• Il cotone “sporco e insostenibile” di #Zara ed #H&M e la distruzione del #Cerrado

    La Ong inglese #Earthsight ha condotto un’inchiesta per un anno lungo la filiera di questa fibra tessile: i due marchi della fast fashion avrebbero immesso sul mercato 800mila tonnellate di cotone coltivato su terreni disboscati illegalmente nella savana tropicale che copre un terzo del Brasile. “Il sistema di filiera ‘etica’ su cui si basano questi colossi è fondamentalmente difettoso”

    Se negli ultimi anni avete acquistato vestiti di cotone, asciugamani o lenzuola di H&M o Zara “probabilmente sono macchiati del saccheggio del Cerrado”, un’area ricchissima di biodiversità che copre quasi un quarto della superficie del Brasile. Sam Lawson, direttore della Ong britannica Earthsight, non usa mezzi termini per commentare l’esito dell’inchiesta “Fashion crimes. The European retail giants linked to dirty Brazilian cotton”, pubblicata l’11 aprile, che analizza la lunga e insostenibile filiera di questa fibra dalla produzione (in Brasile) alla lavorazione (in Paesi come Indonesia e Bangladesh), fino alla commercializzazione in Europa (Italia compresa) dove, secondo le stime di Earthsight, i due brand avrebbero messo in commercio prodotti realizzati con 800mila tonnellate di cotone coltivato su terreni disboscati illegalmente nel Cerrado.

    Ma andiamo con ordine. L’inchiesta di Earthsigh prende le mosse proprio dal grande Paese latinoamericano che, negli ultimi dieci anni, ha guadagnato crescente importanza nel mercato globale del cotone, di cui oggi è il secondo esportatore mondiale “e si prevede che entro il 2030 supererà gli Stati Uniti”. Il cuore di questa produzione si concentra in uno degli ecosistemi più fragili e preziosi del mondo: il Cerrado, una grande savana tropicale che ospita una delle più importanti aree di biodiversità al mondo, dove vivono oltre seimila specie di alberi così come centinaia di rettili, mammiferi, anfibi e uccelli.

    La sopravvivenza di questo inestimabile patrimonio è minacciata dalla deforestazione illegale che nel 2023 ha raggiunto livelli record, con un aumento del 43% rispetto al 2022. “Circa la metà della vegetazione nativa del Cerrado è già andata perduta, soprattutto per far posto all’espansione dell’agrobusiness”, evidenzia il report. Milioni di litri d’acqua vengono prelevati regolarmente dai fiumi e dalle falde per irrigare i campi di cotone, la cui coltivazione richiede l’utilizzo di 600 milioni di litri di pesticidi ogni anno.

    L’inchiesta di Earthsight analizza in particolare il ruolo di due dei principali produttori di cotone brasiliani: il gruppo Horita e SLC Agrícola che controllano enormi aziende e centinaia di migliaia di ettari di terreno. “Nel 2014 l’agenzia ambientale dello Stato di Bahia ha rilevato 25mila ettari deforestati illegalmente nelle aziende agricole di Horita a Estrondo -si legge nel report-. Nel 2020 la stessa agenzia ha dichiarato di non essere riuscita a trovare i permessi per altri 11.700 ettari deforestati dall’azienda tra il 2010 e il 2018”. Tra il 2010 e il 2019 l’azienda è stata multata complessivamente più di venti volte, per un totale di 4,5 milioni di dollari, per violazioni ambientali.

    Altrettanto gravi, le denunce rivolte a SLC Agrícola: tre aziende, tutte coltivate a cotone, hanno cancellato per sempre 40mila ettari di Cerrado nativo negli ultimi 12 anni. E, sebbene l’azienda abbia adottato una politica “zero deforestazione” nel 2021, è accusata di aver distrutto altri 1.356 ettari di vegetazione nel 2022. Accuse che hanno spinto il fondo pensionistico pubblico della Norvegia a ritirare i propri investimenti nella società brasiliana.

    Al termine di un lavoro d’inchiesta di un anno -durante il quale hanno analizzato migliaia di registri di spedizione, relazioni aziendali, elenchi di fornitori e siti web– i ricercatori di Earthsight hanno ricostruito la filiera che porta il cotone coltivato illegalmente nel Cerrado nei negozi di Zara ed H&M e poi negli armadi di milioni di persone. I ricercatori hanno identificato otto produttori di abbigliamento asiatici che utilizzano il cotone Horita e SLC e che allo stesso tempo forniscono alle due società di fast fashion milioni di capi di cotone finiti. Tra questi figura l’indonesiana PT Kahatex “il più grande acquirente di cotone contaminato Horita e SLC che abbiamo trovato”. H&M è il secondo cliente dell’azienda indonesiana, da cui ha acquistato milioni di paia di calzini, pantaloncini e pantaloni che sono poi stati messi in vendita nei negozi del gruppo negli Stati Uniti, in Germania, nel Regno Unito, in Svezia, nei Paesi Bassi, in Belgio, in Spagna, in Francia, in Polonia, in Irlanda, in Italia.

    Il cotone sporco del Cerrado è finito anche negli stabilimenti di Jamuna Group, uno dei maggiori conglomerati industriali del Bangladesh: “Nei negozi Zara in Europa, fino ad agosto 2023, sono stati venduti per 235 milioni di euro jeans e altri capi in denim confezionati da Jamuna, circa 21.500 paia al giorno -si legge nel report-. Inditex importa i capi prodotti da Jamuna in Spagna e nei Paesi Bassi, da dove li distribuisce ai suoi negozi Zara, Bershka e Pull&Bear in tutta Europa”. Complessivamente, secondo le stime che i ricercatori hanno elaborato consultando i registri delle spedizioni il Gruppo Horita e SLC Agrícola hanno esportato direttamente almeno 816mila tonnellate di cotone da Bahia verso i mercati esteri tra il 2014 e il 2023. Una quantità di materia prima sufficiente a produrre dieci milioni di capi d’abbigliamento e prodotti per la casa tra lenzuola, tovaglie e tende.

    Ma come è stato possibile, si sono chiesti i ricercatori, che le catene di approvvigionamento dei due marchi di moda siano state “contaminate” da cotone brasiliano legato a deforestazione e land grabbing? “Parte della risposta sta nel fatto che le loro politiche etiche sono piene di falle. Ma soprattutto, il sistema di filiera etica su cui si basano è fondamentalmente difettoso”.

    Il riferimento è al fatto che, nel tentativo di presentarsi come sostenibili e responsabili, i due brand si sono affidati a un sistema di certificazione denominato Better Cotton (BC). “Il cotone che abbiamo collegato agli abusi ambientali a Bahia ne riportava il marchio di qualità. Questo non dovrebbe sorprendere dal momento che Better Cotton è stata ripetutamente accusata di greenwashing e criticata per non aver garantito la piena tracciabilità delle catene di approvvigionamento”, scrivono i ricercatori di Earthsight nel rapporto. Evidenziando come, sebbene dal primo marzo 2024 le regole di BC siano state aggiornate, rimangano comunque una serie di criticità e di punti deboli. A partire dal fatto che il cotone proveniente da terreni disboscati illegalmente prima del 2020 venga ancora certificato.

    “È ormai molto chiaro che i crimini legati ai beni che consumiamo devono essere affrontati attraverso la regolamentazione, non attraverso le scelte dei consumatori -conclude Sam Lawson, direttore di Earthsignt-. Ciò significa che i legislatori dei Paesi consumatori dovrebbero mettere in atto leggi forti con un’applicazione rigorosa. Nel frattempo, gli acquirenti dovrebbero pensarci due volte prima di acquistare il prossimo capo di abbigliamento in cotone”.

    https://altreconomia.it/il-cotone-sporco-e-insostenibile-di-zara-ed-hm-e-la-distruzione-del-cer
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    • Fashion Crimes: The European Retail Giants Linked to Dirty Brazilian Cotton


      Key Findings:

      - The world’s largest fashion brands, H&M and Zara, use cotton linked to land grabbing, illegal deforestation, violence, human rights violations and corruption in Brazil.
      - The cotton is grown by two of Brazil’s largest agribusinesses – SLC Agrícola and the Horita Group – in western Bahia state, a part of the precious Cerrado biome, which has been heavily deforested in recent decades to make way for industrial-scale agriculture.
      - Unlike in the Amazon, deforestation in the Cerrado is getting worse. The biome is home to five per cent of the world’s species. Many face extinction due to habitat loss if current deforestation trends are not reversed.
      - For centuries, traditional communities have lived in harmony with nature. These communities have seen their lands stolen and suffered attacks by greedy agribusinesses serving global cotton markets.
      - The tainted cotton in H&M and Zara’s supply chains is certified as ethical by the world’s largest cotton certification scheme, Better Cotton, which has failed to detect the illegalities committed by SLC and Horita. Better Cotton’s deep flaws will not be addressed by a recent update to its standards.
      - Failure by the fashion sector to monitor and ensure sustainability and legality in its cotton supply chains means governments in wealthy consumer markets must regulate them. Once in place, rules must be strictly enforced.

      https://www.earthsight.org.uk/fashion-crimes

  • Il costo nascosto dell’avocado e le nuove “zone di sacrificio” nelle mire dei grandi produttori

    La produzione globale del frutto viaggia verso le 12 milioni di tonnellate nel 2030. Le monocolture intensive interessano sempre più Paesi, compromettendo falde e biodiversità. Dalla Colombia allo Sri Lanka, dal Vietnam al Malawi. Grain ha analizzato la paradigmatica situazione del Messico, dove si concentra il 40% della produzione.

    “La salsa guacamole che viene consumata durante il Super bowl potrebbe riempire 30 milioni di caschi da football”. La stima è di Armando López, direttore esecutivo dell’Associazione messicana dei coltivatori, confezionatori ed esportatori di avocado, che in occasione della finale del campionato di football americano del 12 febbraio scorso ha pagato quasi sette miliardi di dollari per avere uno spazio pubblicitario in occasione dell’evento sportivo più seguito degli Stati Uniti.

    Solo pochi giorni prima, il 2 febbraio, era stata presentata una denuncia contro il governo del Messico presso la Commissione trilaterale per la cooperazione ambientale (organismo istituito nell’ambito dell’accoro di libero scambio tra il Paese, Stati Uniti e Canada) per non aver fatto rispettare le proprie leggi sulla deforestazione, la conservazione delle acque e l’uso del suolo.

    La notizia ha trovato spazio per qualche giorno sui media statunitensi proprio per la concomitanza con il Super bowl, il momento in cui il consumo della salsa a base di avocado tocca il picco. Ed è anche il punto partenza del report “The avocados of wrath” curato da Grain, rete di organizzazioni che lavorano per sostenere i piccoli agricoltori e i movimenti sociali, e dall’organizzazione messicana Colectivo por la autonomia, che torna a lanciare l’allarme sull’altissimo costo ambientale di questo frutto.

    La denuncia presentata alla Commissione trilaterale si concentra sulla situazione nello Stato del Michoacán, che produce il 75% degli avocado messicani. Qui tra il 2000 e il 2020 la superficie dedicata alla coltura è passata da 78mila a 169mila ettari a scapito delle foreste di abeti locali. Oltre alla deforestazione, il documento pone in rilievo lo sfruttamento selvaggio delle risorse idriche, oltre a un uso eccessivo di fertilizzanti e pesticidi che compromettono le falde sotterranee, i fiumi e i torrenti nelle aree limitrofe alle piantagioni.

    “Il Messico non riesce ad applicare efficacemente le sue leggi ambientali per proteggere gli ecosistemi forestali e la qualità dell’acqua dagli impatti ambientali negativi della produzione di avocado nel Michoacán”, denunciano i curatori. Il Paese nordamericano “non sta rispettando le disposizioni della Costituzione messicana e le varie leggi federali sulla valutazione dell’impatto ambientale, la conservazione delle foreste, lo sviluppo sostenibile, la qualità dell’acqua, il cambiamento climatico e la protezione dell’ambiente”.

    Questa vicenda giudiziaria, di cui non si conoscono ancora gli esiti, rappresenta per Grain un’occasione per guardare più da vicino il Paese e la produzione dell’avocado, diventato negli ultimi anni il terzo frutto più commercializzato al mondo, dopo banana e ananas: nel 2021 la produzione globale di questo frutto, infatti, ha raggiunto quota 8,8 milioni di tonnellate (si stima che possa raggiungere le 12 milioni di tonnellate nel 2030) e il 40% si concentra proprio in Messico, una quota che secondo le stime della Fao potrebbe arrivare al 63% entro il 2030.

    Statunitensi ed europei importano circa il 70% della produzione globale e la domanda è in continua crescita anche per effetto di intense campagne di marketing che ne promuovono i benefici nutrizionali. Di conseguenza dal 2011 a oggi le piantagioni di avocado hanno moltiplicato per quattro la loro superficie in Paesi come Colombia, Haiti, Marocco e Repubblica Dominicana. In Sri Lanka la superficie è aumentata di cinque volte. La produzione intensiva è stata avviata anche in Vietnam e Malawi che oggi rientrano tra i primi venti produttori a livello globale.

    Il mercato di questo frutto vale circa 14 miliardi di dollari e potrebbe toccare i 30 miliardi nel 2030: “La maggiore quota di profitti -riporta Grain- vanno a una manciata di gruppi imprenditoriali, fortemente integrati verticalmente e che continuano a espandersi in nuovi Paesi, dove stanno aprendo succursali”. È il caso, ad esempio, delle società californiane Misison Produce e Calvaro Growers. La prima ha aumentato costantemente le sue vendite nel corso degli ultimi anni, fino a superare di poco il miliardo dollari nel 2022, mentre la seconda ha registrato nello stesso anno vendite per 1,1 miliardi.

    “Queste aziende hanno basato la loro espansione su investimenti da parte di pesi massimi del mondo della finanza -scrive Grain-. Mission Produce e Calavo Growers sono quotate alla Borsa di New York e stanno attirando investimenti da parte di fondi hedge come BlackRock e Vanguard. Stiamo assistendo all’ingresso di fondi di private equity e fondi pensione nel settore degli avocado. Mission Produce, ad esempio, si è unita alla società di private equity Criterion Africa partners per lanciare la produzione di oltre mille ettari di avocado a Selokwe, in Sudafrica”.

    Per Grain guardare da vicino a quello che è accaduto in Messico e al modello produttivo messo in atto dalle aziende dell’agribusiness californiane è utile per comprendere a pieno i rischi che incombono sui Paesi che solo in anni recenti hanno avviato la coltivazione del frutto. Lo sguardo si concentra in particolare sullo Stato del Michoacán dove il boom delle piantagioni è avvenuto a scapito della distruzione delle foreste locali, consumando le risorse idriche di intere regioni e a un costo sociale altissimo.

    Secondo i dati di Grain, ogni ettaro coltivato ad avocado in Messico consuma circa 100mila litri di acqua al mese. Si stima che Perù, Sudafrica, Cile, Israele e Spagna utilizzino 25 milioni di metri cubi d’acqua, l’equivalente di 10mila piscine olimpioniche, per produrre gli avocado importati nel Regno Unito. “Mentre continua a spremere le ultime falde già esaurite in Messico, California e Cile, l’industria del settore sta migrando verso altre ‘zone di sacrificio’ -si legge nel report-. Per irrigare l’arida Valle di Olmos in Perù, dove operano le aziende californiane, il governo locale ha realizzato uno dei megaprogetti più contestati e segnati dalla corruzione del Paese: un tunnel di venti chilometri che attraversa la cordigliera delle Ande per portare l’acqua deviata dal fiume Huancabamba a Olmos”. All’eccessivo sfruttamento delle risorse idriche si aggiunge poi il massiccio utilizzo di prodotti chimici nelle piantagioni: nel solo Michoacán, la coltura dell’avocado si porta dietro ogni anno 450mila litri di insetticidi, 900mila tonnellate di fungicidi e 30mila tonnellate di fertilizzanti.

    https://altreconomia.it/il-costo-nascosto-dellavocado-e-le-nuove-zone-di-sacrificio-nelle-mire-
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    • The Avocados of Wrath

      This little orchard will be part of a great holding next year, for the debt will have choked the owner. This vineyard will belong to the bank. Only the great owners can survive, for they own the canneries too... Men who have created new fruits in the world cannot create a system whereby their fruits may be eaten… In the souls of the people the grapes of wrath are filling and growing heavy, growing heavy for the vintage.”

      So wrote John Steinbeck when, perhaps for the first time, the immense devastation provoked by capitalist agribusiness, the subsequent expulsion of peasant families from the Midwest, and their arrival in California in the 1930s became visible.[1] Perhaps, if he were writing today, he would replace grapes with avocados. The business model for this popular tropical fruit is the epitome of agribusiness recrudescent, causing rampant deforestation and water diversion, the eradication of other modes of agriculture, and the expulsion of entire communities from the land.

      Avocados are, after bananas and pineapples, the world’s third-largest fruit commodity. Their production is taking up an ever-growing area and continually expanding into new countries. What are the implications of this worldwide expansion? What forces are driving it? How does this model, working on both global and local scales, manage to keep prices high? How did the current boom, with avocados featured at major sporting events and celebrations of all kinds, come to pass? What are the social repercussions of this opaque business?

      We begin the story on 12 February 2023 in Kansas City at the 57th Super Bowl, American football’s premier annual event. A month earlier, more than 2000 km away in Michoacán, Mexico, tens of thousands of tons of avocados were being packed for shipping. The United States imports 40% of global avocado production and the Super Bowl is when consumption peaks. “The guacamole eaten during the Super Bowl alone would fill 30 million football helmets,” says Armando López, executive director of the Mexican Association of Avocado Growers, Packers, and Exporters (APEAM), which paid nearly $7 million for a Super Bowl ad.[2]

      Despite its limited coverage in US media, the dark side of avocado production was the unwelcome guest at this year’s event. A complaint against the Government of Mexico had recently been filed with the Commission for Environmental Cooperation under the USMCA, accusing the government of tolerating the ecocidal impacts of avocado production in Michoacán.[3]

      Mexico can be seen as a proving ground for today’s avocado industry. Focusing on this country helps tell the story of how the avocado tree went from being a relic of evolutionary history to its current status as an upstart commodity characterized by violence and media-driven consumerism.

      Booming world production

      For a decade now, avocados have been the growth leaders among tropical fruit commodities.[4] Mexico, the world’s largest exporter, accounts for 40% of total production. According to OECD and FAO projections, this proportion could reach 63% in 2030. The United States absorbs 80% of Mexican avocado exports, but production is ramping up in many other countries.

      In 2021, global production reached 8.8 million tons, one third of which was exported, for a value of $7.4 billion. By 2030, production is expected to reach 12 million tons. Within a decade, the average area under cultivation doubled in the world’s ten largest producer countries (see Figure 1). It quadrupled in Colombia, Haiti, Morocco, and the Dominican Republic, and quintupled in Zimbabwe. Production has taken off at a gallop in Malawi and Vietnam as well, with both countries now ranking among the top 20 avocado producers.

      The top 10 countries account for 80% of total production. In some of these, such as Mexico, Peru, Chile, and Kenya (see Table 1), the crop is largely grown for export. Its main markets are the United States and Europe, which together make up 70% of global imports. While Mexico supplies its neighbour to the north all year long, the avocados going to Europe come from Peru, South Africa, and Kenya in the summer and from Chile, Mexico, Israel, and Spain in the winter.[5] The Netherlands, as the main port of entry for the European Union, has become the world’s third-leading exporter.

      Other markets are rapidly opening up in Asia. Kenya, Ethiopia, and recently Tanzania have begun exporting to India and China,[6] while Chinese imports from Peru, Mexico, and Chile are also on the rise. In 2021, despite the pandemic, these imports surpassed 41,000 tons.[7] In addition, US avocado companies have begun cutting costs by sourcing from China, Yunnan province in particular.[8]

      The multimillion dollar “#green_gold” industry

      According to some estimates, the global avocado market was worth $14 billion in 2021 and could reach $30 billion by 2030.[10] The biggest profits go to a handful of vertically integrated groups that are continuing to fan out to new countries, where they are setting up subsidiaries. They have also tightened their control over importers in the main global hubs.
      For two examples, consider the California-based Mission Produce and Calavo Growers. In 2021, Mission Produce reported sales equivalent to 3% of global production,[11] and its sales have risen steadily over the last decade, reaching $1.045 billion in 2022.[12] The United States buys 80% of the company’s volume, with Europe, Japan, and China being other large customers, and it imports from Peru, Mexico, Chile, Colombia, Guatemala, the Dominican Republic, South Africa, Kenya, Morocco, and Israel. It controls 8600 hectares in Peru, Guatemala, and Colombia.[13]

      Calavo Growers, for its part, had total sales of $1.191 billion in 2022.[14] More than half its revenues came from packing and distribution of Mexican, US, Peruvian, and Colombian avocados.[15] The United States is far and away its biggest market, but in 2021 it began stepping up Mexican exports to Europe and Asia.[16]

      South Africa-based Westfalia Fruits is another relevant company in the sector. It has 1200 hectares in South Africa and is expanding to other African and Latin American countries. It controls 1400 hectares in Mozambique and has taken over large exporters such as Aztecavo (Mexico), Camet (Peru), and Agricom (Chile).[17] Its main markets are Europe, the United States, South America, and Asia.[18] Some of its subsidiaries are incorporated in the tax haven of Delaware, and it has acquired importers in the UK and Germany.[19]

      These companies have based their expansion on investment from heavyweight players in the world of finance. Mission Produce and Calavo Growers are listed on the New York Stock Exchange and are attracting investment from such concerns as BlackRock and The Vanguard Group.[20] We are also seeing private equity, endowment, and pension funds moving into avocados; Mission Produce, for example, joined with private equity firm Criterion Africa Partners to launch production of over 1000 hectares of avocados in Selokwe (South Africa).[21]

      In 2020, Westfalia sold shares in Harvard Management Company, the company that manages Harvard University’s endowment fund.[22] Also involved is the Ontario Teachers’ Pension Plan, which in 2017 acquired Australia’s second-largest avocado grower, Jasper Farms. PSP Investments, which manages Canada’s public service sector pensions, made a controversial acquisition of 16,500 hectares in Hawaii for production of avocado, among other crops, and faces grave accusations deriving from its efforts to monopolize the region’s water supply.[23]

      Finally, it has to be emphasized that the expansion enjoyed by these companies has been aided by public funding. For example, South Africa’s publicly owned Industrial Development Corporation (IDC) and the World Bank’s International Finance Corporation (IFC) have supported Westfalia’s incursions into Africa and Latin America under the guise of international development.[24]

      A proving ground for profit and devastation

      To take the full measure of the risks looming over the new areas being brought under the industrial avocado model, it is important to read Mexico as a proving ground of sorts. The country has become the world’s largest producer through a process bound up with the dynamics of agribusiness in California, where avocado production took its first steps in the early twentieth century. The US market grew rapidly, protected from Mexican imports by a 1914 ban predicated on an alleged threat of pests coming into the country.

      This was the genesis of Calavo Growers (1924) and Henry Avocado (1925). California began exporting to Europe and expanding the area under cultivation, reaching a peak of 30,000 hectares in the mid-1980s, when Chile began competing for the same markets.[29] It was then that consortia of California avocado producers founded West Pak and Mission Produce, and the latter of these soon began operations as an importer of Chilean avocados. In 1997, 60% of US avocado purchases came from Chile, but the business collapsed with the signing of the North American Free Trade Agreement (NAFTA).[30] Lobbying by APEAM and the US companies then led to the lifting of the ban on Mexican imports. With liberalization under NAFTA, Mexican avocado exports multiplied by a factor of 13, and their commercial value by a factor of 40, in the first two decades of the twenty-first century.

      The California corporations set up subsidiaries in Mexico and began buying directly from growers, going as far as to build their own packing plants in Michoacán.[31] One study found that by 2005, Mission Produce, Calavo Growers, West Pak, Del Monte, Fresh Directions, and Chiquita had cornered 80% of US avocado imports from Mexico.[32]

      Today, the state of Michoacán monopolizes 75% of the nation’s production, followed by Jalisco with 10% and Mexico state with 5%.[33] In 2019, export-oriented agriculture was a high-profile player in the industry, with public policies being structured around its needs. And if the business had become so profitable, it was because of the strategies of domination that had been deployed by avocado agribusiness and the impacts of these strategies on peasant and community ways of life.[34] The Mexican avocado boom is now reliant on the felling of whole forests. In many cases these are burned down or clear-cut to make way for avocado groves, using up the water supply of localities or even whole regions. The societal costs are enormous.

      In 2021, Mexico produced some 2.5 million tons of avocados; within the preceding decade, nearly 100,000 hectares had been directly or indirectly deforested for the purpose.[35] In Michoacán alone, between 2000 and 2020, the area under avocados more than doubled, from 78,530.25 to 169,939.45 ha.[36] And reforestation cannot easily repair the damage caused by forest destruction: the ecological relationships on which biodiversity depends take a long time to evolve, and the recovery period is even longer after removal of vegetation, spraying of agrotoxins, and drying of the soil.

      In Jalisco, the last decade has seen a tripling of the area under avocado, agave, and berries, competing not only with peasants and the forests stewarded by original peoples, but also with cattle ranchers.[37] “Last year alone,” says Adalberto Velasco Antillón, president of the Jalisco ranchers’ association, “10,000 cattlemen (dairy and beef) went out of business.”[38]

      According to Dr. Ruth Ornelas, who studies the avocado phenomenon in Mexico, the business’s expansion has come in spite of its relative cost-inefficiency. “This is apparent in the price of the product. Extortion garners 1.4% of total revenues,… or 4 to 6 pesos per kilogram of avocados.” It is a tax of sorts, but one that is collected by the groups that control the business, not by the government.[39] According to Francisco Mayorga, minister of agriculture under Vicente Fox and Enrique Calderón, “they collect not only from the farmer but from the packer, the loggers, the logging trucks and the road builders. And they decide, depending on the payments, who gets to ship to Manzanillo, Lázaro Cárdenas, Michoacán and Jalisco. That’s because they have a monopoly on what is shipped to the world’s largest buyer, the United States.”[40]

      By collecting this toll at every link in the chain, they control the whole process, from grower to warehouse to packer to shipper, including refrigeration and the various modes of distribution. And not only do they collect at every step, but they also keep prices high by synchronizing supply from warehouse to consumer.

      Dr. Ornelas says, “They may try to persuade people, but where that doesn’t work, bribes and bullets do the trick. Organized crime functions like a police force in that it plays a certain role in protecting the players within the industry. It is the regulatory authority. It is the tax collector, the customs authority, and the just-in-time supplier. Sadly, the cartels have become a source of employment, hiring halcones [taxi drivers or shoeshine boys working as spies], chemists, and contract killers as required. It seems that they even have economists advising them on how to make the rules.” Mayorga adds: “When these groups are intermingled with governmental structures, there is a symbiosis among growers, criminals, vendors, and input suppliers. If somebody tries to opt out of the system, he may lose his phytosanitary certification and hence his ability to export.” Mayorga stresses that the criminals administer the market and impose a degree of order on it; they oversee the process at the domestic and international levels, “regulating the flow of product so that there is never a glut and prices stay high.” Investment and extortion are also conducive to money laundering. It is very hard to monitor who is investing in the product, how it is produced, and where it is going. Yet the government trumpets avocados as an agri-food success.

      Official data indicate that there are 27,712 farms under 10 hectares in Michoacán, involving 310,000 people and also employing 78,000 temporary workers.[41] These small farms have become enmeshed in avocado capitalism and the pressures it places on forests and water; more importantly, however, the climate of violence keeps the growers in line. In the absence of public policy and governmental controls, and with organized crime having a tight grip on supply chains and world prices, violence certainly plays a role in governance of the industry. But these groups are not the ones who run the show, for they themselves are vertically integrated into multidimensional relationships of violence. It is the investors and large suppliers, leveraged by the endowment, pension, and private equity funds, who keep avocado production expanding around the world.[42]

      A headlong rush down multiple paths

      The Mexican example alerts us to one of the main problems associated with avocado growing, and that is water use. In Mexico, each hectare consumes 100,000 litres per month, on top of the destruction of the biodiverse forests that help preserve the water cycle.[46] A whole other study ought to be devoted to the indiscriminate use of agrotoxins and the resulting groundwater contamination. In Michoacán alone, the avocado crop receives 450,000 litres of insecticides, 900,000 tons of fungicides, and 30,000 tons of fertilizers annually.[47]

      Wherever they are grown, avocados consume an astonishing volume of water. An estimated 25 million m³, or the equivalent of 10,000 Olympic swimming pools, are estimated to be used by Peru, South Africa, Chile, Israel, and Spain to produce the avocados imported into the UK.[48]

      California has maintained its 90% share of the US avocado market, but this situation is not predicted to endure beyond 2050.[49] California’s dire water crisis has been driven to a significant extent by the industrial production of avocados and other fruits, with climate change exacerbating the problem.[50]
      In the Chilean province of Petorca, which accounts for 60% of Chile’s avocado exports, the production of one kilogram of avocados requires 1280 litres of water. Water privatization by the Pinochet dictatorship in 1981 coincided with the rise of the country’s export industry and abetted the development of large plantations, which have drained the rivers and driven out peasant farming.[51] This appears to be one of the reasons why Chile is no longer self-sufficient in this commodity. “We import more than we export now,” said the director of Mission Produce, Steve Barnard, two years ago, stating that avocados were being brought in not only from Peru but also from California.[52]

      Even as it continues to squeeze the last drops of water out of depleted aquifers in Mexico, California, and Chile, the industry is migrating into other sacrifice zones.[53] To water the arid Olmos Valley in Peru, where California’s avocado companies operate, the Peruvian government developed one of the country’s most corrupt and conflict-ridden megaprojects: a 20-km tunnel through the Andes range, built in 2014, to deliver water diverted from the Huancabamba River to Olmos. The project was sold as an “opportunity to acquire farmland with water rights in Peru.”[54]

      Colombia was the next stop on the avocado train, with the crop spreading out across Antioquia and the coffee-growing region, and with even large mining interests joining forces with agribusiness.[55] “Peru is destined to replace much of its avocado land with citrus fruit, which is less water-intensive,” said Pedro Aguilar, manager of Westfalia Fruit Colombia, in 2020, although “water is becoming an absolutely marvelous investment draw, since it is cost-free in Colombia.”[56]

      Sowing the seeds of resistance

      If Mexico has been an experiment in devastation, it has also been an experiment in resistance, as witness the inspiring saga of the Purépecha community of Cherán, Michoacán. In 2012, the community played host to a preliminary hearing of the Permanent Peoples’ Tribunal that condemned land grabbing, deforestation, land conversion, agrotoxin spraying, water depletion, fires, and the widespread violence wielded against the population. It laid the blame for these plagues squarely on timber theft, the avocado industry, berry greenhouses, and agave production.

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      One year earlier, the population had decided to take matters in hand. They were fed up with this litany of injustices and with the violence being inflicted on them by the paramilitary forces of organized crime. Led by the women, the community took up the arduous task of establishing checkpoints marked out by bonfires (which were also used for cooking) throughout the area. Any institution or group that questioned their collective authority was immediately confronted. The newly created community police force is answerable to the general assembly, which in turn reports to the neighbourhood assemblies. A few years ago, the community gated itself to outsiders while working on restoring the forest and establishing its own horizontal form of government with respect for women, men, children, and elders.

