autres non. Et cela m’était évidemment très familier. Je suis arrivé à Hébron, notre groupe d’écrivains est sorti, et un guide palestinien nous a fait visiter la ville. Nous sommes arrivés dans une rue et il nous a dit : ’Je ne peux pas marcher dans cette rue. Si vous voulez continuer, vous devez continuer sans moi’. (...) Hébron est très pauvre. (...) Son marché était fermé, mais il y a quelques vendeurs que je voulais soutenir. Je marchais pour atteindre le vendeur, et j’ai été arrêté à un #checkpoint. Il y a des checkpoints dans toute la ville, dans toute la Cisjordanie. Votre #liberté_de_circulation est totalement restreinte, et la liberté de circulation des Palestiniens est totalement restreinte. Et comme je me dirigeais vers le checkpoint, un garde israélien en est sorti, probablement de l’âge de mon fils. Et il m’a dit : ’Quelle est ta #religion, l’ami ?’ Et j’ai répondu : ’Je ne suis pas vraiment religieux’. (...) Et il m’a apparu clairement que si je ne professais pas ma religion, et la bonne religion, je n’allais pas être autorisé à passer. Il m’a dit : ’D’accord, quelle était la religion de tes parents ?’ J’ai répondu qu’ils n’étaient pas très religieux non plus. Il a dit : ’Quelle était la religion de tes grand-parents ?’. J’ai répondu : ’Ma grande-mère était chrétienne’. Et il m’a laissé passer. J’ai alors compris très clairement ce qui se passait là-bas. Et je dois dire que cela m’était assez familier. J’étais dans un territoire où votre #mobilité était entravée, où votre droit de vote est entravé, où votre droit à l’eau est entravé, où votre droit au logement est entravé, et tout cela sur la base de l’#appartenance_ethnique. Et cela m’a semblé extrêmement familier. Et donc, ce qui m’a plus choqué pendant mon séjour là-bas, c’est de voir à quel point, en fait, les choses ne sont pas compliquées. Je ne dis pas que les détails ne sont pas compliqués, l’histoire est toujours compliquée. Les événements du présents sont toujours compliqués, mais la façon dont les médias occidentaux en rendent compte donnent l’impression qu’il faut un doctorat en études moyen-orientales pour comprendre la #moralité élémentaires du maintien d’un peuple dans une situation dans laquelle ne dispose pas de #droits_fondamentaux, y compris le droit que nous chérissons plus, le droit de suffrage, le droit de vote. Et déclarer ensuite que cet Etat est une #démocratie. (...) C’est en effet assez familier pour ceux qui d’entre nous connaissent l’histoire afro-américaine.
    (...)
    Martin Luther King a passé sa vie à lutter contre la ségrégation. Israël est une société marquée par la ségrégation. Les territoires occupés sont marqués par la ségrégation. (...) Il y a des panneaux pour indiquer où certaines personnes peuvent aller. Il y a des #plaques_d'immatriculation différentes qui interdisent à certaines personnes d’aller à certains endroits. Les autorités vous diront qu’il s’agit d’une #mesure_de_sécurité. Mais si vous revenez à l’#histoire de #Jim_Crow, dans ce pays, elles vous diront exactement la même chose. Les gens ont toujours de bonnes raisons, en dehors de ’je déteste’ et ’je ne t’aime pas’ pour justifier leur droit d’imposer un #régime_oppressif à d’autres personnes. (...)
    J’ai grandi dans une époque et dans un endroit où je ne comprenais pas vraiment l’éthique de la #non-violence. Et par éthique, j’entends que la #violence en elle-même est corruptrice, qu’elle corrompt l’âme. Et je n’avais pas vraiment compris cela. Si je suis vraiment honnête avec vous, autant je voyais ma relation avec le peuple palestinien, et autant la nature de cette relation était claire, il était également clair qu’il y avait une sorte de relation avec le peuple israélien, et ce n’était pas une relation que j’appréciais particulièrement. Parce que je comprenais la #rage qui naît d’un passé d’#oppression. Je comprenais la #colère. Je comprenais le sentiment d’#humiliation que l’on ressent lorsque des personnes vous soumettent à une oppression multiple, à un #génocide, et que les gens détournent le regard. Je suis la descendance de 250 ans d’#esclavage, je viens d’un peuple où la violence sexuelle et le viol sont inscrits dans nos os et dans notre ADN. Et je comprends comment, lorsque vous avez l’impression que le monde vous a tourné le dos, vous pouvez alors tourner le dos à l’éthique du monde. Mais j’ai également compris à quel point cela peut être corrupteur. J’écoutais hier soir (...) être interviewé et le journaliste lui a demandé combien d’enfants, combien de personnes devaient être tués pour justifier cette opération. Est-ce qu’il y a un seuil au nombre de personnes tuées au-delà duquel on se dit : ’C’est trop, ça n’est pas possible, ça ne justifie pas’. Et ce membre du congrès ne pouvait pas donner de chiffre. Et je me suis dit que cet homme avait été corrompu. Cet homme s’est perdu. Il s’est perdu dans l’humiliation. Il s’est perdu dans la #vengeance. Il s’est perdu dans la violence. J’entends toujours ce terme répété encore et encore, le ’#droit_de_se_défendre'. Et le #droit_à_la_dignité ? Et le droit à la #moralité ? Et le droit d’être capable de dormir la nuit ? Parce que je sais, c’est que si j’étais complice, et je le suis, de #bombardements d’enfants, de bombardements de camps de réfugiés, peu importe qui s’y trouve, j’aurais du mal à dormir la nuit. Et je m’inquiète pour l’âme des gens qui peuvent faire cela et qui peuvent dormir la nuit.

