• #villa_san_giovanni. #corteo_no_ponte
    https://radioblackout.org/2024/05/villa-san-giovanni-corteo-no-ponte

    L’idea di realizzare un ponte che unisse la Sicilia alle coste della Calabria venne per primo al re Ferdinando II delle Due Sicilie. Restò solo un’idea, della quale si continuò a parlare anche dopo l’unità d’Italia, quando si valutò anche la possibilità di un collegamento sottomarino, analogo a quello che Napoleone immaginava di realizzare sotto […]

    #L'informazione_di_Blackout #no_ponte #stretto_di_messina
    https://cdn.radioblackout.org/wp-content/uploads/2024/05/2024-05-14-sturniolo-no-ponte.mp3

  • #Villa_del_seminario”, la storia rimossa del campo di concentramento in #Maremma

    Nella frazione #Roccatederighi del Comune di #Roccastrada tra la fine del 1943 e la metà del 1944 vi fu un “campo di concentramento ebraico”, come scrissero i fascisti nel contratto di affitto con un vescovo vicino al regime. Da lì si partiva per #Fossoli, direzione Auschwitz. Il romanzo dello scrittore Sacha Naspini smuove la polvere.

    Roccatederighi, frazione del Comune di Roccastrada, in Maremma, tra il 28 novembre del 1943 e il 9 giugno del 1944 ospitò un campo di concentramento: vi furono rinchiusi un centinaio di ebrei, 38 dei quali poi deportati verso la Germania, da cui ritornarono solo in quattro. La struttura che ospitò il campo è la sede estiva del seminario vescovile di Grosseto, la “Villa del seminario” che dà il titolo all’ultimo romanzo di Sacha Naspini, scrittore grossetano che a Roccatederighi (che diventa Le Case in questo e in altri dei suoi libri) ha passato l’infanzia nella casa dei nonni materni.

    Che cosa ti ha spinto ad affrontare la vicenda del campo di concentramento della Villa del seminario?
    SN In qualche modo vengo da lì e fin da ragazzino sentivo girare per casa questa faccenda: il seminario sono due grossi edifici all’imbocco del paese, dicevano là sono successe delle cose, ma erano discorsi che sfumavano nel nulla. Prima del 2008, quando in occasione della Giornata della memoria fu messa lì una lastra commemorativa, la villa del seminario era usata per fare le scampagnate, anche le braciate del 25 aprile o del 1 maggio. Ricordo io e mio fratello, con i miei nonni che andavamo nel giardino del vescovo. Pochi sapevano, così quando è uscito il libro ho ricevuto molti messaggi o mail, da parte di persone che magari oggi hanno 75 anni, che sono nate e vivono a Roccatederighi e che di quella vicenda non ne avevano mai sentito parlare. Un uomo, che abita sulla provinciale, a cento metri dal seminario e mi ha proprio scritto: “Davvero vivo davanti a un campo di concentramento?”. Perché da lì si partiva per Fossoli (Modena), proseguendo poi per Auschwitz. E negli anni Ottanta e Novanta lì i giovani della Diocesi, anche quelli della mia generazione, facevano i campi estivi.

    Sei cresciuto a Grosseto: manca ancora o si è sviluppata una memoria condivisa rispetto a quell’evento? Nel libro scrivi che la strada verso quell’edificio ormai diroccato è ancora oggi via del Seminario.
    SN C’è un rimosso, io vengo da quei massi, quella bella cartolina di Maremma, rude e vera, ma anche da quel silenzio. Non tutti i rocchigiani hanno accolto bene il mio romanzo, fa parte della mentalità di paese il sentirsi attaccati o in qualche modo svestiti, spogliati da una serie di costruzioni e difese che la gente prende nei confronti dello stare al mondo in quella routine. Questo però è un caso unico nel mondo, perché nel contratto di affitto tra Alceo Ercolani (prefetto di Grosseto per la Repubblica sociale italiana) e Paolo Galeazzi, vescovo fascista, si parla apertamente di “campo di concentramento ebraico”, cose che danno un certo sgomento. Come ricordo nelle ultime pagine del romanzo, a febbraio 2022, nel giorno in cui ho chiuso le bozze del mio libro, il sindaco di Grosseto Antonfrancesco Vivarelli Colonna inaugurava la piazza in ricordo di Galeazzi, di cui si ricordano pastorali di chiaro stampo fascista e passeggiate a braccetto di Benito Mussolini.

    La memoria, quindi, non è né può essere condivisa.
    SN Il mio libro è stato un po’ come andare a muovere polvere sotto il tappeto. C’è anche chi mi ha detto “Io non lo sapevo, quindi non è vero”, ma la realtà è che una storica, Luciana Rocchi (dal 1993 al 2016 è stata Direttrice dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea, ndr) ha scoperto negli archivi della Diocesi il contratto d’affitto, che non può essere nascosto. La notizia, frutto del lavoro di una storica, resta un po’ sottotono, in sordina. Finché un libro, “Il muro degli ebrei”, di Ariel Paggi, una ricognizione su 175 ebrei di Maremma, molti dei quali passano anche da via del Seminario, mi ha dato le mappe per scrivere davvero questa storia.
    Altri particolari sono frutto della storia familiare: mia nonna mi ha raccontato in tutte le salse l’inverno durissimo del 1943, che già da novembre si annunciava così; poi la guerra, com’era avvertita in paese, con la febbre che si alzava sempre di più man mano che avanzavano gli alleati, l’organizzazione delle prime bande partigiane, ma anche le privazioni, il razionamento. Nel dicembre del 1943 il babbo della mia nonna materna è morto di “deperimento organico”, praticamente di fame, in casa. I bottegai di Roccatederighi probabilmente non ne sapevano niente, ma hanno visto arrivare intere famiglie che si facevano auto-internare, con l’idea di trascorrere alla villa del seminario quel momento particolare, lasciar passare la guerra e tornare a casa. Il vescovo è rimasto lì per tutto il tempo, scegliendo solo alla fine di salvare alcuni ebrei, tra i più benestanti, probabilmente per ottenere una “carta verde” dal nuovo governo, a cui ha poi chiesto gli arretrati per l’affitto non pagato.
    Anche dopo il 2008, quand’è stata apposta la lastra, non c’è la giusta attenzione. Sono emersi negli anni alcuni progetti di rivalutazione dello stabile, per farne un albergo o un istituto per malati di Alzheimer, ma la villa resta in abbandono. È cambiata la sacralità del luogo: dormiresti in un albergo sapendo che è stato un campo di concentramento?

    Uno dei protagonisti della vicenda è Boscaglia, giovanissima guida di una banda partigiana.
    SN La storia di Guido Radi, “Boscaglia”, è legata a quella della partigiana Norma Parenti, due persone che vibrano ancora. Lui venne ucciso a 19 anni, il suo corpo straziato trascinato fino a Massa Marittima, dove lei andò a recuperarlo, per darne sepoltura. Sono storie che potete ritrovare, perché tutto ciò che racconto è vero, a partire dalla morte di Edoardo, il figlio di Anna, in una vicenda che richiama la strage di Istia d’Ombrone, quando 11 ragazzi vennero assassinati per rappresaglia nel marzo del 1944. All’ultima commemorazione, nel 2023, il sindaco Vivarelli Colonna, che si è presentato senza fascia tricolore, è stato contestato da cittadini che hanno assistito al comizio del sindaco girati di spalle, in silenzio.

    La storia è narrata da René, un ciabattino di 50 anni che ha perso tre dita al tornio da ragazzino. Nel libro racconti la sua rivoluzione.
    SN Presa coscienza del grande lavoro di Paggi ho voluto scrivere una storia creando questo cinquantenne fuori dai giochi, che ingoia tutta le cattiverie del paese a partire dai nomignoli per la sua menomazione, da Pistola a Settebello. L’ho voluto ciabattino, perché quello è un pezzo di guerra che si è combattuta tanto con i piedi. È una storia che potrei aver ascoltato in paese e che ho ritrovato in un libro di Cazzullo, “Mussolini il capobanda”, che parla di un ciabattino storpio di Roccastrada che ha fatto la Resistenza. Ho voluto raccontare la trasformazione di un personaggio passivo, spettatore del mondo, dovuto all’impatto con la storia con la “s” maiuscola: il suo impatto vero è quando uccidono Edoardo, suo figlioccio, quando l’amica amata Anna decide di andare nei boschi per continuare l’impegno di suo figlio e lascio a lui un compito. Per la prima volta si trova a modificare il suo sguardo sulle cose e su stesso. È un’epopea interiore. Si chiede che cosa vedano i ragazzi che vanno nei boschi, che cosa intuiscono, elementi che tornano anche nel personaggio di Simone.

    Simone, che diventa amico di Renè, è un giovane soldato che pare appoggiare la resistenza. Come l’hai costruito?
    SN Per costruire il suo personaggio mi sono agganciato alle testimonianze dei ragazzi che si ritrovavano ingabbiati in un’uniforme che non sentivano più loro. Il calvario di Simone lo porta a dire “preferisco morire dalla parte sbagliata”. Oggi mi piace trasmettere questi fuochi, quella brama di futuro ai ragazzi che incontro nelle scuole, che si infervorano di fronte a vicende che riguardano loro coetanei. Ogni romanzo offre un’immersione in una circostanza accompagnata da un’emotività particolare. “Boscaglia” aveva 19 anni quando è morto, 18 quando era andato in montagna, non lascia indifferente un ragazzo di quinta superiore.

    https://altreconomia.it/villa-del-seminario-la-storia-rimossa-del-campo-di-concentramento-in-ma
    #Italie #camp_de_concentration #deuxième_guerre_mondiale #seconde_guerre_mondiale #shoah #histoire #déportation #Auschwitz #mémoire

    • Villa del seminario

      Una storia d’amore, riscatto e Resistenza.
      Maremma toscana, novembre ’43. Le Case è un borgo lontano da tutto. René è il ciabattino del paese. Tutti lo chiamano Settebello, nomignolo che si è tirato addosso in tenera età, dopo aver lasciato tre dita sul tornio. Oggi ha cinquant’anni – schivo, solitario, taciturno. Niente famiglia. Ma c’è Anna, l’amica di sempre, che forse avrebbe potuto essere qualcosa di più... René non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi. Poi ecco la guerra, che cambia tutto. Ecco che Settebello scopre la Resistenza. Possibile che una rivoluzione di questo tipo possa partire addirittura dalla suola delle scarpe?
      Villa del seminario evoca fatti realmente accaduti: Grosseto fu l’unica diocesi in Europa ad aver stipulato un regolare contratto d’affitto con un gerarca fascista per la realizzazione di un campo d’internamento. A Roccatederighi, tra il ’43 e il ’44, nel seminario del vescovo furono rinchiusi un centinaio di ebrei italiani e stranieri destinati ai lager di sterminio. Soprattutto Auschwitz.

      Maremma toscana, novembre ’43. Le Case è un borgo lontano da tutto. Vista da lì, anche la guerra ha un sapore diverso; perlopiù attesa, preghiere, povertà. Inoltre si preannuncia un inverno feroce... Dopo la diramazione della circolare che ordina l’arresto degli ebrei, ecco la notizia: il seminario estivo del vescovo è diventato un campo di concentramento.

      René è il ciabattino del paese. Tutti lo chiamano Settebello, nomignolo che si è tirato addosso in tenera età, dopo aver lasciato tre dita sul tornio. Oggi ha cinquant’anni. Schivo, solitario, taciturno. Niente famiglia. Ma c’è Anna, l’amica di sempre, che forse avrebbe potuto essere qualcosa di più... René non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi. In realtà, non ha mai avuto il coraggio di fare niente. Le sue giornate sono sempre uguali: casa e lavoro. Rigare dritto.

      Anna ha un figlio, Edoardo, tutti lo credono al fronte. Un giorno viene catturato dalla Wehrmacht con un manipolo di partigiani e fucilato sul posto. La donna è fuori di sé dal dolore, adesso ha un solo scopo: continuare la rivoluzione. Infatti una sera sparisce. Lascia a René un biglietto, poche istruzioni. Ma ben presto trapela l’ennesima voce: un altro gruppo di ribelli è caduto in un’imboscata. Li hanno rinchiusi là, nella villa del vescovo. Tra i prigionieri pare che ci sia perfino una donna... Settebello non può più restare a guardare.

      https://www.edizionieo.it/book/9788833576053/villa-del-seminario
      #Sacha_Naspini

  • Le #village_sous_la_forêt, de #Heidi_GRUNEBAUM et #Mark_KAPLAN

    En #1948, #Lubya a été violemment détruit et vidé de ses habitants par les forces militaires israéliennes. 343 villages palestiniens ont subi le même sort. Aujourd’hui, de #Lubya, il ne reste plus que des vestiges, à peine visibles, recouverts d’une #forêt majestueuse nommée « Afrique du Sud ». Les vestiges ne restent pas silencieux pour autant.

    La chercheuse juive sud-africaine, #Heidi_Grunebaum se souvient qu’étant enfant elle versait de l’argent destiné officiellement à planter des arbres pour « reverdir le désert ».

    Elle interroge les acteurs et les victimes de cette tragédie, et révèle une politique d’effacement délibérée du #Fonds_national_Juif.

    « Le Fonds National Juif a planté 86 parcs et forêts de pins par-dessus les décombres des villages détruits. Beaucoup de ces forêts portent le nom des pays, ou des personnalités célèbres qui les ont financés. Ainsi il y a par exemple la Forêt Suisse, le Parc Canada, le Parc britannique, la Forêt d’Afrique du Sud et la Forêt Correta King ».

    https://www.villageunderforest.com

    Trailer :

    https://www.youtube.com/watch?v=ISmj31rJkGQ

    #israel #palestine #carte #Israël #afrique_du_sud #forêt #documentaire

    #film #documentaire #film_documentaire

    (copier-coller de ce post de 2014 : https://seenthis.net/messages/317236)

    • Documentary Space, Place, and Landscape

      In documentaries of the occupied West Bank, erasure is imaged in the wall that sunders families and communities, in the spaces filled with blackened tree stumps of former olive groves, now missing to ensure “security,” and in the cactus that still grows, demarcating cultivated land whose owners have been expelled.

      This materiality of the landscape becomes figural, such that Shehadeh writes, “[w]hen you are exiled from your land … you begin, like a pornographer, to think about it in symbols. You articulate your love for your land in its absence, and in the process transform it into something else.’’[x] The symbolization reifies and, in this process, something is lost, namely, a potential for thinking differently. But in these Palestinian films we encounter a documenting of the now of everyday living that unfixes such reification. This is a storytelling of vignettes, moments, digressions, stories within stories, and postponed endings. These are stories of interaction, of something happening, in a documenting of a being and doing now, while awaiting a future yet to be known, and at the same time asserting a past history to be remembered through these images and sounds. Through this there arises the accenting of these films, to draw on Hamid Naficy’s term, namely a specific tone of a past—the Nakba or catastrophe—as a continuing present, insofar as the conflict does not allow Palestinians to imagine themselves in a determinate future of place and landscape they can call their own, namely a state.[xi]

      In Hanna Musleh’s I’m a Little Angel (2000), we follow the children of families, both Muslim and Christian, in the area of Bethlehem affected by the 2000 Israeli armed forces attacks and occupation.[xii] One small boy, Nicola, suffered the loss of an arm when he was hit by a shell when walking to church with his mother. His kite, seen flying high in the sky, brings delighted shrieks from Nicola as he plays on the family terrace from which the town and its surrounding hills are visible in the distance. But the contrast between the freedom of the kite in this unlimited vista and his reduced capacity is palpable as he struggles to control it with his remaining hand. The containment of both Nicola and his community is figured in opposition to a possible freedom. What is also required of us is to think not of freedom from the constraints of disability, but of freedom with disability, in a future to be made after. The constraints introduced upon the landscape by the occupation, however, make the future of such living indeterminate and uncertain. Here is the “cinema of the lived,”[xiii] of multiple times of past and present, of possible and imagined future time, and the actualized present, each of which is encountered in the movement in a singular space of Nicola and his kite.


      http://mediafieldsjournal.squarespace.com/documentary-space-place-and-la/2011/7/18/documentary-space-place-and-landscape.html;jsessioni
      #cactus #paysage

    • Memory of the Cactus

      A 42 minute documentary film that combines the cactus and the memories it stands for. The film addresses the story of the destruction of the Palestinian villages of Latroun in the Occupied West Bank and the forcible transfer of their civilian population in 1967. Over 40 years later, the Israeli occupation continues, and villagers remain displaced. The film follows two separate but parallel journeys. Aisha Um Najeh takes us down the painful road that Palestinians have been forcefully pushed down, separating them in time and place from the land they nurtured; while Israelis walk freely through that land, enjoying its fruits. The stems of the cactus, however, take a few of them to discover the reality of the crime committed.

      https://www.youtube.com/watch?v=DQ_LjknRHVA

    • Aujourd’hui, j’ai re-regardé le film « Le village sous la forêt », car je vais le projeter à mes étudiant·es dans le cadre du cours de #géographie_culturelle la semaine prochaine.

      Voici donc quelques citations tirées du film :

      Sur une des boîtes de récolte d’argent pour planter des arbres en Palestine, c’est noté « make wilderness bloom » :

      Voici les panneaux de quelques parcs et forêts créés grâce aux fonds de la #diaspora_juive :

      Projet : « We will make it green, like a modern European country » (ce qui est en étroit lien avec un certaine idée de #développement, liée au #progrès).

      Témoignage d’une femme palestinienne :

      « Ils ont planté des arbres partout qui cachaient tout »

      Ilan Pappé, historien israëlien, Université d’Exter :

      « ça leur a pris entre 6 et 9 mois poru s’emparer de 80% de la Palestine, expulser la plupart des personnes qui y vivaient et reconstruire sur les villes et villages de ces personnes un nouvel Etat, une nouvelle #identité »

      https://socialsciences.exeter.ac.uk/iais/staff/pappe

      Témoignage d’un palestinien qui continue à retourner régulièrement à Lubya :

      « Si je n’aimais pas cet endroit, est-ce que je continuerais à revenir ici tout le temps sur mon tracteur ? Ils l’ont transformé en forêt afin d’affirmer qu’il n’y a pas eu de village ici. Mais on peut voir les #cactus qui prouvent que des arabes vivaient ici »

      Ilan Pappé :

      « Ces villages éaient arabes, tout comme le paysage alentour. C’était un message qui ne passait pas auprès du mouvement sioniste. Des personnes du mouvement ont écrit à ce propos, ils ont dit qu’ils n’aimaient vraiment pas, comme Ben Gurion l’a dit, que le pays ait toujours l’air arabe. (...) Même si les Arabes n’y vivent plus, ça a toujours l’air arabe. En ce qui concerne les zones rurales, il a été clair : les villages devaient être dévastés pour qu’il n’y ait pas de #souvenirs possibles. Ils ont commencé à les dévaster dès le mois d’août 1948. Ils ont rasé les maisons, la terre. Plus rien ne restait. Il y avait deux moyens pour eux d’en nier l’existence : le premier était de planter des forêts de pins européens sur les villages. Dans la plupart des cas, lorsque les villages étaient étendus et les terres assez vastes, on voit que les deux stratégies ont été mises en oeuvre : il y a un nouveau quartier juif et, juste à côté, une forêt. En effet, la deuxième méthode était de créer un quartier juif qui possédait presque le même nom que l’ancien village arabe, mais dans sa version en hébreu. L’objectif était double : il s’agissait d’abord de montrer que le lieu était originellement juif et revenait ainsi à son propriétaire. Ensuite, l’idée était de faire passer un message sinistre aux Palestiniens sur ce qui avait eu lieu ici. Le principal acteur de cette politique a été le FNJ. »

      #toponymie

      Heidi Grunebaum, la réalisatrice :

      « J’ai grandi au moment où le FNJ cultivait l’idée de créer une patrie juive grâce à la plantation d’arbres. Dans les 100 dernières années, 260 millions d’arbres ont été plantés. Je me rends compte à présent que la petite carte du grand Israël sur les boîtes bleues n’était pas juste un symbole. Etait ainsi affirmé que toutes ces terres étaient juives. Les #cartes ont été redessinées. Les noms arabes des lieux ont sombré dans l’oubli à cause du #Comité_de_Dénomination créé par le FNJ. 86 forêts du FNJ ont détruit des villages. Des villages comme Lubya ont cessé d’exister. Lubya est devenu Lavie. Une nouvelle histoire a été écrite, celle que j’ai apprise. »

      Le #Canada_park :

      Canada Park (Hebrew: פארק קנדה‎, Arabic: كندا حديقة‎, also Ayalon Park,) is an Israeli national park stretching over 7,000 dunams (700 hectares), and extending from No man’s land into the West Bank.
      The park is North of Highway 1 (Tel Aviv-Jerusalem), between the Latrun Interchange and Sha’ar HaGai, and contains a Hasmonean fort, Crusader fort, other archaeological remains and the ruins of 3 Palestinian villages razed by Israel in 1967 after their inhabitants were expelled. In addition it has picnic areas, springs and panoramic hilltop views, and is a popular Israeli tourist destination, drawing some 300,000 visitors annually.


      https://en.wikipedia.org/wiki/Canada_Park

      Heidi Grunebaum :

      « Chaque pièce de monnaie est devenue un arbre dans une forêt, chaque arbre, dont les racines étaient plantées dans la terre était pour nous, la diaspora. Les pièces changées en arbres devenaient des faits ancrés dans le sol. Le nouveau paysage arrangé par le FNJ à travers la plantation de forêts et les accords politiques est celui des #parcs_de_loisirs, des routes, des barrages et des infrastructures »

      Témoignage d’un Palestinien :

      « Celui qui ne possède de #pays_natal ne possède rien »

      Heidi Grunebaum :

      « Si personne ne demeure, la mémoire est oblitérée. Cependant, de génération en génération, le souvenir qu’ont les Palestiniens d’un endroit qui un jour fut le leur, persiste. »

      Témoignage d’un Palestinien :

      "Dès qu’on mange quelque chose chez nous, on dit qu’on mangeait ce plat à Lubya. Quelles que soient nos activités, on dit que nous avions les mêmes à Lubya. Lubya est constamment mentionnées, et avec un peu d’amertume.

      Témoignage d’un Palestinien :

      Lubya est ma fille précieuse que j’abriterai toujours dans les profondeurs de mon âme. Par les histoires racontées par mon père, mon grand-père, mes oncles et ma grande-mère, j’ai le sentiment de connaître très bien Lubya.

      Avi Shlaim, Université de Oxford :

      « Le mur dans la partie Ouest ne relève pas d’une mesure de sécurité, comme il a été dit. C’est un outil de #ségrégation des deux communautés et un moyen de s’approprier de larges portions de terres palestiniennes. C’est un moyen de poursuivre la politique d’#expansion_territoriale et d’avoir le plus grand Etat juif possible avec le moins de population d’arabes à l’intérieur. »

      https://www.sant.ox.ac.uk/people/avi-shlaim

      Heidi Grunebaum :

      « Les petites pièces de la diaspora n’ont pas seulement planté des arbres juifs et déraciné des arbres palestiniens, elles ont aussi créé une forêt d’un autre type. Une vaste forêt bureaucratique où la force de la loi est une arme. La règlementation règne, les procédures, permis, actions commandées par les lois, tout régulé le moindre espace de la vie quotidienne des Palestiniens qui sont petit à petit étouffés, repoussés aux marges de leurs terres. Entassés dans des ghettos, sans autorisation de construire, les Palestiniens n’ont plus qu’à regarder leurs maisons démolies »

      #Lubya #paysage #ruines #architecture_forensique #Afrique_du_Sud #profanation #cactus #South_african_forest #Galilée #Jewish_national_fund (#fonds_national_juif) #arbres #Palestine #Organisation_des_femmes_sionistes #Keren_Kayemeth #apartheid #résistance #occupation #Armée_de_libération_arabe #Hagana #nakba #exil #réfugiés_palestiniens #expulsion #identité #present_absentees #IDPs #déplacés_internes #Caesarea #oubli #déni #historicisation #diaspora #murs #barrières_frontalières #dépossession #privatisation_des_terres #terres #mémoire #commémoration #poésie #Canada_park

    • The Carmel wildfire is burning all illusions in Israel

      “When I look out my window today and see a tree standing there, that tree gives me a greater sense of beauty and personal delight than all the vast forests I have seen in Switzerland or Scandinavia. Because every tree here was planted by us.”

      – David Ben Gurion, Memoirs

      “Why are there so many Arabs here? Why didn’t you chase them away?”

      – David Ben Gurion during a visit to Nazareth, July 1948


      https://electronicintifada.net/content/carmel-wildfire-burning-all-illusions-israel/9130

      signalé par @sinehebdo que je remercie

    • Vu dans ce rapport, signalé par @palestine___________ , que je remercie (https://seenthis.net/messages/723321) :

      A method of enforcing the eradication of unrecognized Palestinian villages is to ensure their misrepresentation on maps. As part of this policy, these villages do not appear at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. Likewise, they do not appear on first sight on Google Maps or at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. They are labelled on NGO maps designed to increase their visibility. On Google Maps, the Bedouin villages are marked – in contrast to cities and other villages – under their Bedouin tribe and clan names (Bimkom) rather than with their village names and are only visible when zooming in very closely, but otherwise appear to be non-existent. This means that when looking at Google Maps, these villages appear to be not there, only when zooming on to a very high degree, do they appear with their tribe or clan names. At first (and second and third) sight, therefore, these villages are simply not there. Despite their small size, Israeli villages are displayed even when zoomed-out, while unrecognized Palestinian Bedouin villages, regardless of their size are only visible when zooming in very closely.


      http://7amleh.org/2018/09/18/google-maps-endangering-palestinian-human-rights
      Pour télécharger le rapport :
      http://www.7amleh.org/ms/Mapping%20Segregation%20Cover_WEB.pdf

    • signalé par @kassem :
      https://seenthis.net/messages/317236#message784258

      Israel lifted its military rule over the state’s Arab community in 1966 only after ascertaining that its members could not return to the villages they had fled or been expelled from, according to newly declassified archival documents.

      The documents both reveal the considerations behind the creation of the military government 18 years earlier, and the reasons for dismantling it and revoking the severe restrictions it imposed on Arab citizens in the north, the Negev and the so-called Triangle of Locales in central Israel.

      These records were made public as a result of a campaign launched against the state archives by the Akevot Institute, which researches the Israeli-Palestinian conflict.

      After the War of Independence in 1948, the state imposed military rule over Arabs living around the country, which applied to an estimated 85 percent of that community at the time, say researchers at the NGO. The Arabs in question were subject to the authority of a military commander who could limit their freedom of movement, declare areas to be closed zones, or demand that the inhabitants leave and enter certain locales only with his written permission.

      The newly revealed documents describe the ways Israel prevented Arabs from returning to villages they had left in 1948, even after the restrictions on them had been lifted. The main method: dense planting of trees within and surrounding these towns.

      At a meeting held in November 1965 at the office of Shmuel Toledano, the prime minister’s adviser on Arab affairs, there was a discussion about villages that had been left behind and that Israel did not want to be repopulated, according to one document. To ensure that, the state had the Jewish National Fund plant trees around and in them.

      Among other things, the document states that “the lands belonging to the above-mentioned villages were given to the custodian for absentee properties” and that “most were leased for work (cultivation of field crops and olive groves) by Jewish households.” Some of the properties, it adds, were subleased.

      In the meeting in Toledano’s office, it was explained that these lands had been declared closed military zones, and that once the structures on them had been razed, and the land had been parceled out, forested and subject to proper supervision – their definition as closed military zones could be lifted.

      On April 3, 1966, another discussion was held on the same subject, this time at the office of the defense minister, Levi Eshkol, who was also the serving prime minister; the minutes of this meeting were classified as top secret. Its participants included: Toledano; Isser Harel, in his capacity as special adviser to the prime minister; the military advocate general – Meir Shamgar, who would later become president of the Supreme Court; and representatives of the Shin Bet security service and Israel Police.

      The newly publicized record of that meeting shows that the Shin Bet was already prepared at that point to lift the military rule over the Arabs and that the police and army could do so within a short time.

      Regarding northern Israel, it was agreed that “all the areas declared at the time to be closed [military] zones... other than Sha’ab [east of Acre] would be opened after the usual conditions were fulfilled – razing of the buildings in the abandoned villages, forestation, establishment of nature reserves, fencing and guarding.” The dates of the reopening these areas would be determined by Israel Defense Forces Maj. Gen. Shamir, the minutes said. Regarding Sha’ab, Harel and Toledano were to discuss that subject with Shamir.

      However, as to Arab locales in central Israel and the Negev, it was agreed that the closed military zones would remain in effect for the time being, with a few exceptions.

      Even after military rule was lifted, some top IDF officers, including Chief of Staff Tzvi Tzur and Shamgar, opposed the move. In March 1963, Shamgar, then military advocate general, wrote a pamphlet about the legal basis of the military administration; only 30 copies were printed. (He signed it using his previous, un-Hebraized name, Sternberg.) Its purpose was to explain why Israel was imposing its military might over hundreds of thousands of citizens.

      Among other things, Shamgar wrote in the pamphlet that Regulation 125, allowing certain areas to be closed off, is intended “to prevent the entry and settlement of minorities in border areas,” and that “border areas populated by minorities serve as a natural, convenient point of departure for hostile elements beyond the border.” The fact that citizens must have permits in order to travel about helps to thwart infiltration into the rest of Israel, he wrote.

      Regulation 124, he noted, states that “it is essential to enable nighttime ambushes in populated areas when necessary, against infiltrators.” Blockage of roads to traffic is explained as being crucial for the purposes of “training, tests or maneuvers.” Moreover, censorship is a “crucial means for counter-intelligence.”

      Despite Shamgar’s opinion, later that year, Prime Minister Levi Eshkol canceled the requirement for personal travel permits as a general obligation. Two weeks after that decision, in November 1963, Chief of Staff Tzur wrote a top-secret letter about implementation of the new policy to the officers heading the various IDF commands and other top brass, including the head of Military Intelligence. Tzur ordered them to carry it out in nearly all Arab villages, with a few exceptions – among them Barta’a and Muqeible, in northern Israel.

      In December 1965, Haim Israeli, an adviser to Defense Minister Eshkol, reported to Eshkol’s other aides, Isser Harel and Aviad Yaffeh, and to the head of the Shin Bet, that then-Chief of Staff Yitzhak Rabin opposed legislation that would cancel military rule over the Arab villages. Rabin explained his position in a discussion with Eshkol, at which an effort to “soften” the bill was discussed. