• I luoghi della memoria dell’Italia fascista

    Il territorio di questo paese conserva molte tracce del suo passato fascista sotto forma di edifici, monumenti, ma anche nomi di strade, vie o scuole. In alcuni casi, quando simboli, monumenti e intitolazioni sono presenti nella nostra vita quotidiana senza essere oggetto di commemorazione o ricostruzione memoriale specifica, essi giacciono lì, muti per la maggior parte della popolazione, ma presenti e disponibili a diversi tipi di riattivazione. In altri casi questi luoghi sono invece oggetto di commemorazioni e cerimonie, per lo più presidi di una memoria minoritaria, ma che riappare carsicamente nella storia d’Italia, coltivate da minoranze neofasciste o della nuova destra, che cercano di costruire un ponte che legittimi il presente attraverso la storia del passato fascista, ma anche che permetta di coltivare costruzioni identitarie antidemocratiche.

    Per riflettere su questi fenomeni, l’Istituto nazionale Ferruccio Parri ha avviato un progetto che ha l’obiettivo di mappare e ricostruire progressivamente la storia dei ‘luoghi della memoria’ locale e nazionale del fascismo storico (1919-1945). Obiettivo del progetto è individuare e analizzare i monumenti e le intitolazioni di strade e edifici pubblici che sono stati costruiti come luoghi della memoria del fascismo durante il regime o negli anni successivi alla Liberazione del paese.

    Questa mappatura ha l’obiettivo di verificare la geografia di questi monumenti e di queste intitolazioni ricorrenti; leggerne la stratificazione storica e in ogni caso ricostruire la storia di questi luoghi della memoria, del significato che hanno assunto del tempo e di come sono stati modificati dal tempo o dagli uomini e dalle donne di questo paese. Questa ricerca dovrebbe così permettere di leggere e analizzare i diversi modi in cui nelle composite comunità locali e territoriali la memoria del fascismo è stata preservata e/o ricostruita, come questa costruzione si collochi in relazione con altre memorie politiche e come, nel corso di questi anni, in concomitanza con la rilegittimazione in corso dell’esperienza fascista, queste memorie si siano ridefinite e rialimentate. Questo progetto ha nutrito anche una riflessione scientifica più articolata, che è stata ripresa e riarticolata nel volume curato da Giulia Albanese e Lucia Ceci intitolato I luoghi del fascismo. Memoria, politica e rimozione (Viella, 2022).

    Questo progetto è coordinato da Giulia Albanese insieme a un gruppo di lavoro del comitato scientifico del Parri composto da Filippo Focardi (direttore scientifico dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri), Mirco Carrattieri, Lucia Ceci, Costantino Di Sante, Carlo Greppi, Metella Montanari, Nicola Labanca. Questo gruppo, a partire dal 2021, è stato sostituito dai membri del nuovo Comitato scientifico del Parri (2021-2024): Filippo Focardi (Direttore scientifico, Presidente), Laura Bordoni, Lucia Ceci, Annalisa Cegna, Chiara Colombini, Andrea Di Michele, Nicola Labanca, Matteo Mazzoni, Santo Peli, Antonella Salomoni, Giovanni Scirocco.

    Il progetto del sito e del database è stato realizzato da Igor Pizzirusso.
    Antonio Spinelli e Giulia Dodi hanno invece curato redazione, approfondimento scientifico e validazione delle schede (oltre a contribuire con ulteriori segnalazioni).
    Fondamentale è stato il lavoro dei volontari della rete degli istituti per la storia della resistenza che hanno inviato segnalazioni o realizzato il primo censimento, ma anche da studiosi indipendenti che hanno collaborato all’individuazione dei luoghi e alla loro schedatura. Questa ricerca è dunque il frutto di un progetto collaborativo e in progress, ma ciascuna scheda riporta l’indicazione dell’autore della compilazione.

    L’Istituto nazionale Ferruccio Parri ha aperto una collaborazione con Postcolonialitaly.com, per rendere disponibili a quel progetto i luoghi coloniali censiti in questo sito e ricevere le schede di quel sito con riferimento ai luoghi coloniali che sono pertinenti per questo progetto. Nella scheda descrittiva daremo conto di eventuali schede derivate da quel progetto.


    https://www.luoghifascismo.it

    #Italie_fasciste #fascisme #Italie #cartographie #traces #visualisation #mémoire #toponymie #toponymie_politique #toponymie_fasciste

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    ajouté à la métaliste sur l’Italie coloniale (la question coloniale se chevauche avec la question fasciste) :
    https://seenthis.net/messages/871953

    • I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione

      Cosa resta dei monumenti, dei complessi architettonici, delle opere d’arte attraverso cui il fascismo intese esplicitamente celebrare e tramandare sé stesso? Quale uso è stato fatto nell’Italia repubblicana di queste tracce materiali?

      In che modo la memoria dei luoghi del fascismo somiglia a quanto è avvenuto in altri stati con esperienze analoghe?

      Il volume indaga questi temi a partire da alcuni luoghi particolarmente significativi nella storia italiana (presenti in città come Roma, Milano, Latina, Livorno, Padova o in piccoli centri della Calabria) e di alcuni paesi europei (Germania, Spagna, Portogallo). Il lavoro si inserisce in un ampio progetto di ricerca dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri finalizzato alla mappatura dei luoghi della memoria commemorativa del fascismo in Italia.

      https://www.viella.it/libro/9791254691908

      #livre

  • La memoria rimossa del massacro di Debre Libanos e dell’età coloniale italiana

    Tra il 20 e il 29 maggio 1937 le truppe italiane massacrarono più di duemila monaci e pellegrini al monastero etiope. Una strage che, come altri crimini di guerra commessi nelle colonie, trova spazio a fatica nel discorso pubblico, nonostante i passi fatti da storiografia e letteratura. Con quel passato il nostro Paese non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale.

    “Questo avvocato militare mi ha comunicato proprio in questo momento che habet raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debra Libanos con gli autori dello attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore. Prego farmi assicurazione comunicandomi il numero di essi”.

    È il 19 maggio 1937. Con queste poche parole Rodolfo Graziani, “viceré d’Etiopia”, dà il via al massacro dei monaci di Debre Libanos, uno dei monasteri più importanti del Paese, il cuore della chiesa etiopica. Solo tre mesi prima Graziani era sopravvissuto a un attentato da parte di due giovani eritrei, ex collaboratori dell’amministrazione coloniale italiana, che agirono isolatamente, seppur vicini alla resistenza anti-italiana. La reazione fu spietata: tra il 19 e il 21 febbraio le truppe italiane, appoggiate dai civili e dalle squadre fasciste, uccisero quasi 20mila abitanti di Addis Abeba.

    Le violenze proseguirono per mesi e si allargarono in tutta la regione dello Scioa fino a raggiungere la città-monastero di Debre Libanos, a circa 150 chilometri dalla capitale etiope dove tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo il più grande eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano.

    “Vennero massacrate circa duemila persone tra monaci e pellegrini perché ritenuti in qualche modo conniventi con l’attentato a Graziani -spiega ad Altreconomia Paolo Borruso, docente di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano e autore del saggio “Debre Libanos 1937” (Laterza, 2020)-. Si è trattato di un vero e proprio crimine di guerra, poiché l’eccidio è stato qualcosa che è andato al di là della logica militare, andando a colpire dei religiosi, peraltro cristiani e inermi”.

    Al pari di molte altre vicende legate al passato coloniale italiano, a partire proprio dal massacro di Addis Abeba, anche la tragica vicenda di Debre Libanos è rimasta ai margini del discorso pubblico. Manca una memoria consapevole sulle responsabilità per gli eccidi e le violenze commesse dagli italiani nel corso della loro “avventura” coloniale per andare alla ricerca di un “posto al sole” in Libia, in Eritrea, Somalia ed Etiopia al pari delle altre nazioni europee, vengono ancora oggi occultate dalla coscienza pubblica.

    “La storiografia, a partire dal lavoro di Angelo Del Boca, ha fatto enormi passi avanti. Non c’è un problema di ricerca storica sul tema, quello che manca, piuttosto, è la conoscenza di quello che è avvenuto in quella fase storica al di là dei circoli degli addetti ai lavori”, puntualizza Valeria Deplano, docente di storia contemporanea all’Università di Cagliari e autrice, assieme ad Alessandro Pes di “Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni” (Carocci, 2024).

    Se da un lato è molto difficile oggi trovare chi nega pubblicamente l’uso dei gas in Etiopia, dall’altro è ancora molto diffusa l’idea che le violenze furono delle eccezioni riconducibili alle decisioni di pochi, dei vertici: il mito degli italiani “brava gente”, dunque, resiste ancora a ben sedici anni di distanza dalla pubblicazione dell’omonimo libro di Angelo Del Boca.

    Che l’Italia non abbia ancora fatto compiutamente i conti con il proprio passato coloniale lo dimostrano, ad esempio, le accese polemiche attorno alle richieste avanzate da attivisti e comunità afro-discendenti per modificare e contestualizzare la toponomastica delle nostre città o per una ri-significazione dei di monumenti che celebrano il colonialismo italiano (ad esempio l’obelisco che celebra i cinquecento caduti italiani nella battaglia di Dogali a Roma, nei pressi della Stazione Termini) (https://altreconomia.it/perche-serve-mappare-i-segni-del-fascismo-presenti-nelle-nostre-citta). Temi che vengono promossi, tra gli altri, dalla rete Yekatit 12-19 febbraio il cui obiettivo è quello contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia e che vorrebbe il riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano.

    “C’è un rifiuto a riconoscere il fatto che i monumenti e le strade intitolate a generali e luoghi di battaglia sono incompatibili con i valori di cui la Repubblica dovrebbe farsi garante”, sottolinea Deplano ricordando come fu proprio nel secondo Dopoguerra che si costruì un racconto del colonialismo finalizzato a separare quello “cattivo” del regime fascista da quello “buono” dell’Italia liberale. Una narrazione funzionale all’obiettivo di ottenere dalle Nazioni Unite un ruolo nella gestione di alcune ex colonie alla fine della Seconda guerra mondiale: se l’Eritrea (la “colonia primigenia”) nel 1952 entra a far parte della Federazione etiopica per decisione dell’Onu, Roma ottenne invece l’Amministrazione fiduciaria della Somalia, esercitando un impatto significativo sulle sorti di quel Paese per decenni.

    “Invece ci fu continuità -sottolinea Deplano-. Furono i governi liberali a occupare l’Eritrea nel 1882 e ad aprire le carceri dove vennero rinchiusi i dissidenti eritrei, a dichiarare guerra all’Impero ottomano per occupare la Libia nel 1911 dove l’Italia fu il primo Paese a utilizzare la deportazione della popolazione civile come arma di guerra. Il fascismo ha proseguito lungo questa linea con ancora maggiore enfasi, applicando in Africa la stessa violenza che aveva già messo in atto sul territorio nazionale”.

    Con quel passato l’Italia non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale. Come ricorda Paolo Borruso in un articolo pubblicato su Avvenire (https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta), Graziani venne condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per i crimini commessi in Africa. Le ex colonie ricevettero indennizzi irrisori e persino gli oggetti sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia non furono mai ritrovati.

    “Gli italiani non possono ricordare solo quelle pagine della loro storia funzionali alla costruzione di un’immagine positiva, serve una consapevolezza nuova”, riflette Borruso. Che mette l’accento anche su una “discrasia pericolosa: da un lato la giusta memoria delle stragi nazi-fasciste commesse ‘in Italia’ e dall’altro la pubblica amnesia sulle violenze commesse ‘dall’Italia’ nelle sue colonie in Africa. Questo distacco dalla storia è molto preoccupante perché lascia la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti, aprendo vuoti insidiosi e facilmente colmabili da slogan e da letture semplificate del passato, fino alla riemersione di epiteti e attributi razzisti, che si pensava superati e che finiscono per involgarire la coscienza civile su cui si è costruita l’Italia democratica”.

    Se agli storici spetta il compito di scrivere la storia, agli scrittori spetta quello di tracciare fili rossi tra passato e presente, portando alla luce memorie sepolte per analizzarle e contestualizzarle. Lo ha fatto, ad esempio, la scrittrice Elena Rausa autrice di “Le invisibili” (Neri Pozza 2024) (https://neripozza.it/libro/9788854529120), un romanzo che si apre ad Addis Abeba, durante la rappresaglia del 1937 per concludersi in anni più recenti e che dà voce a uno dei “reduci” dell’avventura coloniale italiana e a suo figlio. “Ho voluto indagare in che modo le memorie negate dei traumi inflitti o subiti continuano a influenzare l’oggi -spiega ad Altreconomia-. Tutto ciò che non viene raccontato continua a esercitare delle influenze inconsapevoli: si stima che un italiano su cinque abbia nella propria storia familiare dei cimeli legati alle campagne militari per la conquista dell’Eritrea, della Libia, della Somalia e dell’Etiopia. In larga parte sono uomini che hanno fatto o, più facilmente, hanno visto cose di cui pochi hanno parlato”.

    A confermare queste osservazioni, Paolo Borruso richiama il suo ultimo saggio “Testimone di un massacro” (Guerini 2022) (https://www.guerini.it/index.php/prodotto/testimone-di-un-massacro), relativa al diario di un ufficiale alpino che partecipò a numerose azioni repressive in Etiopia, al comando di un reparto di ascari (indigeni arruolati), fino alla strage di Debre Libanos, sia pur con mansioni indirette di sorveglianza del territorio: una testimonianza unica, mai apparsa nella memorialistica coloniale italiana.

    Un altro filo rosso è legato alle date: l’invasione dell’Etiopia da parte delle truppe dell’Italia fascista ebbe inizio il 3 ottobre 1935. Quasi ottant’anni dopo, nel 2013, in quello stesso giorno più di trecento profughi, in larga parte eritrei ed etiopi, perdevano la vita davanti all’isola di Lampedusa. Migranti provenienti da Paesi che hanno con l’Italia un legame storico.

    E se oggi la migrazione segue una rotta che va da Sud verso Nord, in passato il percorso è stato inverso: “Come il protagonista del mio romanzo, anche il mio bisnonno è partito per l’Etiopia, ma non per combattere -racconta-. Migliaia di persone lasciarono l’Italia per lavorare in Etiopia e molti rimasero anche dopo il 1941. Anche in quel caso a partire furono persone che si misero in viaggio alla ricerca di condizioni migliori di vita per sé e per i propri figli. Ricordare anche quella parte di storia migratoria italiana significa riconoscere la radice inconsapevole del nostro modo di guardare chi oggi lascia la propria terra per compiere un viaggio inverso”.

    https://altreconomia.it/la-memoria-rimossa-del-massacro-di-debre-libanos-e-delleta-coloniale-it
    #colonialisme #Italie_coloniale #colonialisme_italien #massacre #Debre_Libanos #monastère #Ethiopie #histoire_coloniale #Rodolfo_Graziani #fascisme #Scioa #violence #crimes_de_guerre #mémoire #italiani_brava_gente #passé_colonial #toponymie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #déportations

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    • Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia

      Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All’eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant’anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858141083
      #livre #Paolo_Borruso

    • Storia. Su Debre Libanos il dovere della memoria è conquista di civiltà

      Dal 21 al 27 maggio 1937 il viceré Graziani fece uccidere duemila etiopi. Un eccidio coloniale a lungo rimosso che chiede l’attenzione delle istituzioni e della storiografia.

      Il nome di Debre Libanos è tristemente legato al più grave crimine di guerra italiano, ordinato dal viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani come rappresaglia per un attentato da cui era sfuggito. È il più antico santuario cristiano dell’Etiopia, meta di pellegrini da tutto il paese. Il 12 Ginbot (20 maggio) ricorre la memoria della traslazione, nel 1370, dei resti di san Tekla Haymanot – fondatore nel XIII secolo della prima comunità monastica in quel sito –: è la festa più sacra dell’anno, particolarmente attesa a Debre Libanos non solo tra i monaci, ma da tutti i cristiani etiopici provenienti da ogni parte del paese. È il giorno di massima affluenza di persone nel monastero. Ed è il motivo che spinse il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani ad una cinica pianificazione fin nei minimi dettagli. Tra il 21 e il 27 maggio 1937 i militari italiani, sotto la guida del generale Pietro Maletti, presidiarono il santuario e prelevarono i presenti, caricandoli a gruppi su camion verso luoghi isolati, dove ebbero luogo le esecuzioni, ordinate ai reparti coloniali musulmani per scongiurare possibili ritrosie degli ascari cristiani di fronte a correligionari. Nonostante le 452 esecuzioni dichiarate da Graziani per cautelarsi da eventuali inchieste, le indagini più recenti attestano un numero molto più alto, compreso tra le 1.800 e le 2.200.

      Sono passati 86 anni da quel tragico episodio, che andò molto al di là di una strategia puramente militare. Un «crimine di guerra», appunto, per il quale i responsabili non furono mai processati. Nel dopoguerra Graziani fu condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per le violenze inflitte in Africa, e scontò solo quattro mesi in seguito ad amnistia, divenendo nel 1952 presidente onorario del Movimento sociale italiano, erede diretto del fascismo.

      Nell’Italia del dopoguerra, le esigenze del nuovo corso democratico spinsero a rimuovere memorie e responsabilità di quella violenta e imbarazzante stagione, potenziali ostacoli ad una sua collocazione nel campo occidentale auspicata da Usa e Inghilterra. Dei risarcimenti previsti dai trattati di pace del ‘47, fu elargita una cifra irrisoria, oltre i termini temporali stabiliti di dieci anni; i beni e arredi sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia, mai ritrovati; unica restituzione, il noto obelisco di Axum, avvenuta nel 2004 (dopo quasi 60 anni!). Paradossalmente, la copertura dell’episodio parve una scelta obbligata anche per l’Etiopia di Haile Selassie, in nome di una ripresa del paese, dopo la fine dell’occupazione coloniale e della guerra mondiale, e di una inedita leadership internazionale negli anni della decolonizzazione, nonostante la persistenza di una ferita profonda mai rimarginata.

      Solo negli anni settanta, a partire dagli studi di Angelo Del Boca, l’«assordante» silenzio attorno ai «crimini» dell’Italia in Africa ha cominciato a dissolversi, decostruendo faticosamente il mito dell’«italiano brava gente». La storiografia ambiva divenire un polo di interlocuzione importante per la “memoria” pubblica del paese ed apriva la strada a nuove relazioni con l’Etiopia. Ne fu un segnale la visita ad Addis Abeba del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nel 1997, il quale richiamò il tributo di sangue versato dal popolo etiopico durante la dolorosa esperienza dell’occupazione fascista e la necessità di quella memoria per rilanciare proficui rapporti di pace e cooperazione. Ricordo, successivamente, la proposta di Del Boca, nel 2006, di istituire una “giornata della memoria” per le vittime del colonialismo italiano, ma neppure fu discussa in parlamento, e quindi fu archiviata. È qui che la storiografia è chiamata a consolidare gli anticorpi di fronte rimozioni e amnesie che rischiano di erodere rapidamente la coscienza pubblica. È il caso del monumento in onore del maresciallo Graziani, eretto nel 2012 ad Affile, nel Lazio, con i fondi della Regione, ultimo eclatante atto di oscuramento della memoria, suscitando immediate reazioni della comunità scientifica e dell’associazionismo italiano.

      A partire dal 2016, alcuni articoli apparsi sulla stampa, tra cui ripetuti interventi di Andrea Riccardi, e lo sconcertante film documentario Debre Libanos, realizzato da Antonello Carvigiani per TV 2000, hanno richiamato l’attenzione su quell’eccidio fascista. Un riconoscimento pubblico venne esplicitato in quell’anno dal presidente Mattarella ad Addis Abeba, quando in un eloquente “silenzio” depose una corona di fiori al monumento della vittoria Meyazia 27, in piazza Arat Kilo, in memoria dei caduti della resistenza etiopica dell’epoca e salutò uno ad uno ex partigiani etiopici, ormai anziani. Sotto queste sollecitazioni, l’allora ministero della difesa emanò un comunicato stampa, che richiamava la tragica rappresaglia con cui «il regime fascista fece strage della comunità dei copti; monaci, studenti, e fedeli del monastero di Debra Libanos. L’eccidio durò vari giorni, crudele e metodico. In Italia con il silenzio di tutti, durante il fascismo ma anche dopo, l’episodio era stato dimenticato […]», e si assumeva l’impegno ad approfondirne le dinamiche storiche con la costituzione di un’apposita commissione di studiosi, militari ed esperti. Altre urgenze, tuttavia, s’imposero nell’agenda politica e l’iniziativa non ebbe seguito.

      L’attuale disattenzione da parte delle istituzioni dello Stato italiano chiama nuovamente in causa la storiografia per la sua funzione civile di preservazione della memoria storica. C’è, qui, una discrasia da colmare: a fronte degli eccidi nazifascisti sul territorio italiano – oggi noti, con luoghi memoriali di alto valore simbolico per la storia nazionale –, il massacro di Debre Libanos è accaduto in Africa, fuori dal territorio nazionale, in un’area rimasta, per decenni, assente anche sul piano storiografico, le cui responsabilità sono ascrivibili direttamente all’Italia e non possono essere negate né oscurate. Occorre, in questo senso, allargare i confini della memoria storica, rinsaldando il rapporto tra storia e memoria come un argine di resistenza fondamentale per la difesa di una cultura civile, oggi provata da un crescente e preoccupante distacco dal vissuto storico. Lo smarrimento del contatto con “quel” passato coloniale, e con quella lunga storia di rapporti con l’Africa, rischia di lasciare la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti e discriminatorie, potenziali o in atto.

      https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta

  • C’était l’bon temps des #colonies

    "QUI est donc ce monsieur peint par Alexis Simon Belle et qui pète dans la soie ?…

    Né en 1655 et mort en 1738, il s’appelle Antoine Crozat, dont Saint-Simon dira qu’il était « l’un des plus riches hommes de Paris ». Crozat avait une fille, Marie-Anne, qu’il donnera pour épouse (alors qu’elle a à peine 12 ans) à un aristocrate, Louis-Henri de La Tour d’Auvergne, comte d’Évreux ; l’important dans l’affaire, c’est que le père Crozat mette un pied dans la noblesse et que Louis-Henri empoche une très très belle dot (quand on est endetté, ça ne se refuse pas).

    Car beau-papa, parmi d’autres activités, dirige la Compagnie de Guinée, créée en 1684 par Louis XIV et l’une des plus importantes sociétés de « commerce triangulaire », locution géométrique qui en cache une autre plus parlante : traite négrière. Précisons que cette compagnie avait pour but de se livrer au « commerce des nègres, de la poudre d’or et de toutes les autres marchandises » sur les côtes africaines.Crozat, qui habite déjà un hôtel particulier place Vendôme (...) "

    #histoire #politique #humour #France #géopolitique #société #mémoire #seenthis #vangauguin

    https://www.lemonde.fr/blog/correcteurs/2024/05/12/cetait-lbon-temps-des-colonies

  • 8 mai 1945 : le massacre de Sétif, Guelma et Kherrata en Algérie - Contre Attaque
    https://contre-attaque.net/2024/05/08/8-mai-1945-le-massacre-de-setif-guelma-et-kherrata-en-algerie-2

    Le 8 mai 2024, dans un pays racorni autour de débats xénophobes et d’un roman national frelaté, il reste difficile de parler des crimes commis par l’État français dans ses colonies. Et le gouvernement français soutient « inconditionnellement » d’autres massacres coloniaux, en Palestine cette fois-ci, tout en réprimant implacablement les voix anticoloniales sur son sol.

    #colonialisme #Algérie #Sétif #massacre #mémoire

  • Campi di lavoro e lavoro nei campi

    Dall’agosto 1940 e fino alla fine del 1945 vennero internati, in numerosi campi sparsi sull’insieme del territorio ticinese, mediamente circa un migliaio di soldati stranieri, i quali rappresentarono una categoria specifica dell’insieme dei profughi accolti durante la Seconda guerra mondiale. Si trattò in gran parte di soldati polacchi, ma nei campi allestiti in Ticino risiedettero per periodi di tempo variabili pure francesi, italiani, tedeschi, austriaci, sovietici, indiani e vietnamiti, nonché un contingente di combattenti provenienti dal continente africano. Chi erano questi uomini? A quale regime furono sottoposti e perché? Dove sorsero i campi in cui furono confinati? Come trascorrevano le loro giornate? Quali furono i rapporti con la popolazione locale? Quale memoria della loro presenza si è sedimentata in Ticino? Attingendo a fonti archivistiche sinora poco sfruttate, il volume analizza e approfondisce il tema dell’internamento militare sul piano regionale, facendolo costantemente dialogare in senso verticale con quello nazionale. La pluralità degli approcci adottati e dei punti di vista considerati ha consentito di fare emergere alcune specificità ticinesi e, in altri casi, di fare luce su aspetti finora poco studiati dell’internamento militare nel suo insieme. Colmando una lacuna storiografica e fornendo un quadro esaustivo delle coordinate geografiche e temporali dell’internamento militare, il libro si presta a fungere da strumento imprescindibile per chiunque voglia affrontare la tematica della presenza di internati militari in Ticino ed eventualmente approfondirla sul piano locale.

    #livre
    #camps_de_travail #Tessin #Suisse #histoire #réfugiés_ukrainiens #réfugiés_polonais #Pologne #deuxième_guerre_mondiale #seconde_guerre_mondiale #WWII #mémoire

    • Polish Army in Insubrica region: the case study of Polish internees in Losone

      During the German campaign in the West, in June 1940, 2nd Polish Infantry Division under command of Bronisław Prugar-Ketling (1891-1948) was sent to the French region of Belfort to support 8th French army. After being cut off from supply, approximately 12,000 to 13,000 Polish soldiers of this Infantry Division, crossed the Swiss border on 19-20 June 1940, south of Ajoie, avoiding thus the German capture.

      The soldiers were interned in Switzerland according to the Hague Convention. After a failed attempt to concentrate all Pole servicemen in only one camp in Büren an der Aare, Polish soldiers were dispersed throughout Switzerland. From 1941, barrack camps were set up in all Switzerland, where these Poles soldiers were interned until December 1945. In the Insubrica region, many Polish soldiers were gathered and managed in Losone, nearby Locarno and Ascona.

      These interned Poles soldiers made mainly group-wise work assignments for the Swiss national defence works, related to the national infrastructure like constructions of roads and bridges, drainage of swamps as well as general works in the agriculture. A total of 450 kilometers in paths, bridges and canals were built alone in Ticino by these servicemen. At present, monuments and commemorative plaques commemorate the involuntary stay of these Polish soldiers people throughout the Ticino region. After the war, around 500 Poles were able to settle down in Switzerland, obtaining the Swiss citizenship.

      In addition to building and paving roads between Arcegno and Golino in the Canton Ticino, the Polish army soldiers, interned in the Losone camp during 1941-1945, worked hard to reclaim approximately 100 hectares of the land in the municipality of Losone between “Saleggi” and “Gerre”. This hard work reshaped radically the landscape of the region in the mid of the 1940s.

      Thanks to the intervention of Polish soldiers, a large amount of uncultivated agricultural areas in Ticino could be developed and, later, transformed in tourist and industrial zones.

      A hard work of Polish prisoners allowed a creation of a very important agricultural zone in Losone that persisted for many years until a construction of the famous 18 holes Golf place (shown in the centre of the map that can be seen above).

      Further in the North, in the 1980’s, an important industrial settlement called “Zandone” was created (on the left side of the above shown map). The Polish work allowed to erect a large camping in Melezza and the “Scuderia delle cavalli delle Gerre” in the area of Zandone. Between Arcegno and Golino, Polish soldiers managed to pave a road, that is named today “strada dei polacchi” (in English: Polish road).

