• Carte à la une. Déconstruire un récit impérial : le mythe Sykes-Picot — Géoconfluences
    https://geoconfluences.ens-lyon.fr/informations-scientifiques/a-la-une/carte-a-la-une/sykes-picot

    Très bon article

    La carte dite de Sykes-Picot (1916) est souvent présentée comme l’illustration la plus flagrante de l’impérialisme européen au Moyen-Orient et de la manière dont les frontières y ont été tracées arbitrairement. En replaçant cette carte dans son contexte historique, l’historiographie récente nuance cette idée. Exagérer son importance revient à occulter la longue histoire des frontières et tend à faire oublier que ce mythe est lui-même en partie hérité des discours impériaux.


    #cartographie #colonisation #géopolitique

  • I luoghi della memoria dell’Italia fascista

    Il territorio di questo paese conserva molte tracce del suo passato fascista sotto forma di edifici, monumenti, ma anche nomi di strade, vie o scuole. In alcuni casi, quando simboli, monumenti e intitolazioni sono presenti nella nostra vita quotidiana senza essere oggetto di commemorazione o ricostruzione memoriale specifica, essi giacciono lì, muti per la maggior parte della popolazione, ma presenti e disponibili a diversi tipi di riattivazione. In altri casi questi luoghi sono invece oggetto di commemorazioni e cerimonie, per lo più presidi di una memoria minoritaria, ma che riappare carsicamente nella storia d’Italia, coltivate da minoranze neofasciste o della nuova destra, che cercano di costruire un ponte che legittimi il presente attraverso la storia del passato fascista, ma anche che permetta di coltivare costruzioni identitarie antidemocratiche.

    Per riflettere su questi fenomeni, l’Istituto nazionale Ferruccio Parri ha avviato un progetto che ha l’obiettivo di mappare e ricostruire progressivamente la storia dei ‘luoghi della memoria’ locale e nazionale del fascismo storico (1919-1945). Obiettivo del progetto è individuare e analizzare i monumenti e le intitolazioni di strade e edifici pubblici che sono stati costruiti come luoghi della memoria del fascismo durante il regime o negli anni successivi alla Liberazione del paese.

    Questa mappatura ha l’obiettivo di verificare la geografia di questi monumenti e di queste intitolazioni ricorrenti; leggerne la stratificazione storica e in ogni caso ricostruire la storia di questi luoghi della memoria, del significato che hanno assunto del tempo e di come sono stati modificati dal tempo o dagli uomini e dalle donne di questo paese. Questa ricerca dovrebbe così permettere di leggere e analizzare i diversi modi in cui nelle composite comunità locali e territoriali la memoria del fascismo è stata preservata e/o ricostruita, come questa costruzione si collochi in relazione con altre memorie politiche e come, nel corso di questi anni, in concomitanza con la rilegittimazione in corso dell’esperienza fascista, queste memorie si siano ridefinite e rialimentate. Questo progetto ha nutrito anche una riflessione scientifica più articolata, che è stata ripresa e riarticolata nel volume curato da Giulia Albanese e Lucia Ceci intitolato I luoghi del fascismo. Memoria, politica e rimozione (Viella, 2022).

    Questo progetto è coordinato da Giulia Albanese insieme a un gruppo di lavoro del comitato scientifico del Parri composto da Filippo Focardi (direttore scientifico dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri), Mirco Carrattieri, Lucia Ceci, Costantino Di Sante, Carlo Greppi, Metella Montanari, Nicola Labanca. Questo gruppo, a partire dal 2021, è stato sostituito dai membri del nuovo Comitato scientifico del Parri (2021-2024): Filippo Focardi (Direttore scientifico, Presidente), Laura Bordoni, Lucia Ceci, Annalisa Cegna, Chiara Colombini, Andrea Di Michele, Nicola Labanca, Matteo Mazzoni, Santo Peli, Antonella Salomoni, Giovanni Scirocco.

    Il progetto del sito e del database è stato realizzato da Igor Pizzirusso.
    Antonio Spinelli e Giulia Dodi hanno invece curato redazione, approfondimento scientifico e validazione delle schede (oltre a contribuire con ulteriori segnalazioni).
    Fondamentale è stato il lavoro dei volontari della rete degli istituti per la storia della resistenza che hanno inviato segnalazioni o realizzato il primo censimento, ma anche da studiosi indipendenti che hanno collaborato all’individuazione dei luoghi e alla loro schedatura. Questa ricerca è dunque il frutto di un progetto collaborativo e in progress, ma ciascuna scheda riporta l’indicazione dell’autore della compilazione.

    L’Istituto nazionale Ferruccio Parri ha aperto una collaborazione con Postcolonialitaly.com, per rendere disponibili a quel progetto i luoghi coloniali censiti in questo sito e ricevere le schede di quel sito con riferimento ai luoghi coloniali che sono pertinenti per questo progetto. Nella scheda descrittiva daremo conto di eventuali schede derivate da quel progetto.


    https://www.luoghifascismo.it

    #Italie_fasciste #fascisme #Italie #cartographie #traces #visualisation #mémoire #toponymie #toponymie_politique #toponymie_fasciste

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    ajouté à la métaliste sur l’Italie coloniale (la question coloniale se chevauche avec la question fasciste) :
    https://seenthis.net/messages/871953

    • I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione

      Cosa resta dei monumenti, dei complessi architettonici, delle opere d’arte attraverso cui il fascismo intese esplicitamente celebrare e tramandare sé stesso? Quale uso è stato fatto nell’Italia repubblicana di queste tracce materiali?

      In che modo la memoria dei luoghi del fascismo somiglia a quanto è avvenuto in altri stati con esperienze analoghe?

      Il volume indaga questi temi a partire da alcuni luoghi particolarmente significativi nella storia italiana (presenti in città come Roma, Milano, Latina, Livorno, Padova o in piccoli centri della Calabria) e di alcuni paesi europei (Germania, Spagna, Portogallo). Il lavoro si inserisce in un ampio progetto di ricerca dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri finalizzato alla mappatura dei luoghi della memoria commemorativa del fascismo in Italia.

      https://www.viella.it/libro/9791254691908

      #livre

  • Le corps d’un homme non identifié retrouvé à 2 300 mètres d’altitude

    Des randonneurs à skis ont trouvé un corps ce dimanche 19 mai à Névache. Une autopsie sera diligentée.

    Ce dimanche 19 mai, dans l’après-midi, un groupe de randonneurs à skis, dont un accompagnateur en montagne italien, a trouvé un corps, sous la pointe Balthazar, vers 2300 mètres d’altitude, à Névache, dans la vallée Étroite, a appris le Dauphiné Libéré.

    Le corps pas encore identifié

    Les secouristes du peloton de gendarmerie de haute montagne (PGHM) de Briançon se sont rendus sur place, avec les techniciens en identification criminelle de la gendarmerie de Gap, ainsi que la brigade de recherche de Briançon, à bord de l’hélicoptère de la section aérienne de gendarmerie.

    Le corps n’a pour le moment pas été identifié. Il s’agit d’un homme. Selon la procureure de la République de Gap, Marion Lozac’hmeur, « une enquête en recherche des causes de la mort a été ouverte et une autopsie sera diligentée. L’enquête aura pour objectif de déterminer la période et les circonstances de la mort ».

    https://www.ledauphine.com/faits-divers-justice/2024/05/20/le-corps-d-un-homme-non-identifie-retrouve-sous-la-pointe-balthazar

    Peut-être un migrant... mais les informations ne sont pas encore claires et vérifiées...

    #migrations #réfugiés #morts_aux_frontières #frontières #Névache #Hautes-Alpes #France #Italie #décès

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    ajouté au fil de discussion sur les morts à la frontière des Hautes-Alpes :
    https://seenthis.net/messages/800822

    lui-même ajouté à la métaliste sur les morts aux frontières alpines :
    https://seenthis.net/messages/758646

    • Névache : le corps non identifié d’un homme retrouvé à 2.300 mètres d’altitude

      Un groupe de randonneurs et un accompagnateur ont découvert un corps sous la pointe Balthazar dans la Vallée Étroite à 2.300 mètres d’altitude ce dimanche 19 mai. Une enquête a été ouverte.

      Macabre découverte pour un groupe de randonneurs et un accompagnateur en montagne italien ce dimanche 19 mai. Selon les informations de nos confrères du Dauphiné Libéré, un corps a été retrouvé sous la pointe Balthazar au niveau de Névache dans la Vallée Étroite (Hautes-Alpes) à 2.300 mètres d’altitude.
      Une autopsie prévue

      Des secouristes du peloton de gendarmerie de haute montagne de Briançon, des techniciens en identification criminelle de la gendarmerie de Gap et la brigade de recherche de Briançon se sont rendus sur place à bord de l’hélicoptère de la section aérienne de gendarmerie.

      Contactée par BFM DICI, Marion Lozac’hmeur la procureure de la République de Gap annonce « qu’une enquête en recherche des causes la mort a été ouverte, afin de déterminer l’identité du défunt, la période et les causes de la mort ». Elle ajoute qu’une autopsie « va être diligentée ».

      https://www.bfmtv.com/bfm-dici/nevache-le-corps-non-identifie-d-un-homme-retrouve-a-2-300-metres-d-altitude_

  • Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni

    Il colonialismo si è intrecciato con la storia d’Italia dall’Ottocento alla Seconda guerra mondiale e ha proiettato la sua ombra anche nel periodo repubblicano, fino ai giorni nostri. Muovendo dal più recente dibattito storiografico, il volume ricostruisce per la prima volta in maniera sistematica e sintetica la storia dell’espansionismo italiano in Africa in età liberale e durante il ventennio fascista e ripercorre le vicende delle sue eredità e implicazioni nell’Italia del secondo Novecento e del XXI secolo. Si raccontano non solo i progetti politici, le relazioni diplomatiche, le operazioni militari, le violenze dell’occupazione, le leggi razziste, ma anche i movimenti di persone da e per l’Africa e il modo con cui la scuola, i libri, i film, la scienza e i monumenti hanno reso possibile l’espansione, contribuendo a costruire immaginari che influenzano ancora oggi le vite di milioni di donne e di uomini.

    https://www.carocci.it/prodotto/storia-del-colonialismo-italiano

    #histoire #Italie #colonialisme_italien #Italie_coloniale #histoire_coloniale #fascisme #expansionnisme #Afrique

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    ajouté à la métaliste sur l’Italie coloniale:
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  • Le invisibili

    L’oscuro passato di un’Italia coloniale raggiunge il presente attraverso le generazioni. Le storie private di due famiglie catapultano il lettore in una Storia che, come ogni altra epoca che l’ha preceduta e che seguirà, si consuma sul corpo delle donne, mentre nessuno guarda.

    https://neripozza.it/libro/9788854529120

    #livre #Italie_coloniale #colonialisme_italien #roman #Italie_coloniale #femmes #Elena_Rausa

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  • Perché serve mappare i “segni” del fascismo presenti nelle nostre città

    Targhe, intitolazioni e monumenti. I “resti” del regime ancora evidenti sul territorio italiano sono stati raccolti in una piattaforma online dall’Istituto nazionale Ferruccio Parri. Ma tocca alla cittadinanza decidere in che modo agire per dargli un nuovo senso.

    Nell’atrio della questura di Trieste è impossibile non vedere una lapide che ricorda i nomi dei poliziotti caduti nel compimento del proprio dovere. Nell’elenco compare anche quello di Gaetano Collotti e di altri agenti che tra il 1942 e il 1945 avevano fatto parte dell’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza incaricato alla repressione di partigiani e antifascisti. A Corigliano Calabro, in provincia di Cosenza, c’è ancora una via intitolata a Emilio De Bono, gerarca della prima ora e quadrumviro della Marcia su Roma. All’imbocco della galleria ferroviaria tra Ibla e Ragusa (RG) è ancora visibile la scritta: “Duce, i nostri caduti di guerra saranno vendicati”. Per non parlare dell’imponente obelisco all’ingresso del Foro italico di Roma, con le scritte “Mussolini” e “Dux”.

    Sono solo alcuni esempi -piccoli e grandi- dei molti luoghi dove ancora oggi è possibile trovare tracce del passato fascista dell’Italia, raccolti dai ricercatori dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri (che coordina la rete degli istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea in Italia) in una mappa online nell’ambito del progetto “I luoghi del fascismo” e che è possibile approfondire attraverso singole schede dedicate a ciascuna targa, intitolazione o monumento censito. “Il fascismo aveva un’idea molto chiara del fatto che il controllo politico del territorio passava necessariamente anche attraverso l’intitolazione di strade e monumenti -spiega Giulia Albanese, professoressa di Storia contemporanea presso l’Università di Padova e coordinatrice del progetto-. La forza di questo impatto, tuttavia, non è mai stata oggetto di una riflessione ampia da parte della classe dirigente dell’Italia repubblicana”.

    Il progetto affonda le sue radici in una discussione all’interno della rete degli Istituti per la storia della Resistenza rispetto ai simboli del regime ancora evidenti sul territorio. “A innescare questo percorso, nel 2018, fu il dibattito attorno alla possibile istituzione di un museo del fascismo a Predappio -ricorda Albanese-. La mia proposta fu quella di ragionare in maniera complessiva su quali fossero i luoghi commemorativi ancora presenti oggi in Italia e così, pur tra molte difficoltà, abbiamo dato il via alla mappatura”.

    Nel database e nella mappa sono stati inseriti monumenti e lapidi, scritte, intitolazioni di scuole e di vie che commemorano personaggi ed episodi legati al fascismo, sia a livello nazionale sia locale. Per individuarli è stato necessario applicare alcuni criteri: “Il territorio italiano è pieno di opere architettoniche che nel dopoguerra sono state utilizzate per altri scopi: noi abbiamo scelto di includere solo quelle che avevano forti segni commemorativi ancora visibili”, spiega Albanese. Un’analoga selezione è stata fatta per le vie che portano il nome di protagonisti o di luoghi legati al colonialismo italiano: in questo caso la scelta è stata di inserire solo quelle intitolate dopo il 1922, anno della presa del potere da parte di Mussolini. Il lavoro ha portato non solo alla creazione del sito (che può essere costantemente aggiornato ed è possibile inviare le proprie segnalazioni grazie a un apposito form) ma anche alla pubblicazione del volume “I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione” (Viella, 2022): una raccolta di saggi a firma di diversi autori che approfondiscono vari aspetti del tema.

    Da un punto di vista temporale parte di questi monumenti e di queste intitolazioni risalgono agli anni Venti e Trenta del Novecento e non sono stati rimossi con la caduta del regime. “Dopo il 1945 ci sono state alcune indicazioni in tal senso dalla presidenza del Consiglio dei ministri -ricorda Albanese- ma in generale la questione è stata demandata alle autorità, alle sensibilità e alle culture politiche locali. Nel nostro Paese è mancata una riflessione collettiva su che cosa fare con questo patrimonio e come agire per costruire un segno dell’Italia repubblicana sul nostro territorio”. Non solo: anche dopo il 25 aprile 1945 ci sono state nuove intitolazioni. “Questo è legato alla normalizzazione e alla banalizzazione dell’esperienza fascista, soprattutto nell’immediato dopoguerra. Poi, tra gli anni Ottanta e Novanta, assistiamo al ritorno nell’odonomastica di una serie di figure legate alla memoria di quel periodo storico e alla Repubblica sociale italiana, che fino a quel momento erano assenti -riprende Albanese-. Questa fase coincide con l’ascesa politica di Alleanza nazionale che ha fatto sì che alcune figure tornassero in auge. Ma non solo: fu Francesco Rutelli a proporre, nel 1995, di intitolare una strada di Roma a Giuseppe Bottai, già ministro sotto il fascismo. Segno anche di una certa inconsapevolezza di fronte a questi temi del mondo democratico e della sinistra”.

    Che cosa fare, quindi, con questa eredità poco evidente ma decisamente ingombrante? “Il nostro compito, come storici, è stato quello di individuare e mappare i segni commemorativi del fascismo al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica. È arrivato il momento di affrontare questo tema in un’ottica nazionale, superando le polemiche sui singoli episodi come è avvenuto in passato. Accogliere questa consapevolezza, discutere per valutare le opzioni possibili è una scelta politica, che riguarda la polis e il modo con cui questa si relaziona con la propria storia”, sottolinea Albanese. Possibili risposte agli interrogativi su che cosa fare di questi luoghi sono offerte da due episodi di risignificazione. Il primo riguarda l’arco di trionfo costruito a Bolzano nel 1928 per celebrare la “vittoria” italiana della Prima guerra mondiale: nel 2014, contestualmente a un intervento di restauro, è stato inaugurato un percorso espositivo dedicato alla storia della città tra il 1918 e il 1945 che permette agli osservatori di contestualizzare il monumento. Il secondo arriva dal Comune di Palazzolo Acreide (SR) dove nel 1936 venne posta una lapide per ricordare “l’enorme ingiustizia” delle sanzioni comminate all’Italia dalla Società delle Nazioni a seguito dell’invasione dell’Etiopia. “Nel 2014 l’amministrazione comunale ha deciso di non rimuoverla ma di affiancarla a una targa in vetro che esprime la lontananza politica e culturale dagli avvenimenti citati -conclude Albanese-. Questi processi di contestualizzazione storica sono molto efficaci perché aiutano a costruire una condivisione di valori attorno a episodi del passato senza censurarli”.

    https://altreconomia.it/perche-serve-mappare-i-segni-del-fascismo-presenti-nelle-nostre-citta

    #Italie #toponymie_coloniale #toponymie_politique #noms_de_rue

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  • La memoria rimossa del massacro di Debre Libanos e dell’età coloniale italiana

    Tra il 20 e il 29 maggio 1937 le truppe italiane massacrarono più di duemila monaci e pellegrini al monastero etiope. Una strage che, come altri crimini di guerra commessi nelle colonie, trova spazio a fatica nel discorso pubblico, nonostante i passi fatti da storiografia e letteratura. Con quel passato il nostro Paese non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale.

    “Questo avvocato militare mi ha comunicato proprio in questo momento che habet raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debra Libanos con gli autori dello attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore. Prego farmi assicurazione comunicandomi il numero di essi”.

    È il 19 maggio 1937. Con queste poche parole Rodolfo Graziani, “viceré d’Etiopia”, dà il via al massacro dei monaci di Debre Libanos, uno dei monasteri più importanti del Paese, il cuore della chiesa etiopica. Solo tre mesi prima Graziani era sopravvissuto a un attentato da parte di due giovani eritrei, ex collaboratori dell’amministrazione coloniale italiana, che agirono isolatamente, seppur vicini alla resistenza anti-italiana. La reazione fu spietata: tra il 19 e il 21 febbraio le truppe italiane, appoggiate dai civili e dalle squadre fasciste, uccisero quasi 20mila abitanti di Addis Abeba.

    Le violenze proseguirono per mesi e si allargarono in tutta la regione dello Scioa fino a raggiungere la città-monastero di Debre Libanos, a circa 150 chilometri dalla capitale etiope dove tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo il più grande eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano.

    “Vennero massacrate circa duemila persone tra monaci e pellegrini perché ritenuti in qualche modo conniventi con l’attentato a Graziani -spiega ad Altreconomia Paolo Borruso, docente di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano e autore del saggio “Debre Libanos 1937” (Laterza, 2020)-. Si è trattato di un vero e proprio crimine di guerra, poiché l’eccidio è stato qualcosa che è andato al di là della logica militare, andando a colpire dei religiosi, peraltro cristiani e inermi”.

    Al pari di molte altre vicende legate al passato coloniale italiano, a partire proprio dal massacro di Addis Abeba, anche la tragica vicenda di Debre Libanos è rimasta ai margini del discorso pubblico. Manca una memoria consapevole sulle responsabilità per gli eccidi e le violenze commesse dagli italiani nel corso della loro “avventura” coloniale per andare alla ricerca di un “posto al sole” in Libia, in Eritrea, Somalia ed Etiopia al pari delle altre nazioni europee, vengono ancora oggi occultate dalla coscienza pubblica.

    “La storiografia, a partire dal lavoro di Angelo Del Boca, ha fatto enormi passi avanti. Non c’è un problema di ricerca storica sul tema, quello che manca, piuttosto, è la conoscenza di quello che è avvenuto in quella fase storica al di là dei circoli degli addetti ai lavori”, puntualizza Valeria Deplano, docente di storia contemporanea all’Università di Cagliari e autrice, assieme ad Alessandro Pes di “Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni” (Carocci, 2024).

    Se da un lato è molto difficile oggi trovare chi nega pubblicamente l’uso dei gas in Etiopia, dall’altro è ancora molto diffusa l’idea che le violenze furono delle eccezioni riconducibili alle decisioni di pochi, dei vertici: il mito degli italiani “brava gente”, dunque, resiste ancora a ben sedici anni di distanza dalla pubblicazione dell’omonimo libro di Angelo Del Boca.

    Che l’Italia non abbia ancora fatto compiutamente i conti con il proprio passato coloniale lo dimostrano, ad esempio, le accese polemiche attorno alle richieste avanzate da attivisti e comunità afro-discendenti per modificare e contestualizzare la toponomastica delle nostre città o per una ri-significazione dei di monumenti che celebrano il colonialismo italiano (ad esempio l’obelisco che celebra i cinquecento caduti italiani nella battaglia di Dogali a Roma, nei pressi della Stazione Termini) (https://altreconomia.it/perche-serve-mappare-i-segni-del-fascismo-presenti-nelle-nostre-citta). Temi che vengono promossi, tra gli altri, dalla rete Yekatit 12-19 febbraio il cui obiettivo è quello contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia e che vorrebbe il riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano.

    “C’è un rifiuto a riconoscere il fatto che i monumenti e le strade intitolate a generali e luoghi di battaglia sono incompatibili con i valori di cui la Repubblica dovrebbe farsi garante”, sottolinea Deplano ricordando come fu proprio nel secondo Dopoguerra che si costruì un racconto del colonialismo finalizzato a separare quello “cattivo” del regime fascista da quello “buono” dell’Italia liberale. Una narrazione funzionale all’obiettivo di ottenere dalle Nazioni Unite un ruolo nella gestione di alcune ex colonie alla fine della Seconda guerra mondiale: se l’Eritrea (la “colonia primigenia”) nel 1952 entra a far parte della Federazione etiopica per decisione dell’Onu, Roma ottenne invece l’Amministrazione fiduciaria della Somalia, esercitando un impatto significativo sulle sorti di quel Paese per decenni.

    “Invece ci fu continuità -sottolinea Deplano-. Furono i governi liberali a occupare l’Eritrea nel 1882 e ad aprire le carceri dove vennero rinchiusi i dissidenti eritrei, a dichiarare guerra all’Impero ottomano per occupare la Libia nel 1911 dove l’Italia fu il primo Paese a utilizzare la deportazione della popolazione civile come arma di guerra. Il fascismo ha proseguito lungo questa linea con ancora maggiore enfasi, applicando in Africa la stessa violenza che aveva già messo in atto sul territorio nazionale”.

    Con quel passato l’Italia non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale. Come ricorda Paolo Borruso in un articolo pubblicato su Avvenire (https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta), Graziani venne condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per i crimini commessi in Africa. Le ex colonie ricevettero indennizzi irrisori e persino gli oggetti sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia non furono mai ritrovati.

    “Gli italiani non possono ricordare solo quelle pagine della loro storia funzionali alla costruzione di un’immagine positiva, serve una consapevolezza nuova”, riflette Borruso. Che mette l’accento anche su una “discrasia pericolosa: da un lato la giusta memoria delle stragi nazi-fasciste commesse ‘in Italia’ e dall’altro la pubblica amnesia sulle violenze commesse ‘dall’Italia’ nelle sue colonie in Africa. Questo distacco dalla storia è molto preoccupante perché lascia la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti, aprendo vuoti insidiosi e facilmente colmabili da slogan e da letture semplificate del passato, fino alla riemersione di epiteti e attributi razzisti, che si pensava superati e che finiscono per involgarire la coscienza civile su cui si è costruita l’Italia democratica”.

    Se agli storici spetta il compito di scrivere la storia, agli scrittori spetta quello di tracciare fili rossi tra passato e presente, portando alla luce memorie sepolte per analizzarle e contestualizzarle. Lo ha fatto, ad esempio, la scrittrice Elena Rausa autrice di “Le invisibili” (Neri Pozza 2024) (https://neripozza.it/libro/9788854529120), un romanzo che si apre ad Addis Abeba, durante la rappresaglia del 1937 per concludersi in anni più recenti e che dà voce a uno dei “reduci” dell’avventura coloniale italiana e a suo figlio. “Ho voluto indagare in che modo le memorie negate dei traumi inflitti o subiti continuano a influenzare l’oggi -spiega ad Altreconomia-. Tutto ciò che non viene raccontato continua a esercitare delle influenze inconsapevoli: si stima che un italiano su cinque abbia nella propria storia familiare dei cimeli legati alle campagne militari per la conquista dell’Eritrea, della Libia, della Somalia e dell’Etiopia. In larga parte sono uomini che hanno fatto o, più facilmente, hanno visto cose di cui pochi hanno parlato”.

    A confermare queste osservazioni, Paolo Borruso richiama il suo ultimo saggio “Testimone di un massacro” (Guerini 2022) (https://www.guerini.it/index.php/prodotto/testimone-di-un-massacro), relativa al diario di un ufficiale alpino che partecipò a numerose azioni repressive in Etiopia, al comando di un reparto di ascari (indigeni arruolati), fino alla strage di Debre Libanos, sia pur con mansioni indirette di sorveglianza del territorio: una testimonianza unica, mai apparsa nella memorialistica coloniale italiana.

    Un altro filo rosso è legato alle date: l’invasione dell’Etiopia da parte delle truppe dell’Italia fascista ebbe inizio il 3 ottobre 1935. Quasi ottant’anni dopo, nel 2013, in quello stesso giorno più di trecento profughi, in larga parte eritrei ed etiopi, perdevano la vita davanti all’isola di Lampedusa. Migranti provenienti da Paesi che hanno con l’Italia un legame storico.

    E se oggi la migrazione segue una rotta che va da Sud verso Nord, in passato il percorso è stato inverso: “Come il protagonista del mio romanzo, anche il mio bisnonno è partito per l’Etiopia, ma non per combattere -racconta-. Migliaia di persone lasciarono l’Italia per lavorare in Etiopia e molti rimasero anche dopo il 1941. Anche in quel caso a partire furono persone che si misero in viaggio alla ricerca di condizioni migliori di vita per sé e per i propri figli. Ricordare anche quella parte di storia migratoria italiana significa riconoscere la radice inconsapevole del nostro modo di guardare chi oggi lascia la propria terra per compiere un viaggio inverso”.

    https://altreconomia.it/la-memoria-rimossa-del-massacro-di-debre-libanos-e-delleta-coloniale-it
    #colonialisme #Italie_coloniale #colonialisme_italien #massacre #Debre_Libanos #monastère #Ethiopie #histoire_coloniale #Rodolfo_Graziani #fascisme #Scioa #violence #crimes_de_guerre #mémoire #italiani_brava_gente #passé_colonial #toponymie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #déportations

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    • Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia

      Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All’eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant’anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858141083
      #livre #Paolo_Borruso

    • Storia. Su Debre Libanos il dovere della memoria è conquista di civiltà

      Dal 21 al 27 maggio 1937 il viceré Graziani fece uccidere duemila etiopi. Un eccidio coloniale a lungo rimosso che chiede l’attenzione delle istituzioni e della storiografia.

      Il nome di Debre Libanos è tristemente legato al più grave crimine di guerra italiano, ordinato dal viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani come rappresaglia per un attentato da cui era sfuggito. È il più antico santuario cristiano dell’Etiopia, meta di pellegrini da tutto il paese. Il 12 Ginbot (20 maggio) ricorre la memoria della traslazione, nel 1370, dei resti di san Tekla Haymanot – fondatore nel XIII secolo della prima comunità monastica in quel sito –: è la festa più sacra dell’anno, particolarmente attesa a Debre Libanos non solo tra i monaci, ma da tutti i cristiani etiopici provenienti da ogni parte del paese. È il giorno di massima affluenza di persone nel monastero. Ed è il motivo che spinse il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani ad una cinica pianificazione fin nei minimi dettagli. Tra il 21 e il 27 maggio 1937 i militari italiani, sotto la guida del generale Pietro Maletti, presidiarono il santuario e prelevarono i presenti, caricandoli a gruppi su camion verso luoghi isolati, dove ebbero luogo le esecuzioni, ordinate ai reparti coloniali musulmani per scongiurare possibili ritrosie degli ascari cristiani di fronte a correligionari. Nonostante le 452 esecuzioni dichiarate da Graziani per cautelarsi da eventuali inchieste, le indagini più recenti attestano un numero molto più alto, compreso tra le 1.800 e le 2.200.

      Sono passati 86 anni da quel tragico episodio, che andò molto al di là di una strategia puramente militare. Un «crimine di guerra», appunto, per il quale i responsabili non furono mai processati. Nel dopoguerra Graziani fu condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per le violenze inflitte in Africa, e scontò solo quattro mesi in seguito ad amnistia, divenendo nel 1952 presidente onorario del Movimento sociale italiano, erede diretto del fascismo.

      Nell’Italia del dopoguerra, le esigenze del nuovo corso democratico spinsero a rimuovere memorie e responsabilità di quella violenta e imbarazzante stagione, potenziali ostacoli ad una sua collocazione nel campo occidentale auspicata da Usa e Inghilterra. Dei risarcimenti previsti dai trattati di pace del ‘47, fu elargita una cifra irrisoria, oltre i termini temporali stabiliti di dieci anni; i beni e arredi sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia, mai ritrovati; unica restituzione, il noto obelisco di Axum, avvenuta nel 2004 (dopo quasi 60 anni!). Paradossalmente, la copertura dell’episodio parve una scelta obbligata anche per l’Etiopia di Haile Selassie, in nome di una ripresa del paese, dopo la fine dell’occupazione coloniale e della guerra mondiale, e di una inedita leadership internazionale negli anni della decolonizzazione, nonostante la persistenza di una ferita profonda mai rimarginata.

      Solo negli anni settanta, a partire dagli studi di Angelo Del Boca, l’«assordante» silenzio attorno ai «crimini» dell’Italia in Africa ha cominciato a dissolversi, decostruendo faticosamente il mito dell’«italiano brava gente». La storiografia ambiva divenire un polo di interlocuzione importante per la “memoria” pubblica del paese ed apriva la strada a nuove relazioni con l’Etiopia. Ne fu un segnale la visita ad Addis Abeba del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nel 1997, il quale richiamò il tributo di sangue versato dal popolo etiopico durante la dolorosa esperienza dell’occupazione fascista e la necessità di quella memoria per rilanciare proficui rapporti di pace e cooperazione. Ricordo, successivamente, la proposta di Del Boca, nel 2006, di istituire una “giornata della memoria” per le vittime del colonialismo italiano, ma neppure fu discussa in parlamento, e quindi fu archiviata. È qui che la storiografia è chiamata a consolidare gli anticorpi di fronte rimozioni e amnesie che rischiano di erodere rapidamente la coscienza pubblica. È il caso del monumento in onore del maresciallo Graziani, eretto nel 2012 ad Affile, nel Lazio, con i fondi della Regione, ultimo eclatante atto di oscuramento della memoria, suscitando immediate reazioni della comunità scientifica e dell’associazionismo italiano.

      A partire dal 2016, alcuni articoli apparsi sulla stampa, tra cui ripetuti interventi di Andrea Riccardi, e lo sconcertante film documentario Debre Libanos, realizzato da Antonello Carvigiani per TV 2000, hanno richiamato l’attenzione su quell’eccidio fascista. Un riconoscimento pubblico venne esplicitato in quell’anno dal presidente Mattarella ad Addis Abeba, quando in un eloquente “silenzio” depose una corona di fiori al monumento della vittoria Meyazia 27, in piazza Arat Kilo, in memoria dei caduti della resistenza etiopica dell’epoca e salutò uno ad uno ex partigiani etiopici, ormai anziani. Sotto queste sollecitazioni, l’allora ministero della difesa emanò un comunicato stampa, che richiamava la tragica rappresaglia con cui «il regime fascista fece strage della comunità dei copti; monaci, studenti, e fedeli del monastero di Debra Libanos. L’eccidio durò vari giorni, crudele e metodico. In Italia con il silenzio di tutti, durante il fascismo ma anche dopo, l’episodio era stato dimenticato […]», e si assumeva l’impegno ad approfondirne le dinamiche storiche con la costituzione di un’apposita commissione di studiosi, militari ed esperti. Altre urgenze, tuttavia, s’imposero nell’agenda politica e l’iniziativa non ebbe seguito.

      L’attuale disattenzione da parte delle istituzioni dello Stato italiano chiama nuovamente in causa la storiografia per la sua funzione civile di preservazione della memoria storica. C’è, qui, una discrasia da colmare: a fronte degli eccidi nazifascisti sul territorio italiano – oggi noti, con luoghi memoriali di alto valore simbolico per la storia nazionale –, il massacro di Debre Libanos è accaduto in Africa, fuori dal territorio nazionale, in un’area rimasta, per decenni, assente anche sul piano storiografico, le cui responsabilità sono ascrivibili direttamente all’Italia e non possono essere negate né oscurate. Occorre, in questo senso, allargare i confini della memoria storica, rinsaldando il rapporto tra storia e memoria come un argine di resistenza fondamentale per la difesa di una cultura civile, oggi provata da un crescente e preoccupante distacco dal vissuto storico. Lo smarrimento del contatto con “quel” passato coloniale, e con quella lunga storia di rapporti con l’Africa, rischia di lasciare la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti e discriminatorie, potenziali o in atto.

      https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta

  • #SNCF is stopping sales of most international tickets – a decision rooted in incompetence, and communicated with malevolence

    If you want to travel on 22nd May 2024 from Paris to Berlin (Germany), Verviers (Belgium) or Luzern (Switzerland), the app and website for SNCF ticketing, #SNCF_Connect, will show you prices and sell you a ticket. Try the same on 24th May 2024 and it will not. Here are the screenshots to prove it:

    Even connections to towns just the other side of the border – like Mouscron (Belgium) or Rastatt (Germany) are no longer available for purchase:

    As this explanation page on the SNCF website outlines, from 23rd May only a very limited selection of international tickets are available for sale from SNCF. There’s also a map listing what is available that looks like it was made in MS Paint.

    Let’s not play down the significance of this.

    SNCF Connect could until now sell you a ticket to any station in Netherlands (now reduced to just Amsterdam, Schiphol and Rotterdam), any station in Belgium (now just Antwerpen, Bruxelles, Liège), any station in Germany (now just the few stations directly served by cross border ICEs and TGVs), any station in Switzerland (now just anything served by TGV Lyria), any station in Italy (now just Ventimiglia, Torino, Milano) and any high speed station in Spain (now just Barcelona, Girona, Figueres).

    What the website of course does not say is why the change happened.

    So I set about getting to the bottom of the issue.

    On Monday 13th May I was travelling through Strasbourg so headed to the Grandes Lignes ticket office to ask. These conversations were in French, translated into English here.

    Me: “I want to take a train from Strasbourg to Berlin in mid-June, but I cannot get a price in SNCF Connect, can you help me?”
    SNCF employee: “It’s not possible any more”
    Me: “Really? Why is that?”
    SNCF: “It’s the fault of Deutsche Bahn!”
    Me (somewhat surprised at this point): “But other railways manage to sell Deutsche Bahn tickets still.”
    SNCF: “It’s Deutsche Bahn”

    I tried again at Grandes Lignes at Paris Austerlitz on Friday 17 May.

    Me: “I cannot manage to book a ticket on SNCF Connect from Paris to Berlin in June”
    SNCF: “It’s not possible any more. You will have to try with Deutsche Bahn or Trainline”
    (bit of a jaw drop here – Trainline, SNCF’s main ticket sales competitor?)
    Me: “Sorry, but I would like to know why this is.”
    SNCF: “It’s Europe’s fault”
    Me: “So please tell me this. If Deutsche Bahn can still sell SNCB tickets, ÖBB can still sell Trenitalia, but SNCF cannot sell any of these any more, then how can it be Europe’s fault that SNCF cannot sell these tickets?”
    SNCF: “But it is international agreements!”

    And that was then I broke, and told the employee what the actual reason is. Because Le Figaro has the gist of it, and I have had this confirmed to me by sources in other rail firms. SNCF’s IT system for these sales – #Résarail – is outdated and being closed down, and the new system is not yet available. And in the meantime sales of these tickets are simply not possible. Incompetence in other words. There is a financial consequence too – it is rumoured that railways receive a 10% commission on these sales amongst themselves. Bang goes that income for SNCF.

    But the communication about why this is the case crosses over into malevolence. Rather than facing up to the problem, SNCF resorts to finger pointing – at Deutsche Bahn, Europe, and international agreements. None of which are the reason.

    Also what SNCF is doing here is precisely the opposite of what it says it wants to do in its European Parliament election manifesto (full PDF here): “To attract more passengers, we are constantly seeking to improve the quality of our service and are investing heavily in all aspects of customer satisfaction. We have also made a joint commitment with our European partners to improve international ticketing“. If we are to believe the Community of European Railways – of which SNCF is a member – it is only a matter of time before state owned railway firms in Europe sort out these cross border ticketing headaches – while the actual behaviour of one of Europe’s largest railway companies is precisely the opposite.

    The likes of Trainline, Omio, SNCB International and Deutsche Bahn will pick up most of the slack, but not all. Passengers unable to book online and who previous relied on purchasing these tickets at ticket offices in France will be left stuck.

    None of this is clever or sensible, but sadly that is what you get from SNCF when it comes to anything international.

    https://jonworth.eu/sncf-is-stopping-sales-of-most-international-tickets-a-decision-rooted-in-i
    #France #mensonge #incompétence #chemins_de_fer #international #billets_internationaux #technologie #on_marche_sur_la_tête

    via @freakonometrics

  • Ukrainian Refugees in Switzerland: A research synthesis of what we know

    The objective of this research synthesis is to collect and summarize the research literature on Ukrainian refugees in Switzerland. This is done through a systematic review, mostly in the form of a narrative review and with statistical indicators that are synthesized. There is a wide range of evidence on Ukrainian refugees in Switzerland and their integration, although substantive and systematic gaps remain. The review provides a brief historical background, looks at the demographic composition of Ukrainian refugees in Switzerland, discusses economic integration, housing, education, social integration, crime and safety, health and well-being, and attitudes to Ukrainian refugees. Much less is known about cultural integration and political participation. Given the size of the population and the ongoing war in Ukraine, more research on Ukrainian refugees is warranted, particularly in the direction of successful integration in a context where return seems increasingly unlikely — although dual-intent remains the official focus —, and in areas beyond economic integration that affect well-being and intentions to return.

    https://osf.io/preprints/socarxiv/tcnhx

    #statistiques #chiffres #réfugiés_ukrainiens #réfugiés #Ukraine #asile #migrations #Suisse

  • Longtemps que je n’ai pas fait un #SeenthisSaitTout : je me souviens du travail d’un-e artiste qui avait remplacé les corps de personnes noires par des corps de personnes blanches sur des photos de conflits et de massacres, pour mettre en évidence la différence de perception en Occident. Mais je n’arrive pas du tout à retrouver ce travail. Est-ce que quelqu’un le connaîtrait ?

  • Quels droits pour les promeneurs, entre droit d’accès à la nature et propriété privée ?
    https://theconversation.com/quels-droits-pour-les-promeneurs-entre-droit-dacces-a-la-nature-et-

    Se promener dans la nature, cela peut-être, selon le point de vue que l’on adopte, un droit, un loisir, un sport, un bienfait pour la santé, mais aussi, depuis une récente loi passée en février 2023, une infraction pénale. Car une grande majorité des forêts françaises ne sont pas publiques, et que l’accès aux espaces naturels et aux forêts privés est désormais sanctionné par une amende de 135 euros. Comment en est-on arrivé là et quel avenir se dessine pour l’accès à la nature ?

    #propriété_privée

  • La #Suisse et la #colonisation : nouveaux articles en ligne

    Quelle est la place de la colonisation dans l’histoire et les pratiques de savoir en Suisse ? Deux publications récentes abordent cette question sous les aspects de l’histoire et des archives.

    Le Dictionnaire historique de la Suisse publie un dossier comprenant une quinzaine d’articles nouveaux ou remaniés sur les #ramifications_coloniales de la Suisse (https://hls-dhs-dss.ch/fr/dossiers/000033/2024-04-30). Il comprend des articles - en Français, Allemand, et Italien - consacrés à des notions clés - #colonisation, #racisme, #abolitionnisme - ainsi qu’à des Suisses et des Suissesses présents à divers titres dans les #colonies.

    La revue spécialisée suisse pour les archives, les bibliothèques et la documentation arbido consacre son dernier numéro à la Décolonisation des archives (https://arbido.ch/fr/edition-article/2024/dekolonialisierung-von-archiven-decolonisation-des-archives). Des réflexions théoriques et des exemples de projets concrets donnent un aperçu varié de la thématique.

    https://www.infoclio.ch/fr/la-suisse-et-la-colonisation-nouveaux-articles-en-ligne

    #Suisse_coloniale #archives #histoire #Suisse

    ping @cede

  • Rome : #Freedom_of_Movement_Solidarity_Network for migrants launched

    A new alliance between NGOs operating on the mainland and at sea to support migrants, called the Freedom of Movement Solidarity Network, was presented in Rome on May 15.

    The Freedom of Movement Solidarity Network is a new alliance that includes groups operating along migration routes — on the road, in forests, at sea, and on mountain trails — to help people on the move.

    Promoters of the network presented on May 15 in Rome at the Foreign Press Association included the following associations: Baobab Experience, Bozen Solidale, Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino, Como senza frontiere, Linea d’Ombra, No Name Kitchen, On Borders, Refugees In Lybia, ResQ - People saving people, Rete Milano, Sea-Watch, Small Axe, as well as individuals like Father Massimo Biancalami, Loredana Crivellari, Father Giusto Della Valle, Francesco Delli Santi, Filippo Lombardo Tiziano Rossetti and Tommaso Stella.

    International gathering in June in Rebbio

    “Today, a network for the freedom of movement sees the light after two years of meetings in Rebbio, between Como and the Swiss border, during which experiences, opinions and discussions were shared on how to bring solidarity to migrants,” said the president of Baobab Experience, Andrea Costa.

    Costa added that this network will not lead to the dissolution of its members, but rather represents a “step forward towards joint action and a way to operate involving everyone, regardless of the group they belong to.”

    The president of Baobab Experience stressed that the new network has been presented “after the approval of the EU pact on migration and before upcoming European elections that appear to design a Europe that is even less friendly towards migrant people.”

    He also announced that an international assembly will be held on June 29-30 in Rebbio with Italian associations and their counterparts operating in other European countries.

    “We are presenting the network in the name of a collective choice to stand with people on the move,” explained Piero Gorza, a member of On Borders.
    EU questioned over ’securitarian policies’

    All participants accused the EU of promoting “securitarian policies and rampant externalization, a model launched in 2017 with the memorandum of understanding between Italy and Libya by then-interior minister Marco Minniti,” denounced Luca Morelli, member of Sea-Watch, who joined the meeting via video link from Lampedusa.

    “We have to create another model against that of deportations, create a common front to support the journey of people in movement,” he continued, highlighting a “protection system torn apart,” citing as examples Italy’s Cutro law including controversial restrictions to the country’s protection regime and the new EU pact on migration and asylum.

    David Yambio, spokesman of Refugees in Libya, said “the situation in Tunisia and Libya is the direct consequence of European policies.”

    “The accords scrap freedom of movement, Tunisia has become hell” after an agreement was forged between the Italian government of Premier Giorgia Meloni and Tunisian President Saied, he claimed.

    Yambio said he is in contact with thousands of people in Libya, Tunisia, Algeria and Morocco who don’t have access to information and are abandoned or treated like criminals.

    Trafficking the product of borders and barriers - Baobab

    Alice Basiglini, spokesperson of Baobab Experience, recalled that aid facilities on the mainland and rescue vessels at sea can also monitor the situation “constantly, safeguarding the security of people in movement.”

    “We recognize freedom of movement as a universal right”, she said, citing the Universal Declaration of Human Rights, and called for grassroots action against the “current policies of the EU and member States forcing people to undertake increasingly dangerous journeys.”

    According to Basiglini, “human trafficking is the product of present borders and barriers, thanks lately to the Migration pact. We are opposed to policies of flows, people are not goods and they cannot enter in relation to the needs of the labor market”.

    She also expressed opposition to the “Libyan model created in 2017 and then replicated by Egypt, Tunisia and Albania”.

    “We are in favour of safe passages under the light of the sun, which is why we are denouncing our action in support of people in movement”, she concluded.

    https://www.infomigrants.net/en/post/57150/rome-freedom-of-movement-solidarity-network-for-migrants-launched

    #alliance #migrations #asile #réfugiés #solidarité #liberté_de_mouvement #Rebbio #Rete_Rebbio

    ping @isskein @karine4 @_kg_

  • Israel’s Genocide of Palestinians in Gaza

    The prohibition of the crime of genocide is a peremptory norm of international law from which no derogation is permitted. In light of the extraordinary implications of a finding that Israel may be committing genocide against the Palestinian people in Gaza, the University Network for Human Rights, the International Human Rights Clinic at Boston University School of Law, the International Human Rights Clinic at Cornell Law School, the Centre for Human Rights at the University of Pretoria, and the Lowenstein Human Rights Project at Yale Law School have conducted a thorough legal analysis of Israel’s acts since October 7, 2023, as situated in their historical context.

    The Genocide in Gaza report concludes that Israel has violated its obligations under the Genocide Convention of 1948, setting forth the facts that establish the requisite mens rea associated with genocidal intent, and the acts that violate Articles II and III of the Convention. Our aim, as experts in human rights and humanitarian law, is to provide a rigorous academic analysis of Israel’s actions since October 7, 2023 in order to aid in ongoing assessments of the current situation through the lens of the law on genocide.

    Since October 7, 2023, tens of thousands of Palestinians in Gaza, including men, women, children, and elderly persons, have been killed or injured. Israel’s military operation has destroyed or damaged the great majority of homes in Gaza and has decimated civilian infrastructure, including hospitals, schools, universities, UN facilities, and cultural and religious heritage sites. An overwhelming majority of Gaza’s population has been forcibly displaced as a result of Israel’s military offensive, and civilians in Gaza face catastrophic levels of hunger and deprivation due to Israel’s restriction on, and failure to ensure, adequate access to basic essentials of life, including food, water, medicine, and fuel. Israel’s actions in Gaza have been accompanied by multiple expressions of genocidal intent by Israeli government leaders, including by Prime Minister Benjamin Netanyahu. This genocidal intent is further manifested in the nature and conduct of Israel’s military operations.

    The joint report draws from a diverse range of credible sources, including reports by United Nations and aid agencies, investigations by human rights organizations, media reports, and public statements and testimonies. In determining violations of the Genocide Convention, our analysis is guided by the established principles of international law, international jurisprudence, widespread state practice accepted as customary law, and the Convention’s drafting history. Additionally, our report draws on Gaza’s history leading to the present moment, in recognition that genocide rarely occurs as a single moment but is rather an unfolding result of processes and practices over time.

    Our analysis concludes that actions taken by Israel’s government and military in and regarding Gaza following the Hamas attacks of October 7, 2023, constitute breaches of the international law prohibitions on the commission of genocide. The report further argues that these violations give rise to concrete obligations to all other States, namely, to refrain from recognizing Israel’s breaches as legal or from taking any actions that may amount to complicity in these breaches, and to take positive steps to suppress, prevent, and punish the commission of further genocidal acts against the Palestinian people in Gaza.

    https://www.humanrightsnetwork.org/palestine

    #rapport #génocide #Gaza #Israël #Palestine #rapport #droit_international #analyse #University_Network_for_Human_Rights

  • Le #contrat_d’engagement_républicain, outil de mise au pas du monde associatif

    Dispositif phare de la #loi_séparatisme de 2021, le #CER oblige les associations demandant une subvention à s’engager à respecter les principes républicains. Si son mécanisme de sanction a été très peu activé, il est utilisé régulièrement comme outil de pression politique.

    CrééCréé afin de lutter contre « l’islamisme radical » et « tous les séparatismes », le contrat d’engagement républicain (CER) n’a, à ce jour, jamais en réalité été invoqué à l’égard d’associations confessionnelles, qu’elles soient islamistes ou liées à d’autres mouvements radicaux ou séparatistes, révèle un décompte réalisé par l’Observatoire des libertés associatives.

    Et sur les vingt-quatre cas relevés, seuls trois portent sur des faits liés à la religion musulmane au sein d’associations telles qu’une section locale du Planning familial, accusée d’avoir représenté une femme voilée sur une affiche, une MJC, à laquelle on a reproché d’avoir embauché des femmes voilées, et une association d’aide aux femmes, accusée sans preuve de « prosélytisme religieux ».

    Pour le reste, le CER, que les associations doivent obligatoirement signer lorsqu’elles demandent une subvention, a été brandi à l’égard de l’association Alternatiba Poitiers accusée de « désobéissance civile » ; d’une association d’aide aux mal-logé·es, l’Atelier populaire d’urbanisme (APU), dont une salariée est accusée de violences verbales envers des agents municipaux ; d’une association d’aide aux immigré·es ayant appelé à une manifestation contre les violences policières interdites ; d’une télévision associative, Canal Ti Zef à Brest, mobilisée dans la lutte contre l’évacuation d’un squat ; ou encore d’une compagnie de théâtre, la compagnie Arlette Moreau à Poitiers, ayant moqué son préfet.

    Loin, donc, des ambitions affichées par la loi « confortant le respect des principes de la République », dite loi « séparatisme », dans son exposé des motifs : lutter contre « un entrisme communautaire, insidieux mais puissant », qui « gangrène lentement les fondements de notre société dans certains territoires. Cet entrisme est essentiellement d’inspiration islamiste », précisait l’exécutif, initiateur de ce texte.

    Lors de l’adoption de la loi séparatisme, à l’été 2021, des député·es de l’opposition et des responsables associatifs avaient déjà alerté sur les risques d’un détournement du CER dans un but de répression politique. Et c’est sans surprise que, peu après son entrée en vigueur au mois de janvier 2021, ce contrat, qui impose sept engagements aux associations, qui peuvent en cas de violation perdre une subvention et même devoir la rembourser si elle a déjà été versée, a été en premier appliqué au Planning familial puis à des associations écologistes.

    Parler de détournement du CER est excessif. Lorsqu’on relit les débats parlementaires, on se rend en effet compte que la majorité assumait, dès le départ, le fait de ne pas viser exclusivement les associations séparatistes radicales mais toute association ayant recours à certains modes d’action liés à la désobéissance civile.

    Ainsi, lors de la séance à l’Assemblée nationale du 30 juin 2021, face à des député·es de l’opposition qui l’interpelaient sur les risques d’application du CER à des associations telles que Greenpeace ou Act Up, le député de la majorité et président de la commission spéciale chargée du projet de loi, François de Rugy, confirmait qu’elles seraient bien menacées.

    Au ministre de la justice, Éric Dupond-Moretti, il avait été demandé si les organisations participant à des actions de désobéissance civile comme le fauchage d’OGM ou le « démontage » d’un restaurant McDonald’s, en référence à une action de la Confédération paysanne d’août 1999, seraient concernées. « Bien sûr ! », avait répondu le garde des Sceaux.

    Pourtant, malgré ce champ d’application particulièrement large, le contrat d’engagement républicain est en partie un échec pour le gouvernement. « Le bilan est encore loin d’être concluant », constatait un rapport d’évaluation du Sénat publié au mois de mars, qui soulignait le peu de cas de mobilisation du CER – quatre selon le rapport – et des modalités d’application disparates en fonction des collectivités. « Cette loi ne fait peur à personne. Surtout pas aux islamistes », assénait même sa rapporteuse, Jacqueline Eustache-Brinio.
    Comment le gouvernement s’est lui-même piégé

    L’une des raisons à cette application minime du CER vient en partie d’un effet pervers juridique. En créant ce contrat, le gouvernement s’est en quelque sorte piégé lui-même. Il n’existe pas en effet de droit à la subvention pour les associations. Chaque collectivité dispose de ce fait d’un droit discrétionnaire en matière d’attribution et elle peut refuser ou accorder telle ou telle subvention sans avoir à se justifier.

    En créant le CER, la loi séparatisme a créé un nouvel acte administratif qui offre une prise juridique, un recours possible pour les associations. Or, dans la seule décision visant directement le CER rendue à ce jour, le tribunal administratif de Poitiers a rejeté la demande du préfet de la Vienne visant à obtenir le remboursement d’une subvention versée à l’association Alternatiba pour avoir tenu un atelier de désobéissance civile.

    D’autres recours lancés ces derniers mois devraient permettre de préciser cette jurisprudence naissante. Mais on peut comprendre que certaines collectivités ou certains préfets préfèrent se réfugier derrière un manque de crédit ou leur droit discrétionnaire plutôt que d’invoquer le CER et de prendre le risque de devoir se justifier devant le juge administratif.

    Le CER a pourtant bien eu des effets importants sur les libertés associatives. Mais ceux-ci, bien réels, sont souvent localisés et souterrains, et donc moins visibles. Dans les vingt-quatre cas recensés par l’Observatoire des libertés associatives, le CER n’est en effet appliqué directement et officiellement pour prononcer une sanction que dans cinq. Dans tous les autres, il n’est par exemple qu’évoqué à l’oral dans une réunion ou dans un mail ou brandit comme une menace, sans que l’on sache s’il est vraiment à l’origine d’une sanction à non.

    Au mois d’août dernier, Le Monde révélait ainsi qu’il existe une « liste rouge » d’associations basées dans la région du plateau de Millevaches qui seraient privées de subventions par la préfecture sans que cela leur ait été officiellement notifié, leur ôtant ainsi toute possibilité de recours.

    Plus récemment, une association d’aide aux immigré·e·s, l’Asti du Petit-Quevilly en Seine-Maritime, s’est vu « rappeler » ses engagements par la préfecture pour avoir appelé à une manifestation contre les violences policières interdite. Celle-ci a transmis cet « avertissement » aux partenaires financiers, dont la métropole de Rouen, qui a en conséquence suspendu l’examen des demandes de subvention de l’Asti.

    « Il y a chez certaines collectivités une profonde incompréhension du CER, qui est utilisé à tort et à travers, et notamment comme un moyen de pression, de régulation des relations avec les associations », analyse Claire Thoury, présidente du Mouvement associatif, une organisation regroupant environ 700 000 associations, et qui avait publié, en janvier 2023, un premier bilan de l’application du CER.

    « L’interprétation de ce que recouvre le CER que chaque collectivité peut faire est problématique car il peut être interprété de mille et une façons, abonde Elsa Fondimare, maîtresse de conférences en droit public à l’université de Nanterre. Il sert, de plus, à limiter la liberté en amont. Ce n’est en effet pas qu’une question de subvention et d’argent. Le fait d’invoquer le CER à tort et à travers va conduire les associations à adapter les luttes qu’elles défendent et les moyens qu’elles emploient. Et cette autocensure est une menace très grave pour les libertés associatives. »

    « Le CER a désormais un effet presque plus symbolique que pratique », ajoute Julien Talpin, chercheur en science politique au CNRS et l’un des fondateurs, en 2019, de l’Observatoire des libertés associatives. « On peut penser que certaines associations n’oseront plus aborder certains sujets comme les violences policières ou en ce moment le conflit israélo-palestinien. Le problème est de réussir à objectiver ces effets indirects et diffus et cette autocensure. »

    « Le CER correspond à une appréhension très morale de ce que doit être une association », pointe encore Claire Thoury. « La liberté, l’égalité, la fraternité existent bien en tant que concepts juridiques, ajoute Elsa Fondimare, juriste, auteure d’un article intitulé « Républicanisme contre écologisme. Quelle place pour la désobéissance civile à l’heure du contrat d’engagement républicain ». Mais ce sont des principes extrêmement malléables, qui peuvent facilement être interprétés d’une manière ou d’une autre. »

    « Il y a donc une dissonance entre ce que prétend défendre le CER et les conséquences de son application à certaines associations, pointe-t-elle. Cela ne fait en outre qu’ajouter de la confusion à ce que sont les valeurs républicaines. »

    L’entrée en vigueur du CER est en outre intervenue dans un contexte de défiance croissante entre le monde associatif et les autorités. « Nous sommes en fait dans un contexte de dérive générale », affirme Claire Thoury. « On a l’impression que chaque occasion est bonne pour remettre en cause les libertés associatives », poursuit-elle en citant l’exemple d’un amendement déposé au mois d’octobre dernier au projet de loi de finances proposant de retirer les avantages fiscaux des associations condamnées pour certaines actions.

    « Il y a également eu récemment le maire de Saint-Raphaël qui impose à toutes les associations touchant des subventions de participer aux manifestations patriotiques de la ville. C’est hallucinant ! », s’indigne la présidente du Mouvement associatif.

    « Nous assistons ces dernières années à une remise en cause des partenariats entre la société civile et les collectivités, complète Julien Talpin. C’est une page qui se tourne, celle d’une alliance possible entre les pouvoirs publics et les associations, dont certaines peuvent certes être critiques mais qui constituaient ce contre-pouvoir démocratique grâce à un rôle hybride. »

    « Ces associations offrent en effet un service à des populations que les collectivités ont de plus en plus de mal à atteindre, poursuit le chercheur. C’est un modèle qui avait été assez fort à partir des années 1980, mais qui est remis en cause. » Julien Talpin fait remonter cette dégradation à l’année 2015, « durant laquelle deux mouvements contradictoires se sont rencontrés ».

    « D’un côté, ce fut l’année de la circulaire Valls », poursuit-il, un texte « qui clarifiait les modalités d’attribution des subventions, [qui] avait été perçu comme une victoire et une reconnaissance du rôle des associations ». « Mais 2015, c’est également l’année des attentats et l’accélération du durcissement du traitement des mobilisations sociales, un tournant autoritaire et donc une conflictualité plus forte dans les rapports entre les autorités et la société civile », explique encore Julien Talpin.

    « Pourtant, dans un contexte de crise démocratique actuel, nous avons encore plus besoin des associations pour toucher des publics éloignés de ces questions, ajoute le chercheur. Elles redonnent un pouvoir à des groupes sociaux sous-représentés et elles sont des écoles de la démocratie, des lieux d’éducation populaire à la vie publique. »

    « Les associations ne sont pas là pour faire plaisir aux pouvoirs publics, insiste Claire Thoury. Ce n’est pas leur mission. Mais l’inverse non plus ! Une association peut très bien s’opposer à une collectivité sur un sujet précis et être en accord sur un autre. C’est ce qu’on appelle un contre-pouvoir et c’est tout simplement le cours normal de la vie démocratique. »

    « Je prends souvent l’exemple d’Act Up et de leur action durant laquelle ils avaient déroulé un préservatif géant sur l’obélisque de la Concorde, poursuit la présidente du Mouvement associatif. Est-ce qu’il s’agissait d’un trouble à l’ordre public ? je pense que oui. Mais, aujourd’hui, on sait combien cette médiatisation a été importante dans la lutte contre le sida. »

    « Les associations sont un outil d’apprentissage des libertés et de la démocratie extrêmement puissant, conclut Claire Thoury. Cela permet d’expérimenter et de penser des nouveaux cadres, des nouvelles manières de faire. Le problème est que certains ne comprennent pas à quoi on sert ; que les aspérités, le débat, le conflit, c’est ce qui fait vivre la démocratie. »

    https://www.mediapart.fr/journal/france/160524/le-contrat-d-engagement-republicain-outil-de-mise-au-pas-du-monde-associat
    #désobéissance_civile #répression #associations #séparatisme #détournement #cartographie

  • [Extrait] Des #chiffres et des êtres

    Au moment où bénéfices et dividendes battent tous les records, Macron, Attal et Le Maire ont eu une idée géniale pour trouver de l’argent, et marcher en chantant vers le « plein-emploi » : taillader davantage encore les droits des chômeurs.
    Contre toute logique économique et sociale, contre les faits et les études, mais par pure idéologie. Avec un mantra en guise d’argument : « ça fonctionne. » Le chômage, ça y est, ils en seraient venus à bout, ou presque. Comme eux ne rencontreront jamais les victimes de leurs décisions, on est allé les voir. On s’est plongé dans les chiffres.
    Et la réalité est légèrement différente de celle qu’ils nous vendent.

    Extrait du dossier du Fakir n° 112, disponible en kiosque et sur notre boutique en ligne !
    Commander le numéro : https://fakirpresse.info/boutique/20-le-journal
    JT de TF1. Mercredi 27 mars.

    « Oui, il y aura une #réforme de l’#assurance_chômage cette année. On veut davantage de Français qui travaillent, parce que ça permet d’augmenter les recettes. »
    C’est Gabriel Attal qui pérorait ainsi au 20h00 de TF1, devant toute la France, donc, ce mercredi 27 mars, quelques jours après ma rencontre avec Alexandre. On a appris à quoi s’en tenir, quand ils parlent de « réformes ». « Il y a beaucoup de Français de classe moyenne qui travaillent et qui se disent "je fais beaucoup d’efforts, je finance par mon travail un modèle qui permet parfois à certains de ne pas travailler." » Je me disais bien… Et il annonçait donc, notre Premier ministre, son ambition de réduire la durée d’indemnisation du chômage.
    Il est fou.
    Ils sont fous.
    Ils sont fous, je me dis, et il ne doit pas en connaître tant que ça, des Français qui lui parlent du chômage. Ou alors, pas ceux qui le vivent.
    Quelques jours plus tard, il remettait ça, toujours dans les médias. Il « assume », prévient-il même. C’est toujours simple, d’« assumer », c’est un joli mot joker, ça : « j’assume », et voilà, ça clôt le débat. Mais bon, je me doute bien que lui ne va pas assumer grand-chose. C’est plutôt d’autres, qu’il n’a jamais croisés, et ne croisera sans doute jamais, qui vont devoir « assumer ».
    Enfin bref, écoutons la suite.
    « On est passé de 9,6 % à 7,5 % de chômage. Cette baisse historique, on ne l’a pas obtenue par magie. C’est le fruit de nos réformes, notamment de l’assurance chômage. »

    C’est vrai qu’ils l’ont déjà réformée, l’assurance chômage, les Macronistes, depuis qu’ils sont au pouvoir.
    Et pas qu’une fois.

    Je me plonge dans les archives – pas bien anciennes, les archives, remarquez. Qu’on résume :

    – Octobre 2018 : les cotisations sociales pour le chômage sont supprimées, purement et simplement. L’indemnisation du chômage sera désormais financée par une hausse de la CSG. Ça ne change rien ? Ça change tout, en fait : alors que les cotisations étaient uniquement destinées à l’indemnisation chômage, gérées par les salariés et le patronat, la CSG est versée au budget général. Le gouvernement l’utilise comme il veut, et peut désormais décider de tailler à volonté dans les allocations. La mise à mort d’un régime de soixante ans, dans l’indifférence quasi-complète.
    – 2021 : le gouvernement durcit les conditions d’accès à l’allocation : il faut avoir travaillé six mois (contre quatre auparavant), pour y avoir droit. Il tranche aussi, à la hache, dans le montant des indemnités pour les travailleurs au parcours professionnel fracturé.
    – 2022 : on « modulera » désormais les allocations en fonction de la conjoncture économique.
    – Février 2023 : après la baisse du montant, après le durcissement de l’accès aux droits, on diminue de 25 % la durée d’indemnisation. La durée maximale passe par exemple de deux ans à dix-huit mois.

    En d’autres termes : depuis six ans, et dans l’attente d’une nouvelle « réforme », donc, les chômeurs ont plus de difficultés à obtenir des indemnités, celles-ci sont moins importantes, et versées moins longtemps.

    Avec quels effets, pour les demandeurs d’emploi ?
    Ils se prennent un mur, pour ainsi dire.
    La Dares, la direction de l’animation de la recherche, des études et des statistiques, rattachée au ministère du Travail, a publié en début d’année une étude sur le sujet. Les ouvertures de droits se sont effondrées : moins 17 %, entre 2017 et 2022. Dans l’histoire, ce sont les jeunes, les travailleurs en fin de CDD ou d’intérim, les plus précaires, donc, qui prennent le plus cher. Sachant que, selon l’Insee, ce sont déjà les ouvriers et les employés qui se retrouvent le plus souvent au chômage.
    Et ceux qui continuent à arracher des droits sont moins bien indemnisés, pour plus de la moitié d’entre eux : jusqu’à 50 % en moins, même. Ils ne sont par ailleurs plus que 36 % de chômeurs, aujourd’hui, à toucher une allocation – un chiffre qui n’a jamais été aussi bas. [...]

    Voilà de belles rentrées d’argent frais pour le gouvernement, toujours obsédé par une seule et même idée, guidé par une seule et même boussole : ne surtout pas toucher aux dividendes, aux superprofits, aux bénéfices du CAC 40 qui explosent.
    En l’occurrence, ce sont 6,7 milliards que les différentes coupes dans les droits des chômeurs permettront bientôt de récupérer, chaque année. Et Macron et Attal ont déjà fait leurs calculs : la nouvelle réduction annoncée de la durée d’indemnisation permettrait de gratter encore 3 milliards supplémentaires, sur le dos de quelque 400 000 allocataires supplémentaires poussés en fin de droits chaque année.
    Pour quels effets ?

    Voilà au moins rempli un premier objectif, sonnant et trébuchant, de ces coupes à la hache : récupérer de l’argent.
    Mais pour l’autre, affiché publiquement ?
    Réduire le nombre de chômeurs, leur permettre de retrouver du travail ?
    Quels sont les effets sur les chiffres du chômage ?
    « Le fruit de ces réformes », c’est « une baisse historique » du chômage, assure donc Gabriel Attal. Et les membres du gouvernement, et le Président lui-même, n’y vont pas de main morte pour vanter les effets de leur remise au pas de ces feignants de chômeurs. Ils nous inondent de tweets, même.
    « Cela fait 40 ans que le niveau du chômage n’avait pas été aussi bas. Objectif plein-emploi ! » s’enthousiasmait Emmanuel Macron en mai 2023, annonçant un taux de chômage descendu à 7,1 %.
    « Depuis 40 ans, aucun gouvernement n’a fait mieux ! La bataille pour le plein-emploi en passe d’être gagnée ! » savourait Marie Lebec, actuelle ministre des relations avec le Parlement. Ça commençait à sentir les éléments de langage…
    « Nous atteignons le plus bas niveau de chômage depuis 1982 ! », hurlait (même en tweetant) Olivier Dussopt, alors ministre de la retraite à 64 ans (on ne se souviendra de lui qu’ainsi).

    Et le bal des satisfecit, continuait ainsi, de jour en jour, de semaine en semaine. Problème : aucune étude n’a à ce jour fait le lien entre les réformes menées depuis 2018 et l’évolution du taux de chômage : le recul manque, encore. Certaines sont en cours, mais rien n’indique que la baisse, si baisse il y a (mais on y reviendra), soit corrélée au travail de sape entrepris par Macron et ses gouvernements successifs. « C’est de la com’ de base, du mytho ! » C’est Alexandre, au café, qui m’avait sorti ça, à l’évocation d’un chômage en baisse. Il se marrait, même. « Plus ils durcissent les conditions, moins il y a de chômeurs ? Ben oui, puisqu’ils n’ont plus de droits à l’assurance, les gens ne voient plus l’intérêt de s’inscrire à Pôle emploi : ça ne leur amène rien. Je le vois bien. Donc plus ils durcissent et plus les statistiques sont en leur faveur. Et plus ils peuvent te dire "Regardez, on arrive au plein emploi…" » Bon, c’est un ressenti personnel, de terrain, pour le coup.

    Mais Bruno Coquet, économiste, chercheur associé de l’Observatoire français des conjonctures économiques, estime lui que « durcir les règles de l’assurance-chômage, ça ne crée pas d’emploi ».
    Et même une chercheuse, titulaire au passage du prix Nobel d’économie (en 2019), va dans ce sens… « On trouve très très peu, ou pas, d’effets de la générosité des allocations chômage sur l’emploi » posait Esther Duflo, donc, sur France Inter, en novembre 2022. Elle poursuivait : « En fait, il y a un désir très profond, chez beaucoup de gens, de travailler, et en particulier de travailler dans des emplois qui ont du sens et de la dignité. Les hommes et les femmes politiques ont une méfiance vis-à-vis des chômeurs ou de ceux qui ne travaillent pas et se disent "ouh là, si les allocations chômage sont trop généreuses, ils ne vont pas vouloir travailler et devenir paresseux", mais en fait, on n’en voit absolument pas la preuve. »
    Je le confesse : j’aime bien, quand les observations d’un chômeur en rupture collent avec l’analyse d’une prix Nobel. Ça montre d’un coup un peu mieux qui est déconnecté de la réalité, dans ce pays.

    D’ailleurs, en repensant à Alexandre, il m’avait aussi donné un contact. Celui d’une conseillère Pôle emploi – pardon, France Travail, puisque la transformation de l’un en l’autre fait aussi partie des grands changements instaurés par le gouvernement. Rosa, elle s’appelle – enfin pas vraiment, mais elle préfère garder l’anonymat, pour témoigner. Je suis allé la voir, du coup, après son boulot, dans une grande ville de banlieue parisienne. En bavardant, sur le banc d’un square pas loin de son agence, elle jongle entre son thermos de thé et un croissant. Rosa s’occupe en particulier des jeunes, ceux qui cherchent un premier emploi ou une alternance. J’osais pas trop lui poser la question d’emblée, mais les chômeurs que j’avais rencontrés étaient plutôt durs, avec les conseillers #France_Travail

    « France Travail, ça change des choses, plutôt que Pôle emploi ?
    -- Bah, disons qu’ils ont réuni tous les acteurs de l’insertion sous une même enseigne, et Pôle emploi devient une sorte de carrefour pour amener les gens ailleurs. Aussi, on fait plus avec moins. C’est tout bête, mais ils font des économies sur tout. Sur le ménage, par exemple. Et bosser dans le sale, c’est pas terrible, comme conditions. Ils avaient annoncé qu’il y aurait davantage d’argent, mais il ne passe ni dans les embauches ni dans les salaires, alors je ne sais pas où. On a de moins en moins de conseillers entrants, et de moins en moins de CDI. Ma directrice, elle nous a fait une réunion pas plus tard que tout à l’heure : "Bon, on a un problème de bureaux, parce qu’on n’a plus assez de financements." Concrètement, on n’a plus assez de bureaux pour le nombre de conseillers. "Donc maintenant, ce sera premier arrivé, premier servi. Ceux qui arrivent les derniers devront s’installer dans la salle de réunion." Vous imaginez, la confidentialité quand vous recevez des gens ? On est nuls, nuls. Déjà, depuis quelques années, on a des bureaux ouverts, pour qu’on puisse circuler et s’échapper si jamais on nous agresse. Et ça gêne beaucoup les gens qui viennent, parce que tout le monde autour entend toute leur histoire. Personne n’aime ça, pas plus eux que nous. Alors là, dans la salle de réunion…
    -- Et vous avez beaucoup de demandeurs d’emploi dans votre liste ?
    -- Dans notre "portefeuille" ? Vous pouvez employer le terme, parce que c’est celui qu’on emploie. Moi j’ai 70 actifs, tout le temps, mais je suis affectée juste sur les jeunes, donc ça va. Officiellement, on annonce entre 100 et 200 actifs par conseiller, mais c’est faux. Certains collègues, pour guider et aider un peu dans la recherche, ils peuvent avoir 300, 400 actifs, 400 personnes à suivre. Et pour le simple suivi, on peut avoir plus de 500 actifs. Et là, c’est énorme. Le gouvernement, son but, c’est qu’on leur parle personnellement chaque semaine. Mais c’est pas possible, mon Dieu…
    -- Et les réformes de ces dernières années, vous en pensez quoi ?
    -- Ce que je trouve un peu cru, un peu dégueulasse même pour être vulgaire, c’est qu’en 2021, 2022, on a baissé le montant net attribué par jour, tout en disant à l’époque qu’on n’allait pas baisser la durée d’indemnisation. Et là, ils la baissent, maintenant. Franchement, c’est des chiens...
    -- C’est pour inciter les chômeurs à reprendre du travail, paraît-il.
    -- Franchement, ceux qui se complaisent dans ce système, c’est vraiment à la marge. Mais c’est comme dans tous les services publics, on le sait : moins d’accompagnement, mais plus de flicage. J’étais un peu idéaliste, en arrivant dans mon boulot. Là, je vois qu’à France Travail on me demande de plus en plus de fliquer les gens. "Moi, je ne suis pas là pour ça", je leur ai dit. Comme si c’était eux, les plus gros fraudeurs… Alors, quand un demandeur d’emploi ne vient pas à un rendez-vous parce qu’il est SDF, ben je ne le radie pas forcément. Parfois, les sanctions tombent automatiquement, les gens sont désinscrits de Pôle emploi pendant un mois. Pour ceux qui ont besoin de l’allocation chômage, c’est dur.
    -- Et pour les conseillers ?
    -- Parfois, j’ai besoin de faire des pauses, vingt minutes, parce que c’est lourd. C’est une source de stress, car on a tous envie de bien faire, alors qu’on n’a pas assez de moyens.
    -- La bonne nouvelle, c’est que les chiffres du chômage baissent. Il paraît qu’on va vers le plein emploi…
    -- Ah, ça, c’est les politiques qui parlent, mais ils ne voient pas ce qui se passe sur le terrain… Moi j’étais statisticienne avant, et du coup je suis un peu chiante de ce côté-là, je regarde les chiffres, pas juste ceux de l’Insee. Et sur le terrain, en plus, non, je ne vois pas de baisse. On a toujours autant de gens qui ne peuvent pas s’en sortir, alors la baisse, je ne sais pas d’où elle vient. Si : on décale des gens vers les catégories B, C, D, et ça fait baisser les chiffres. On envoie par exemple plein de gens en formation, ils ne sont plus comptés dans la catégorie A, alors que beaucoup d’entreprises de formation sont frauduleuses, je peux vous le dire. Franchement, elles prennent les subventions de l’état mais ne font rien derrière. Je demande toujours un retour aux jeunes quand ils reviennent. La plupart sont gênés : "Madame, désolé, je vais être franc, mais c’était de la merde." Ce n’est pas toujours le cas, bien sûr, mais souvent. »
    Ça me rappelait le courrier d’une lectrice, Hélène, à Toulouse, qui se désolait d’avoir reçu de France Travail une proposition de formation organisée par… Uber !
    « Bref, reprenait Rosa : on met la poussière du chômage sous le tapis, aux frais du contribuable. »
    Bidonner les chiffres

    La poussière sous le tapis, OK. Mais la poussière, à un moment, ça finit toujours par se voir : ça fait un tas, et puis ça déborde. Le taux de chômage remonte, en ce moment, à 7,5 %. Mais il y avait cette histoire de catégories, aussi, dont m’avait parlé Rosa, et qui me trottait depuis un moment dans la tête. Et qui m’aura valu de me plonger dans des piles de documents et de courbes…
    Qu’on résume, à gros traits : les demandeurs d’emploi à France Travail sont classés en différentes catégories, A, B, C, D et E.
    La catégorie A, c’est la plus souvent citée : les demandeurs actuellement sans emploi, disponibles, et qui n’ont pas du tout travaillé ces dernières semaines. Côté B, idem, mais le demandeur ou la demandeuse a travaillé quelques heures (moins d’un mi-temps en tout cas) le mois précédent. Pareil pour les étiquetés « C » : ils cherchent, mais ont travaillé, eux, plus d’un mi-temps le mois précédent, même en contrat court. Les « D » aimeraient un boulot mais ne sont pas disponibles de suite (parce que malades, ou en formation, etc.). Quant aux « E », enfin, ils ont un travail qui ne leur convient pas, et en cherchent un autre.

    En tout, ces catégories de demandeurs d’emploi représentent, aujourd’hui dans notre pays, 6,2 millions de personnes.
    Or, c’est là la première grande arnaque : depuis fin 2007, sur décision de Nicolas Sarkozy, l’Insee ne tient plus compte pour évoquer le chômage des chiffres de Pôle emploi, mais de la définition du chômage au sens du Bureau international du travail, plus restrictive encore que la seule catégorie A (celle qui s’en rapproche pourtant le plus). Résultat : on chiffre en fait à 2,3 millions de personnes le nombre de demandeurs d’emplois fin 2023 (contre près de 3 millions en catégorie A). Vous cherchez du boulot ? Vous êtes inscrit à Pôle emploi ? Mais vous avez travaillé quatre heures en intérim voilà trois semaines ? Vous n’êtes pas pris en compte dans les statistiques du chômage...
    Conséquence : on invisibilise, dans ces calculs, des centaines de milliers, des millions de chômeurs.

    Parlons dynamiques, maintenant.
    Avec actuellement 7,5 % de chômeurs, et après pas mal de variations ces dernières années (plutôt à la hausse, puis à la baisse), le taux de chômage (au sens du BIT et de l’Insee) est un peu au-dessus de ce qu’il était en 2008. Pas certain qu’il y ait de quoi pavoiser.
    Surtout que la courbe du nombre de demandeurs d’emploi à France Travail, beaucoup plus parlante, donc, après une baisse post-crise sanitaire, stagne et même remonte aujourd’hui au niveau de ce qu’elle était en 2015.

    Qu’on résume : la France compte 6,2 millions de demandeurs d’emploi inscrits à France Travail, soit grosso modo le même nombre que quand Emmanuel Macron est arrivé au ministère de l’économie en 2015, et ce chiffre est en train de remonter. Je ne sais pas vous, mais moi ça ne me donne pas franchement envie de sortir tambours et trompettes pour chanter ses louanges…

    D’autant plus qu’il y a les autres.
    Tous les autres.
    Celles et ceux qui ne figurent plus nulle part, ou ailleurs, « cachés sous le tapis », sortis des statistiques.
    Les découragés, les radiés, les auto-employés, les contrats aidés...

    Et ils finissent par peser lourd, tous ces gens, dans la balance.
    Très lourd.
    Combien, exactement ? Selon Bertrand Martinot, économiste à l’Institut Montaigne et ancien conseiller social de Nicolas Sarkozy (pas vraiment un crypto marxiste, donc), en cumulant toutes ces catégories, « on arriverait à sept, huit millions de personnes qui sont en souffrance » par rapport à l’emploi – ou au manque d’emploi, plutôt.
    De 6,2 à 8 millions : soit entre 20 et 25 % de la population active (30 millions de personnes environ). On est loin des 7,5 %...
    On est plus loin encore du plein emploi vers lequel on s’avance pourtant en chantant, d’après le gouvernement.
    La voilà, leur victoire « historique ».

    https://fakirpresse.info/extrait-des-chiffres-et-des-etres

    #statistiques #manipulation #France #chômage #travail

  • L’accordo Italia-Albania e la nuova frontiera dell’esternalizzazione
    https://www.meltingpot.org/2024/05/laccordo-italia-albania-e-la-nuova-frontiera-dellesternalizzazione

    di Kristina Millona , traduzione di Nicoletta Alessio La fine dei lavori di costruzione dei centri italiani in Albania che era stata stabilita per il 20 maggio, slitta a novembre. Ad aggiudicarsi la gestione dei centri di “accoglienza e trattenimento” nei siti di Shëngjin e Gjadër per 24 mesi è la cooperativa Medihospes che ha vinto la gara d’appalto con un’offerta di 133,8 milioni di euro (con un ribasso del 4,9%) . Negli ultimi decenni, l’esternalizzazione del controllo migratorio è diventata uno dei pilastri fondamentali delle politiche europee sui confini e il Protocollo Italia-Albania ne rappresenta una nuova preoccupante (...)

  • Migranti: tutti i dubbi sull’accordo Rama-Meloni
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Migranti-tutti-i-dubbi-sull-accordo-Rama-Meloni-231441

    Nonostante le incongruenze e le incertezze relative all’accordo siglato tra Roma e Tirana per l’accoglienza dei migranti in suolo albanese, e in attesa del giudizio della Corte europea, a Gjadër e Shëngjin i lavori per i due centri sono già iniziati. Siamo andati a vedere come procedono

  • La #pauvreté en #Italie a atteint des niveaux sans précédent en dix ans

    Les #indices_de_pauvreté absolue en Italie ont atteint des niveaux jamais vus au cours de la dernière décennie, bien que le #PIB de l’Italie soit revenu aux niveaux d’avant la crise de 2007, a révélé l’Institut national italien de la statistique (ISTAT) dans son rapport annuel publié mercredi (15 mai).

    Selon le dernier #rapport annuel de l’ISTAT, le PIB de l’Italie est revenu aux niveaux d’avant la crise économique mondiale de 2007. Cependant, au cours des 15 dernières années, l’Italie a accumulé un écart de croissance de plus de 10 points avec l’Espagne, 14 avec la France et 17 avec l’Allemagne.

    Concernant la pauvreté, le rapport souligne une augmentation de la pauvreté absolue, qui touche 9,8 % de la population italienne — un chiffre qui est environ de 3 % supérieur à celui de 2014 — tout en notant que l’écart entre les familles les plus aisées et les moins aisées s’est creusé.

    La hausse de la pauvreté absolue a principalement touché la population en âge de travailler et leurs enfants, le pouvoir d’achat des salaires bruts ayant fortement diminué.

    « Malgré les améliorations observées sur le #marché_du_travail ces dernières années, l’Italie compte toujours une proportion très élevée de personnes ayant un emploi et se trouvant dans une situation de #vulnérabilité_économique. Entre 2013 et 2023, le #pouvoir_d’achat des salaires bruts en Italie a diminué de 4,5 %, alors que dans les autres grandes économies de l’Union européenne, il a augmenté à des taux allant de 1,1 % en France à 5,7 % en Allemagne », peut-on lire dans le rapport.

    Dans le même temps, la Commission européenne a révisé à la hausse la croissance du PIB de l’Italie pour 2024 à 0,9 %, dépassant ainsi l’Allemagne et la France, dans le cadre de ses prévisions économiques de printemps publiées mercredi.

    Mais le commissaire européen aux Affaires économiques, Paolo Gentiloni, a évoqué le très controversé système de #superbonus mis en place sous le second gouvernement Conte pour faire face au Covid.

    « Je tiens à rassurer tout le monde : nous ne sommes pas confrontés à un “risque grec”. Il s’agit d’une mesure qui a certainement eu des effets positifs, mais qui a échappé à tout contrôle et est devenue un élément dangereux, et le gouvernement a raison, à notre avis, de s’y attaquer », a-t-il déclaré mercredi.

    https://www.euractiv.fr/section/economie/news/la-pauvrete-en-italie-a-atteint-des-niveaux-sans-precedent-en-dix-ans
    #pauvreté_absolue #statistiques #chiffres

  • Planter 1 milliard d’arbres : comment le plan de #Macron rase des #forêts

    Le projet du gouvernement de planter #1_milliard_d’arbres est « une #supercherie », dénoncent des associations. D’après des documents obtenus par Reporterre, il servirait à financer des #coupes_rases et à industrialiser la filière.

    L’État plante des arbres pour mieux raser des forêts. C’est la réalité cachée du projet de plantation de 1 milliard d’arbres vanté par Emmanuel Macron. Dix-huit mois après son annonce en grande pompe, au lendemain des incendies de l’été 2022, le plan qui avait pour ambition de « renouveler 10 % de la forêt française » et de « #réparer_la_nature » montre un tout autre visage : les millions d’euros d’argent public déversés dans la filière servent de prime aux coupes rases et transforment des forêts diversifiées en #monocultures_résineuses. Une situation qui inquiète gravement les associations écologistes.

    D’après les documents officiels du ministère de l’Agriculture, que Reporterre a pu consulter, 50 millions d’arbres ont déjà été plantés, sur 35 935 hectares. Dans de nombreuses régions, les conditions dans lesquelles se sont déroulés ces chantiers posent problème.

    Les documents indiquent que 15 millions de plants d’arbres auraient été replantés sur 10 000 hectares de forêts qualifiées de « pauvres » par le gouvernement. Ces forêts rasées étaient en réalité « saines et bien portantes », assure l’association Canopée, qui a enquêté sur le terrain. Des coupes rases sur 6 500 hectares auraient même été réalisées en zone Natura 2000. Sur ces surfaces dévolues d’ordinaire à la protection du vivant, 1 500 hectares auraient été ensuite plantés exclusivement en #pins_douglas, une essence prisée par les industriels.

    Adapter la forêt aux besoins de l’industrie

    « On nage en plein délire, s’emporte Bruno Doucet, chargé de campagnes au sein de l’association. Alors même qu’il y a urgence à préserver les forêts, on les rase pour les transformer en #champs_d’arbres. » Les associations écologistes dénoncent un « coup de communication » et « un projet mégalomane ». Le milliard d’arbres plantés aurait vocation non pas à aider la forêt à affronter le dérèglement climatique, mais à l’adapter aux besoins de l’#industrie. « Si tous les arbres du plan “1 milliard d’arbres” sont plantés dans les mêmes conditions, cela signifierait que 200 000 hectares de forêts saines et vivantes seraient rasés d’ici 2032 », ajoute-t-il.

    « La #biodiversité a peu à peu été rejetée au second plan pour prioriser la #récolte_de_bois et les #fonctions_productives de la forêt », regrette de son côté Christophe Chauvin, pilote du réseau forêt à France Nature Environnement (FNE). En septembre 2023, plusieurs ONG écologistes [1] alertaient déjà sur les dérives en cours. « La stratégie s’est éloignée de l’enjeu qui en a initié l’élaboration », écrivaient-ils dans un rapport. « La restauration des écosystèmes » et le « renforcement de la résilience des forêts » ont été délaissés au profit d’une logique simpliste et comptable qui privilégie « les #plantations_en_plein », c’est-à-dire les #plantations après coupes rases, prévenaient-ils.

    « Plutôt que de protéger les peuplements existants, en les enrichissant et en travaillant avec finesse, les industriels préfèrent tout couper pour les substituer à d’autres essences, du #résineux majoritairement, qu’ils jugent plus résistant et plus intéressant économiquement », observe Christophe Chauvin.

    Plus de 80 % des arbres sont plantés après une coupe rase

    Selon un rapport du Conseil supérieur de la forêt et du bois, un organisme ministériel, les plantations en plein, donc après coupes rases, représenteraient près de 80 % des opérations à effectuer pour atteindre la cible du milliard d’arbres, et donc se feraient en lieu et place d’anciennes forêts. Seuls 7 % des arbres plantés viendraient s’ajouter aux forêts existantes, principalement sur des terres agricoles abandonnées. À TF1, le ministère de l’Agriculture a tenu à préciser que « l’objectif du milliard d’arbres ne visait pas à créer de nouvelles forêts, mais bien à renouveler celles déjà existantes ».

    « #Renouveler », ou plutôt « #transformer » la forêt et « #abattre » des parcelles entières pour y #replanter de jeunes arbres. Ce que le ministère assume auprès de Reporterre : « France Relance s’adresse à des forêts malades ou non adaptées au changement climatique. Il est donc normal que les plantations en plein soient très majoritaires. Les coupes rases sont essentiellement sanitaires », assure-t-il.

    Les grandes #coopératives_forestières en embuscade

    Concrètement, 35 935 hectares ont été replantés de 2021 à 2023 pour un coût de 150 millions d’euros, d’après la Direction générale de la performance économique et environnementale des entreprises (DGPE). Le #pin_maritime et le #douglas ont été les principales essences replantées sur d’anciennes #forêts_feuillues et les plantations après coupes rases ont représenté 32 046 hectares (soit 89 % de la surface totale). Ces chantiers lourds et coûteux ont été portés en grande majorité par les coopératives forestières, des entreprises qui plaident pour l’#industrialisation de la filière.

    « Ce plan favorise une logique prométhéenne »

    Selon le document de la DGPE, les #coopératives ont capté plus du tiers des #subventions totales, le reste est allé aux particuliers et aux propriétaires (parfois eux-même en lien avec des coopératives). « Le #plan a constitué un effet d’aubaine pour asseoir leur #modèle_productiviste. Ces acteurs se sont accaparé l’argent public pour leur business », dénonce Bruno Doucet. La plus grande coopérative, #Alliance_Forêts_Bois, critiquée pour ses méthodes destructrices des écosystèmes, a même perçu 10 % des subventions. C’est en #Nouvelle-Aquitaine, dans la forêt des #Landes — où l’entreprise est hégémonique —, qu’il y a d’ailleurs eu le plus de #reboisements. À l’inverse, les experts et gestionnaires indépendants qui privilégient souvent d’autres méthodes sylvicoles plus proches de la nature n’ont reçu que des miettes. Ils ne représentent que 7 % des dossiers soutenus par les pouvoirs publics.

    « Ce plan favorise une logique prométhéenne, soutient Christophe Chauvin, c’est une négation de l’#écologie et de ses équilibres. On croit à la toute-puissance de l’intervention humaine et à celles des machines. C’est soit naïf, soit complètement opportuniste. »

    « Si une forêt est pauvre, il faut l’enrichir, pas la détruire »

    Au cœur des polémiques résident les critères d’attribution de ces #aides. Pour être éligible aux #subventions et pouvoir replanter sa forêt au nom du milliard d’arbres, il faut que son peuplement soit considéré comme « dépérissant »,« vulnérable » ou « pauvre ».

    Pour l’État, un « #peuplement_dépérissant » est une forêt où 20 % des arbres seraient morts après une catastrophe naturelle ou une attaque de pathogènes. Une forêt « vulnérable » est une forêt que l’on suppose menacée à terme par le réchauffement climatique avec des essences jugées fragiles comme le châtaignier ou le hêtre. Tandis qu’un peuplement est considéré comme « pauvre », lorsque sa valeur économique est inférieure à 15 000 euros l’hectare, soit environ trois fois son coût de plantation.

    Ces définitions font l’objet de vifs débats. Les ONG écologistes jugent trop faible le curseur de 20 % pour un peuplement dépérissant. Par exemple, dans une forêt composée à 80 % de chênes sains et à 20 % d’épicéas attaqués par des scolytes, le propriétaire pourrait légalement tout raser, toucher des subventions et dire qu’il participe au grand projet du milliard d’arbres.

    Les peuplements dits « vulnérables » suscitent aussi des controverses. Sans nier les conséquences du réchauffement climatique sur les forêts — la mortalité des arbres a augmenté de 80 % en dix ans —, la vulnérabilité d’un massif reste très difficile à établir. Elle dépend de multiples facteurs et repose aussi sur le scénario climatique auquel on se réfère, à +2 °C, +4 °C, etc.

    « Il faut être vigilant quant à ces projections, prévient Marc Deconchat, directeur de recherche à l’Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement (Inrae). On ne sait pas exactement comment les essences vont survivre ou non. On connaît encore mal leur capacité d’adaptation et d’évolution génétiques. »

    Les modèles qui prédisent une migration vers le nord de certaines essences d’arbres indigènes ou leur disparition reposent sur des moyennes générales, avec des échelles parfois très grossières. « Quand on regarde de manière plus subtile, en prenant en compte les variations de pente, le type de sol ou d’orientation au soleil, le risque de disparition est très variable, affirme Marc Deconchat. Ce ne sont d’ailleurs pas uniquement les essences qui sont en cause, mais aussi le mode de #sylviculture qui leur est associé. »

    Un exemple de #maladaptation

    C’est surtout le terme de « #peuplement_pauvre » qui provoque l’ire des écologistes. Cette expression servirait de prétexte pour tout ratiboiser. Selon les calculs de plusieurs forestiers et écologistes, près de 95 % des forêts françaises auraient une valeur sur pied inférieur à 15 000 euros l’hectare. Avec ce critère, quasiment toute la forêt métropolitaine pourrait donc être considérée comme pauvre et être remplacée par des plantations.

    Dans un documentaire, le journaliste Hugo Clément montre comment des parcelles de forêts #feuillues diversifiées considérées comme pauvres ont été rasées, partout à travers la #France, avec ce type d’argumentaire. Le #bois a été transformé en #broyat pour partir ensuite en fumée, nourrir des chaudières ou faire de l’électricité. « C’est une supercherie, un non-sens écologique et climatique. Une forêt pauvre, il faut l’enrichir, pas la détruire », enchérit Christophe Chauvin.

    Les défenseurs de l’environnement craignent que ce plan de 1 milliard d’arbres ne soit finalement qu’un exemple de maladaptation au changement climatique. Ils rappellent que les #monocultures sont plus fragiles que les vieilles forêts face aux aléas naturels. 38 % des plantations de jeunes arbres sont morts l’an dernier à cause de la sécheresse. La coupe rase est aussi décriée pour ses conséquences climatiques. « Elle est à éviter autant que possible et ne doit être utilisée qu’en dernier recours », déclare le climatologue Philippe Ciais. Dans une expertise scientifique commandée par le ministère de la Transition écologique, soixante-dix chercheurs affirment que « les principaux effets des coupes rases sur le milieu physique et chimique sont généralement négatifs et globalement bien documentés, notamment sur la structure, la fertilité et le stockage de carbone des sols, la biodiversité, l’érosion ou encore la qualité des cours d’eau ».

    « Dans une période de restriction budgétaire où le ministre de l’Économie appelle à faire la chasse aux dépenses inutiles, on peut se demander légitimement si ce plan n’en fait pas partie », déclare Bruno Doucet. Jusqu’à 2032, l’État souhaite mobiliser 8 à 10 milliards d’euros pour planter son milliard d’arbres.

    https://reporterre.net/1-milliard-d-arbres-plantes-le-mensonge-de-Macron-Le-milliard-d-arbres-d
    #déforestation

  • Inox, fonte, céramique… On a cherché une poêle sans PFAS
    https://reporterre.net/Inox-fonte-ceramique-On-a-cherche-une-poele-sans-PFAS


    Naan, de rien !

    Face au problème de l’aliment qui colle au fond de la poêle, Hervé This dédramatise : « En début de cuisson, ça va attacher, mais il faut laisser faire. L’inox n’est pas une surface lisse. Les polymères des aliments vont donc combler les trous du revêtement, puis ils vont former une couche qui va finir par se détacher au cours de la cuisson. » Dès que la couche commence à brunir, elle va en effet se décoller. C’est ce qu’on désigne souvent sous le nom de « réaction de Maillard ». Le fabricant français Cristel, qui commercialise du matériel culinaire, affirme sur son site qu’« il est bel et bien possible d’éviter que les aliments ne collent dans l’inox. Il suffit pour cela d’adopter les bonnes techniques de cuisson ».

    • Ni pour les œufs, ni pour le poisson, ni vraiment pour l’amidon des patates rôties (un peu mieux dans la céramique genre cocotte le creuset).

      C’est marrant j’ai fait exactement la même recherche pour trouver une poêle pas trop pourrie ya un ou deux mois ! J’ai déjà une belle cocotte céramique tradi et une poêle inox le creuset que j’utilise pour la viande (ou du mijotage).

      Mais j’ai rien trouvé de probant, et au final pour faire sauter ou pour les œufs, j’ai racheté une énième fois une nouvelle poelle anti-adhésive…

      Reste le culottage bien fait sur une poêle acier :

      « Plus la poêle est noire, moins elle attache », écrit De Buyer, l’un des rares fabricants français de poêles en acier, sur son site. Il assure qu’avec un bon culottage, il est possible de cuire des œufs ou même du poisson dans une poêle en tôle acier. On aura créé une couche avec des propriétés antiadhésives permettant de cuire sans beaucoup de matières grasses.

      […]

      Le revêtement en fonte possède une surface irrégulière, comme l’inox ou l’acier, qui va attacher lors de la cuisson. Un culottage s’avère donc là aussi nécessaire. C’est ce que font les crêpiers avec leur billig, la semelle en fonte sur laquelle ils font leurs crêpes. Il existe désormais des poêles avec un revêtement en fonte émaillée, à la surface plus lisse, qui réduit l’adhérence et exonère de culottage.

      Ça j’ai jamais encore essayé…

    • Pour les oeufs, j’ai jamais fait attacher une seule omelette (ou oeufs au plat) dans une poêle en inox. Le truc a respecter impérativement : poêle très chaude au moment où on verse la prépa.

      La de buyer en acier j’ai aussi. Garder le culottage en parfait état réclame de l’attention. J’ai jamais tenté les oeufs dedans. Viande et poisson par contre c’est nickel. Patates aussi. C’est plutôt fait pour les cuissons a forte température.

    • Induction. Meilleur ratio d’efficacité, si tu as assez de paliers de puissance et que des spires sont bien réparties, c’est réellement très efficace pour chauffer très fort très vite et mijoter des doucement très longtemps.

      Quand on a débarqué à l’appart, il y avait une table générique (9 niveaux) : c’était déjà mieux que le gaz en bouteille, mais la chiasse pour maintenir une ébullition sans déborder.

      Là, j’ai pu la changer avec une simple, mais de meilleure facture (15 niveaux) : c’est super reposant.

      Le gaz, c’est bien, mais j’ai tendance à ne pas faire confiance à mes voisins pour me maintenir en vie : le voisin du dessous alcoolo, il m’a bien fais transpirer. Souvent, les gens n’ont pas de coupe-circuit en cas d’extinction de la flamme (vieux matos) et avec un gus qui peut s’endormir dans son vomi, t’aimes pas l’idée.

    • Ma poêle de buyer pour cuire les beefs c’est non lorsque ma fille 27 ans mange à la maison . Le goût du fer relève celui du sang et c’est dégoût assuré. Je suis carnivore et j’éprouvais le même dégoût lorsque j’étais plus jeune. C’est passé avec le temps...Lorsque elle est réglée c’est encore pire le goût du sang. Oui je sais c’est bizarre ! Culotter la po^le de buyer c’est pas évident d’un point de vue hygiène et régulièrement je ne peux pas résister à la laver en frottant un max ... Du coup ça colle...

    • J’aime le gaz je vais devoir passer à l’induction en déménageant because règlementation. Du coup je fais des recherches sur quelle cuisinière à induction.

    • Oui, dans la famille où j’étais ado, ils avaient une énorme poêle en fer qu’ils ne lavaient jamais (juste sous l’eau chaude) et je pensais que c’était de gros sales. Ils avaient effectivement un rapport très détendu avec les détergents. Et la poêle filait souvent un « gout » à la bouffe, maintenant, j’ai compris qu’ils avaient hérité d’une poêle ancestrale super bien culottée, mais qu’il eut quand même fallu qu’ils la passent au gros sel de temps à autre.

    • Les cuisinières, c’est pas top en général. Mieux vaut les tables en séparant de la fonction four.

      En table, j’ai beaucoup cherché et j’ai pris une Sauter 3 foyers (les trucs avec zones extensibles vendus le double ou le triple sont encore pas super efficaces) avec 15 niveaux de chauffe. Il n’y a toujours pas de classe énergétique pour ces engins (la honte), mais sur les tests d’efficacité, cette marque s’en sort super bien, avec une bonne répartition de la chauffe dans les foyers, ce qui fait que la conso réelle est un peu meilleure que celle du reste du marché, sans compter que la ventilation est notablement moins bruyante que celle de tables plus chères comme Whirlpool.

    • La ventilation, c’est ce qui m’arrête avec l’induction. Ici la cuisine est la pièce de vie principale alors le bruit de ventilo permanent pendant une heure de mijotage, c’est une perspective qu’on envisage pas.

    • On est au gaz bouteille, encombrés donc par la bombonne. Mais ça nous a permis de manger chaud pendant les périodes de coupures électriques (jusqu’à 4 jours après la tempète de 1999.)
      Gazinière avec thermocouple de sécurité, sur le four uniquement.

    • Nous aussi, on mijote : ce ventilo est tout a fait supportable, contrairement au FAR qui foutait les jetons. C’est moins que la hotte ou même que la rumeur de la rue si on ouvre la fenêtre. Moins que la VMC qui est musclée chez nous, un peu plus que le frigo.

      Par contre, oui, faut que je vois pour un Coleman ou un truc dans le genre pour les coupures qui ne vont pas manquer d’arriver.

    • Perso, on est passé d’une cuisinière gaz à la vitrocéramique puis à l’induction. La vitrocéramique c’est gourmand en électricité. Par contre à cause de la bonne inertie calorifique, tu peux baisser la puissance et laisser mijoter en surveillant un minimum. L’induction, ce que je trouve pénible, c’est la chauffe intermittente quand tu tournes à basse puissance. Faut dire qu’on a peut-être lésiné sur la qualité de l’appareil. De plus, tu as intérêt à avoir des récipients de qualité+++ (prévu pour et avec une semelle bien épaisse d’acier inox pour conserver la chaleur). Alors qu’un vieux faitout alu même cabossé, ça le fait sur un feu gaz (pour cuire des confitures par exemple). Je regrette quand même le gaz.

    • Il y a le gaz de ville dans ma maison, donc je suis resté au gaz. En m’équipant avec des feux à gaz de très bonne qualité, et avec un bon réglage de ralenti c’est ce que je trouve le plus précis. Bon c’est le gaz, c’est pas idéal en terme d’émissions…

      Chez ma mère il y a des plaques à induction de très bonne qualité, et je ne constate pas ce phénomène d’intermittence à basse puissance. Par contre effectivement il faut des très bons récipients (quand mes parents étaient passé à l’induction c’est ce qui m’avait permis de récupérer tout un tas de bonnes gamelles qui ne passaient pas sur l’induction, genre un super couscoussier !).

  • Occitanie : TER et cars liO gratuits pour les 12/26 ans
    https://claap.fr/2023/11/15/occitanie-ter-et-cars-lio-gratuits-pour-les-12-26-ans

    Carole Delga a confirmé la possibilité à tous les jeunes d’Occitanie de 12 à 26 ans (soit 1 million de personnes concernées) de voyager gratuitement à bord des transports Lio. Cela comprend les 21 lignes ferroviaires et les 370 lignes de cars régionaux (lignes régulières et lignes scolaires). Cette gratuité totale entrera en vigueur à compter du vendredi 22 décembre.