    https://twitter.com/caissesdegreve/status/1720224934964699412

    #à_écouter #à_lire #Israël #Palestine #apartheid #Cisjordanie #visite #ségrégation #apartheid #droit_de_vote

  • Impunité

    Impunité. Hélène Devynck, journaliste et scénariste, est une des victimes ayant dénoncé Patrick Poivre d’Arvor, ex-présentateur du journal de 20h de TF1. La première à avoir soutenu publiquement Florence Porcel, première accusatrice de l’animateur, elle a écrit ce livre indispensable après le classement sans suite prononcé par la justice.

    Invitée de notre onzième « Lundi de Prostitution et Société » le 9 octobre, Hélène Devynck a donné une terrifiante vue d’ensemble de l’impunité des agresseurs. Ecrire son livre était pour elle un moyen de faire entendre la voix des victimes, et de construire, dans la sororité, un autre récit.

    « C’était comme se jeter du haut d’une falaise », dit-elle en expliquant ce que représente le fait de prendre la parole publiquement. Ce saut était pourtant indispensable, après presque 30 ans d’enfouissement de ce traumatisme dont elle ne pensait pas pouvoir parler un jour.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/11/02/impunite

    #féminisme #violence

  • Thousands of Palestinian Workers Have Gone Missing in Israel

    Thousands of Palestinian day laborers from Gaza are stranded in Israel amid the explosion in #violence. Israel has revoked their work permits, and their families fear they may be imprisoned — or worse.

    There are few groups in history who have suffered as many waves of dispossession and displacement in such a short period as the Palestinian people. On May 15, 1948, over 700,000 Palestinians were driven out of their homeland and over 500 Palestinian villages were destroyed in what is known as the Nakba or “catastrophe.”

    The Nakba isn’t a fixed historical event but an ongoing phenomenon characterized by seventy-five years of occupation, colonial violence, and displacement. The Gaza Strip, one of the most densely populated places on earth, is home to many of these refugees — some still have the keys to their former homes. The past three weeks have been particularly difficult; over 8,000 Palestinians have been killed by Israeli bombardments on mosques, schools, hospitals, and residential buildings.

    Since 2007, Gaza has been economically suffocated by a siege that stops food, medicine, and construction materials from getting in. The unemployment rate stands at 47 percent. It’s why so many have jumped at the opportunity since October 2021 to access work permits to earn a living as day laborers in Israel. The process of applying for a work permit is arduous and unpredictable. Israel issues these permits through a quota system, and many applicants are denied. Those who secure permits face daily challenges, including long waits at border crossings, strict security checks, and grueling commutes. There are 19,000 Palestinians from Gaza in this position.

    Yasmin, a Palestinian trade union organizer, says these workers work the most undesirable, dangerous, and physically demanding jobs. “You go in, give your labor and go out. You are not considered part of the country. Permits are conditional on Palestinians working in specific industries where there is a lack of an Israeli workforce.”

    Those industries include construction, agriculture, and manufacturing. Serious injury rates are much higher than average, but the desperation to provide for your family means there is no luxury of choice.

    “It is intensive labor with high levels of precarity. There are many deaths in the construction sector. And there is an internal division of labor and power dynamic at play with Palestinian workers the lowest paid and most exploited.”
    Disappeared Workers

    When the latest wave of violence began three weeks ago, the Erez crossing into Gaza was completely closed off. Thousands of Palestinian laborers were stranded on the Israeli side, far from their families and with no source of income. Their work permits were revoked, leaving their lives in flux. It is a familiar pattern for Palestinians: displacement, dispossession, and uncertainty.

    “Some are missing, some are stranded, some have been arrested, and others have been deported to the West Bank,” explains Shaher Saed, general secretary of the Palestinian General Federation of Trade Unions (PGFTU). Saed and his colleagues in Ramallah have been attempting to support Palestinians from Gaza who have been estranged from their families, made homeless, and internally displaced yet again.

    Muhammad Aruri, head of legal affairs for the General Union of Palestinian Workers, tells us that Palestinian families are particularly worried about the condition of their loved ones who have gone missing. “There’s 5,000 that we don’t have any information about. We don’t know if they are dead or alive.”