      Polish soldiers were interned also in other parts of Switzerland and left unmistakable traces of their hard work. There are several so-called Polenweg‘s, which are roads that were built by Polish soldiers during the Second World War in Switzerland.

      https://insubricahistorica.ch/blog/2018/04/16/polish-army-in-insubrica-region-case-of-losone
      #Losone

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      Gli internati polacchi nel Locarnese e Valle Maggia

      Avevamo già scritto nell’aprile 2018 su Insubrica Historica un breve contributo sugli internati polacchi nella regione Insubrica. Durante dei lavori di ricerca per un imminente pubblicazione di Insubrica Historica sul Locarnese, abbiamo ritrovato ulteriori dettagli, che valgono la pena di essere condivisi.

      La presenza degli internati polacchi in Ticino e soprattutto nel Locarnese è legata soprattutto alla caserma di Losone posta nella località Piana di Arbigo, la quale ospitò ben oltre la fine del conflitto un ingente numero di soldati polacchi, circa un migliaio. Da questa caserma vennero impiegati per diversi lavori di bonifica. La loro presenza viene ricordata nel Locarnese per la Strada dei Polacchi da Arcegno a Golino, o ancora ad Orselina per la cappella della Madonna di “Ostra Brama”.

      Vi erano però diversi altri campi di lavoro distribuiti nella regione, i quali ospitavano anche loro soldati polacchi. In particolare grazie ad un recente articolo di Fabio Cheda Gli internati polacchi a Maggia, vi sono alcuni dettagli di questi campi nella Valle Maggia.

      I campi erano distribuiti nella maniera seguente: ai Ronchini di Aurigeno (15-30 militi), a Bignasco (10-15 militi), a Cevio (40-50 militi), a Linescio (30-35 militi), presso l’edificio “Cortao di Bonitt” a Maggia (30-35 militi), al Piano di Peccia (fino a 15 militi) e a San Carlo (100-200 militi). Nella sola Valle Maggia vi era circa il 15% (n=200) del totale dei soldati polacchi internati in Svizzera (n=12’000) durante la guerra. La maggior parte di loro erano entrati in Svizzera nella regione del Giura Francese, duranta la disfatta dell’esercito francese nell’estate del 1940.

      L’ubicazione di alcuni di questi campi e località di lavoro come a Lodano, lascia dedurre che l’impiego di questi soldati non era confinato al solo settore agricolo ma soprattutto anche nel disboscamento delle superfici forestali della Valle.

      «Questi baldi giovanotti facevano girare spesso la testa alle ragazze e alle mogli locali, tenendo in considerazione che gran parte degli uomini del paese erano impegnati nel servizio militare. È appurato che i Polacchi abbiano lasciato il segno: una donna si presentò un giorno ai capi responsabili mostrando il ventre gonfio…» (Fabio Cheda, A tu per tu, Dicembre 2020)

      Sempre secondo Fabio Cheda, il rapporto dei soldati polacchi con la popolazione era esemplare. Molto positivo, soprattutto con le signorine della Valle, tanto che vennero celebrati anche dei matrimoni.

      Non tutti i soldati polacchi ebbero la pazienza di restare fino alla fine del conflitto, oppure di ritornare in Pologna. Ve ne sono alcuni che riuscirono anche a fuggire da questi campi di lavoro prima e dopo il conflitto, i quali pur essendo controllati da soldati dell’esercito Elvetico, non sottostavano a rigida disciplina, come invece si ebbe in altri campi soprattutto della Svizzera tedesca.

      https://insubricahistorica.ch/blog/2021/09/30/gli-internati-polacchi-nel-locarnese-e-valle-maggia
      #internement #internés

    • Internati polacchi in Svizzera tra guerra, lavoro e sentimento

      Un’analisi storica sulla presenza degli internati militari polacchi in Svizzera durante la Seconda Guerra Mondiale vuole essere un momento prezioso per una riflessione su noi stessi e sulla nostra terra elvetica: terra di transito in cui i nostri orizzonti hanno potuto incontrarsi, per pochi anni, con un popolo straordinario, che nel dolore, nella perdita e nella sofferenza del conflitto ha saputo dare, oltre che il suo sudore del lavoro - fondamentale per il nostro Paese - durante l’internamento, un esempio unico di dignità, di comunanza e di fratellanza.
      Al di là della politica e delle vicissitudini belliche, gli uomini hanno saputo ritrovarsi, anche soltanto per un istante.

      https://www.editore.ch/shopvm/varia/internati-polacchi-in-svizzera-tra-guerra-lavoro-e-sentimento-detail.html

  • #Journal du #Regard : Avril 2024

    https://liminaire.fr/journal/article/journal-du-regard-avril-2024

    https://www.youtube.com/watch?v=-qlWr7mGGIE

    Chaque mois, un film regroupant l’ensemble des images prises au fil des jours, le mois précédent, et le texte qui s’écrit en creux. « Une sorte de palimpseste, dans lequel doivent transparaître les traces - ténues mais non déchiffrables - de l’écriture “préalable” ». Jorge Luis Borges, Fictions Nous ne faisons qu’apparaître dans un monde soumis comme nous au pouvoir du temps. Dans le silence qui suit la fin du signal de départ. Dans un seul et unique instant. Non pas suites sans principe de (...) #Journal, #Vidéo, #Architecture, #Art, #Écriture, #Voix, #Sons, #Mémoire, #Paysage, #Ville, #Journal_du_regard, #Regard, #Dérive, #Paris, #Marseille, #Voyage, #Cimetière, #Artaud (...)

  • Discours de la commémoration 2024 de l’Insurrection du ghetto de Varsovie

    Discours de la commémoration 2024 de l’Insurrection du ghetto de Varsovie
    Discours de Sacha Schiffmann (UPJB) et Germano Mascitelli, du Casi-UO

    Merci d’être venus en ce samedi matin du 20 avril 2024 pour commémorer ensemble l’insurrection du ghetto de Varsovie. C’est une longue tradition pour l’UPJB et ses membres, ses amis, ses amies, de nous retrouver ici afin de déposer une gerbe de fleurs à la mémoire de tous les résistants et résistantes tombé.e.s sous la barbarie nazie. En préparant cet événement, j’ai relu d’anciens textes adressés ici-même les années précédentes, discuté avec des ami.e.s, relu encore et encore l’histoire que nous commémorons pour mieux comprendre comment l’UPJB parvient à replacer cet événement historique dans un contexte et une actualité. Nous avons ici rendu hommage aux réfugiés, aux migrants, aux populations civiles de Syrie, nous avons dénoncé la politique de Donald Trump et le régime de Bachar El-Assad. Aujourd’hui la guerre est de retour en Europe, en Ukraine, et le fascisme et l’extrême droite devient une réalité au quotidien dans de nombreux pays. Je me suis rendu compte à quel point il est important de continuer à nous rassembler dans ce lieu chaque 19 avril afin de nous souvenir et de transmettre.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2024/04/30/discours-de-la-commemoration-2024-de-linsurrec

    #histoire #memoire #ghetto #varsovie

  • #Journal du #Regard : Mars 2024
    https://liminaire.fr/journal/article/journal-du-regard-mars-2024

    https://www.youtube.com/watch?v=-qlWr7mGGIE

    Chaque mois, un film regroupant l’ensemble des images prises au fil des jours, le mois précédent, et le texte qui s’écrit en creux. « Une sorte de palimpseste, dans lequel doivent transparaître les traces - ténues mais non déchiffrables - de l’écriture “préalable” ». Jorge Luis Borges, Fictions Nous ne faisons qu’apparaître dans un monde soumis comme nous au pouvoir du temps. Dans le silence qui suit la fin du signal de départ. Dans un seul et unique instant. Non pas suites sans principe de (...) #Journal, #Vidéo, #Architecture, #Art, #Écriture, #Voix, #Sons, #Paris, #Mémoire, #Paysage, #Ville, #Journal_du_regard, #Regard, #Dérive, #Paris, #Canal, #Jardin, #Seine (...)

  • La commemorazione ipocrita di Bologna per la strage di Cutro

    I familiari delle vittime e le organizzazioni solidali: «Questa memoria distorta non ci appartiene»

    Ieri a Bologna il sindaco, Matteo Lepore, insieme al sindaco di Cutro, Antonio Ceraso, hanno sfilato sulle tombe di 15 delle persone afghane morte nella strage di Cutro che sono state seppellite a Borgo Panigale. Hanno parlato di memoriali, umanità e tante belle cose. Nessun riferimento alle famiglie o ai sopravvissuti che ovviamente non sono stati invitati né contattati. Dimenticati e invisibilizzati, ancora una volta.

    Un gesto – come hanno spiegato i familiari delle vittime e diverse organizzazioni solidali in un comunicato 1 – considerato ipocrita, con la presenza di una persona come il sindaco di Cutro che ha insultato la memoria di vittime, sopravvissuti e famiglie incidendo anche nella pietra parole criminalizzanti contro le persone in movimento.

    «Non possiamo rimanere indifferenti», hanno scritto spiegando le proprie ragioni:

    «Proprio all’indomani delle denunce che familiari e sopravvissuti hanno espresso a Crotone lo scorso febbraio riguardo le omissioni di soccorso e le responsabilità da parte delle autorità competenti, apprendiamo dell’ennesimo oltraggio da parte di alcune istituzioni che indegnamente tentano di appropriarsi dei luoghi di culto dove sono state sepolte le vittime, luoghi in cui le stesse famiglie residenti in Iran, Afganistan o Pakistan non hanno mai potuto recarsi e della cui commemorazione non sono state rese partecipi.