      The community then took another step forward, opting for municipal and community autonomy. This was not a straightforward process, but it did finally lead to approval by the National Electoral Institute for elections to take place under customary law and outside the party system. This example spread to other communities such as Angahuan that are also grappling with agribusiness, corruption, and organized crime.[57]

      Clearly, this struggle for tradition-rooted self-determination is just beginning. The cartels, after all, are pursuing their efforts to subdue whole regions. Meanwhile, for their own defence, the people are continuing to follow these role models and declaring self-government.

      An unsustainable model

      “The works of the roots of the vines, of the trees, must be destroyed to keep up the price, and this is the saddest, bitterest thing of all. Carloads of oranges dumped on the ground. The people came for miles to take the fruit, but … men with hoses squirt kerosene on the oranges, and they are angry at the crime, angry at the people who have come to take the fruit. A million people hungry, needing the fruit—and kerosene sprayed over the golden mountains.”[58]

      Per capita consumption of avocados has kept on growing in the importing countries, driven by intense marketing campaigns promoting the nutritional benefits of this food. In the United States alone, consumption has tripled in 20 years.[59] While avocados are sold as a superfood, a convenient veil remains thrown over what is actually happening at the local level, where the farmers are not the ones benefiting. While this global trend continues, various false solutions are proposed, such as water-saving innovations or so-called “zero deforestation” initiatives.

      In this exploitative model, small- and medium-sized growers are forced to take on all the risk while also bearing the burden of the environmental externalities. The big companies and their investors are largely shielded from the public health and environmental impacts.

      As we have said, the growers are not the ones who control the process; not even organized crime has that power. They are both just cogs in the industrial agri-food system, assisting the destruction it wreaks in order to eke out a share of the colossal dividends it offers. To truly understand the workings of the system, one has to study the supply chain as a whole.

      Given these realities, it is urgent for us to step up our efforts to denounce agribusiness and its corrupting, devastating model. The people must organize to find ways out of this nightmare.

      * Mexico-based Colectivo por la Autonomía works on issues related to territorial defence and peasant affairs, through coordination with other Mexican and Latin American social movement organizations, as well as legal defence and research on the environmental and social impacts experienced by indigenous and rural territories and communities.

      Banner image: Mural in Cherán that tells the story of their struggle. This mural is inside the Casa Comunal and is part of a mural revival throughout the city, where there are collective and individual works in many streets and public buildings. This mural is the work of Marco Hugo Guardián Lemus and Giovanni Fabián Gutiérrez.

      [1] John Steinbeck, The Grapes of Wrath Penguin Classics, 1939, 2006.
      [2] Guillermina Ayala, “López: “Un Súper Bowl con guacamole,” Milenio, 11 February 2023, https://www.milenio.com/negocios/financial-times/exportaciones-de-toneladas-de-aguacate-para-la-final-de-la-nfl.
      [3] The USMCA is the trade agreement between Mexico, the United States, and Canada. See also Isabella González, “Una denuncia lleva a la producción mexicana de aguacate ante la comisión ambiental del T-MEC por ecocidio,” El País, 8 February 2023, https://elpais.com/mexico/2023-02-08/una-denuncia-lleva-a-la-produccion-mexicana-de-aguacate-ante-la-comision-amb.
      [4] In what follows, the sources for production volumes, areas under cultivation, and sales are the FAOSTAT and UN Comtrade databases [viewed 25 January 2023]. The source for 2030 projections is OECD/FAO, OECD-FAO Agricultural Outlook 2021–2030, 2021, https://doi.org/10.1787/19428846-en.
      [5] Ruben Sommaruga and Honor May Eldridge, “Avocado Production: Water Footprint and Socio-economic Implications,” EuroChoices 20(2), 13 December 2020, https://doi.org/10.1111/1746-692X.12289.
      [6] See George Munene, “Chinese traders plan on increasing Kenyan avocado imports,” Farmbiz Africa, 1 August 2022, https://farmbizafrica.com/market/3792-chinese-traders-plan-on-increasing-kenyan-avocado-imports; Tanzania Invest, “Tanzania sign 15 strategic agreements with China, including avocado exports,” 5 November 2022, https://www.tanzaniainvest.com/economy/trade/strategic-agreements-with-china-samia.
      [7] USDA, "China: 2022 Fresh Avocado Report, 14 November 2022, https://www.fas.usda.gov/data/china-2022-fresh-avocado-report.
      [8] Global AgInvesting, “US-based Mission Produce is developing its first domestic avocado farm in China,” 8 June 2018, https://www.farmlandgrab.org/post/view/28223-us-based-mission-produce-is-developing-its-first-domestic-avocad.
      [9] Wageningen University & Research, “Improved mango and avocado chain helps small farmers in Haiti,” 2022, https://www.wur.nl/en/project/improved-mango-and-avocado-chain-helps-small-farmers-in-haiti-1.htm.
      [10] See Grand View Research, “Avocado market size, share & trends analysis report by form (fresh, processed), by distribution channel (B2B, B2C), by region (North America, Europe, Asia Pacific, Central & South America, MEA), and segment forecasts, 2022–2030,” 2022, https://www.grandviewresearch.com/industry-analysis/fresh-avocado-market-report; Straits Research, “Fresh avocado market,” 2022, https://straitsresearch.com/report/fresh-avocado-market.
      [11] Mission Produce, “Mission Produce announces fiscal 2021 fourth quarter financial results,” 22 December 2021, https://investors.missionproduce.com/news-releases/news-release-details/mission-produce-announces-fiscal-2021-fourth-quarter-finan.
      [12] Sources: Capital IQ and United States Securities and Exchange Commission, “Mission Produce: Form 10-K,” 22 December 2022, https://investors.missionproduce.com/financial-information/sec-filings?items_per_page=10&page=.
      [13] The company reports that it has had avocado plantations since 2011 on three Peruvian farms covering 3900 ha, in addition to producing blueberries on 400 hectares (including greenhouses) as part of a joint venture called Moruga. See Mission Produce, “Investor relations,” December 2022, https://investors.missionproduce.com; United States Securities and Exchange Commission, “Mission Produce: Form 10-K,” 22 December 2022, https://investors.missionproduce.com/financial-information/sec-filings?items_per_page=10&page=1, and https://missionproduce.com/peru.
      [14] Sources: https://ir.calavo.com; Calavo Growers, “Calavo Growers, Inc. announces fourth quarter and fiscal 2021 financial results,” 20 December 2021, https://ir.calavo.com/news-releases/news-release-details/calavo-growers-inc-announces-fourth-quarter-and-fiscal-2021
      [15] Its main subsidiaries in Mexico are Calavo de México and Avocados de Jalisco; see Calavo Growers, Calavo Growers, Inc. Investor Presentation, 12 December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/f4ee2e5a-0221-4b48-9b82-7aad7ca69ea7; United States Securities and Exchange Commission, Calavo Growers, Inc. form 10-K, December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/9c13da31-3239-4843-8d91-6cff65c6bbf7.
      [16] Among its main US clients are Kroger (15% of 2022 total sales), Trader Joe’s (11%), and Wal-Mart (10%) Source: Capital IQ. See also “Calavo quiere exportar aguacate mexicano a Europa y Asia,” El Financiero, 8 January 2021, https://www.elfinanciero.com.mx/opinion/de-jefes/calavo-quiere-exportar-aguacate-mexicano-a-europa-y-asia.
      [17] See IDC, “Westfalia grows an empire,” 2018, https://www.idc.co.za/westfalia-grows-an-empire; IFC, Creating Markets in Mozambique, June 2021, https://www.ifc.org/wps/wcm/connect/a7accfa5-f36b-4e24-9999-63cffa96df4d/CPSD-Mozambique-v2.pdf?MOD=AJPERES&CVID=nMNH.3E; https://www.westfaliafruit.com/about-us/our-operations/westfalia-fruto-mocambique; “Agricom y Westfalia Fruit concretan asociación en Latinoamérica,” Agraria.pe, 9 January 2018, https://agraria.pe/noticias/agricom-y-westfalia-fruit-concretan-asociacion-en-latinoamer-15664.
      [18] Marta del Moral Arroyo, “Prevemos crecer este año un 20% en nuestras exportaciones de palta a Asia y Estados Unidos,” Fresh Plaza, 27 May 2022, https://www.freshplaza.es/article/9431020/prevemos-crecer-este-ano-un-20-en-nuestras-exportaciones-de-palta-a-asia-.
      [19] See https://opencorporates.com/companies?jurisdiction_code=&q=westfalia+fruit&utf8=%E2%9C%93.
      [20] For example, in the case of Calavo Growers, BlackRock controls 16%, Vanguard Group 8%, and five other investment 20%; see Capital IQ, “Nuance Investments increases position in Calavo Growers (CVGW),” Nasdaq, 8 February 2023, https://www.nasdaq.com/articles/nuance-investments-increases-position-in-calavo-growers-cvgw; “Vanguard Group increases position in Calavo Growers (CVGW),” Nasdaq, 9 February 2023, https://www.nasdaq.com/articles/vanguard-group-increases-position-in-calavo-growers-cvgw.
      [21] Liam O’Callaghan, “Mission announces South African expansion,” Eurofruit, 8 February 2023, https://www.fruitnet.com/eurofruit/mission-announces-south-african-expansion/248273.article. Criterion Africa Partners invests with funds from the African Development Bank, the European Investment Bank, and the Dutch Entrepreneurial Development Bank (FMO) (Source: Preqin).
      [22] Harvard Management Company subsequently spun out its holdings in Westfalia to the private equity fund Solum Partners; see Lynda Kiernan, “HMC investment in Westfalia Fruit International to drive global expansion for avocados,” Global AgInvesting, 17 January 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29422-hmc-investment-in-westfalia-fruit-international-to-drive-global-; Michael McDonald, “Harvard spins off natural resources team, to remain partner,” Bloomberg, 8 October 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29894-harvard-spins-off-natural-resources-team-to-remain-partner.
      [23] See “Ontario Teachers’ acquires Australian avocado grower Jasper Farms,” OTPP, 19 December 2017, https://www.farmlandgrab.org/post/view/27774-ontario-teachers-acquires-australian-avocado-grower-jasper-farms; “Canadian pension fund invests in ex-plantation privatizing Hawaii’s water,” The Breach, 23 February 2022, https://www.farmlandgrab.org/post/view/30782-canadian-pension-fund-invests-in-ex-plantation-privatizing-hawai.
      [24] See https://disclosures.ifc.org/enterprise-search-results-home/42280; https://disclosures.ifc.org/project-detail/SII/40091/westfalia-intl. Westfalia is a subsidiary of the South African logging company Hans Merensky Holdings (HMH), whose main shareholders are the Hans Merensky Foundation (40%), IDC (30%), and CFI (20%) (see https://disclosures.ifc.org/project-detail/SII/42280/westfalia-moz-ii).
      [25] Amanda Landon, “Domestication and significance of Persea americana, the avocado, in Mesoamerica,” Nebraska Anthropologist, 47 (2009), https://digitalcommons.unl.edu/cgi/viewcontent.cgi?referer=https://en.wikipedia.org/&httpsredir=1&article=1046&context=nebanthro.
      [26] Ibid., 70.
      [27] Jeff Miller, Avocado: A Global History (Chicago: University of Chicago Press, 2020), https://press.uchicago.edu/ucp/books/book/distributed/A/bo50552476.html.
      [28] Maria Popova, “A ghost of evolution: The curious case of the avocado, which should be extinct but still exists,” The Marginalian, https://www.themarginalian.org/2013/12/04/avocado-ghosts-of-evolution/?mc_cid=ca28345b4d&mc_eid=469e833a4d, citing Connie Barlow, The Ghosts of Evolution: Nonsensical Fruit, Missing Partners, and Other Ecological Anachronisms, https://books.google.com.mx/books/about/The_Ghosts_Of_Evolution.html?id=TnU4DgAAQBAJ&redir_esc=y.
      [29] Patricia Lazicki, Daniel Geisseler, and Willliam R. Horwath, “Avocado production in California,” UC Davis, 2016, https://apps1.cdfa.ca.gov/FertilizerResearch/docs/Avocado_Production_CA.pdf.
      [30] Flavia Echánove Huacuja, “Abriendo fronteras: el auge exportador del aguacate mexicano a United States,” Anales de Geografía de la Universidad Complutense, 2008, Vol. 28, N° 1, https://revistas.ucm.es/index.php/aguc/article/download/aguc0808110009a/30850.
      [31] Calavo Growers, Calavo Growers, Inc. Investor Presentation, 12 December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/f4ee2e5a-0221-4b48-9b82-7aad7ca69ea7.
      [32] Flavia Echánove Huacuja, op cit., the evolution of these companies in the sector was different. Chiquita withdrew from the avocado industry in 2012, while for Del Monte, this fruit accounts for a steadily declining share of its sales, reaching 8% ($320 million) in 2021 (see https://seekingalpha.com/article/1489692-chiquita-brands-restructuring-for-value; United States Securities and Exchange Commission, Fresh Del Monte Produce Inc. Form 10-K, 2022; Del Monte Quality, A Brighter World Tomorrow, https://freshdelmonte.com/wp-content/uploads/2022/10/FDM_2021_SustainabilityReportFINAL.pdf. )
      [33] Source: SIAP (http://infosiap.siap.gob.mx/gobmx/datosAbiertos_a.php) [viewed 27 November 2022].
      [34] María Adelina Toribio Morales, César Adrián Ramírez Miranda, and Miriam Aidé Núñez Vera, “Expansión del agronegocio aguacatero sobre los territorios campesinos en Michoacán, México,” Eutopía, Revista de Desarrollo Económico Territorial, no. 16, December 2019, pp. 51–72, https://revistas.flacsoandes.edu.ec/eutopia/article/download/4117/3311?inline=1.
      [35] Enrique Espinosa Gasca states: “The Ministry of the Environment, Natural Resources, and Climate Change (Semadet) in Michoacán acknowledged in March 2019 that in the first twenty years of the millennium, Michoacán has lost a million hectares of its forests, some due to clandestine logging and some due to forest fires set for purposes of land conversion”; “Berries, frutos rojos, puntos rojos,” in Colectivo por la Autonomía and GRAIN, eds, Invernaderos: Controvertido modelo de agroexportación (Ceccam, 2021).
      [36] Gobierno de México, SIACON (2020), https://www.gob.mx/siap/documentos/siacon-ng-161430; idem, Servicio de Información Agroalimentaria y Pesquera (SIAP), http://infosiap.siap.gob.mx/gobmx/datosAbiertos_a.php.
      [37] “Se triplica cosecha de agave, berries y aguacate en Jalisco,” El Informador, 23 December 2021, https://www.informador.mx/Se-triplica-cosecha-de-agave-berries-y-aguacate-en-Jalisco-l202112230001..
      [38] María Ramírez Blanco, “Agave, berries y aguacate encarece precio de la tierra en Jalisco, roba terreno al maíz y al ganado,” UDG TV, 31 January 2023, https://udgtv.com/noticias/agave-berries-aguacate-encarece-precio-tierra-jalisco-roba-maiz.
      [39] Agustín del Castillo, Territorio Reportaje, part 8, “Negocio, ecocidio y crimen,” Canal 44tv, Universidad de Guadalajara, October 2022, https://youtu.be/WfH3M22rrK8

      .
      [40] Agustín del Castillo, Territorio Reportaje, part 7, “La huella criminal en el fruto más valioso del mundo: la palta, el avocado, el aguacate,” Canal 44tv, Universidad de Guadalajara, September 2022, https://www.youtube.com/watch?v=GSz8xihdsTI
      .
      [41] Gobierno de México, Secretaría de Agricultura y Desarrollo Rural, “Productores de pequeña escala, los principales exportadores de aguacate a Estados Unidos: Agricultura,” 29 January 2020, https://www.gob.mx/agricultura/prensa/productores-de-pequena-escala-los-principales-exportadores-de-aguacate-a-estados.
      [42] Our results and arguments coincide with those found in Alexander Curry, “Violencia y capitalismo aguacatero en Michoacán,” in Jayson Maurice Porter and Alexander Aviña, eds, Land, Markets and Power in Rural Mexico, Noria Research. Curry is skeptical of analyses in which violence can be understood in terms of its results, such as the coercive control of a market square or highway. “Such analyses forget that violence is part of a social process, with its own temporal framework,” he writes. It is therefore necessary to frame the process within a broader field of relations of inequality of all kinds, in which the paradox is that legal and illegal actors intermingle at the local, national, and international levels, but in spheres that rarely intersect. The avocado industry cannot be explained by the cartels but by the tangled web of international capitalism.
      [43] See https://www.netafim.com.mx/cultivos/aguacate and https://es.rivulis.com/crop/aguacates.
      [44] Jennifer Kite-Powell, “Using Drip Irrigation To Make New Sustainable Growing Regions For Avocados”, Forbes, 29 March 2022: https://www.forbes.com/sites/jenniferhicks/2022/03/29/using-drip-irrigation-to-make-new-sustainable-growing-regions-for-avocados .
      [45] See Pat Mooney, La Insostenible Agricultura 4.0: Digitalización y Poder Corporativo en la Cadena Alimentaria, ETC Group, 2019, https://www.etcgroup.org/sites/www.etcgroup.org/files/files/la_insostenible_agricultura_4.0_web26oct.pdf. See also Colectivo por la Autonomía and GRAIN, eds, Invernaderos: controvertido modelo de agroexportación.
      [46] Colectivo por la Autonomía, Evangelina Robles, José Godoy, and Eduardo Villalpando, “Nocividad del metabolismo agroindustrial en el Occidente de México,” in Eduardo Enrique Aguilar, ed., Agroecología y Organización Social: Estudios Críticos sobre Prácticas y Saberes (Monterrey: Universidad de Monterrey, Editorial Ítaca, 2022), https://www.researchgate.net/publication/365173284_Agroecologia_y_organizacion_social_Estudios_criticos_sobre_p.
      [47] Metapolítica, “La guerra por el aguacate: deforestación y contaminación imparables,” BiodiversidadLA, 24 June 2019, https://www.biodiversidadla.org/Noticias/La-guerra-por-el-Aguacate-deforestacion-y-contaminacion-imparables.
      [48] Chloe Sutcliffe and Tim Hess, “The global avocado crisis and resilience in the UK’s fresh fruit and vegetable supply system,” Global Food Security, 19 June 2017, https://www.foodsecurity.ac.uk/blog/global-avocado-crisis-resilience-uks-fresh-fruit-vegetable-supply-sy.
      [49] Nathanael Johnson, “Are avocados toast? California farmers bet on what we’ll be eating in 2050,” The Guardian, 30 May 2016, https://www.theguardian.com/environment/2018/may/30/avocado-california-climate-change-affecting-crops-2050.
      [50] GRAIN, “The well is running dry on irrigated agriculture,” 20 February 2023, https://grain.org/en/article/6958-the-well-is-running-dry-on-irrigated-agriculture.
      [51] Danwatch, “Paltas y agua robada,” 2017, http://old.danwatch.dk/wp-content/uploads/2017/05/Paltas-y-agua-robada.pdf.
      [52] Fresh Fruit Portal, “Steve Barnard, founder and CEO of Mission Produce: We now import more to Chile than we export,” 23 August 2021, https://www.freshfruitportal.com/news/2021/08/23/steve-barnard-founder-and-ceo-of-mission-produce-we-now-import-mor.
      [53] Sacrifice zones are “places with high levels of environmental contamination and degradation, where profits have been given priority over people, causing human rights abuses or violations”: Elizabeth Bravo, “Zonas de sacrificio y violación de derechos,” Naturaleza con Derechos, Boletín 26, 1 September 2021, https://www.naturalezaconderechos.org/2021/09/01/boletin-26-zonas-de-sacrificio-y-violacion-de-derechos.
      [54] See Catalina Wallace, “La obra de ingeniería que cambió el desierto peruano,” Visión, March 2022, https://www.visionfruticola.com/2022/03/la-obra-de-ingenieria-que-cambio-el-desierto-peruano; “Proyecto de irrigación Olmos,” Landmatrix, 2012, https://landmatrix.org/media/uploads/embajadadelperucloficinacomercialimagesstoriesproyectoirrigacionolmos201. The costly project was part of the Odebrecht corruption case fought in the context of the “Lava Jato” operation: Jacqueline Fowks, “El ‘caso Odebrecht’ acorrala a cuatro expresidentes peruanos,” El País, 17 April 2019, https://elpais.com/internacional/2019/04/16/america/1555435510_660612.html.
      [55] Liga contra el Silencio, “Los aguacates de AngloGold dividen a Cajamarca,” 30 October 2020, https://www.biodiversidadla.org/Documentos/Los-aguacates-de-AngloGold-dividen-a-Cajamarca.
      [56] “Colombia: Los aguacates de AngloGold dividen a Cajamarca,” La Cola de Rata,16 October 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29921-colombia-los-aguacates-de-anglogold-dividen-a-cajamarca.
      [57] See Las luchas de Cherán desde la memoria de los jóvenes (Cherán Ireteri Juramukua, Cherán K’eri, 2021); Daniela Tico Straffon and Edgars Martínez Navarrete, Las raíces del despojo, U-Tópicas, https://www.u-topicas.com/libro/las-raices-del-despojo_15988; Mark Stevenson, “Mexican town protects forest from avocado growers and drug cartels,” Los Angeles Times, https://www.latimes.com/world-nation/story/2022-01-31/mexican-town-protects-forest-from-avocado-growers-cartels; Monica Pellicia, “Indigenous agroforestry dying of thirst amid a sea of avocados in Mexico,” https://news.mongabay.com/2022/06/indigenous-agroforestry-dying-of-thirst-amid-a-sea-of-avocados-in-mex
      [58] The Grapes of Wrath, op. cit.
      [59] USDA, “Imports play dominant role as U.S. demand for avocados climbs,” 2 May 2022, https://www.ers.usda.gov/data-products/chart-gallery/gallery/chart-detail/?chartId=103810.

      https://grain.org/e/6985#_edn36

      #rapport #Grain #land_grabbing #accaparement_des_terres

  • GRAIN | S’offrir des terres du Niger pour des crédits carbone : le nouveau greenwashing qui prend de l’ampleur en Afrique
    https://grain.org/fr/article/6906-s-offrir-des-terres-du-niger-pour-des-credits-carbone-le-nouveau-greenwa

    En effet, une nouvelle entreprise basée aux États-Unis et répondant au doux nom d’African Agriculture Inc vient de signer une série d’accords lui donnant accès à plus de deux millions d’hectares de #terres au #Niger pour la production et la vente de #crédits_carbone. L’idée consiste à planter des arbres qui fixeront du carbone atmosphérique dans le sol, et de vendre ensuite ces crédits positifs à des #entreprises_polluantes, pour qu’elles aient un bilan soi-disant moins catastrophique. En théorie ! Cela s’appelle l’ « #agriculture_carbone ». Et elle s’ajoute à la longue liste de fausses solutions comme l’ « agriculture intelligente face au climat » et les « solutions basées sur la nature », autant de beaux noms pour tromper l’opinion. Il s’agit en réalité pour de nombreuses entreprises de créer de nouvelles sources de #profit, en utilisant la crise climatique comme tremplin.

  • Grano : una guerra globale

    Secondo molti osservatori internazionali, la guerra in corso in Ucraina si esprimerebbe non solo mediante l’uso dell’artiglieria pesante e di milizie ufficiali o clandestine, responsabili di migliaia di morti, stupri e deportazioni. Esisterebbero, infatti, anche altri campi sui quali il conflitto, da tempo, si sarebbe spostato e che ne presuppongono un allargamento a livello globale. Uno di questi ha mandato in fibrillazione gli equilibri mondiali, con effetti diretti sulle economie di numerosi paesi e sulla vita, a volte sulla sopravvivenza, di milioni di persone. Si tratta della cosiddetta “battaglia globale del grano”, i cui effetti sono evidenti, anche in Occidente, con riferimento all’aumento dei prezzi di beni essenziali come il pane, la pasta o la farina, a cui si aggiungono quelli dei carburanti, oli vari, energia elettrica e legno.
    La questione del grano negli Stati Uniti: il pericolo di generare un tifone sociale

    Negli Stati Uniti, ad esempio, il prezzo del grano tenero, dal 24 febbraio del 2022, ossia dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, al Chicago Mercantile Exchange, uno dei maggiori mercati di riferimento per i contratti cerealicoli mondiali, è passato da 275 euro a tonnellata ai circa 400 euro dell’aprile scorso. Un aumento esponenziale che ha mandato in tensione non solo il sistema produttivo e distributivo globale, ma anche molti governi, legittimamente preoccupati per le conseguenze che tali aumenti potrebbero comportare sulle loro finanze e sulla popolazione. In epoca di globalizzazione, infatti, l’aumento del prezzo del grano tenero negli Stati Uniti potrebbe generare un “tifone sociale”, ad esempio, in Medio Oriente, in Africa, in Asia e anche in Europa. I relativi indici di volatilità, infatti, sono ai massimi storici, rendendo difficili previsioni di sviluppo che si fondano, invece, sulla prevedibilità dei mercati e non sulla loro instabilità. Queste fibrillazioni, peraltro, seguono, in modo pedissequo, le notizie che derivano dal fronte ucraino. Ciò significa che i mercati guardano non solo agli andamenti macroeconomici o agli indici di produzione e stoccaggio, ma anche a quelli derivanti direttamente dal fronte bellico e dalle conseguenze che esso determinerebbe sugli equilibri geopolitici globali.
    I processi inflattivi e la produzione di grano

    Anche secondo la Fao, per via dell’inflazione che ha colpito la produzione di cereali e oli vegetali, l’indice alimentare dei prezzi avrebbe raggiunto il livello più alto dal 1990, ossia dall’anno della sua creazione.

    Le origini della corsa a questo pericoloso rialzo sono molteplici e non tutte direttamente riconducibili, a ben guardare, alla sola crisi di produzione e distribuzione derivante dalla guerra in Ucraina. I mercati non sono strutture lineari, dal pensiero algoritmico neutrale. Al contrario, essi rispondono ad una serie molto ampia di variabili, anche incidentali, alcune delle quali derivano direttamente dalle ambizioni e dalle strategie di profitto di diversi speculatori finanziari. I dati possono chiarire i termini di questa riflessione.

    Il Pianeta, nel corso degli ultimi anni, ha prodotto tra 780 e 800 milioni di tonnellate di grano. Una cifra nettamente superiore rispetto ai 600 milioni di tonnellate prodotte nel 2000. Ciò si deve, in primis, alla crescita demografica mondiale e poi all’entrata di alcuni paesi asiatici e africani nel gotha del capitalismo globale e, conseguentemente, nel sistema produttivistico e consumistico generale. Se questo per un verso ha sollevato gran parte della popolazione di quei paesi dalla fame e dalla miseria, ha nel contempo determinato un impegno produttivo, in alcuni casi monocolturale, che ha avuto conseguenze dirette sul piano ambientale, sociale e politico.
    Il grano e l’Africa

    L’area dell’Africa centrale, ad esempio, ha visto aumentare la produzione agricola in alcuni casi anche del 70%. Eppure, nel contempo, si è registrato un aumento di circa il 30% di malnutrizione nella sua popolazione. Ciò è dovuto ad un’azione produttiva privata, incentivata da fondi finanziari internazionali e governativi, che ha aumentato la produzione senza redistribuzione. Questa produzione d’eccedenza è andata a vantaggio dei fondi speculativi, dell’agrobusiness o è risultata utile per la produzione occidentale, ma non ha sfamato la popolazione locale, in particolare di quella tradizionalmente esposta alla malnutrizione e alla fame. Un esempio emblematico riguarda l’Etiopia e i suoi 5 milioni circa di cittadini malnutriti. Questo paese dipende ormai interamente dagli aiuti alimentari e umanitari. Allo stesso tempo, migliaia di tonnellate di grano e di riso etiope sono esportate ogni anno in Arabia Saudita per via del land grabbing e degli accordi economici e finanziari sottoscritti. In Sudan si registra il medesimo fenomeno. Il locale governo ha infatti ceduto 1,5 milioni di ettari di terra di prima qualità agli Stati del Golfo, all’Egitto e alla Corea del Sud per 99 anni, mentre risulta contemporaneamente il paese al mondo che riceve la maggiore quantità di aiuti alimentari, con 6 milioni di suoi cittadini che dipendono dalla distribuzione di cibo. Basterebbe controllare i piani di volo degli aeroporti di questi paesi per rendersi conto di quanti aerei cargo decollano giornalmente carichi di verdura fresca e rose, con destinazione finale gli alberghi degli Emirati Arabi e i mercati di fiori olandesi. Come ha affermato l’ex direttore dell’ILC (International Land Coalition), Madiodio Niasse: «La mancanza di trasparenza rappresenta un notevole ostacolo all’attuazione di un sistema di controllo e implementazione delle decisioni riguardo alla terra e agli investimenti ad essa inerenti».

    L’Angola ha varato un piano di investimenti così ambizioso da attrarre sei miliardi di dollari esteri nel solo 2013. Prima dello scoppio del conflitto civile, durato trent’anni, questo paese riusciva a nutrire tutti i suoi abitanti ed esportava caffè, banane e zucchero. Oggi, è costretto a comprare all’estero metà del cibo destinato al consumo interno, mentre solo il 10% della sua superficie arabile è utilizzata. Ciò nonostante, ha ritenuto legittimo incentivare l’accaparramento dei propri terreni agricoli da parte di multinazionali dell’agrobusiness e fondi finanziari di investimento. Ragioni analoghe guidano Khartoum a negoziare migliaia di ettari con i paesi del Golfo. Tra il 2004 e il 2009, in soli cinque paesi, Mali, Etiopia, Sudan, Ghana e Madagascar circa due milioni e mezzo di ettari coltivabili sono finiti nel portafoglio finanziario di multinazionali e dei fondi sovrani.
    Non solo Ucraina

    Quanto descritto serve per superare un’ottica monofocale che tende a concentrarsi, per ciò che riguarda il tema della terra e del grano, esclusivamente sull’Ucraina. Nello scacchiere globale della produzione e dell’approvvigionamento rientrano, infatti, numerosi paesi, molti dei quali per anni predati o raggirati mediante accordi capestro e obblighi internazionali che hanno fatto del loro territorio un grande campo coltivato per i bisogni e i consumi occidentali.
    Il ruolo della Russia

    Anche la Russia, in quest’ambito, svolge un ruolo fondamentale. Mosca, infatti, ha deciso di conservare per sé e in parte per i suoi alleati, a fini strategici, la propria produzione cerealicola, contribuendo a generare gravi fibrillazioni sui mercati finanziari di tutto il mondo. Nel 2021, ad esempio, il paese governato da Putin era il primo esportatore di grano a livello mondiale (18%), piazzandosi sopra anche agli Stati Uniti. Questa enorme quantità di grano esportato non risulta vincolata come quello occidentale, ma riconducibile al consumo interno e al bilanciamento dei relativi prezzi per il consumatore russo che in questo modo paga meno il pane o la carne rispetto ad un occidentale. Non è però tutto “rose e fiori”. Sulla Russia incidono due fattori fondamentali. In primis, le sanzioni occidentali che limitano i suoi rapporti commerciali e impediscono a numerose merci e attrezzature di entrare, almeno in modo legale, per chiudere la filiera produttiva e commerciale in modo controllato. Secondo, l’esclusione della Russia dai mercati finanziari comporta gravi conseguenze per il paese con riferimento alla situazione dei pagamenti con una tensione crescente per il sistema finanziario, bancario e del credito. Non a caso recentemente essa è stata dichiarata in default sui circa 100 milioni di dollari di obbligazioni che non è riuscita a pagare. In realtà, il default non avrà un peso straordinario almeno per due ragioni. In primo luogo perché il paese è da molto tempo economicamente, finanziariamente e politicamente emarginato. Secondo poi, il fallimento sarebbe dovuto non alla mancanza di denaro da parte della Russia, ma alla chiusura dei canali di trasferimento da parte dei creditori. A completare il quadro, c’è una strategica limitazione delle esportazioni di grano da parte ancora della Russia nei riguardi dei paesi satelliti, come ad esempio l’Armenia o la Bielorussia. Ciò indica la volontà, da parte di Putin, di rafforzare le scorte per via di un conflitto che si considera di lungo periodo.
    Il grano “bloccato”

    A caratterizzare questa “battaglie globale del grano” ci sono anche altri fattori. Da febbraio 2020, ad esempio, circa 6 milioni di tonnellate di grano ucraino sono bloccati nel porto di Mikolaiv, Odessa e Mariupol. È una quantità di grano enorme che rischia di deperire nonostante lo stato di crisi alimentare in cui versano decine di paesi, soprattutto africani. Sotto questo profilo, i paesi occidentali e vicini all’Ucraina dovrebbero trovare corridoi speciali, militarmente difesi, per consentire l’esportazione del cereale e successivamente la sua trasformazione a tutela della vita di milioni di persone. D’altra parte, sui prezzi intervengo fattori non direttamente riconducibili all’andamento della guerra ma a quelli del mercato. Ad esempio, l’aumento del costo delle derrate cerealicole si deve anche all’aumento esponenziale (20-30%) dei premi assicurativi sulle navi incaricate di trasportarlo, attualmente ferme nei porti ucraini. Su questo aspetto i governi nazionali potrebbero intervenire direttamente, calmierando i premi assicurativi, anche obtorto collo, contribuendo a calmierai i prezzi delle preziose derrate alimentati. Si consideri che molti industriali italiani del grano variamente lavorato stanno cambiando la loro bilancia di riferimento e relativi prezzi, passando ad esempio dal quintale al chilo e aumentando anche del 30-40% il costo per allevatori e trasformatori vari (fornai e catene dell’alimentare italiano).
    Le ricadute di una guerra di lungo periodo

    Una guerra di lungo periodo, come molti analisti internazionali ritengono quella in corso, obbligherà i paesi contendenti e i relativi alleati, a una profonda revisione della produzione di grano. L’Ucraina, ad esempio, avendo a disposizione circa 41,5 milioni di ettari di superficie agricola utile, attualmente in parte occupati dai carri armati russi e da un cannoneggiamento da artiglieria pesante e attività di sabotaggio, vende in genere il 74% della sua produzione cerealicola a livello globale. Non si tratta di una scelta politica occasionale ma strategica e di lungo periodo. L’Ucraina, infatti, ha visto aumentare, nel corso degli ultimi vent’anni, la sua produzione di grano e l’ esportazione. Si consideri che nel 2000, il grano ucraino destinato all’esportazione era il 60% di quello prodotto. La strategia ovviamente non è solo commerciale ma anche politica. Chi dispone del “potere del grano”, infatti, ha una leva fondamentale sulla popolazione dei paesi che importano questo prodotto, sul relativo sistema di trasformazione e commerciale e sull’intera filiera di prodotti derivati, come l’allevamento. Ed è proprio su questa filiera che ora fa leva la Russia, tentando di generare fibrillazioni sui mercati, azioni speculative e tensioni sociali per tentare di allentare il sostegno occidentale o internazionale dato all’Ucraina e la morsa, nel contempo, delle sanzioni.

    Esiste qualche alternativa alla morsa russa su campi agricoli ucraini? Il terreno ucraino seminato a grano e risparmiato dalla devastazione militare russa, soprattutto lungo la linea Sud-Ovest del paese, può forse rappresentare una speranza se messo a coltura e presidiato anche militarmente. Tutto questo però deve fare i conti con altri due problemi: la carenza di carburante e la carenza di manodopera necessaria per concludere la coltivazione, mietitura e commercializzazione del grano. Su questo punto molti paesi, Italia compresa, si sono detti pronti ad intervenire fornendo a Zelensky mezzi, camion, aerei cargo e navi ove vi fosse la possibilità di usare alcuni porti. Nel frattempo, il grano sta crescendo e la paura di vederlo marcire nei magazzini o di non poterlo raccogliere nei campi resta alta. Ovviamente queste sono considerazioni fatte anche dai mercati che restano in fibrillazione. Circa il 70% dei carburanti usati in agricoltura in Ucraina, ad esempio, sono importanti da Russia e Bielorussia. Ciò significa che esiste una dipendenza energetica del paese di Zelensky dalla Russia, che deve essere superata quanto prima mediante l’intervento diretto dei paesi alleati a vantaggio dell’Ucraina. Altrimenti il rischio è di avere parte dei campi di grano ucraini pieni del prezioso cereale, ma i trattori e le mietitrici ferme perché prive di carburante, passando così dal danno globale alla beffa e alla catastrofe mondiale.

    Una catastrofe in realtà già prevista.
    Un uragano di fame

    Le Nazioni Unite, attraverso il suo Segretario generale, Antonio Guterres, già il 14 marzo scorso avevano messo in guardia il mondo contro la minaccia di un “uragano di fame” che avrebbe potuto generare conflitti e rivolte in aree già particolarmente delicate. Tra queste ultime, in particolare, il Sudan, l’Eritrea, lo Yemen, e anche il Medio Oriente.

    Gutierres ha parlato addirittura di circa 1,7 miliardi di persone che possono precipitare dalla sopravvivenza alla fame. Si tratta di circa un quinto della popolazione mondiale, con riferimento in particolare a quarantacinque paesi africani, diciotto dei quali dipendono per oltre il 50% dal grano ucraino e russo. Oltre a questi paesi, ve ne sono altri, la cui tenuta è in tensione da molti anni, che dipendono addirittura per il 100% dai due paesi in guerra. Si tratta, ad esempio, dell’Eritrea, della Mauritania, della Somalia, del Benin e della Tanzania.

    In definitiva, gli effetti di una nuova ondata di fame, che andrebbe a sommarsi alle crisi sociali, politiche, ambientali e terroristiche già in corso da molti anni, potrebbero causare il definitivo crollo di molti paesi con effetti umanitari e politici a catena devastanti.
    Il caso dell’Egitto

    Un paese particolarmente sensibile alla crisi in corso è l’Egitto, che è anche il più grande acquirente di grano al mondo con 12 milioni di tonnellate, di cui 6 acquistate direttamente dal governo di Al Si-si per soddisfare il programma di distribuzione del pane. Si tratta di un programma sociale di contenimento delle potenziali agitazioni, tensioni sociali e politiche, scontri, rivolte e migrazioni per fame che potrebbero indurre il Paese in uno stato di crisi permanente. Sarebbe, a ben osservare, un film già visto. Già con le note “Primavere arabe”, infatti, generate dal crollo della capacità di reperimento del grano nei mercati globali a causa dei mutamenti climatici che investirono direttamente le grandi economie del mondo e in particolare la Cina, Argentina, Russia e Australia, scoppiarono rivolte proprio in Egitto (e in Siria), represse nel sangue. L’Egitto, inoltre, dipende per il 61% dalla Russia e per il 23% dall’Ucraina per ciò che riguarda l’importazione del grano. Dunque, questi due soli paesi fanno insieme l’84% del grano importato dal paese dei faraoni. Nel contempo, l’Egitto fonda la sua bilancia dei pagamenti su un prezzo del prezioso cereale concordato a circa 255 dollari a tonnellata. L’aumento del prezzo sui mercati globali ha già obbligato l’Egitto ad annullare due contratti sottoscritti con la Russia, contribuendo a far salire la tensione della sua popolazione, considerando che i due terzi circa dei 103 milioni di egiziani si nutre in via quasi esclusiva di pane (chiamato aish, ossia “vita”). Secondo le dichiarazioni del governo egiziano, le riserve di grano saranno sufficienti per soddisfare i relativi bisogni per tutta l’estate in corso. Resta però una domanda: che cosa accadrà, considerando che la guerra in Ucraina è destinata ad essere ancora lunga, quando le scorte saranno terminate?

    Anche il Libano e vari altri paesi si trovano nella medesima situazione. Il paese dei cedri dipende per il 51% dal grano dalla Russia e dall’Ucraina. La Turchia di Erdogan, invece, dipende per il 100% dal grano dai due paesi coinvolti nel conflitto. Ovviamente tensioni sociali in Turchia potrebbero non solo essere pericolose per il regime di Erdogan, ma per la sua intera area di influenza, ormai allargatasi alla Libia, Siria, al Medio Oriente, ad alcuni paesi africani e soprattutto all’Europa che ha fatto di essa la porta di accesso “sbarrata” dei profughi in fuga dai loro paesi di origine.
    Anche l’Europa coinvolta nella guerra del grano

    Sono numerosi, dunque, i paesi che stanno cercando nuovi produttori di cereali cui fare riferimento. Tra le aree alle quali molti stanno guardando c’è proprio l’Unione europea che, non a caso, il 21 marzo scorso, ha deciso di derogare temporaneamente a una delle disposizioni della Pac (Politica Agricola Comune) che prevedeva di mettere a riposo il 4% dei terreni agricoli. Ovviamente, questa decisione è in funzione produttivistica e inseribile in uno scacchiere geopolitico mondiale di straordinaria delicatezza. Il problema di questa azione di messa a coltura di terreni che dovevano restare a riposo, mette in luce una delle contraddizioni più gravi della stessa Pac. Per anni, infatti, sono stati messi a riposo, o fatti risultare tali, terreni non coltivabili. In questo modo venivano messi a coltura terreni produttivi e fatti risultare a riposo quelli non produttivi. Ora, la deroga a questa azione non può produrre grandi vantaggi, in ragione del fatto che i terreni coltivabili in deroga restano non coltivabili di fatto e dunque poco o per nulla incideranno sull’aumento di produzione del grano. Se il conflitto ucraino dovesse continuare e l’Europa mancare l’obiettivo di aumentare la propria produzione di grano per calmierare i prezzi interni e nel contempo soddisfare parte della domanda a livello mondiale, si potrebbe decidere di diminuire le proprie esportazioni per aumentare le scorte. Le conseguenze sarebbero, in questo caso, dirette su molti paesi che storicamente acquistano grano europeo. Tra questi, in particolare, il Marocco e l’Algeria. Quest’ultimo paese, ad esempio, consuma ogni anno circa 11 milioni di tonnellate di grano, di cui il 60% importato direttamente dalla Francia. A causa delle tensioni politiche che nel corso degli ultimi tre anni si sono sviluppate tra Algeria e Francia, il paese Nord-africano ha cercato altre fonti di approvvigionamento, individuandole nell’Ucraina e nella Russia. Una scelta poco oculata, peraltro effettuata abbassando gli standard di qualità del grano, inferiori rispetto a quello francese.
    L’India può fare la differenza?

    Un nuovo attore mondiale sta però facendo il suo ingresso in modo prepotente. Si tratta dell’India, un paese che da solo produce il 14% circa del grano mondiale, ossia circa 90 milioni di tonnellate di grano. Questi numeri consentono al subcontinente indiano di piazzarsi al secondo posto come produttore mondiale dopo la Cina, che ne produce invece 130 milioni. L’India del Presidente Modhi ha usato gran parte della sua produzione per il mercato interno, anch’esso particolarmente sensibile alle oscillazione dei prezzi del bene essenziale. Nel contempo, grazie a una produzione che, secondo Nuova Delhi e la Fao, è superiore alle attese, sta pensando di vendere grano a prezzi vantaggiosi sul mercato globale. Sotto questo profilo già alcuni paesi hanno mostrato interesse. Tra questi, ad esempio, Iran, Indonesia, Tunisia e Nigeria. Anche l’Egitto ha iniziato ad acquistare grano dall’India, nonostante non sia di eccellente qualità per via dell’uso intensivo di pesticidi. Il protagonismo dell’India in questa direzione, ha fatto alzare la tensione con gli Stati Uniti. I membri del Congresso statunitense, infatti, hanno più volte sollevato interrogativi e critiche rispetto alle pratiche di sostegno economico, lesive, a loro dire, della libera concorrenza internazionale, che Nuova Delhi riconosce da anni ai suoi agricoltori, tanto da aver chiesto l’avvio di una procedura di infrazione presso l’Organizzazione mondiale per il Commercio (Omc). Insomma, le tensioni determinate dal conflitto in corso si intersecano e toccano aspetti e interessi plurimi, e tutti di straordinaria rilevanza per la tenuta degli equilibri politici e sociali globali.

    https://www.leurispes.it/grano-una-guerra-globale

    #blé #prix #Ukraine #Russie #guerre_en_Ukraine #guerre_globale_du_blé #produits_essentiels #ressources_pédagogiques #Etats-Unis #USA #Inde #instabilité #marché #inflation #céréales #indice_alimentaire #spéculation #globalisation #mondialisation #production #Afrique #production_agricole #malnutrition #excédent #industrie_agro-alimentaire #agrobusiness #faim #famine #Ethiopie #Arabie_Saoudite #land_grabbing #accaparemment_des_terres #Soudan #Egypte #Corée_du_Sud #exportation #aide_alimentaire #Angola #alimentation #multinationales #pays_du_Golfe #Mali #Madagascar #Ghana #fonds_souverains #sanctions #marchés_financiers #ports #Odessa #Mikolaiv #Mariupol #assurance #élevage #sanctions #dépendance_énergétique #énergie #ouragan_de_faim #dépendance #Turquie #Liban #pac #politique_agricole_commune #EU #UE #Europe #France #Maroc #Algérie

  • In Colombia, end of war meant start of runaway deforestation, study finds
    https://news.mongabay.com/2021/06/in-colombia-end-of-war-meant-start-of-runaway-deforestation-study-fin

    The signing of a peace deal in 2016 between the Colombian government and armed rebels was one of the most anticipated moments in decades for millions of Colombians. But the end of one of the world’s longest-running civil wars marked the start of a severe setback for Colombia’s forests.

    Since the signing of the peace accords, which ended a 57-year conflict, the longest in the Western Hemisphere, deforestation has increased by 40% compared to the previous 24 years, when the war between government forces and the leftist FARC rebels was in its most critical phase, with the insurgents staking their presence across a significant portion of the country.

    This is one of the main conclusions of a new study about “rapid, widespread land changes in the Andes-Amazon region following the Colombian civil war.” It was published in the July edition of the journal Global Environmental Change.

    #Colombie #forêt #déforestation

  • Il racconto dell’omicidio di #Agitu_Ideo_Gudeta evidenzia il razzismo democratico dei media italiani

    L’imprenditrice #Agitu Ideo Gudeta è stata uccisa il 29 dicembre nella sua casa a #Frassilongo, in provincia di Trento. Da subito si è ipotizzato si trattasse dell’ennesimo femminicidio (72 donne dall’inizio del 2020), anche in ragione del fatto che in passato la donna era stata costretta a querelare un uomo per #stalking. In quell’occasione Gudeta aveva chiesto di considerare l’aggravante razziale, dato che l’uomo, un vicino di casa, la chiamava ripetutamente “negra”, ma il giudice aveva respinto la richiesta del suo avvocato. Il giorno successivo all’omicidio, il suo dipendente #Adams_Suleimani, – un uomo ghanese di 32 anni – ha confessato il crimine, aggravato dal fatto che l’ha violentata mentre era agonizzante. Il movente sarebbe un mancato pagamento.

    Gudeta era nata ad Addis Abeba, in Etiopia, 42 anni fa. Non era più una “ragazza”, come hanno scritto alcune testate. La sua prima permanenza in Italia risale a quando aveva 18 anni, per studiare nella facoltà di Sociologia di Trento. Era poi tornata in Etiopia, ma nel 2010 l’instabilità del Paese l’ha costretta a tornare in Italia. Nello Stato africano si è interrotto solo pochi giorni fa il conflitto tra il Fronte di Liberazione del Tigré e il governo centrale etiope – i tigrini sono una minoranza nel Paese, ma hanno governato per oltre trent’anni senza far cessare gli scontri tra etnie – cha ha causato violazioni dei diritti umani, massacri di centinaia di civili e una grave crisi umanitaria.

    Proprio le minacce dei miliziani del Fronte di Liberazione avevano spinto Agitu Ideo Gudeta a tornare in Italia. La donna aveva infatti denunciato le politiche di #land_grabbing, ossia l’accaparramento delle terre da parte di aziende o governi di altri Paesi senza il consenso delle comunità che le abitano o che le utilizzano per mantenersi. Per questo motivo il governo italiano le ha riconosciuto lo status di rifugiata. In Trentino, dove si era trasferita in pianta stabile, ha portato avanti il suo impegno per il rispetto della natura, avviando un allevamento di ovini di razza pezzata mochena, una specie autoctona a rischio estinzione, e recuperando alcuni ettari di terreni in stato di abbandono.

    Il caseificio che aveva aperto rivelava già dal nome – La capra felice – il suo credo ambientalista e il suo antispecismo, ricevendo riconoscimenti da Slow Food e da Legambiente per l’impegno promosso con la sua azienda e il suo negozio. Agitu Ideo Gudeta era un nome noto nel movimento antirazzista italiano, ma oggi viene usata – persino dai Verdi – per presentare il Trentino come terra di accoglienza, in un tentativo di nascondere la xenofobia di cui era oggetto. Le origini della donna e del suo assassino stupratore sono sottolineate da tutti e precedono la narrazione della violenza, mettendola in secondo piano, salvo evidenziarla in relazione alla provenienza dell’omicida, che per una volta non è un italiano, né un compagno o un parente.

    Alla “ragazza” è stata affibbiata in tutta fretta una narrazione comune a quella che caratterizza altre donne mediaticamente esposte, come le attiviste Greta Thunberg e Carola Rackete, la cooperante Aisha Romano o la giornalista Giovanna Botteri, basata su giudizi e attacchi basati perlopiù su fattori estetici. Razzismo, sessismo e classismo si mescolano in questa storia in cui la violenza – quella del vicino di casa, quella del suo assassino, quella del governo etiope – rischiano di rimanere sullo sfondo, in favore del Grande gioco dell’integrazione. A guidarlo è come sempre un trionfalismo tipico dei white saviour (secondo una definizione dello storico Teju Cole del 2012), come se esistesse un colonialismo rispettabile: insomma, in nome della tolleranza, noi italiani doc abbiamo concesso alla donna un riparo da un Paese povero, di una povertà che riteniamo irrimediabile. Usiamo ormai d’abitudine degli automatismi e un lessico che Giuseppe Faso ha definito razzismo democratico, in cui si oppongono acriticamente migranti meritevoli a migranti immeritevoli, un dualismo che sa vedere solo “risorse” o “minacce all’identità nazionale”.

    Così il protagonismo di Agitu Ideo Gudeta viene improvvisamente premiato, trasformando lei in una migrante-eroina e il suo aguzzino nel solito stupratore non bianco, funzionale solo al “Prima gli italiani”. Ma parlare di Agitu Ideo Gudeta in termini di “integrazione” è un insulto alla sua memoria. Considerarla un simbolo in questo senso conferma che per molti una rifugiata sarà rifugiata per sempre e che una “migrante” non è altro che una migrante. La nostra stampa l’ha fatto, suggerendo di dividere gli immigrati in buoni e cattivi, decorosi e indecorosi, e trattando i lettori come se fossero tutti incapaci di accogliere riflessioni più approfondite.

    Parallelamente però, un governo che come i precedenti accantona la proposta di legge sulla cittadinanza favorisce un racconto privo di sfumature, che rifiuta in nome di una supposta complessità non affrontabile nello sviscerare questo tema. Forse se avessimo una legge sulla cittadinanza al passo con i tempi, e non una serie di norme che escludono gli italiani di seconda generazione e i migranti, potremmo far finalmente progredire il ragionamento sulla cosiddetta convivenza e sulla coesione sociale ed esprimerci con termini più adeguati. Soprattutto chi è stato in piazza a gridare “Black Lives Matter”, “I can’t breathe” e “Say Their Names” oggi dovrebbe pretendere che la notizia di questo femminicidio venga data diversamente: in Trentino una donna di nome Agitu Ideo Gudeta è stata uccisa e violentata. Era diventata un’imprenditrice di successo nel settore caseario dopo essersi opposta alle politiche di land grabbing in Etiopia. Era un’attivista e un’ambientalista molto conosciuta. Mancherà alla sua comunità.

    https://thevision.com/attualita/agitu-gudeta-razzismo

    #féminicide #racisme #Italie #meurtre #femmes #intersectionnalité #viol #réfugiés #accaparement_des_terres #Trentin #éleveuse #élevage #Pezzata_Mòchena #chèvrerie #chèvres #La_capra_felice #xénophobie
    #white_saviour #racisme_démocratique
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    Le site web de la #fromagerie de Agitu Ideo Gudet :


    http://www.lacaprafelice.com

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    NB :
    Grâce à une amie qui connaissait Agitu je viens de connaître une autre facette de cette histoire. Un drame dans le drame, dont je ne peux/veux pas parler ici.

    • Murdered Agitu Ideo Gudeta, an example of environmental preservation and female entrepreneurship in Italy.

      Agitu was found dead in her home in #Val_dei_Mocheni, Trentino, Italy. The entrepreneur and shepherdess from Ethiopia would turn 43 on January 1st.
      An employee of her company confessed the murder followed by rape.

      One of the main news in the Italian media, the murder of Agitu brought much indignation. Especially among women. In Italy, a woman is murdered every three days, according to a report from Eures.

      “When will this massacre of women end? When? Today, feminicide has extinguished the smile of a dear and sweet sister. Rest in peace Agitu. We will miss you a lot”, twitted the Italian writer with SomaIi origin Igiaba Sciego.

      Agitu, originally from Addis Ababa, was born into a tribe of nomadic shepherds. She went to Rome to study Sociology when she was 18 years old and returned to Ethiopia. However, she left her country again in 2010, fleeing threats for her commitment by denouncing “land grabbing” by multinationals.

      In Italy, in Valle dei Mocheni, Trentino, she began to preserve a goat species in extinction, the #Mochena goat.

      An example of female entrepreneurship, she set up the company “La capra felice” (The happy goat) producing cheeses and cosmetic products with goat’s milk.

      She has become an example of organic and sustainable production.

      Agitu’s work has been recognized throughout Italy, her story published in many medias, she attended different events and has been rewarded for her commitment to preserving goats and her production of organic products. One of the awards was the Slow Cheese Resistenza Casearia award, in 2015.

      It was not the first time that Agitu had her life under threat in the hands of men. She publicly denounced her neighbour for stalking, racially motivated threats and aggression. For months she was threatened by a man and one of the reasons was that she offered work and apprenticeship for refugees from African origins. “This neighbour does not like the colour of our skin and does what it can to create confusion,” she said at an interview.

      On December 29, her life was taken by a man who worked for her, shepherding her goats. According to him, for financial reasons. The man confessed to the crime and also revolted that he had committed rape after the attack. The man beat her in her head with a hammer. He was arrested.

      Agitu was found lifeless after friends called the police because they thought it was strange that she didn’t come to a meeting and didn’t answer the phone.

      The murder is a tragic end for a woman who brought so many good things into the world.

      Until when will we lose our sisters to violence?

      Rest in peace Agitu. We will never forget your legacy.

      https://migrantwomenpress.com/agitu-ideo-gudeta-murdered/amp/?__twitter_impression=true

      #montagne

    • Grâce à une amie qui connaissait Agitu je viens de connaître une autre facette de cette histoire. Un drame dans le drame, dont je ne peux/veux pas parler ici.

    • Le féminicide d’Agitu Ideo Gudeta choque l’Italie

      Ce 29 décembre, Agitu Ideo Gudeta, une réfugiée éthiopienne de 42 ans, a été retrouvée morte à son domicile, dans le nord de l’Italie, annonce La Repubblica. Elle était connue dans tout le pays grâce à son activité, couronnée de succès, d’éleveuse de chèvres et avait été à de nombreuses reprises médiatisée.

      Une célèbre bergère

      Selon le quotidien local Il Dolomiti, Agitu Gudeta était devenue « la bergère la plus célèbre des vallées du Trentin ». Et son histoire n’était pas banale. En 2010, elle avait dû fuir l’Éthiopie à cause de son activité de militante environnementaliste. Elle subissait des menaces de poursuites judiciaires et des menaces de mort car elle s’opposait à l’accaparement des terres par certaines multinationales.

      A 30 ans, toute seule dans un nouveau pays et dans la région réputée inhospitalière du Trentin, elle avait commencé une autre vie, avec ses 180 chèvres et sa propre entreprise prospère de fromages bio baptisée « La Capra Felice », la chèvre heureuse. Elle avait choisi de protéger une espèce rare, la chèvre Mochena, qui survit dans cette vallée isolée.
      Insultes et menaces racistes

      Avec sa réussite, c’est à d’autres menaces qu’elle avait dû faire face : des menaces et insultes racistes de la part de ses voisins. Elle avait été agressée physiquement également. Elle avait porté plainte contre l’un d’eux qui avait été condamné en janvier à 9 mois sous liberté conditionnelle.

      https://www.youtube.com/watch?v=CF0nQXrEJ30&feature=emb_logo

      https://www.rtbf.be/info/dossier/les-grenades/detail_le-feminicide-d-agitu-ideo-gudeta-choque-l-italie?id=10664383

    • Trentino, uccisa in casa Agitu Gudeta, la rifugiata etiope simbolo dell’integrazione

      Scappata dal suo Paese, aveva fondato l’azienda agricola «La capra felice» nella Valle dei Mocheni dove allevava animali a rischio di estinzione.

      L’hanno trovata senza vita all’interno della sua casa di Frassilongo (Trentino), colpita con violenza alla testa. Un omicidio, hanno confermato i carabinieri che nel tardo pomeriggio sono giunti sul posto, chiamati dai vicini e stanno lavorando per ricostruire l’accaduto.

      È finito così - forse con un colpo di martello - il sogno di Agitu Ideo Gudeta, pastora etiope che avrebbe compiuto 43 anni il giorno di Capodanno e che si era data l’obiettivo di salvare dall’estinzione (e anche dagli attacchi dell’orso) la capra mochena, una specie che sopravvive in una valle isolata della Provincia di Trento dove la donna aveva trovato casa.

      Ma il suo problema - aveva denunciato un paio di anni fa - più che gli orsi erano i vicini: «Mi insultano, mi chiamano brutta negra, dicono che me ne devo andare e che questo non è il mio posto» aveva denunciato ai carabinieri, raccontando anche pubblicamente la sua storia. Le indagini perà si concentrerebbero su un giovane africano dipendente dell’azienda ’La Capra Felice’. A quanto pare, l’uomo - che non è quello che l’aveva minacciata ed aggredita - avrebbe avuto dissidi con Agitu per motivi economici. A dare l’allarme ai carabinieri sono stati alcuni vicini a loro volta chiamati da un uomo con il quale la vittima aveva un appuntamento al quale non si era presentata.

      Sul caso delle minacce arrivò la solidarietà del presidente della giunta provinciale, all’epoca Ugo Rossi: «Il fatto che Agitu, da rifugiata, abbia avviato la sua attività agricola sul nostro territorio dimostra che il Trentino crede nell’accoglienza e nella solidarietà». Una storia di minacce e danneggiamenti, finita in tribunale con la condanna a 9 mesi per lesioni di un uomo del posto che aveva sempre liquidato la faccenda come una lite fra vicini: «Il razzismo non c’entra». La donna quindi aveva ripreso a girare i mercati del Trentino per vendere i prodotti realizzati con il latte delle sue cinquanta capre, con il furgone che sulla fiancata riportava il nome dell’azienda agricola: «La capra felice».

      Agitu Gudeta era fuggita in Italia nel 2010 e aveva ottenuto lo status di rifugiata e dopo qualche anno era riuscita ad avviare la sua azienda agricola a Frassilongo scommettendo sulle capre mochene. Nel 2017 aveva partecipato all’incontro «Donne anche noi», raccontando la sua storia di migrante arrivata in Italia. Originaria della capitale Addis Abeba, era stata costretta a lasciate l’Etiopia perché a causa del suo impegno contro l’accapparramento delle terre da parte di alcune multinazionali era stata oggetto di minacce di morte.

      https://www.repubblica.it/cronaca/2020/12/29/news/trentino_trovata_morta_agitu_gudeta_donna_42enne_simbolo_di_integrazione_

    • Tributes paid to Ethiopian refugee farmer who championed integration in Italy

      Agitu Ideo Gudeta, who was killed on Wednesday, used abandoned land to start a goat farming project employing migrants and refugeesTributes have been paid to a 42-year-old Ethiopian refugee and farmer who became a symbol of integration in Italy, her adopted home.

      Agitu Ideo Gudeta was attacked and killed, allegedly by a former employee, on her farm in Trentino on Wednesday.

      Gudeta had left Addis Ababa in 2010 after angering the authorities by taking part in protests against “land grabbing”. Once in Italy, she tenaciously followed and realised her ambition to move to the mountains and start her own farm. Taking advantage of permits that give farmers access to abandoned public land in depopulated areas, she reclaimed 11 hectares (27 acres) around an old barn in the Mòcheni valley, where she founded her La Capra Felice (The Happy Goat) enterprise.

      Gudeta started with a herd of 15 goats, quickly rising to 180 in a few years, producing organic milk and cheese using environmentally friendly methods and hiring migrants and refugees.

      “I created my space and made myself known, there was no resistance to me,” she told Reuters news agency that year.

      “Agitu brought to Italy the dream she was unable to realise in Ethiopia, in part because of land grabbing,” Gabriella Ghermandi, singer, performer, novelist and friend of Gudeta, told the Guardian. “Her farm was successful because she applied what she had learned from her grandparents in the countryside.

      “In Italy, many people have described her enterprise as a model of integration. But Agitu’s dream was to create an environmentally sustainable farm that was more than just a business; for her it also symbolised struggle against class divisions and the conviction that living in harmony with nature was possible. And above all she carried out her work with love. She had given a name to each one of her goats.”

      In a climate where hostility toward migrants was increasing, led by far-right political leaders, her success story was reported by numerous media outlets as an example of how integration can benefit communities.

      “The most rewarding satisfaction is when people tell me how much they love my cheeses because they’re good and taste different,” she said in an interview with Internazionale in 2017. “It compensates for all the hard work and the prejudices I’ve had to overcome as a woman and an immigrant.”

      Two years ago she received death threats and was the target of racist attacks, which she reported to police, recounting them on her social media posts.

      But police said a man who has confessed to the rape and murder of the farmer was an ex-employee who, they said, allegedly acted for “economic reasons”.

      The UN refugee agency said it was “pained” by Gudeta’s death, and that her entrepreneurial spirit “demonstrated how refugees can contribute to the societies that host them”.

      “Despite her tragic end, the UNHCR hopes that Agitu Ideo Gudeta will be remembered and celebrated as a model of success and integration and inspire refugees that struggle to rebuild their lives,” the agency said.

      “We spoke on the phone last week’’, said Ghermandi. “We spent two hours speaking about Ethiopia. We had plans to get together in the spring. Agitu considered Italy her home. She used to say that she had suffered too much in Ethiopia. Now Agitu is gone, but her work mustn’t die. We will soon begin a fundraising campaign to follow her plan for expanding the business so that her dream will live on.”

