• I rifugiati fuori dal sistema di accoglienza. Anche se ci sono migliaia di posti liberi

    I dati inediti ottenuti da Altreconomia fotografano più di 2mila letti vuoti nel #Sistema_di_accoglienza_e_integrazione (#Sai, ex Sprar) che crescono di mese in mese nonostante l’aumento degli arrivi. Inoltre il 20% dei posti finanziati non risultano occupati. Una “riserva politica” per poter gridare all’emergenza.

    Più di 2mila posti vuoti nonostante migliaia di richieste di inserimento da parte di richiedenti asilo e rifugiati, con solamente l’80% dei posti finanziati dal ministero dell’Interno realmente occupati. I dati ottenuti da Altreconomia a fine ottobre 2023 sono mostrano un fallimento: nell’ultimo anno, mentre nelle città italiane decine di persone dormivano all’addiaccio, il secondo livello di accoglienza per i migranti rimaneva ampiamente sottoutilizzato. “È un dato che necessita di una chiave di interpretazione politica e non meramente tecnica -commenta Michele Rossi, direttore del Centro immigrazione asilo e cooperazione onlus (Ciac) di Parma-: dal 2018 a oggi il sistema invece che essere valorizzato e ampliato in linea con il bisogno reale, è sempre rimasto all’80% del suo potenziale. L’esclusione dell’accoglienza per i richiedenti asilo, fatta prima con il ‘decreto Salvini’ poi nuovamente nel 2023, si dimostra una misura paradossale e la scelta governativa di istituire oggi campi e tendopoli quando ci sarebbero posti disponibili assume una luce ancora più sinistra: smentisce ogni possibile retorica dell’emergenza su cui si fonda il paradigma della segregazione nei campi”.

    Per la prima volta il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, in seno al Viminale, ha inviato anche il numero delle richieste pervenute dai Centri di accoglienza straordinaria (Cas), il primo livello d’accoglienza, proprio ai Sai. Il dato è sconcertante. Da gennaio a marzo 2023 le richieste totali sono state 11.218 mentre gli inserimenti 6.482, ovvero il 57% del totale. Mancanza di posti? No, perché i numeri dicono che gli inserimenti sarebbero potuti avvenire per tutti, con ancora 27 posti in disavanzo. Un dato ancora più pesante se si considera che tra questi “posti fruibili”, sono già esclusi quelli “temporaneamente non fruibili” (circa 1.100 di media al mese): nel caso di strutture danneggiate, piuttosto che accoglienze più complesse che richiedono maggior attenzione, gli operatori possono decidere di ridurre temporaneamente il numero di accolti. Quindi i 2mila posti vuoti di media mensili non trovano alcuna spiegazione. Così come i 151 vuoti liberi nel sistema DM-DS, riservati a persone con vulnerabilità psicologiche e psichiatriche, sugli appena 601 occupati (il 75% di quelli finanziati).

    “L’unica motivazione pare essere quella di lasciare posti liberi che rimangono a disposizione per ragioni di natura politica (disporre di una riserva) evitando di utilizzare il sistema per ciò che la legge prevede, ovvero rispondere alle richieste di inserimento fino a esaurimento dei posti disponibili -osserva Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) e socio dell’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione-. Un fatto che si vuole evitare perché aprirebbe un dibattito pubblico sul fabbisogno di posti necessari e sulla radicale mancanza di criteri di programmazione del Sai, come d’altronde avviene per l’intero sistema di accoglienza pubblico. Il sistema Sai presenta dunque tutte insieme nello stesso tempo caratteristiche tra loro contraddittorie: c’è sempre posto per nuovi inserimenti ma nello stesso tempo è sempre insufficiente a rispondere alle esigenze effettive”. Richieste che, tra l’altro, crollano da marzo 2023 in poi con una riduzione nettissima: il numero delle persone che hanno chiesto accoglienza a marzo (4.381) è maggiore di tutte quelle che l’hanno fatto da aprile e giugno (quasi 4mila). Il cosiddetto “decreto Cutro”, del 10 marzo 2023, prevede l’impossibilità per i richiedenti asilo di accedere proprio al sistema Sai e quella delle prefetture sembra essere una “censura preventiva”, prima ancora che quella “regola” diventasse legge. Le segnalazioni sono oggi attribuite alle stesse prefetture che però non hanno spesso un reale polso delle situazioni territoriali complessive.

    Ma, come detto, non è solo problematico il numero di posti vuoti nelle strutture di accoglienza perché la discrepanza tra i “posti finanziati” e quelli “occupati” è costantemente del 20%. Che cosa significa? A luglio 2023, per esempio, a fronte di 43.469 posti attivabili c’erano appena 34.761 persone accolte. Una forbice su cui incidono diversi elementi, come i mancati inserimenti da un lato, ma anche una complessa dinamica che Michele Rossi sintetizza così: “Certamente ci possono essere strutture che necessitano di ristrutturazione, cambi di destinazione che impongono lavori e temporanee sospensioni -spiega- ma nel comprendere perché così tanti posti finanziati non siano poi immediatamente attivati andrebbe indagata anche la tempistica burocratico e amministrativa tra domanda dei Comuni e approvazione del finanziamento da parte del ministero. I progetti devono garantire case a un dato tempo, ma non sono certi della loro approvazione: con tempi molto lunghi di risposta da Roma quei contratti possono perdersi, necessitando di sostituire con altre strutture al momento dell’approvazione effettiva. Ad esempio all’ottobre 2023 non si sa ancora se migliaia di posti in scadenza al 31 dicembre potranno essere rinnovati. Senza tale garanzia c’è il rischio concreto di perdere i contratti di affitto in essere e di perdere a gennaio posti teoricamente finanziati”.

    I dati di Altreconomia ricostruiscono come da gennaio 2022 a luglio 2023 la media dei posti occupati sui finanziati sia del 79%. “Se allarghiamo lo sguardo agli anni precedenti, il dato è lo stesso -aggiunge Rossi- e questo fa riflettere parecchio perché la proporzione di un quinto di posti pieni sui vuoti l’abbiamo ritrovata, negli stessi anni, anche sui Centri di accoglienza straordinaria, unico dato che permane al variare delle diverse ‘emergenze’ e delle diverse configurazioni del sistema stesso”.

    Come ricostruito nell’inchiesta “Accoglienza selettiva”, infatti, nell’agosto 2022 le persone richiedenti asilo dormivano per strada e non venivano inserite nei Cas nonostante ci fossero più di 5mila posti vuoti. Vuoti che via via sarebbero andati -il condizionale è d’obbligo perché i dati in questo caso sono forniti direttamente dal ministero e non dalle singole prefetture- riempiendosi (ne abbiamo scritto qui), ma che evidentemente non sono andati esaurendosi nel Sai. “È un sistema dalle regole di funzionamento non trasparenti che solo in modo parziale opera sulla base di regole predeterminate e finalizzato a dare attuazione a quanto previsto dalla legge, ovvero dare accoglienza ai richiedenti asilo (solo i casi vulnerabili a partire dalla legge 50 del 2023), ai beneficiari di protezione internazionale e speciale e alle altre fattispecie previste dalla normativa”, commenta Schiavone.

    Sono rilevanti anche i dati sulla fine dei percorsi di chi esce dall’ex Sprar. Dal gennaio 2022 al luglio 2023 solo il 22% (media mensile) delle persone che hanno concluso con l’accoglienza l’ha fatto per “inserimento socio-economico”; il 29% ha visto scadere il termine massimo del progetto (quindi potenzialmente è finito per strada) e ben il 47% delle persone che è uscito mensilmente l’ha fatto “volontariamente prima della scadenza dei termini”. “Certamente è un dato che va valutato con molta cautela: se il criterio con cui le diverse ‘uscite’ possono essere attribuite all’inserimento socio-economico è abbastanza evidente, trattandosi nei fatti di casi in cui sussistono formali contratti di lavoro e di affitto non lo è altrettanto per la categoria ‘uscita volontaria prima dei termini’, che -aggiunge Rossi- potrebbe sommare sia persone che decidono di abbandonare il progetto di accoglienza volontariamente per riprendere il loro percorso migratorio, sia situazioni in cui le persone reperiscono lavoro o alloggio, ma questi sono talmente precarie o addirittura irregolari, in nero, da essere incompatibili con la prosecuzione del progetto. In questo caso, se tale ipotesi fosse anche solo parzialmente confermata, manifesterebbe la gravità delle condizioni del mercato del lavoro e degli alloggi per le persone straniere in Italia: un tema da troppo tempo dimenticato e che vede una crescente ricattabilità dei migranti, costretti ad una integrazione subalterna e costretti ad una perdurante invisibilità sociale”.

    A prescindere dalle specifiche motivazioni, infatti, il dato è netto: il 76% delle persone che escono dal sistema non hanno un percorso di inserimento socio-abitativo e lavorativo adeguato. “Per quali motivi non dovremmo definire estremamente grave tale situazione? -si interroga Schiavone-. Gli interventi di inserimento realizzati sono complessivamente inadeguati? C’è un’eccessiva rigidità nella tipologia degli interventi che i progetti sono autorizzati a realizzare e ciò gli impedisce di attuare strategie efficaci? Il tempo di accoglienza è troppo breve rispetto a quello che ragionevolmente sarebbe necessario per il raggiungimento degli obiettivi? Probabilmente tutti questi fattori, con pesi diversi, giocano un ruolo e concorrono a delineare un sistema gravemente fallimentare proprio rispetto al ruolo quasi esclusivo che la legge gli assegna ovvero realizzare percorsi efficaci di inserimento sociale dei beneficiari”. Schiavone sottolinea che le crescenti difficoltà che il Sai incontra nel realizzare percorsi efficaci di inserimento sociale dei beneficiari sono dovute anche al generale peggioramento delle condizioni economiche della popolazione. “Ma è necessario -conclude- evidenziare che un fallimento c’è e onestà intellettuale imporrebbe che se ne parlasse. Ma di una discussione serena e propositiva in tal senso non c’è traccia: la polvere viene messa sotto il tappeto”.

    https://altreconomia.it/i-rifugiati-fuori-dal-sistema-di-accoglienza-anche-se-ci-sono-migliaia-

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  • Scarsa programmazione, posti vuoti e persone al freddo: così ai migranti è negata l’accoglienza

    I Centri di accoglienza straordinaria non garantiscono abbastanza posti, nel frattempo il Sistema di accoglienza e integrazione di secondo livello ha oltre 1.600 “letti” disponibili e finanziati ma non utilizzati. Mentre il ministero dell’Interno ammette l’assenza di programmazione, centinaia di persone dormono ancora all’addiaccio.

    Posti vuoti, scarsa programmazione, incapacità di intervenire a fronte dell’emergenza. Mentre diversi tribunali cominciano a richiamare all’ordine prefetture e questure per le procedure illegittime nel fornire un “tetto” e i documenti ai richiedenti asilo, dati aggiornati raccolti da Altreconomia fotografano le inefficienze del sistema di accoglienza italiano per richiedenti asilo e rifugiati.

    Da un lato, da luglio a novembre 2022 si registra nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) un’improvvisa diminuzione dei posti a disposizione senza alcun intervento da parte dell’amministrazione per aumentare la capienza; dall’altro, centinaia di posti “vuoti” nel Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), pensato come “secondo livello” di intervento e trampolino per l’autonomia delle persone. A prescindere da quale sia il sistema, dai dati emerge chiaramente la scarsa programmazione da parte del ministero dell’Interno. “È come se in una scuola non si sapesse dove sono le aule, quanti banchi vuoti ci sono, quante sedie mancano. E magari, di fronte al bisogno, si scopre che un’intera aula era libera ma chiusa nell’attesa che, senza un motivo razionale, arrivasse qualcuno ad aprirla. La politica, sul tema dell’accoglienza, sceglie volontariamente di non intervenire”, spiega Michele Rossi, direttore generale del Centro immigrazione asilo e cooperazione onlus (Ciac) di Parma.

    Andiamo con ordine. Tra i posti finanziati e quelli effettivamente attivati nel sistema Sai c’è una differenza molto ampia: all’ottobre 2022 a fronte di 44.591 posti finanziati erano 35.291 quelli attivi. Questa forbice deriva dal fatto che non sempre i Comuni riescono ad attivare tutti i posti per cui avevano fatto domanda e ottenuto il finanziamento, soprattutto per la difficoltà a reperire gli alloggi (qui i dati integrali). Oltre a questa differenza si aggiunge il fatto che anche i posti disponibili non sono tutti riempiti. I “vuoti”, quello stesso mese di ottobre 2022 in cui gli effettivamente disponibili risultavano essere oltre 35mila, erano oltre 1.600 di ottobre (in lieve calo rispetto agli oltre 2.300 del gennaio di un anno fa). Quello di 1.600 posti vuoti nel Sai è un dato rilevante, trattandosi di un sistema che a regime dovrebbe risultare sempre saturo. Come è rilevante il fatto che i posti vuoti, oltre che nel Sai ordinario, sono presenti anche nei progetti dedicati al “disagio mentale e all’assistenza sanitaria specialistica e prolungata” (Dm-Ds), cioè quelli messi a disposizione dei più vulnerabili. Su un totale di 751 posti attivi, sempre a ottobre 2022, solo 598 erano occupati con una disponibilità di oltre 140 posti.

    Mancano le richieste? Tutt’altro, diversi operatori dell’accoglienza sentiti da Altreconomia raccontano altro rispetto all’inserimento nel sistema Sai. Ma il dato delle richieste effettuate e rimaste inevase dagli operatori non è purtroppo quantificabile. Il Servizio centrale, che gestisce il Sai in seno al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno, ci ha risposto infatti che il numero di richieste di inserimento non è nella disponibilità degli uffici. “Un paradosso. Con quale criterio le persone vengono inserite? -si chiede Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) di Trieste e membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione-. Mancano procedure standard e criteri di accesso al sistema che permettano di definire un procedimento che abbia le remote sembianze di quello amministrativo. Il minimo sarebbe la registrazione della richiesta e una risposta, positiva o negativa che sia. Se non è possibile avere il numero delle segnalazioni, invece, il tutto sembra lasciato al caso. Assomigliando di più a una sorta di sistema privato, non tenuto necessariamente a rispondere a logiche di equità, alimentato però da risorse pubbliche”. Anche la “popolazione” di coloro che a oggi occupano il sistema Sai è un dato rilevante.

    Nel 2022 il 24% di chi è stato accolto è richiedente asilo, il 25% titolare di status di rifugiato, il 18% un minore non accompagnato, il 4% è titolare di un documento per “casi speciali”, il 4% per motivi familiari e così via. “Un grosso contenitore che ci racconta di come i servizi sociali territoriali ‘usino’ il Sai per collocare persone di cui non vogliono occuparsi”, sottolinea ancora Schiavone. Il numero di cittadini ucraini presenti nel sistema è relativamente basso: a novembre 2022 circa 3.100, il 14% del totale.

    La disponibilità di posti nel Sai aggiunge un tassello in più rispetto a quanto ricostruito nell’inchiesta pubblicata nel dicembre 2022 su Altreconomia. Concentrandoci sul sistema dei Cas abbiamo raccontato come, nel periodo tra gennaio e giugno dello scorso anno, ai richiedenti asilo che provenivano dalla rotta balcanica venisse negato l’inserimento nei centri nonostante la disponibilità di posti su tutto il territorio nazionale (stimati in circa 9mila). Centinaia di persone dormivano in strada. La “scusa” da parte delle prefetture, allora, era l’assenza di posti, ufficialmente, e “ufficiosamente” una quota di “riserva” da tenere per chi proveniva dagli sbarchi. Abbiamo così chiesto i dati aggiornati al ministero dell’Interno (qui i dati integrali) anche in relazione alla comunicazione del 5 dicembre 2022 con cui, sempre il Dipartimento per le libertà civili, dichiarava di sospendere i trasferimenti per il regolamento di Dublino a causa della “mancanza di posti in accoglienza”.

    I dati aggiornati ottenuti dimostrano che ancora a luglio 2022, nonostante in diversi territori si lamentasse una mancanza di posti, le disponibilità c’erano: quasi 4mila se si considerano i “posti disponibili”, più di 7.600 se si prende in considerazione la differenza tra i “posti in convenzione”, sempre forniti dal ministero, e le presenze. Diversi operatori che operano all’interno dei Centri non hanno saputo fornire una spiegazione di questa differenza così ampia. A prescindere da quale dato si prenda in considerazione, la forbice diminuisce fino ad arrivare, a novembre 2022, rispettivamente a 1.311 disponibilità e 2mila in convenzione. “La diminuzione dei posti è solo in parte spiegabile attraverso l’aumento delle presenze che passano da circa 59.500 a 67.500 in sei mesi -osserva Rossi-. C’è infatti un’incongruenza nei dati forniti da Roma perché non ‘tornano’ rispetto a quanto si osserva sui territori”. Il direttore del Ciac prende come esempio quanto si verifica in Toscana: si passa da circa 2.800 nel primo semestre 2022 a 5.400 presenze nel secondo, stando ai dati forniti dal ministero ma a livello locale questo aumento si ferma a 3.500. Lo stesso succede in Emilia-Romagna: da 2.200 (gennaio-giugno) a 7mila (luglio-novembre), un dato che da indagini sul territorio si ferma a 4.800. “Questo potrebbe significare due cose: i dati erano ‘mal censiti’ prima di luglio, oppure non c’è uniformità nel contare le presenze e i posti disponibili. E quindi i dati raccolti dalle singole prefetture sono difformi rispetto a quelli inviati dal Servizio centrale”.

    A prescindere dalla incongruità dei dati, secondo Schiavone la “mancanza di programmazione è lampante ed evidente”. “Nell’estate il governo pur sapendo che il sistema si stava saturando non ha fatto nulla. Così dal 20% dei posti vuoti tenuti come ‘riserva’ si passa allo ‘zero’”. Uno zero che significa persone per molti giorni abbandonate per strada: da Torino a Trieste passando per Ancona, Parma e Milano. Una “scusa” -l’assenza di posti- non prevista a livello normativo, dato che la legge costringe le istituzioni ad attivare soluzioni d’emergenza per collocare immediatamente le persone in accoglienza. Infatti le pronunce dei giudici chiamati ad esprimersi sul tema -numerose nelle ultime settimane- specificano l’obbligo delle amministrazioni di fornire accoglienza ai richiedenti asilo che formalizzano la propria richiesta in questura. Non a caso il Tribunale di Bologna, a metà gennaio 2023, ha dato torto alla questura e alla prefettura di Parma imponendogli di garantire l’accesso alla richiesta d’asilo e ai centri di accoglienza.

    Un altro tassello fondamentale continua a essere la mancanza di trasferimenti sul territorio nazionale. A Trieste, sul confine orientale, per esempio, l’alto numero di persone presenti in città nasce anche dall’assenza di ricollocamenti dei richiedenti asilo in altre città. Ritorna quanto detto precedentemente: durante la prima fase della nostra inchiesta abbiamo raccontato come gli uffici territoriali del governo più volte rispondevano informalmente a chi chiedeva l’inserimento nei Cas di “tenere liberi” i posti per chi arrivava via mare (o via terra, da altre città). La prefettura di Bolzano ha citato sotto questo aspetto il “Piano nazionale di accoglienza” elaborato dal ministero dell’Interno come “documento” che chiariva quante persone sarebbero state trasferite nei centri di sua competenza. Questo piano è previsto dalla normativa (il decreto legislativo 142 del 2015 che regola la materia), di cui abbiamo chiesto conto al dipartimento competente. Ci è stato risposto che “le quote vengono di volta in volta ripartite tra le diverse prefetture anche in base ai posti disponibili”. Altro che programmazione: il Piano formalmente non esiste. “O il ministero non programma affatto, oppure non vuole dire pubblicamente quali criteri segue. In entrambi i casi è molto grave: non c’è una politica di redistribuzione o un sistema di progressivo riempimento. Il sistema tiene posti liberi per mesi e poi si satura in breve tempo. Significa, tra l’altro, non ottimizzare neanche le risorse disponibili”, sottolinea Schiavone.

    Sia sul sistema dei Cas sia sul Sai si registrano quindi scarsa trasparenza e una gestione carente a livello centrale. “Non avere una mappatura, un controllo di gestione è ben più grave che non riuscire a mettere in convenzione nuovi posti con le prefetture. I dati non sono stabili, difficilmente leggibili e ci raccontano dell’immobilità politica sul tema. Nessuno vuole portare a regime alcun sistema di accoglienza”. Intanto, le persone, aspettano al freddo. E il governo può ripetere il ritornello della saturazione e dell’invasione.

    https://altreconomia.it/scarsa-programmazione-posti-vuoti-e-persone-al-freddo-cosi-ai-migranti-
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  • À Paris, les associations bataillent pour ouvrir le centre d’accueil « Ukraine » à tous les exilés | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/france/231222/paris-les-associations-bataillent-pour-ouvrir-le-centre-d-accueil-ukraine-

    « Les inégalités ne concernent pas que l’hébergement, pointe un autre travailleur du centre, qui compte une centaine de places disponibles chaque soir en moyenne. Il y a aussi la question de l’accessibilité au droit de manière générale, puisque pour les Ukrainiens, tout est à disposition à leur arrivée ici. » Les réfugié·es d’Ukraine obtiendraient, poursuit-il, leur couverture maladie et autres droits « en deux semaines ».

    « On observe une politique de “fast-pass” quand on nous a toujours dit qu’il était impossible de donner un titre de séjour et d’ouvrir les droits à la Sécurité sociale pour tout le monde. »

    L’employé dénonce également des températures très basses sous le chapiteau réservé aux Ukrainiens, qui auraient déjà conduit à réorienter des personnes vers d’autres structures d’hébergement. « On s’échine à chauffer un centre qui est très mal isolé. C’est évidemment mieux que la rue mais certaines nuits, ça reste compliqué à cause du froid. Sans compter les dépenses d’énergie inutiles dans le contexte que l’on connaît. »

    Selon nos informations, du « gaspillage alimentaire » aurait aussi été observé, notamment le week-end, lorsque le centre est géré par l’association Coallia. En semaine, les surplus de nourriture seraient « redistribués » à des associations parisiennes pour éviter de « jeter », ont confirmé plusieurs sources. « De manière générale, tout gâchis alimentaire est dommageable. Ça l’est encore plus quand la structure accueillante est à moitié pleine », déplore l’une d’elles.

  • Inchiesta sull’accoglienza selettiva: chi arriva in Italia via terra resta fuori

    Nel nostro Paese centinaia di richiedenti asilo sono rimasti in strada a fronte di almeno 5mila posti vuoti nei Centri di accoglienza. Il Viminale li avrebbe tenuti come “riserva” per gli sbarchi. Ma è una prassi illegittima.

    Nur, 25enne originario del Sud del Pakistan, è arrivato a Torino a metà giugno 2022 dopo un viaggio durato più di due anni lungo la “rotta balcanica”. Si presenta subito in questura per chiedere asilo: prova una, due, tre volte ma i funzionari continuano a chiedergli illegittimamente il domicilio in cui vive. Nur non ce l’ha perché dorme per strada. L’appuntamento, che dopo giorni riesce finalmente a ottenere, è fissato per l’inizio di agosto. Va in questura e appena uscito, con il documento che “formalizza” la sua domanda, si presenta in prefettura per chiedere accoglienza ma si trova davanti un muro. “Non ci sono posti disponibili”, gli risponde la funzionaria.

    “È difficile dirlo ma sono stato fortunato -ci racconta una volta entrato in un Centro di accoglienza (Cas) prefettizio tre mesi e mezzo dopo il suo arrivo-. Alcune persone hanno aspettato molti più mesi di me. Qui nessuno ci rispetta”. Da Torino a Trieste, passando per Roma, Firenze, Milano e Parma centinaia di richiedenti asilo provenienti dalla “rotta balcanica”, con l’inverno alle porte, dormono per strada. Le prefetture lamentano da mesi una “critica mancanza di posti” ma i dati ottenuti da Altreconomia sembrano fotografare una situazione differente. A fine giugno 2022, nonostante su diversi territori la mancata accoglienza fosse già un fenomeno diffuso, c’erano più di 5mila posti vuoti “sparsi” nei Cas di tutta Italia. Una stima al ribasso perché riguarda il 55% del totale. “I dati ci dicono che il sistema d’accoglienza ha tenuto persone per strada mentre aveva posti liberi. È illegittimo così come scrivere che ‘non c’è posto’: la normativa prevede l’obbligo di accoglienza di ogni persona dal momento della sua manifestazione di volontà di chiedere protezione”, spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste (Ics). 

    Dalle risposte ottenute da 67 prefetture su 103 totali, infatti, emerge come il sistema dei Cas non sia mai andato sotto pressione. Di sicuro fino al 30 giugno 2022 quando, a fronte di quasi 25mila posti nei centri, riferiti solamente alla capienza indicata dagli uffici che hanno risposto, ce n’erano appunto più di 5mila vuoti. Una tendenza che, grazie all’elaborazione dei dati realizzata in collaborazione con Michele Rossi, direttore del Centro immigrazione asilo e cooperazione internazionale (Ciac) di Parma e dottore di ricerca in Psicologia sociale, emerge anche nel 2021. “Analizzando le dinamiche tra posti e presenze, la rete in media risulta occupata, sia nel 2021 sia nel 2022, al 77% della capienza e la ‘riserva’ del 20% non corrisponde al quinto d’obbligo dei contratti -commenta Rossi-. Sono posti disponibili ma inutilizzati anche di fronte a situazioni locali notoriamente sotto pressione. Con riferimento al campione analizzato sono circa 5mila, se proiettati per l’intera rete porta a una stima di 9-10mila posti vuoti a livello nazionale”. 

    Il lavoro di inchiesta si è scontrato in generale con una marcata opacità del sistema: l’elaborazione dei dati è stata complessa per scarsa omogeneità nelle informazioni fornite e soprattutto per la mancanza delle risposte di alcuni centri nevralgici (Roma, Reggio Emilia, Trieste tra le altre). La prefettura di Milano (e non solo) ci ha risposto per due volte, invece, che non era possibile fornire i dati perché si trovava “a fronteggiare l’emergenza sbarchi”. Eppure, anche dal ministero dell’Interno le indicazioni date dagli uffici territoriali sembrano essere state chiare: Genova e Palermo hanno richiesto un parere al Viminale proprio lamentando un presunto “eccessivo carico di lavoro” per dare seguito alla richiesta. Ma meno di due settimane dopo ci hanno fornito i dati: da Roma, evidentemente, hanno ricordato che la trasparenza non è un esercizio di stile.

    Dai dati ottenuti le tendenze ricostruite mettono in discussione la capacità del sistema -in termini di presenze, posti disponibili e capienza- di adattarsi in seguito a due eventi che avrebbero dovuto “scuoterlo”. Quello dell’agosto 2021 con la caduta di Kabul nelle mani dei Talebani e il conseguente aumento del numero di persone che ha cercato protezione in Europa, e quello del febbraio 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina. Per Rossi è la “radiografia di un sistema che fallisce: non si ridimensiona in funzione del bisogno, non è flessibile e non garantisce tempestività nell’accoglienza. Le caratteristiche con cui si legittima il suo sovradimensionamento rispetto al sistema ordinario non trovano la minima conferma alla riprova dei dati”.

    Un paradosso. Il decreto 142 del 2015 che disciplina il funzionamento dei Cas, infatti, sottolinea come queste strutture debbano essere utilizzate in caso di “arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti asilo” al fine di sopperire alla mancanza di posti in quelle ordinarie o nei servizi predisposti dagli enti locali. Ma per affrontare l’accoglienza delle 120mila persone ucraine arrivate in meno di due mesi (a metà novembre circa 170mila), il governo italiano è dovuto correre ai ripari. L’ha fatto prevedendo un “terzo canale” di accoglienza diffusa gestito dalla Protezione civile. Nell’aprile 2022 è stato pubblicato un bando che, in meno di dieci giorni, ha intercettato 26mila posti su tutto il territorio nazionale incontrando grande disponibilità da parte del Terzo settore capace di coinvolgere società civile ed enti locali. “La risposta di fronte a questa disponibilità è stata minima e tardiva dissipando un enorme potenziale di sviluppo del sistema pubblico, mentre molte prefetture negavano l’accesso ai richiedenti affermando di dover destinare posti all’emergenza sbarchi. Qualcosa non torna”, sottolinea Rossi.

    Diversi operatori attivi nel settore dell’accoglienza hanno raccontato come la principale “scusa” addotta dalle prefetture fosse l’assenza di posti effettivi perché era necessario riservare alcune quote alle persone per le “emergenze” legate agli sbarchi sulle coste italiane. “Una buona programmazione imporrebbe al ministero di allestire più posti di accoglienza rispetto alle necessità e solo in questo senso riservare posti per gli sbarchi può essere corretto -sottolinea Schiavone-. Non lo è invece lasciare dei posti liberi con persone che dormono per strada: la legge prevede che non vi siano distinzioni tra i richiedenti asilo in base alla loro modalità di arrivo, via terra o via mare”.

    Dai dati raccolti non è stato possibile stimare il tempo medio di attesa di inserimento nei centri di chi arriva via terra. Diversi hanno ammesso però i ritardi: si va dalle due settimane di Alessandria, ai 12 giorni di Aosta, fino a Forlì che segnala un tempo medio di 30 giorni. Grosseto ha scritto che i tempi di attesa dipendono “dalle condizioni soggettive del migrante” così come Firenze che ha ammesso che “dipende dai posti disponibili in Cas”. Anche Bergamo ha implicitamente dichiarato una “selezione” sottolineando che “le persone in condizioni di fragilità e i nuclei familiari vengono accolti immediatamente”. In generale dalle 39 risposte arrivate su questo punto il 46% dichiara che l’ingresso è immediato, senza però distinguere tra chi arriva via mare e chi via terra.

    I dati raccolti si fermano a giugno 2022 e a metà novembre 2022 centinaia di persone continuano a dormire per strada. A Trieste, anche a causa dei mancati trasferimenti su altri territori, la situazione è drammatica. Così la “strategia” dell’amministrazione sembra quella di “forzare la mano”, revocando le misure di accoglienza per svuotare i centri. L’avvocata Caterina Bove, del foro di Trieste e socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, ha impugnato una revoca dell’accoglienza notificata a metà novembre a sette richiedenti asilo ospitati in un centro a Gradisca d’Isonzo allontanati da lì per aver acceso un fornelletto elettrico e aver provocato un “cortocircuito del sensore antincendio”. Il Tar del Friuli-Venezia Giulia le ha dato ragione “annullando i provvedimenti impugnati” e riconoscendo un risarcimento del danno “nella misura di cento euro a ricorrente”. “La violazione delle regole non può fondare la revoca delle misure di accoglienza, lo ha chiarito con due sentenze la Corte di giustizia dell’Ue. Invece più di 20 persone sono state allontanate nonostante fosse ormai tarda sera”, osserva Bove. Nonostante la sentenza del Tar, quando va in stampa la rivista, la prefettura non ha ancora riaccolto le persone per una mancanza di posti. 

    Durante un’informativa al Senato del 16 novembre il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha sottolineato la presenza di 100mila persone nei centri di accoglienza spiegando che la “saturazione dei posti disponibili” è legata alla “criticità nel reperimento di nuove soluzioni alloggiative”. Secondo il ministro nel 2022 sarebbero state concluse 570 procedure di gara per contrattualizzare oltre 66mila posti: 76 di queste sono andate deserte con i posti messi a contratto che sono stati il 57% del totale programmato (37mila). I dati al giugno 2022 non confermano questa tendenza. “Quel che è certo è che l’accoglienza alle condizioni del ministero è diventata impossibile a causa di una sproporzionata riduzione dei costi che ha scoraggiato le associazioni che vogliono realizzare servizi di qualità -sottolinea Schiavone-. Il campo è rimasto aperto solo alle speculazioni di enti, spesso dichiaratamente profit, che gestiscono strutture parcheggio con bassissimi standard”.

    Il ministro ha poi lamentato l’aumento del 56% delle richieste d’asilo: un dato che però, in termini di pressione sul sistema d’accoglienza, va analizzato sia in termini assoluti (sono poco meno di 70mila) sia in relazione al numero di decisioni delle Commissioni territoriali che valutano la domanda. Anche questo dato è in aumento del 27% e quindi rispetto ai Cas, che accolgono fino a quando la persona non riceve l’esito, il maggior numero di sbarchi incide relativamente. “I casi sono due: o le prefetture non forniscono i dati adeguati oppure il ministero ha chiaro dove ci sono i posti, dov’è il bisogno, ma non agisce. E pubblicamente racconta la favola della saturazione”, conclude Schiavone. 

    Anche il dato delle revoche dell’accoglienza è un altro indicatore interessante. In alcune province il numero delle persone inserite nel 2022 è quasi pari al numero di persone che sono state “revocate”. È il caso di Torino (582 inseriti, contro 578 revoche), Agrigento (604 contro 527), Trapani (518 contro 357), Palermo (555 ingressi, 301 revoche): in sintesi, in questi territori, per ogni persona che è entrata un’altra abbandonava la struttura e liberava un posto. Allargando lo sguardo a livello nazionale le revoche sono il 44% delle presenze totali nel 2021 (7.340 su 16.635) e il 29% nel 2022 ma riferite solamente al primo semestre. “Anche questo dato sembrerebbe confermare una costante tensione nel mantenere ‘posti riservati’ senza ampliare il sistema e senza ruotare le presenze sui posti disponibili -conclude Rossi-. Questa dinamica, se confermata, fa sorgere interrogativi ineludibili: come funziona l’accesso? Chi seleziona e sulla base di quali criteri gli ingressi? Un sistema pubblico non può essere soggetto a tale aleatorietà”. Dagli sbarchi selettivi all’accoglienza per pochi, d’altronde, il passo è breve.

    https://altreconomia.it/inchiesta-sullaccoglienza-selettiva-chi-arriva-in-italia-via-terra-rest
    #hébergement #Italie #sélection #places_réservés #asile #migrations #réfugiés #Méditerranée #Balkans #statistiques #chiffres #SDF #accueil_sélectif

  • Les espaces publics, un impensé du #Grand_Paris ?
    https://metropolitiques.eu/Les-espaces-publics-un-impense-du-Grand-Paris.html

    Alors que les espaces publics sont relativement absents des débats sur l’aménagement de la région capitale, cet essai appelle à faire du #Grand_Paris_Express un levier pour transformer conjointement espaces publics et #mobilités dans la profondeur des territoires. Souvent réduits à des enjeux locaux ou techniques, les espaces publics sont un impensé des débats sur l’aménagement du Grand Paris. Les rues, les boulevards et les places demeurent majoritairement modelés pour l’automobile, laissant peu #Essais

    / #temps, #conception, Grand Paris Express, Grand Paris, mobilité, #espace_public

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met-enon-fleury-maillot-trevelo.pdf

  • Du vin, de la bière, un héritage colonial et un mécano fiscal

    En poussant la porte d’un caviste Nicolas, peu de clients savent qu’ils pénètrent dans une enseigne du groupe Castel, une multinationale qui s’est im- posée comme le premier négociant français de vin, troisième sur le marché international. À la tête de l’entreprise, la très discrète famille Castel compte parmi les dix premières fortunes hexagonales. Mais ce champion vinicole est aussi – et surtout – un vieil empire françafricain de la bière et des boissons gazeuses.

    Note sur : Survie : De l’Afrique aux places offshore
    L’empire Castel brasse de l’or

    https://entreleslignesentrelesmots.blog/2021/07/12/du-vin-de-la-biere-un-heritage-colonial-et-un-mecano-fi

    #castel #afrique

  • (néo-)municipalisme et humanisme

    Message aux seenthisien·nes...

    Je vais animer un atelier avec des étudiant·es de master en urbanisme autour du #municipalisme et de l’#humanisme...

    Un thème qui est relativement nouveau pour moi...

    Je suis donc preneuse de vos suggestions, surtout bibliographiques sur ce thème...

    J’ai déjà quelques éléments, mais je suis sure que votre bibliothèque est plus riche que la mienne :-)

    #néo-municipalisme #ressources_pédagogiques #municipalisme

    • Tout dépend quelle tradition du municipalisme : liberal, libertaire, socialiste, communalisme ou inter-municipalisme ? cf https://m.uneseuleplanete.org/Qu-est-ce-que-le-municipalisme. D’un point de vue historique "Municipalités de tous pays, unissez vous ! L’Union Internationale des Villes ou l’Internationale municipale(1913-1940),
      Renaud Payre, Pierre-Yves Saunier : https://halshs.archives-ouvertes.fr/halshs-00002762/document

    • Ok ! Je me suis permis de le préciser car comme le municipalisme a eu tendance à devenir un nouveau buzzword, on oublie parfois que ces stratégies politiques ont eu longues histoires qui ne se résume pas à la pensée de Murray Bookchin (même si sa pensée continue de beaucoup nous inspirer) !

    • @monolecte ça sera sous forme d’atelier, et pas de cours... mais il devrait y avoir un temps fort de présentation/discussion organisé par les étudiant·es lors de la Biennale des villes en transition (premier weekend d’avril, à Grenoble et distanciel) :-)

    • Du coup, en train de lire...

      Guide du municipalisme. Pour une ville citoyenne, apaisée, ouverte

      De plus en plus, nos villes sont devenues le lieu où sévissent la spéculation, les exclusions de toutes sortes et la ségrégation sociale. Pourtant, de l’Espagne aux États-Unis et à l’Afrique du Sud, en passant par le Chili, le Rojava syrien, la Serbie, la Pologne ou la France, des groupes renversent cette logique et inventent une nouvelle manière de vivre ensemble. Ce mouvement de démocratie radicale, qui s’ancre au niveau local mais se connecte au monde, place les citoyens au centre des décisions publiques et de la sauvegarde de l’intérêt général. Il réintroduit la démocratie directe en s’appuyant sur des valeurs sociales, féministes, écologiques et solidaires pour ouvrir le champ politique et en faire un espace d’émancipation et de transformation.

      Le municipalisme s’impose comme une alternative politique aux traditionnelles formes d’organisation et de pouvoir fondées sur la verticalité, la centralisation et le patriarcat. Ce guide est le fruit de la collaboration de plus de 140 maires, conseillers municipaux et militants du monde entier, tous investis dans le mouvement municipaliste mondial.

      Coordonné par la Commission internationale de Barcelona En Comú, il présente :

      – les bases théoriques du municipalisme et le rôle qu’il peut jouer, notamment dans la féminisation de la politique et la lutte contre l’extrême droite  ;

      – les outils pour préparer une candidature municipaliste, développer un programme participatif, rédiger un code éthique ou financer une campagne politique  ;

      – des exemples de politiques de transformation mises en œuvre dans des municipalités du monde entier en matière de logement, d’espace public ou de démocratie participative  ;

      – un répertoire des 50 principales plateformes municipales dans le monde.

      https://www.eclm.fr/livre/guide-du-municipalisme

    • POLICY ROUNDTABLE 17 RADICAL DEMOCRACY IN THE CITY COUNCIL

      Debate on the challenges, limits and opportunities of participatory procedures to develop real democracy at the local level.

      Speakers

      Elvira Vallés, Zaragoza City Council
      Bernardo Gutiérrez, MediaLab Prado, Madrid
      Gala Pin, Councilor for Participation and Districts, Barcelona City Council
      Brad Lander, Deputy Leader for Policy, New York City Council
      Áurea Carolina de Freitas, Councilor, Belo Horizonte City Council

      http://2017.fearlesscities.com/radical-democracy-in-the-city-council

      https://www.youtube.com/watch?v=xm7xOTsKpK8&feature=youtu.be

      #démocratie_radicale

    • Un #MOOC sur le municipalisme
      https://nos-communes.fr/actualites/mooc-sur-le-municipalisme

      Quelques captures d’écran :

      #Jonathan_Durand_Folco :

      « Dans [le] contexte [actuel] de crises et de revendications, c’est comme si il y avait une intuition qui est le fait que pour reconstruire la démocratie, on devait commencer à se réapproprier l’#espace_public comme tel et par la suite non seulement occuper des #places mais aussi à occuper les institutions. On pourrait dire que le relai organique de ces mouvements par la suite sera d’aller voir au plus près des conseils municipaux pour essayer de transformer les institutions de l’intérieur. Pour essayer de non seulement gouverner autrement, mais de pouvoir s’auto-gouverner et avec un certain relai revendications pour essayer de changer les choses par la suite »

      #Corinne_Morel_Darleux sur les limites du niveau local :

      « La #proximité dans un village ou dans une petite ville notamment est aussi source de #conflits, de #promiscuité, elle est aussi source de blocages politiques. Il faut les prendre en compte et ne pas sacraliser le local »

      #Magali_Fricaudet : Municipalisme et droit à la ville

      Les 4 caractéristiques du municipalisme :
      – la #radicalité_démocratique —> « comment est-ce qu’on gouverne en obéissant », comment est-ce qu’on applique la #démocratie_directe des #assemblées, mais aussi des mécanismes de contrôle de l’exercice du pouvoir, soutenir l’#expertise_citoyenne, travailler sur un #code_éthique des élus pour contrôler leur mandat
      – la #féminisation de la politique —> féminiser la politique c’est aussi changer l’approche de la politique et remettre en cause, par la pratique, le #patriarcat et ses valeurs (#compétitivité, exercice d’un #pouvoir basé sur le culture du chef et l’#autorité), c’est faire de la politique en écoutant
      – la #transition_écologique (#relocalisation_de_l'économie, les #remunicipalisations), comment changer le #paradigme_économique à partir du #local, contribution à la relocalisation, encourager l’#agriculture_urbaine et la gestion des #biens_communs
      – les #droits et les droits dans leur #universalité —> c’est la question des #migrants, quand on parle de #droits_universels on parle de #droits_pour_tous. Référence au #document_local_d'identité qui donne droit à toustes aux #droits_essentiels, aux équipements publics
      #universalité_des_droits —> « on gouverne pour les gens et par les droits ». Il s’agit de partir des droits et pas de la « machine qui prend en charge les gens »

    • "Collectivités locales, reprendre la main, c’est possible !"

      Le nouveau rapport de l’AITEC « Collectivités locales, reprendre la main, c’est possible ! Politiques publiques de #transition démocratique et écologique : #résistances et #alternatives locales à la libéralisation » se fonde sur une enquête approfondie menée en 2017 auprès d’élu-e-s, d’agents territoriaux, et d’acteur-trice-s du monde associatif. Il met en avant des politiques publiques locales alternatives, plus démocratiques, plus justes et plus durables, à rebours de la libéralisation des marchés, du tout-privé et d’une économie hors-sol.

      L’aspiration modeste est de dresser un paysage non exhaustif des contraintes réglementaires que rencontrent les collectivités locales progressistes pour porter des politiques publiques locales de transition démocratique et écologique. Ce rapport propose des pistes pour saisir les opportunités permettant de créer un “écosystème” d’alternatives afin de renouveler ou inventer des formes de gouvernance locale plus démocratiques, justes et durables.

      Les politiques néolibérales d’austérité et de libéralisation des échanges commerciaux et financiers ont poussé dans le sens d’une transposition des règles du marché dans la sphère publique. Elles placent les grandes entreprises, souvent transnationales et fortes de moyens techniques et financiers importants, en partenaires idéaux des pouvoirs publics. Ces politiques participent de l’assèchement des systèmes de solidarités publics et de l’asphyxie de l’économie de proximité : remise en cause de l’universalité des services publics, difficultés de relocalisation de l’économie, gestion comptable déshumanisée des politiques publiques, etc. Elles étouffent les possibilités de développer les politiques nécessaires pour répondre aux défis sociaux et environnementaux auxquels nous faisons face localement et globalement.

      Pour autant, ces contraintes n’éliment pas la motivation de certaines collectivités à faire émerger tout un panel de solutions pour contre-carrer les ambitions de lucrativité et d’accaparement portées par les tenants de la doxa néolibérale. Trois entrées d’alternatives ont pu être identifiées :

      1. Premièrement, il s’agit de (re)démocratiser des services publics : remunicipaliser les services publics, investir dans des sociétés coopératives d’intérêt général (SCIC), ne pas s’enfermer dans des contrats de partenariats publics-privés etc. Cela permet de pouvoir garder la main publique sur les services et donc le contrôle des dépenses et des orientations, d’inclure les citoyen-ne-s dans les processus de contrôle et de décision, et d’orienter les (ré)investissements pour l’amélioration et l’accessibilité du service ;

      2. Deuxièmement, il s’agit d’aller vers une commande publique responsable : privilégier les achats publics locaux en prenant en compte les notions de cycle de vie ou de circuit-court, bien connaître l’offre territoriale pour adapter la demande publique aux capacités des TPE/PME et entreprises de l’économie sociale et solidaire (ESS), etc. Cela permet de prendre en compte l’impact social et environnemental de l’achat public tout en relocalisant l’économie et en soutenant les acteurs socio-économiques locaux ;

      3. Troisièmement, il s’agit de travailler avec et pour le tissu socio-économique du territoire : structurer l’offre des acteur-trice-s économiques locaux (familiaux, artisanaux, agricoles ou éthiques), faciliter l’accès au foncier et aux équipements publics pour les acteur-trice-s de l’ESS, soutenir des initiatives de coopératives citoyennes (d’habitant-e-s, d’énergies renouvelables, etc.), etc. Cela renforce l’offre locale face aux grands groupes, tout en allant vers une (re)démocratisation des rapports socio-économiques locaux.

      https://aitec.reseau-ipam.org/spip.php?article1663

      #rapport #AITEC

    • Le « municipalisme libertaire » de Bookchin : un chemin vers la reconquête démocratique ?

      Débat entre #Pinar_Selek, sociologue et militante féministe, et #Aurélien_Bernier, essayiste et défenseur de la démondialisation. Tous deux discutent des thèses de Murray Bookchin concernant le « #communalisme », et des expériences qu’elle nourrissent.

      Citation de Bookchin pour commencer le débat :

      https://www.youtube.com/watch?v=ejksnPBJVtU

    • Agir ici et maintenant. Penser l’#écologie_sociale de Murray Bookchin

      L’effondrement qui vient n’est pas seulement celui des humains et de leur milieu, mais bien celui du capitalisme par nature prédateur et sans limites. Historiquement désencastré du social et nourri par l’exploitation et la marchandisation des personnes, il étend désormais son emprise sur toute la planète et sur tous les domaines du vivant. C’est en se désengageant d’un constat fataliste et culpabilisant que nous retrouverons une puissance d’agir ici et maintenant. Quoi de mieux, pour cela, que de relire Murray Bookchin et d’appréhender toutes les expérimentations et pratiques qui se développent après lui, aujourd’hui, autour de nous ?

      Floréal M. Romero dresse ici le portrait du fondateur de l’écologie sociale et du municipalisme libertaire. Il retrace son histoire, son cheminement critique et politique. De l’Espagne au Rojava, en passant par le Chiapas, l’auteur propose, à partir d’exemples concrets, des manières d’élaborer la convergence des luttes et des alternatives pour faire germer un nouvel imaginaire comme puissance anonyme et collective.

      Essai autant que manifeste, ce livre est une analyse personnelle et singulière de la pensée de Bookchin qui trouve une résonance bien au-delà de l’expérience de l’auteur. Il apporte des conseils pratiques pour sortir du capitalisme et ne pas se résigner face à l’effondrement qui vient.

      https://www.editionsducommun.org/products/agir-ici-et-maintenant-floreal-m-romero

    • L’illusion localiste. L’arnaque de la décentralisation dans un monde globalisé

      Rapprocher le pouvoir du citoyen , instaurer la « démocratie participative, soutenir le développement territorial et l’économie « de proximité…

      A l’approche des élections municipales, on assiste à une surenchère des mots d’ordre localistes et décentralisateurs. On les retrouve dans tous les discours politiques, de la gauche à l’extrème-droite en passant par la droite et les socio-démocrates.

      La participation des habitants et les promesses de changement « par en bas » sont dans tous les programmes. Les démarches et les listes « citoyennes », plus ou moins instrumentalisées par les partis traditionnels, se multiplient. Même le président de la République s’affiche localiste : en réponse à la crise de « Gilets jaunes », il promet une nouvelle phase de décentralisation pour la deuxième moitié de son mandat. A en croire nos élites, c’est donc par l’action municipale ou régionale que les problèmes économiques, sociaux, environnementaux ou démocratiques pourraient être résolus...

      Ce livre s’attache à déconstruire ce mensonge. Car la mondialisation, elle, ne rapproche pas le pouvoir du citoyen, mais l’éloigne considérablement. Les décisions économiques sont concentrées aux mains des grandes firmes et de leurs actionnaires, et s’imposent aux peuples par delà les principes démocratiques. Les droits sociaux sont en régression permanente à cause de la concurrence internationale. Et la classe politique n’en finit plus de se discréditer en obéissant aux injonctions des marchés.

      La « mondialisation heureuse » ayant fait long feu, c’est le « localisme heureux » qu’à présent on cherche à nous vendre. Le terroir et les circuits courts pour compenser les ravages de la mondialisation. Le régionalisme pour masquer le désengagement de l’État, la destruction ou la privatisation des services publics.

      Cette « illusion localiste » doit être dénoncée. Non pas que l’action de proximité soit négligeable, car s’engager dans la vie locale est tout à fait nécessaire. Mais pour sortir du piège de la mondialisation, cela ne suffit pas. Plutôt que d’opposer l’action locale et celle de l’État, mieux vaudrait les articuler.

      http://www.editions-utopia.org/2019/11/04/lillusion-localiste

    • Un séminaire en ligne (et en italien) avec #Iolanda_Bianchi, qui a écrit une thèse de doctorat sur Barcelone:

      Città, beni comuni, partecipazione: Esiste il modello Barcellona? Seminario online di formazione con Iolanda Bianchi

      PRESENTAZIONE
      Barcellona è stata al centro delle mobilitazioni popolari contro le politiche di austerità che si svilupparono in Spagna a partire dal 2011 (il cosiddetto movimento degli indignados - M-15). Nel 2015 fu eletta al governo della città una coalizione civica «Barcelona en comú» guidata da Ada Colau, un’attivista per il diritto all’abitare. Da allora il governo locale si è impegnato a mettere in campo politiche volte a correggere le distorsioni dello sviluppo urbano di segno neoliberale, sui temi della regolamentazione degli alloggi turistici (a partire dal piano PEUAT del 2017), della vivibilità dello spazio pubblico (la pedonalizzazione di isolati urbani, i cosiddetti «superblocchi» o «supermanzanas»), della gestione dei beni comuni. Queste iniziative sono state segnate da successi come da fallimenti. Alla luce di questa esperienza, in questo seminario discutiamo del cosiddetto «modello Barcellona» di neo-municipalismo, in connessione con le esperienze italiane di campagne per il diritto alla città e all’abitare in cui noi in prima persona siamo stati coinvolti in questi anni.

      IOLANDA BIANCHI è una studiosa di processi politici in una dimensione urbana. Ha conseguito il dottorato di ricerca in urbanistica e politiche pubbliche presso l’Università Autonoma di Barcellona e l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. La sua ricerca si focalizza sulle forme alternative di soddisfacimento dei bisogni e dei diritti primari alla scala urbana, osservate dal punto di vista delle collaborazioni tra società civile e istituzioni pubbliche. Attualmente è ricercatrice post-dottorato «Juan de la Cierva» presso l’IGOP, l’Istituto di Governo e Politica Pubblica dell’Università Autonoma di Barcellona. E’ autrice di numerosi articoli scientifici in riviste internazionali e italiane.

      https://www.facebook.com/events/409241853637821

    • Hello,

      La Fondation Roi Baudouin a initié pas mal de travaux, réflexions, projets visant à développer au niveau communal des analyses et/ou des projets qu’on pourrait qualifier « d’inspiré.e.s par un certain humanisme ». Je discerne un lien avec les études en urbanisme et je trouve (un peu « vite fait »...) par exemple 2 documents qui me semble potentiellement inscrits dans la liaison entre les thématiques Commune/Humanisme/Urbanisme (mais les « ismes », dont le municipal, sont sous-jacents, non spécifiquement étudiés). Cela pourrait être utile par exemple comme fond documentaire pour un tel atelier ? ;-)

      – La pauvreté des enfants au niveau local : cartographie communale
      https://www.kbs-frb.be/fr/cartographie_pauvreteinfantile
      – Communes Alzheimer Admis – Un guide pour vous inspirer
      https://www.kbs-frb.be/fr/Virtual-Library/2011/295136

  • Quand les villes suent

    Le changement climatique provoque de plus en plus de vagues de #chaleur. Ce sont les villes qui en souffrent le plus. En été, elles enregistrent davantage de jours de #canicule et de #nuits_tropicales. Pour se rafraîchir, elles misent sur la #végétalisation, la multiplication des #plans_d’eau ouverts et une bonne #circulation_de_l’air dans les quartiers.

    En été, lorsqu’il fait chaud, les jets d’eau de la Place fédérale de Berne ravissent autant les touristes que les locaux. Devant les grandes façades de grès du Palais fédéral et de la Banque nationale, des enfants s’ébattent entre les 26 jets d’eau qui représentent chacun un canton suisse. Trempés jusqu’aux os, ils s’allongent à plat ventre sur le sol en pierre chaud pour se faire sécher. Aux terrasses des restaurants, au bord de l’Aar et aux stands de glaces, on respire une atmosphère méditerranéenne. Et c’est un fait : du point de vue climatique, les villes de l’hémisphère nord deviennent de plus en plus méridionales. Une étude de chercheurs de l’ETH de Zurich, qui ont analysé les changements climatiques prévus ces 30 prochaines années pour 520 capitales, le démontre. En 2050, le climat de Berne pourrait être le même que celui de Milan aujourd’hui. Londres lorgnera du côté de Barcelone, Stockholm de Budapest et Madrid de Marrakech.

    En Suisse, les derniers scénarios climatiques prévoient une hausse des températures estivales de 0,9 à 2,5 degrés Celsius. Par conséquent, le nombre de jours de canicule (dès 30°C) continuera d’augmenter, mettant à rude épreuve surtout les villes, qui deviennent de véritables #îlots_de_chaleur. Enfilades de maisons sans #ombre et #places_asphaltées réchauffent fortement l’atmosphère. La nuit, l’air refroidit peu, et les « nuits tropicales » (lorsque le thermomètre ne descend pas au-dessous de 20°C) se multiplient.

    Des #arbres plutôt que des #climatiseurs

    En Suisse, le chef-lieu du canton du Valais, #Sion, est particulièrement touché par la hausse de la chaleur : dans aucune autre ville suisse, les températures n’ont autant grimpé au cours de ces 20 dernières années. Le nombre de jours de canicule est passé de 45 à 70 depuis 1984. Il y a six ans, le chef-lieu a lancé un projet pilote soutenu par la Confédération, « #AcclimataSion ». Le but est de mieux adapter l’#aménagement_urbain et les normes de construction au changement climatique, explique Lionel Tudisco, urbaniste de la ville. Le slogan qui accompagne le projet est le suivant : « Du vert et du bleu plutôt que du gris ». Dans l’espace public, on mise sur une végétalisation accrue. « Un arbre livre la même fraîcheur que cinq climatiseurs », souligne l’urbaniste. À l’ombre des arbres, on enregistre en journée jusqu’à sept degrés de moins qu’aux alentours. Le « bleu » est fourni à la ville par les cours d’eau, fontaines, lacs ou fossés humides : « Ils créent des microclimats et réduisent les écarts de température ». Ces mesures visent non seulement à réduire la chaleur en ville, mais aussi à atténuer le risque d’inondations. Car le changement climatique accroît aussi la fréquence des fortes précipitations. Les Sédunois l’ont constaté en août 2018, quand un orage violent a noyé les rues basses de la ville en quelques instants.

    La réalisation phare d’« AcclimataSion » est le réaménagement du cours Roger Bonvin, une promenade située sur la tranchée couverte de l’autoroute. Avant, cet espace public de 500 mètres de long était peu attrayant et, avec ses surfaces imperméabilisées, il était livré sans protection aux rayons du soleil. Aujourd’hui, 700 arbres dispensent de l’ombre et des promeneurs flânent entre les îlots végétalisés. Une plage de sable et un vaste espace où s’asseoir et se coucher créent une atmosphère de vacances. Des enfants barbotent dans des bassins.

    #Points_chauds sur les #cartes_climatiques

    Dans les grandes villes suisses aussi, le changement climatique préoccupe les autorités. La ville de #Zurich s’attend à ce que le nombre de jours de canicule passe de 20 à 44, et veut agir. « Notre but est d’éviter la #surchauffe sur tout le territoire urbain », explique Christine Bächtiger, cheffe du département municipal de la protection de l’environnement et de la santé. Concrètement, il s’agit de réduire autant que possible les surfaces goudronnées ou imperméabilisées d’une autre manière. Car celles-ci absorbent les rayons du soleil et réchauffent les alentours. La ville souhaite aussi décharger certains quartiers où la densité d’habitants est forte et où vivent de nombreux seniors, particulièrement sensibles à la chaleur. On envisage d’étoffer le réseau de chemins menant à des parcs ou à des quartiers moins chargés. Par rapport à d’autres villes, Zurich jouit d’une topographie favorable : trois quarts des zones habitées urbaines bénéficient d’un air frais qui arrive la nuit par les collines boisées entourant la ville. Pour préserver cette #climatisation_naturelle, il faut conserver des axes de #circulation_de_l’air lorsqu’on construit ou limiter la hauteur des immeubles.

    La ville de #Bâle a elle aussi repéré les îlots de chaleur, les espaces verts rafraîchissants et les flux d’air sur une #carte_climatique. Des urbanistes et des architectes ont utilisé ces données pour construire le quartier d’#Erlenmatt, par exemple. Là, les bâtiments ont été orientés de manière à ne pas couper l’arrivée d’air frais de la vallée de Wiesental. De grands #espaces_ouverts et des rues avec des zones de verdure façonnent également l’image de ce nouveau quartier urbain construit selon des principes durables.

    La ville de #Genève, quant à elle, mise sur une végétalisation accrue. Les autorités ont arrêté l’été dernier un plan stratégique faisant de la végétalisation un instrument à part entière du Plan directeur communal. Dans le cadre du programme « #urbanature » déjà, les jardiniers municipaux avaient planté près de 1200 arbres et 1,7 million de plantes dans l’#espace_public. La municipalité juge par ailleurs qu’un changement de paradigme est nécessaire du côté de la #mobilité, avec une diminution du #trafic_individuel_motorisé. Ainsi, des cours intérieures aujourd’hui utilisées comme places de parc pourraient être végétalisées. Les arbres apportent de la fraîcheur en ville, et ils absorbent les particules fines qui se trouvent dans l’air.

    La ville de #Berne compte elle aussi agir à différents niveaux. Ainsi, les #revêtements ne seront plus imperméabilisés que si cela s’avère indispensable pour le trafic ou l’accès des personnes handicapées. Tandis qu’un revêtement en #asphalte sèche immédiatement après la pluie, l’eau s’infiltre dans les surfaces en #gravier et peut s’évaporer plus tard. « Nous devons repenser tout le #circuit_de_l’eau », déclare Christoph Schärer, directeur de Stadtgrün Bern. L’#eau ne doit plus être guidée au plus vite vers les #canalisations, mais rester sur place pour contribuer au #refroidissement_de_l’air par l’#évaporation ou pour assurer l’#irrigation. « Chaque mètre carré non imperméabilisé est un mètre carré gagné. » À Berne, les nombreuses #fontaines et #cours_d’eau participent aussi au refroidissement de l’atmosphère, comme le Stadtbach qui coule à ciel ouvert dans la vieille ville.

    En ce qui concerne la végétalisation, Berne adopte de plus en plus de variétés d’arbres « exotiques » adaptés au changement climatique. Certains arbres indigènes comme le tilleul à grandes feuilles ou l’érable sycomore supportent mal la chaleur et la sécheresse. Alors on plante par exemple des #chênes_chevelus. Ce feuillu originaire du sud de l’Europe supporte le chaud, mais aussi les hivers froids et les gelées printanières tardives qui ont été fréquentes ces dernières années. Christoph Schärer ne parlerait donc pas d’une « #méditerranéisation », du moins pas en ce qui concerne les arbres.

    https://www.revue.ch/fr/editions/2020/03/detail/news/detail/News/quand-les-villes-suent
    #urban_matter #changement_climatique #villes

    • Acclimatasion

      Le climat se réchauffe et les événements extrêmes se multiplient. Avec ACCLIMATASION la Ville de Sion s’est engagée pour la réalisation d’aménagements urbains qui donnent la priorité à la végétation et au cycle de l’eau. Objectif ? Diminuer la chaleur, favoriser la biodiversité et limiter les risques d’inondation.

      La Confédération réagit face au changement climatique. De 2014 à 2016, elle a soutenu une trentaine de projets pilotes avec pour but d’identifier les meilleures pistes pour limiter les dommages et maintenir la qualité de vie des habitants.

      La Ville de Sion, en partenariat avec la Fondation pour le développement durable des régions de montagne, a été choisie pour mener à bien un projet lié à l’adaptation des villes au changement climatique, c’est ACCLIMATASION.

      Au terme du projet pilote une série de résultats concrets sont visibles, en particulier :

      Des aménagements exemplaires ont été réalisés par la Ville dans le cadre du projet pilote et se poursuivent aujourd’hui par la réalisation de nouveaux projets. Le réaménagement du Cours Roger Bonvin réalisé en 2016 est le projet phare d’ACCLIMATASION.
      Des projets privés ont été soutenus pour montrer des solutions concrètes et inciter les propriétaires à s’engager. Le guide de recommandations à l’attention des propriétaires privés capitalise les actions concrètes que tout un chacun peut entreprendre.
      Diverses actions ont été menées pour sensibiliser la population, échanger avec les professionnels et mobiliser les responsables politiques : événements de lancement et de capitalisation, expositions et concours grand public, interventions dans les écoles.
      Les outils d’aménagement du territoire évoluent progressivement, de même que les compétences des services communaux et des professionnels. En particulier, les principes d’un aménagement urbain adapté au changement climatique ont été consolidés dans des lignes directrices adoptées par l’exécutif de la Ville en 2017 et applicables à l’ensemble des espaces publics.

      https://www.youtube.com/watch?v=PUI9YsWfT7o

      https://www.sion.ch/acclimatasion

    • #urbannature

      Ce programme, lancé par le Conseiller administratif Guillaume Barazzone, repense les espaces publics bétonnés en les rendant plus conviviaux et en les végétalisant. À terme, il a comme ambition de favoriser la biodiversité en milieu urbain. Le programme urbanature rend Genève encore plus verte ; il est mis en place et réalisé par le Service des espaces verts (SEVE).

      Le programme
      Corps de texte

      Il comprend trois niveaux d’action : des réalisations temporaires et saisonnières (fin mai à fin octobre), des aménagements durables, ainsi que l’élaboration d’un plan stratégique de végétalisation.

      Chaque année, des réalisations temporaires permettent d’amener de la végétation rapidement dans différents secteurs de la Ville. Depuis 2015, des projets durables de végétalisation sont réalisés afin d’étendre le maillage vert encore essentiellement constitué par les parcs. Le plan stratégique de végétalisation de la Ville sert à décrire les différentes actions concrètes à mener à long terme pour rendre Genève encore plus verte.

      https://vimeo.com/97531194

      https://www.urbanature.ch

    • Ô comme je pense que le mépris des dirigeants bordelais pour la nature en ville vient du fait qu’ils ont des jardins (la ville est très verte entre les murs des particuliers) et qu’ils passent l’été au cap Ferret. Qu’ils n’ont donc pas besoin de ces arbres qui pour d’autres sont vitaux.

  • Les « gilets jaunes », une spécificité française ?
    15 DÉCEMBRE 2018
    PAR LUDOVIC LAMANT ET AMÉLIE POINSSOT

    Des mouvements protestataires ont éclos en Europe depuis dix ans, en dehors des appareils politiques traditionnels. La révolte des « gilets jaunes » a-t-elle des points communs avec celle des Italiens, des Grecs ou des partisans du Brexit au Royaume-Uni ?

    La colère des « gilets jaunes » a débordé au-delà des frontières françaises. Plusieurs manifestations ont déjà eu lieu à Bruxelles, accompagnées de blocages de dépôts de carburants, tandis que des indépendantistes catalans issus des Comités de défense de la République (CDR, à gauche), vêtus de jaune, appellent au blocage de leur région le 21 décembre. Des gilets jaunes ont aussi fait leur apparition dans des manifestations en Pologne, en Serbie et au Monténégro. En Allemagne, c’est l’extrême droite qui a appelé à défiler en gilet jaune.

    Ici et là sur le continent, de nombreuses colères ont éclaté ces dernières années. Des Indignés espagnols aux Grecs frappés par l’austérité, des partisans du Brexit en 2016 aux membres du Mouvement Cinq Étoiles (M5S) en Italie, ces colères ont-elles des points communs avec la révolte populaire qui secoue la France depuis novembre ?

    Sans figer la réalité d’un mouvement français aux contours encore en évolution, et donc difficiles à cerner, deux phénomènes semblent jouer à plein : le rejet du monde politique traditionnel et des élites en place et, en même temps, une forte volonté d’être associé aux décisions politiques de son pays. Tentative de comparaison.

    2009, Italie : le M5S, un mouvement emmené par un nouveau leader
    Comme les gilets jaunes, les Cinq Étoiles se forment sur un rejet du système de représentation traditionnel. C’est même un prérequis pour rejoindre le mouvement italien quand il se crée formellement, à partir de 2009 : il faut n’avoir milité dans aucune organisation auparavant. « Les gilets jaunes et les Cinq Étoiles des débuts sont tous les deux contre la médiation politique ordinaire, explique le chercheur en sciences politiques spécialiste de l’Italie Christophe Bouillaud. Ils traduisent la faillite complète de la représentation politique et de la représentation syndicale telles qu’elles existaient. »

    À l’origine du M5S, on trouve également, comme chez les gilets jaunes, des groupes locaux ancrés dans un territoire. En Italie, ces résistances sont d’abord tournées contre des projets imposés par le pouvoir, potentiellement destructeurs pour l’environnement (ligne ferroviaire Lyon-Turin en val de Suse ; terminal gazier dans les Pouilles par exemple) ; elles trouvent leur débouché dans les Cinq Étoiles.

    Autre similitude : « Dans les deux pays, ces mouvements sont la conséquence de 30 ans de politique économique qui ne fonctionne pas, relève Christophe Bouillaud. Les classes moyennes s’en sortent de moins en moins bien. Et cette politique économique a été défendue par les médias dominants. » De fait, des deux côtés, on observe une méfiance vis-à-vis des médias traditionnels.

    « Il y a deux moteurs communs, renchérit Jérémy Dousson, auteur de l’ouvrage Un populisme à l’italienne ? Comprendre le Mouvement 5 Étoiles (éditions Les Petits Matins). L’idée qu’on n’est pas représenté et qu’il faut reprendre la main : les politiques ne font pas ce qu’ils ont promis parce qu’ils sont soit incompétents soit corrompus. Et l’idée que le travail ne paie pas. C’est pourquoi ce ne sont pas, à mon sens, des mouvements apolitiques mais des mouvements hyperpolitiques. » Les deux s’auto-organisent à travers une utilisation importante d’Internet et des réseaux sociaux. Dans le cas des gilets jaunes, cela se fait entre pairs, tandis que chez les Cinq Étoiles, cela se fait suivant la direction donnée par un leadership que tous reconnaissent.

    Les deux mouvements font ainsi apparaître des personnes qui n’ont jamais occupé l’espace public auparavant : des gens qui n’ont pas de vécu militant, mais aussi des femmes, dans une proportion beaucoup plus importante que dans les formes habituelles de protestation. Si le M5S aujourd’hui au pouvoir est un parti dirigé par des hommes, il a fait de cette question de la représentation des femmes un objectif politique et il s’est efforcé de présenter aux élections des listes presque paritaires, dans un pays où l’accès aux fonctions politiques est resté profondément inégalitaire. À la Chambre des députés aujourd’hui, 94 des 220 parlementaires du M5S sont des femmes. C’est le taux de représentation féminine le plus élevé de tous les groupes parlementaires italiens.

    La temporalité introduit toutefois une différence de taille entre le mouvement français et son parallèle transalpin : difficile de mettre sur un même plan d’analyse un mouvement né il y a plus de dix ans, qui s’est structuré depuis en parti politique et codirige aujourd’hui l’exécutif italien, et un mouvement qui n’a pas plus de quatre semaines d’existence. Surtout, le M5S a été, dès le départ, emmené par le comique Beppe Grillo. C’est ce qui lui a permis de se structurer, d’élaborer la transition, de résoudre les conflits. Les gilets jaunes en sont loin. « Pour l’heure, le mouvement français est complètement éclaté entre différents groupes locaux, observe Christophe Bouillaud. Sans leader, il est très peu probable qu’il parvienne à se structurer. »

    Enfin, d’un côté et de l’autre des Alpes, les mots d’ordre ne sont pas les mêmes. Au départ des Cinq Étoiles, les principales revendications portent sur la corruption du personnel politique et la préservation de l’environnement. Ce n’est que dans un deuxième temps, à partir de 2013, que le mouvement s’intéresse au pouvoir d’achat des Italiens – un positionnement qui lui ouvre la voie du succès électoral en Italie du Sud. Parallèlement, il se détourne des questions environnementales et aujourd’hui, à la tête d’un gouvernement de coalition avec l’extrême droite, le M5S a complètement abandonné ce volet.

    2011, Grèce : le mouvement des places, de la mobilisation à la solidarité
    Grèce, printemps 2011. Au pic de la crise, alors qu’un deuxième mémorandum d’austérité se prépare, la place Syntagma (place du Parlement) d’Athènes, ainsi que de nombreuses places dans différents quartiers de la métropole, est occupée. Nuit et jour, pendant plusieurs semaines, la population manifeste et se réunit en assemblées générales, à l’image des Indignés espagnols, sur un mode autogestionnaire et se revendiquant de la démocratie directe.

    Pour le professeur de philosophie politique Stathis Kouvélakis qui, à l’époque, a observé de près la mobilisation en Grèce et a pu suivre les récentes manifestations des gilets jaunes à Paris, il y a des similarités évidentes. Tout d’abord, ce sont deux mouvements sociaux qui éclatent en réaction à des politiques néolibérales destructrices : d’un côté, les mémorandums d’austérité et de l’autre, le « Blitzkrieg des réformes Macron ».

    Ils ont aussi un caractère fortement « national », avec l’omniprésence, dans les deux cas, de drapeaux nationaux. Et de la même manière, ils sont dans le rejet du système politique existant et font apparaître de nouvelles personnes dans l’espace public – des femmes, des non-syndiqués, des gens a priori peu politisés, une population d’origine sociale modeste –, jusqu’alors sous-représentées.

    Ceci dit, sociologiquement, les mouvements restent différents. « La catégorie des précaires diplômés du supérieur n’est pas trop représentée chez les gilets jaunes, relève Stathis Kouvélakis. Or elle était très présente à Syntagma. De manière générale, la participation au mouvement était beaucoup plus massive en Grèce, où la politique économique avait touché tout le monde, alors que la base sociale des gilets jaunes est plus restreinte, plus populaire, même si elle bénéficie d’un large soutien de l’opinion publique. » En Grèce, en 2011, la population faisait bloc contre les mémorandums d’austérité et l’ingérence de la Troïka, mais aussi contre une classe politique corrompue et un système clientéliste à bout de souffle.

    Autre différence : « En Grèce, l’épicentre du mouvement était dans la capitale. Il était inexistant hors des grands centres urbains, alors qu’en France, on a affaire essentiellement à un mouvement de la périphérie, Paris étant “pris” par des manifestants qui viennent d’ailleurs », note Kouvélakis.

    Le mouvement des places a-t-il eu un débouché politique en Grèce ? Sur Syntagma, le mouvement a rapidement reflué. Mais dans les quartiers, ces assemblées populaires se sont transformées en cercles locaux d’entraide, tandis que le désastre économique se poursuivait. Soupes populaires, soutien scolaire, dispensaires de soins gratuits… : de nombreux collectifs se sont montés, dont beaucoup sont toujours en activité aujourd’hui. Alors parti d’opposition de gauche radicale, Syriza a contribué au financement du réseau Solidarité pour tous, qui rassemblait nombre de ces initiatives. Mais ces assemblées de quartier ont fonctionné de manière autonome, a fortiori après l’arrivée au pouvoir de Syriza, en 2015. Cette mobilisation dans les quartiers a par ailleurs insufflé une solidarité non négligeable dans une société longtemps marquée par l’individualisme et le consumérisme.

    « Il est trop tôt pour dire ce que peuvent donner politiquement les gilets jaunes, estime Stathis Kouvélakis. Mais il est certain qu’un mouvement profond comme cela va provoquer des déplacements électoraux. De la même manière que les Grecs mobilisés en 2011, les membres des gilets jaunes se positionnent électoralement sur un axe qui va de l’extrême gauche à l’extrême droite. À Syntagma, c’était même visible dans l’espace : le haut de la place était occupé par des gens au discours nationaliste, voire d’extrême droite, tandis que le bas de la place était dominé par un discours de gauche. »

    Différentes organisations de la gauche grecque assurent alors une présence discrète, réalisant un important travail de terrain pour empêcher l’infiltration du mouvement par la droite radicale et les néonazis d’Aube dorée. « Mais à l’époque, en Grèce, tout le monde avait conscience du fait qu’un séisme s’était produit dans le système politique bipartisan et que plus rien ne serait pareil. La gauche radicale était confiante, elle sentait déjà que le vent tournait de son côté. Rien de tel ici : le paysage politique est beaucoup plus éclaté et le poids de l’extrême droite en France bien plus important. La situation est encore très fluide. »

    2016, Royaume-Uni : le Brexit révèle la colère des « left behinds »
    À première vue, les situations sont très distinctes : le mouvement des gilets français a surgi du terrain, quand la mobilisation des opposants au Brexit répond d’abord à la stratégie de partis traditionnels. Si les gilets jaunes dévoilent la crise structurelle des partis français, les Brexiters ont d’abord consacré la victoire du UKIP, la formation lancée par Nigel Farage, et des plateformes pour le Leave emmenées par des politiques professionnels.

    « Le Brexit ne s’est pas joué dans la rue, une colère s’est exprimée, qui n’a pas débouché sur un mouvement social », relève Geoffrey Pleyers, sociologue des mouvements sociaux à l’université de Louvain, en Belgique. Mais il relève, des Brexiters et du M5S italien jusqu’aux gilets jaunes, « une même remise en cause de la division droite-gauche, par des acteurs qui décident de former des coalitions stratégiques différentes ». « Ces gens font de la politique ensemble, mais ne parlent pas entre eux de politique traditionnelle, de tel ou tel parti », poursuit-il.

    La structure d’âge est assez comparable : si l’on s’appuie sur les premiers résultats d’une enquête de chercheurs relayée par Le Monde, les gilets jaunes ont en moyenne 45 ans, au-dessus de l’âge moyen de la population française, tandis que les plus jeunes, au Royaume-Uni, avaient voté massivement, à 75 %, pour le maintien dans l’Union europénne. Les gilets jaunes paraissent former un mouvement plutôt mixte, avec des femmes issues de milieux populaires aux avant-postes. En 2016, 53 % des Brexiters de 25 à 49 ans étaient des femmes (la proportion s’inversait pour les plus de 50 ans, avec plus de 60 % d’hommes).

    « Le vote pour le Brexit a été le plus fort dans les anciennes terres industrielles du nord et de l’est de l’Angleterre. De la même façon, le Mouvement Cinq Étoiles en Italie est davantage ancré dans le Sud, qui est plus pauvre. Il y a bien une tendance de fond, liée à la politique économique menée en Europe, à un âge de croissance faible et de poussée des inégalités », avance Chris Bickerton, un politologue de Cambridge, qui fut l’un des porte-voix en 2016 d’un Brexit de gauche (un Lexit, contraction de left et de Brexit).

    Les deux soulèvements semblent dessiner une géographie comparable, avec un fossé net entre des centres-ville aisés et des espaces davantage délaissés (banlieues, périurbains, ruraux). L’Angleterre a voté pour le Leave, à l’exception de Londres ou de grandes villes comme Leeds. Le Pays de Galles s’est aussi prononcé pour le divorce, à rebrousse-poil de sa capitale, Cardiff, favorable au maintien. Quant aux gilets jaunes, c’est une mobilisation des oubliés, loin des centres urbains, avec des pôles multiples sur le territoire français.

    « Ce point commun aurait à voir avec un sentiment de ras-le-bol, de désenchantement, de la part de ceux qu’on a appelés, au Royaume-Uni, des left behinds [« laissés-pour-compte » – ndlr]. Il y a donc clairement une dimension économique partagée », poursuit-il, avant de nuancer : « Mais il me semble que la crise des gilets jaunes nous dit aussi beaucoup sur la présidence Macron et, en ce sens, reste très spécifique à la France. »

    2011, Espagne : la corruption politique, source de l’indignation Le mouvement des Indignés a surgi sur des centaines de places d’Espagne le 15 mai 2011, d’où son nom de code, le « 15-M ». Dans ses rangs, des étudiants du collectif Jeunesse sans avenir côtoyaient des militants du Droit au logement ou des activistes opposés à un équivalent espagnol de la loi Hadopi. Ce mouvement, qui refusait d’être étiqueté de droite ou de gauche, plaidait pour la fin des politiques d’austérité en Espagne, dénonçait la corruption de la vie politique et critiquait le mécanisme de représentation en politique, lui préférant la démocratie directe.

    Le 15-M a connu d’innombrables mues. Après l’occupation des places, jusqu’à septembre 2011, il s’est transformé en une série de mouvements sectoriels contre les coupes budgétaires (santé, éducation, etc.) ou les expulsions immobilières. À partir de 2014, certains ont basculé, optant pour la politique institutionnelle : c’est le lancement de Podemos, mais aussi des confluences citoyennes, qui ont remporté des mairies, dont Barcelone et Madrid. Aujourd’hui, l’esprit du 15-M se retrouve encore dans les mobilisations massives pour les droits des femmes et contre les violences sexistes (le mouvement du « 8-M »).

    L’indignation du 15-M a-t-elle à voir avec la colère des gilets jaunes ? Les deux mouvements s’inscrivent dans une logique d’occupation de l’espace public : la place en Espagne, le rond-point en France. Tous deux ont révélé au grand jour la crise des organisations politiques traditionnelles, des partis aux syndicats, qui se trouvent dépassés. Ils ont pointé du doigt les limites de la démocratie représentative (« Vous ne nous représentez pas », était l’un des slogans du 15-M à l’adresse des députés). Autre point commun : jusqu’à la création de Podemos, en janvier 2014, aucun leader charismatique n’a surgi du mouvement espagnol, qui revendiquait une organisation horizontale et une multitude de porte-parole, quitte à dérouter les médias du pays.

    Le mouvement espagnol s’est également vite trouvé critiqué par des responsables politiques traditionnels, en raison du flou de ses revendications, souvent hétéroclites, d’une place à l’autre du pays. Là encore, c’est un point commun avec les gilets français, dont la nature semble évoluer selon son implantation géographique (avec une présence plus forte, semble-t-il, de militants du Rassemblement national dans le Nord et le Sud-Est, par exemple). Enfin, des deux côtés des Pyrénées, ils ont fait l’objet d’une répression policière musclée.
    La comparaison s’arrête là. Le 15-M s’est construit autour d’un discours très marqué contre la corruption en politique, que l’on ne retrouve pas dans le cas français. Inclusif, il n’a cessé de s’élargir à d’autres pans de la société frappés par la crise, au cours des premières semaines, jusqu’à l’été, quand les gilets jaunes, à ce stade, semblent davantage porter les revendications de milieux populaires malmenés par la politique économique du gouvernement français.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/151218/les-gilets-jaunes-une-specificite-francaise?onglet=full

    #giletsjaunes #gilets_jaunes #places #mouvement_des_places #brexit #italie #espagne
    #m5s#représentation#classes_moyennes#indignés#démocratie_directe#kouvélakis#macron#précaires#ukip#mouvements#giletsjaunes#gilets_jaunes#places#mouvement_des_places#brexit#italie#espagne

  • L’écart se creuse entre les besoins et les offres de places de réinstallation pour les réfugiés

    Le HCR, l’Agence des Nations Unies pour les réfugiés, s’est déclaré aujourd’hui préoccupé par l’écart croissant entre le nombre de réfugiés ayant besoin d’une réinstallation et les places offertes par les gouvernements à travers le monde.

    Dans son rapport 2019 sur les besoins prévus de réinstallation dans le monde (Projected Global Resettlement Needs 2019 report, en anglais) présenté à Genève lors de sa réunion annuelle sur le sujet, le HCR montre que le nombre de réfugiés en attente d’une solution dans des pays tiers atteindrait 1,4 million en 2019 selon les prévisions, tandis que le nombre de places de réinstallation dans le monde est tombé à seulement 75 000 en 2017. Sur la base de ces chiffres, il faudrait 18 ans pour que les réfugiés les plus vulnérables à travers le monde soient réinstallés.

    « Au Niger où je me trouvais la semaine dernière seulement, j’ai vu combien la réinstallation permet littéralement de sauver des vies et ce, grâce à un dispositif innovant qui permet d’évacuer vers le Niger des réfugiés libérés d’épouvantables conditions en Libye pour les réinstaller ensuite dans de nouveaux pays. Nous avons besoin de davantage de places de réinstallation pour que ce programme perdure et de voir dans tous les États une transposition massive de ce type d’objectif commun et de détermination afin de relever les défis qui se posent au monde aujourd’hui », a déclaré Filippo Grandi.

    L’augmentation des possibilités de réinstallation offertes aux réfugiés dans des pays tiers est l’un des objectifs clés d’une nouvelle approche globale des crises de réfugiés approuvée en septembre 2016 par les 193 États Membres des Nations Unies dans la Déclaration de New York pour les réfugiés et les migrants, ainsi que l’un des axes majeurs du nouveau Pacte mondial sur les réfugiés qui sera présenté à l’Assemblée générale des Nations Unies d’ici la fin 2018.

    « La réinstallation n’est pas seulement une essentielle bouée de sauvetage pour certains des individus les plus vulnérables de la planète, c’est aussi un moyen concret pour les gouvernements et les communautés de mieux partager la responsabilité de la crise mondiale des déplacements. Nous avons d’urgence besoin que de nouveaux pays viennent rejoindre les rangs des États de réinstallation et que ces derniers trouvent des moyens pour élargir leurs propres programmes », a encore déclaré Filippo Grandi.

    Trente-cinq pays font aujourd’hui partie du programme de réinstallation du HCR, contre 27 États en 2018. Selon le rapport, des réfugiés de 36 nationalités relevant de 65 opérations menées dans différents pays du monde ont aujourd’hui besoin d’une réinstallation. Les réfugiés originaires de Syrie et de République démocratique du Congo représentaient deux tiers des dossiers de réinstallation présentés par le HCR en 2017.

    Le HCR exhorte les pays à accueillir davantage de réfugiés de différents pays et opérations qui présentent d’impérieux besoins en matière de protection internationale et à s’engager à les accueillir durablement. À l’heure actuelle, seulement 14 des 25 États de réinstallation reçoivent des réfugiés provenant de plus de trois opérations de réinstallation. Le HCR appelle également les États à réserver au moins 10 % des places offertes aux cas graves et urgents présentés par le HCR.

    Plus de 250 délégués gouvernementaux et représentants d’ONG, d’universités, d’entreprises privées et de réfugiés participent aux consultations tripartites annuelles du HCR sur la réinstallation qui se tiennent cette semaine à Genève et constituent le premier forum sur les problèmes en matière de réinstallation à travers le monde.

    http://www.unhcr.org/fr/news/press/2018/6/5b32163ca/lecart-creuse-besoins-offres-places-reinstallation-refugies.html
    #réinstallation #asile #migrations #réfugiés #places_de_réinstallation #monde #statistiques #chiffres #monde #besoins

    #rapport :
    Projected Global Resettlement Needs 2019


    http://www.unhcr.org/5b28a7df4

    @_kg_ Tu peux montrer dans ton mémoire que la réinstallation... une solution pendant la crise indochinoise, aujourd’hui, ne marche plus ! Ce qui, aussi cause les problèmes de blocages dans les pays de transit.
    (regarde tout ce fil de discussion, sur la réinstallation)

    • What Next for Global Refugee Policy? Opportunities and Limits of Resettlement at Global, European and National Levels

      Only a small minority of refugees worldwide currently has access to resettlement programmes. In this present crisis in global refugee policy, resettlement is nonetheless a promising approach to dealing with refugee situations. The Policy Brief analyses the state of play as regards the resettlement system in Germany, Europe and at global level, as well as the development and implementation of alternative admission pathways such as humanitarian programmes and private sponsorship schemes. Based on this analysis, the Policy Brief discusses whether resettlement is an alternative or addition to territorial asylum and how alternative pathways can fit into the mix of available admission procedures, and it presents recommendations for action in regard to developing resettlement policy.

      https://www.svr-migration.de/en/publications/resettlement
      #Allemagne

    • The EU has started resettling refugees from Libya, but only 174 have made it to Europe in seven months

      Abdu is one who got stuck. A tall, lanky teenager, he spent nearly two years in smugglers’ warehouses and official Libyan detention centres. But he’s also one of the lucky ones. In February, he boarded a flight to Niger run (with EU support) by the UN’s refugee agency, UNHCR, to help some of those stranded in Libya reach Europe. Nearly 1,600 people have been evacuated on similiar flights, but, seven months on, only 174 have been resettled to Europe.

      https://www.irinnews.org/special-report/2018/06/26/destination-europe-evacuation

    • US Sets Refugee Admissions at Historic Low

      The United States will cap the number of refugee admissions in the coming year at 30,000, President Donald Trump announced Thursday, an anticipated move by his administration that refugee advocates had lobbied against in recent weeks.

      The refugee ceiling for the 2019 fiscal year will be the lowest in the history of the program, which in recent years saw 60,000 to nearly 90,000 refugees arrive in the country annually.

      “We are troubled by this decision to further limit America’s role in offering protection to those who need it most,” said Kay Bellor, vice president for programs at Lutheran Immigration and Refugee Service (LIRS), one of the leading resettlement agencies in the country. “The United States is capable of far more than this.”

      For three decades, the U.S. was the leading resettler of refugees the United Nations determined could not safely stay in their country of asylum, or return to their home country. Canada and Australia trailed at a sizable distance until Trump took office.

      He and his cabinet implemented a series of policy decisions that chipped away at the country’s refugee program, cutting the cap from 110,000 during the last year of President Barack Obama’s tenure, to 45,000 in 2018, and now to 30,000 for the fiscal year that began Oct. 1.

      Trump insisted that additional security measures were needed for refugees, and added extra vetting for those from certain countries. Since then, the number of arrivals dropped. In FY 2018, the U.S. accepted 22,491 refugees — less than half of the proposed ceiling.

      Evidence-based data does not support the idea that there is an increased security risk posed by refugees selected for resettlement to the U.S.

      Before the State Department announced its intent to resettle a maximum of 30,000 refugees this fiscal year, advocates lobbied lawmakers on Capitol Hill to push for 75,000.

      The required consultation between Congress and Secretary of State Mike Pompeo on Monday was unsuccessful in budging the Trump administration on the cap.

      The regional allocations for FY 2019, according to Thursday’s presidential determination, are:

      Africa — 11,000

      East Asia — 4,000

      Europe and Central Asia — 3,000

      Latin America/Caribbean — 3,000

      Near East/South Asia — 9,000

      https://www.voanews.com/a/us-sets-refugee-admissions-at-historic-low/4600218.html

  • #Guide du #Paris_colonial et des #banlieues

    #Rues, boulevards, avenues et #places, sans oublier collèges, #lycées, #statues et #monuments parisiens, sont autant de témoins de l’histoire et de la légende du colonialisme français.
    Alors qu’aux États-Unis, poussées par les manifestant-es, les statues des généraux esclavagistes s’apprêtent à quitter les rues pour gagner les musées, ce guide invite à une flânerie bien particulière sur le bitume parisien.
    Sur les quelque 5 000 artères et places parisiennes, elles sont plus de 200 à « parler colonial ». Qui se cachent derrière ces noms, pour la plupart inconnus de nos contemporains ? C’est ce que révèle ce #livre, attentif au fait que ces rues ont été baptisées ainsi pour faire la leçon au peuple de Paris et lui inculquer une certaine mémoire historique.
    On n’y retrouve pas uniquement les officiers ayant fait leurs classes « aux colonies ». Il y a aussi des « explorateurs » – souvent officiers de marine en « mission » –, des bâtisseurs, des ministres et des députés. On croise également des littérateurs, des savants, des industriels, des banquiers, des « aventuriers ».
    Laissons-nous guider, par exemple, dans le 12e arrondissement. Le regard se porte inévitablement sur le bâtiment de la Cité de l’histoire de l’immigration, l’ancien Musée des colonies construit en 1931 pour l’Exposition coloniale qui fut l’occasion d’honorer les agents du colonialisme et d’humilier ses victimes.
    Les alentours portent la marque de l’Empire colonial : rues et voies ont reçu le nom de ces « héros coloniaux » qui ont conquis à la pointe de l’épée des territoires immenses.
    Les alentours de l’École militaire sont également un lieu de mémoire très particulier, très « imprégné » de la culture coloniale.
    Dans le 16e, nous avons une avenue Bugeaud : Maréchal de France, gouverneur de l’Algérie, il pratique la terre brûlée et les « enfumades ». Il recommande d’incendier les villages, de détruire les récoltes et les troupeaux, « d’empêcher les Arabes de semer, de récolter, de pâturer ». Il faut, ordonne-t-il, « allez tous les ans leur brûler leurs récoltes », ou les « exterminer jusqu’au dernier ». S’ils se réfugient dans leurs cavernes, « fumez-les à outrance comme des renards ».
    Un peu partout, dispersées dans la capitale, on traverse des rues et des avenues dont les noms qui, tout en ayant l’apparence de la neutralité d’un guide touristique, sont autant de points de la cartographie coloniale : rues de Constantine, de Kabylie, de Tahiti, du Tonkin, du Dahomey, de Pondichéry, de la Guadeloupe… Toutes célèbrent des conquêtes et des rapines coloniales que rappellent la nomenclature des rues de Paris.
    Classés par arrondissement, les notices fournissent des éléments biographiques sur les personnages concernés, particulièrement sur leurs états de service dans les colonies. Des itinéraires de promenade sont proposés qui nous emmènent au travers des plaques bleues de nos rues en Guadeloupe et en Haïti, en Afrique, au Sahara, au Maroc, en Tunisie, en Algérie, en Nouvelle-Calédonie, en Indochine, à Tahiti, etc.

    Un livre qui se veut un outil pour un mouvement de décolonisation des cartographies des villes et qui propose un voyage (presque) immobile dans la mémoire coloniale de Paris.


    https://www.syllepse.net/lng_FR_srub_25_iprod_719-guide-du-paris-colonial-et-des-banlieues.html
    #colonialisme #toponymie

    cc @isskein

    • #Balade_décoloniale

      L’ensemble des noms de rues, places et avenues d’une ville comme Grenoble forme un système : le système ouvert qui dresse un tableau à la gloire d’une certaine histoire de la ville, de sa région et de la France. Ce « Panthéon urbain » construit discursivement et symboliquement un imaginaire urbain qui conforte un certain regard sur l’histoire, regard articulé à des notions comme « la grandeur de la France », « les grands hommes », « les grandes victoires de nos armées ». Toutes ces notions sont liées à des formes occultées de domination comme les guerres de conquête et le colonialisme, l’histoire du capitalisme et de l’hégémonie de la bourgeoisie, l’appropriation « scientifique » des savoir-faire populaires et des ressources naturelles.

      Afin de faire entendre une contre-histoire, l’histoire oubliée dans le récit historique des élites et divergente des formes académiques, nous avons organisé en partenariat avec Survie Isère, le FUIQP Grenoble, le CTNE « La balade Décoloniale ». Nous avons énoncé des non- dits de l’histoire, dénoncé des crimes et émis des contre-propositions pour remplacer le nom de certaines rues (ou apposer des plaques) : personnages ou événements décoloniaux, femmes, combattant-e-s pour l’égalité, non-blancs, petites gen-te-s…

      http://asso-contrevent.org/balade-decoloniale

  • Le genre urbain

    Derrière la modernité des modes de vie urbains dans les pays occidentaux, l’on serait tenté de penser que la présence des #femmes dans la ville et leurs pratiques spatiales ne diffèrent finalement pas ou peu de celles des hommes ou du moins qu’elles ont accès, si elles le souhaitent, aux différentes ressources de la vie urbaine. Or de nombreuses recherches révèlent que l’on a tendance à occulter les différences de sexe dans l’espace urbain et dans l’expérience que les femmes et les hommes en font. Ainsi, cette indifférenciation n’est qu’apparente et conduit le plus souvent à reproduire les représentations dominantes et des formes de hiérarchisation. Enfin, l’approche par le genre de l’urbain ne se limite pas – loin s’en faut – à la seule question des femmes dans l’espace public, comme en témoigne la diversité des thématiques abordées dans ce dossier.
    Ce numéro des Annales de la recherche urbaine vise donc à analyser les interrelations entre le genre et l’espace urbain, prises dans leurs différentes dimensions. Un premier résultat s’impose à la lecture de ce dossier : ces interrelations sont complexes et invitent à des lectures multicausales et fines des rapports sociaux dans l’espace urbain. Qu’il s’agisse des usages de l’espace, de sa perception ou de son mode de production, l’analyse des espaces urbains au prisme du genre revêt un intérêt (heuristique et pratique) indéniable. Ceci étant, les articles dévoilent comment le genre se combine avec de multiples autres variables (classe sociale, origine ethno-raciale, type d’espace urbain, capital social et culturel, etc.), rendant vaine toute lecture univoque ou simpliste. Aussi, il s’agit d’analyser et de comprendre les rapports sociaux de sexe tels qu’ils se déploient dans l’espace urbain, mais aussi de montrer en quoi l’espace urbain participe – ou pas – à la production et à la reproduction des rapports sociaux de sexe et des normes de genre. Au-delà de la seule description des inégalités, il est question de mettre en lumière les principes et les implications idéologiques, politiques et épistémologiques de cette catégorisation. Afin de rendre compte des logiques complexes qui articulent le genre et la ville, sont analysées une multiplicité de situations et de territoires, centraux ou périphériques, en France et ailleurs (Algérie, Brésil, Colombie, Japon).

    Interroger la vulnérabilité des femmes dans l’espace urbain

    À partir d’une ethnographie visuelle conduite à Medellín, Camilo León-Quijano décrit les contraintes et les formes de contrôle formels et informels (regards, sifflements, harcèlement de rue) qui se mettent en place pour orienter et contrôler les pratiques sociospatiales des femmes dans certains lieux de la ville, notamment les espaces verts ou les transports en commun. La photographie constitue un outil efficace pour rendre compte d’une expérience qui n’est pas toujours objectivée en tant que telle et pour comprendre le rapport genré des acteurs à l’espace. Marie Gilow et Pierre Lannoy, quant à eux, montrent comment les peurs féminines prennent corps dans certains lieux de passage, comment ce sentiment d’insécurité est amplifié par certaines caractéristiques situationnelles et configurations spatiales, qui peuvent susciter des angoisses du fait des impressions sensorielles qu’elles génèrent. Selon eux, outre les agressions sexistes, réelles ou redoutées, l’interprétation que les usagères opèrent de leur environnement tant physique que social révèle aussi les représentations que les femmes ont d’elles-mêmes, et l’intériorisation de l’idée d’une vulnérabilité spécifiquement féminine. Certaines politiques de rénovation urbaine peuvent donc avoir des effets significatifs sur le sentiment de sécurité et sur les usages de l’espace. Même si l’usage féminin des espaces publics urbains reste surtout utilitaire et fonctionnel, alors que les hommes l’utilisent pour y flâner, se rencontrer entre amis et discuter, l’organisation de festivités nocturnes et le réaménagement des parcs et jardins dans plusieurs quartiers de Batna en Algérie décrits par Farida Naceur permettent une (ré)appropriation progressive de ces espaces par les femmes et le développement de nouvelles pratiques urbaines émancipatrices. Pour sa part, Marine Maurin analyse comment les femmes sans abri limitent leur insécurité la nuit en développant des ressources et des stratégies qui vont au-delà du recours aux dispositifs d’assistance. Certaines de ces tactiques dites de « la débrouille » sont communes aux hommes dans la même situation, quand d’autres relèvent d’une adaptation aux contraintes et aux dispositions auxquelles leur sexe les assigne.
    L’introduction du genre dans les études urbaines ne dispense pas d’une réflexion sur la production des catégorisations et de normes de genre et de sexualité. Comme le rappelle l’article de synthèse de Marianne Blidon, le genre n’est pas synonyme de femmes et inclut des catégories comme les gays, les lesbiennes, les queers ou les personnes trans qui troublent la congruence entre sexe, genre et sexualité et questionnent les fondements de l’hétéronormativité des espaces urbains. L’expérience de l’insulte vécue par des lesbiennes interrogées par Sarah Nicaise met en évidence la manière dont sont mobilisés dans l’espace public les principes qui structurent l’ordre du genre et des sexualités quand des femmes ont une présentation de soi qui s’écarte de la norme. Entre gestion du stigmate, évitement et résistance, elle montre quelles sont les conditions sociales d’une opposition aux harcèlements sexué et sexuel qui s’exercent dans les villes. Deux facteurs semblent déterminants : d’une part les ressources détenues et mobilisables par ces femmes homosexuelles, et d’autre part la socialisation et l’appartenance à un collectif contestataire qui met à distance la violence du stigmate et aide à se prémunir de l’infériorisation qu’il génère.
    Ces différents articles nous invitent à réfléchir au sens et aux formes de la vulnérabilité sans la penser comme allant de soi. Ils invitent aussi à déplacer le regard de celles qui subissent le harcèlement de rue, ainsi que des politiques publiques.

    Produire du genre par la socialisation à la mobilité et la conception de dispositifs spatiaux

    À partir de l’exemple de la pratique du vélo, David Sayagh met en lumière des mécanismes comme l’évitement des prises de risque physique ou la possession d’un matériel garantissant une pratique apaisée. Ils conduisent en effet à des différenciations fortes entre les adolescents et les adolescentes et surtout, ils induisent des effets dans le rapport à l’espace et à la mobilité urbaine. Cette approche par les capabilités place les processus d’incorporation de dispositions sexuées au centre de l’analyse.
    Pour autant, si la socialisation à la mobilité joue un rôle dans la différenciation des pratiques urbaines et l’appropriation de l’espace public, ce n’est pas la seule dimension. Julian Devaux et Nicolas Oppenchaim montrent ainsi, à partir d’une comparaison entre commune rurale et commune de zone urbaine sensible, le poids des appartenances sociales et l’effet du lieu de résidence chez les adolescent.es. Les ressources sociales familiales, les stratégies éducatives parentales et la trajectoire scolaire sont déterminantes chez les ruraux, quel que soit leur sexe. Les effets de la stigmatisation et l’appartenance au groupe pèsent plus fortement chez les adolescents de milieu populaire vivant en Zus, de même que la réputation s’avère plus déterminante pour les adolescentes de ces quartiers. C’est d’ailleurs souvent le cas : l’argument du genre masque des enjeux de classe.
    Marion Tillous analyse les arguments qui ont prévalu pour justifier la mise à disposition de wagons de transport dédiés aux femmes à Tokyo et à São Paulo. Dans le premier cas, au début du XXe siècle, il s’agissait d’une demande bien accueillie des classes dominantes qui souhaitaient échapper à la proximité sociale. Dans le second, au début du XXIe siècle, la demande, moins audible et plus controversée, est exprimée par des femmes issues des classes laborieuses qui subissent mobilité contrainte, exploitation économique et harcèlement récurrent. Leur voix ne porte cependant pas et les organisations représentatives sont mises à l’écart des espaces de prise de décision. Or, faire entendre sa voix est déterminant pour favoriser la mise en œuvre de dispositifs de séparation ou inversement pour refuser des formes de mise à l’écart et de ségrégation.
    À partir de l’exemple de l’organisation de la prostitution à Campinas, Diana Helene montre le rôle des économies morales et des processus de catégorisation des identités féminines dans la structuration de l’espace urbain. Ici, la concentration et la relégation en périphérie de la ville des activités prostitutionnelles visent à préserver les femmes dites respectables et les familles du stigmate de « putain ». Des femmes plus âgées contestent toutefois cette mise à l’écart et revendiquent un droit à la centralité, au prix d’une certaine discrétion et d’une défense collective de leurs droits.

    Les politiques publiques à l’épreuve du genre

    On serait tenté là aussi de penser que les politiques publiques ont évolué et donnent une place comparable aux hommes et aux femmes dans la conception des projets, leur nature et leur destination. En effet, face aux injonctions internationales, le gender mainstreaming tend à s’imposer dans la production et la gouvernance urbaines sous différentes formes. En témoignent la signature de la Charte européenne des femmes dans la cité (1990) ou celle de l’Égalité entre les femmes et les hommes dans les politiques locales (2006), la mise en place d’observatoires de l’Égalité femmes/hommes, la parité dans les instances décisionnelles, l’attention en faveur de l’emploi de noms de femmes pour l’appellation des rues, la production de statistiques sexuées, mais aussi le développement de budgets sexués afin de vérifier qui bénéficie des investissements publics, ou encore le soutien de la collectivité à des associations de femmes. Comme l’analyse l’article de Lucile Biarrotte, ces politiques publiques dédiées à l’émancipation des femmes sont le fruit d’intenses échanges d’idées et de pratiques à toutes les échelles. Leur diffusion internationale se réalise souvent à partir d’initiatives locales présentées comme exemplaires. En ébaucher une vue d’ensemble et les mettre en écho permet de mesurer le chemin qu’il reste à parcourir notamment quand ces politiques se réduisent à quelques aménagements – ouverture de crèches, amélioration de l’éclairage public, élargissement des trottoirs pour permettre le passage des poussettes, réfection des trottoirs pour faciliter la marche avec des talons, réservation de places de parking repeintes en rose pour l’occasion dans des zones commerciales… –, qui une fois réalisés permettent de considérer que la case femme étant cochée, l’on est quitte des politiques d’égalité.
    En effet, rares sont les villes qui proposent une approche intégrée de ces questions, à l’image de la ville de Vienne, qui apparaît comme précurseur et fait figure de modèle. Claire Hancock et Marylène Lieber rappellent que cette intégration repose sur cinq fondements : l’utilisation d’une terminologie et d’un langage non sexistes, la collecte et le traitement de données sexuées, la valorisation de l’égal accès aux services municipaux, l’encouragement à une participation paritaire concernant les prises de décision, et la prise en compte d’un égal traitement comme base des politiques publiques. Plusieurs auteures s’accordent pour montrer qu’un des biais de ce rattrapage est parfois de considérer le genre comme une catégorie descriptive. Elles lui reprochent aussi de le réduire à la seule catégorie « femme », catégorie qui est souvent pensée au singulier et appréhendée de manière homogène, voire réifiée ou essentialisée. Pour ces raisons, le bilan de ces politiques n’est pas toujours à la hauteur des attentes en termes d’égalité.
    Si la mixité sociale figure parmi les credo maintes fois répétés sinon explicités des politiques urbaines, la mixité entre les hommes et les femmes demeure un impensé dans bien des cas, comme le soulignent nombre de chercheurs. Dans ces conditions, on peut s’interroger sur la manière dont l’organisation spatiale telle qu’elle est produite par les politiques d’aménagement prend en compte la question du genre, et en particulier les discriminations liées au sexe ou, au contraire, contribue à « assigner » des places à chacun, sans y prendre garde. À ce propos, Élise Vinet, Cynthia Cadel et Arnaud Beal questionnent les vertus de la mixité sociale, telle qu’elle est valorisée et développée actuellement dans nombre de quartiers d’habitat social français, et ses effets en termes de rapport sociaux de sexe. Bien souvent, cela se traduit par le régime de la coprésence, ce qui ne suffit pas à la réalisation d’objectifs souvent ambitieux en matière d’interactions sociales. Il convient donc, selon eux, de ne pas jouer la carte d’une catégorie d’habitants – les femmes des milieux populaires ou les classes moyennes – au détriment d’une autre – les hommes des milieux populaires ou plus largement les classes populaires –, mais de reconnaître la légitimité de tou.te.s les habitant.e.s à occuper l’espace résidentiel. Légitimité qui inclut également les jeunes hommes perçus comme « indésirables », ou plus largement pensés comme les « causes » des problèmes (sécuritaires, égalitaires, sociaux, etc.) relatifs à l’espace public, alors même qu’ils en sont les « révélateurs ».
    L’étude ethnographique conduite sur les plages urbaines de la zone sud de Rio par Claire Brisson va dans le même sens. Elle analyse ainsi les exemples de concordance entre masculinité racialisée prescrite dans et par les médias et masculinité de protestation de certains jeunes hommes noirs issus de milieux populaires. Elle montre que ces performances de la masculinité doivent être situées – inscrites dans un lieu –, car les masculinités sont ancrées physiquement et socialement dans l’espace. Les usages urbains de la plage révèlent donc une multiplicité d’identités qui ne s’accordent pas nécessairement les unes aux autres et qui imposent de ne pas réifier des catégorisations pouvant s’avérer stigmatisantes.
    Au final, le genre est un système de bicatégorisation hiérarchisée entre les sexes (hommes/femmes) et entre les valeurs et les représentations qui leur sont associées (masculin/féminin). Le genre est donc à la fois une construction sociale, un processus relationnel et un rapport de pouvoir qui s’intrique avec d’autres. Dans ces conditions, produire une analyse au prisme du genre ne doit pas s’accompagner d’une cécité à d’autres rapports de domination enfermant ainsi dans un faux dilemme entre antiracisme et antisexisme, pour reprendre le titre de l’article de Claire Hancock et Marylène Lieber. Ce dossier nous invite par conséquent à considérer les femmes – et les hommes – dans leur diversité, sans leur assigner de rôle a priori, mais également à s’assurer qu’elles – et ils – ne sont pas instrumentalisées à l’encontre d’autres publics. Dans cette perspective, la prise en compte du genre et son intégration aux politiques publiques devient un levier d’action qui peut rendre effectif le droit à la ville.

    Virginie Bathellier, Marianne Blidon,
    Marie-Flore Mattei, Bertrand Vallet
    Sommaire

    Marianne Blidon : Genre et ville, une réflexion à poursuivre

    Claire Hancock, Marylène Lieber : Refuser le faux dilemme entre antisexisme et antiracisme
    Penser la #ville_inclusive

    Lucile Biarrotte : Féminismes et aménagement : influences et ambiguïtés
    La diffusion internationale d’initiatives d’urbanisme dédiées à l’#émancipation
    des femmes

    Marie Gilow et Pierre Lannoy : L’#anxiété urbaine et ses espaces
    Expériences de femmes bruxelloises

    Julian Devaux et Nicolas Oppenchaim : La socialisation à la #mobilité n’est-elle qu’une question de genre ?
    L’exemple des adolescents de catégories populaires du rural et de zones urbaines sensibles

    Élise Vinet, Cynthia Cadel et Arnaud Beal : Ressentis stigmatiques et résistances de certains jeunes #hommes « indésirables »

    Sarah Nicaise : #Stigmatisation et pratiques urbaines
    Une expérience partagée par des femmes homosexuelles dans les espaces publics

    Marion Tillous : Des #voitures de #métro pour les femmes
    De #Tokyo à #São_Paulo, enjeux et controverses d’un #espace_réservé

    Claire Brisson : Masculinité(s) noire(s)
    Géographies d’un stigmate sur la #plage d’#Ipanema

    Farida Naceur : Des femmes dans l’#espace_public
    #Places et #jardins à #Batna

    Camilo León-Quijano : Une ethnographie visuelle du genre à #Medellín
    #Photographie et #pratiques_urbaines

    David Sayagh : Construction sociospatiale de capabilités sexuées aux pratiques urbaines du #vélo

    Marine Maurin : Femmes #sans-abri : vivre la ville la #nuit
    Représentations et pratiques

    Diana Helene : L’invention du #Jardim_Itatinga et la #ségrégation urbaine de la #prostitution


    http://www.annalesdelarechercheurbaine.fr/le-genre-urbain-r91.html
    #revue #genre #villes #urban_matter #aménagement_du_territoire #urbanisme #homosexualité #LGBT #féminisme

  • Revitaliser les commerces de centre-ville : en finir avec le « no #parking, no business »

    Les habitants souhaitent se garer au pied de chez eux mais ne veulent pas de la voiture en ville. De même, les commerçants souhaitent que l’on offre des places de stationnement dans les centres-ville – sans quoi leurs clients ne viendraient pas – mais plaident pour plus de mobilités douces dans les centres urbains.


    https://theconversation.com/revitaliser-les-commerces-de-centre-ville-en-finir-avec-le-no-parki
    #urban_matter #voitures #places_de_stationnement #commerces

  • Typology: Public Square | Thinkpiece | Architectural Review
    https://www.architectural-review.com/rethink/typology-public-square/10017533.article

    When human particles collide in the accelerator of the square, the public comes into being – as evanescent as an unstable element

    When millions of women gathered to protest the election of Donald Trump last month, they met in squares. Such spaces find their purpose as condensers for the activity of the crowd, whether recreational, political or commercial (not that these are separable, here or elsewhere). Created to facilitate the functions of the state and to endow its rituals with a field of action, the square has an equal and opposite function as the incubator of its critics, even its demise. Squares are multivocal and, although they vary in quality, from the humble and irregular to the vast and grandiose (and the question remains as to what extent their design colours the activity that takes place therein), their character ultimately lies in their blankness. They are tabula rasa. Nazi rallies may be held here, but they are also places – need it be added? – for punching Nazis in the face.

    #espace_public #dfs #urban_matter #places_publiques

  • Atlante SPRAR, tutti i numeri dell’accoglienza diffusa in Italia

    Atlante SPRAR: viaggio nella rete italiana di accoglienza diffusa e integrata. Un modello da rafforzare e diffondere per uscire dalla «emergenza» e costruire un futuro di vera integrazione.


    http://openmigration.org/analisi/atlante-sprar-tutti-i-numeri-dellaccoglienza-diffusa-in-italia

    #SRAR #hébergement #logement #asile #migrations #réfugiés #Italie #places #accueil #statistiques

  • Lettre ouverte aux #NuitDebout depuis les quartiers d’Internet des Indignados. | Le Club de Mediapart
    https://blogs.mediapart.fr/joboussion/blog/140516/lettre-ouverte-aux-nuitdebout-depuis-les-quartiers-dinternet-des-ind

    - Tôt ou tard, il est inévitable qu’un bon nombre de vous arrive à la conclusion que nous devons conquérir les institutions, non pas dans le sens de nous y intégrer, sinon dans l’idée de pouvoir nous, les citoyen(ne)s, nous gouverner.

    Nous ne pouvons pas nous gouverner réellement depuis les places et nous ne pouvons pas laisser dans les mains du système les structures et l’argent qui nous permettent de gérer nos vies (#travail, #logement…) et les ressources communes (#écoles, #hôpitaux, #énergie, #sécurité, #infrastructures…).

    Donc tôt ou tard, il faudra inévitablement parler de quel dispositif on organise pour conquérir les postes de contrôle et qui doit les gérer.

    – Pour cela, je veux vous parler de ce que vous pouvez percevoir de notre expérience en Espagne. L’image que vous en avez est sûrement très contaminée par l’image omniprésente de #Podemos. Très clairement Podemos ne doit être ni un but ni un exemple à suivre. Podemos ne représente pas la transformation du 15M espagnol, même si il s’en est nourri. Non seulement ce n’est pas un exemple à suivre, sinon que c’est le pire qui pouvait nous passer au #15M des #Indignados.

    C’est normal que ce ne soit pas un exemple : dans sa grande majorité, ses fondateurs n’étaient pas sur les places au moment où le 15M s’est déroulé et ils n’ont rien compris aux #places.

    – La force des r-évolutions comme #NuitDebout ou le 15M des Indignados est :

    (1) la décentralisation et la forme distribuée des prises des décisions et du leadership qui est selon nos compétences et non selon notre visibilité médiatique ; les nouvelles formes dépasseront les faiblesses de l’horizontalité assembléaire et se transformeront en réseaux ;

    (2) notre capacité - bien supérieure aux institutions et aux partis politiques - de résoudre les problèmes concrets avec des solutions concrètes que viennent des expériences et capacités spécifiques de chacun(e) d’entre nous, et non pas des idéologies. C’est une collaboration égalitaire dans la différence, et non une fusion sous un même drapeau, une marque unificatrice. C’est la force de la fédération dans la diversité ;

    (3) la responsabilité partagée : nous voulons des sociétés adultes qui n’ont plus besoin d’un papa que l’on suit fanatiquement quoi qu’il dise. Ou encore - et cela revient au même - un leader qui serait là pour que l’on représente son courant critique « interne » au système et qu’on le légitime "démocratiquement" par notre dissensus. Cela nous l’avons déjà, nous sommes déjà le courant critique d’un système qui ne marche pas.

    Nous, les citoyen(ne)s, regroupé(e)s par groupes de capacités, intérêts et compétences, nous pouvons mener la gouvernance de notre vie commune.

    nous pouvons construire ce sont des réseaux de leadership par compétence (groupes/nœuds sur des sujets comme la justice au travail, le logement, l’éducation, l’économie…) dans lesquels un des nœuds se charge de la gestion des institutions. C’est la forme du non-parti, le contraire d’une structure qui veut tout embrasser.

    Cela veut dire qu’un #parti_politique n’est qu’un nœud parmi les autres, pas plus important que les autres et surtout pas responsable des sujets dont il n’a pas d’attribution. Les "partis" ne doivent être que les employés de l’accès aux institutions des solutions que les groupes de compétences gèrent .

  • #Occupation des #places : la carte d’un mouvement mondial

    Gezi, Maidan, Tahrir, Puerta del Sol, République... Sur une trentaine de places publiques dans le monde, de nouvelles pratiques de la démocratie s’inventent depuis 2011. Combien d’occupants, pendant combien de temps ? Quel socle commun de ces mouvements ?

    http://www.franceculture.fr/politique/occupation-des-places-la-carte-d-un-mouvement-mondial
    #résistance #espace_public
    #cartographie #visualisation

  • De la place Tahrir aux Nuits debout : compilation d’analyses des « mouvements de place »

    https://rebellyon.info/Des-Indignes-a-la-Place-Guichard-analyses-16200

    Une liste d’articles afin d’appréhender les mouvements d’occupation des places. Cet article se veut une revue de presse qui est destinée à être complétée. N’hésitez pas à le faire par le biais des compléments d’infos ! On cherche notamment des textes sur la place Tahrir.

  • #consommation_collaborative : des #places_de_marchés comme les autres - Benavent
    http://alireailleurs.tumblr.com/post/114565967532

    Sur son blog, le spécialiste du marketing numérique Christophe Benavent (@benavent) s’interroge pour savoir si les plateformes de la consommation collaborative peuvent être considérées comme des places de marché. Il prend l’exemple de Blablacar, le service de covoiturage et observe, via une micro-étude, que les prix ne varient pas vraiment selon les notes que reçoivent les conducteurs ou selon la qualité de leur véhicule. La distance seule détermine le prix du transport (et tourne autour de 7,8 euros les 100 km), avec quelques variations, mais surtout une sur-représentation qui montre un fort comportement d’imitation et de normalisation. En fait, “aucun signe de confiance n’affecte le prix, ni la classe de la voiture, ni les caractéristiques du conducteur, ni même les notes”. Le prix est conventionnel. (...)

    #sharevolution #réputation

  • Les #spatialités dans l’œuvre d’#Hannah_Arendt

    Cet article étudie les concepts spatiaux à l’œuvre dans les écrits d’Hannah Arendt et la problématisation spatiale des questions politiques et anthropologiques auxquelles elle a consacré plusieurs ouvrages majeurs. Il conclut avec l’idée que la diversité des propositions spatiales chez Arendt peut être ramenée à trois spatialités, trois conceptions de l‘espace : la spatialité des #places, la spatialité des #positions et la spatialité de l’#action. Ces trois spatialités ne réfèrent pas à des modes d’existence de l’espace indépendants les uns des autres ; leur articulation dans son analyse de la condition humaine et des « mondes communs » est subordonnée à deux concepts qui occupent une place plus centrale encore dans l’œuvre d’Arendt : l’#identité et la #pluralité.

    http://cybergeo.revues.org/26277
    #espace

  • #places | MDN
    https://developer.mozilla.org/en/docs/Places

    Places is the #bookmarks and history management system introduced in #firefox 3. It offers increased flexibility and complex querying to make handling the places the user goes easier and more convenient. It also includes new features including favicon storage and the ability to annotate pages with arbitrary information. It also introduces new user interfaces for managing all this information; see Places on the Mozilla wiki.

    Places stores its data in an SQLite database using the mozStorage interfaces.

    #api

  • Observing changes to #bookmarks and tags
    https://developer.mozilla.org/en-US/Add-ons/Code_snippets/Bookmarks#Observing_changes_to_bookmarks_and_tags

    Observing changes to bookmarks and tags

    To set up an observer to listen for changes related to bookmarks, you will need to create an nsINavBookmarkObserver object and use the nsINavBookmarksService.addObserver() and nsINavBookmarksService.removeObserver() methods. Note that this example takes advantage of XPCOMUtils to generate the nsISupports.QueryInterface() method.

    #firefox #api #places