    Non dimentichiamo l’ospitalità rivolta al consiglio dei ministri, alle persone di Salvini Piantedosi e il primo ministro Meloni che, a poche ore dal massacro, si recavano negli spazi comunali di Cutro per approvare un decreto nominato con il luogo della strage.
    – Non dimentichiamo l’abbandono dei familiari e dei sopravvissuti in quei giorni di disperazione e rabbia, da chi non ha trovato nemmeno un minuto per porgere loro cordoglio e assistenza.
    – Non dimentichiamo come la decisione presa dall’alto che quelle bare dovessero essere destinate a Bologna senza il consenso delle famiglie, sia stata scongiurata solo da chi, con i propri corpi, poteva opporsi davanti al Palamilone di Crotone.
    – Non dimentichiamo il trattamento disumano riservato ai sopravvissuti collocati nel Cara di Crotone.

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    La commemorazione ipocrita di Bologna per la strage di Cutro

    I familiari delle vittime e le organizzazioni solidali: «Questa memoria distorta non ci appartiene»
    11 Marzo 2024
    Ph: Mem. Med - Memoria Mediterranea

    Ieri a Bologna il sindaco, Matteo Lepore, insieme al sindaco di Cutro, Antonio Ceraso, hanno sfilato sulle tombe di 15 delle persone afghane morte nella strage di Cutro che sono state seppellite a Borgo Panigale. Hanno parlato di memoriali, umanità e tante belle cose. Nessun riferimento alle famiglie o ai sopravvissuti che ovviamente non sono stati invitati né contattati. Dimenticati e invisibilizzati, ancora una volta.

    Un gesto – come hanno spiegato i familiari delle vittime e diverse organizzazioni solidali in un comunicato 1 – considerato ipocrita, con la presenza di una persona come il sindaco di Cutro che ha insultato la memoria di vittime, sopravvissuti e famiglie incidendo anche nella pietra parole criminalizzanti contro le persone in movimento.

    «Non possiamo rimanere indifferenti», hanno scritto spiegando le proprie ragioni:

    «Proprio all’indomani delle denunce che familiari e sopravvissuti hanno espresso a Crotone lo scorso febbraio riguardo le omissioni di soccorso e le responsabilità da parte delle autorità competenti, apprendiamo dell’ennesimo oltraggio da parte di alcune istituzioni che indegnamente tentano di appropriarsi dei luoghi di culto dove sono state sepolte le vittime, luoghi in cui le stesse famiglie residenti in Iran, Afganistan o Pakistan non hanno mai potuto recarsi e della cui commemorazione non sono state rese partecipi.

    Non dimentichiamo l’ospitalità rivolta al consiglio dei ministri, alle persone di Salvini Piantedosi e il primo ministro Meloni che, a poche ore dal massacro, si recavano negli spazi comunali di Cutro per approvare un decreto nominato con il luogo della strage.
    Non dimentichiamo l’abbandono dei familiari e dei sopravvissuti in quei giorni di disperazione e rabbia, da chi non ha trovato nemmeno un minuto per porgere loro cordoglio e assistenza.
    Non dimentichiamo come la decisione presa dall’alto che quelle bare dovessero essere destinate a Bologna senza il consenso delle famiglie, sia stata scongiurata solo da chi, con i propri corpi, poteva opporsi davanti al Palamilone di Crotone.
    Non dimentichiamo il trattamento disumano riservato ai sopravvissuti collocati nel Cara di Crotone.

    Dopo un anno, in cui ricordiamo non solo le oltre 105 persone morte e disperse la notte del 26 Febbraio 2023, ma tutte coloro che ogni giorno scompaiono alle frontiere interne ed esternalizzate o sopravvivono a politiche razziste, siamo testimoni di quanta violenza continui ancora e ininterrottamente ad insinuarsi oltre la morte e nella vita di chi resta, nel dolore d’una ferita che non rimargina.

    Crediamo in una Memoria distante da strumentalizzazioni politiche che si è espressa alcune settimane fa nella commemorazione a Crotone, dove abbiamo ascoltato il grido alto e chiaro di famiglie e sopravvissuti contro i reali responsabili di simili crimini.

    Una memoria che non coincide con quella del sindaco di Cutro, Antonio Ceraso, che nella sua città ha piantato una stele di marmo incidendo nella pietra una storia distorta, che accusa “scafisti” e “trafficanti di esseri umani” di essere i responsabili del massacro. Una narrazione securitaria aderente a quella dei rappresentanti del Governo, come Matteo Piantedosi, che all’indomani della strage criminalizzava le stesse persone migranti morte in mare, salvo poi depositare un fiore sulla tomba di uno di loro, Alì, il più piccolo tra i deceduti, in un ipocrita gesto autoassolutorio.

    «Questa memoria distorta non ci appartiene. Questo atto di offesa al ricordo di chi è morto e di chi ha resistito alla violenza di frontiera ci indigna.»

    Lasciate in pace le salme inumate a Borgo Panigale, la loro presenza che finora avete ignorato o insultato, la loro memoria che nulla ha a che vedere con le commemorazioni istituzionali.

    Che siano familiari e sopravvissuti a recarsi sui luoghi della sepoltura, come chiedono incessantemente da un anno alla politica nazionale e internazionale!

    Saranno loro a custodirne l’ingiustizia e il dolore a monito di quello che è stato fatto.
    Saranno loro – gli esclusi dalla narrazione delle istituzioni – a commemorare i morti di un regime di frontiera che, dal Decreto Legge 50/2023, ancora più ferocemente e impunemente, colpisce le persone in movimento.

    Accanto a famiglie e sopravvissuti continueremo a sostenere la loro lotta per verità e giustizia, contro la mistificazione che criminalizza l’identità e la storia delle persone, contro la strumentalizzazione di chi esercita con violenza un potere non solo sulla vita ma anche sulla morte e sul lutto».

    https://www.meltingpot.org/2024/03/la-commemorazione-ipocrita-di-bologna-per-la-strage-di-cutro

    #commémoration #mémoire #naufrage #mourir_aux_frontières #Cutro #Bologne #morts_aux_frontières #migrations #réfugiés #hypocrisie

    • Non calpestate questa memoria

      Alla luce della commemorazione promossa dal Sindaco di Bologna, Matteo Lepore, prevista domenica 10 marzo 2024 alla presenza del Sindaco di Cutro, Antonio Ceraso, ad un anno dall’arrivo delle 15 salme di persone decedute nella Strage di Steccato di Cutro e inumate nel cimitero di Borgo Panigale, non possiamo restare indifferenti.

      Infatti, proprio all’indomani delle denunce che familiari e sopravvissuti hanno espresso a Crotone lo scorso febbraio riguardo le omissioni di soccorso e le responsabilità da parte delle autorità competenti, apprendiamo dell’ennesimo oltraggio da parte di alcune istituzioni che indegnamente tentano di appropriarsi dei luoghi di culto dove sono state sepolte le vittime, luoghi in cui le stesse famiglie residenti in Iran, Afghanistan o Pakistan non hanno mai potuto recarsi e della cui commemorazione non sono state rese partecipi.

      - Non dimentichiamo l’ospitalità rivolta alle persone di Salvini, Piantedosi, Meloni che, a poche ore dal massacro, si recavano negli spazi comunali di Cutro per il Consiglio dei Ministri e discutere un Decreto nominato con il luogo della strage di stato
      – Non dimentichiamo l’abbandono dei familiari e dei sopravvissuti, in quei giorni di disperazione e rabbia, da chi non ha trovato nemmeno un minuto per porgere loro cordoglio e assistenza
      – Non dimentichiamo come la decisione presa dall’alto che quelle bare dovessero essere destinate a Bologna senza il consenso delle famiglie, sia stata scongiurata solo da chi, con i propri corpi, poteva opporsi davanti al Palamilone di Crotone ad un simile oltraggio
      - Non dimentichiamo il trattamento disumano riservato ai sopravvissuti collocati nel Cara di Isola Capo Rizzuto (KR)

      Dopo un anno, in cui ricordiamo non solo le oltre 105 persone morte e disperse la notte del 26 Febbraio 2023, ma tutte coloro che ogni giorno scompaiono alle frontiere interne ed esternalizzate o sopravvivono a politiche razziste, siamo testimoni di quanta violenza continui ancora e ininterrottamente ad insinuarsi oltre la morte e nella vita di chi resta, nel dolore d’una ferita che non rimargina.

      Crediamo in una Memoria distante da strumentalizzazioni politiche che si è espressa alcune settimane fa nella commemorazione a Crotone, dove abbiamo ascoltato il grido alto e chiaro di famiglie e sopravvissuti contro i reali responsabili di simili crimini.

      Una memoria che non coincide con quella del sindaco di Cutro, Antonio Ceraso, che nella sua città ha piantato una stele di marmo incidendo nella pietra una storia distorta, che accusa “scafisti” e “trafficanti di esseri umani” di essere i responsabili del massacro. Una narrazione securitaria aderente a quella dei rappresentanti del Governo, come Matteo Piantedosi, che all’indomani della strage criminalizzava le stesse persone migranti morte in mare, salvo poi deporre un fiore sulla tomba di uno di loro, Alì, il più piccolo tra i deceduti, in un ipocrita gesto autoassolutorio.

      Questa memoria distorta non ci appartiene. Questo atto di offesa al ricordo di chi è morto e di chi ha resistito alla violenza di frontiera ci indigna.

      Lasciate in pace le salme inumate a Borgo Panigale, la loro presenza che finora avete ignorato o insultato, la loro memoria che nulla ha a che vedere con le commemorazioni istituzionali.

      Che siano familiari e sopravvissuti a recarsi sui luoghi della sepoltura, come chiedono incessantemente da un anno alla politica nazionale e internazionale!

      Saranno loro a custodirne l’ingiustizia e il dolore a monito di quello che è stato fatto.
      Saranno loro – gli esclusi dalla narrazione delle istituzioni – a commemorare i morti di un regime di frontiera che, dalla Legge 50/2023, ancora più ferocemente e impunemente, colpisce le persone in movimento.

      Accanto a famiglie e sopravvissuti continueremo a sostenere la loro lotta per verità e giustizia, contro la mistificazione che criminalizza l’identità e la storia delle persone, contro la strumentalizzazione di chi esercita con violenza un potere non solo sulla vita ma anche sulla morte e sul lutto.


      https://memoriamediterranea.org/comunicato-stampa-10-03-2024

    • A Borgo Panigale commemorazione delle vittime del naufragio di Cutro

      Il Comune di Bologna, in collaborazione con la Comunità Islamica di Bologna, ricorderà le vittime della strage di Cutro, ad un anno dall’arrivo delle prime salme inumate nel cimitero di Borgo Panigale.

      La commemorazione si terrà domenica 10 marzo alle ore 15, con partenza dall’ingresso di via Marco Emilio Lepido, 60, con una camminata silenziosa che attraverserà il cimitero di Borgo Panigale fino al campo islamico, dove riposano quattordici vittime della strage.

      Al termine del percorso ci saranno gli interventi istituzionali dei Sindaci di Bologna Matteo Lepore e di Cutro Antonio Ceraso.
      Il ricordo si concluderà con una funzione religiosa, celebrata dal presidente dell’UCOII, dott. Yassine Lafram, nella sua veste di imam.


      https://www.bolognaservizicimiteriali.it/A-Borgo-Panigale-commemorazione-delle-vittime-del-naufragi

  • « La survie est une question de chance »

    L’art de la résistance relate les années de clandestinité de l’auteur pendant la seconde guerre mondiale. Issu d’une famille juive de Dantzig, et étudiant à Paris quand la guerre éclate entre la France et l’Allemagne, Justus Rosenberg nous raconte avec une certaine humilité ces années de destruction généralisée.

    Son récit – qui débute par son enfance à Dantzig et se termine à la libération – se lit comme un roman, sans jamais tomber dans des théorisations politiques inutiles. La montée en puissance du nazisme et la terreur qui l’accompagne ont atteint très tôt le jeune Justus Rosenberg. L’entrée en résistance pour lui s’est faite comme une évidence, et on le voit alors sillonner différentes régions de l’hexagone.

    sur : Justus Rosenberg : L’art de la résistance.Quatre ans dans la clandestinité en France
    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2024/03/23/la-survie-est-une-question-de-chance

    #mémoire #histoire

  • Writing by hand may increase brain connectivity more than typing on a keyboard
    https://www.frontiersin.org/news/2024/01/26/writing-by-hand-increase-brain-connectivity-typing

    In an ever more digital world, pen and paper are increasingly getting replaced with screens and keyboards in classrooms. Now, a new study has investigated neural networks in the brain during hand- and typewriting. The researchers showed that connectivity between different brain regions is more elaborate when letters are formed by hand. This improved brain connectivity, which is crucial to memory building and information encoding, may indicate that writing by hand supports learning.

    #mémoire #écriture #apprentissage

  • https://afriquexxi.info/Statues-coloniales-en-Afrique-Les-empires-contre-attaquent

    Statues coloniales en Afrique. Les empires contre-attaquent

    En dépit des déboulonnages menés lors de la décolonisation dans les années 1960, et des mouvements plus récents tels que « Rhodes Must Fall » en Afrique du Sud, de nombreuses statues coloniales sont encore debout sur le continent. Certaines ont même été (ré)installées dans les années 2000... Explications d’un surprenant revival.

    Sophia Labadi, 13 mars 2024

    En 2020, les déboulonnages de statues coloniales, esclavagistes et racistes qui ont eu lieu dans de nombreux pays après le meurtre de George Floyd, aux États-Unis, ont été largement et publiquement discutés. Ces débats affirmaient que les statues coloniales en Afrique avaient été contestées et déboulonnées depuis de nombreuses années. En réalité, les monuments coloniaux dans l’espace public en Afrique ont des histoires bien plus complexes et souvent méconnues, qui incluent la contestation et le déboulonnage, mais pas uniquement.

    Mon enquête historique, qui couvre les périodes allant des indépendances aux événements les plus récents, met en lumière trois grandes phases : l’ère des indépendances (1950-1980) ; les années 1990 et 2000, marquées par la riposte des empires ; et les contestations renouvelées des statues coloniales à partir des années 2010. Cette approche sur plus de soixante-dix ans permet d’exposer les périodes d’hostilité, d’amnésie, de remémoration et de contestations qui ont jalonné l’histoire de ces monuments. Enrichi par un regard régional, ce travail offre une compréhension affinée des multiples dimensions sociales, culturelles, géopolitiques et économiques liées à ces vestiges coloniaux. Cette plongée dans le passé offre également une perspective éclairante sur les débats actuels entourant les statues coloniales.

    (suite à lire en ligne. Version adaptée et traduite de l’article «Colonial statues in post-colonial Africa», publié par l’ International Journal of Heritage Studies )

    #Afrique #mémoire #histoire #colonialisme

  • La memoria rimossa. « Il Massacro di Addis Abeba »

    Il graphic novel racconta la strage che seguì al fallito attentato al governatore e viceré d’Etiopia #Rodolfo_Graziani, avvenuto ad Addis Abeba il 19 febbraio 1937. La feroce rappresaglia, che costò la vita a migliaia di etiopi, è una prova incontestabile del nostro comportamento coloniale utile a smontare il mito degli “#Italiani_Brava_Gente”.

    Destinato al pubblico più vasto, il lavoro di Giacopetti è pensato come strumento utile ad affrontare la storia coloniale anche nelle scuole, per questo include un agile glossario di termini, locuzioni e acronimi che arricchiscono la lettura.

    https://www.meltingpot.org/2024/03/la-memoria-rimossa-il-massacro-di-addis-abeba

    Pour télécharger la BD :
    https://resistenzeincirenaicacom.files.wordpress.com/2024/02/a5_il_massacro_di_addis_abeba_fumetto_federazione_delle_resistenze.pdf

    #bande_dessinée #BD #livre #massacre #Addis_Abeba #Italie #Italie_coloniale #colonialisme #mémoire #19_février_1937 #Ethiopie #colonialisme #histoire

    –-

    ajouté à la métaliste sur le #colonialisme_italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

    • Dans cet article, on apprend qu’elle a été mandatée par le Secrétariat d’État chargé des Anciens Combattants et de la Mémoire pour participer à la dernière journée durant laquelle a eu lieu la cession officielle des archives sur Thiaroye au Sénégal. Elle a donc entendu le président Hollande évoquer au moins soixante-dix morts.

      #historienne_de_prefecture

  • #Journal du #Regard : Février 2024
    https://liminaire.fr/journal/article/journal-du-regard-fevrier-2024

    https://youtu.be/28yB3hwxWpk?si=KfmRvnVBL24O8W9Y

    Chaque mois, un film regroupant l’ensemble des images prises au fil des jours, le mois précédent, et le texte qui s’écrit en creux. « Une sorte de palimpseste, dans lequel doivent transparaître les traces - ténues mais non déchiffrables - de l’écriture “préalable” ». Jorge Luis Borges, Fictions Nous ne faisons qu’apparaître dans un monde soumis comme nous au pouvoir du temps. Dans le silence qui suit la fin du signal de départ. Dans un seul et unique instant. Non pas suites sans principe de (...) #Journal, #Vidéo, #Architecture, #Art, #Écriture, #Voix, #Sons, #Paris, #Mémoire, #Paysage, #Ville, #Journal_du_regard, #Regard, #Dérive, #Paris, #Canal, #Louvre (...)

  • [Les Promesses de l’Aube] Faire mouvement(s) en économie sociale
    https://www.radiopanik.org/emissions/les-promesses-de-l-aube/faire-mouvements-en-economie-sociale

    Ce mercredi matin nous aurons le plaisir de recevoir François Welter (CARHOP) et Pierre Georis (ancien secrétaire général du #moc) pour nous parler l’histoire de l’économie sociale et du mouvement coopératif en Belgique, et en particulier, sa place au sein du #mouvement_ouvrier Chrétien. Il sera également question des convergences entre les différentes formes d’économie sociale et des différents obstacles rencontrés.

    #mémoire #syndicats #carhop #action_sociale #histoire_sociale #économie_soicale #mémoire,syndicats,carhop,moc,mouvement_ouvrier,action_sociale,histoire_sociale,économie_soicale
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/les-promesses-de-l-aube/faire-mouvements-en-economie-sociale_17375__1.mp3

  • Rotta balcanica: i sogni spezzati nella Drina
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Rotta-balcanica-i-sogni-spezzati-nella-Drina-229948

    Nelle acque del fiume Drina, in Bosnia Erzegovina, decine di migranti sono morti nel tentativo di avvicinarsi al sogno di una vita migliore in quell’Europa che li respinge. Volontari del Soccorso alpino di Bijeljina e attivisti sono impegnati nel difficile recupero dei corpi

    • Rotta balcanica : i sogni spezzati nella Drina

      Nelle acque del fiume Drina, in Bosnia Erzegovina, decine di migranti sono morti nel tentativo di avvicinarsi al sogno di una vita migliore in quell’Europa che li respinge. Volontari del Soccorso alpino di Bijeljina e attivisti sono impegnati nel difficile recupero dei corpi.

      “Finora non mi è mai capitato di sognare uno dei corpi ritrovati, non ho mai avuto incubi. Proprio mai. Credo sia una questione di approccio. Soltanto chi non ha la coscienza pulita fa incubi”, afferma Nenad Jovanović, 37 anni, membro della squadra del Soccorso alpino di Bijeljina.

      Negli ultimi sei anni, Jovanović ha partecipato alle operazioni di recupero di oltre cinquanta corpi di migranti nell’area che si estende dal villaggio di Branjevo alla foce del fiume Drina [nella Bosnia orientale], tutti di età inferiore ai quarant’anni, annegati nel tentativo di entrare in Bosnia Erzegovina dalla Serbia, per poi proseguire il loro viaggio verso altri paesi europei, in cerca di un posto sicuro per sé e per i propri familiari.

      “Ogni volta che scoppia un nuovo conflitto in Medio Oriente, in Afghanistan, Iraq o altrove, assistiamo ad un aumento degli arrivi di migranti in cerca di salvezza nei paesi dell’Unione europea. Purtroppo, per alcuni di loro la Drina si rivela un ostacolo insormontabile. Il loro è un destino doloroso che può capitare a chiunque”, spiega Nenad Jovanović.

      Durante le operazioni di recupero dei corpi, Jovanović più volte è stato costretto a gettarsi nel fiume in piena, rischiando la propria vita.

      “Recentemente abbiamo recuperato il corpo di un uomo proveniente dall’Afghanistan. Era in acqua da circa un anno. I pescatori che per primi lo avevano notato non erano nemmeno sicuri che si trattasse di un corpo umano. Potete immaginare lo stato in cui si trovava”, afferma Jovanović.

      Un suo collega, Miroslav Vujanović, si sofferma sull’aspetto umano del lavoro del soccorritore. “A prescindere dallo stato di decomposizione, cerchiamo in tutti in modi possibili di recuperare il corpo nelle condizioni in cui lo troviamo. Nulla deve essere perso, nemmeno i vestiti. Perché siamo tutti esseri umani. Nel momento del recupero di un corpo magari non pensi alla sua identità, cerchi di fare il tuo lavoro in modo professionale e basta. Poi però quando torni a casa e vedi tua moglie e i figli, inizi a chiederti chi fosse quell’uomo e se anche lui avesse una famiglia. È del tutto normale riflettere su queste cose. Sono però pensieri intimi, che tendiamo a tenere dentro”.

      I volontari del Soccorso alpino di Bijeljina hanno partecipato anche alle operazioni di ricerca e assistenza alle popolazioni colpite dal terremoto nella regione di Banovina (in Croazia) nel 2020 e alle vittime del terremoto che l’anno scorso ha devastato la Turchia. In tutte queste operazioni sono stati costretti ad utilizzare le attrezzature prese in prestito o noleggiate, perché le autorità locali non rispettano gli accordi di cooperazione stipulati con altri paesi. Del resto, la Bosnia Erzegovina è il paese delle assurdità. Lo confermano anche i nostri interlocutori, aggiungendo che a volte si sentono incompresi anche dai loro familiari.

      “Mia moglie spesso si chiede come io possa fare questo lavoro. Oppure invito ospiti a casa per la celebrazione del santo della famiglia, e proprio quando stiamo per tagliare il pane tradizionale, mi chiama la polizia dicendo di aver trovato un cadavere nella Drina. Quindi, mi scuso con gli ospiti, chiedo loro di rimanere e vado a fare il mio lavoro. Non è un lavoro facile, ma per me la più grande soddisfazione è sapere che quel corpo recuperato sarà sepolto degnamente e che la famiglia della vittima, straziata dalla sofferenza, finalmente troverà pace”, spiega Nenad Jovanović.

      Recentemente, Jovanović, insieme ai suoi colleghi Miroslav Vujanović e Safet Omerbegić, ha partecipato ad una cerimonia di commemorazione in memoria dei migranti scomparsi e morti ai confini d’Europa. In quell’occasione sono state inaugurate le lapidi delle tombe dei sedici migranti sepolti nel nuovo cimitero di Bijeljina, situato nel quartiere di Hase. Trattandosi di corpi non identificati, ciascuna delle lastre in marmo nero reca incise, a caratteri dorati, la sigla N.N e l’anno della morte.

      Nel cimitero è stato piantato anche un filare di alberi in memoria delle vittime e sono state collocate due targhe commemorative con la scritta: “Non dimenticheremo mai voi e i vostri sogni spezzati nella Drina”. L’iniziativa è stata realizzata grazie al sostegno dell’associazione austriaca «SOS Balkanroute» e di Nihad Suljić, attivista di Tuzla, che da anni fornisce assistenza concreta ai rifugiati e partecipa alle procedure di identificazione e sepoltura dei morti.

      “Per noi è un grande onore e privilegio sostenere simili progetti. Si tratta di un’iniziativa pionieristica che può fungere da modello per l’intera regione. Per quanto possa sembrare paradossale, siamo contenti che queste persone, a differenza di tante altre, abbiano almeno una tomba. Abbiamo voluto che le loro tombe fossero dignitose e che non venissero lasciate al degrado, come accaduto recentemente a Zvornik”, sottolinea Petar Rosandić dell’associazione SOS Balkanroute.

      Rosandić spiega che la sistemazione delle tombe dei migranti nei cimiteri di Bijeljina e Zvornik è frutto di un’iniziativa di cooperazione transfrontaliera a cui hanno partecipato anche le comunità religiose di Vienna. Queste comunità, che durante la Seconda guerra mondiale erano impegnate nel salvataggio degli ebrei, oggi partecipano a diversi progetti a sostegno dei migranti lungo le frontiere esterne dell’UE.

      “Sulle lastre c’è scritto che si tratta di persone non identificate, ma noi sappiano che in ogni tomba giace il corpo di un giovane uomo i cui sogni si sono spezzati nella Drina. Ognuno di loro aveva una famiglia, un passato, i propri desideri e le proprie aspirazioni. Il loro unico peccato, secondo gli standard europei, era quello di avere un passaporto sbagliato, quindi sono stati costretti a intraprendere strade pericolose per raggiungere i luoghi dove speravano di trovare serenità e un futuro migliore”, afferma l’attivista Nihad Suljić.

      Suljić poi spiega che nel prossimo periodo i ricercatori e gli attivisti si impegneranno al massimo per instaurare una collaborazione con diverse istituzioni e organizzazioni. L’obiettivo è quello di identificare le persone sepolte in modo da restituire loro un’identità e permettere alle loro famiglie di avviare un processo di lutto.

      “Questi monumenti neri sono le colonne della vergogna dell’Unione europea – commenta Suljić - non è stata la Drina a uccidere queste persone, bensì la politica delle frontiere chiuse. Se avessero avuto un altro modo per raggiungere un posto sicuro dove costruire una vita migliore, sicuramente non sarebbero andati in cerca di pace attraversando mari, fiumi e fili spinati. Le loro tombe testimonieranno per sempre la vergogna e il regime criminale dell’UE”.

      Suljić ha invitato i cittadini dell’UE che hanno partecipato alla cerimonia di commemorazione a Bijeljina a chiamare i governi dei loro paesi ad assumersi la propria responsabilità.

      “Non abbiamo bisogno di donazioni né di corone di fiori. Vi invito però a inviare un messaggio ai vostri governi, a tutti i responsabili dell’attuazione di queste politiche, per spiegare loro le conseguenze delle frontiere chiuse, frontiere che uccidono gli esseri umani, ma anche i valori europei”.

      Dalla chiusura del corridoio sicuro lungo la rotta balcanica [nel 2015], nell’area di Bijeljina, Zvornik e Bratunac sono stati ritrovati circa sessanta corpi di migranti annegati nel fiume Drina. Stando ai dati raccolti da un gruppo di attivisti e ricercatori, nel periodo compreso tra gennaio 2014 e dicembre 2023 lungo il tratto della rotta balcanica che include sei paesi (Macedonia del Nord, Kosovo, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia) hanno perso la vita 346 persone in movimento. Trattandosi di dati reperiti da fonti pubbliche, i ricercatori sottolineano che il numero effettivo di vittime con ogni probabilità è molto più alto. In molti casi, la tragica sorte dei migranti è direttamente legata ai respingimenti effettuati dalle autorità locali e dai membri dell’agenzia Frontex.

      “La morte alle frontiere è ormai parte integrante di un regime di controllo che alcuni autori definiscono un crimine in tempo di pace, una forma di violenza amministrativa e istituzionale finalizzata a mantenere in vita un determinato ordine sociale. Molte persone morte ai confini restano invisibili, come sono invisibili anche le persone scomparse. I decessi e le sparizioni spesso non vengono denunciati, e alcuni corpi non vengono mai ritrovati”, spiega Marijana Hameršak, ricercatrice dell’Istituto di etnologia e studi sul folklore di Zagabria, responsabile di un progetto sui meccanismi di gestione dei flussi migratori alle periferie dell’UE.

      In assenza di un database regionale e di iniziative di cooperazione transfrontaliera, sono i volontari e gli attivisti a portare avanti le azioni di ricerca di persone scomparse e i tentativi di identificazione dei corpi. Al termine della cerimonia di commemorazione, a Bijeljina si è tenuta una conferenza per discutere di questo tema.

      “Molte famiglie non sanno a chi rivolgersi, non hanno mai ricevuto indicazioni chiare. Finora le istituzioni non hanno mai voluto impegnarsi su questo fronte. Spero che a breve ognuno si assuma la propria responsabilità e faccia il proprio lavoro, perché non è normale che noi, attivisti e volontari, portiamo avanti questo processo”, denuncia Nihad Suljić.

      A dare un contributo fondamentale è anche Vidak Simić, patologo ed esperto forense di Bijeljina. Dal 2016 Simić ha eseguito l’autopsia e prelevato un campione di DNA di circa quaranta corpi di migranti, per la maggior parte rinvenuti nel fiume Drina.

      “Questa vicenda mi opprime, non mi sento bene perché non riesco a portare a termine il mio lavoro. Credo profondamente nel giuramento di Ippocrate e lo rispetto. Le leggi e altre norme mi obbligano a conservare i campioni per sei mesi, ho deciso però di conservarli per tutto il tempo necessario, in attesa che il sistema venga cambiato. La mia idea è di raccogliere tutti questi campioni, creare profili genetici individuali, pubblicarli su un sito appositamente creato in modo da aiutare le famiglie – in Afghanistan, Pakistan, Algeria, Marocco e in altri paesi – che cercano i loro cari scomparsi.

      Lo auspicano anche il padre, la madre, la sorella e i fratelli di Aziz Alimi, vent’anni, proveniente dall’Afghanistan, che nel settembre dello scorso anno, nel tentativo di raggiungere la Bosnia Erzegovina dalla Serbia, aveva deciso di attraversare la Drina a nuoto con altri tre ragazzi. Poco dopo la sua scomparsa, nello stesso luogo da dove Aziz per l’ultima volta aveva contattato uno dei suoi fratelli, è stato ritrovato un corpo.

      Dal momento che non è stato possibile identificare il corpo per via del pessimo stato in cui si trovava, i familiari di Aziz, che nel frattempo hanno trovato rifugio in Iran, hanno inviato un campione del suo DNA in Bosnia Erzegovina. Ripongono fiducia nelle istituzioni e nei cittadini bosniaco-erzegovesi per garantire ad Aziz almeno una sepoltura dignitosa.

      Ai presenti alla conferenza di Bijeljina si è rivolta anche la sorella di Aziz, Zahra Alimi, intervenuta con un videomessaggio. “Non abbiamo parenti in Europa che possano aiutarci e davvero non sappiamo cosa fare. Per favore aiutateci, nostro padre è affetto da un tumore e nostra madre ha sofferto molto dopo aver appreso la triste notizia [della scomparsa di Aziz]. Possiamo contare solo su di voi”.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Rotta-balcanica-i-sogni-spezzati-nella-Drina-229948
      #route_des_Balkans #Balkans #rivière #Bosnie-Hezégovine #migrations #réfugiés #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #Bijeljina #Branjevo #Nenad_Jovanović #Nenad_Jovanovic #Serbie #frontières #commémoration #mémoire #cimetière #tombes #SOS_Balkanroute #Nihad_Suljić #Nihad_Suljic #dignité #monument #responsabilité

  • « #Bye_Bye_Tibériade » : #Lina_Soualem convoquée #Au_Poste

    https://www.auposte.fr/bye-bye-tiberiade-lina-soualem-convoquee-au-poste

    #dav_duf #palestine #cinéma

    Brel avait un mot. Aller voir. Il faut aller voir. Cette maxime, Hiam Abbass aurait pu la faire sienne. Il y a 30 ans, l’immense actrice a quitté son village #palestinien pour l’Europe, et son cinéma, puis les Etats-Unis, et leur folie. Avec sa fille Lina Soualem, #réalisatrice (son « #Leur_Algérie », il y a trois ans, fut un bijou d’humanité et de drôlerie), #Hiam_Abbass retourne sur les traces des lieux disparus et des #mémoires dispersées de quatre #générations de femmes #palestiniennes.

  • #Lina_Soualem et #Hiam_Abbass : « Faire exister l’humanité du peuple palestinien »

    Après Leur Algérie, explorant la branche familiale paternelle, la réalisatrice Lina Soualem poursuit l’introspection du double exil qu’elle porte : l’Algérie mais aussi la Palestine. Bye bye Tibériade, son second documentaire, sort en salles mercredi 21 février. Bouleversant de tristesse mais aussi de joie, il raconte comment la lignée de femmes de sa famille maternelle, dont sa mère l’actrice Hiam Abbass, a été percutée par les violences de l’histoire.

    À travers elles, c’est l’histoire du peuple palestinien qui se déploie sur plusieurs décennies, un peuple qui subit une injustice historique et qui est revenu au cœur de l’actualité de la plus sanglante des manières. La sortie de Bye Bye Tibériade survient en pleine guerre à Gaza, où Israël mène, depuis le 7 octobre 2023 et les massacres du Hamas qui ont fait 1 160 morts, une riposte militaire. Celle-ci a tué plus de 29 000 personnes, dont 70 % sont des femmes et des enfants, dans l’enclave palestinienne.

    En explorant les douleurs de la mémoire familiale et collective à travers le prisme des femmes, Lina Soualem questionne aussi admirablement l’universel qui nous percute et nous rassemble : l’amour, l’exil, la famille, la terre, les racines.

    https://www.youtube.com/watch?v=9vsnwCDc1Ww

    #film #Palestine #cinéma #documentaire #film_documentaire #dépossession #héroïsme #arrachement #exil #identité #droit_à_la_complexité #culture #nakba #intimité #négation #histoire_familiale #parcours_de_vie #silence #art #récits_de_vie #mémoire_collective #peur_de_la_perte #maison #douleurs_du_passé #transmission #force_féminine #vie #humour #liberté #rupture #exil_forcé #patriarcat #poésie

    • À propos de la panthéonisation de Missak Manouchian et de sa compagne Mélinée
      https://lahorde.info/A-propos-de-la-pantheonisation-de-Missak-Manouchian-et-de-sa-compagne-Meli

      Au-delà de la polémique sur la présence indécente de Marine Le Pen à la cérémonie d’hommage à Missak et Mélinée Manouchian à l’occasion du transfert de leurs dépouilles au Panthéon, il faudrait aussi s’interroger sur le sens de cette récupération politicienne du combat antifasciste, alors même qu’une loi vient d’être votée qui aurait à coup sûr expulser les membres des FTP-MOI. C’est dans ce sens que l’association Les Ami.e.s de Maurice Rajsfus a publié un communiqué intitulé « Les fossoyeurs de la mémoire » que nous reproduisons ici.

      https://www.mauricerajsfus.org/2024/02/20/communique-de-presse-paris-19-fevrier-2024

      Pour quelles raisons faudrait-il se féliciter de la panthéonisation de l’immigré #Missak_Manouchian et de sa compagne Mélinée ? En quoi le fait de descendre, 80 ans jour pour jour après son assassinat par les nazis, dans la crypte sombre et sans âme du Panthéon pour y rejoindre nombre de « grands hommes »,infréquentables de leur vivant, représenterait un intérêt quelconque ?
      Les idéaux d’émancipation de Missak Manouchian et de tous les membres de son groupe n’ont rien à voir avec les pompes de l’Empire et de la République. Ils lui sont même radicalement opposés.
      Pourchassés et traqués par la police de Vichy et l’armée allemande, dans le Paris de l’occupation, ils faisaient partie des rares survivants à résister les armes à la main, contre le fascisme, après une répression inimaginable, durant le terrible hiver 1943. Avant-guerre, ils avaient déjà été pourchassés comme immigrés clandestins par la police de la Troisième République.
      Ensevelir Manouchian et Mélinée dans la crypte du Panthéon, c’est un incroyable contresens et une double trahison.
      Parce que ce cirque mémoriel voulu par Emmanuel Macron alimente avant toute chose des fantasmes cocardiers et une récupération de type chauvine à laquelle les intéressé.es ne sont pas en mesure de s’opposer.
      Parce que cette cérémonie médiatique de récupération est organisée par ceux-là mêmes qui empilent, depuis des années, les lois les plus liberticides et les lois racistes à l’encontre des migrants, dont la plus récente, votée avec les voix de l’extrême droite en décembre 2023, fait droit à la « préférence nationale ».
      La volonté de remise en cause du droit du sol sur l’île de Mayotte, dans l’archipel des Comores, de l’initiative même de ce gouvernement, qui court après les fondamentaux du R-Haine, nous prépare l’arrivée des fascistes au pouvoir. Cette politique délétère et funeste est aux antipodes des combats internationalistes et antifascistes de Missak Manouchian et de ses camarades de combat.

      #mémoire

  • #CommemorAction 2024 : on n’oublie pas, on ne pardonne pas !

    Le #6_février, c’était la journée mondiale de lutte contre le régime de mort aux frontières et pour exiger la vérité, la justice et la réparation pour les victimes de la migration et leurs familles. Pour la troisième année consécutive, #Douarnenez a répondu à l’appel qui été suivi par 55 villes (dont sept en #Bretagne) de 17 pays d’Afrique, d’Asie et d’Europe.

    https://blogs.mediapart.fr/938539/blog/130224/commemoraction-2024-noublie-pas-ne-pardonne-pas
    #commémor'action #commémoration #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #migrations #réfugiés #mémoire #oubli #pardon #6_février_2024 #France #portfolio #photographies

    • « Parce que Oublier c’est Tuer une Deuxième Fois »

      « Parce qu’on ne veut pas s’habituer »

      « Parce qu’on savait »