      Gudeta would have turned 43 on New Year’s Day.

      https://www.theguardian.com/global-development/2021/jan/01/tributes-paid-to-ethiopian-refugee-farmer-who-championed-integration-in

    • Dalla ricerca di eroi alla costruzione di progetti comunitari. Perché è importante cambiare narrazione

      Del bisogno di eroi

      La storia del passato, così come la cronaca quotidiana, pullula di storie di eroi che troneggiano nell’immaginario collettivo. Quello di eroi ed eroine è un bisogno antico, che riflette la necessità di costruire cognitivamente il mondo reale per mezzo di narrative che ci permettano di affidare ruoli e connotati chiari a singoli individui e gruppi sociali, soddisfacendo il nostro bisogno di certezze che affonda le radici tanto nella mitologia classica quanto nel pensiero cristiano e che sostengono la costruzione della nostra moralità culturale e senso dell’etica.

      Si tratta però di un bisogno che è ancora largamente presente nelle società contemporanee, a dispetto dei progressi indotti dal processo di formazione del diritto moderno, che ha portato a distinguere in maniera netta tra ciò che è lecito e ciò che lecito non è. Questo processo non è infatti riuscito, se non in astratto attraverso artifici teorici, a superare la dimensione individualistica (Pisani, 2019). Di qui il perdurare del bisogno di eroi, che continua a essere percepito come rilevante perché offre un’efficace e facile via di fuga. Consente, talvolta inconsapevolmente, di banalizzare situazioni e fenomeni complessi, interpretarli in maniera funzionale alla nostra retorica e giustificare l’inazione.

      Se l’obiettivo è però innescare profondi cambiamenti sociali all’insegna di una maggiore giustizia sociale e lotta alle profonde disuguaglianze del nostro tempo, allora non è di singoli eroi che si dovrebbe andare alla ricerca, ma di una diversa narrazione che faccia assegnamento sull’impegno autentico delle comunità. Comunità locali che sono sempre più chiamate a svolgere un ruolo rilevante nella costruzione sia di sistemi di welfare di prossimità, sia di nuovi modelli di produzione a larga partecipazione, in risposta a una pluralità di bisogni e sfide incompiute che spaziano dall’inclusione di persone vulnerabili fino alla gestione di beni comuni come la salute, il territorio, l’energia.[1]

      Quest’articolo prende le mosse da una convinzione di fondo. Nonostante il ruolo importante che svolgono nel generare benessere sociale, le comunità locali stentano ad essere riconosciute come protagoniste di un processo di cambiamento.

      Responsabile della loro scarsa visibilità e incisività non è solo l’insufficiente riconoscimento politico, ma anche una narrazione incoerente di cui si fanno sovente portatrici anche le organizzazioni di terzo settore che gli interessi delle comunità promuovono. Una narrazione spesso incentrata sul culto di singole personalità che, mettendo in ombra l’ancoraggio comunitario, rischia di incrinare l’impatto generativo del terzo settore.

      Dopo una riflessione sul perché bisognerebbe diffidare delle narrazioni idealizzate e sugli effetti del pathos degli eroi, l’articolo si sofferma su un caso specifico, quello di Agitu Ideo Gudeta, assassinata sul finire del 2020 da un suo collaboratore. Quindi, prendendo le mosse da questa drammatica vicenda, gli autori si soffermano sulle ragioni che farebbero propendere per la sostituzione degli eroi con progetti collettivi, sollecitando le organizzazioni di terzo settore, in primis, a cambiare narrazione.
      Pathos degli eroi

      Gli esempi di persone, professionisti e politici che sono stati idealizzati in virtù di reali o presunti talenti o gesta sono molteplici e coinvolgono frange della società civile – sia conservatrici e reazionarie, sia progressiste – così come il mondo della politica. Eroi che, spesso in virtù di altrettante semplificazioni, da figure mitologiche sono stati di punto in bianco trasformati in demoni o in capri espiatori, lasciando volutamente in ombra la complessità dei contesti, le relazioni, le fragilità, le emozioni e i comportamenti, spesso controversi, che accompagnano ogni essere umano, sia nei momenti di gloria, sia in quelli più bui.

      Nell’ambiente conservatore spicca la parabola di Vincenzo Muccioli, santificato negli anni ’80 come salvatore di migliaia di giovani spezzati dall’eroina, e poi demonizzato dai mezzi di informazione, prescindendo da un’analisi approfondita della sua controversa iniziativa. Tra gli esempi di persone e professionisti che sono stati santificati e poi travolti da un’onda di retorica colpevolista vi sono gli infermieri e i medici, celebrati come supereroi allo scoppio della pandemia Covid-19, passati nel secondo lockdown ad essere additati come appestati e untori, quando non complici di una messa in scena.[2]
      Emblematico è anche il caso dei volontari, portati puntualmente alla ribalta della cronaca come angeli durante catastrofi e crisi naturali, per poi svanire nel nulla in tempi non emergenziali, a dispetto del loro prezioso contributo quotidiano per migliorare la qualità della vita delle persone più vulnerabili.[3]
      Con riferimento all’ambiente più militante e progressista si distingue Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, passato dall’essere innalzato a mito dell’accoglienza dalla stampa e dal sistema SPRAR, in virtù dell’esperienza pionieristica sperimentata dal suo Comune, a essere abbandonato e attaccato da una parte dei media. Il cambio di atteggiamento nei confronti di Lucano coincide con la controversa vicenda giudiziaria che lo vede coinvolto per favoreggiamento dell’immigrazione e per la gestione di progetti di accoglienza, dopo che il suo Comune è stato per anni pressato dal Viminale e dalla Prefettura affinché ospitasse un gran numero di richiedenti asilo, rifiutati da altri progetti di accoglienza (Procacci, 2021). Nel mondo della politica istituzionale primeggia l’attuale santificazione di Mario Draghi, acclamato come unico possibile salvatore di un Paese al collasso dopo essere stato considerato un simbolo dei poteri finanziari forti negli anni della crisi economica globale (Dominjanni, 2021).
      Perché diffidare degli eroi?

      Le ragioni che portano a diffidare degli eroi sono molteplici. I riflettori accesi esclusivamente sulla dimensione dell’eccellenza[4]
      distolgono l’attenzione da tutto ciò che condiziona le azioni dell’eroe, come i contesti istituzionali e ambientali, incluso il bagaglio di risorse, non solo economiche ma anche sociali e culturali, su cui il singolo fa assegnamento. A influenzare i percorsi che portano alle presunte gesta eccezionali di chi viene incoronato come eroe, ci sono comunità e organizzazioni, più o meno coese, composte da una pluralità di individui che si relazionano tra di loro per contribuire, in base al ruolo ricoperto, al raggiungimento di obiettivi condivisi. Anche le scelte dell’imprenditore più autoritario e accentratore, sono condizionate dalle persone e dall’ambiente con cui è interconnesso. Il potenziale innovativo non è quindi un dono che gli dei fanno a pochi eletti (Barbera, 2021), ma un processo complesso che per essere compreso appieno presuppone un’analisi articolata, che ricomprende una pluralità di elementi economici, sociali e relazionali. Elementi che le analisi fondate sugli eroi nella maggior parte dei casi ignorano, riconducendo sovente il successo dell’iniziativa idealizzata esclusivamente a un’intuizione del singolo.

      A fomentare una narrazione personalistica ha contribuito lo storytelling che ha fatto dell’innovazione il mantra dominante (Barbera, 2021). Responsabile è principalmente la retorica di stampo neoliberista, incentrata sul mito dell’imprenditore individuale, che ha assoggettato la maggior parte dei campi del sapere, arrivando a giustificare le disuguaglianze poiché conseguenti a un processo liberamente accettato dove ognuno ha pari opportunità di accesso al mercato e alla proprietà (Piketty, 2020). Di qui la riconversione del cittadino in homo oeconomicus, orientato non più allo scambio come nel liberismo classico, bensì alla valorizzazione di sé stesso in quanto capitale umano (Dominjianni, 2017). Una parte della letteratura sul management del terzo settore ha introiettato questa logica, proiettandola nella figura eroica dell’imprenditore sociale (Waldron et al., 2016; Miller et al., 2012; Dacin et al., 2011; Short et al., 2009; Zahra et al., 2009; Bornstein, 2007; Martin, Osberg, 2007; Austin et al., 2006).[5]
      Sottolineando il connubio tra tratti etici e competenze creative e leadership, che permetterebbero all’imprenditore sociale di assumersi i rischi necessari a raggiungere obiettivi sociali straordinari, questa letteratura ha trascurato i processi organizzativi e decisionali che sono alla base del funzionamento delle diverse organizzazioni (Petrella, Battesti, 2014).

      Il culto degli eroi ha così contribuito ad allontanare l’attenzione da alcune caratteristiche precipue di associazioni e cooperative, tra cui in primis l’adozione di modelli di governo inclusivi ad ampia partecipazione, che dovrebbero favorire il coinvolgimento di una pluralità di portatori di interesse nei processi decisionali, in rappresentanza dei diversi gruppi sociali che abitano un territorio (Sacchetti, 2018; Borzaga e Galera, 2016; Borzaga e Sacchetti, 2015; Defourny e Borzaga, 2001).[6]
      Ciò si verifica, ad esempio, quando una organizzazione di terzo settore costituita su basi democratiche, è identificata con il nome di un singolo eroe: un fondatore, un religioso che – anche quando non ricopra effettivamente cariche formali apicali – si riconosce come ispirazione e figura carismatica. Sono casi in cui talvolta il percorso di sviluppo dell’ente passa in secondo piano rispetto a quello di un singolo individuo il cui nome è di per sé evocativo dell’intera organizzazione.
      Gli effetti delle narrazioni eroicizzate

      L’immediata spendibilità comunicativa delle narrazioni fondate su figure eroiche spiega perché esse siano largamente preferite da una parte rilevante della politica, da molti osservatori e dalla quasi totalità degli operatori dell’informazione rispetto a studi analitici volti a comprendere i fenomeni sociali e a rendere conto ai cittadini e agli attori esterni delle scelte di policy compiute. Di qui l’incapacità di comprendere le problematiche che affliggono la società contemporanea e la proiezione artificiale in una figura erta a simbolo, non senza implicazioni negative.
      Allontanano dall’individuazione di possibili soluzioni

      Oltre a offuscare il contesto di appartenenza, la retorica dell’azione straordinaria allontana l’attenzione da quello che dovrebbe essere il corretto funzionamento di qualsiasi sistema, a livello macro, così come a livello micro. Nelle narrazioni incentrate sugli eroi non c’è spazio né per analisi valutative comparate, né tantomeno per riflessioni su come dovrebbe funzionare, ad esempio, un’organizzazione.

      Scoraggiando la correttezza analitica su temi di rilevanza pubblica e disincentivando qualsiasi tipo di studio volto a misurare l’efficacia di singole iniziative di welfare o il loro impatto sull’occupazione e il benessere della collettività, le narrazioni eroicizzate impediscono di indagare la realtà in maniera approfondita. Di conseguenza, non consentono di comprendere le implicazioni, non solo economiche ma anche in termini di efficacia, che sono connesse alle diverse soluzioni di policy.

      La tendenza ad analizzare la realtà in maniera superficiale, spesso in nome di un’imperante “politica del fare”, ci allontana quindi dall’individuazione di possibili soluzioni ai problemi che affliggono le società contemporanee. I riflettori accesi su una singola esperienza nel campo delle dipendenze hanno per molto tempo impedito un confronto serio sull’efficacia degli interventi di riabilitazione sperimentati dalle diverse realtà di accoglienza, non solo in termini di disintossicazione, ma anche di reinserimento nel tessuto sociale delle persone accolte. L’esaltazione della figura di Vincenzo Muccioli ha contribuito a trascurare negli anni ‘80 le oltre 300 iniziative di accoglienza di tossicodipendenti che in quegli stessi anni stavano sperimentando percorsi di riabilitazione alternativi basati sull’ascolto individuale, la responsabilità e la condivisione comunitaria. Realtà che, basandosi su uno scambio tra contributi volontari e competenze professionali (sociologici, psicologi, educatori, psichiatri, ecc.), prendevano le mosse a partire dall’esperienza di organizzazioni già radicate come il Gruppo Abele, San Benedetto al Porto e la Comunità di Capodarco, così come nuove esperienze, tra cui il Ceis, Exodus, Saman, Villa Maraini a Roma e la comunità Betania a Parma (De Facci, 2021). Tra le tante comunità di accoglienza e recupero nate tra gli anni ’70 e ’80, particolarmente interessante è quella trentina di Camparta, che è stata recentemente raccontata da alcuni dei suoi protagonisti. Promossa su iniziativa di uno psicoterapeuta d’impronta basagliana e animata da ideali libertari e comunitari, Camparta ha sperimentato un metodo di riabilitazione olistico, fondato su un percorso di ricerca interiore, confronto e rifondazione culturale a tutto campo (I ragazzi di Camparta, 2021).

      La narrazione fortemente polarizzata tra posizioni idealizzate pro e anti migranti continua a impedire un’analisi rigorosa e sistematica del fenomeno migratorio che possa fornire utili indicazioni di policy su come andrebbe gestita l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati entro una visione di sviluppo locale piuttosto che secondo una logica emergenziale. L’idealizzazione di Mimmo Lucano ha distolto l’attenzione dalle tante altre esperienze di accoglienza di cui l’Italia è ricca. Iniziative che, prendendo in alcuni casi ispirazione dall’iniziativa pionieristica di Riace, hanno saputo innescare processi di sviluppo a livello locale grazie ad una proficua collaborazione tra enti di terzo settore e enti locali (Galera, Borzaga, 2019; Lucano, 2020).

      Coprendo le nefandezze e le carenze di un sistema sanitario al collasso, la celebrazione di medici e infermieri come angeli durante il primo lockdown ha ritardato una riflessione quanto mai necessaria su come dovrebbe essere riformato il sistema sanitario per renderlo maggiormente in grado di gestire le attuali sfide socio-sanitarie, così come quelle all’orizzonte per effetto dell’allevamento industriale intensivo, del massiccio impiego di antibiotici in allevamento e dei cambiamenti climatici (Galera, 2020; Tamino, 2020).

      A livello organizzativo, le narrazioni incentrate sull’azione straordinaria degli eroi imprenditori incoraggiano sistematicamente sia l’adozione di strumenti di management, sia l’adesione a culture organizzative che, svilendo la componente della partecipazione, indeboliscono la capacità del terzo settore di incidere a livello locale; e influenza, in modo negativo, pure le politiche, laddove, ad esempio nelle scelte di finanziamento, venga privilegiata l’idea “innovativa”[7]
      rispetto alla capacità di costruire legami di comunità e di rafforzare soggetti collettivi e inclusivi.

      A livello di sistema, l’impatto generativo del terzo settore è nondimeno minato dall’incapacità – insita in ogni idealizzazione – di discernere tra elementi non trasferibili, perché legati a particolari condizioni congiunturali e di contesto favorevoli, ed elementi “esportabili”. Tra questi, ad esempio, modelli di servizio, strumenti di lavoro, strategie di collaborazione o forme dell’abitare che, essendo stati sperimentati con esiti positivi, potrebbero essere modellizzati e replicati su più ampia scala, qualora liberati dal giogo dell’eroe.
      Forniscono l’alibi per rifugiarsi nell’inazione

      Tra i gruppi idealizzati rientrano i volontari e gli operatori impegnati in prima linea nelle situazioni emergenziali generate da catastrofi naturali. Nel caso dei volontari, la tendenza predominante è mitizzarne il coinvolgimento durante le emergenze e ignorarne sistematicamente il contributo nella vita quotidiana a sostegno delle persone più vulnerabili o del territorio che abitiamo per contenerne la fragilità.

      Tra gli esempi di mobilitazioni di volontari idealizzate vi sono quelle avvenute in occasione di nubifragi e terremoti. Tra queste l’alluvione che nel 1966 cosparse Firenze di acqua e fango, causando gravissimi danni sia alle persone sia al patrimonio artistico (Silei, 2013). Ulteriori esempi di mobilitazioni comunitarie sono rappresentati dal terremoto del 2012 in Emilia e dall’alluvione di Genova nel 2014. Catastrofi naturali che hanno attivato una catena di solidarietà in grado di compensare, almeno in parte, l’assenza di un’organizzazione centralizzata capace di gestire opportunamente le emergenze.

      L’uso di espressioni improprie come “angeli” e “eroi” mette tuttavia in ombra la normalità dell’azione di milioni di cittadini che nelle associazioni o individualmente nei loro posti di lavoro, in strada o su internet, chiedono l’attenzione delle istituzioni, anche prima delle emergenze, denunciano gli abusi e si battono per i propri diritti (Campagna #nonsonoangeli, 2014).[8]
      La mitizzazione dei volontari nei momenti di crisi non solo svilisce il loro prezioso contributo nella quotidianità. Appigliandosi al pretesto che l’impegno sia appannaggio di pochi eletti, l’idealizzazione offre ai così detti “cittadini ordinari” l’alibi per rifugiarsi nell’inazione.
      Scoraggiano la costruzione di un sistema valoriale alternativo

      Il pathos suscitato dagli eroi offre nondimeno la scorciatoia per non impegnarsi nella costruzione di un sistema valoriale coerente con i principi e i valori dichiarati. Il sistema di riferimenti valoriali riprodotto dall’eroe permette, infatti, di aggregare consenso in maniera immediata, senza alcuna fatica. Diversamente, un percorso di produzione valoriale sociale in grado di innescare cambiamenti consapevoli richiederebbe sia un impegno rilevante in termini di ascolto, confronti e negoziazioni volti a tracciare un itinerario di azione condiviso, sia tempi considerevoli.

      Di qui l’effimera illusione che l’eroe, consentendo di conseguire approvazione e sostegno nel breve termine, possa aiutarci a sostenere il nostro sistema valoriale in maniera più efficace. Le storie di eroi ci mostrano, invece, come i sistemi basati sull’idealizzazione siano nel medio e lungo periodo destinati a produrre l’effetto contrario. Creando una frattura netta tra gli eroi e i non eroi, influenzano in senso antisociale i comportamenti collettivi e individuali (Bonetti, 2020). E così facendo, ci allontanano da quello che dovrebbe essere il modello di società più rispondente al sistema valoriale che vorremmo promuovere.
      Incoraggiano la polarizzazione tra “buoni” e “cattivi”

      Di conseguenza, oltre a non contribuire a risolvere spinosi problemi sociali, le narrazioni idealizzate favoriscono una polarizzazione tra “buoni” e “cattivi” in cui le posizioni contrapposte si alimentano a vicenda, compromettendo il dialogo e la gestione dei conflitti.

      La tendenza a polarizzare è una prassi diffusa nel settore dell’informazione, incline a esaltare o distruggere personaggi simbolo (Sgaggio, 2011), così come tra opinionisti, osservatori, ricercatori, esperti e tra le organizzazioni della società civile.

      Quella della polarizzazione e categorizzazione è tuttavia una tendenza a cui siamo tutti soggetti, spesso inconsapevolmente. Siamo attratti maggiormente da notizie e informazioni che siano in grado di confermare le nostre interpretazioni del mondo, mentre siamo respinti magneticamente da tutto ciò che mette in discussione le nostre certezze o alimenta dubbi. Elaborare messaggi che si allineano con le nostre ideologie richiede, non a caso, uno sforzo cognitivo considerevolmente minore rispetto alla messa in discussione delle nostre sicurezze (Michetti, 2021).

      L’inclinazione a semplificare e categorizzare è in una certa misura una reazione incontrollata, indotta dall’esigenza di difenderci dal bombardamento di informazioni a cui siamo sottoposti sistematicamente. Una reazione che rischia di essere esasperata dallo stato emotivo di vulnerabilità a livello individuale e collettivo in cui ci troviamo a causa della pandemia. L’essere più fragili ci rende, infatti, più facilmente preda di abbagli e simboli in cui proiettare paure, ambizioni e desideri di cambiamento in positivo.
      Esasperano le fragilità delle persone idealizzate

      In mancanza della consapevolezza di essere oggetto di idealizzazione, la mitizzazione può avere conseguenze deleterie anche sulla persona idealizzata. Come alcune storie di eroi ci mostrano, l’idealizzazione può portare a una progressiva esasperazione di fragilità latenti e, nei casi estremi, a una dissociazione cognitiva. Di qui lo sviluppo – nelle persone borderline – di disturbi narcisistici e megalomani, che possono accelerare la caduta del mito, sempre al varco quando vi è un processo di santificazione in atto.[9]

      A prescindere dall’evoluzione dell’idealizzazione, delle competenze, talenti o accuse di cui può essersi macchiato il presunto eroe, si tratta di un percorso a termine, nella maggior parte dei casi destinato a lasciare spazio alla solitudine non appena la stagione della gloria si esaurisce, talvolta accompagnata dalla dissacrazione della figura dell’eroe.
      Il caso della pastora Agitu Ideo Gudeta e della “Capra Felice”

      La recente idealizzazione della pastora etiope Agitu Ideo Gudeta, titolare dell’azienda agricola “La Capra Felice”, esaltata a seguito della sua uccisione, confermano il bisogno compulsivo di eroi che affligge una rilevante fetta di società, in questo caso quella più militante e attenta alla giustizia sociale, ai valori della solidarietà e dell’antirazzismo. La sua storia è molto conosciuta.

      Agitu Ideo Gudeta nasce nel 1978 in Etiopia. Emigra in Italia per motivi di studio ma, appena laureata, torna nella sua terra d’origine per combattere contro il land-grabbing. Dopo aver ricevuto pesanti minacce per il suo impegno contro le multinazionali, rientra come rifugiata in Italia e avvia in Trentino un allevamento di ovini di razza pezzata mòchena, una specie autoctona a rischio di estinzione, e un caseificio, La Capra Felice, i cui prodotti biologici e gli intenti ambientalisti la portano ad ottenere riconoscimenti anche da Slow Food e da Legambiente. Per la sua attività Agitu Ideo Gudeta recupera un pascolo di oltre 10 ettari in stato di abbandono e occupa nel corso degli anni numerosi giovani richiedenti asilo e rifugiati.

      Quello di Agitu Ideo Gudeta è un racconto ineccepibile di cui tanti attivisti si sono innamorati, estrapolando pezzi della sua storia che calzavano a pennello con la loro retorica. Il suo percorso ha trovato terreno fertile nelle narrazioni sull’inclusione, nelle analisi di buone pratiche di imprenditoria migrante e femminista, nelle storie di rivitalizzazione di aree interne, negli esempi di recupero di specie animali autoctone a rischio di estinzione, e nella lotta contro il land-grabbing.

      La maggior parte delle analisi, in particolare quelle realizzate dopo la sua uccisione, si è tuttavia limitata ad una descrizione superficiale che ha sottovalutato le caratteristiche di un contesto contraddistinto da una molteplicità di sfide e criticità legate in primo luogo al settore di attività, la pastorizia, notoriamente a rischio di sfruttamento per le caratteristiche intrinseche a tutte le attività agricole. Si tratta di attività esposte a una molteplicità di fattori di incertezza; a quelli produttivi e di mercato si aggiungono rischi climatici, ambientali e istituzionali legati al cambio di normative e regolamenti, che condizionano fortemente le entrate economiche, specie delle aziende agricole di piccole dimensioni.

      Tra le caratteristiche di contesto rientra anche il tipo di territorio: la Valle Dei Mòcheni, un’area alpina periferica dove esistono ancora regole antiche che governano i rapporti tra i membri della comunità. Infine, un ulteriore elemento di complessità è legato alla tipologia di lavoratori impiegati dalla Capra Felice: richiedenti asilo e rifugiati, ovvero persone fragili che mostrano, in generale, un’alta vulnerabilità spesso dovuta a disturbi post-traumatici da stress (Barbieri, 2020).[10]
      Queste sfide e criticità si sono intrecciate con le difficoltà legate a un processo di sviluppo imprenditoriale che la Capra Felice ha intrapreso in un momento di grave instabilità e recessione economica.

      A dispetto delle drammatiche circostanze in cui i fatti si sono svolti, la retorica che potremmo chiamare della beatificazione seguita all’uccisione di Agitu Ideo Gudeta non ha lasciato alcuno spazio alla riflessione critica. Non solo le istituzioni pubbliche e gli operatori dell’informazione, ma anche molti politici e organizzazioni di terzo settore si sono rifugiati nella facile consacrazione dell’eroina, piuttosto che interrogarsi sulle fragilità dell’ambiente in cui Agitu Ideo Gudeta operava, sulle difficoltà incontrate da lei e dai suoi collaboratori, e persino sulle concause che potrebbero aver portato alla sua uccisione.

      Mentre si sono sprecate le parole per “eroicizzarla”, nessuno si è interrogato sulla qualità del lavoro, sul tipo di relazione lavorativa che la Capra Felice instaurava con i giovani richiedenti asilo e sull’esito dei loro percorsi di integrazione.

      Chi erano e che ruolo avevano i collaboratori della Capra Felice? Quanti richiedenti asilo hanno lavorato nel corso degli anni e in che misura e da chi erano seguiti nei loro percorsi di inclusione? Qual era il turn over dei lavoratori stranieri? Che rapporto avevano i collaboratori della Capra Felice con il territorio e la comunità locale? Dove vivono e lavorano ora gli ex lavoratori? Nel caso di lavoratori particolarmente fragili, qual era il ruolo dei servizi sociali e sanitari? Il percorso di sviluppo imprenditoriale della Capra Felice è stato seguito da qualche incubatore di impresa e, in caso negativo, perché no?

      Queste sono solo alcune delle domande su cui si sarebbe dovuto a nostro avviso interrogare qualsiasi osservatore non superficiale, interessato a comprendere e a sostenere i percorsi di accoglienza e inclusione sociale e lavorativa delle persone fragili.
      Progetti collettivi al posto di eroi e eroine

      La storia tragica di Agitu Ideo Gudeta sembra essere anche la storia di una società debole e fallimentare nel suo complesso, non solo di un’onda retorica che ha attraversato i mezzi di informazione e i social network per creare al suo centro l’eroina.

      Il fatto che la sua morte abbia generato un bisogno di santificazione e una gogna mediatica nei confronti dell’accusato, invece che sollecitare cordoglio e un esame di coscienza collettiva, smaschera un vuoto su cui forse varrebbe la pena riflettere.

      Un vuoto che può essere riempito solo con azioni concrete e durevoli, che siano il frutto di progetti collettivi a livello comunitario. A questo scopo, servono iniziative di autentica condivisione che aiutino a governare la complessità, a riconoscere le situazioni di fragilità e a prevenire e gestire i conflitti che inevitabilmente abitano i contesti sociali (Sclavi, 2003). A supporto di queste iniziative, c’è bisogno di una nuova narrazione, autentica e costruttiva, che sia innanzi tutto capace di apprendere dagli errori e dai fallimenti affinché le falle del nostro tessuto sociale non permettano più il perpetrarsi di simili tragedie. Quindi, una narrazione che non rifugge il fallimento e non lo percepisce come un pericolo da mascherare a qualsiasi costo, ma come un’opportunità di crescita e di cambiamento.

      Rispetto a quella che nutre gli eroi, è un tipo di narrazione di senso, incline ad alimentare una responsabilità collettiva e una nuova consapevolezza sociale, che può favorire un ribaltamento valoriale in senso solidale. È però una narrazione molto più faticosa da sviluppare. Presuppone, infatti, un’azione collettiva impegnativa in termini di relazioni, negoziazioni e confronti, che deve giocoforza poggiare sulla creazione di spazi di aggregazione e di collaborazione. Questa nuova narrazione non può che nascere da un rinnovato impegno civico di ciascuno di noi, in quanto cittadini responsabili che, praticando la solidarietà, prefigurano un cambiamento e un futuro possibile dove la cittadinanza attiva non è l’eccezione ma la costante.[11]

      Di qui la necessità di sostituire l’emulazione verbale e la ben sedimentata narrativa dell’eroe, normativamente accettata da un uso millenario, con un nuovo ordine normativo significante della realtà.
      Come sostenere la creazione di comunità accoglienti e inclusive

      La crisi della democrazia rappresentativa, la sfiducia nei partiti e l’allontanamento dalla politica hanno da tempo acceso i riflettori sulla società civile, organizzata e non, in quanto spazio di discussione e confronto, finalizzato non solo ad elaborare efficaci strategie in risposta a bisogni sempre più complessi, ma anche a prevenire e gestire le fragilità umane e i conflitti tra gruppi sociali contrapposti.

      Di fronte alla crisi epocale dei modelli politici e produttivi tradizionali, sono sempre più numerosi i dibattiti su come, in quale misura e attraverso quali strumenti, le comunità locali possano intervenire concretamente sulle profonde disuguaglianze economiche, sociali, territoriali che affliggono il nostro Paese, ribaltando i paradigmi dominanti e innescando cambiamenti profondi a vantaggio dei più deboli e della collettività.

      La storia, quella più lontana e quella più recente, ci mostra come spesso la forza della comunità risieda nel bagaglio di valori, tradizioni e relazioni fiduciarie, che sono radicati nel tessuto sociale e vissuto collettivo. Ed è questo bagaglio relazionale e valoriale che ha permesso in moltissimi casi alle comunità di sopravvivere e rigenerarsi nel corso della storia, spesso a seguito di eventi traumatici come calamità naturali, crisi economiche e sanitarie. Ma la storia ci riporta anche molti esempi di comunità in cui la valorizzazione delle identità locali ha originato fenomeni di chiusura particolaristica. Comunità esclusiviste che si sono e in molti casi continuano a identificare l’altro con il male (Bonomi, 2018; Langer, 1994).

      La comunità locali sono, quindi, lontane dall’essere sempre e comunque virtuose.

      Cosa fa pertanto la differenza tra una comunità e l’altra? Per diventare accoglienti e inclusive, le comunità devono potersi esprimere attraverso quelle organizzazioni della società civile che sono proiettate verso il bene comune e si avvalgono del coinvolgimento di una pluralità di portatori di interesse, in rappresentanza dei diversi pezzi di società che abitano un territorio. Sono quindi le organizzazioni di terzo settore maggiormente radicate sul territorio che andrebbero sostenute dalle politiche pubbliche all’interno di una cornice collaborativa in cui, anziché gestire prestazioni per conto dell’ente pubblico (Borzaga, 2019), il terzo settore dovrebbe configurarsi come un attivatore di risposte sociali innovative, che fanno leva sulla prossimità ai territori e alle persone, incluse quelle vulnerabili e disinformate, normalmente ai margini delle dinamiche di cambiamento (Manzini, 2018).

      Se è vero, come da più parti sottolineato, che la politica è in gran parte responsabile dello scarso riconoscimento della società civile organizzata, l’insufficiente apprezzamento del suo valore aggiunto è ascrivibile anche ad alcune prassi, culture e comportamenti organizzativi messi in atto dalle stesse organizzazioni di terzo settore. Tra questi, una retorica – quella degli eroi – incoerente con la loro natura, che ha generato atteggiamenti autoreferenziali e ha alimentato uno scollamento di molte organizzazioni di terzo settore dalle loro comunità di appartenenza. Una delle sfide che il terzo settore dovrebbe far propria è, quindi, a nostro avviso l’archiviazione, una volta per tutte, della retorica dell’eroe e dell’eroina e la sua sostituzione con una narrazione autentica e costruttiva che sia in grado di alimentare un’attiva partecipazione della cittadinanza alla gestione del bene comune.