    Locating these workers isn’t difficult for the Israeli state. As Yasmin explains, “The whole permit system is a surveillance system done in a specific kind of way to help the state locate people in these kinds of scenarios. The last report I heard is that there are 4,000 workers at the moment detained and being interrogated. The state is not letting these workers go back to their families. They are being detained and interrogated or are in the West Bank having to fend for themselves.”

    It is impossible to know how many Palestinian workers are in Israel and how many are detained, as Israeli authorities have failed to respond to enquiries by NGOs. It is estimated that at least 4,000 Palestinian workers from Gaza are currently held by Israeli authorities in undetermined locations, with little to no information about their condition, unclear legal status, and denied their right to legal representation.

    “In the middle of this horrible situation, the Israeli occupation army did not hesitate in inflicting all kinds of harm against the workers, especially those from Gaza who work in Israel,” says Saeed. “They were prevented from returning to their homes, expelled from their workplaces, and transferred to the West Bank without any shelters. This was done after they had been physically assaulted and had their personal belongings confiscated, such as their money, identity cards, and entry permits to Israel.”

    Saeed says the Palestinian General Federation of Trade Unions has received thousands of calls from concerned family members who have lost contact with relatives. “We were informed that many of the workers are under detention in Anatout military camp in northern occupied Jerusalem, under degrading and inhumane conditions. The PGFTU demands to release our workers and take steps to guarantee their safe return to their families. We appeal and call our colleagues and partners in the international trade unions for support and solidarity with the workers to eliminate injustice against them. We demand the Red Cross international make an immediate visit to Anatout detention to check on our workers’ conditions.”

    Some workers were allegedly dumped at West Bank checkpoints, went into nearby cities, and took shelter there. Many workers in Israel fled and sought to make their way to the West Bank, fearing for their safety.

    The detention of Palestinian workers could be unlawful, and Israeli human rights organizations such as Gisha have petitioned for further information on their location and condition.
    Economic Dependency

    In 2017, the Israeli government declassified thousands of pages of meeting transcripts from 1967. In the aftermath of the six-day war, where Israel captured the Gaza Strip, the Golan Heights, the Sinai Peninsula, and the West Bank, a great deal of discussion went on about what to do with these new territories. Using these documents, Dr Omri Shafer Raviv drew attention to how Israeli leaders sought to expand their control over newly occupied populations by bringing Palestinian workers into Israel.

    While the work permit system may provide temporary economic relief to Palestinians, it has created a cycle of dependency with which Israel can access a cheap supply of labor and exercise greater control over Palestinians. Coupled with a siege that prevents sustainable economic development, access to resources, and trade, Palestinians in Gaza are economically subjugated.

    The mobility of Palestinian workers is often restricted at checkpoints where they face frequent interrogation and are often late or miss shifts altogether, incurring significant financial loss. All Palestinian trade passes through Israeli borders and checkpoints. It means much higher logistics costs — crippling Palestinian businesses and forcing many to close.

    The small proportion of workers who are granted work permits have no legal recourse or medical cover and work in industries with a high risk of accidents. They are frequently mistreated by employers who are well aware that Palestinian workers are without the most basic rights and protections.

    The plight of these workers is emblematic of the broader challenges Palestinians face. The economic hardships, insecurity, and exploitation they endure serve as a stark reminder of the urgent need to end the siege on Gaza and the occupation more broadly.

    https://jacobin.com/2023/10/palestinian-workers-missing-detained-israel-occupation-gaza

    #disparus #travailleurs_palestiniens #Palestine #Israël #disparitions #7_octobre_2023 #travail #permis_de_travail

  • Face à l’intensification du travail, les jeunes plongent dans un malaise profond : « Je m’enfonçais dans le travail, je n’avais plus de distance »


    PAUL BOUTEILLER

    Tâches absurdes, rythme intense, précarité de l’emploi, absence de seniors pour les guider… les transformations du monde professionnel génèrent de la souffrance chez les jeunes salariés. Le nombre d’arrêts-maladie explose chez les moins de 30 ans.

    Lorsque Robin (certains prénoms ont été modifiés) se rend chez son médecin, courant 2022, il ne pense pas en ressortir avec un #arrêt_de_travail. A seulement 27 ans, cette option ne semble même pas pouvoir traverser l’esprit de ce chef de projet dans une agence de création de sites Web. « J’avais poussé la porte de son cabinet pour avoir des somnifères, dans l’espoir de retrouver le sommeil et de continuer à fonctionner au boulot. » Mais le fait est qu’il ne peut plus continuer, l’alerte alors le professionnel de #santé. Robin a été essoré par le surcroît de travail dans la start-up où il est salarié, qui connaît alors une croissance fulgurante, au point d’avoir vu ses effectifs tripler en quelques mois et son portefeuille clients s’étoffer plus encore.

    Face à la pression mise sur son équipe, très jeune comme lui et peu accompagnée par des seniors, il a développé des symptômes d’anxiété professionnelle de plus en plus invalidants. Sans « les outils adéquats » et surtout « sans le temps nécessaire » pour répondre aux demandes grandissantes de #clients au profil nouveau, il passe ses nuits à se repasser les difficultés éprouvées dans la journée, et se rend le matin au travail la boule au ventre. Avant son arrêt, il se surprend à fondre en larmes à plusieurs reprises après des rendez-vous clients. « Dans le bureau du médecin, j’ai mesuré que la situation avait vraiment dérapé », souffle Robin, qui a dû être arrêté durant un mois.

    Etre contraints de se mettre sur pause dès le début de leur vie professionnelle : de nombreux jeunes diplômés y sont désormais confrontés. La santé au travail se dégrade ces dernières années, et en particulier pour les plus jeunes. Alors que le nombre d’arrêts-maladie atteignait un niveau record en 2022, comme le constataient deux études parues cet été, la progression la plus frappante concerne en effet les moins de 30 ans. Selon l’une d’elles, publiée par le cabinet de conseil WTW en août à propos du secteur privé, le taux d’absentéisme – un indicateur RH qui prend (notamment) en compte les #arrêts-maladie, les #accidents_de_travail, les #absences_injustifiées – dans cette tranche d’âge a augmenté de 32 % en quatre ans, avec un bond important chez les cadres.

    Si aucune de ces études ne détaille les motifs de ces absences, la Sécurité sociale note que les premières causes des arrêts longs prescrits en 2022 relevaient de troubles psychologiques, comme l’anxiété, la dépression ou l’épuisement. Et, en la matière, d’autres enquêtes concordent : les jeunes sont bien touchés de plein fouet par une dégradation. Chez les 18-34 ans, les arrêts liés à la souffrance au travail ont ainsi bondi de 9 %, en 2016, à 19 %, en 2022, selon un baromètre du groupe mutualiste Malakoff Humanis. La consommation de somnifères, d’anxiolytiques ou d’antidépresseurs par les salariés de moins de 30 ans a également doublé entre 2019 et 2022, précise cette étude.

    https://www.lemonde.fr/campus/article/2023/10/30/face-a-l-intensification-du-travail-les-jeunes-plongent-dans-un-malaise-prof
    https://archive.ph/yNJPw

    #précaires #présentéisme #management #intensification_du_travail #sous-effectifs #télétravail #concurrence #isolement #travail #précarité_de_l’emploi #emploi #santé_au_travail #violence_économique

    • En ce lundi, l’#armée_israélienne affirme avoir frappé, via les airs et au sol, plus de 600 cibles dans #Gaza ces vingt-quatre dernières heures. Dans le détail : « des dépôts d’armes, positions de lancement de missiles antichar, caches du #Hamas » et « des dizaines » de chefs du mouvement islamiste tués. Des chars israéliens sont postés à la lisière de #Gaza_City et le principal axe routier nord-sud est coupé. C’est vendredi en fin de journée que l’État hébreu a lancé son opération d’envergure, annoncée depuis près de deux semaines déjà. Mêlant #incursions_terrestres localisées – surtout dans le nord de l’enclave palestinienne – et #bombardements intensifiés. Samedi, le Premier ministre israélien Benyamin Netanyahou a prévenu : la #guerre sera « longue et difficile ».

      Vendredi, 17 h 30. La #bande_de_Gaza plonge dans le noir. Plus d’électricité, plus de réseau téléphonique, ni de connexion internet. Le #black-out total. Trente-six heures de cauchemar absolu débutent pour les Gazaouis. Coupés du monde, soumis au feu. L’armée israélienne pilonne le territoire : plus de 450 bombardements frappent, aveugles. La population meurt à huis clos, impuissante. Après avoir quitté Gaza City au début de la riposte israélienne (lire l’épisode 1, « D’Israël à Gaza, la mort aux trousses »), Abou Mounir vit désormais dans le centre de la bande de Gaza, avec ses six enfants. Ce vendredi, il est resté cloîtré chez lui. Lorsqu’il retrouve du réseau, le lendemain matin, il est horrifié par ce qu’il découvre. « Mon quartier a été visé par des tirs d’artillerie. L’école à côté de chez moi, où sont réfugiées des familles, a été touchée. Devant ma porte, j’ai vu tous ces blessés agonisants, sans que personne ne puisse les aider. C’est de la pure #folie. Ils nous assiègent et nous massacrent. Cette façon de faire la guerre… On se croirait au Moyen-Âge », souffle le père de famille, qui dénonce « une campagne de #vengeance_aveugle ». L’homme de 49 ans implore Israël et la communauté internationale d’agir urgemment. « La seule et unique solution possible pour nous tous, c’est la #solution_politique. On l’a répété un million de fois : seule une solution politique juste nous apportera la paix. »

      Toujours à Gaza City avec sa famille, la professeure de français Assya décrit ce jour et demi d’#angoisse : « On se répétait : “Mais que se passe-t-il, que va-t-il nous arriver ?” On entendait les bombardements, boum, boum, boum… Ça n’arrêtait pas ! Ma petite-fille de 1 an, la fille de mon fils, quand il y avait de grosses explosions, elle pleurait. Alors nous, on faisait les clowns pour lui faire croire que c’était pour rire. Et elle se calmait… Chaque matin, c’est un miracle qu’on soit encore là… » Chaque jour aussi, Assya demande si nous, journalistes, en savons plus sur un cessez-le-feu.

      Plus de 8 000 Gazaouis ont péri, mais leurs suppliques résonnent dans le vide jusqu’à présent. Elles sont pourtant de plus en plus pressantes, face à la #situation_humanitaire qui se dégrade dramatiquement. Ce samedi, des entrepôts des Nations unies ont été pillés. « C’est le signe inquiétant que l’ordre civil est en train de s’effondrer après trois semaines de guerre et de #siège de Gaza. Les gens sont effrayés, frustrés et désespérés », a averti Thomas White, directeur des opérations de l’UNRWA, l’agence onusienne pour les réfugiés palestiniens. Assya confirme : l’un de ses cousins est revenu avec des sacs de sucre, de farine, des pois chiches et de l’huile. Quand elle lui a demandé d’où ça venait, il lui a raconté, le chaos à Deir Al-Balah, dans le sud de l’enclave. « Les gens ont cassé les portes des réserves de l’UNRWA, ils sont entrés et ont pris la farine pour se faire du pain eux-mêmes, car ils n’ont plus rien. La population est tellement en #colère qu’ils ont tout pris. » Depuis le 21 octobre, seuls 117 camions d’#aide_humanitaire (lire l’épisode 2, « “C’est pas la faim qui nous tuera mais un bombardement” ») ont pu entrer dans la bande de Gaza dont 33 ce dimanche), via le point de passage de Rafah au sud, à la frontière égyptienne. L’ONU en réclame 100 par jour, pour couvrir les besoins essentiels des Gazaouis. Le procureur de la Cour pénale internationale Karim Khan a averti : « Empêcher l’acheminement de l’aide peut constituer un #crime. […] Israël doit s’assurer sans délai que les #civils reçoivent de la #nourriture, des #médicaments. »

      Les corps des 1 400 victimes des attaques du 7 octobre sont dans une #morgue de fortune. Beaucoup ont subi des sévices, ont été brûlés. L’#horreur à l’état pur

      En écho à cette situation de plus en plus dramatique, Israël a intensifié sa guerre de la #communication. Pas question pour l’État hébreu de laisser le Hamas ni les Palestiniens gagner la bataille de l’émotion au sein des opinions. Depuis une dizaine de jours, les autorités israéliennes estiment que les médias internationaux ont le regard trop tourné vers les Gazaouis, et plus assez sur le drame du 7 octobre. Alors Israël fait ce qu’il maîtrise parfaitement : il remet en marche sa machine de la « #hasbara ». Littéralement en hébreu, « l’explication », euphémisme pour qualifier ce qui relève d’une véritable politique de #propagande. Mais cela n’a rien d’un gros mot pour les Israéliens, bien au contraire. Entre 1974 et 1975, il y a même eu un éphémère ministère de la Hasbara. Avant cela, et depuis, cette tâche de communication et de promotion autour des actions de l’État hébreu, est déléguée au ministère des Affaires étrangères et à l’armée.

      Un enjeu d’autant plus important face à cette guerre d’une ampleur inédite. C’est pourquoi, chaque jour de cette troisième semaine du conflit, l’armée israélienne a organisé des événements à destination de la #presse étrangère. Visites organisées des kibboutzim où les #massacres de civils ont été perpétrés : dimanche dans celui de Beeri, mercredi et vendredi à Kfar Aza, jeudi dans celui de Holit. Autre lieu ouvert pour les journalistes internationaux : la base de Shura, à Ramla, dans la banlieue de Tel Aviv. Elle a été transformée en morgue de fortune et accueille les 1 400 victimes des attaques du 7 octobre, afin de procéder aux identifications. Dans des tentes blanches, des dizaines de conteneurs. À l’intérieur, les corps. Beaucoup ont subi des sévices, ont été brûlés. L’horreur à l’état pur.

      Mais l’apogée de cette semaine de communication israélienne, c’est la convocation générale de la presse étrangère, lundi dernier, afin de visionner les images brutes des massacres. Quarante-trois minutes et quarante-quatre secondes d’une compilation d’images des GoPro embarquées des combattants du Hamas, des caméras de vidéosurveillance des kibboutzim, mais aussi des photos prises par les victimes avec leurs téléphones, ou par les secouristes. Le tout mis bout à bout, sans montage. Des images d’une violence inouïe. Une projection vidéo suivie d’une conférence de presse tenue par le porte-parole de l’armée israélienne, le général Daniel Hagari. Il le dit sans détour : l’objectif est de remettre en tête l’ignominie de ce qui s’est passé le 7 octobre dernier. Mais également de dire aux journalistes de mieux faire leur travail.

      Il les tance, vertement : « Vous ! Parfois, je prends trente minutes pour regarder les infos. Et j’ai été choqué de voir que certains médias essayent de COMPARER ce qu’Israël fait et ce que ces vils terroristes ont fait. Je ne peux pas comprendre qu’on essaye même de faire cette #comparaison, entre ce que nous venons de vous montrer et ce que l’armée fait. Et je veux dire à certains #médias qu’ils sont irresponsables ! C’est pour ça qu’on vous montre ces vidéos, pour qu’aucun d’entre vous ne puisse se dire que ce qu’ils font et ce que nous faisons est comparable. Vous voyez comment ils se sont comportés ! » Puis il enfonce le clou : « Nous, on combat surtout à Gaza, on bombarde, on demande aux civils d’évacuer… On ne cherche pas des enfants pour les tuer, ni des personnes âgées, des survivants de l’holocauste, pour les kidnapper, on ne cherche pas des familles pour demander à un enfant de toquer chez ses voisins pour les faire sortir et ensuite tuer sa famille et ses voisins devant lui. Ce n’est pas la même guerre, nous n’avons pas les mêmes objectifs. »

      Ce vendredi, pour finir de prouver le cynisme du Hamas, l’armée israélienne présente des « révélations » : le mouvement islamiste abriterait, selon elle, son QG sous l’hôpital Al-Shifa de Gaza City. À l’appui, une série de tweets montrant une vidéo de reconstitution en 3D des dédales et bureaux qui seraient sous l’établissement. Absolument faux, a immédiatement rétorqué le Hamas, qui accuse Israël de diffuser « ces mensonges » comme « prélude à la perpétration d’un nouveau massacre contre le peuple [palestinien] ».

      Au milieu de ce conflit armé et médiatique, le Président français a fait mardi dernier une visite en Israël et dans les territoires palestiniens. Commençant par un passage à Jérusalem, #Emmanuel_Macron a réaffirmé « le droit d’Israël à se défendre », appelant à une coalition pour lutter contre le Hamas dans « la même logique » que celle choisie pour lutter contre le groupe État islamique. Il s’est ensuite rendu à Ramallah, en Cisjordanie occupée, au siège de l’Autorité palestinienne. « Rien ne saurait justifier les souffrances » des civils de Gaza, a déclaré Emmanuel #Macron. Qui a lancé un appel « à la reprise d’un processus politique » pour mettre fin à la guerre entre Israël et le Hamas. Tenant un discours d’équilibriste, rappelant que paix et sécurité vont de pair, le Président a exigé la mise en œuvre de la solution à deux États, comme seul moyen de parvenir à une paix durable. Une visite largement commentée en France, mais qui a bien peu intéressé les Palestiniens.

      Car si les projecteurs sont braqués sur Israël et Gaza depuis le début de la guerre, les Palestiniens de #Cisjordanie occupée vivent également un drame. En à peine trois semaines, plus de 120 d’entre eux ont été tués, selon le ministère de la Santé de l’Autorité palestinienne. Soit par des colons juifs, soit lors d’affrontements avec les forces d’occupation israéliennes. Bien sûr, la montée de la #violence dans ce territoire avait commencé bien avant la guerre. Mais les arrestations contre les membres du Hamas, les raids réguliers menés par l’armée et les attaques de colons prennent désormais une autre ampleur. Ce lundi matin encore, l’armée israélienne a mené un raid sur le camp de Jénine, au nord de la Cisjordanie, faisant quatre morts. Selon l’agence de presse palestinienne Wafa, plus de 100 véhicules militaires et deux bulldozers sont entrés dans le camp. Déjà, mercredi dernier, deux missiles tirés depuis les airs en direction d’un groupe de personnes avait fait trois morts à #Jénine.

      À chaque mort de plus, la colère monte derrière les murs qui encerclent les Territoires. À Gaza, mais aussi en Cisjordanie

      À chaque mort de plus, la colère monte derrière le mur qui encercle les territoires palestiniens. Du sud, à Hébron, au nord, à Naplouse, en passant par Jénine et Ramallah, les #manifestations ont émaillé ces trois dernières semaines, s’intensifiant au fil du temps. À chaque fois, les Palestiniens y réclament la fin de l’#occupation, la mise en œuvre d’une solution politique pour un #accord_de_paix et surtout l’arrêt immédiat des bombardements à Gaza. Ce vendredi, quelques milliers de personnes s’étaient rassemblés à Ramallah. Drapeaux palestiniens à la main, « Que Dieu protège Gaza » pour slogan, et la rage au ventre. Yara était l’une d’entre eux. « Depuis le début de la guerre, le #traitement_médiatique en Europe et aux États-Unis est révoltant ! L’indignation sélective et le deux poids deux mesures sont inacceptables », s’énerve la femme de 38 ans. Son message est sans ambiguïté : « Il faut mettre un terme à cette agression israélienne soutenue par l’Occident. » Un sentiment d’injustice largement partagé par la population palestinienne, et qui nourrit sa colère.

      Manal Shqair est une ancienne militante de l’organisation palestinienne Stop The Wall. Ce qui se passe n’a rien de surprenant pour elle. La jeune femme, qui vit à Ramallah, analyse la situation. Pour elle, le soulèvement des Palestiniens de Cisjordanie n’est pas près de s’arrêter. « Aujourd’hui, la majorité des Palestiniens soutient le Hamas. Les opérations militaires du 7 octobre ont eu lieu dans une période très difficile traversée par les Palestiniens, particulièrement depuis un an et demi. La colonisation rampante, la violence des colons, les tentatives de prendre le contrôle de la mosquée Al-Aqsa à Jérusalem et enfin le siège continu de la bande de Gaza par Israël ont plongé les Palestiniens dans le #désespoir, douchant toute perspective d’un avenir meilleur. » La militante ajoute : « Et ce sentiment s’est renforcé avec les #accords_de_normalisation entre Israël et plusieurs pays arabes [les #accords_d’Abraham avec les Émirats arabes unis, Bahreïn, le Maroc et le Soudan, ndlr]. Et aussi le sentiment que l’#Autorité_palestinienne fait partie de tout le système de #colonialisme et d’occupation qui nous asservit. Alors cette opération militaire [du 7 octobre] a redonné espoir aux Palestiniens. Désormais, ils considèrent le Hamas comme un mouvement anticolonial, qui leur a prouvé que l’image d’un Israël invincible est une illusion. Ce changement aura un impact à long terme et constitue un mouvement de fond pour mobiliser davantage de Palestiniens à rejoindre la #lutte_anticoloniale. »

      #7_octobre_2023 #à_lire

    • Ma petite-fille de 1 an, la fille de mon fils, quand il y avait de grosses explosions, elle pleurait. Alors nous, on faisait les clowns pour lui faire croire que c’était pour rire.

      C’est exactement ce qu’on faisait ma femme et moi à notre fils de 4 ans en 2006 au Liban.

  • Le 18 novembre, j’agis contre les violences faites aux enfants et adolescents

    Collectif Enfantiste, « je ne veux plus vivre dans ce monde si papa continue de me taper ». Emma a 5 ans quand elle prononce ces mots. Malgré son courage et les démarches entrepris par son entourage, elle n’a pas été cru et protégée par les institutions qui doivent veiller à la sécurité des enfants. Carl avait 12 ans quand il s’est suicidé suite à de l’inceste paternel. Il a parlé. Son père avait déjà été condamné auparavant pour violences sexuelles sur sa grande sœur, Steffy. Lindsay avait aussi 13 ans quand elle s’est suicidée suite au harcèlement scolaire qu’elle subissait. Elle a parlé mais ça ne s’est pas arrêté. Pendant que les adultes revendiquent leurs droits et espèrent un meilleur avenir, très peu de personnes se tournent vers les enfants et les adolescents. Qui sont-ils ? Que vivent-ils ? Sont-ils des enfants rois et sur-gâtés comme la société voudrait nous le faire croire ? Les enfants et les adolescents sont partout. Dans la rue, dans les parcs, aux sorties d’école, dans les transports, ils sont en face de nous et nous ne les connaissons pas. Parce qu’ils sourient et s’amusent, nous nous imaginons qu’ils vont bien, parce qu’ils bougent et se mettent en colère, nous nous imaginons qu’ils sont rois – ça n’arrive pas qu’aux autres – 3 enfants par classe de 30 élèves sont victimes d’inceste. Si on comptabilise les enfants victimes de maltraitances et de toutes formes de violences, nous pouvons estimer 10 à 15 enfants par classe victimes de violences, au minimum. Il est temps de regarder en face cette réalité que nous préférons ignorer. Des milliers d’enfants, chaque année, sont victimes de l’impensable. Ils grandissent avec des marques invisibles qui les hantent, des souvenirs qui les poursuivent, des traumatismes qui les façonnent. Ils disent « Brisons le silence » mais le silence est rompu depuis bien longtemps. Les enfants parlent, les enfants hurlent, les enfants nous montrent des signes mais personne ne veut les voir. Ils disent « Nous croyons en la justice » ; allez dire ça aux milliers d’enfants qui ne sont pas protégés. Ils continueront d’être violés, tapés, négligés ou humiliés dans l’indifférence la plus totale. La justice ne suit plus, elle n’en a plus la possibilité, tout comme le secteur de la santé ou du social qui font face à une crise majeure. La France n’est plus en capacité de protéger les enfants, elle est même le 1er pays d’Europe hébergeur de pédopornographie. Les chiffres des violences faites aux enfants ne cessent d’augmenter, les condamnations, elles, diminuent. 73% des plaintes pour violences sexuelles sur personnes mineures sont classées sans suite. Derrière ces statistiques, il y a des bébés et des enfants, qui croient en un monde des adultes bienveillant, humain et qui répond à leurs besoins fondamentaux. Ils attendaient et attendent encore d’être entendus, crus et protégés.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/10/30/le-18-novembre-jagis-contre-les-violences-fait

    #violence #enfant

  • The hotspot approach in Greece and Italy

    The ’hotspot approach’ was presented by the European Commission as part of the European agenda on migration in April 2015, when record numbers of refugees, asylum-seekers and other migrants began arriving in the EU. The ’hotspots’ (first reception facilities) were intended to improve coordination of EU agencies’ and national authorities’ efforts at the external borders of the EU, in the initial reception, identification, registration and fingerprinting of asylum-seekers and migrants. Although other Member States also have the possibility to benefit from the hotspot approach, only Greece and Italy host hotspots. This approach was also designed to contribute to the temporary emergency relocation mechanisms that – between September 2015 and September 2017 – helped to transfer asylum-seekers from Greece and Italy to other EU Member States. Even though 96 % of the people eligible had been relocated by the end of March 2018, relocation numbers were far from the targets originally set and the system led to tensions with Czechia, Hungary and Poland, which refused to comply with the mechanism. Relocations to other EU Member States, especially under the new voluntary scheme established in June 2022, remain low. Since their inception, the majority of hotspots have suffered from overcrowding, and concerns have been raised by stakeholders with regard to camp facilities and living conditions – in particular for vulnerable migrants and asylum-seekers – and to gaps in access to asylum procedures. These shortcomings cause tensions among the migrants and with local populations and have already led to violent protests. On 8 September 2020, a devastating fire in the Moria camp on Lesvos only aggravated the existing problems. The European Parliament has called repeatedly for action to ensure that the hotspot approach does not endanger the fundamental rights of asylum-seekers and migrants. This briefing updates earlier ones published in March 2016, in June 2018 and September 2020.

    https://www.europarl.europa.eu/thinktank/en/document/EPRS_BRI(2023)754569

    #relocalisation #chiffres #asile #migrations #réfugiés #EU #Union_européenne #UE #hotspot #Grèce #Italie #violence

  • I confini non sono il luogo in cui accadono le violenze, sono il motivo per cui accadono le violenze
    https://www.meltingpot.org/2023/10/i-confini-non-sono-il-luogo-in-cui-accadono-le-violenze-sono-il-motivo-p

    Stazione di Sospel, Francia, ore 7.40. Nel paese della Val Roya passa il treno che collega Breil sur Roya a Nizza, all’interno poca gente. Appena il treno giunge alla stazione spuntano sette soldati e una dozzina di gendarmes. I militari circondano il treno, mitragliatrici in mano, mentre i poliziotti, a due a due, entrano nel treno, scrutano i passeggeri per rilevare soggettività razzializzate. Si fermano quando vedono due ragazzini, gli chiedono i documenti. I ragazzi glieli mostrano, vanno bene, i poliziotti scendono e il treno riparte. Stazione di Menton Garavan, Francia, ore 15.00. La situazione è identica, il treno (...)

  • #Of_Land_and_Bread

    « #B'Tselem – le centre israélien d’information pour les droits de l’homme dans les #territoires_occupés – a promu en 2007 un projet qui consistait à donner des caméras vidéo aux Palestinien.ne.s en Cisjordanie afin qu’ils/elles puissent documenter les violations des droits de l’homme qu’ils étaient contraint.e.s de subir sous l’occupation israélienne. Ces #enregistrements_vidéo bruts capturent de la manière la plus simple et la plus efficace les abus quotidiens et implacables commis à répétition par les colons illégaux et l’armée contre les Palestinien.ne.s. Au fil des ans, tous ces films sont devenus des #archives vivantes et malheureusement en constante expansion des #abus incessants et de la violence dont souffre la population palestinienne et avec lesquels elle doit vivre. Of Land and Bread rassemble certains de ces courts métrages dans un long métrage documentaire qui n’est indéniablement pas facile à regarder. La brutalité des colons et de l’armée n’épargne personne. Et pourtant, il est nécessaire de voir pour bien saisir et comprendre l’ampleur du cycle sans fin des violations des droits de l’homme auxquelles les Palestinien.ne.s sont confronté.e.s, alors que le monde regarde obstinément de l’autre côté. »


    https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/59534_0
    #film #documentaire #film_documentaire #Cisjordanie #Palestine #colonisation #Israël #terre #armée_israélienne #violence #humiliations #destruction #brutalité #arrestations_arbitraires #menaces #insultes #provocation #documentation #droits_humains #archive #à_voir