• Des salariés de Google créent un syndicat après des mois de tensions internes
    https://www.lemonde.fr/pixels/article/2021/01/04/google-des-salaries-creent-un-syndicat-apres-des-mois-de-tensions-internes_6

    Ce syndicat, un des tout premiers au sein d’un fleuron de la Silicon Valley, ne s’occupera pas que des questions liées aux salaires et conditions de travail mais aussi des problématiques éthiques. En raison de divergences avec leur direction qui se multiplient, des salariés de Google ont annoncé, lundi 4 janvier, créer un syndicat, une décision qui coïncide avec une période de mécontentement grandissant envers les géants de la Silicon Valley. La Silicon Valley était parvenue jusqu’à présent à éviter (...)

    #Fitbit #Google #Verily #Waymo #YouTube #éthique #GigEconomy #syndicat #travail (...)

    ##Maven

  • La morale, une fable ?
    https://laviedesidees.fr/La-morale-une-fable.html

    À propos de : F. Jaquet et H. Naar, Qui peut sauver la morale ? Essai de métaéthique, Ithaque ; O. Desmons, S. Lemaire et P. Turmel (dir.), Manuel de métaéthique, Hermann. La métaéthique est l’étude des questions qui portent sur la morale sans être elles-mêmes des questions morales. Deux ouvrages cartographient cet univers fascinant.

    #Philosophie #éthique
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20201230_metaethique.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20201230_metaethique.docx

  • Il racconto dell’omicidio di #Agitu_Ideo_Gudeta evidenzia il razzismo democratico dei media italiani

    L’imprenditrice #Agitu Ideo Gudeta è stata uccisa il 29 dicembre nella sua casa a #Frassilongo, in provincia di Trento. Da subito si è ipotizzato si trattasse dell’ennesimo femminicidio (72 donne dall’inizio del 2020), anche in ragione del fatto che in passato la donna era stata costretta a querelare un uomo per #stalking. In quell’occasione Gudeta aveva chiesto di considerare l’aggravante razziale, dato che l’uomo, un vicino di casa, la chiamava ripetutamente “negra”, ma il giudice aveva respinto la richiesta del suo avvocato. Il giorno successivo all’omicidio, il suo dipendente #Adams_Suleimani, – un uomo ghanese di 32 anni – ha confessato il crimine, aggravato dal fatto che l’ha violentata mentre era agonizzante. Il movente sarebbe un mancato pagamento.

    Gudeta era nata ad Addis Abeba, in Etiopia, 42 anni fa. Non era più una “ragazza”, come hanno scritto alcune testate. La sua prima permanenza in Italia risale a quando aveva 18 anni, per studiare nella facoltà di Sociologia di Trento. Era poi tornata in Etiopia, ma nel 2010 l’instabilità del Paese l’ha costretta a tornare in Italia. Nello Stato africano si è interrotto solo pochi giorni fa il conflitto tra il Fronte di Liberazione del Tigré e il governo centrale etiope – i tigrini sono una minoranza nel Paese, ma hanno governato per oltre trent’anni senza far cessare gli scontri tra etnie – cha ha causato violazioni dei diritti umani, massacri di centinaia di civili e una grave crisi umanitaria.

    Proprio le minacce dei miliziani del Fronte di Liberazione avevano spinto Agitu Ideo Gudeta a tornare in Italia. La donna aveva infatti denunciato le politiche di #land_grabbing, ossia l’accaparramento delle terre da parte di aziende o governi di altri Paesi senza il consenso delle comunità che le abitano o che le utilizzano per mantenersi. Per questo motivo il governo italiano le ha riconosciuto lo status di rifugiata. In Trentino, dove si era trasferita in pianta stabile, ha portato avanti il suo impegno per il rispetto della natura, avviando un allevamento di ovini di razza pezzata mochena, una specie autoctona a rischio estinzione, e recuperando alcuni ettari di terreni in stato di abbandono.

    Il caseificio che aveva aperto rivelava già dal nome – La capra felice – il suo credo ambientalista e il suo antispecismo, ricevendo riconoscimenti da Slow Food e da Legambiente per l’impegno promosso con la sua azienda e il suo negozio. Agitu Ideo Gudeta era un nome noto nel movimento antirazzista italiano, ma oggi viene usata – persino dai Verdi – per presentare il Trentino come terra di accoglienza, in un tentativo di nascondere la xenofobia di cui era oggetto. Le origini della donna e del suo assassino stupratore sono sottolineate da tutti e precedono la narrazione della violenza, mettendola in secondo piano, salvo evidenziarla in relazione alla provenienza dell’omicida, che per una volta non è un italiano, né un compagno o un parente.

    Alla “ragazza” è stata affibbiata in tutta fretta una narrazione comune a quella che caratterizza altre donne mediaticamente esposte, come le attiviste Greta Thunberg e Carola Rackete, la cooperante Aisha Romano o la giornalista Giovanna Botteri, basata su giudizi e attacchi basati perlopiù su fattori estetici. Razzismo, sessismo e classismo si mescolano in questa storia in cui la violenza – quella del vicino di casa, quella del suo assassino, quella del governo etiope – rischiano di rimanere sullo sfondo, in favore del Grande gioco dell’integrazione. A guidarlo è come sempre un trionfalismo tipico dei white saviour (secondo una definizione dello storico Teju Cole del 2012), come se esistesse un colonialismo rispettabile: insomma, in nome della tolleranza, noi italiani doc abbiamo concesso alla donna un riparo da un Paese povero, di una povertà che riteniamo irrimediabile. Usiamo ormai d’abitudine degli automatismi e un lessico che Giuseppe Faso ha definito razzismo democratico, in cui si oppongono acriticamente migranti meritevoli a migranti immeritevoli, un dualismo che sa vedere solo “risorse” o “minacce all’identità nazionale”.

    Così il protagonismo di Agitu Ideo Gudeta viene improvvisamente premiato, trasformando lei in una migrante-eroina e il suo aguzzino nel solito stupratore non bianco, funzionale solo al “Prima gli italiani”. Ma parlare di Agitu Ideo Gudeta in termini di “integrazione” è un insulto alla sua memoria. Considerarla un simbolo in questo senso conferma che per molti una rifugiata sarà rifugiata per sempre e che una “migrante” non è altro che una migrante. La nostra stampa l’ha fatto, suggerendo di dividere gli immigrati in buoni e cattivi, decorosi e indecorosi, e trattando i lettori come se fossero tutti incapaci di accogliere riflessioni più approfondite.

    Parallelamente però, un governo che come i precedenti accantona la proposta di legge sulla cittadinanza favorisce un racconto privo di sfumature, che rifiuta in nome di una supposta complessità non affrontabile nello sviscerare questo tema. Forse se avessimo una legge sulla cittadinanza al passo con i tempi, e non una serie di norme che escludono gli italiani di seconda generazione e i migranti, potremmo far finalmente progredire il ragionamento sulla cosiddetta convivenza e sulla coesione sociale ed esprimerci con termini più adeguati. Soprattutto chi è stato in piazza a gridare “Black Lives Matter”, “I can’t breathe” e “Say Their Names” oggi dovrebbe pretendere che la notizia di questo femminicidio venga data diversamente: in Trentino una donna di nome Agitu Ideo Gudeta è stata uccisa e violentata. Era diventata un’imprenditrice di successo nel settore caseario dopo essersi opposta alle politiche di land grabbing in Etiopia. Era un’attivista e un’ambientalista molto conosciuta. Mancherà alla sua comunità.

    https://thevision.com/attualita/agitu-gudeta-razzismo

    #féminicide #racisme #Italie #meurtre #femmes #intersectionnalité #viol #réfugiés #accaparement_des_terres #Trentin #éleveuse #élevage #Pezzata_Mòchena #chèvrerie #chèvres #La_capra_felice #xénophobie
    #white_saviour #racisme_démocratique
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    Le site web de la #fromagerie de Agitu Ideo Gudet :


    http://www.lacaprafelice.com

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    NB :
    Grâce à une amie qui connaissait Agitu je viens de connaître une autre facette de cette histoire. Un drame dans le drame, dont je ne peux/veux pas parler ici.

    • Murdered Agitu Ideo Gudeta, an example of environmental preservation and female entrepreneurship in Italy.

      Agitu was found dead in her home in #Val_dei_Mocheni, Trentino, Italy. The entrepreneur and shepherdess from Ethiopia would turn 43 on January 1st.
      An employee of her company confessed the murder followed by rape.

      One of the main news in the Italian media, the murder of Agitu brought much indignation. Especially among women. In Italy, a woman is murdered every three days, according to a report from Eures.

      “When will this massacre of women end? When? Today, feminicide has extinguished the smile of a dear and sweet sister. Rest in peace Agitu. We will miss you a lot”, twitted the Italian writer with SomaIi origin Igiaba Sciego.

      Agitu, originally from Addis Ababa, was born into a tribe of nomadic shepherds. She went to Rome to study Sociology when she was 18 years old and returned to Ethiopia. However, she left her country again in 2010, fleeing threats for her commitment by denouncing “land grabbing” by multinationals.

      In Italy, in Valle dei Mocheni, Trentino, she began to preserve a goat species in extinction, the #Mochena goat.

      An example of female entrepreneurship, she set up the company “La capra felice” (The happy goat) producing cheeses and cosmetic products with goat’s milk.

      She has become an example of organic and sustainable production.

      Agitu’s work has been recognized throughout Italy, her story published in many medias, she attended different events and has been rewarded for her commitment to preserving goats and her production of organic products. One of the awards was the Slow Cheese Resistenza Casearia award, in 2015.

      It was not the first time that Agitu had her life under threat in the hands of men. She publicly denounced her neighbour for stalking, racially motivated threats and aggression. For months she was threatened by a man and one of the reasons was that she offered work and apprenticeship for refugees from African origins. “This neighbour does not like the colour of our skin and does what it can to create confusion,” she said at an interview.

      On December 29, her life was taken by a man who worked for her, shepherding her goats. According to him, for financial reasons. The man confessed to the crime and also revolted that he had committed rape after the attack. The man beat her in her head with a hammer. He was arrested.

      Agitu was found lifeless after friends called the police because they thought it was strange that she didn’t come to a meeting and didn’t answer the phone.

      The murder is a tragic end for a woman who brought so many good things into the world.

      Until when will we lose our sisters to violence?

      Rest in peace Agitu. We will never forget your legacy.

      https://migrantwomenpress.com/agitu-ideo-gudeta-murdered/amp/?__twitter_impression=true

      #montagne

    • Grâce à une amie qui connaissait Agitu je viens de connaître une autre facette de cette histoire. Un drame dans le drame, dont je ne peux/veux pas parler ici.

    • Le féminicide d’Agitu Ideo Gudeta choque l’Italie

      Ce 29 décembre, Agitu Ideo Gudeta, une réfugiée éthiopienne de 42 ans, a été retrouvée morte à son domicile, dans le nord de l’Italie, annonce La Repubblica. Elle était connue dans tout le pays grâce à son activité, couronnée de succès, d’éleveuse de chèvres et avait été à de nombreuses reprises médiatisée.

      Une célèbre bergère

      Selon le quotidien local Il Dolomiti, Agitu Gudeta était devenue « la bergère la plus célèbre des vallées du Trentin ». Et son histoire n’était pas banale. En 2010, elle avait dû fuir l’Éthiopie à cause de son activité de militante environnementaliste. Elle subissait des menaces de poursuites judiciaires et des menaces de mort car elle s’opposait à l’accaparement des terres par certaines multinationales.

      A 30 ans, toute seule dans un nouveau pays et dans la région réputée inhospitalière du Trentin, elle avait commencé une autre vie, avec ses 180 chèvres et sa propre entreprise prospère de fromages bio baptisée « La Capra Felice », la chèvre heureuse. Elle avait choisi de protéger une espèce rare, la chèvre Mochena, qui survit dans cette vallée isolée.
      Insultes et menaces racistes

      Avec sa réussite, c’est à d’autres menaces qu’elle avait dû faire face : des menaces et insultes racistes de la part de ses voisins. Elle avait été agressée physiquement également. Elle avait porté plainte contre l’un d’eux qui avait été condamné en janvier à 9 mois sous liberté conditionnelle.

      https://www.youtube.com/watch?v=CF0nQXrEJ30&feature=emb_logo

      https://www.rtbf.be/info/dossier/les-grenades/detail_le-feminicide-d-agitu-ideo-gudeta-choque-l-italie?id=10664383

    • Trentino, uccisa in casa Agitu Gudeta, la rifugiata etiope simbolo dell’integrazione

      Scappata dal suo Paese, aveva fondato l’azienda agricola «La capra felice» nella Valle dei Mocheni dove allevava animali a rischio di estinzione.

      L’hanno trovata senza vita all’interno della sua casa di Frassilongo (Trentino), colpita con violenza alla testa. Un omicidio, hanno confermato i carabinieri che nel tardo pomeriggio sono giunti sul posto, chiamati dai vicini e stanno lavorando per ricostruire l’accaduto.

      È finito così - forse con un colpo di martello - il sogno di Agitu Ideo Gudeta, pastora etiope che avrebbe compiuto 43 anni il giorno di Capodanno e che si era data l’obiettivo di salvare dall’estinzione (e anche dagli attacchi dell’orso) la capra mochena, una specie che sopravvive in una valle isolata della Provincia di Trento dove la donna aveva trovato casa.

      Ma il suo problema - aveva denunciato un paio di anni fa - più che gli orsi erano i vicini: «Mi insultano, mi chiamano brutta negra, dicono che me ne devo andare e che questo non è il mio posto» aveva denunciato ai carabinieri, raccontando anche pubblicamente la sua storia. Le indagini perà si concentrerebbero su un giovane africano dipendente dell’azienda ’La Capra Felice’. A quanto pare, l’uomo - che non è quello che l’aveva minacciata ed aggredita - avrebbe avuto dissidi con Agitu per motivi economici. A dare l’allarme ai carabinieri sono stati alcuni vicini a loro volta chiamati da un uomo con il quale la vittima aveva un appuntamento al quale non si era presentata.

      Sul caso delle minacce arrivò la solidarietà del presidente della giunta provinciale, all’epoca Ugo Rossi: «Il fatto che Agitu, da rifugiata, abbia avviato la sua attività agricola sul nostro territorio dimostra che il Trentino crede nell’accoglienza e nella solidarietà». Una storia di minacce e danneggiamenti, finita in tribunale con la condanna a 9 mesi per lesioni di un uomo del posto che aveva sempre liquidato la faccenda come una lite fra vicini: «Il razzismo non c’entra». La donna quindi aveva ripreso a girare i mercati del Trentino per vendere i prodotti realizzati con il latte delle sue cinquanta capre, con il furgone che sulla fiancata riportava il nome dell’azienda agricola: «La capra felice».

      Agitu Gudeta era fuggita in Italia nel 2010 e aveva ottenuto lo status di rifugiata e dopo qualche anno era riuscita ad avviare la sua azienda agricola a Frassilongo scommettendo sulle capre mochene. Nel 2017 aveva partecipato all’incontro «Donne anche noi», raccontando la sua storia di migrante arrivata in Italia. Originaria della capitale Addis Abeba, era stata costretta a lasciate l’Etiopia perché a causa del suo impegno contro l’accapparramento delle terre da parte di alcune multinazionali era stata oggetto di minacce di morte.

      https://www.repubblica.it/cronaca/2020/12/29/news/trentino_trovata_morta_agitu_gudeta_donna_42enne_simbolo_di_integrazione_

    • Tributes paid to Ethiopian refugee farmer who championed integration in Italy

      Agitu Ideo Gudeta, who was killed on Wednesday, used abandoned land to start a goat farming project employing migrants and refugeesTributes have been paid to a 42-year-old Ethiopian refugee and farmer who became a symbol of integration in Italy, her adopted home.

      Agitu Ideo Gudeta was attacked and killed, allegedly by a former employee, on her farm in Trentino on Wednesday.

      Gudeta had left Addis Ababa in 2010 after angering the authorities by taking part in protests against “land grabbing”. Once in Italy, she tenaciously followed and realised her ambition to move to the mountains and start her own farm. Taking advantage of permits that give farmers access to abandoned public land in depopulated areas, she reclaimed 11 hectares (27 acres) around an old barn in the Mòcheni valley, where she founded her La Capra Felice (The Happy Goat) enterprise.

      Gudeta started with a herd of 15 goats, quickly rising to 180 in a few years, producing organic milk and cheese using environmentally friendly methods and hiring migrants and refugees.

      “I created my space and made myself known, there was no resistance to me,” she told Reuters news agency that year.

      “Agitu brought to Italy the dream she was unable to realise in Ethiopia, in part because of land grabbing,” Gabriella Ghermandi, singer, performer, novelist and friend of Gudeta, told the Guardian. “Her farm was successful because she applied what she had learned from her grandparents in the countryside.

      “In Italy, many people have described her enterprise as a model of integration. But Agitu’s dream was to create an environmentally sustainable farm that was more than just a business; for her it also symbolised struggle against class divisions and the conviction that living in harmony with nature was possible. And above all she carried out her work with love. She had given a name to each one of her goats.”

      In a climate where hostility toward migrants was increasing, led by far-right political leaders, her success story was reported by numerous media outlets as an example of how integration can benefit communities.

      “The most rewarding satisfaction is when people tell me how much they love my cheeses because they’re good and taste different,” she said in an interview with Internazionale in 2017. “It compensates for all the hard work and the prejudices I’ve had to overcome as a woman and an immigrant.”

      Two years ago she received death threats and was the target of racist attacks, which she reported to police, recounting them on her social media posts.

      But police said a man who has confessed to the rape and murder of the farmer was an ex-employee who, they said, allegedly acted for “economic reasons”.

      The UN refugee agency said it was “pained” by Gudeta’s death, and that her entrepreneurial spirit “demonstrated how refugees can contribute to the societies that host them”.

      “Despite her tragic end, the UNHCR hopes that Agitu Ideo Gudeta will be remembered and celebrated as a model of success and integration and inspire refugees that struggle to rebuild their lives,” the agency said.

      “We spoke on the phone last week’’, said Ghermandi. “We spent two hours speaking about Ethiopia. We had plans to get together in the spring. Agitu considered Italy her home. She used to say that she had suffered too much in Ethiopia. Now Agitu is gone, but her work mustn’t die. We will soon begin a fundraising campaign to follow her plan for expanding the business so that her dream will live on.”

      Gudeta would have turned 43 on New Year’s Day.

      https://www.theguardian.com/global-development/2021/jan/01/tributes-paid-to-ethiopian-refugee-farmer-who-championed-integration-in

    • Dalla ricerca di eroi alla costruzione di progetti comunitari. Perché è importante cambiare narrazione

      Del bisogno di eroi

      La storia del passato, così come la cronaca quotidiana, pullula di storie di eroi che troneggiano nell’immaginario collettivo. Quello di eroi ed eroine è un bisogno antico, che riflette la necessità di costruire cognitivamente il mondo reale per mezzo di narrative che ci permettano di affidare ruoli e connotati chiari a singoli individui e gruppi sociali, soddisfacendo il nostro bisogno di certezze che affonda le radici tanto nella mitologia classica quanto nel pensiero cristiano e che sostengono la costruzione della nostra moralità culturale e senso dell’etica.

      Si tratta però di un bisogno che è ancora largamente presente nelle società contemporanee, a dispetto dei progressi indotti dal processo di formazione del diritto moderno, che ha portato a distinguere in maniera netta tra ciò che è lecito e ciò che lecito non è. Questo processo non è infatti riuscito, se non in astratto attraverso artifici teorici, a superare la dimensione individualistica (Pisani, 2019). Di qui il perdurare del bisogno di eroi, che continua a essere percepito come rilevante perché offre un’efficace e facile via di fuga. Consente, talvolta inconsapevolmente, di banalizzare situazioni e fenomeni complessi, interpretarli in maniera funzionale alla nostra retorica e giustificare l’inazione.

      Se l’obiettivo è però innescare profondi cambiamenti sociali all’insegna di una maggiore giustizia sociale e lotta alle profonde disuguaglianze del nostro tempo, allora non è di singoli eroi che si dovrebbe andare alla ricerca, ma di una diversa narrazione che faccia assegnamento sull’impegno autentico delle comunità. Comunità locali che sono sempre più chiamate a svolgere un ruolo rilevante nella costruzione sia di sistemi di welfare di prossimità, sia di nuovi modelli di produzione a larga partecipazione, in risposta a una pluralità di bisogni e sfide incompiute che spaziano dall’inclusione di persone vulnerabili fino alla gestione di beni comuni come la salute, il territorio, l’energia.[1]

      Quest’articolo prende le mosse da una convinzione di fondo. Nonostante il ruolo importante che svolgono nel generare benessere sociale, le comunità locali stentano ad essere riconosciute come protagoniste di un processo di cambiamento.

      Responsabile della loro scarsa visibilità e incisività non è solo l’insufficiente riconoscimento politico, ma anche una narrazione incoerente di cui si fanno sovente portatrici anche le organizzazioni di terzo settore che gli interessi delle comunità promuovono. Una narrazione spesso incentrata sul culto di singole personalità che, mettendo in ombra l’ancoraggio comunitario, rischia di incrinare l’impatto generativo del terzo settore.

      Dopo una riflessione sul perché bisognerebbe diffidare delle narrazioni idealizzate e sugli effetti del pathos degli eroi, l’articolo si sofferma su un caso specifico, quello di Agitu Ideo Gudeta, assassinata sul finire del 2020 da un suo collaboratore. Quindi, prendendo le mosse da questa drammatica vicenda, gli autori si soffermano sulle ragioni che farebbero propendere per la sostituzione degli eroi con progetti collettivi, sollecitando le organizzazioni di terzo settore, in primis, a cambiare narrazione.
      Pathos degli eroi

      Gli esempi di persone, professionisti e politici che sono stati idealizzati in virtù di reali o presunti talenti o gesta sono molteplici e coinvolgono frange della società civile – sia conservatrici e reazionarie, sia progressiste – così come il mondo della politica. Eroi che, spesso in virtù di altrettante semplificazioni, da figure mitologiche sono stati di punto in bianco trasformati in demoni o in capri espiatori, lasciando volutamente in ombra la complessità dei contesti, le relazioni, le fragilità, le emozioni e i comportamenti, spesso controversi, che accompagnano ogni essere umano, sia nei momenti di gloria, sia in quelli più bui.

      Nell’ambiente conservatore spicca la parabola di Vincenzo Muccioli, santificato negli anni ’80 come salvatore di migliaia di giovani spezzati dall’eroina, e poi demonizzato dai mezzi di informazione, prescindendo da un’analisi approfondita della sua controversa iniziativa. Tra gli esempi di persone e professionisti che sono stati santificati e poi travolti da un’onda di retorica colpevolista vi sono gli infermieri e i medici, celebrati come supereroi allo scoppio della pandemia Covid-19, passati nel secondo lockdown ad essere additati come appestati e untori, quando non complici di una messa in scena.[2]
      Emblematico è anche il caso dei volontari, portati puntualmente alla ribalta della cronaca come angeli durante catastrofi e crisi naturali, per poi svanire nel nulla in tempi non emergenziali, a dispetto del loro prezioso contributo quotidiano per migliorare la qualità della vita delle persone più vulnerabili.[3]
      Con riferimento all’ambiente più militante e progressista si distingue Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, passato dall’essere innalzato a mito dell’accoglienza dalla stampa e dal sistema SPRAR, in virtù dell’esperienza pionieristica sperimentata dal suo Comune, a essere abbandonato e attaccato da una parte dei media. Il cambio di atteggiamento nei confronti di Lucano coincide con la controversa vicenda giudiziaria che lo vede coinvolto per favoreggiamento dell’immigrazione e per la gestione di progetti di accoglienza, dopo che il suo Comune è stato per anni pressato dal Viminale e dalla Prefettura affinché ospitasse un gran numero di richiedenti asilo, rifiutati da altri progetti di accoglienza (Procacci, 2021). Nel mondo della politica istituzionale primeggia l’attuale santificazione di Mario Draghi, acclamato come unico possibile salvatore di un Paese al collasso dopo essere stato considerato un simbolo dei poteri finanziari forti negli anni della crisi economica globale (Dominjanni, 2021).
      Perché diffidare degli eroi?

      Le ragioni che portano a diffidare degli eroi sono molteplici. I riflettori accesi esclusivamente sulla dimensione dell’eccellenza[4]
      distolgono l’attenzione da tutto ciò che condiziona le azioni dell’eroe, come i contesti istituzionali e ambientali, incluso il bagaglio di risorse, non solo economiche ma anche sociali e culturali, su cui il singolo fa assegnamento. A influenzare i percorsi che portano alle presunte gesta eccezionali di chi viene incoronato come eroe, ci sono comunità e organizzazioni, più o meno coese, composte da una pluralità di individui che si relazionano tra di loro per contribuire, in base al ruolo ricoperto, al raggiungimento di obiettivi condivisi. Anche le scelte dell’imprenditore più autoritario e accentratore, sono condizionate dalle persone e dall’ambiente con cui è interconnesso. Il potenziale innovativo non è quindi un dono che gli dei fanno a pochi eletti (Barbera, 2021), ma un processo complesso che per essere compreso appieno presuppone un’analisi articolata, che ricomprende una pluralità di elementi economici, sociali e relazionali. Elementi che le analisi fondate sugli eroi nella maggior parte dei casi ignorano, riconducendo sovente il successo dell’iniziativa idealizzata esclusivamente a un’intuizione del singolo.

      A fomentare una narrazione personalistica ha contribuito lo storytelling che ha fatto dell’innovazione il mantra dominante (Barbera, 2021). Responsabile è principalmente la retorica di stampo neoliberista, incentrata sul mito dell’imprenditore individuale, che ha assoggettato la maggior parte dei campi del sapere, arrivando a giustificare le disuguaglianze poiché conseguenti a un processo liberamente accettato dove ognuno ha pari opportunità di accesso al mercato e alla proprietà (Piketty, 2020). Di qui la riconversione del cittadino in homo oeconomicus, orientato non più allo scambio come nel liberismo classico, bensì alla valorizzazione di sé stesso in quanto capitale umano (Dominjianni, 2017). Una parte della letteratura sul management del terzo settore ha introiettato questa logica, proiettandola nella figura eroica dell’imprenditore sociale (Waldron et al., 2016; Miller et al., 2012; Dacin et al., 2011; Short et al., 2009; Zahra et al., 2009; Bornstein, 2007; Martin, Osberg, 2007; Austin et al., 2006).[5]
      Sottolineando il connubio tra tratti etici e competenze creative e leadership, che permetterebbero all’imprenditore sociale di assumersi i rischi necessari a raggiungere obiettivi sociali straordinari, questa letteratura ha trascurato i processi organizzativi e decisionali che sono alla base del funzionamento delle diverse organizzazioni (Petrella, Battesti, 2014).

      Il culto degli eroi ha così contribuito ad allontanare l’attenzione da alcune caratteristiche precipue di associazioni e cooperative, tra cui in primis l’adozione di modelli di governo inclusivi ad ampia partecipazione, che dovrebbero favorire il coinvolgimento di una pluralità di portatori di interesse nei processi decisionali, in rappresentanza dei diversi gruppi sociali che abitano un territorio (Sacchetti, 2018; Borzaga e Galera, 2016; Borzaga e Sacchetti, 2015; Defourny e Borzaga, 2001).[6]
      Ciò si verifica, ad esempio, quando una organizzazione di terzo settore costituita su basi democratiche, è identificata con il nome di un singolo eroe: un fondatore, un religioso che – anche quando non ricopra effettivamente cariche formali apicali – si riconosce come ispirazione e figura carismatica. Sono casi in cui talvolta il percorso di sviluppo dell’ente passa in secondo piano rispetto a quello di un singolo individuo il cui nome è di per sé evocativo dell’intera organizzazione.
      Gli effetti delle narrazioni eroicizzate

      L’immediata spendibilità comunicativa delle narrazioni fondate su figure eroiche spiega perché esse siano largamente preferite da una parte rilevante della politica, da molti osservatori e dalla quasi totalità degli operatori dell’informazione rispetto a studi analitici volti a comprendere i fenomeni sociali e a rendere conto ai cittadini e agli attori esterni delle scelte di policy compiute. Di qui l’incapacità di comprendere le problematiche che affliggono la società contemporanea e la proiezione artificiale in una figura erta a simbolo, non senza implicazioni negative.
      Allontanano dall’individuazione di possibili soluzioni

      Oltre a offuscare il contesto di appartenenza, la retorica dell’azione straordinaria allontana l’attenzione da quello che dovrebbe essere il corretto funzionamento di qualsiasi sistema, a livello macro, così come a livello micro. Nelle narrazioni incentrate sugli eroi non c’è spazio né per analisi valutative comparate, né tantomeno per riflessioni su come dovrebbe funzionare, ad esempio, un’organizzazione.

      Scoraggiando la correttezza analitica su temi di rilevanza pubblica e disincentivando qualsiasi tipo di studio volto a misurare l’efficacia di singole iniziative di welfare o il loro impatto sull’occupazione e il benessere della collettività, le narrazioni eroicizzate impediscono di indagare la realtà in maniera approfondita. Di conseguenza, non consentono di comprendere le implicazioni, non solo economiche ma anche in termini di efficacia, che sono connesse alle diverse soluzioni di policy.

      La tendenza ad analizzare la realtà in maniera superficiale, spesso in nome di un’imperante “politica del fare”, ci allontana quindi dall’individuazione di possibili soluzioni ai problemi che affliggono le società contemporanee. I riflettori accesi su una singola esperienza nel campo delle dipendenze hanno per molto tempo impedito un confronto serio sull’efficacia degli interventi di riabilitazione sperimentati dalle diverse realtà di accoglienza, non solo in termini di disintossicazione, ma anche di reinserimento nel tessuto sociale delle persone accolte. L’esaltazione della figura di Vincenzo Muccioli ha contribuito a trascurare negli anni ‘80 le oltre 300 iniziative di accoglienza di tossicodipendenti che in quegli stessi anni stavano sperimentando percorsi di riabilitazione alternativi basati sull’ascolto individuale, la responsabilità e la condivisione comunitaria. Realtà che, basandosi su uno scambio tra contributi volontari e competenze professionali (sociologici, psicologi, educatori, psichiatri, ecc.), prendevano le mosse a partire dall’esperienza di organizzazioni già radicate come il Gruppo Abele, San Benedetto al Porto e la Comunità di Capodarco, così come nuove esperienze, tra cui il Ceis, Exodus, Saman, Villa Maraini a Roma e la comunità Betania a Parma (De Facci, 2021). Tra le tante comunità di accoglienza e recupero nate tra gli anni ’70 e ’80, particolarmente interessante è quella trentina di Camparta, che è stata recentemente raccontata da alcuni dei suoi protagonisti. Promossa su iniziativa di uno psicoterapeuta d’impronta basagliana e animata da ideali libertari e comunitari, Camparta ha sperimentato un metodo di riabilitazione olistico, fondato su un percorso di ricerca interiore, confronto e rifondazione culturale a tutto campo (I ragazzi di Camparta, 2021).

      La narrazione fortemente polarizzata tra posizioni idealizzate pro e anti migranti continua a impedire un’analisi rigorosa e sistematica del fenomeno migratorio che possa fornire utili indicazioni di policy su come andrebbe gestita l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati entro una visione di sviluppo locale piuttosto che secondo una logica emergenziale. L’idealizzazione di Mimmo Lucano ha distolto l’attenzione dalle tante altre esperienze di accoglienza di cui l’Italia è ricca. Iniziative che, prendendo in alcuni casi ispirazione dall’iniziativa pionieristica di Riace, hanno saputo innescare processi di sviluppo a livello locale grazie ad una proficua collaborazione tra enti di terzo settore e enti locali (Galera, Borzaga, 2019; Lucano, 2020).

      Coprendo le nefandezze e le carenze di un sistema sanitario al collasso, la celebrazione di medici e infermieri come angeli durante il primo lockdown ha ritardato una riflessione quanto mai necessaria su come dovrebbe essere riformato il sistema sanitario per renderlo maggiormente in grado di gestire le attuali sfide socio-sanitarie, così come quelle all’orizzonte per effetto dell’allevamento industriale intensivo, del massiccio impiego di antibiotici in allevamento e dei cambiamenti climatici (Galera, 2020; Tamino, 2020).

      A livello organizzativo, le narrazioni incentrate sull’azione straordinaria degli eroi imprenditori incoraggiano sistematicamente sia l’adozione di strumenti di management, sia l’adesione a culture organizzative che, svilendo la componente della partecipazione, indeboliscono la capacità del terzo settore di incidere a livello locale; e influenza, in modo negativo, pure le politiche, laddove, ad esempio nelle scelte di finanziamento, venga privilegiata l’idea “innovativa”[7]
      rispetto alla capacità di costruire legami di comunità e di rafforzare soggetti collettivi e inclusivi.

      A livello di sistema, l’impatto generativo del terzo settore è nondimeno minato dall’incapacità – insita in ogni idealizzazione – di discernere tra elementi non trasferibili, perché legati a particolari condizioni congiunturali e di contesto favorevoli, ed elementi “esportabili”. Tra questi, ad esempio, modelli di servizio, strumenti di lavoro, strategie di collaborazione o forme dell’abitare che, essendo stati sperimentati con esiti positivi, potrebbero essere modellizzati e replicati su più ampia scala, qualora liberati dal giogo dell’eroe.
      Forniscono l’alibi per rifugiarsi nell’inazione

      Tra i gruppi idealizzati rientrano i volontari e gli operatori impegnati in prima linea nelle situazioni emergenziali generate da catastrofi naturali. Nel caso dei volontari, la tendenza predominante è mitizzarne il coinvolgimento durante le emergenze e ignorarne sistematicamente il contributo nella vita quotidiana a sostegno delle persone più vulnerabili o del territorio che abitiamo per contenerne la fragilità.

      Tra gli esempi di mobilitazioni di volontari idealizzate vi sono quelle avvenute in occasione di nubifragi e terremoti. Tra queste l’alluvione che nel 1966 cosparse Firenze di acqua e fango, causando gravissimi danni sia alle persone sia al patrimonio artistico (Silei, 2013). Ulteriori esempi di mobilitazioni comunitarie sono rappresentati dal terremoto del 2012 in Emilia e dall’alluvione di Genova nel 2014. Catastrofi naturali che hanno attivato una catena di solidarietà in grado di compensare, almeno in parte, l’assenza di un’organizzazione centralizzata capace di gestire opportunamente le emergenze.

      L’uso di espressioni improprie come “angeli” e “eroi” mette tuttavia in ombra la normalità dell’azione di milioni di cittadini che nelle associazioni o individualmente nei loro posti di lavoro, in strada o su internet, chiedono l’attenzione delle istituzioni, anche prima delle emergenze, denunciano gli abusi e si battono per i propri diritti (Campagna #nonsonoangeli, 2014).[8]
      La mitizzazione dei volontari nei momenti di crisi non solo svilisce il loro prezioso contributo nella quotidianità. Appigliandosi al pretesto che l’impegno sia appannaggio di pochi eletti, l’idealizzazione offre ai così detti “cittadini ordinari” l’alibi per rifugiarsi nell’inazione.
      Scoraggiano la costruzione di un sistema valoriale alternativo

      Il pathos suscitato dagli eroi offre nondimeno la scorciatoia per non impegnarsi nella costruzione di un sistema valoriale coerente con i principi e i valori dichiarati. Il sistema di riferimenti valoriali riprodotto dall’eroe permette, infatti, di aggregare consenso in maniera immediata, senza alcuna fatica. Diversamente, un percorso di produzione valoriale sociale in grado di innescare cambiamenti consapevoli richiederebbe sia un impegno rilevante in termini di ascolto, confronti e negoziazioni volti a tracciare un itinerario di azione condiviso, sia tempi considerevoli.

      Di qui l’effimera illusione che l’eroe, consentendo di conseguire approvazione e sostegno nel breve termine, possa aiutarci a sostenere il nostro sistema valoriale in maniera più efficace. Le storie di eroi ci mostrano, invece, come i sistemi basati sull’idealizzazione siano nel medio e lungo periodo destinati a produrre l’effetto contrario. Creando una frattura netta tra gli eroi e i non eroi, influenzano in senso antisociale i comportamenti collettivi e individuali (Bonetti, 2020). E così facendo, ci allontanano da quello che dovrebbe essere il modello di società più rispondente al sistema valoriale che vorremmo promuovere.
      Incoraggiano la polarizzazione tra “buoni” e “cattivi”

      Di conseguenza, oltre a non contribuire a risolvere spinosi problemi sociali, le narrazioni idealizzate favoriscono una polarizzazione tra “buoni” e “cattivi” in cui le posizioni contrapposte si alimentano a vicenda, compromettendo il dialogo e la gestione dei conflitti.

      La tendenza a polarizzare è una prassi diffusa nel settore dell’informazione, incline a esaltare o distruggere personaggi simbolo (Sgaggio, 2011), così come tra opinionisti, osservatori, ricercatori, esperti e tra le organizzazioni della società civile.

      Quella della polarizzazione e categorizzazione è tuttavia una tendenza a cui siamo tutti soggetti, spesso inconsapevolmente. Siamo attratti maggiormente da notizie e informazioni che siano in grado di confermare le nostre interpretazioni del mondo, mentre siamo respinti magneticamente da tutto ciò che mette in discussione le nostre certezze o alimenta dubbi. Elaborare messaggi che si allineano con le nostre ideologie richiede, non a caso, uno sforzo cognitivo considerevolmente minore rispetto alla messa in discussione delle nostre sicurezze (Michetti, 2021).

      L’inclinazione a semplificare e categorizzare è in una certa misura una reazione incontrollata, indotta dall’esigenza di difenderci dal bombardamento di informazioni a cui siamo sottoposti sistematicamente. Una reazione che rischia di essere esasperata dallo stato emotivo di vulnerabilità a livello individuale e collettivo in cui ci troviamo a causa della pandemia. L’essere più fragili ci rende, infatti, più facilmente preda di abbagli e simboli in cui proiettare paure, ambizioni e desideri di cambiamento in positivo.
      Esasperano le fragilità delle persone idealizzate

      In mancanza della consapevolezza di essere oggetto di idealizzazione, la mitizzazione può avere conseguenze deleterie anche sulla persona idealizzata. Come alcune storie di eroi ci mostrano, l’idealizzazione può portare a una progressiva esasperazione di fragilità latenti e, nei casi estremi, a una dissociazione cognitiva. Di qui lo sviluppo – nelle persone borderline – di disturbi narcisistici e megalomani, che possono accelerare la caduta del mito, sempre al varco quando vi è un processo di santificazione in atto.[9]

      A prescindere dall’evoluzione dell’idealizzazione, delle competenze, talenti o accuse di cui può essersi macchiato il presunto eroe, si tratta di un percorso a termine, nella maggior parte dei casi destinato a lasciare spazio alla solitudine non appena la stagione della gloria si esaurisce, talvolta accompagnata dalla dissacrazione della figura dell’eroe.
      Il caso della pastora Agitu Ideo Gudeta e della “Capra Felice”

      La recente idealizzazione della pastora etiope Agitu Ideo Gudeta, titolare dell’azienda agricola “La Capra Felice”, esaltata a seguito della sua uccisione, confermano il bisogno compulsivo di eroi che affligge una rilevante fetta di società, in questo caso quella più militante e attenta alla giustizia sociale, ai valori della solidarietà e dell’antirazzismo. La sua storia è molto conosciuta.

      Agitu Ideo Gudeta nasce nel 1978 in Etiopia. Emigra in Italia per motivi di studio ma, appena laureata, torna nella sua terra d’origine per combattere contro il land-grabbing. Dopo aver ricevuto pesanti minacce per il suo impegno contro le multinazionali, rientra come rifugiata in Italia e avvia in Trentino un allevamento di ovini di razza pezzata mòchena, una specie autoctona a rischio di estinzione, e un caseificio, La Capra Felice, i cui prodotti biologici e gli intenti ambientalisti la portano ad ottenere riconoscimenti anche da Slow Food e da Legambiente. Per la sua attività Agitu Ideo Gudeta recupera un pascolo di oltre 10 ettari in stato di abbandono e occupa nel corso degli anni numerosi giovani richiedenti asilo e rifugiati.

      Quello di Agitu Ideo Gudeta è un racconto ineccepibile di cui tanti attivisti si sono innamorati, estrapolando pezzi della sua storia che calzavano a pennello con la loro retorica. Il suo percorso ha trovato terreno fertile nelle narrazioni sull’inclusione, nelle analisi di buone pratiche di imprenditoria migrante e femminista, nelle storie di rivitalizzazione di aree interne, negli esempi di recupero di specie animali autoctone a rischio di estinzione, e nella lotta contro il land-grabbing.

      La maggior parte delle analisi, in particolare quelle realizzate dopo la sua uccisione, si è tuttavia limitata ad una descrizione superficiale che ha sottovalutato le caratteristiche di un contesto contraddistinto da una molteplicità di sfide e criticità legate in primo luogo al settore di attività, la pastorizia, notoriamente a rischio di sfruttamento per le caratteristiche intrinseche a tutte le attività agricole. Si tratta di attività esposte a una molteplicità di fattori di incertezza; a quelli produttivi e di mercato si aggiungono rischi climatici, ambientali e istituzionali legati al cambio di normative e regolamenti, che condizionano fortemente le entrate economiche, specie delle aziende agricole di piccole dimensioni.

      Tra le caratteristiche di contesto rientra anche il tipo di territorio: la Valle Dei Mòcheni, un’area alpina periferica dove esistono ancora regole antiche che governano i rapporti tra i membri della comunità. Infine, un ulteriore elemento di complessità è legato alla tipologia di lavoratori impiegati dalla Capra Felice: richiedenti asilo e rifugiati, ovvero persone fragili che mostrano, in generale, un’alta vulnerabilità spesso dovuta a disturbi post-traumatici da stress (Barbieri, 2020).[10]
      Queste sfide e criticità si sono intrecciate con le difficoltà legate a un processo di sviluppo imprenditoriale che la Capra Felice ha intrapreso in un momento di grave instabilità e recessione economica.

      A dispetto delle drammatiche circostanze in cui i fatti si sono svolti, la retorica che potremmo chiamare della beatificazione seguita all’uccisione di Agitu Ideo Gudeta non ha lasciato alcuno spazio alla riflessione critica. Non solo le istituzioni pubbliche e gli operatori dell’informazione, ma anche molti politici e organizzazioni di terzo settore si sono rifugiati nella facile consacrazione dell’eroina, piuttosto che interrogarsi sulle fragilità dell’ambiente in cui Agitu Ideo Gudeta operava, sulle difficoltà incontrate da lei e dai suoi collaboratori, e persino sulle concause che potrebbero aver portato alla sua uccisione.

      Mentre si sono sprecate le parole per “eroicizzarla”, nessuno si è interrogato sulla qualità del lavoro, sul tipo di relazione lavorativa che la Capra Felice instaurava con i giovani richiedenti asilo e sull’esito dei loro percorsi di integrazione.

      Chi erano e che ruolo avevano i collaboratori della Capra Felice? Quanti richiedenti asilo hanno lavorato nel corso degli anni e in che misura e da chi erano seguiti nei loro percorsi di inclusione? Qual era il turn over dei lavoratori stranieri? Che rapporto avevano i collaboratori della Capra Felice con il territorio e la comunità locale? Dove vivono e lavorano ora gli ex lavoratori? Nel caso di lavoratori particolarmente fragili, qual era il ruolo dei servizi sociali e sanitari? Il percorso di sviluppo imprenditoriale della Capra Felice è stato seguito da qualche incubatore di impresa e, in caso negativo, perché no?

      Queste sono solo alcune delle domande su cui si sarebbe dovuto a nostro avviso interrogare qualsiasi osservatore non superficiale, interessato a comprendere e a sostenere i percorsi di accoglienza e inclusione sociale e lavorativa delle persone fragili.
      Progetti collettivi al posto di eroi e eroine

      La storia tragica di Agitu Ideo Gudeta sembra essere anche la storia di una società debole e fallimentare nel suo complesso, non solo di un’onda retorica che ha attraversato i mezzi di informazione e i social network per creare al suo centro l’eroina.

      Il fatto che la sua morte abbia generato un bisogno di santificazione e una gogna mediatica nei confronti dell’accusato, invece che sollecitare cordoglio e un esame di coscienza collettiva, smaschera un vuoto su cui forse varrebbe la pena riflettere.

      Un vuoto che può essere riempito solo con azioni concrete e durevoli, che siano il frutto di progetti collettivi a livello comunitario. A questo scopo, servono iniziative di autentica condivisione che aiutino a governare la complessità, a riconoscere le situazioni di fragilità e a prevenire e gestire i conflitti che inevitabilmente abitano i contesti sociali (Sclavi, 2003). A supporto di queste iniziative, c’è bisogno di una nuova narrazione, autentica e costruttiva, che sia innanzi tutto capace di apprendere dagli errori e dai fallimenti affinché le falle del nostro tessuto sociale non permettano più il perpetrarsi di simili tragedie. Quindi, una narrazione che non rifugge il fallimento e non lo percepisce come un pericolo da mascherare a qualsiasi costo, ma come un’opportunità di crescita e di cambiamento.

      Rispetto a quella che nutre gli eroi, è un tipo di narrazione di senso, incline ad alimentare una responsabilità collettiva e una nuova consapevolezza sociale, che può favorire un ribaltamento valoriale in senso solidale. È però una narrazione molto più faticosa da sviluppare. Presuppone, infatti, un’azione collettiva impegnativa in termini di relazioni, negoziazioni e confronti, che deve giocoforza poggiare sulla creazione di spazi di aggregazione e di collaborazione. Questa nuova narrazione non può che nascere da un rinnovato impegno civico di ciascuno di noi, in quanto cittadini responsabili che, praticando la solidarietà, prefigurano un cambiamento e un futuro possibile dove la cittadinanza attiva non è l’eccezione ma la costante.[11]

      Di qui la necessità di sostituire l’emulazione verbale e la ben sedimentata narrativa dell’eroe, normativamente accettata da un uso millenario, con un nuovo ordine normativo significante della realtà.
      Come sostenere la creazione di comunità accoglienti e inclusive

      La crisi della democrazia rappresentativa, la sfiducia nei partiti e l’allontanamento dalla politica hanno da tempo acceso i riflettori sulla società civile, organizzata e non, in quanto spazio di discussione e confronto, finalizzato non solo ad elaborare efficaci strategie in risposta a bisogni sempre più complessi, ma anche a prevenire e gestire le fragilità umane e i conflitti tra gruppi sociali contrapposti.

      Di fronte alla crisi epocale dei modelli politici e produttivi tradizionali, sono sempre più numerosi i dibattiti su come, in quale misura e attraverso quali strumenti, le comunità locali possano intervenire concretamente sulle profonde disuguaglianze economiche, sociali, territoriali che affliggono il nostro Paese, ribaltando i paradigmi dominanti e innescando cambiamenti profondi a vantaggio dei più deboli e della collettività.

      La storia, quella più lontana e quella più recente, ci mostra come spesso la forza della comunità risieda nel bagaglio di valori, tradizioni e relazioni fiduciarie, che sono radicati nel tessuto sociale e vissuto collettivo. Ed è questo bagaglio relazionale e valoriale che ha permesso in moltissimi casi alle comunità di sopravvivere e rigenerarsi nel corso della storia, spesso a seguito di eventi traumatici come calamità naturali, crisi economiche e sanitarie. Ma la storia ci riporta anche molti esempi di comunità in cui la valorizzazione delle identità locali ha originato fenomeni di chiusura particolaristica. Comunità esclusiviste che si sono e in molti casi continuano a identificare l’altro con il male (Bonomi, 2018; Langer, 1994).

      La comunità locali sono, quindi, lontane dall’essere sempre e comunque virtuose.

      Cosa fa pertanto la differenza tra una comunità e l’altra? Per diventare accoglienti e inclusive, le comunità devono potersi esprimere attraverso quelle organizzazioni della società civile che sono proiettate verso il bene comune e si avvalgono del coinvolgimento di una pluralità di portatori di interesse, in rappresentanza dei diversi pezzi di società che abitano un territorio. Sono quindi le organizzazioni di terzo settore maggiormente radicate sul territorio che andrebbero sostenute dalle politiche pubbliche all’interno di una cornice collaborativa in cui, anziché gestire prestazioni per conto dell’ente pubblico (Borzaga, 2019), il terzo settore dovrebbe configurarsi come un attivatore di risposte sociali innovative, che fanno leva sulla prossimità ai territori e alle persone, incluse quelle vulnerabili e disinformate, normalmente ai margini delle dinamiche di cambiamento (Manzini, 2018).

      Se è vero, come da più parti sottolineato, che la politica è in gran parte responsabile dello scarso riconoscimento della società civile organizzata, l’insufficiente apprezzamento del suo valore aggiunto è ascrivibile anche ad alcune prassi, culture e comportamenti organizzativi messi in atto dalle stesse organizzazioni di terzo settore. Tra questi, una retorica – quella degli eroi – incoerente con la loro natura, che ha generato atteggiamenti autoreferenziali e ha alimentato uno scollamento di molte organizzazioni di terzo settore dalle loro comunità di appartenenza. Una delle sfide che il terzo settore dovrebbe far propria è, quindi, a nostro avviso l’archiviazione, una volta per tutte, della retorica dell’eroe e dell’eroina e la sua sostituzione con una narrazione autentica e costruttiva che sia in grado di alimentare un’attiva partecipazione della cittadinanza alla gestione del bene comune.

      DOI: 10.7425/IS.2021.02.10

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      Note

      La nozione di bene comune fa riferimento all’insieme delle risorse necessarie allo sviluppo della persona ed all’esercizio dei suoi diritti fondamentali. Presuppone condizioni di eguaglianza nell’accesso o utilizzo degli stessi. Sul concetto di beni comuni si rimanda ai lavori di E. Olstrom [tra cui: Olstrom E. (1990), Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, Cambridge UK]. Nel sistema italiano una definizione di riferimento è quella formulata dalla Commissione Rodotà nel 2008: “Cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”.
      https://nti.apet118.it/home
      “Quanto vale il volontariato in Italia? Istat, CSVnet e FVP lanciano la prima sperimentazione del Manuale ILO sul lavoro volontario”: https://www.csvnet.it/csv/storia/144-notizie/1226-quanto-vale-il-volontariato-in-italia-istat-csvnet-e-fvp-lanciano-i-dati
      Di qui l’elogio di chi ce la fa e “merita” (Piketty, 2020). Per un’analisi critica del “merito” si rimanda a Sandel (2020).
      Con riferimento alle critiche si veda John McClusky (2018).
      Modelli di governance che sono supportati da vincoli normativi o statutari – come il vincolo alla non distribuibilità degli utili (non-profit distribution constraint) e l’asset lock – pensati per garantire la sopravvivenza nel tempo dell’inclusività e dell’interesse generale perseguito.
      Approccio che vede l’intervento sociale in analogia all’innovazione tecnologica, dove una mente geniale, chiusa nel suo garage, inventa qualcosa che rivoluziona la vita di tutti.
      La campagna #nonsonoangeli prese avvio all’indomani dell’ultima alluvione di Genova dall’esigenza di ridefinire il ruolo del volontariato e della percezione di questi per i media, promuovendo da un lato una comunicazione meno stereotipata dell’impegno dei cittadini, in caso di emergenza e non, per il bene comune, e dall’altro una conoscenza del volontariato e della solidarietà così come queste si manifestano. https://nonsonoangeli.wordpress.com/2016/06/08/roma-8-giugno-2016-on-sono-angeli-il-volontariato-tra-stere
      Si veda a questo proposito: https://socialimpactaward.net/breaking-the-myth-of-hero-entrepreneurship - http://tacklingheropreneurship.com
      Si veda anche: https://mediciperidirittiumani.org/studio-salute-mentale-rifugiati - https://archivio.medicisenzafrontiere
      https://www.cesvot.it/comunicazione/dossier/hanno-detto-di-nonsonoangeli

      https://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/articolo/dalla-ricerca-di-eroi-alla-costruzione-di-progetti-comunitari

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  • La morale, une fable ?
    https://laviedesidees.fr/La-morale-est-elle-une-fable.html

    À propos de : F. Jaquet et H. Naar, Qui peut sauver la morale ? Essai de métaéthique, Ithaque ; O. Desmons, S. Lemaire et P. Turmel (dir.), Manuel de métaéthique, Hermann. La métaéthique est l’étude des questions qui portent sur la morale sans être elles-mêmes des questions morales. Deux ouvrages cartographient cet univers fascinant.

    #Philosophie #éthique
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20201230_metaethique.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20201230_metaethique.docx

  • “I started crying”: Inside Timnit Gebru’s last days at Google | MIT Technology Review
    https://www.technologyreview.com/2020/12/16/1014634/google-ai-ethics-lead-timnit-gebru-tells-story

    By now, we’ve all heard some version of the story. On December 2, after a protracted disagreement over the release of a research paper, Google forced out its ethical AI co-lead, Timnit Gebru. The paper was on the risks of large language models, AI models trained on staggering amounts of text data, which are a line of research core to Google’s business. Gebru, a leading voice in AI ethics, was one of the only Black women at Google Research.

    The move has since sparked a debate about growing corporate influence over AI, the long-standing lack of diversity in tech, and what it means to do meaningful AI ethics research. As of December 15, over 2,600 Google employees and 4,300 others in academia, industry, and civil society had signed a petition denouncing the dismissal of Gebru, calling it “unprecedented research censorship” and “an act of retaliation.”

    The company’s star ethics researcher highlighted the risks of large language models, which are key to Google’s business.
    Gebru is known for foundational work in revealing AI discrimination, developing methods for documenting and auditing AI models, and advocating for greater diversity in research. In 2016, she cofounded the nonprofit Black in AI, which has become a central resource for civil rights activists, labor organizers, and leading AI ethics researchers, cultivating and highlighting Black AI research talent.

    Then in that document, I wrote that this has been extremely disrespectful to the Ethical AI team, and there needs to be a conversation, not just with Jeff and our team, and Megan and our team, but the whole of Research about respect for researchers and how to have these kinds of discussions. Nope. No engagement with that whatsoever.

    I cried, by the way. When I had that first meeting, which was Thursday before Thanksgiving, a day before I was going to go on vacation—when Megan told us that you have to retract this paper, I started crying. I was so upset because I said, I’m so tired of constant fighting here. I thought that if I just ignored all of this DEI [diversity, equity, and inclusion] hypocrisy and other stuff, and I just focused on my work, then at least I could get my work done. And now you’re coming for my work. So I literally started crying.

    You’ve mentioned that this is not just about you; it’s not just about Google. It’s a confluence of so many different issues. What does this particular experience say about tech companies’ influence on AI in general, and their capacity to actually do meaningful work in AI ethics?
    You know, there were a number of people comparing Big Tech and Big Tobacco, and how they were censoring research even though they knew the issues for a while. I push back on the academia-versus-tech dichotomy, because they both have the same sort of very racist and sexist paradigm. The paradigm that you learn and take to Google or wherever starts in academia. And people move. They go to industry and then they go back to academia, or vice versa. They’re all friends; they are all going to the same conferences.

    I don’t think the lesson is that there should be no AI ethics research in tech companies, but I think the lesson is that a) there needs to be a lot more independent research. We need to have more choices than just DARPA [the Defense Advanced Research Projects Agency] versus corporations. And b) there needs to be oversight of tech companies, obviously. At this point I just don’t understand how we can continue to think that they’re gonna self-regulate on DEI or ethics or whatever it is. They haven’t been doing the right thing, and they’re not going to do the right thing.

    I think academic institutions and conferences need to rethink their relationships with big corporations and the amount of money they’re taking from them. Some people were even wondering, for instance, if some of these conferences should have a “no censorship” code of conduct or something like that. So I think that there is a lot that these conferences and academic institutions can do. There’s too much of an imbalance of power right now.

    #Intelligence_artificielle #Timnit_Gebru #Google #Ethique

  • En France, un système qui fait perdre l’envie de #recherche

    Alternance de #contrats_courts et de périodes de #chômage, vacations payées aléatoirement, difficulté à être titularisé… « Libération » a recueilli les témoignages de nombreux jeunes chercheurs lessivés par le fonctionnement de l’université.

    La France perd ses jeunes chercheurs, dégoûtés du système. En 2018, le nombre de doctorats délivrés était en baisse de 4 %. Les carrières universitaires n’attirent plus. Ou du moins, elles font fuir une partie de ceux qui s’y aventurent quand ils découvrent la galère promise. Une journée de mobilisation a lieu ce jeudi contre la politique de recherche du gouvernement. Les jeunes chercheurs sont à la pointe du mouvement.

    « Il y avait treize doctorants dans mon laboratoire, seulement deux ont continué en post-doctorat. Tous les six mois, je me dis que je vais arrêter, et en fait non », témoigne Mélissa, post-doctorante en éthologie. Elle vit avec son compagnon, Geoffrey, lui aussi chercheur et âgé de 29 ans. Ils sont réunis « pour la première fois en six ans » dans le même appartement. La faute à leur boulot, qui les pousse à bouger dans tous les sens quitte à s’asseoir sur leur vie personnelle. Cette parenthèse à deux s’arrêtera dans trois mois. Mélissa sera alors à Zurich et Geoffrey à Niort. « On ne se plaint pas, on est déjà sur le même continent… »

    Etienne (1), lui, va changer de continent. Ce docteur en intelligence artificielle (IA) a vu de près les dégâts de la recherche à la française. La pression pour publier le plus possible d’articles scientifiques dans des revues, condition sine qua non pour remplir son CV et espérer être titularisé, a fini par le dégoûter : « On dit que c’est "publier ou périr", mais maintenant c’est plutôt "publier et périr" puisqu’il n’y a plus de postes. » Pour ce trentenaire, la désillusion grandit depuis plusieurs années : quand il était doctorant, il a dû finir sa thèse grâce aux indemnités chômage, se contentant de 900 euros mensuels pour vivre. « Mon encadrant principal a fait deux burn-out car il travaillait trop, ça ne donnait pas envie de continuer. » Mais il s’accroche.

    Après sa thèse, Etienne signe un contrat de deux ans de post-doc dans un labo de recherche, malgré les sirènes du privé qui lui promettent d’au moins doubler son salaire. Le déclic, pour changer de cap, il l’a eu en 2019. Il participe alors à une réunion de présentation de la politique française en IA, durant laquelle deux hauts fonctionnaires disent avoir pour projet de propulser la France dans le top 5 mondial. « Ils ne parlaient de recruter que des contrats précaires, des doctorants. Je suis allé leur poser la question : qu’en est-il pour les post-docs qui souhaitent rester en France ? Leur réponse a été assez surprenante : "Non, pas de création de postes fixes, monsieur, allez aux Etats-Unis." » Message reçu, mais pas de gaieté de cœur. Etienne entend bien partir travailler sur l’IA outre-Atlantique.
    « Très dévalorisant »

    Un grand gâchis humain. Quelques mots pour résumer ce à quoi ressemble la politique française en recherche. Libération a reçu plus de 200 témoignages de jeunes chercheurs déçus du système. Comme François (1), qui nous écrit : « La loi de programmation de la recherche m’a définitivement décidé, je ne vais même pas essayer de faire de la recherche dans le public. C’est d’autant plus dommage que, comme normalien, l’Etat a essentiellement payé pour que je le fasse. »

    La pression exercée sur le système conduit à de mauvaises pratiques. Xavier (1), ex-doctorant en astronomie, a vu la réputation du laboratoire passer avant l’éthique scientifique. « Le jour où on m’a demandé de cacher des résultats qui n’allaient pas dans le sens des promesses faites à l’Agence nationale de la recherche devant un public international, j’ai décidé de ne pas continuer dans la recherche, explique celui qui prépare l’agrégation de physique. J’adore la recherche, mais obtenir un poste est un parcours du combattant. Enchaîner les post-docs pendant six, huit, peut-être dix ans, qui veut ça ? »

    C’est exactement la situation que vit Alain (1). Depuis sa thèse de biologie soutenue en 2013, il alterne entre les contrats courts et les périodes de chômage. « Pour l’instant, l’objectif c’est de profiter du chômage pour écrire mes publications en retard, continuer à postuler pour des contrats et prier pour obtenir quelque chose. Ce serait très dévalorisant de me dire que j’ai autant persévéré pour au final abandonner. » Le problème du secteur n’est ni l’attractivité - il y a encore plus de dix candidats par poste ouvert - ni le manque de travail - les recherches et les étudiants continuent d’affluer. « Le premier problème, c’est le manque de financements », lâche Alain. De fait, dans les universités notamment, le besoin en enseignants-chercheurs est criant. Selon le Syndicat national de l’enseignement supérieur, les 150 000 vacataires recensés assurent, au moins, l’équivalent des heures d’enseignement de plus de 15 000 titulaires.

    A 34 ans, Maxime (1), docteur en sciences politiques, vit tantôt chez sa mère, tantôt chez sa compagne. Il a réalisé sa thèse « grâce à deux postes d’attaché temporaire d’enseignement et de recherche, et du chômage ». Depuis cinq ans, il jongle entre RSA et vacations à l’université. En théorie, il ne pourrait pas être employé de manière précaire par l’université sans avoir un travail fixe ailleurs. Alors il s’arrange. « Dans certains cas, un collègue me sert de prête-nom et je travaille au noir. Parfois, je me fais payer en autoentrepreneur. C’est assez dingue comme situation », explique-t-il. L’an dernier, Maxime estime avoir effectué plus de 277 heures d’enseignement, « plus qu’un service d’un titulaire ». Tout ça pour toucher à peine le smic : « Comme on est payé de manière aléatoire, certains mois c’est le RSA qui me permet de vivre. »
    « On m’avait prévenue »

    La situation est claire : les départements dans lesquels il travaille ne tiendraient pas sans des personnes comme lui. Il a bien essayé de quitter le milieu, mais faute de retours positifs, « la routine de l’université a repris le dessus. J’ai été sollicité pour des cours et des articles. Je tente encore, mais je ne sais pas pour combien de temps. J’ai été classé deuxième à un concours de maître de conférences, ça prouve bien que mon dossier n’est pas si nul… »

    Quadragénaire, Tiphaine se retrouve dans la même situation. Si elle a pu trouver un CDD de recherche pour une association nationale, elle a dû prendre une charge d’enseignement pour compléter son CV. Le système est si tendu qu’elle se retrouve à créer « un enseignement annuel de 80 heures » sans savoir où elle sera l’an prochain. « Je suis atterrée par l’ampleur de la précarité et l’exploitation des vacataires. […] On m’avait prévenue. Mais ça n’a pas suffi, car c’est un métier de passion, j’ai voulu aller jusqu’au bout. Maintenant, la désillusion se matérialise. »

    https://www.liberation.fr/france/2020/12/09/en-france-un-systeme-qui-fait-perdre-l-envie-de-recherche_1808191
    #ESR #recherche #France #précarité #université #titularisation #carrière_universitaire #travail #conditions_de_travail #mobilité #publish_or_perish #désillusion #indemnités_chômage #burn-out #contrats_précaires #gâchis #dévalorisation #LPPR #LPR #éthique #post-doc

  • Google, IA et éthique : « départ » de Timnit Gebru, Sundar Pichai s’exprime
    https://www.nextinpact.com/lebrief/45022/google-ia-et-ethique-imbroglio-sur-depart-timnit-gebru-sundar-pichai-sor

    Depuis une semaine, le licenciement par Google de la chercheuse Timnit Gebru fait couler beaucoup d’encre. Elle était chargée des questions d’éthique sur l’intelligence artificielle et l’une des rares afro-américaines spécialistes du sujet.

    L’imbroglio commence dès les premiers jours quand elle explique sur Twitter que sa hiérarchie avait accepté sa démission… qu’elle affirme n’avoir jamais donnée. Cette situation arrive après que la scientifique se soit plainte que Google « réduise au silence les voix marginalisées » et lui demande de rétracter un article.

    Une pétition a rapidement été mise en ligne sur Medium afin de demander des explications à l’entreprise, notamment sur les raisons de la censure. Actuellement, elle a été signée par plus de 6 000 personnes, dont 2 351 « googlers ». Sundar Pichai est finalement sorti du bois pour évoquer cette situation et promettre une enquête :

    « Nous devons accepter la responsabilité du fait qu’une éminente dirigeante noire, dotée d’un immense talent, a malheureusement quitté Google. »

    Marchant sur des œufs, il ajoute : « Nous devons évaluer les circonstances qui ont conduit au départ du Dr Gebru ». Dans son courrier, il parle bien de « départ » (departure en anglais), et ne prononce pas le mot licenciement. Pour lui, cette situation « a semé le doute et conduit certains membres de notre communauté, qui remettent en question leur place chez Google […] Je veux dire à quel point je suis désolé pour cela et j’accepte la responsabilité de travailler pour retrouver votre confiance ».

    Sur Twitter, Timnit Gebru n’est pas convaincue et s’explique : « Il ne dit pas "Je suis désolé pour ce que nous lui avons fait et c’était mal" […] Donc je vois ça comme "Je suis désolé pour la façon dont ça s’est passé, mais je ne suis pas désolé pour ce que nous lui avons fait." ».

    #Timnit_Gebru #Google #Intelligence_artificielle #Ethique

  • We read the paper that forced Timnit Gebru out of Google. Here’s what it says | MIT Technology Review
    https://www.technologyreview.com/2020/12/04/1013294/google-ai-ethics-research-paper-forced-out-timnit-gebru/?truid=a497ecb44646822921c70e7e051f7f1a

    The company’s star ethics researcher highlighted the risks of large language models, which are key to Google’s business.
    by

    Karen Hao archive page

    December 4, 2020
    Timnit Gebru
    courtesy of Timnit Gebru

    On the evening of Wednesday, December 2, Timnit Gebru, the co-lead of Google’s ethical AI team, announced via Twitter that the company had forced her out.

    Gebru, a widely respected leader in AI ethics research, is known for coauthoring a groundbreaking paper that showed facial recognition to be less accurate at identifying women and people of color, which means its use can end up discriminating against them. She also cofounded the Black in AI affinity group, and champions diversity in the tech industry. The team she helped build at Google is one of the most diverse in AI, and includes many leading experts in their own right. Peers in the field envied it for producing critical work that often challenged mainstream AI practices.

    A series of tweets, leaked emails, and media articles showed that Gebru’s exit was the culmination of a conflict over another paper she co-authored. Jeff Dean, the head of Google AI, told colleagues in an internal email (which he has since put online) that the paper “didn’t meet our bar for publication” and that Gebru had said she would resign unless Google met a number of conditions, which it was unwilling to meet. Gebru tweeted that she had asked to negotiate “a last date” for her employment after she got back from vacation. She was cut off from her corporate email account before her return.

    Online, many other leaders in the field of AI ethics are arguing that the company pushed her out because of the inconvenient truths that she was uncovering about a core line of its research—and perhaps its bottom line. More than 1,400 Google staff and 1,900 other supporters have also signed a letter of protest.
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    Many details of the exact sequence of events that led up to Gebru’s departure are not yet clear; both she and Google have declined to comment beyond their posts on social media. But MIT Technology Review obtained a copy of the research paper from one of the co-authors, Emily M. Bender, a professor of computational linguistics at the University of Washington. Though Bender asked us not to publish the paper itself because the authors didn’t want such an early draft circulating online, it gives some insight into the questions Gebru and her colleagues were raising about AI that might be causing Google concern.

    Titled “On the Dangers of Stochastic Parrots: Can Language Models Be Too Big?” the paper lays out the risks of large language models—AIs trained on staggering amounts of text data. These have grown increasingly popular—and increasingly large—in the last three years. They are now extraordinarily good, under the right conditions, at producing what looks like convincing, meaningful new text—and sometimes at estimating meaning from language. But, says the introduction to the paper, “we ask whether enough thought has been put into the potential risks associated with developing them and strategies to mitigate these risks.”
    The paper

    The paper, which builds off the work of other researchers, presents the history of natural-language processing, an overview of four main risks of large language models, and suggestions for further research. Since the conflict with Google seems to be over the risks, we’ve focused on summarizing those here.
    Environmental and financial costs

    Training large AI models consumes a lot of computer processing power, and hence a lot of electricity. Gebru and her coauthors refer to a 2019 paper from Emma Strubell and her collaborators on the carbon emissions and financial costs of large language models. It found that their energy consumption and carbon footprint have been exploding since 2017, as models have been fed more and more data.

    Strubell’s study found that one language model with a particular type of “neural architecture search” (NAS) method would have produced the equivalent of 626,155 pounds (284 metric tons) of carbon dioxide—about the lifetime output of five average American cars. A version of Google’s language model, BERT, which underpins the company’s search engine, produced 1,438 pounds of CO2 equivalent in Strubell’s estimate—nearly the same as a roundtrip flight between New York City and San Francisco.

    Gebru’s draft paper points out that the sheer resources required to build and sustain such large AI models means they tend to benefit wealthy organizations, while climate change hits marginalized communities hardest. “It is past time for researchers to prioritize energy efficiency and cost to reduce negative environmental impact and inequitable access to resources,” they write.
    Massive data, inscrutable models

    Large language models are also trained on exponentially increasing amounts of text. This means researchers have sought to collect all the data they can from the internet, so there’s a risk that racist, sexist, and otherwise abusive language ends up in the training data.

    An AI model taught to view racist language as normal is obviously bad. The researchers, though, point out a couple of more subtle problems. One is that shifts in language play an important role in social change; the MeToo and Black Lives Matter movements, for example, have tried to establish a new anti-sexist and anti-racist vocabulary. An AI model trained on vast swaths of the internet won’t be attuned to the nuances of this vocabulary and won’t produce or interpret language in line with these new cultural norms.

    It will also fail to capture the language and the norms of countries and peoples that have less access to the internet and thus a smaller linguistic footprint online. The result is that AI-generated language will be homogenized, reflecting the practices of the richest countries and communities.

    Moreover, because the training datasets are so large, it’s hard to audit them to check for these embedded biases. “A methodology that relies on datasets too large to document is therefore inherently risky,” the researchers conclude. “While documentation allows for potential accountability, [...] undocumented training data perpetuates harm without recourse.”
    Research opportunity costs

    The researchers summarize the third challenge as the risk of “misdirected research effort.” Though most AI researchers acknowledge that large language models don’t actually understand language and are merely excellent at manipulating it, Big Tech can make money from models that manipulate language more accurately, so it keeps investing in them. “This research effort brings with it an opportunity cost,” Gebru and her colleagues write. Not as much effort goes into working on AI models that might achieve understanding, or that achieve good results with smaller, more carefully curated datasets (and thus also use less energy).
    Illusions of meaning

    The final problem with large language models, the researchers say, is that because they’re so good at mimicking real human language, it’s easy to use them to fool people. There have been a few high-profile cases, such as the college student who churned out AI-generated self-help and productivity advice on a blog, which went viral.

    The dangers are obvious: AI models could be used to generate misinformation about an election or the covid-19 pandemic, for instance. They can also go wrong inadvertently when used for machine translation. The researchers bring up an example: In 2017, Facebook mistranslated a Palestinian man’s post, which said “good morning” in Arabic, as “attack them” in Hebrew, leading to his arrest.
    Why it matters

    Gebru and Bender’s paper has six co-authors, four of whom are Google researchers. Bender asked to avoid disclosing their names for fear of repercussions. (Bender, by contrast, is a tenured professor: “I think this is underscoring the value of academic freedom,” she says.)

    The paper’s goal, Bender says, was to take stock of the landscape of current research in natural-language processing. “We are working at a scale where the people building the things can’t actually get their arms around the data,” she said. “And because the upsides are so obvious, it’s particularly important to step back and ask ourselves, what are the possible downsides? … How do we get the benefits of this while mitigating the risk?”

    In his internal email, Dean, the Google AI head, said one reason the paper “didn’t meet our bar” was that it “ignored too much relevant research.” Specifically, he said it didn’t mention more recent work on how to make large language models more energy-efficient and mitigate problems of bias.

    However, the six collaborators drew on a wide breadth of scholarship. The paper’s citation list, with 128 references, is notably long. “It’s the sort of work that no individual or even pair of authors can pull off,” Bender said. “It really required this collaboration.”

    The version of the paper we saw does also nod to several research efforts on reducing the size and computational costs of large language models, and on measuring the embedded bias of models. It argues, however, that these efforts have not been enough. “I’m very open to seeing what other references we ought to be including,” Bender said.

    Nicolas Le Roux, a Google AI researcher in the Montreal office, later noted on Twitter that the reasoning in Dean’s email was unusual. “My submissions were always checked for disclosure of sensitive material, never for the quality of the literature review,” he said.

    Now might be a good time to remind everyone that the easiest way to discriminate is to make stringent rules, then to decide when and for whom to enforce them.
    My submissions were always checked for disclosure of sensitive material, never for the quality of the literature review.
    — Nicolas Le Roux (@le_roux_nicolas) December 3, 2020

    Dean’s email also says that Gebru and her colleagues gave Google AI only a day for an internal review of the paper before they submitted it to a conference for publication. He wrote that “our aim is to rival peer-reviewed journals in terms of the rigor and thoughtfulness in how we review research before publication.”

    I understand the concern over Timnit’s resignation from Google. She’s done a great deal to move the field forward with her research. I wanted to share the email I sent to Google Research and some thoughts on our research process.https://t.co/djUGdYwNMb
    — Jeff Dean (@🠡) (@JeffDean) December 4, 2020

    Bender noted that even so, the conference would still put the paper through a substantial review process: “Scholarship is always a conversation and always a work in progress,” she said.

    Others, including William Fitzgerald, a former Google PR manager, have further cast doubt on Dean’s claim:

    This is such a lie. It was part of my job on the Google PR team to review these papers. Typically we got so many we didn’t review them in time or a researcher would just publish & we wouldn’t know until afterwards. We NEVER punished people for not doing proper process. https://t.co/hNE7SOWSLS pic.twitter.com/Ic30sVgwtn
    — William Fitzgerald (@william_fitz) December 4, 2020

    Google pioneered much of the foundational research that has since led to the recent explosion in large language models. Google AI was the first to invent the Transformer language model in 2017 that serves as the basis for the company’s later model BERT, and OpenAI’s GPT-2 and GPT-3. BERT, as noted above, now also powers Google search, the company’s cash cow.

    Bender worries that Google’s actions could create “a chilling effect” on future AI ethics research. Many of the top experts in AI ethics work at large tech companies because that is where the money is. “That has been beneficial in many ways,” she says. “But we end up with an ecosystem that maybe has incentives that are not the very best ones for the progress of science for the world.”

    #Intelligence_artificielle #Google #Ethique #Timnit_Gebru

  • More than 1,200 Google workers condemn firing of AI scientist Timnit Gebru
    https://www.theguardian.com/technology/2020/dec/04/timnit-gebru-google-ai-fired-diversity-ethics

    More than 1,500 researchers also sign letter after Black expert on ethics says Google tried to suppress her research on bias More than 1,200 Google employees and more than 1,500 academic researchers are speaking out in protest after a prominent Black scientist studying the ethics of artificial intelligence said she was fired by Google after the company attempted to suppress her research and she criticized its diversity efforts. Timnit Gebru, who was the technical co-lead of Google’s (...)

    #Google #algorithme #biométrie #facial #reconnaissance #licenciement #éthique

    https://i.guim.co.uk/img/media/e66281338e4e2ff1f94da89602c58600fb121707/0_0_5760_3456/master/5760.jpg

  • Google se sépare d’une chercheuse spécialiste des biais de l’IA : que s’est-il passé ?
    https://www.numerama.com/tech/673678-google-se-separe-dune-chercheuse-specialiste-des-biais-de-lia-que-s

    Une vive polémique est en train d’agiter le monde universitaire aux États-Unis, et plus particulièrement la recherche dans l’intelligence artificielle. Google s’est séparé d’une informaticienne spécialisée dans les biais algorithmiques, mais les conditions de ce départ sont controversées. C’est une affaire qui est en train de prendre une certaine ampleur aux États-Unis. Début décembre, il a été rapporté dans plusieurs médias américains que l’informaticienne éthiopienne Timnit Gebru, qui se consacre aux biais (...)

    #Google #algorithme #éthique #racisme #biais #discrimination #licenciement

    //c2.lestechnophiles.com/www.numerama.com/content/uploads/2020/12/timnit-gebru.jpg

  • Google Employees Say Scientist’s Ouster Was ’Unprecedented Research Censorship’
    https://www.npr.org/2020/12/03/942417780/google-employees-say-scientists-ouster-was-unprecedented-research-censorship?t=

    Hundreds of Google employees have published an open letter following the firing of a colleague who is an accomplished scientist known for her research into the ethics of artificial intelligence and her work showing racial bias in facial recognition technology. That scientist, Timnit Gebru, helped lead Google’s Ethical Artificial Intelligence team until Tuesday. She says she was forced out of the company following a dispute over a research paper and an email she subsequently sent to peers (...)

    #Google #algorithme #biométrie #éthique #racisme #facial #reconnaissance #sexisme #biais (...)

    ##discrimination

  • Une transaction pénale de 5.000 euros pour la « #maladresse » de Di Antonio - Belgique - LeVif
    https://www.levif.be/actualite/belgique/une-transaction-penale-de-5-000-euros-pour-la-maladresse-de-di-antonio/article-normal-1361683.html

    L’ex-ministre wallon CDH a payé 5 000 euros de transaction pénale pour enterrer une enquête judiciaire concernant l’expropriation, signée en tant que ministre, de terrains appartenant à une société dont il était actionnaire. Il n’y aura donc jamais de vérité judiciaire.

    #éthique #poli #tique

  • Belgium - Automating Society Report 2020
    https://automatingsociety.algorithmwatch.org/report2020/belgium

    Contextualization As a result of the different governments, and the different levels of government, in Belgium (Federal and Regional), several different strategies dealing with digitization emerged in 2018. In Flanders, this strategy is called Vlaanderen Radicaal Digitaal, while in the Walloon region, it is known as Plan Numerique. In 2015, the federal government launched a strategy called Digital Belgium, but this covered more than just ADM. In 2018, the Flemish government launched an (...)

    #Accenture #Briefcam #algorithme #biométrie #éthique #facial #prédiction #reconnaissance #vidéo-surveillance #[fr]Règlement_Général_sur_la_Protection_des_Données_(RGPD)[en]General_Data_Protection_Regulation_(GDPR)[nl]General_Data_Protection_Regulation_(GDPR) #comportement (...)

    ##[fr]Règlement_Général_sur_la_Protection_des_Données__RGPD_[en]General_Data_Protection_Regulation__GDPR_[nl]General_Data_Protection_Regulation__GDPR_ ##discrimination ##enseignement ##pauvreté ##santé ##sport ##surveillance ##_ ##APD-Belgique ##AlgorithmWatch

  • « La question de l’origine du SARS-CoV-2 se pose sérieusement » | CNRS Le journal
    https://lejournal.cnrs.fr/articles/la-question-de-lorigine-du-sars-cov-2-se-pose-serieusement

    Près d’un an après que l’on a identifié le coronavirus SARS-CoV-2, les chercheurs n’ont toujours pas déterminé comment il a pu se transmettre à l’espèce humaine. Le virologue Étienne Decroly fait le point sur les différentes hypothèses, dont celle de l’échappement accidentel d’un laboratoire.

    Quelques extraits de ce long entretien avec le virologue Étienne Decroly :

    SARS-CoV-2 ne descend pas de souches humaines connues et n’a acquis que récemment la capacité de sortir de son réservoir animal naturel.
    .../...
    L’étude des mécanismes d’évolution impliqués dans l’émergence de ce virus est essentielle pour élaborer des stratégies thérapeutiques et vaccinales.
    .../...
    Y a-t-il des indices pointant vers d’autres candidats au rôle d’hôte intermédiaire ?
    É. D. : Dans les zoonoses, les hôtes intermédiaires se retrouvent généralement parmi les animaux d’élevage ou sauvages en contact avec les populations. Or, en dépit des recherches de virus dans les espèces animales vendues sur le marché de Wuhan, aucun virus intermédiaire entre RaTG13 et le SARS-CoV-2 n’a pu être identifié à ce jour. Tant que ce virus intermédiaire n’aura pas été identifié et son génome séquencé, la question de l’origine de SARS-CoV-2 restera non résolue. Car en l’absence d’éléments probants concernant le dernier intermédiaire animal avant la contamination humaine, certains auteurs suggèrent que ce virus pourrait avoir franchi la barrière d’espèce à la suite un accident de laboratoire ou être d’origine synthétique.
    .../...
    Tant qu’on n’aura pas trouvé l’hôte intermédiaire, l’hypothèse d’un échappement accidentel ne pourra être écartée par la communauté scientifique.

    Mais au final, c’est la cause accidentelle qui semble privilégiée

    Le mot de la fin :

    Dans mes cours consacrés à l’ingénierie virale, j’ai l’habitude de présenter à des étudiants de Master cet exercice théorique : je leur demande d’imaginer un procédé procurant au virus VIH la capacité d’infecter n’importe quelle cellule de l’organisme (pas seulement les lymphocytes). Ces étudiants sont brillants, et la plupart sont en mesure de me proposer des méthodes efficaces, conduisant à la construction de virus chimériques potentiellement dangereux. Je donne ce cours depuis une dizaine d’années et les étudiants s’attachent exclusivement à l’efficacité de la méthode sans s’interroger une seconde sur les conséquences potentielles de leurs mises en œuvre.

    L’objectif pédagogique que je poursuis est de les sensibiliser à ces problématiques et de leur montrer qu’on peut dans bien des cas construire des systèmes expérimentaux tout aussi efficaces et permettant de mieux contrôler les risques biologiques. il faut intervenir dès la formation, en formant les futurs biologistes à toujours questionner le risque et la pertinence sociétale de leurs travaux, aussi novateurs soient-ils.

    #recherche_médicale #virologie #protocole_expérimental #techno-science #technolâtrie #éthique

  • Gambie : la trahison d’Hippocrate
    https://www.justiceinfo.net/fr/commissions-verite/45777-gambie-la-trahison-d-hippocrate.html

    Le docteur Tamsir Mbowe, ancien ministre de la Santé, était un témoin très attendu devant la Commission vérité, réconciliation et réparations, en Gambie. Il a été directeur du programme de traitement du VIH/sida de l’ancien président Yahya Jammeh. Un traitement considéré comme un canular meurtrier par tous les autres témoins. Mbowe a maintenu que le traitement était efficace, sans assumer aucune responsabilité. A-t-il enfreint l’éthique médicale ?

    « Le traitement est vrai », déclare le docteur Tamsir Mbowe, gynécologue et obstétricien formé en Union soviétique, lors de son témoignage devant la Commission vérité, réconciliation et réparations (TRRC), en Gambie, le 21 octobre. "Pourquoi une personne a-t-elle une charge virale de 200 millions de copies [sic] et qu’après deux mois de traitement, cela est indétectable (...)

    #Commissions_Vérité

  • Des limites de l’éthique numérique entre hommes blancs
    http://maisouvaleweb.fr/des-limites-de-lethique-numerique-entre-hommes-blancs

    Dans un article, le philosophe Jacob Metcalf (@undersequoiasoutl) et l’anthropologue Emanuel Moss (@MannyMoss), du Data & Society Research Institute, reviennent sur leur rapport « Ethics Owners : A New Model of Organizational Responsibility in Data-Driven Technology Companies » (.pdf) où ils ont cherché à comprendre les limites des actions des « responsables éthiques » dans les entreprises technologiques. L’essor des « ethics officers » Depuis quelques années, les métiers liés à la « (...)

    #Amazon #algorithme #CCTV #Rekognition #biométrie #éthique #racisme #facial #reconnaissance #sexisme #vidéo-surveillance (...)

    ##surveillance

  • Community Technology — Narrative Adventures and Adaptations
    https://medium.com/@biancawylie/community-technology-narrative-adventures-and-adaptations-a0b9c0e2da7c

    AKA footnotes for fellows :) Yesterday I had the opportunity to speak with Cassie Robinson about a few things that are on her mind, and the minds of many of us, for part of a session this week with the Community Tech Fellowship Programme. Our conversation reminded me of one I’d had with Immy Kaur a few months back during the lovely Department of Dreams event. It was a continuation in a way. Both conversations made me reflect on the need to keep track of what we’re doing in community with (...)

    #Google #SidewalkLabs #écologie #éthique #domination #urbanisme

  • Amis ingénieurs, merci de changer de métier
    http://maisouvaleweb.fr/amis-ingenieurs-merci-de-changer-de-metier

    Le petit livre de Celia Izoard « Lettres aux humains qui robotisent le monde. Merci de changer de métier » (Revue Z, 2020), composé de plusieurs textes sous forme notamment, de lettre à des ingénieurs, brille par sa simplicité. D’une plume faussement naïve, la journaliste questionne ceux qui façonnent les outils « du futur » – robots, logiciels – à propos de leur responsabilité vis-à-vis du reste de le société. Sans moralisme, ni accusations mal placées, elle les appelle à se réveiller. Le premier texte (...)

    #algorithme #voiture #écologie #éthique #technologisme #urbanisme #robotique

    http://maisouvaleweb.fr/wp-content/uploads/2020/10/Izoard-merci-de-changer-de-métier.png

  • Merci de changer de métier
    http://www.zite.fr/merci-de-changer-de-metier

    Les véhicules autonomes sont-ils compatibles avec la lutte contre le changement climatique ? Qui veut des robots-compagnons pour s’occuper des personnes âgées ? L’usine automatisée est-elle le rêve des employés, ou celui des chefs d’entreprise ? Interpeller directement des chercheurs, ingénieurs et startuppers sur les implications politiques de leur activité, tel est l’objet de ce livre, composé de lettres ouvertes rédigées dans un style piquant, qui mêle la satire et l’analyse. Celia Izoard ouvre ici (...)

    #robotique #algorithme #écologie #éthique #technologisme #travail #urbanisme #voiture

  • « Lire la ville » de Chantal Deckmyn
    https://topophile.net/savoir/lire-la-ville-de-chantal-deckmyn

    Ce livre vient à son heure, alors que la question du vivre ensemble se pose avec acuité du fait des multiples fractionnements de la société française pour des raisons économiques, sociales, et politiques, aggravées par les inégalités existantes face à l’accès à un habitat décent pour tous qui en sont la conséquence. La ville, qu’on... Voir l’article

    • Lire la ville. Manuel pour une hospitalité de l’espace public

      Ce livre est un #manifeste pour la ville. Ce n’est ni un pamphlet ni une critique amère ou nostalgique de notre réalité. C’est un #manuel pratique qui s’adosse à une pensée et à une #éthique de la ville, qui part de l’existant et tente de le saisir. L’ouvrage croise les dimensions spatiales et sociales de la ville. Il ne cherche pas à convaincre. Il expose, pas à pas, le bénéfice que représenterait pour tous, individuellement et collectivement, un #espace_public civil, favorisant la #citoyenneté, l’#égalité et la #solidarité. L’ouvrage, composé de 19 entrées thématiques (bancs, sols, gares, sûreté urbaine…), propose un choix de #préconisations qui, sans prétendre à l’exhaustivité ni à la perfection, tendent vers une éthique des interventions dans la ville.
      Chaque entrée, éclairée par les enjeux anthropologiques et politiques de l’espace public, comporte des #recommandations, explore des aspects pratiques, évoque quelques-unes de ses dimensions sémantiques, historiques ou artistiques. Des exemples, des contre-exemples, des illustrations, une marche à suivre permettent de penser les différentes problématiques en regard de cas concrets. L’ouvrage intéressera tout un chacun, des élus et des aménageurs aux amoureux de la #poétique_urbaine.

      https://editionsladecouverte.fr/catalogue/index-Lire_la_ville-9782373680492.html

      #Chantal_Deckmyn #livre #géographie_urbaine #urbanisme #urban_matter

  • Data & Society — Ethics Owners
    https://datasociety.net/library/ethics-owners

    Report authors Emanuel Moss and Jacob Metcalf draw on interviews and ethnographic observation to outline the tensions that “ethics owners” in Silicon Valley must navigate to operationalize ethics within their companies.
    Report Summary
    “At the root of the challenges ethics owners face is the fact that while the tech industry is adept at producing scalable solutions, ethical harms remain tied to highly specific contexts.” — Emanuel Moss, Jacob Metcalf

    In Ethics Owners: A New Model of Organizational Responsibility in Data-Driven Technology Companies, Data & Society researchers Emanuel Moss and Jacob Metcalf assert that understanding the work of ethics owners—and the tensions they face—is key to the future governance and regulation of tech companies, and the increasingly powerful technologies they design.

    While actual job titles vary, ethics owners are tasked with “translating public pressure into new corporate practices” by creating an ethical framework for technology workers to operate within. While previous ethical frameworks exist in practice in many sectors, none of these fully encompass the unique work of ethics owners within technology companies.

    Ethics owners run up against a multitude of challenges; what counts as ethics is not always clearly defined, and product designers and engineers don’t necessarily consider ethics integral to their role. Others view ethics owners as a compliance function, and might even consider them an annoyance. The authors identify six fundamental tensions that ethics owners face:

    Personal ethics: The personal ethics of the ethics owner do not always align with those of the corporation.
    Limiting harms: It’s easier to advocate for changes that limit harms rather than those that benefit the user.
    Business models: Whether it’s a direct-to-consumer or business-to-business model, standard practices vary and the business model has implications for how ethics owners approach their work.
    Nonmeasurable impact: Ethics owners’ work often cannot be measured with Silicon Valley’s traditional metrics model. They must work to create new ways of measuring impact.
    Users/nonusers: Ethics owners only have information on their users, making it difficult to understand the impact of their products on nonusers despite being tasked with understanding the full societal impact.
    Scale: Ethics must be applied contextually, and are difficult to scale across an industry, or even across teams in a single company.

    Ethics owners, Moss and Metcalf find, aren’t working to resolve these tensions; rather, their job is to navigate them and create effective cross-team communication and product design while protecting the company’s bottom line.

    Moss and Metcalf also present opportunities for ethics owners including publishing case studies, discussing failures, collaborating with civil society, and pushing for impact metrics that acknowledge and promote social benefit and justice.

    This report was produced by the AI on the Ground Initiative (AIGI) at Data & Society Research Institute.

    #Ethique #Economie_numérique

  • Photographier les guerres coloniales, avec Daniel Foliard – Paroles d’histoire
    https://parolesdhistoire.fr/index.php/2020/09/21/151-photographier-les-guerres-coloniales-avec-daniel-foliard

    L’invité : #DanielFoliard, maître de conférences à l’université de Nanterre

    Le livre : Combattre, punir, photographier. Empires coloniaux, 1890-1914, Paris, La découverte, 2020.

    La discussion :

    La #photo de couverture du livre, frappante, et ce qu’elle dit des pratiques de photographie et de #violences de la période 1890-1914 (1’25)
    Une approche élargie de la sphère #impériale et #coloniale, des conflits lointains de cette époque (5’20)
    L’avènement non linéaire de la photographie dans ces espaces, avec les premières vues de guerre des années 1840-1850 (9’25)
    Concurrences et hybridations entre photos et dessins ou peintures (13’30)
    La #photographie, une technique d’enregistrement, et de domination, pour les administrations coloniales (16’30)
    Une photo coloniale dont il ne faut pas surestimer l’efficacité malgré le grand nombre de photographes (22’)
    Des questions davantage travaillées dans l’historiographie anglophone (23’50)
    Quelles solutions aux dilemmes #éthiques posés par les photos de violence ? (27’40)
    Une codification des genres photographiques, aux formats de plus en plus normés (carte postale, presse…) (31’20)
    Des schèmes culturels sur la guerre et des circuits de fabrication et diffusion des images qui sont en place bien avant 1914 (36’)
    Des contemporains qui ont conscience de la possibilité de retouche des images (39’)
    Des cultures visuelles différentes, suivant les pays ? (42’45)
    La présence, plus forte qu’on ne l’imagine, de morts européens, dans les pages des journaux de l’époque (46’10)

    Les références citées dans l’émission :

    Georges Didi-Huberman, Images malgré tout, Paris, Éditions de Minuit, 2003
    Pierre Schill (éd.), Réveiller l’archive d’une guerre coloniale : photographies et écrits de Gaston Chérau, correspondant de guerre lors du conflit italo-turc pour la Libye (1911-1912), Grâne, Creaphis éditions, 2018.
    Joëlle Beurier, Images et violence 1914-1918. Quand Le Miroir racontait la Grande Guerre, Paris, Éd. Nouveau monde, 2007
    Susan Sontag, Devant la douleur des autres, trad. de l’anglais par F. Durant-Bogaert, Paris, Christian Bourgois, 2003.

    #colonialisme #image #podcast

  • #Spinoza pour préparer au roman
    https://laviedesidees.fr/Spinoza-pour-preparer-au-roman.html

    À propos de : Clare Carlisle (ed.), Spinoza’s Ethics Translated by George Eliot, Princeton University Press. Le savait-on ? La première #traduction anglaise de l’Éthique est due à l’une des plus grandes romancières britanniques : George Eliot, qui avant de se lancer dans la fiction a traduit Feuerbach, David Strauss, mais aussi Spinoza. Une traduction demeurée inédite à ce jour, et qui n’a rien à envier à celles qui ont suivi.

    #Philosophie #éthique #histoire_de_la_philosophie #literature #philosophie_morale #Books_and_ideas_originals #histoire_des_idées
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/en_nadler_eliot_spinoza_29062020.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/en_nadler_eliot_spinoza_29062020.pdf

  • Participation-washing could be the next dangerous fad in machine learning
    https://www.technologyreview.com/2020/08/25/1007589/participation-washing-ai-trends-opinion-machine-learning

    Many people already participate in the field’s work without recognition or pay. The AI community is finally waking up to the fact that machine learning can cause disproportionate harm to already oppressed and disadvantaged groups. We have activists and organizers to thank for that. Now, machine-learning researchers and scholars are looking for ways to make AI more fair, accountable, and transparent—but also, recently, more participatory. One of the most exciting and well-attended events at (...)

    #Amazon #AmazonWebServices-AWS #algorithme #CAPTCHA #GigEconomy #scraping #travail (...)

    ##éthique