      DOI: 10.7425/IS.2021.02.10

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      Note

      La nozione di bene comune fa riferimento all’insieme delle risorse necessarie allo sviluppo della persona ed all’esercizio dei suoi diritti fondamentali. Presuppone condizioni di eguaglianza nell’accesso o utilizzo degli stessi. Sul concetto di beni comuni si rimanda ai lavori di E. Olstrom [tra cui: Olstrom E. (1990), Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, Cambridge UK]. Nel sistema italiano una definizione di riferimento è quella formulata dalla Commissione Rodotà nel 2008: “Cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”.
      https://nti.apet118.it/home
      “Quanto vale il volontariato in Italia? Istat, CSVnet e FVP lanciano la prima sperimentazione del Manuale ILO sul lavoro volontario”: https://www.csvnet.it/csv/storia/144-notizie/1226-quanto-vale-il-volontariato-in-italia-istat-csvnet-e-fvp-lanciano-i-dati
      Di qui l’elogio di chi ce la fa e “merita” (Piketty, 2020). Per un’analisi critica del “merito” si rimanda a Sandel (2020).
      Con riferimento alle critiche si veda John McClusky (2018).
      Modelli di governance che sono supportati da vincoli normativi o statutari – come il vincolo alla non distribuibilità degli utili (non-profit distribution constraint) e l’asset lock – pensati per garantire la sopravvivenza nel tempo dell’inclusività e dell’interesse generale perseguito.
      Approccio che vede l’intervento sociale in analogia all’innovazione tecnologica, dove una mente geniale, chiusa nel suo garage, inventa qualcosa che rivoluziona la vita di tutti.
      La campagna #nonsonoangeli prese avvio all’indomani dell’ultima alluvione di Genova dall’esigenza di ridefinire il ruolo del volontariato e della percezione di questi per i media, promuovendo da un lato una comunicazione meno stereotipata dell’impegno dei cittadini, in caso di emergenza e non, per il bene comune, e dall’altro una conoscenza del volontariato e della solidarietà così come queste si manifestano. https://nonsonoangeli.wordpress.com/2016/06/08/roma-8-giugno-2016-on-sono-angeli-il-volontariato-tra-stere
      Si veda a questo proposito: https://socialimpactaward.net/breaking-the-myth-of-hero-entrepreneurship - http://tacklingheropreneurship.com
      Si veda anche: https://mediciperidirittiumani.org/studio-salute-mentale-rifugiati - https://archivio.medicisenzafrontiere
      https://www.cesvot.it/comunicazione/dossier/hanno-detto-di-nonsonoangeli

      https://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/articolo/dalla-ricerca-di-eroi-alla-costruzione-di-progetti-comunitari

      #héros #narration #imaginaire_collectif #récit #moralité_culturelle #éthique #justice_sociale #contre-récit #communautés_locales #pathos #individualisation #Lucano #Mimmo_Lucano #Domenico_Lucano #excellence #storytelling #innovation #néo-libéralisation #libéralisme #management #leadership #figure_charismatique #charisme #Riace #idéalisation #polarisation #simplification #catégorisation #fragilisation #solitude #Capra_Felice #responsabilité_collective #société_civile

  • Land grabs at gunpoint: Thousands of families are being violently evicted from their farms to make way for foreign-owned plantations in Kiryandongo, Uganda
    https://grain.org/e/6518

    Three multinational companies – Agilis Partners, Kiryandongo Sugar Limited and Great Season SMC Limited – are involved in grabbing land, violently evicting people from their homes and causing untold humiliation and grief to thousands of farming families residing in Kiryandongo district, Uganda. The land grabs are happening on abandoned national ranches, which have long since been settled and farmed by people who came to the area fleeing war and natural calamities in neighbouring areas. The local people are being displaced without notice, alternatives or even negotiations and are now desperately trying to save their homes and lives.

    #Ouganda #terres #évictions_forcées #canne_à_sucre

  • Land Grabbing in Palestine and Community Resistance | Voices from FoE Asia Pacific
    https://foeasiapacific.org/2020/01/14/land-grabbing-in-palestine-and-community-resistance

    In all, Israel is estimated to have claimed close to 93 per cent of Palestinian land. This includes 80 per cent of Muslim waqf property as its de facto state land, along with uncultivated desert land, held under local customary rights by the Bedouin community. This has led to the scarcity of land, resulting in frequent land disputes and social conflicts, even amongst the Palestinians themselves. Today, 78 per cent of the Palestinian land has been claimed as part of the state of Israel while the West Bank and the Gaza strip take up 21 per cent and 1 per cent of the territory, respectively.

    Le reste du dossier sur l’#accaparement_de_terres :
    https://foeasiapacific.org/2019/12/16/new-report-the-laws-of-land-grabs-in-asia-pacific

    #terres #colonisation #Israël #Palestine

  • Africa: povertà e denutrizione in aumento nonostante la crescita economica e l’aumento dell’import di prodotti agro-industriali

    L’Africa nel suo insieme, nonostante i progressi intrapresi a partire dall’inizio del nuovo millennio, si presenta tutt’oggi, sia dal punto di vista economico che sociale, come il continente meno sviluppato.

    Sotto il primo aspetto, benché la ricchezza prodotta dall’intero continente, secondo l’Ocse, sia triplicata fra il 2000 e il 2016,[1], il pil pro capite medio africano risulta ancora di soli 2.000 $ annui[2]. Un valore che uniforma differenze anche marcate, non solo macroregionali fra la parte Mediterranea, più sviluppata, e quella sub-sahariana, più arretrata in assoluto su scala globale, ma anche fra i vari stati all’interno delle stesse, dove, ad esempio, entro quest’ultima, nel 2017[3], troviamo il Burundi con un pil pro capite di soli 312 $ a fronte della Guinea Equatoriale che invece raggiunge i 12.727 $. Avallando la definizione di alcuni analisti che preferiscono utilizzare il termine Afriche per indicare appunto una situazione di relativa differenziazione interna al continente.

    Il quadro sociale

    Anche sotto l’aspetto dello sviluppo sociale complessivamente l’Africa evidenzia una marcata arretratezza: nonostante la speranza di vita media alla nascita sia cresciuta fra il 2015 e il 2018 di ben 3 anni (da 50,8 a 53,9)[4], risulta ancora inferiore rispetto agli altri continenti e la mortalità infantile, benché scesa solo negli ultimi anni al di sotto della soglia del 100 per 1.000, vede gli stati della parte sub-sahariana situati in blocco nelle ultime posizioni nell’apposita graduatoria dell’Unicef relativa al 2018 (tab. 1).

    Tabella 1: mortalità infantile nel primo anno di vita. Fonte (Unicef 2018)[5]

    Un quadro sociale generale ancora indubbiamente critico come certificato dai valori della povertà assoluta dichiarati dalla presidente della Banca africana di sviluppo Celestine Monga[1], con addirittura oltre il 40% della popolazione continentale, a fronte di una media mondiale dell’10%, che cerca di sopravvivere con meno di 1,90 $ al giorno e la sottoalimentazione che nel 2018, secondo la Fao[2], colpiva il 20% degli africani. Una drammatica situazione che vede concentrarsi, nel continente che accoglie solo il 17% della popolazione mondiale, circa un terzo del totale dei denutriti sulla Terra (con meno di 2.000 calorie al giorno), confermando che il binomio fame-povertà, lungi dall’essere sradicato, presenta addirittura un inquietante trend in fase di aggravamento.

    [1] studio americano del Brookings Institution (classifica dei paesi più poveri al mondo)

    [2] http://www.fao.org/news/story/it/item/1180461/icode

    A fronte di un tendenza globale di lungo periodo di riduzione della povertà estrema dai 1,850 miliardi (35%) del 1990 ai 735 milioni (10%) del 2015, nel periodo compreso fra il 2013 e il 2015, al cospetto di una contrazione mondiale di 68 milioni di unità, in Africa sub-sahariana, secondo la Banca Mondiale si è registrato invece un aumento di 8 milioni e addirittura 9 milioni in Nord Africa e Medio Oriente (Tab. 2). In quest’ultima area la situazione è risultata peggiore visto che i poveri sono quasi raddoppiati da 9,5 a 18,6 milioni a causa delle cosiddette Primavere arabe in Tunisia ed Egitto e delle guerre in Libia e in Siria che hanno destabilizzato dal punto di vista politico ed economico la macroregione.

    Tabella 2: povertà assoluta in percentuale e in valore assoluto 2013-2015. Fonte: Banca Mondiale[8]

    La gravità della situazione è testimoniata dallo studio realizzato dai ricercatori del World Poverty Clock con il sostegno delle Nazioni Unite e del governo tedesco concluso nel 2018 dal quale emerge che si trovano in Africa sub-shariana 12 dei 14 paesi dove la povertà estrema risulta in aumento in valore assoluto: Nigeria, Niger, Ciad, Repubblica Centrafricana, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica del Congo, Angola, Zambia, Madagascar, Burundi e Sud Sudan, sul quale ci soffermeremo in seguito.

    Caso paradigmatico è rappresentato, ad esempio, dalla Nigeria, stato più popoloso del continente con circa 195 milioni di abitanti, che in base alle proiezioni del World Poverty Clock 2018 del World Data Lab di Vienna[10], ad inizio 2018, risultava, nonostante le ingenti riserve petrolifere, il paese con il più elevato numero di persone in condizione di povertà assoluta, stimate a fine maggio 2018 in ben 87 milioni scalzando l’India (73 milioni) dal vertice della poco gratificante graduatoria mondiale (grafico 1). La reale gravità della situazione tuttavia emerge dal rapporto fra la consistenza demografica dei due paesi che nel 2018 risultava di ben 7:1 a favore del colosso asiatico.

    Grafico 1: stati per numero di persone in povertà assoluta. Fonte: World Poverty Clock

    Una situazione molto critica in Nigeria, al cui interno convive il 44,2%[11] della popolazione in situazione di estrema povertà (tab. 3) e al contempo è il Paese d’origine del miliardario più ricco del continente, l’uomo d’affari Aliko Dangote, e quello dove cresce un’elite di benestanti sempre più abbienti. Povertà e disuguaglianza, fenomeno che in Europa dopo la crisi del 2008 è andato sempre consolidandosi.

    Tabella 3: primi 4 paesi africani per numero di abitanti in povertà assoluta. Fonte: World Poverty Clock

    Riguardo alla sottoalimentazione rileviamo una situazione ancora più critica rispetto a quella della povertà: infatti, in base al report dell’Unicef 2018[12], dopo aver toccato, a livello mondiale, il minimo storico nel 2015 a 785 milioni di persone è risalita nel 2017 a 821, dato confermato anche nel 2018[13], con l’Africa che assorbe la quasi totalità dell’aumento: ben 34,5 su 36 milioni di aumento globale. Il numero di persone sottoalimentate in Africa sale così nel 2017 a 257 milioni di unità, suddivise fra i 20 milioni nella parte Mediterranea ed i 237 in quella sub-sahariana. Quasi la metà dell‘incremento è dovuta all’aumento del numero di persone denutrite nell’Africa occidentale, mentre un altro terzo proviene dall’Africa orientale.

    L’ampia porzione di Africa posta sud del Sahara si conferma così come la macroregione in stato di maggior sofferenza a livello mondiale, con la speranza di vita media più bassa, la più elevata mortalità infantile e con le maggior percentuali di persone sottoalimentate e in condizioni di povertà assoluta.

    Le previsioni

    Dal rapporto del World Poverty Clock pubblicato il 7 settembre 2018[14] fuoriesce, del continente africano, una situazione a luci e ombre: se da un lato, nell’Africa sub-sahariana, la povertà assoluta è prevista in riduzione dal 39% del 2018 al 27% del 2030, lo stesso problema sta invece assumendo, per alcuni paesi, i connotati di una piaga sociale endemica per la quale non si intravedono prospettive di risoluzione nemmeno a medio termine. Infatti, in base alle stime dello stesso report del World Poverty Clock pubblicato il 5 maggio 2018, è previsto che nel Continente Nero nel 2030 si troveranno sia i 13 dei 15 paesi in cui la povertà avrà registrato un aumento in valore assoluto che i primi 4, fra i soli 5, che vedranno aumentare il tasso di povertà assoluta a livello mondiale (tab. 4). Per il 2018 invece è stato calcolato un ulteriore aumento di 3 milioni di unità a livello continentale.

    Tabella 4: stati africani col più elevato tasso di povertà assoluta in percentuale: stime 2018-previsioni 2030. Fonte: World Poverty Clock

    Sud Sudan: l’ultimo nato in peggiori condizioni

    Particolarmente drammatica risulta, dal report del Word Poverty Clock pubblicato il 1 agosto 2018[15], la situazione del Sud Sudan, paese di più recente formazione della Terra (2011), che vedrà aumentare il numero di poveri assoluti dagli 11,5 milioni del 2018 ai 14 del 2030, con una incidenza sulla popolazione che passerà dall’85,1% al 95,8% (tab. 4). Il conflitto per la leadership politica fra il presidente, Salva Kiir di etnia Dinka, e il suo vice, Riek Machar leader dei Nuer, il secondo gruppo etnico nazionale, ha insanguinato e destabilizzato il Paese per quasi 5 anni sino al luglio 2018 minandone lo sviluppo e la diversificazione economica: ancora oggi circa l’85% della popolazione attiva risulta impegnata in attività non salariate, principalmente agricoltura di sussistenza e allevamento (circa il 78% degli attivi)[16]. La sostanziale assenza dell’industria manifatturiera costringe all’importazione di quasi tutti i beni sia di consumo che intermedi; l’unico settore industriale moderno risulta quello petrolifero, nel quale dominano gli investimenti stranieri, in particolare cinesi, indiani e malesi[17]. Ricco di risorse del sottosuolo, il Sud Sudan, detiene, oltre ai pozzi petroliferi, giacimenti di oro, argento, ferro e rame.

    Ricoprendo il 99% dell’export e il 60% della ricchezza nazionale, il settore petrolifero risulta di gran lunga dominante, causando tuttavia fragilità alla struttura economica nazionale a seguito della dipendenza della stessa dall’andamento delle quotazioni borsistiche: il pil pro capite secondo la Banca Mondiale è infatti crollato, insieme al valore del petrolio, dai 1.111 $ del 2014 ai meno di 228 $ del 2017[18]. Il conseguente deficit fiscale ha causato un’ondata inflazionistica e gravissime carenze alimentari: nel Paese ben 7 milioni di persone (pari al 63%) sono stati colpiti da carestia e vengono assistite tramite gli aiuti umanitari del World Food Programme (Wfp), mentre quasi 2 milioni sono gli sfollati interni e altri 2,5 milioni sono fuggiti dal Paese, dando vita alla più grave crisi dei rifugiati in Africa dopo quella del Ruanda di metà anni ’90.

    A prescindere dalla grave crisi alimentare in atto, nel complesso il Sud Sudan presenta un quadro strutturale disastroso caratterizzato dall’83% di popolazione rurale, da un elevato analfabetismo (73% maschile e l’84% femminile), da una carenza di servizi pubblici che esclude il 75% della popolazione dall’assistenza sanitaria e dalla maggior percentuale di popolazione in povertà assoluta (85%) a livello mondiale, ai quali si aggiungono carenze infrastrutturali, debolezza delle istituzioni politiche, corruzione al pari del resto del continente, frammentazione etnica (ben 64 gruppi) e dispute di confine[19].

    Fame in aumento e boom dell’import di prodotti agricoli: un’apparente contraddizione

    Dal report del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (Usda) del 2 novembre 2015[20] emerge che nel ventennio 1995-2014 le importazioni di cibo e prodotti agricoli intermedi e primari ha subito in Africa sub-sahariana un incremento medio del 13% annuo come effetto combinato della sostenuta crescita economica (60% di incremento del pil totale nei 10 anni precedenti) e del consistente incremento demografico (dai 720 del 1995 ai 1.156 milioni del 2014)[21]. Le importazioni agricole totali hanno raggiunto nel 2014 un controvalore pari a 48,5 miliardi $, secondo solo al 2013, ripartito fra i 11,7 miliardi proveniente da altri Paesi della macroregione e i 36,8 da fuori del continente. Emerge tuttavia un aspetto incoraggiante per il progetto di integrazione panafricano riconducibile alla crescita del commercio agricolo intra-africano, che fra il 2009 e il 2014, ha superato quello proveniente dall’esterno: 100% contro 60% (grafico 2).

    Grafico 2: importazioni agricole in Africa sub-sahariana in miliardi $ 1994-2014

    Per individuare le cause della contraddizione sottoalimentazione/aumento dell’import agroalimentare è opportuno sovrapporre alla dinamica demografica quella sociale: in Africa sub-sahariana infatti nel decennio 2005-2014 si è registrata un’espansione della classe media addirittura del 90%, ceto sociale che, al pari di quello di altre aree emergenti del Sud del mondo, persegue consumi di tipologia e livello occidentale, alimentando una sensibile crescita della domanda di tali prodotti. Infatti, dall’analisi merceologica del comparto rileviamo come le principali importazioni agroalimentari dell’Africa sub-sahariana siano prodotti orientati al consumatore: alimenti preparati, latticini, pollame, vino/birra e verdure. Tali prodotti diretti al consumo finale hanno registrato nel quinquennio 2010-2014 addirittura un incremento del 70% arrivando, in quell’anno, a rappresentare oltre il 40% delle importazioni totali della macroregione.

    Al pari le importazioni di prodotti intermedi, principalmente olio di palma e zucchero, utilizzati come materie prime dall’industria agroalimentare, sono cresciute anch’esse rapidamente, mentre quelle di merci sfuse, prodotti primari destinati all’alimentazione di base, sono state invece più contenute, tant’è che l’import di cereali, in un sub-continente “affamato” rappresentavano solo il 21% nel 2014: grano 9% e riso 12% (grafico 3).

    Grafico 3: paniere merceologico dell’import agroalimentare in Africa sub-sahariana 2014

    Lo stesso report prospetta un futuro addirittura prosperoso per l’export agricolo statunitense verso l’Africa sub-sahariana teso al recupero delle quote perse, scese nel ventennio 1994-2005 dal 15 al 5%, in quanto la classe media della macroregione dovrebbe crescere di un ulteriore 90% nel successivo decennio 2014-2024 (grafico 4) determinando un incremento della domanda di prodotti orientati al consumatore di un altro 60%. Un business plan che, tuttavia, non mostra particolare attenzione alle fasce sociali in sofferenza.

    Grafico 4: crescita in % della classe media nelle principali macroregioni terrestri 2014 – 2024

    Un modello agroalimentare contraddittorio

    La critica situazione alimentare del Continente Nero, e in particolare della parte sub-sahariana, è riconducibile alle distorsioni del modello agroalimentare mondiale, sempre più caratterizzato dall’Agrobusiness e dalle sue perverse dinamiche. Un settore, definito dal dizionario curato da Aldo Gabrielli come “il complesso di attività e mezzi connessi allo sviluppo capitalistico dell’agricoltura”, nel quale le finalità esulano dalla funzione primaria di soddisfacimento del fabbisogno alimentare per perseguire invece la massimizzazione del profitto in linea con le logiche capitalistiche.

    Basato sull’integrazione fra agricoltura e industria, al suo interno operano poche grandi imprese multinazionali che controllano l’intera filiera: dalla produzione alla trasformazione industriale sino alla commercializzazione dei prodotti finiti. Le produzioni agricole avvengono in ogni area del pianeta, sia del Nord che del Sud, mentre i prodotti finiti vengono indirizzati dove esiste facoltà di spesa, la famosa domanda, quindi principalmente nei paesi sviluppati e verso i ceti sociali emergenti (nuovi ricchi e classi medie) di quelli in via di sviluppo (Cina, India ecc.) e addirittura di quelli ad economia meno sviluppata, come nel caso africano.

    L’agricoltura costituisce l’asse portante del sistema in quanto produttrice delle indispensabili materie prime ma l’attività industriale economicamente ha la preminenza poiché gran parte del valore aggiunto deriva dalla trasformazione dei prodotti agricoli. Negli Stati Uniti, ad esempio, il sistema agroalimentare industriale assorbe il 20% della popolazione attiva ma soltanto l’1% è impiegato nel settore primario. A rimanere schiacciati da questo sistema sono i produttori locali, soprattutto quelli piccoli, del Sud del mondo ai quali vengono dettate le scelte colturali, a discapito della sovranità alimentare quindi dei prodotti di sussistenza, e imposto prezzi di acquisto molto bassi, a causa dell’asimmetria contrattuale fra le parti contraenti. Emblematico risulta a tal proposito il caso del caffè che, contrariamente ad altri prodotti di piantagione, è coltivato da una moltitudine di piccoli contadini che si trovano in condizione di subalternità rispetto alle multinazionali che acquistano la materia prima per la trasformazione e la commercializzazione.

    In base al rapporto “Scopri il marchio“ di Oxfan le 10 più grandi aziende agroalimentari vale a dire Associated British Foods (Abf), Coca-Cola, Danone, General Mills, Kellogg’s, Mars, Mondelez International (ex Kraft Foods), Nestlé, PepsiCo e Unilever generano collettivamente entrate superiori a 1,1 miliardi di dollari al giorno[22] 1 con un volume d’affari stimato intorno ai 7.000 miliardi annui, addirittura 18 volte superiore al settore dell’energia, rappresentando circa il 10% dell’economia globale. Nei vari comparti in cui operano tendono a crearsi oligopoli egemonizzati da queste imprese di enormi proporzioni, come nel comparto del cacao in cui tre aziende controllano il 30% del mercato mondiale[23] o quello della frutta tropicale dove cinque multinazionali ne coprono addirittura l’80%[24] .

    Le dimensioni economiche di queste macroaziende superano talvolta quelle di stati del Sud del mondo consentendo loro di esercitare pressioni sui governi tese ad influenzarne le scelte politiche a proprio vantaggio, ma che finiscono per concretizzarsi in dinamiche vessatorie per le popolazioni locali quali: l’espansione dei latifondi, delle monocolture da esportazione e del land grabbing (l’accaparramento delle terre). Quest’ultimo fenomeno, attuato sia da imprese che da stati, affligge Sud America, Sud-est asiatico, Asia centrale e, soprattutto, l’Africa, nella quale quasi 30 milioni di ettari di terreni coltivabili, di cui ben il 64% per colture non alimentari (carta 1), sono controllati attraverso due forme contrattualistiche: acquisizioni e leasing. In particolare, principali vittime risultano i piccoli contadini che vengono schiacciati dal potere soverchiante delle grandi aziende che ne provoca un impoverimento sino a costringerli a vendere loro i terreni; in altri casi vengono addirittura espulsi con la violenza, da eserciti o paramilitari, dalle proprie terre trasformandoli in profughi, spesso costretto a fuggire all’estero. Il Centro Studi Internazionali, riporta alcuni casi emblematici relativi all’Africa come quello della regione di Gambella in Etiopia dove, dal 2010 l’esercito ha costretto molti abitanti ad abbandonare le terre e a spostarsi in altre aree a vantaggio delle imprese straniere fra le quali spicca l’impresa Saudi Star (Arabia Saudita) che è riuscita ad impossessarsi di ben 15.000 ettari di territorio per la coltivazione di canna da zucchero e riso[25]

    Carta tematica 1: i principali attori attivi e passivi del land grabbing. Fonte: land matrix 2018[26]

    Crescita senza redistribuzione

    Un continente che, dopo la lunga recessione del ventennio 1980-2000, causata dalla contrazione delle quotazioni delle commodities, ha finalmente imboccato col nuovo millennio il percorso di sviluppo economico, triplicando, in base ai dati Ocse[27], la ricchezza prodotta tra il 2000 e il 2016 con una crescita media annua del 4,6% (tab. 5), la seconda più elevata a livello mondiale dopo i paesi asiatici in via di sviluppo

    Tabella 5: crescita economica media annua nelle principali macroregioni del Sud del mondo fra 2.000 e 2016 in base ai dati Ocse 2018[28]

    Parallelamente, l’Africa nel suo complesso è risultato l’unico continente a registrare un aumento della povertà assoluta da 405 a 413 milioni fra il 2013 e il 2015 (tab. 2) ed ha assorbito nel 2017 la quasi totalità dell’incremento mondiale della sottoalimentazione, 34,5 su 36 milioni, facendo salire il numero di coloro che soffrono la fame a 257 milioni, paradossalmente in contemporanea all’aumento dell’import di prodotti agroalimentari che, fra il 1995 e il 2014, si è attestato su un valore medio annuo del +13%. Indubbiamente la rapida crescita demografica che sta interessando il continente, quasi 60 milioni fra il 2013 e il 2015 (tab. 6), ha creato problemi sociali aggiuntivi ma non è stata determinante visto che la povertà al contempo ha registrato un incremento di 8 milioni nella parte sub-sahariana e altrettanti in Nord Africa e Medio Oriente.

    Tabella 6: crescita della popolazione in Africa fra il 2013 e il 2010. Fonte: population pyramid [29]

    Causa principale della situazione è un modello economico non inclusivo che evidentemente va a beneficio dei ricchi e del ceto medio, quest’ultimo in espansione nell’Africa sub-sahariana fra il 2005 e il 2015 addirittura del 90%, al quale vanno aggiunti problemi economici strutturali quali un’eccessiva dipendenza dall’export di prodotti primari grezzi e una massiccia penetrazione delle multinazionali, tipica dei rapporti di subordinazione neocoloniale, che fanno incetta delle abbondanti risorse minerarie, energetiche, agricole e naturali drenando ingenti profitti.

    Conclusioni

    Sullo sfondo di questo quadro economico e sociale resta la questione delle disparità sociali, che seppur ridottesi a livello continentale fra il 1998 e il 2013, nella parte sub-sahariana rimangono ancora le più elevate a livello mondiale dopo l’America Latina (tab. 7).

    Tabella 7: riduzione dell’indice Gini nelle principali macroregioni nel breve periodo 2008-2013

    La situazione risulta critica soprattutto nell’Africa australe, dove si trovano, a parte Haiti, 4 fra i 5 paesi con il più alto livello di disuguaglianza nella graduatoria mondiale nella distribuzione del reddito fra le fasce sociali, calcolata in base all’Indice Gini: Sudafrica, Botswana, Namibia e Zambia, seguiti dalla Repubblica Centrafricana nell’area equatoriale (tab. 8).

    Tabella 8: stati per indice indice Gini più elevato. Fonte: World Population Rewiew 24/10/2019[30]

    Ed è lo stesso Ocse a confermare il rapporto disparità sociali/povertà: “Se l’Africa abbassasse ulteriormente il proprio coefficiente di Gini, da 41 a 35 (il livello dei Paesi asiatici in via di sviluppo), ciascun punto percentuale di crescita del PIL ridurrebbe i dati sulla povertà di un altro mezzo punto percentuale l’anno. Un tale calo nelle disuguaglianze diminuirebbe il numero di persone che vivono in povertà di 130 milioni. I progressi compiuti per ridurre la povertà estrema sono troppo lenti: nel periodo 2009-16, il 36% della popolazione africana (circa 400 milioni di persone) viveva con 1,90 dollari USA al giorno o meno, rispetto al 49% degli anni ‘90. Per una più rapida lotta alla povertà, la crescita deve diventare più inclusiva e le disuguaglianze devono essere ridotte“[31].

    Rileviamo, a conforto della nostra analisi, la coincidenza di conclusioni con il Rapporto regionale 2018 sulla sicurezza alimentare e la nutrizionedella Fao[32], il quale testualmente riporta che “È interessante notare come le economie africane siano cresciute a ritmi impressionanti, spesso superiori al 5% negli ultimi dieci anni, dal 2004 al 2014. Tuttavia, la povertà e la fame sono ancora in sospeso poiché una crescita economica significativa non è risultata né integrata e né inclusiva“ aggiungendo che “L’insicurezza alimentare in alcuni paesi dell’Africa è stata aggravata dai conflitti, spesso in combinazione con condizioni meteorologiche avverse (riconducibili ai cambiamenti climatici ndr.)” e che è necessario “Orientare le politiche nazionali di sicurezza alimentare verso una maggiore autosufficienza alimentare interna“, vale a dire eliminare il land grabbing, ridurre i latifondi ed estromettere le monocolture da esportazione e riacquisire la sovranità alimentare.

    Una sfida impegnativa per il Continente nero quella dello sviluppo autonomo, integrato ed inclusivo che passa attraverso un processo di integrazione continentale (un passo significativo in tal senso è rappresentato dall’entrata in vigore dell’Area di Libero Scambio dell’Africa – Afcfta – il 30 maggio 2019 che secondo la Commissione economica Onu per l’Africa potrebbe incrementare del 53% il commercio intra-africano[33]) e per il superamento della subordinazione neocoloniale, imposta dalle potenze Occidentali e in forme diverse, recentemente, anche dalla Cina.

    Un percorso, come tutti i processi emancipatori, che non può prescindere da una rottura della storica subalternità politica dei Paesi africani e la riscrittura di un nuovo ordine economico, commerciale e finanziario che può essere implementato solo da una nuova classe dirigente preparata, non corrotta e con un efficace progetto panafricano. In pratica l’effettiva indipendenza, 60 anni dopo quella formale.

    http://www.pisorno.it/africa-poverta-e-denutrizione-in-aumento-nonostante-la-crescita-economica-e-

    #Afrique #pauvreté #économie #croissance_économique #exportation #importation #industrie_agro-alimentaire #sous-alimentation #alimentation #mortalité_enfantile #pauvreté_absolue #Nigeria #RDC #République_démocratique_du_congo #statistiques #chiffres #Sud_Soudan #Soudan_du_Sud #land_grabbing #accaparement_des_terrres

  • AMLO à l’œuvre : des mégaprojets à la militarisation

    Caitlin Manning

    https://lavoiedujaguar.net/AMLO-a-l-oeuvre-des-megaprojets-a-la-militarisation

    Caché derrière son masque de progressiste, le président mexicain AMLO fait l’apologie d’un régime néolibéral et la promotion de mégaprojets fort controversés.

    Une bonne part de la gauche, tant au Mexique qu’à l’étranger, saluèrent l’arrivée du nouveau président mexicain dans l’espoir que son discours autour d’une « quatrième transformation » augurait d’une nouvelle ère de changement positif au Mexique. Andrés Manuel López Obrador (AMLO) avait même réussi à convaincre un certain nombre de groupes de résistance indigènes que son gouvernement serait favorable à leurs luttes contre les mégaprojets extractivistes néolibéraux qui ravagent leurs terres.

    Richard Gere, défenseur des droits des peuples indigènes, rencontra AMLO au Palais national et même Noam Chomsky se déclara favorable à AMLO après s’être entretenu avec lui lors de sa campagne l’année dernière. Le « Plan de développement national » dévoilé par Obrador en janvier se lit comme un rêve de gauche devenu réalité : il critique le néolibéralisme et le Consensus de Washington, favorise les énergies renouvelables et l’autonomie agricole et, bien sûr, défend les pauvres et les démunis. Le plan fut mis en avant comme un renouvellement moral et invoquait même une éthique prétendant « commander en obéissant » (mandar obedeciendo), une célèbre formule zapatiste qui résume leur engagement à pratiquer l’autogouvernement à partir de la base. Six mois plus tard, AMLO a démontré qu’il n’en est rien. (...)

    #Mexique #López_Obrador #Trump #peuples_originaires #mégaprojets #zapatistes #résistance #écologie #militarisation

  • #Libambos

    La cupidigia dell’essere umano non ha limiti, che sia un singolo o una nazione. In Africa la maggior risorsa è la terra agricola e per questa c’è una corsa all’accaparramento. A litigarsela sono programmi internazionali, aziende private, piccoli proprietari terrieri, e nel piccolo, famiglie. Quando le lotte sono aspre e ci scappa il morto, tutti si additano perorando la propria causa. Per una volta si scomoda persino l’Interpol per un omicidio locale.


    https://www.elmisworld.com/libro/libambos

    #roman de #Paolo_Groppo
    #livre #land_grabbing #accaparement_des_terres #Afrique #ProSavana #Pro-Savana

  • #Pro-savana

    Vision

    Improve the livelihood of inhabitants of #Nacala_Corridor through inclusive and sustainable agricultural and regional development.

    Missions

    1. Improve and modernise agriculture to increase productivity and production, and diversify agricultural production.

    2. Create employment through agricultural investment and establishment of a supply chain.

    Objective

    Create new agricultural development models, taking into account the natural environment and socio-economic aspects, and seeking market-orientated agricultural/rural/regional development with a competitive edge.

    Principles of ProSAVANA

    1. ProSAVANA will be aligned with the vision and objectives of the national agricultural development strategy of Mozambique, the “Strategy Plan for the Agricultural Sector Development – 2011 – 2020 (PEDSA)”,

    2. ProSAVANA supports Mozambican farmers in order to contribute to poverty-reduction, food security and nutrition,

    3. Activities of ProSAVANA, in particular those involving the private sector, will be designed and implemented in accordance with Principles of Responsible Agricultural Investment (PRAI) and Voluntary Guidelines on the Responsible Governance of Tenure of Land, Fisheries and Forests,

    4. Ministry of Agriculture and Food Security of Mozambique (MASA) and Local Government, in collaboration with Japan International Cooperation Agency (JICA) and the Brazilian Cooperation Agency (ABC), will strengthen dialogue and involvement of civil society and other appropriate parties,

    5. Appropriate consideration will be given for mitigation of the environmental and social impacts, which might be provided through the activities under ProSAVANA.

    Approaches of ProSAVANA

    1. Incorporate the results of relevant studies on the natural conditions and socio-economic situations, to support the establishment of appropriate agricultural development models,

    2. Increase agricultural productivity and production through appropriate measures, including improvement of farming systems, access to agricultural extension services including techniques and quality/quantity of inputs, value chain system and expansion of farmland,

    3. Promote diversification of agricultural production, based on research results to increase profitability,

    4. Provide opportunities to change from subsistence agriculture into a sustainable agriculture, with respect given to the farmers´ sovereignty,

    5. Strengthen the capacity and the competitiveness of farmers and farmers’ organisations,

    6. Enhance the enabling environment to promote responsible investments and activities, aiming to establish a win-win relationship between small-scale farmers and agribusiness firms,

    7. Promote and strengthen local leading farmers to disseminate and scale-up development impacts,

    8. Establish regional agricultural clusters and develop value chain systems,

    9. Promote public and private partnership as one of the driving forces for inclusive and sustainable agricultural development.

    http://www.prosavana.gov.mz
    #Pro_savana #land_grabbing #terres #Mozambique #accaparement_de_terres

    ping @odilon

    Apparemment, le programme a été arrêté avant d’être implémenté.
    Programme qui avait été promu par #Lula

    • What Happened to the Biggest Land Grab in Africa? Searching for #ProSavana in Mozambique

      What if you threw a lavish party for foreign investors, and no one came? By all accounts, that is what’s happening in Mozambique’s Nacala Corridor, the intended site for Africa’s largest agricultural development scheme – or land grab, depending on your perspective.

      The ProSavana project, a Brazilian-and-Japanese-led development project, was supposed to be turning Mozambique’s fertile savannah lands in the north into an export zone, replicating Brazil’s success taming its own savannah – the cerrado – and transforming it into industrial mega-farms of soybeans. The vision, hatched in 2009, but only revealed to Mozambicans in 2013, called for 35 million hectares (nearly 100 million acres) of “underutilized” land to be converted by Brazilian agribusiness into soybean plantations for cheaper export to China and Japan.

      In my two weeks in Mozambique, including one week in the Nacala Corridor, I had a hard time finding evidence of any such transformation. It was easy, though, to find outrage at a plan seen by many in the region as a secret land grab. That resistance, which has evolved into a tri-national campaign in Japan, Brazil, and Mozambique to stop ProSavana, is one of the reasons the project is a currently a dud.

      The new face of South-South investment?

      I came to look at ProSavana because, out of all the large-scale projects I studied over the course of the last year, this one sounded almost plausible. It wasn’t started by some fly-by-night venture capitalist, growing a biofuel crop he’d never produced commercially for a market that barely existed. That’s what I saw in Tanzania, and such failed land grabs litter the African landscape.

      ProSavana at least knew its investors: Brazil’s agribusiness giants. The planners also knew their technology: Brazil’s soybeans, which had adapted to the harsh tropical conditions of Brazil’s cerrado. And they knew their market: Japan’s and China’s hog farms and their insatiable appetite for feed, generally made with soybeans. That was already more than a lot of these grand schemes had going for them.

      I was also compelled by the sheer scale of the project. When first announced, ProSavana was to encompass 35 million hectares of land, an area the size of North Carolina. That would have made it the largest land acquisition in Africa.

      ProSavana also interested me because it was not the usual neo-colonial megaproject promoted by the Global North. It was a projection of Brazil’s agro-export prowess. This was South-South investment, the new wave of development in a multipolar world. Wouldn’t Brazil do this differently, I wondered, with the kind of strong developmental focus that had characterized the country’s ascendance under the leadership of the left-leaning Workers’ Party?

      ProSavana’s premise was that the soil and climate in the Nacala Corridor of Mozambique were similar to those found in the cerrado, so technology could be easily adapted to tame a region inhospitable to agriculture.

      Someone should have gone there before they issued the press releases.

      It turns out that the two regions differ dramatically. The cerrado had poor soils, which technology was able to address. That’s also why it had few farmers, and those that were there could be moved by Brazil’s then-military dictatorship. The Nacala Corridor, by contrast, has good soils, which is precisely why it is the most densely-populated part of rural Mozambique. (If there are good lands, you can bet civilization has discovered them and is farming them.)

      Mozambique also has a democratic government, forged in an independence movement rooted in peasant farmers’ struggle for land rights. So the country has one of the stronger land laws in Africa, which grants use rights to farmers who have been farming land for ten years or more.

      The disconnect between the claims ProSavana was making to its investors and the reality of the situation reached almost laughable proportions. Agriculture Minister Jose Pacheco led sales visits to Mozambique, organized by Brazil’s Getulio Vargas Foundation, which had put together the agribusiness-friendly draft “Master Plan” that was leaked to Mozambican civil society organizations in March 2013. Brazil’s biggest farmers came looking for thousands of hectares of land, only to find three disappointments: they couldn’t own land in Mozambique; what land they could lease was by no means empty; and it was far from the ports, with no decent roads to transport their soybeans. Brazil’s soybean mega-farmers packed up their giant combines and went back to the cerrado, where there are still millions of hectares of undeveloped land.

      A kinder, gentler ProSavana

      There are a few large soybean farms in Gurue, producing for the domestic poultry industry; but nothing like the export boom promised by ProSavana. According to Americo Uaciquete of ProSavana’s Nampula office, Brazilian farmers came expecting 40,000 hectares free and clear. He told me no investor could expect that in the Nacala Corridor. The only foreign investors who will farm there, he said, are those willing to take 2,000 hectares and involve local farmers.

      To me, that sounded like a very quick surrender on the ProSavana battlefield. Couldn’t the Mozambican government open larger swaths of land?

      “Not without a gun,” Uaciquete said, clearly rejecting that path. “We are not going to impose the Brazilian model here.” He went on to describe ProSavana as a support program for small-scale farmers, based on its two non-investment components: research into improved locally adapted seeds, and extension services to improve productivity.

      In Maputo, the ProSavana Directorate did its best to polish up the new, development-friendly ProSavana. Jusimere Mourao, of Japan’s cooperation agency, had it down best. She lamented that ProSavana was “poorly timed” because its “announcement” (a leak) “coincided” with international concerns about land grabbing. Hmmm….

      After taking civil society concerns into account, she said, the program had issued a new “concept note” and the Master Plan is under revision. “Small and medium producers are the main beneficiaries of ProSavana,” she said. “We have no intention of promoting the taking of their land. It would be a crime.” It’s not about promoting foreign investment, she assured me; that is up to the Mozambican government.

      The turnaround was stunning, and welcome, if not quite believable. It certainly had not quieted the coalition calling for an end to ProSavana until farmers and civil society groups are consulted on the agricultural development plan for the Nacala Corridor.

      Luis Sitoe, Economic Adviser to the Minister of Agriculture, smirked when I told him I’d been in the region researching ProSavana. “Did you find anything?” For him, ProSavana had failed.

      But lest I think anything profound had been learned from that experience, he reassured me that the Mozambican government remains firmly committed to relying on large-scale foreign investment to address its agricultural underdevelopment.

      He pulled out a two-inch-thick binder to show me he was serious. It was the project proposal for the Lurio River Valley Development Project, a 200,000-hectare irrigation scheme right there in the northern Nacala Corridor. Was it part of ProSavana? Absolutely not. Had the communities been consulted on this ambitious project along the heavily populated river valley?

      “Absolutely not,” said Vicente Adriano, research director at UNAC, Mozambique’s national farmers’ union, which had just presented its own agricultural development plan, based on the country’s three million family farmers.

      The ProSavana directorate is still promising a new Master Plan for the project in early 2015. So it would be a mistake to think that ProSavana is dead. Large-scale land deals certainly aren’t, however they are branded. Investors may just be waiting for the Mozambican government to bring more to the table than just promotional brochures. Things like land, which turns out to be rather important for a successful land grab. In the Nacala Corridor, that land is anything but unoccupied.

      https://foodtank.com/news/2014/12/what-happened-to-the-biggest-land-grab-in-africa-searching-for-prosavana-i

  • Uzbekistan offers 20,000 hectare land to farmers, firms

    Farmers, agro processing biz units and others will soon come together in a conglomerate of sorts as part of an MoU signed between #Gujarat_Agro_Industries_Corporation (#GAIC) and the Republic of Uzbekistan. As part of the #MoU, the Uzbek government has also offered around 20,000 ha of land for farming, as well as for agro industries in the Central Asian Country.

    The MoU calls for formation of various agencies under GAIC to provide training for capacity building and facilitate technology transfer between both the countries, said a government official.

    “We are looking at farm to fork solutions and the Uzbek government has offered 20,000 ha of land. This means even farmers from Gujarat will be able to make use of the opportunity,” said Sanjay Prasad additional chief secretary, department of Agriculture at the inaugural session on sustainable technology driven agriculture for new India at the Vibrant Gujarat Summit 2019 on Sunday.

    KS Randhawa, Managing Director, GAIC said that it will provide the opportunity for formation of agro processing clusters. “Several players can come together to make use of the opportunity provided by the MoU. The Uzbek government was very keen on the project and we plan to create a conglomerate of sorts that will deal with various aspects of agro processing under the leadership of GAIC,” said Randhawa. He said they are looking at farm to fork solutions. “So what we are saying is that we can look at the opportunity to not only produce something but also get into value addition and provide the final product too,” said Randhawa. He said as part of the MoU the Uzbek government has not only offered land but also the technology. "This transfer of technology will also also enable our farmers and businessmen to use it in Gujarat. This is a win-win-deal,"s aid Randhawa.

    It should be noted that in all 28360 MoUs were signed during the three days of the Vibrant Gujarat Summit 2019 of which 408 were in the agro food processing sector.


    https://www.farmlandgrab.org/28689
    #Ouzbékistan #terres #agriculture #land_grabbing #accaparement_des_terres
    ping @odilon

  • The Highest Bidder Takes It All: The World Bank’s Scheme to Privatize the Commons

    The Highest Bidder Takes It All: The World Bank’s Scheme to Privatize the Commons details how the Bank’s prescribes reforms, via a new land indicator in the #Enabling_the_Business_of_Agriculture (#EBA) project, promotes large-scale land acquisitions and the expansion of agribusinesses in the developing world. This new indicator is now a key element of the larger EBA project, which dictates pro-business reforms that governments should conduct in the agricultural sector. Initiated as a pilot in 38 countries in 2017, the land indicator is expected to be expanded to 80 countries in 2019. The project is funded by the US and UK governments and the Bill and Melinda Gates Foundation.

    The EBA’s main recommendations to governments include formalizing private property rights, easing the sale and lease of land for commercial use, systematizing the sale of public land by auction to the highest bidder, and improving procedures for #expropriation. Countries are scored on how well they implement the Bank’s policy advice. The scores then help determine the volume of aid money and foreign investment they receive.

    Amidst myriad flaws detailed in the report is the Bank’s prescription to developing countries’ governments, particularly in Africa, to transfer public lands with “potential economic value” to private, commercial use, so that the land can be put to its supposed “best use.” Claiming that low-income countries do not manage public land in an effective manner, the Bank pushes for the privatization of public land as the way forward. This ignores the fact that millions of rural poor live and work on these lands, which are essential for their livelihoods while representing ancestral assets with deep social and cultural significance.

    The Highest Bidder Takes It All is released as part of the Our Land Our Business campaign, made up of 280 organizations worldwide, demanding an end to the Enabling Business of Agriculture program.


    https://www.oaklandinstitute.org/highest-bidder-takes-all-world-banks-scheme-privatize-commons
    #Banque_mondiale #privatisation #terres #commons #communs #rapport #agriculture #industrie_agro-alimentaire #agro-business #land_grabbing #accaparement_des_terres #réformes #aide_au_développement #développement #commodification #économie #marchandisation #valeur_économique #néo-libéralisme

    signalé par @fil
    cc @odilon

  • Budget de l’Union : La Commission propose une importante augmentation des financements visant à renforcer la gestion des migrations et des frontières

    Pour le prochain #budget à long terme de l’UE se rapportant à la période 2021-2027, la Commission propose de quasiment tripler les financements destinés à la gestion des #migrations et des #frontières, qui atteindraient 34,9 milliards d’euros contre 13 milliards d’euros au cours de la période précédente.

    La proposition de la Commission est une réponse aux défis accrus qui se posent en matière de migration et de #sécurité, avec des instruments de financement plus flexibles pour faire face aux événements imprévus, la #protection_des_frontières étant au cœur du nouveau budget. Un nouveau fonds séparé pour la gestion intégrée des frontières sera créé et l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes sera renforcée par un nouveau corps permanent de quelque 10 000 #gardes-frontières. Ce nouveau fonds aidera aussi les États membres à effectuer les contrôles douaniers en finançant des équipements de contrôle douanier.

    M. Frans Timmermans, premier vice-président, a fait la déclaration suivante : « Sur la base de l’expérience passée et sachant que la migration restera un défi à l’avenir, nous proposons une augmentation des financements sans précédent. Le renforcement de nos frontières communes, notamment avec l’#Agence_européenne_de_garde-frontières_et_de_garde-côtes, continuera de figurer parmi les grandes #priorités. Une #flexibilité accrue de nos instruments de financement signifie que nous sommes prêts à fournir un soutien rapide aux États membres ; au moment et à l’endroit où ils en ont besoin - en particulier en cas de #crise. »

    M. Dimitris Avramopoulos, commissaire pour la migration, les affaires intérieures et la citoyenneté, a déclaré quant à lui : « Une meilleure gestion de nos frontières extérieures et des flux migratoires restera une priorité clé pour l’Union européenne, les États membres et nos citoyens dans les années à venir. Des défis plus grands exigent de faire appel à des ressources plus importantes - c’est pourquoi nous proposons de quasiment tripler le budget dans ce domaine. Le renforcement des financements jouera un rôle essentiel en nous permettant de mettre en œuvre nos priorités politiques : davantage sécuriser nos #frontières_extérieures, continuer à accorder une protection à ceux qui en ont besoin, mieux soutenir la #migration_légale et les efforts d’#intégration, lutter contre la migration irrégulière, et assurer le retour effectif et rapide de ceux qui ne bénéficient pas du droit de séjour. »

    M. Pierre Moscovici, commissaire pour les affaires économiques et financières, la fiscalité et les douanes, s’est exprimé en ces termes : « Les 115 000 fonctionnaires des douanes de l’UE sont en première ligne pour protéger les citoyens européens contre les produits contrefaits ou dangereux et les autres formes de commerce illicite. Afin de les soutenir dans cette mission capitale, nous proposons aujourd’hui un nouveau fonds doté de 1,3 milliard d’euros, afin que les pays de l’UE puissent acquérir les équipements douaniers les plus avancés. L’#union_douanière de l’UE fêtera son 50e anniversaire le mois prochain : nous devons veiller à ce qu’elle continue à prendre de l’ampleur. »

    Durant la crise des réfugiés de 2015 et de 2016, l’appui financier et technique que l’Union européenne a fourni aux États membres a été déterminant dans le soutien apporté à ceux d’entre eux qui se trouvaient sous pression, dans le développement des capacités de recherche et de sauvetage, dans l’intensification des retours et dans l’amélioration de la gestion des frontières extérieures. Tirant les enseignements du passé, la Commission propose de quasiment tripler les financements destinés aux domaines essentiels que représentent la gestion des migrations et celle des frontières.

    1. #Sécurisation des frontières extérieures de l’UE

    La protection effective des frontières extérieures de l’UE est essentielle pour gérer les flux migratoires et garantir la sécurité intérieure. Des frontières extérieures solides sont aussi ce qui permet à l’UE de maintenir un espace Schengen sans contrôles aux frontières intérieures. La Commission propose d’allouer 21,3 milliards d’euros à la gestion globale des frontières et de créer un nouveau #Fonds_pour_la_gestion_intégrée_des_frontières (#FGIF) doté d’une enveloppe supérieure à 9,3 milliards d’euros.

    Les principaux éléments du nouveau Fonds sont les suivants :

    – Une palette adéquate de priorités :

    Renforcement des frontières extérieures de l’Europe : Le nouveau #Fonds s’inscrira dans le prolongement du travail réalisé ces dernières années et s’appuiera sur lui pour mieux protéger les frontières de l’UE, avec la mise en place du corps européen de garde-frontières et de garde-côtes, des vérifications systématiques aux frontières, de nouveaux systèmes informatiques à grande échelle et interopérables, y compris le futur système d’entrée/sortie. Le financement sera mis à disposition dans des domaines tels que la lutte contre le #trafic_de_migrants et la #traite des êtres humains, les opérations visant à intercepter et stopper les personnes représentant une #menace, l’appui aux opérations de recherche et de sauvetage en mer, les équipements et la formation des gardes-frontières, ainsi que l’appui opérationnel rapide aux États membres sous pression.
    Une politique des #visas plus solide et plus efficace : Le Fonds garantira également l’évolution continue et la modernisation de la politique des visas de l’UE, tout en renforçant la sécurité et en atténuant les risques liés à la migration irrégulière.

    – Soutien aux États membres : Le nouveau Fonds consacrera un financement à long terme de 4,8 milliards d’euros aux mesures prises par les États membres en matière de gestion des frontières et à la politique des visas. Le financement correspondra exactement aux besoins des États membres et un examen à mi-parcours tiendra compte de pressions nouvelles ou supplémentaires. Chaque État membre recevra un montant forfaitaire de 5 millions d’euros, le reste étant distribué selon la charge de travail, la pression et le niveau de menace aux frontières extérieures terrestres (30 %), aux frontières extérieures maritimes (35 %), dans les aéroports (20 %) et dans les bureaux consulaires (15 %).

    – Une réponse souple et rapide : Un montant de 3,2 milliards d’euros sera consacré à des actions d’appui ciblé aux États membres, aux projets de dimension européenne, et permettra de faire face aux besoins urgents. Le nouveau Fonds a été conçu pour garantir une souplesse suffisante permettant de fournir aux États membres une aide d’urgence en cas de besoin et de faire face aux priorités nouvelles et critiques à mesure qu’elles surviennent.

    – Des équipements de contrôle douanier plus performants aux frontières extérieures : Le nouvel instrument comportera une enveloppe de 1,3 milliard d’euros pour aider les États membres à acquérir, entretenir et remplacer des équipements douaniers modernes, tels que de nouveaux #scanners, des systèmes de reconnaissance automatique des plaques minéralogiques, des équipes de #chiens_renifleurs et des #laboratoires_mobiles d’analyse d’échantillons.

    – Renforcement des organismes chargés de la gestion des frontières : En plus de ce Fonds, une enveloppe supérieure à 12 milliards d’euros devant être présentée séparément sera consacrée à la poursuite du renforcement de l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes et de l’agence #eu-LISA.

    2. Migrations : soutenir une politique solide, réaliste et équitable

    La Commission propose de renforcer le financement destiné à la gestion des migrations à raison de 51 % et de le porter ainsi à 10,4 milliards d’euros au titre du Fonds « Asile et migration » renouvelé (#FAM). Le Fonds soutiendra les efforts déployés par les États membres dans trois domaines clés : l’asile, la migration légale et l’intégration, la lutte contre la migration irrégulière et le retour. Les principaux éléments du nouveau Fonds sont les suivants :

    – Une palette adéquate de priorités : Le nouveau Fonds continuera de fournir un appui vital aux systèmes d’asile nationaux et mettra un accent renouvelé sur la mise à disposition des aides de l’UE en faveur des questions les plus urgentes, telles que :

    Un #régime_d'asile_européen plus solide et plus efficace : Le Fonds contribuera à renforcer et à développer tous les aspects du #régime_d'asile_européen_commun, y compris sa dimension extérieure :
    Un soutien accru à la migration légale et à l’intégration : Le Fonds consacrera des ressources additionnelles au soutien de l’intégration précoce des ressortissants de pays tiers séjournant légalement dans l’UE sur le court terme, lesquelles seront complétées par un financement au titre du #Fonds_de_cohésion_pour_l'intégration_socio-économique à plus long terme.
    Des retours plus rapides et plus fréquents : Le Fonds soutiendra une approche plus coordonnée pour lutter contre la migration irrégulière, améliorer l’efficacité des retours et intensifier davantage la coopération avec les pays tiers en matière de réadmission.

    – Soutien aux États membres : Le Fonds consacrera un financement à long terme de 6,3 milliards d’euros à des actions de soutien aux États membres dans la gestion de la migration, en concordance avec leurs besoins. Un examen à mi-parcours tiendra compte de pressions nouvelles ou supplémentaires. Chaque État membre recevra un montant forfaitaire de 5 millions d’euros, le reste étant distribué sur la base d’une évaluation des pressions s’exerçant sur lui et en tenant compte des proportions prévues en matière d’asile (30 %), de migration légale et d’intégration (30 %) et de retour (40 %).

    – Une meilleure préparation : Une enveloppe de 4,2 milliards d’euros sera réservée aux projets présentant une véritable valeur ajoutée européenne, telle que la #réinstallation, ou pour répondre à des besoins impérieux et pour faire parvenir des financements d’urgence aux États membres au moment et à l’endroit où ils en ont besoin.

    Une plus grande coordination entre les instruments de financement de l’UE : Le Fonds « Asile et migration » sera complété par les fonds additionnels affectés au titre des instruments de politique extérieure de l’UE pour accélérer la coopération en matière de migration avec les pays partenaires, notamment dans le cadre des efforts visant à lutter contre la migration irrégulière, à améliorer les perspectives dans les pays d’origine, à renforcer la coopération en matière de retour, de réadmission, et de migration légale ;

    – Renforcement des organismes de l’UE : En plus de ce fonds, une enveloppe de près de 900 millions d’euros devant être présentée séparément sera consacrée au renforcement de la nouvelle #Agence_de_l'Union_européenne_pour_l'asile.

    Prochaines étapes

    Il est essentiel de parvenir à un accord rapide sur le budget global à long terme de l’UE et sur ses propositions sectorielles de manière à garantir que les fonds de l’UE commencent à produire leurs effets le plus tôt possible sur le terrain.

    Des retards pourraient compromettre la capacité de l’Union européenne à réagir aux crises si elles venaient à éclater, et pourraient priver les projets de ressources essentielles - telles que les programmes européens d’aide au retour volontaire et de réadmission, et la poursuite du financement de l’UE en faveur de la réinstallation.

    Un accord sur le prochain budget à long terme en 2019 permettrait d’assurer une transition sans heurts entre l’actuel budget à long terme (2014-2020) et le nouveau, ce qui garantirait la prévisibilité et la continuité du financement, pour le bénéfice de tous.

    Historique du dossier

    Depuis le début du mandat de la Commission Juncker, la gestion des frontières et celle des migrations constituent une priorité politique - depuis les orientations politiques présentées en juillet 2014 par le président Juncker jusqu’à son dernier discours sur l’état de l’Union prononcé le 13 septembre 2017.

    Cependant, l’Europe a été surprise par l’ampleur et l’urgence de la crise des réfugiés de 2015-2016. Pour éviter une crise humanitaire et permettre une réponse commune à ce défi sans précédent, ainsi qu’aux nouvelles menaces pesant sur la sécurité, l’UE a fait usage de toute la souplesse possible dans le budget existant afin de mobiliser des fonds supplémentaires. En plus des dotations initiales pour la période 2014-2020 s’élevant à 6,9 milliards d’euros pour l’#AMIF et le #FSI (frontières et police), un montant supplémentaire de 3,9 milliards d’euros a été mobilisé pour atteindre 10,8 milliards d’euros en faveur de la migration, de la gestion des frontières et de la sécurité intérieure - et cela ne comprend même pas le financement important mobilisé pour faire face à la crise des réfugiés à l’extérieur de l’UE.

    Tirant les enseignements du passé, la Commission propose à présent de doubler le financement dans tous les domaines, avec 10,4 milliards d’euros pour la migration, 9,3 milliards d’euros pour la gestion des frontières, 2,5 milliards d’euros pour la sécurité intérieure et 1,2 milliard d’euros pour le déclassement sécurisé des installations nucléaires dans certains États membres - soit plus de 23 milliards d’euros au total.

    En outre, le soutien aux organismes de l’UE dans le domaine de la sécurité, de la gestion des frontières et des migrations sera revu à la hausse, passant de 4,2 milliards à 14 milliards d’euros.

    http://europa.eu/rapid/press-release_IP-18-4106_fr.htm
    #EU #UE #migrations #asile #réfugiés #renvois #expulsions #interopérabilité #Fonds_Asile_et_migration #machine_à_expulser #accords_de_réadmission #coopération_internationale #aide_au_développement

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    Comme dit Sara Prestianni, voici la réponse à la tragédie de l’Aquarius...
    –-> « la #protection_des_frontières étant au cœur du nouveau budget »
     :-(

    Création d’ « un nouveau fonds séparé pour la gestion intégrée des frontières sera créé et l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes sera renforcée par un nouveau corps permanent de quelque 10 000 #gardes-frontières. Ce nouveau fonds aidera aussi les États membres à effectuer les contrôles douaniers en finançant des équipements de contrôle douanier »
    #Frontex n’est plus suffisant... un nouveau fonds est nécessaire... yuppi !
    #contrôles_frontaliers #complexe_militaro-industriel

    • Voici une contre-proposition, de #Gabriele_Del_Grande:

      Lettera al Ministro dell’Interno Matteo Salvini

      Confesso che su una cosa sono d’accordo con Salvini: la rotta libica va chiusa. Basta tragedie in mare, basta dare soldi alle mafie libiche del contrabbando. Sogno anch’io un Mediterraneo a sbarchi zero. Il problema però è capire come ci si arriva. E su questo, avendo alle spalle dieci anni di inchieste sul tema, mi permetto di dare un consiglio al ministro perché mi pare che stia ripetendo gli stessi errori dei suoi predecessori.

      Blocco navale, respingimenti in mare, centri di detenzione in Libia. La ricetta è la stessa da almeno quindici anni. Pisanu, Amato, Maroni, Cancellieri, Alfano, Minniti. Ci hanno provato tutti. E ogni volta è stato un fallimento: miliardi di euro persi e migliaia di morti in mare.

      Questa volta non sarà diverso. Per il semplice fatto che alla base di tutto ci sono due leggi di mercato che invece continuano ad essere ignorate. La prima è che la domanda genera l’offerta. La seconda è che il proibizionismo sostiene le mafie.

      In altre parole, finché qualcuno sarà disposto a pagare per viaggiare dall’Africa all’Europa, qualcuno gli offrirà la possibilità di farlo. E se non saranno le compagnie aeree a farlo, lo farà il contrabbando.

      Viviamo in un mondo globalizzato, dove i lavoratori si spostano da un paese all’altro in cerca di un salario migliore. L’Europa, che da decenni importa manodopera a basso costo in grande quantità, in questi anni ha firmato accordi di libera circolazione con decine di paesi extraeuropei. Che poi sono i paesi da dove provengono la maggior parte dei nostri lavoratori emigrati: Romania, Albania, Ucraina, Polonia, i Balcani, tutto il Sud America. La stessa Europa però, continua a proibire ai lavoratori africani la possibilità di emigrare legalmente sul suo territorio. In altre parole, le ambasciate europee in Africa hanno smesso di rilasciare visti o hanno reso quasi impossibile ottenerne uno.

      Siamo arrivati al punto che l’ultima e unica via praticabile per l’emigrazione dall’Africa all’Europa è quella del contrabbando libico. Le mafie libiche hanno ormai il monopolio della mobilità sud-nord del Mediterraneo centrale. Riescono a spostare fino a centomila passeggeri ogni anno con un fatturato di centinaia di milioni di dollari ma anche con migliaia di morti.

      Eppure non è sempre stato così. Davvero ci siamo dimenticati che gli sbarchi non esistevano prima degli anni Novanta? Vi siete mai chiesti perché? E vi siete mai chiesti perché nel 2018 anziché comprarsi un biglietto aereo una famiglia debba pagare il prezzo della propria morte su una barca sfasciata in mezzo al mare? Il motivo è molto semplice: fino agli anni Novanta era relativamente semplice ottenere un visto nelle ambasciate europee in Africa. In seguito, man mano che l’Europa ha smesso di rilasciare visti, le mafie del contrabbando hanno preso il sopravvento.

      Allora, se davvero Salvini vuole porre fine, come dice, al business delle mafie libiche del contrabbando, riformi i regolamenti dei visti anziché percorrere la strada del suo predecessore. Non invii i nostri servizi segreti in Libia con le valigette di contante per pagare le mafie del contrabbando affinché cambino mestiere e ci facciano da cane da guardia. Non costruisca altre prigioni oltremare con i soldi dei contribuenti italiani. Perché sono i nostri soldi e non vogliamo darli né alle mafie né alle polizie di paesi come la Libia o la Turchia.

      Noi quelle tasse le abbiamo pagate per veder finanziato il welfare! Per aprire gli asili nido che non ci sono. Per costruire le case popolari che non ci sono. Per finanziare la scuola e la sanità che stanno smantellando. Per creare lavoro. E allora sì smetteremo di farci la guerra fra poveri. E allora sì avremo un obiettivo comune per il quale lottare. Perché anche quella è una balla. Che non ci sono soldi per i servizi. I soldi ci sono, ma come vengono spesi? Quanti miliardi abbiamo pagato sottobanco alle milizie libiche colluse con le mafie del contrabbando negli anni passati? Quanti asili nido ci potevamo aprire con quegli stessi denari?

      Salvini non perda tempo. Faccia sbarcare i seicento naufraghi della Acquarius e anziché prendersela con le ONG, chiami la Farnesina e riscrivano insieme i regolamenti per il rilascio dei visti nei paesi africani. Introduca il visto per ricerca di lavoro, il meccanismo dello sponsor, il ricongiungimento familiare. E con l’occasione vada a negoziare in Europa affinché siano visti validi per circolare in tutta la zona UE e cercarsi un lavoro in tutta la UE anziché pesare su un sistema d’accoglienza che fa acqua da tutte le parti.

      Perché io continuo a non capire come mai un ventenne di Lagos o Bamako, debba spendere cinquemila euro per passare il deserto e il mare, essere arrestato in Libia, torturato, venduto, vedere morire i compagni di viaggio e arrivare in Italia magari dopo un anno, traumatizzato e senza più un soldo, quando con un visto sul passaporto avrebbe potuto comprarsi un biglietto aereo da cinquecento euro e spendere il resto dei propri soldi per affittarsi una stanza e cercarsi un lavoro. Esattamente come hanno fatto cinque milioni di lavoratori immigrati in Italia, che guardate bene non sono passati per gli sbarchi e tantomeno per l’accoglienza. Sono arrivati dalla Romania, dall’Albania, dalla Cina, dal Marocco e si sono rimboccati le maniche. Esattamente come hanno fatto cinque milioni di italiani, me compreso, emigrati all’estero in questi decenni. Esattamente come vorrebbero fare i centomila parcheggiati nel limbo dell’accoglienza.

      Centomila persone costrette ad anni di attesa per avere un permesso di soggiorno che già sappiamo non arriverà in almeno un caso su due. Perché almeno in un caso su due abbiamo davanti dei lavoratori e non dei profughi di guerra. Per loro non è previsto l’asilo politico. Ma non è previsto nemmeno il rimpatrio, perché sono troppo numerosi e perché non c’è la collaborazione dei loro paesi di origine. Significa che di qui a un anno almeno cinquantamila persone andranno ad allungare le file dei senza documenti e del mercato nero del lavoro.

      Salvini dia a tutti loro un permesso di soggiorno per motivi umanitari e un titolo di viaggio con cui possano uscire dal limbo dell’accoglienza e andare a firmare un contratto di lavoro, che sia in Italia o in Germania. E dare così un senso ai progetti che hanno seguito finora. Perché l’integrazione la fa il lavoro. E se il lavoro è in Germania, in Danimarca o in Norvegia, non ha senso costringere le persone dentro una mappa per motivi burocratici. Altro che riforma Dublino, noi dobbiamo chiedere la libera circolazione dentro l’Europa dei lavoratori immigrati. Perché non possiamo permetterci di avere cittadini di serie a e di serie b. E guardate che lo dobbiamo soprattutto a noi stessi.

      Perché chiunque di noi abbia dei bambini, sa che cresceranno in una società cosmopolita. Già adesso i loro migliori amici all’asilo sono arabi, cinesi, africani. Sdoganare un discorso razzista è una bomba a orologeria per la società del domani. Perché forse non ce ne siamo accorti, ma siamo già un noi. Il noi e loro è un discorso antiquato. Un discorso che forse suona ancora logico alle orecchie di qualche vecchio nazionalista. Ma che i miei figli non capirebbero mai. Perché io non riuscirei mai a spiegare ai miei bambini che ci sono dei bimbi come loro ripescati in mare dalla nave di una ONG e da due giorni sono bloccati al largo perché nessuno li vuole sbarcare a terra.

      Chissà, forse dovremmo ripartire da lì. Da quel noi e da quelle battaglie comuni. Dopotutto, siamo o non siamo una generazione a cui il mercato ha rubato il futuro e la dignità? Siamo o non siamo una generazione che ha ripreso a emigrare? E allora basta con le guerre tra poveri. Basta con le politiche forti coi deboli e deboli coi forti.

      Legalizzate l’emigrazione Africa –Europa, rilasciate visti validi per la ricerca di lavoro in tutta l’Europa, togliete alle mafie libiche il monopolio della mobilità sud-nord e facciamo tornare il Mediterraneo ad essere un mare di pace anziché una fossa comune. O forse trentamila morti non sono abbastanza?

      https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2105161009497488&id=100000108285082

    • Questions et réponses : les futurs financements de l’UE en faveur de la gestion des frontières et des migrations

      Quel sera le montant des financements disponibles pour la gestion des frontières et des migrations ?

      34,9 milliards d’euros.

      Tirant les enseignements du passé, et sachant que la question des migrations et de la gestion des frontières demeurera un défi à l’avenir, la Commission propose d’augmenter fortement les financements en la matière au titre du prochain budget de l’UE pour la période 2021-2027.

      Un montant de financements sans précédent sera alloué par l’intermédiaire de deux Fonds principaux :

      le nouveau Fonds « Asile et migration » (qui continuera de s’appeler FAMI sous sa dénomination abrégée) sera modifié et renforcé ;
      l’instrument relatif à la gestion des frontières et aux visas du Fonds pour la sécurité intérieure sera intégré à un nouveau Fonds, le Fonds pour la gestion intégrée des frontières (FGIF), qui comprendra aussi un autre instrument, également nouveau, l’instrument relatif aux équipements de contrôle douanier.

      Au total, ce sont 34,9 milliards d’euros qui seront mis à disposition sur la prochaine période de 7 ans, contre 13 milliards d’euros environ pour la période budgétaire en cours :

      il est proposé d’augmenter de 51 % le budget alloué à la politique migratoire, qui passerait ainsi de 6,9 milliards d’euros actuellement à 10,4 milliards d’euros ;
      dans le cadre du nouveau Fonds pour la gestion intégrée des frontières (FGIF), il est proposé de multiplier par quatre les financements alloués à la gestion des frontières, qui passeraient de 2,7 milliards d’euros actuellement (pour la période 2014-2020) à un montant qui pourrait atteindre 9,3 milliards d’euros (+ 241%).

      En outre, la Commission a proposé d’octroyer plus de 12 milliards d’euros à l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes et à l’agence eu-LISA et près de 900 millions d’euros à l’Agence de l’Union européenne pour l’asile (actuellement le Bureau européen d’appui en matière d’asile, EASO). Cette proposition sera présentée ultérieurement.

      1. Fonds pour la gestion intégrée des frontières (FGIF)

      Pourquoi créer un nouveau Fonds distinct pour la gestion des frontières ?

      Dans le cadre de l’actuel budget de l’UE, la gestion des frontières relève du Fonds pour la sécurité intérieure (FSI), qui est scindé en FSI-Frontières et FSI-Police.

      Si un Fonds dédié à la gestion des frontières est créé en vertu du prochain cadre financier pluriannuel, c’est parce qu’aussi bien la gestion des frontières que la sécurité intérieure sont devenues des priorités de plus en plus pressantes, qui méritent chacune que des instruments financiers dédiés et plus ciblés leur soient consacrés.

      Pour pouvoir gérer les flux migratoires et garantir la sécurité intérieure, il est crucial de protéger efficacement les frontières extérieures de l’UE. Des frontières extérieures fortes sont aussi ce qui permet à l’UE de conserver un espace Schengen sans contrôles aux frontières intérieures.

      Le nouveau Fonds pour la gestion intégrée des frontières comprend l’instrument relatif à la gestion des frontières et aux visas et inclura également un nouvel instrument : l’instrument relatif aux équipements de contrôle douanier, en reconnaissance du rôle joué par les autorités douanières dans la défense de toutes les frontières de l’UE (frontières maritimes, aériennes et terrestres et transits postaux), ainsi que dans la facilitation des échanges et la protection des personnes contre les marchandises dangereuses et les contrefaçons.

      Quelles sont les priorités du nouveau Fonds pour la gestion intégrée des frontières ?

      Au cours des dernières années, un certain nombre de mesures ont été prises afin de répondre aux priorités du moment, mais aussi de poser tous les fondements importants nécessaires pour garantir la solidité des frontières.

      Le nouveau Fonds confortera ces efforts et apportera un soutien renforcé à la sécurisation de nos frontières extérieures, en s’attachant prioritairement :

      à soutenir davantage les États membres dans leurs efforts de sécurisation des frontières extérieures de l’UE ;
      à favoriser une plus grande uniformité des contrôles douaniers ;
      à garantir que les systèmes informatiques à grande échelle utilisés pour gérer les frontières sont solides et fonctionnent sans problème les uns avec les autres, ainsi qu’avec les systèmes nationaux ;
      à garantir l’adaptabilité de la politique commune des visas de l’UE à l’évolution des problèmes de sécurité et des défis liés à la migration, ainsi qu’aux nouvelles possibilités offertes par le progrès technologique.

      Comment les financements seront-ils répartis ?

      La dotation totale de 9,3 milliards d’euros au Fonds pour la gestion intégrée des frontières se répartit comme suit :

      4,8 milliards d’euros iront à des financements à long terme destinés à soutenir les mesures de gestion des frontières et la politique des visas des États membres, dont un financement initial aux États membres de 4 milliards d’euros (soit 50 %) et un ajustement de 0,8 milliard d’euros (soit 10 %) à mi-parcours pour tenir compte des pressions nouvelles ou supplémentaires ;
      3,2 milliards d’euros (soit 40 %), distribués sur l’ensemble de la période de financement, iront à un « mécanisme thématique », destiné à apporter un soutien ciblé aux États membres, à financer des projets à valeur ajoutée européenne et à répondre en outre aux urgences ;
      1,3 milliard d’euros ira à l’instrument relatif aux équipements de contrôle douanier.

      Les financements alloués aux États membres reflèteront précisément les besoins de chacun. Au début de la période de programmation, chaque État membre recevra une somme forfaitaire de 5 millions d’euros, tandis que le solde sera distribué en fonction de la charge de travail, de la pression et du niveau de menace aux frontières extérieures terrestres (30 %) et maritimes (35 %), dans les aéroports (20 %) et dans les bureaux consulaires (15 %).

      En outre, sur les 4,8 milliards d’euros alloués aux États membres, 157,2 millions d’euros seront réservés au régime de transit spécial appliqué par la Lituanie.

      Comment les dotations nationales au titre de l’instrument relatif à la gestion des frontières et aux visas seront-elles calculées ? Pourquoi n’est-il pas possible de fournir dès à présent la ventilation par État membre ?

      Chaque État membre recevra une somme forfaitaire de 5 millions d’euros au début de la période de financement. Au-delà, leurs dotations respectives seront calculées sur la base d’une évaluation des besoins les plus pressants. Cette évaluation sera de nouveau réalisée à mi-parcours.

      Pour chaque État membre, cette évaluation tiendra compte :

      de la longueur de tout tronçon des frontières extérieures terrestres et maritimes que gère cet État membre et de la charge de travail liée (sur la base du nombre de franchissements et du nombre de refus d’entrée), ainsi que du niveau de menace (sur la base d’une évaluation de la vulnérabilité réalisée par l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes) ;
      de la charge de travail (sur la base du nombre de franchissements et du nombre de refus d’entrée) dans les aéroports de cet État membre ;
      du nombre de bureaux consulaires que compte cet État membre et de la charge de travail liée (sur la base du nombre de demandes de visa).

      Les calculs se fonderont sur des données statistiques collectées par Eurostat, l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes et les États membres sur les trois années (36 mois) ayant précédé l’entrée en application du nouveau budget.

      De plus, outre leurs dotations et en application des calculs susmentionnés, les États membres recevront, tout au long de la période de programmation, des financements ciblés en faveur de priorités thématiques ou en réponse à des besoins pressants. Ces financements proviendront du « mécanisme thématique ».

      Étant donné que le prochain budget à long terme doit couvrir une période s’ouvrant en 2021, il n’est pas possible de prédire dès à présent ce que montreront les données futures. Une ventilation basée sur les données d’aujourd’hui donnerait une image biaisée, ne correspondant pas à ce que seront les dotations effectives.

      Ce budget revu à la hausse servira-t-il aussi à renforcer les agences de l’UE chargées de la gestion des frontières ?

      Oui. Outre les 9,3 milliards d’euros alloués au Fonds pour la gestion intégrée des frontières, et au titre d’une proposition qui sera présentée séparément, plus de 12 milliards d’euros serviront à renforcer encore l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes, y compris par le financement d’un corps permanent de quelque 10 000 garde-frontières, ainsi qu’à financer l’agence eu-LISA (l’Agence européenne pour la gestion opérationnelle des systèmes d’information à grande échelle au sein de l’espace de liberté, de sécurité et de justice).

      La Commission va-t-elle désormais financer aussi la construction de clôtures ?

      Non. Le travail de la Commission vise à garantir un contrôle adéquat des frontières, non à les fermer. La Commission n’a jamais financé de clôtures et n’entend pas le faire non plus dans le cadre du nouveau budget de l’UE.

      Le Fonds soutiendra-t-il la réalisation de vérifications systématiques obligatoires aux frontières extérieures ?

      Oui.

      Depuis le 7 avril 2017, outre les vérifications systématiques qui étaient déjà réalisées sur tous les ressortissants de pays tiers entrant dans l’espace Schengen, les États membres sont tenus de procéder à des vérifications systématiques, dans les bases de données pertinentes, sur les citoyens de l’UE qui franchissent les frontières extérieures de l’UE.

      Le nouveau Fonds pour la gestion intégrée des frontières (via son instrument relatif à la gestion des frontières et aux visas) apportera un soutien supplémentaire aux États membres, pour les aider à s’acquitter de ces responsabilités.

      Il s’agira d’un soutien aux infrastructures, aux équipements (tels que des scanners de documents) et aux systèmes informatiques utilisés pour contrôler les frontières, mais aussi d’un soutien à la formation des garde-frontières et à des actions visant à améliorer la coopération interservices. Les États membres pourront également couvrir les frais de personnel et de fonctionnement liés aux vérifications systématiques obligatoires aux frontières extérieures.

      Comment le nouvel instrument relatif aux visas soutiendra-t-il l’élaboration de la politique commune des visas ?

      Le nouveau Fonds aidera à moderniser la politique commune des visas de l’UE. Les financements seront essentiels, notamment parce qu’ils permettront d’améliorer l’efficacité du traitement des demandes de visa, par exemple en termes de détection et d’évaluation des risques de sécurité et de migration irrégulière, et de faciliter les procédures de visa pour les voyageurs de bonne foi.

      En 2018, la Commission a présenté une proposition de modification ciblée du code des visas et une proposition de révision du cadre juridique sous-tendant le système d’information sur les visas (VIS). Il faudra soutenir financièrement la mise en œuvre de certaines des mesures proposées, telles que la modernisation du VIS aux fins de son utilisation combinée avec d’autres systèmes d’information de l’Union et d’une coopération améliorée entre les autorités des États membres dans le cadre du traitement des demandes de visa.

      Le Fonds servira en outre à évaluer plus avant la possibilité de numériser le traitement des demandes de visa. Sur le moyen à long terme, il sera essentiel à la mise en place de procédures électroniques de visa rapides, sûres et conviviales, pour le plus grand avantage tant des demandeurs de visa que des consulats.

      Pourquoi accorder une telle importance aux contrôles douaniers ?

      L’union douanière est unique au monde. Elle constitue un fondement de l’Union européenne et elle est essentielle au bon fonctionnement du marché unique. Une fois les formalités douanières accomplies dans un État membre, les marchandises peuvent circuler librement sur le territoire de l’Union, puisque tous les États membres sont censés appliquer les mêmes règles en matière de recettes et de protection aux frontières extérieures. Les administrations douanières de l’UE doivent coopérer étroitement pour faciliter les échanges et protéger la santé et la sécurité de tous les citoyens de l’UE. L’UE est l’un des plus grands blocs commerciaux du monde : en 2015, elle a pesé pour près de 15 % (représentant 3 500 milliards d’euros) dans les échanges mondiaux de marchandises.

      Pour gérer ce volume d’échanges internationaux, il faut traiter chaque année, de manière rapide et efficace, des millions de déclarations en douane. Mais les douanes jouent également un rôle protecteur. Elles participent activement à la lutte contre le terrorisme, en procédant à des vérifications pour détecter le trafic d’armes et le commerce illégal d’œuvres d’art et de biens culturels, et elles protègent les consommateurs contre les marchandises qui présentent un risque pour leur santé et leur sécurité. Ainsi, 454,2 tonnes de stupéfiants, 35 millions de marchandises de contrefaçon et 3,2 milliards de cigarettes ont été saisis dans l’Union en 2014. La réalisation de contrôles appropriés passe par l’échange rapide d’informations de haute qualité et à jour et par une bonne coordination entre les administrations douanières de nos États membres.

      Que prévoit le nouvel « instrument relatif aux équipements de contrôle douanier » ?

      Le nouvel instrument relatif aux équipements de contrôle douanier vise à aider les États membres à effectuer les contrôles douaniers en finançant les équipements nécessaires. Si ce nouvel instrument, doté d’une enveloppe de 1,3 milliard d’euros, est créé, c’est afin de permettre l’acquisition, la maintenance et le remplacement d’équipements douaniers innovants, dès lors que ni le Programme « Douane » ni d’autres instruments financiers existants ne sont disponibles à cette fin.

      Cet instrument financera les équipements douaniers pour les quatre types de frontières (terrestres, maritimes, aériennes et postales), un groupe de travail composé d’États membres volontaires étant chargé de superviser et d’évaluer les besoins en équipement pour chaque type de frontière. Les fonds seront mis à la disposition de tous les États membres. Des travaux ont déjà été menés par l’équipe d’experts douaniers de la frontière terrestre est et sud-est de l’Union (CELBET), qui réunit les onze États membres chargés des frontières terrestres de l’Union. L’équipe CELBET poursuivra ses activités. S’agissant des autres types de frontières, les travaux peuvent désormais commencer afin que les besoins des États membres puissent être évalués, et des fonds alloués, dès l’entrée en vigueur, en 2021, de l’instrument relatif aux équipements de contrôle douanier.

      Quel type d’équipement est-il possible d’acquérir au moyen du nouvel instrument ?

      L’instrument a pour objectif de financer des équipements qui ne sont pas intrusifs, mais qui permettent la réalisation de contrôles douaniers efficaces et efficients. Parmi les équipements que les États membres pourraient acquérir ou moderniser ou dont ils pourraient solliciter la maintenance, citons les scanners, les systèmes de détection automatisée des plaques d’immatriculation, les équipes de chiens renifleurs et les laboratoires mobiles d’analyse d’échantillons. Les besoins en équipement seront définis dans le cadre du Programme « Douane » qui s’applique parallèlement au nouvel instrument relatif aux équipements de contrôle douanier annoncé aujourd’hui. Les équipements de contrôle douanier mis à disposition au titre de ce Fonds pourront également être utilisés pour d’autres contrôles de conformité, réalisés, par exemple, en application de dispositions en matière de visas ou de prescriptions de police, le cas échéant, ce qui permettra d’en maximiser l’impact.

      L’instrument établit des priorités en matière de financement des équipements selon certains critères d’éligibilité. Les équipements pourront être achetés au titre de la nouvelle réglementation uniquement s’ils se rapportent à au moins un des six objectifs suivants : inspections non intrusives ; détection d’objets cachés sur des êtres humains ; détection des rayonnements et identification de nucléides ; analyse d’échantillons en laboratoire ; échantillonnage et analyse sur le terrain des échantillons ; et fouille à l’aide de dispositifs portables, Cette liste pourra être réexaminée en tant que de besoin. L’instrument soutiendra également l’acquisition ou la modernisation d’équipements de contrôle douanier pour l’expérimentation de nouveaux dispositifs ou de nouvelles conditions sur le terrain avant que les États membres n’entament des achats à grande échelle d’équipements neufs.

      2. Fonds « Asile et migration » (FAMI)

      Quelles sont les priorités du Fonds « Asile et migration » ?

      Au cours des vingt dernières années, l’Union européenne a mis en place des normes communes en matière d’asile qui comptent parmi les plus élevées au monde. S’agissant des migrations, la politique européenne a progressé à pas de géant ces trois dernières années, sous l’effet de l’agenda européen en matière de migration proposé par la Commission Juncker en mai 2015. Une ligne de conduite plus homogène se dégage peu à peu pour faire face au phénomène.

      Outre qu’il soutiendra les efforts déployés actuellement, le nouveau Fonds accroîtra encore le soutien octroyé à la gestion des migrations, en s’attachant prioritairement :

      à offrir davantage de soutien aux États membres soumis aux pressions migratoires les plus fortes ;
      à soutenir davantage la migration légale et l’intégration rapide des ressortissants de pays tiers en séjour régulier ;
      à lutter contre l’immigration irrégulière, en accroissant le nombre de retours effectifs des personnes qui n’ont pas le droit de séjourner dans l’UE et en renforçant la coopération en matière de réadmission avec les pays tiers ;
      à équiper l’Union de moyens plus rapides et plus souples pour faire face aux crises.

      Comment les fonds prévus au titre du FAMI seront-ils répartis entre les États membres ?

      La Commission a proposé de consacrer 10,4 milliards d’euros au nouveau Fonds « Asile et migration » (FAMI).

      Un montant de 4,2 milliards d’euros (40 %) de cette enveloppe sera distribué tout au long de la période de financement pour apporter un appui ciblé aux États membres, qui concernera des projets ayant une véritable valeur ajoutée européenne comme la réinstallation ou servira à répondre à des besoins urgents et à orienter les financements d’urgence vers les États membres au moment et à l’endroit où ils en ont besoin.

      Le Fonds consacrera 6,3 milliards d’euros (60 %) à des financements de long terme destinés à soutenir les États membres en matière de gestion des migrations.

      Dans ce cadre sont prévus une dotation initiale accordée aux États membres (50 % de l’intégralité du Fonds, soit 5,2 milliards d’euros) et un ajustement à mi-parcours pour tenir compte de pressions nouvelles ou supplémentaires (10 %, soit 1,1 milliard d’euros).

      Chaque État membre recevra une somme forfaitaire de 5 millions d’euros, tandis que le solde sera réparti en fonction de la pression migratoire et des besoins des États membres dans les domaines de l’asile (30 %), de l’intégration et de la migration régulière (30 %) et de la lutte contre l’immigration illégale et du retour (40 %).

      Comment les dotations nationales seront-elles calculées ? Pourquoi n’est-il pas possible de fournir dès à présent la ventilation par État membre ?

      Les financements alloués aux États membres reflèteront précisément les besoins de chacun. Au début de la période de programmation, chaque État membre recevra un montant forfaitaire de 5 millions d’euros. Au-delà, leurs dotations respectives seront calculées sur la base d’une évaluation des besoins les plus pressants. Le solde sera réparti en fonction de la pression migratoire et des besoins des États membres en matière d’asile. Pour chaque État membre, cette évaluation tiendra compte :

      pour l’asile (pondération de 30 %) : du nombre de bénéficiaires reconnus d’une protection internationale (30 %), de demandeurs d’asile (60 %) et de personnes réinstallées (10 %) ;
      pour la migration légale et l’intégration (pondération de 30 %) : du nombre de ressortissants de pays tiers en séjour régulier (40 %) et du nombre de ressortissants de pays tiers qui ont obtenu un premier permis de séjour (les travailleurs saisonniers, les étudiants et les chercheurs ne relèvent pas de cette catégorie) ;
      pour le retour (pondération de 40 %) : du nombre de ressortissants de pays tiers en séjour irrégulier qui ont fait l’objet d’une décision de retour (50 %) et du nombre de retours effectivement réalisés (50 %).

      Les calculs seront basés sur des données statistiques recueillies par Eurostat au cours des trois années civiles précédant l’entrée en application du nouveau budget.

      Étant donné que le prochain budget à long terme doit couvrir une période s’ouvrant en 2021, il n’est possible de prédire dès à présent ce que montreront des données futures. Une ventilation basée sur les données d’aujourd’hui donnerait une image biaisée, ne correspondant pas à ce que seront les dotations effectives.

      Quelles sont les mesures qui ont été prises au titre des Fonds actuels pour soutenir les États membres au cours de la crise migratoire ?

      Dans l’ensemble, l’actuel Fonds « Asile, migration et intégration » (FAMII) a soutenu efficacement et avec succès la réponse commune apportée par l’Union à l’aggravation des problèmes de migration et de sécurité, tout en envoyant également un message de solidarité aux États membres situés en première ligne. Par ailleurs, face à la crise migratoire, aux difficultés accrues sur le plan de la sécurité et à un environnement politique en perpétuelle évolution, la Commission a dû recourir à une multitude de modalités financières ad hoc pour appuyer une réponse commune et adéquate de l’UE, et ce d’autant plus que les mécanismes et réserves de flexibilité ont été créés à une époque où les flux migratoires étaient stables.

      Les augmentations budgétaires réalisées jusqu’au milieu de la période de financement actuelle 2014-2020 ont clairement prouvé que les moyens budgétaires avaient atteint leurs limites. La dotation du Fonds « Asile, migration et intégration » a plus que doublé (+ 123 %), les financements destinés aux organismes décentralisés pratiquement doublé (+ 86 %), et l’aide d’urgence augmenté de près de 500 %. Outre des instruments de financement de l’Union, dont certains devaient être modifiés pour être utilisés à l’intérieur de l’Union (notamment l’instrument d’aide d’urgence), l’Union a dû mettre en place des solutions de financement innovantes comme les Fonds fiduciaires pour mobiliser des financements au-delà des limites du cadre financier.

      L’expérience acquise avec l’actuel cadre financier fait apparaître un besoin évident de montants de financement considérablement accrus et d’une plus grande souplesse, de manière à garantir une gestion budgétaire saine et prévisible.

      Qu’en est-il de l’intégration qui figurant dans le Fonds précédent ?

      La Commission propose de donner un nouvel élan au soutien aux politiques d’intégration au titre du prochain budget à long terme en associant la force de frappe de plusieurs instruments de financement.

      Au titre du Fonds « Asile et migration », le soutien à l’intégration se concentrera sur les mesures d’intégration rapide et aura pour objectif d’apporter une aide lors des premières étapes clés de l’intégration comme les cours de langue, tout en soutenant également le renforcement des capacités des autorités chargées de la politique d’intégration, les guichets uniques d’information pour les migrants en séjour régulier récemment arrivés et les échanges entre les migrants en séjour régulier récemment arrivés et les membres de la communauté d’accueil.

      L’intégration à plus long terme bénéficiera d’un soutien au titre des Fonds de cohésion de l’UE, en particulier le futur Fonds social européen + et le futur Fonds européen de développement régional. Ces mesures d’intégration à long terme incluront des mesures d’appui structurel comme la formation professionnelle, l’éducation et le logement.

      Y aura-t-il des financements à la réinstallation ?

      Oui. La Commission propose que les États membres reçoivent 10 000 euros par personne réinstallée, comme dans le cadre des actuels programmes de réinstallation de l’UE.

      Comment les politiques de retour seront-elles soutenues ?

      Des retours effectifs sont une composante essentielle d’une politique migratoire de l’UE qui soit équitable et humaine, mais aussi – et c’est tout aussi important – viable. Le Fonds aidera à combattre la migration irrégulière, en garantissant la pérennité du retour et la réadmission effective dans les pays tiers. Comme pour toutes les politiques de l’UE, cela se fera dans le plein respect des droits fondamentaux et de la dignité des personnes faisant l’objet d’une mesure de retour.

      Seront soutenus : la mise en œuvre des retours ; le renforcement des infrastructures de retour et des capacités de rétention ; le développement de la coopération avec les pays d’origine, afin de faciliter la conclusion d’accords de réadmission, assortis de modalités pratiques, et leur mise en œuvre ; et la réintégration. Le Fonds soutiendra également les mesures visant d’abord à prévenir la migration irrégulière (campagnes d’information, collecte de données, suivi des flux et des routes migratoires, etc.).

      Quel est le lien avec la gestion des flux migratoires externes ?

      Les dimensions interne et externe à l’UE de la gestion des migrations sont étroitement liées. Le Fonds « Asile et migration » sera à même de soutenir la dimension externe des politiques internes de l’Union.

      Ce soutien sera largement complété par les fonds alloués, au titre de la politique extérieure de l’Union, à la lutte contre la dimension extérieure de la migration irrégulière, et notamment aux efforts déployés pour remédier à ses causes profondes, améliorer les perspectives d’avenir qu’offrent les pays d’origine et développer la coopération en matière de retour, de réadmission et de migration légale (voir les propositions sectorielles distinctes qui seront présentées dans les jours à venir).

      Les autorités locales et les organisations de la société civile pourront-elles également bénéficier de financements du Fonds ?

      La Commission considère que les administrations locales et régionales et la société civile jouent un rôle fondamental, notamment en matière d’intégration, et devraient en conséquence recevoir autant de soutien que possible.

      C’est pourquoi, alors que les fonds allaient jusqu’à présent aux autorités nationales en couverture de 75 % des coûts d’une mesure (taux de cofinancement), à l’avenir, lorsque des régions, des municipalités ou des organisations de la société civile mettront en œuvre semblables mesures, le budget de l’UE couvrira 90 % des coûts.

      Pourquoi des financements au nouveau système de Dublin sont-ils prévus au titre du FAMI, alors qu’il n’y a pas encore eu d’accord à ce sujet ?

      La proposition relative au FAMI prévoit d’ores et déjà un soutien au transfert des demandeurs d’asile en application du règlement de Dublin tel qu’il est proposé de le réformer. Les financements couvriraient les mesures de premier accueil et d’assistance de base, l’aide à l’intégration si le demandeur reçoit un statut de protection et l’aide aux personnes qui devraient faire l’objet d’une mesure de retour au cas où elles n’obtiendraient pas de protection ou de droit de séjour.

      La proposition reflète le règlement de Dublin en l’état actuel des négociations, mais elle sera adaptée en fonction du résultat final de ces négociations.

      Comment le suivi des fonds alloués à la gestion des frontières et des migrations sera-t-il assuré ?

      La Commission suivra la mise en œuvre des actions en gestion directe et indirecte. Pour les fonds dont la gestion est partagée entre l’UE et les États membres, la responsabilité première d’assurer le suivi des projets financés par l’UE incombera à ces derniers. Les autorités administrant les fonds de l’UE dans les États membres doivent mettre en place des systèmes de gestion et de contrôle satisfaisant aux exigences de l’UE, y compris en matière de suivi. Le suivi des actions faisant l’objet d’une gestion partagée sera assuré par chaque État membre, dans le cadre d’un système de gestion et de contrôle conforme au droit de l’UE (règlement portant dispositions communes). Une priorité nouvelle sera accordée à la réalisation d’évaluations régulières selon des indicateurs de performance (les États membres devront communiquer des données pour chaque programme, jusqu’à six fois par an).

      Les États membres devront également communiquer un rapport annuel de performance, fournissant des informations sur l’état de mise en œuvre du programme et indiquant si les valeurs intermédiaires et les valeurs cibles ont été atteintes. Une réunion de réexamen sera organisée tous les deux ans entre la Commission et chaque État membre pour apprécier la performance de chaque programme. À la fin de la période, chaque État membre présentera un rapport de performance final.

      http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-18-4127_fr.htm

    • LE VERE RAGIONI DELL’IMMIGRAZIONE AFRICANA : IL FURTO DELLA TERRA

      L’Unione europea ha appena deciso di triplicare i fondi per la gestione dei migranti: la somma messa a bilancio passerà dagli attuali 13 miliardi di euro (anni 2014-2021) ai futuri 35 miliardi di euro (anni 2021-2027).
      Prima di compiere l’analisi dei costi preventivati, dove i soldi vanno, per fare cosa, dobbiamo sapere cosa noi prendiamo dall’Africa, e cosa restituiamo all’Africa. Se noi aiutiamo loro oppure se loro, magari, danno una mano a noi.
      Conviene ripetere e magari ripubblicare. Quindi partire dalle basi, dai luoghi in cui i migranti partono.

      https://raiawadunia.com/le-vere-ragioni-dellimmigrazione-africana-il-furto-della-terra
      #land_grabbing #accaparement_de_terres

    • UE- #JAI : course effrénée au renforcement de Frontex au détriment des #droits_fondamentaux Featured

      Le 12 octobre, les #Conseil_Justice_et_Affaires_Intérieurs discutera de la nouvelle proposition de #réforme de Frontex, l’#agence_européenne_des_garde-côtes_et_garde-frontières, deux ans après la dernière révision du mandat en 2016. Peu importe les critiques relatives aux violations des droits inhérentes à ses activités : l’agence est en passe d’acquérir des #compétences_exécutives ainsi qu’un rôle accru pour expulser depuis les Etats membres et depuis les Etats non européens.

      Le collectif Frontexit réitère ses très fortes préoccupations quant à cette énième réforme et appelle le Etats membres et les parlementaires européens à refuser cette course législative symbole d’une obsession du contrôle des frontières au détriment des droits des personnes migrantes.

      La Commission européenne propose de porter le #personnel de Frontex à 10’000 hommes d’ici 2020 et son #budget à 1,3 milliards pour la période 2019/2020, soit une augmentation de plus de 6000% du budget prévisionnel en à peine 12 ans. L’agence jouera un rôle central et inédit dans la préparation des décisions de retour depuis les Etats-membres et dans la conduite des #expulsions entre/depuis des pays « tiers » sans prérogatives claires.

      Face au doublement du nombre de personnes expulsées depuis l’UE entre 2015 et 2017, au vu des mécanismes de contrôle politiques faibles, voire inexistants (aucune activité hors UE sous contrôle du Parlement européen) et des réponses aux violations des droits ineffectives et inefficaces, cette réforme mettra davantage en danger les personnes migrantes et affaiblira leurs maigres droits.

      L’UE poursuit une course effrénée au renforcement de Frontex alors qu’aucune étude d’impact de ses activités actuelles sur les droits fondamentaux n’a été réalisée. Il est urgent que les parlementaires européens exercent un droit de contrôle sur les activités de Frontex y compris hors de l’UE (déploiement croissant de l’agence en Afrique par exemple), de l’arsenal à sa disposition (#EUROSUR compris) et de leurs conséquences.

      Aucune justification tangible n’existe pour cette énième révision du mandat, si ce n’est – aux dires de l’UE – l’urgence de la situation. Pourtant, cette urgence n’existe pas (le nombre d’arrivées a été divisé par cinq depuis 2015 selon l’OIM), pas plus que la soi-disant « crise migratoire ». L’effondrement du nombre des arrivées est directement imputable à l’augmentation des dispositifs sécuritaires aux frontières et à la coopération sans limite avec des pays où les violations des droits sont légion.

      Frontex, prompte à qualifier de « passeurs » des pêcheurs tunisiens qui sauvent des vies, prompte à collaborer voire dispenser des formations à des Etats où les violations des droits sont documentées, est à l’image d’une Europe qui s’enfonce dans une logique toujours plus sécuritaire au détriment des droits des personnes exilées, mais également de leurs soutiens.

      Cette #fermeture_des_frontières est également une menace pour le respect des droits des personnes qui se voient obligées d’exercer leur droit à quitter tout pays par des voies toujours plus dangereuses.

      http://www.frontexit.org/fr/actus/item/904-ue-jai-course-effrenee-au-renforcement-de-frontex-au-detriment-des-dr
      #droits_humains

    • NGOs, EU and international agencies sound the alarm over Frontex’s respect for fundamental rights

      The Frontex Consultative Forum on Fundamental Rights has expressed “serious concerns about the effectiveness of Frontex’s serious incident reporting mechanism,” saying that it should be revised and that the border agency must “take additional measures to set up an effective system to monitor respect for fundamental rights in the context of its activities.”

      The inadequacy of the serious incident reporting (SIR) mechanism is raised in the latest annual report of the Consultative Forum (http://www.statewatch.org/news/2019/mar/eu-frontex-consultative-forum-annual-report-2018.pdf), which is made up of nine civil society organisations, two EU agencies and four UN agencies and other intergovernmental bodies. It was established in October 2012 to provide independent advice to the agency on fundamental rights.

      Its report notes that during 2018, Frontex “only received 3 serious incident reports for alleged violations of fundamental rights and 10 complaints,” described by as an “almost negligible number” given that the agency has some 1,500 officers deployed at the external borders of the EU.

      Fundamental rights violations

      The Consultative Forum highlights “fundamental rights violations in areas where the Agency is operational, including the Hungarian-Serbian and the Greek-Turkish land borders.”

      For example, interviews by Human Rights Watch with asylum seekers in Greece and Turkey found that:

      “Greek law enforcement officers at the land border with Turkey in the northeastern Evros region routinely summarily return asylum seekers and migrants… The officers in some cases use violence and often confiscate and destroy the migrants’ belongings.” (https://www.hrw.org/news/2018/12/18/greece-violent-pushbacks-turkey-border)

      This is simply the latest in a long line of reports and investigations documenting mistreatment and abuse at the Greek-Turkish border, where The Christian Science Monitor also heard allegations that Frontex was directly involved in pushback operations (https://www.csmonitor.com/World/Europe/2018/1221/Are-Greek-and-EU-officials-illegally-deporting-migrants-to-Turkey).

      The Consultative Forum’s report also points to numerous instances of collective expulsion from Croatia to Serbia and Bosnia Herzegovina; ill-treatment at the Bulgarian-Turkish border; and what the Hungarian Helsinki Committee refers to as “systemic violations of asylum-seekers’ human rights in Hungary.” (https://www.osce.org/odihr/396917?download=true)

      Repeat: suspend activities at Hungary-Serbia border

      In its report, the Consultative Forum repeats a recommendation it has made previously: until fundamental rights can be guaranteed, the Executive Director should use the powers available under the 2016 Frontex Regulation to “suspend operational activities” at the Hungarian-Serbian border.

      The agency offers little obvious information about its activities at that border on its website (https://frontex.europa.eu/along-eu-borders/main-operations/operations-in-the-western-balkans), merely stating that it “deploys specialised officers and border surveillance vehicles and other equipment” in both Hungary and Croatia, where its officers “assist the national authorities in the detection of forged documents, stolen cars, illegal drugs and weapons.”

      The December 2018 report by the Hungarian Helsinki Committee cited above doesn’t mention Frontex, but details serious malpractice by the Hungarian state: immediate pushbacks that negate the right to seek asylum; a lack of procedural safeguards for those that do manage to claim asylum; and a lack of state support to integrate and assist those that receive protection.

      Lack of staff “seriously undermining” fundamental rights obligations

      The Consultative Forum’s report also repeats a longstanding complaint that the inadequate provision of staff to the agency’s Fundamental Rights Officer is “seriously undermining the fulfilment” of their mandate “and, more generally Frontex’s capacity to fulfil its fundamental rights obligations”.

      According to the report, while there were 58 posts for administrators foreseen in the agency’s recruitment plan for 2018, not a single one was allocated to the Fundamental Rights Officer.

      Furthermore, “during the year, only three Senior Assistants… joined the Fundamental Rights Office,” and its work “continues to be compromised in areas such as monitoring of operations, handling of complaints, provision of advice on training, risk analysis, third country cooperation and return activities” - in short, those areas of the agency’s work raising the most high-profile fundamental rights concerns.

      Independence of Fundamental Rights Office at risk

      The report also warns that the independence of the Fundamental Rights Office is at risk.

      The problem centres on the appointment of an Advisor in the Executive Director’s Cabinet as interim replacement for the Fundamental Rights Officer, who in the second half of 2018 “took an extended period of sick leave”.

      The Consultative Forum has “noted that the appointment of a member of the Executive Director’s cabinet as Fundamental Rights Officer ad interim raises issues under the EBCG [Frontex] Regulation.”

      In particular, the “previous and future reporting expectations on the incumbent in relation to the Executive Director” make it:

      “difficult… to ensure that the Fundamental Rights Officer ad interim and the Fundamental Rights Officer’s team maintain their independence in the performance of their duties and avoid potential conflicts of interest.”

      A long list of issues

      The report also examines a number of other issues concerning fundamental rights and the agency’s work, including the ongoing amendments to its governing legislation; the treatment of stateless persons in Frontex operations; “gender mainstreaming at Frontex”; and the need for a revision of the Fundamental Rights Strategy, amongst other things.

      Full report: Frontex Consultative Forum on Fundamental Rights: Sixth annual report (http://www.statewatch.org/news/2019/mar/eu-frontex-consultative-forum-annual-report-2018.pdf)

      Further reading

      Frontex condemned by its own fundamental rights body for failing to live up to obligations (Statewatch News Online, 21 May 2018: http://www.statewatch.org/news/2018/may/eu-frontex-fr-rep.htm)

      http://www.statewatch.org/news/2019/mar/fx-consultative-forum-rep.htm

  • I PADRONI DELLA TERRA

    88 milioni di ettari di terra fertile nel mondo in 18 anni sono stati accaparrati

    da Stati, gruppi e aziende multinazionali, società finanziarie e immobiliari internazionali.

    Questo fenomeno si chiama: Land Grabbing.

    http://www.focsiv.it/comunicati-stampa/i-padroni-della-terra-primo-rapporto-sul-land-grabbing

    #land_grabbing #accaparement_de_terre #terres #rapport
    cc @odilon

    Mais j’arrive pas à comprendre où et comment télécharger le rapport...

  • South Korean company under fire for alleged deforestation in Papua oil palm concession
    https://news.mongabay.com/2018/04/south-korean-company-under-fire-for-alleged-deforestation-in-papua-oi

    A report by WRI shows ongoing deforestation in an oil palm concession in Papua, Indonesia, operated by a subsidiary of South Korea’s POSCO Daewoo.
    The company has responded by saying its operations in Papua are legal and fully permitted.
    Concerns over deforestation by POSCO Daewoo have prompted other companies to say they will not allow its palm oil into their supply chains. These include big-name brands such as Clorox, Colgate Palmolive, IKEA, L’Oreal, Mars and Unilever.
    POSCO Daewoo has issued a temporary moratorium on land clearing in its Papua concession and hired a consultant to advise it on how to proceed with its operations there.

    #industrie_palmiste #Papouasie #déforestation

  • Europa orientale: la minaccia della concentrazione delle terre

    Dal 2008 l’accaparramento delle terre agricole in Europa orientale ha visto principali protagoniste poche grandi aziende. Incentivate dal basso costo delle terre e dalle sovvenzioni Ue stanno mettendo in ginocchio i piccoli e medi produttori


    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bulgaria/Europa-orientale-la-minaccia-della-concentrazione-delle-terre-179578
    #land_grabbing #accaparement_des_terres #terres #Europe_de_l'Est #agriculture

  • Numéro de la #revue EchoGéo dédié au #Brésil :

    Jean-Louis Chaléard
    Brésil : un écho géographique sur l’émergence [Texte intégral]

    Sur le Champ

    Un état des lieux du Brésil en 2017
    Hervé Théry
    Un état des lieux du Brésil en 2017 [Texte intégral]
    Cathy Chatel, François Moriconi-Ebrard et Maria Encarnação Beltrão Sposito
    La #croissance_urbaine au Brésil : concentration dans les métropoles ou rééquilibrage du #système_urbain ? [Texte intégral]
    Cláudio Zanotelli
    L’espace du politique ou la politique de l’espace : l’#éviction des quartiers populaires et les #Jeux_olympiques de Rio de Janeiro [Texte intégral]
    Cássio Arruda Boechat, Ana Carolina Gonçalves Leite et Carlos de Almeida Toledo
    Archéologie de la question agraire au Brésil : du labor grabbing au #land_grabbing [Texte intégral]
    Neli Aparecida de Mello-Théry
    Politiques environnementales brésiliennes : intentions et réalités [Texte intégral]
    Vincent Dubreuil, Karime Pechutti Fante, Olivier Planchon et João Lima Sant’anna Neto
    Les types de #climats annuels au Brésil : une application de la classification de Köppen de 1961 à 2015 [Texte intégral]
    François-Michel Le Tourneau
    Le Brésil et ses Indiens : une réconciliation impossible ? [Texte intégral]
    Céline Broggio et Martine Droulers
    Les effets des équipements hydroélectriques en Amazonie [Texte intégral]
    Un exemple de #résilience_territoriale
    François Laurent, Damien Arvor, Marion Daugeard, Reinis Osis, Isabelle Tritsch, Emilie Coudel, Marie-Gabrielle Piketty, Marc Piraux, Cecilia Viana, Vincent Dubreuil, Ali F. Hasan et François Messner
    Le tournant environnemental en Amazonie : ampleur et limites du découplage entre production et #déforestation [Texte intégral]
    Tatiana Schor et Gustavo S. Azenha
    Ribeirinho Food Regimes, Socioeconomic Inclusion and Unsustainable Development of the Amazonian Floodplain [Texte intégral]
    Simone Affonso da Silva
    Regional Inequalities in Brazil : Divergent Readings on Their Origin and Public Policy Design [Texte intégral]
    Renata Callaça Gadioli dos Santos, Luiz Fernando de Macedo Bessa et Magda de Lima Lúcio
    The Brazilian National Policy for Regional Development and the RIDE-DF Management opposite the Governance vs Brasília’s Metropolitan Area [Texte intégral]

    https://echogeo.revues.org/14998
    #villes #urban_matter #géographie_urbaine #JO #terres #accaparement_de_terres #peuples_autochtones #Amazonie #barrages_hydroélectriques #inégalités

    Pour toi, @odilon :
    Archéologie de la question agraire au Brésil : du labor grabbing au land grabbing
    https://echogeo.revues.org/15112

  • The NGO Forum on Cambodia

    The NGO Forum on Cambodia was established in the early 1980s by international NGOs campaigning for an end to the aid embargo that was imposed on Cambodia at that time.

    http://www.ngoforum.org.kh/index.php/component/content/category/14-about
    #Cambodge
    Avec une longue et intéressante bibliographie sur #terres #land_grabbing #accaparement_de_terres #caoutchouc #land_concessions #pauvreté

    Les #lois sont également téléchargeables depuis le site.

  • En 2015, la revue Nature pointait du doigt un phénomène alarmant touchant le Cambodge : 36% des terres agricoles du pays ont été achetées sous forme de #Economic_land_concessions par des investisseurs nationaux ou étrangers.

    Près de la moitié des terres cédées par le gouvernement cambodgien, à travers ce type de concession, était, quinze ans plus tôt, couverte de forêts. Aujourd’hui, ce sont des plantations de #caoutchouc, de #noix_de_cajou ou de #poivre.

    Un phénomène qui ne déracine pas uniquement les arbres, mais également les animaux, dont les éléphants, et les populations, souvent autochtones. Désormais sans terre et, donc, sans ressources, celles-ci se voient obligées d’abandonner leurs villages.

    Accompagné de Mony Hong, un guide khmer amoureux de la région, je me suis aventuré dans une jungle située à quelques dizaines de kilomètres de la ville de Sen Monorom, dans le nord-est du Cambodge. J’ai traversé des hameaux isolés, où la vie des habitants est parfois égayée par des rires d’enfants qui jouent dans le jardin de leur maison.

    Pour l’heure épargnée par les concessions agricoles, cette jungle forestière est menacée par les coupes d’arbres sélectives effectuées par... des membres de la communauté, qui vendent le bois à #Sen_Monorom, gagnant ainsi un peu d’argent pour l’achat de biens matériels ou de services. Une menace silencieuse mais insidieuse pour la biodiversité.

    C’est dans ce territoire, composé de dix villages autochtones de la communauté Pnong, que #Mony_Hong veut implanter un projet d’écotourisme afin de pouvoir protéger la jungle et les populations qui y vivent.

    #Photographie de @albertocampiphoto publiée dans l’édition de février de @lacite et dans la rubrique « photojournalisme » du site du journal : https://www.lacite.info/hublot/fevrier-2017

    #déforestation #Cambodge #Pnong #Bunong #peuples_autochtones #plantations #forêt #jungle #concessions #land_grabbing #terres #accaparement_des_terres
    cc @franz42 @odilon

  • Il Land Grabbing influenza l’emigrazione?

    Mentre continuano gli aggiornamenti sullo sgombero di the Jungle, la Giungla di Calais, un’ascoltatrice ci chiede: se una larga porzione di terra nei paesi del terzo mondo viene venduta ad aziende o governi di altri paesi senza il consenso delle comunità che ci abitano o che la utilizzano, spesso da anni, per coltivare e produrre il loro cibo, cosa succede? Si chiama Land Grabbing ed è uno scandalo che esiste da molti anni, ma che dallo scoppio della crisi finanziaria è cresciuto enormemente, spingendo nella fame migliaia di contadini del Sud del mondo.


    http://lacittadiradio3.blog.rai.it/2016/10/24/land-grabbing

    #land_grabbing #terres #migrations #accaparement_des_terres #caricature #dessin_de_presse #émigration

    Podcast:
    http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/popupaudio.html?t=TUTTA%20LA%20CITT%C3%80%20NE%20PARLA%20del%2024%2F10%2F

    • LE VERE RAGIONI DELL’IMMIGRAZIONE AFRICANA : IL FURTO DELLA TERRA

      L’Unione europea ha appena deciso di triplicare i fondi per la gestione dei migranti: la somma messa a bilancio passerà dagli attuali 13 miliardi di euro (anni 2014-2021) ai futuri 35 miliardi di euro (anni 2021-2027).
      Prima di compiere l’analisi dei costi preventivati, dove i soldi vanno, per fare cosa, dobbiamo sapere cosa noi prendiamo dall’Africa, e cosa restituiamo all’Africa. Se noi aiutiamo loro oppure se loro, magari, danno una mano a noi.
      Conviene ripetere e magari ripubblicare. Quindi partire dalle basi, dai luoghi in cui i migranti partono.
      Roberto Rosso, l’uomo che dai jeans ha ricavato un mondo che ora vale milioni di euro, ha domandato: “Come mai spendiamo 34 euro al giorno per ospitare un migrante se con sei dollari al dì potremmo renderlo felice e sazio a casa sua?”.
      Già, come mai? E perchè non li aiutiamo a casa loro?
      Casa loro? Andiamoci piano con le parole. Perchè la loro casa è in vendita e sta divenendo la nostra. Per dire: il Madagascar ha ceduto alla Corea del Sud la metà dei suoi terreni coltivabili, circa un milione e trecentomila ettari. La Cina ha preso in leasing tre milioni di ettari dall’Ucraina: gli serve il suo grano. In Tanzania acquistati da un emiro 400mila ettari per diritti esclusivi di caccia. L’emiro li ha fatti recintare e poi ha spedito i militari per impedire che le tribù Masai sconfinassero in cerca di pascoli per i loro animali. La loro vita.
      E gli etiopi che arrivano a Lampedusa, quelli che Salvini considera disgraziati di serie B, non accreditabili come rifugiati, giungono dalla bassa valle dell’Omo, l’area oggetto di un piano di sfruttamento intensivo da parte di capitali stranieri che ha determinato l’evacuazione di circa duecentomila indigeni. E tra i capitali stranieri molta moneta, circa duecento milioni di euro, è di Roma. Il governo autoritario etiope, che rastrella e deporta, è l’interlocutore privilegiato della nostra diplomazia che sostiene e finanzia piani pluriennali di sviluppo. Anche qui la domanda: sviluppo per chi?
      L’Italia intera conta 31 milioni di ettari. La Banca mondiale ha stimato, ma il dato è fermo al 2009, che nel mondo sono stati acquistati o affittati per un periodo che va dai venti ai 99 anni 46 milioni di ettari, due terzi dei quali nell’Africa subsahariana. In Africa i titoli di proprietà non esistono (la percentuale degli atti certi rogitati varia dal 2 al 10 per cento). Si vende a corpo e si vende con tutto dentro. Vende anche chi non è proprietario. Meglio: vende il governo a nome di tutti. Case, villaggi, pascoli, acqua se c’è. Il costo? Dai due ai dieci dollari ad ettaro, quanto due chili d’uva e uno di melanzane al mercato del Trionfale a Roma. Sono state esaminate 464 acquisizioni, ma sono state ritenute certe le estensioni dei terreni solo in 203 casi. Chi acquista è il “grabbatore”, chi vende è il “grabbato”. La definizione deriva dal fenomeno, che negli ultimi vent’anni ha assunto proporzioni note e purtroppo gigantesche e negli ultimi cinque una progressione pari al mille per cento secondo Oxfam, il network internazionale indipendente che combatte la povertà e l’ingiustizia. Il fenomeno si chiama land grabbing e significa appunto accaparramento della terra.
      I Paesi ricchi chiedono cibo e biocombustibili ai paesi poveri. In cambio di una mancia comprano ogni cosa. Montagne e colline, pianure, laghi e città. Sono circa cinquanta i Paesi venditori, una dozzina i Paesi compratori, un migliaio i capitali privati (fondi di investimento, di pensione, di rischio) che fanno affari. E’ più facile trasportare una tonnellata di cereali dal Sudan che le mille tonnellate d’acqua necessarie per coltivarle. E allora la domanda: aiutiamoli a casa loro? Siamo proprio sicuri che abbiano ancora una casa? Le cronache sono zeppe di indicazioni su cosa stia divenendo questo neocolonialismo che foraggia guerre e governi dittatoriali pur di sviluppare il suo business. In Uganda 22mila persone hanno dovuto lasciare le loro abitazioni per far posto alle attività di una società che commercia legname, l’inglese New Forest Company. Aveva comprato tutto: terreni e villaggi. I residenti sono divenuti ospiti ed è giunto l’avviso di sfratto… Dove non arriva il capitale pulito si presenta quello sporco. La cosiddetta agromafia. Sempre laggiù, nascosti dai nostri occhi e dai nostri cuori, si sversano i rifiuti tossici che l’Occidente non può smaltire. La puzza a chi puzza…
      Chi ha fame vende. Anzi regala. L’Etiopia ha il 46 per cento della popolazione a rischio fame. E’ la prima a negoziare cessioni ai prezzi ridicoli che conosciamo. Seguono la Tanzania (il 44 per cento degli abitanti sono a rischio) e il Mali (il 30 per cento è in condizioni di “insicurezza alimentare”). Comprano i ricchi. Il Qatar, l’Arabia Saudita, la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, anche l’India. E nelle transazioni, la piccola parte visibile e registrata della opaca frontiera coloniale, sono considerate terre inutilizzate quelle coltivate a pascolo.
      Il presidente del Kenya, volendo un porto sul suo mare, ha ceduto al Qatar, che si è offerto di costruirglielo, 40mila ettari di terreno con tutto dentro. Nel pacco confezionato c’erano circa 150 pastori e pescatori. Che si arrangiassero pure!
      L’Africa ha bisogno di acqua, di grano, di pascoli anzitutto. Noi paesi ricchi invece abbiamo bisogno di biocombustibile. Olio di palma, oppure jatropha, la pianta che – lavorata – permette di sfamare la sete dei grandi mezzi meccanici. E l’Africa è una riserva meravigliosa. In Africa parecchie società italiane si sono date da fare: il gruppo Tozzi possiede 50mila ettari, altrettanti la Nuova Iniziativa Industriale. 26mila ettari sono della Senathonol, una joint-venture italosenegalese controllata al 51 per cento da un gruppo italiano. Le rose sulle nostre tavole, e quelle che distribuiscono i migranti a mazzetti, vengono dall’Etiopia e si riversano nel mondo intero. Belle e profumate, rosse o bianche. Recise a braccia. Lavoratori diligenti, disponibili a infilarsi nelle serre anche con quaranta gradi. E pure fortunati perchè hanno un lavoro.
      Il loro salario? Sessanta centesimi al giorno.

      https://raiawadunia.com/le-vere-ragioni-dellimmigrazione-africana-il-furto-della-terra
      #accaparement_de_terres

  • Communities affected by oil palm plantations block Bolloré group’s shareholder meeting
    http://multinationales.org/Communities-affected-by-oil-palm-plantations-block-Bollore-group-s-

    Blockades are popular these days in #France. This time, it was the turn of the Bolloré group, located in Puteaux (Hauts-de-seine), to experience this form of protest. For nearly three hours on the morning of 3 June, around a hundred protesters peacefully blockaded the entrances to the headquarters of one of the country’s most powerful companies. Protestors challenged Bolloré shareholders as they attempted to enter their meeting. Representatives from civil society organisations in France (...)

    #News

    / France, Bolloré, #Land_Grabbing, #Socfin, #grabbing, #local_communities, #international_solidarity, social (...)

    #Bolloré #social_impact
    http://www.oureyeislife.com
    https://multinationales.org/Des-riverains-de-plantations-d-huile-de-palme-bloquent-l-AG-du-grou
    http://grain.org

  • Salut tout le monde,
    le programme de khâgne pour l’an prochain vient de sortir pour le concours de l’ENS de Lyon, je suis donc preneur de toute information, actualité, référence scientifique ou autre sur la question suivante : « #Population et #inégalités dans le monde ».
    #démographie #géographie #mobilités
    @reka @cdb_77 @odilon


    La lettre de cadrage est la suivante :

    Population et inégalités dans le monde

    La question au programme invite les candidats à rapprocher l’analyse des dynamiques #démographiques de l’étude des inégalités, des processus dont elles résultent et des dispositifs mis en oeuvre pour tenter de les réduire. La compréhension des dynamiques démographiques est au coeur de la réflexion géographique et l’analyse des inégalités est centrale pour la compréhension du monde globalisé. Les inégalités peuvent être définies comme des disparités - diversement perçues, construites et traitées socialement dans le monde – en matière d’accès aux biens, aux ressources et aux services. Elles recoupent plusieurs domaines qui relèvent plus largement du #développement humain. Plusieurs dimensions peuvent être prises en compte telles que les conditions d’existence, les #revenus, l’accès aux services de base, la #santé, l’#éducation, les #ressources, la #sécurité, la #justice, les droits fondamentaux.

    Il s’agit de se demander dans quelle mesure les inégalités persistent ou s’accroissent, dans un contexte d’évolution des situations de développement et de mondialisation qui tendent à reconfigurer les caractéristiques démographiques des populations humaines.

    La question invite à considérer les interactions entre population et inégalités. Les différents types de dynamiques démographiques génèrent des motifs et des formes de répartition des populations et des inégalités. Ces inégalités sont, à leur tour, à l’origine de nouvelles dynamiques démographiques.

    Les relations réciproques entre démographie et inégalités doivent être analysées sur un plan géographique, à différentes échelles (mondiale, régionale et intra-régionale). Des travaux menés à l’échelle locale seront mobilisables dans la mesure où ils servent à illustrer des processus et des dynamiques liées aux inégalités au sein des populations. Au-delà des grandes formes de #distribution spatiale, il s’agira aussi de considérer les #flux de population en relation avec les grands types d’inégalités dans le monde. Les inégalités d’accès à des biens fondamentaux tels que l’#eau potable et l’#alimentation génèrent, par exemple, de multiples formes de #mobilités et de #conflits. De même, les enjeux sociaux liés au #vieillissement des populations s’expriment sous différentes formes selon les régions du monde. Enfin, il conviendra d’aborder des champs traités plus récemment par la géographie telles que les études de #genre, les logiques de l’#exclusion sociale au détriment de celles de l’intégration, les formes de s#égrégation et de #discrimination, les régimes de #visibilité/invisibilité.
    La connaissance des principaux indicateurs synthétiques de mesure des inégalités (IDH, PIB, PPA…) est attendue. Leur spatialisation permet une lecture géographique des inégalités, à plusieurs échelles. En outre, la prise en compte de différentes approches des inégalités (par les capabilités, par exemple) complètera les informations données par les indicateurs synthétiques. Concernant les dynamiques démographiques, la connaissance des caractéristiques d’une population (pyramide des âges, sex ratio, stratifications sociales…), des indicateurs démographiques (taux de fécondité, taux de natalité…), des composantes, rythmes et modalités de la croissance (solde naturel, solde migratoire, transition démographique, vieillissement…) permet de poser des jalons de compréhension. L’analyse de ces différents paramètres devra être menée dans une perspective comparative, en cherchant à repérer et à expliquer les principaux contrastes géographiques et les discontinuités spatiales qui en résultent.
    Les principaux processus causant les inégalités au sein des populations devront être étudiés. La #croissance de la population mondiale est en effet à mettre en lien avec l’organisation des sociétés contemporaines et avec les processus globaux, qu’il s’agisse de la #mondialisation, des enjeux démographiques des changements environnementaux, des problématiques de santé globale, de l’émergence de nouveaux régimes #migratoires, ou des transformations sociales. L’analyse géographique doit considérer les conséquences spatiales du très fort accroissement démographique dans ses différentes dimensions régionales. Les processus tels que l’#urbanisation ou la #littoralisation devront être connus. A l’inverse, la décroissance démographique dans certaines régions ou dans certains Etats, conséquence d’un déficit naturel et/ou de l’#émigration renvoient à des formes d’organisation des territoires à ne pas négliger. La question implique enfin d’analyser les #transitions,
    la transition démographique en premier lieu mais également les transitions urbaine, alimentaire et mobilitaire. Il faudra aussi prendre en compte de nouveaux niveaux d’organisation : les inégalités peuvent être saisies au niveau des groupes humains, où les questions de #genre importent. Ces processus conduiront à analyser de manière critique les grandes catégories de lecture et de classification du monde sous l’angle de la population (opposition #Nord/Sud, ou jeunes/vieux par exemple).
    Au-delà de la connaissance des contrastes économiques et sociaux, le programme invite à s’interroger sur les réponses apportées par les acteurs géographiques et territoriaux aux situations d’inégalité. Les principales stratégies de réduction des inégalités entre individus et entre territoires, devront être abordées. D’un côté, les populations génèrent elles-mêmes des dynamiques pour s’extraire de leurs difficultés socio-territoriales (rôle croissant des #femmes dans ces dynamiques, logiques migratoires, nouvelles formes de #solidarité…). D’un autre côté, les politiques et les programmes de lutte contre les inégalités sont menés à différentes échelles et visent à garantir un meilleur accès aux ressources (éducation, emploi, NTIC) à toutes les populations, quel que soit leur lieu de naissance (région prospère ou en retard de développement, ville ou campagne) et leurs caractéristiques (âge, genre, #ethnie, orientation sexuelle). Ces politiques sont portées par des acteurs de nature très diverse (organisations internationales et régionales, Etats, organisations non gouvernementales et, de plus en plus, organismes privés). A ce sujet on pourra mettre en évidence le retrait de l’Etat de certains grands programmes de réduction des inégalités (comme l’Aide publique au développement) au profit d’autres acteurs. La connaissance de quelques grandes politiques démographiques incitatives, des évolutions des modalités de l’aide au développement pour les pays du Sud ou des mesures de protection sociale et de leurs impacts spatiaux dans les pays du Nord est attendue.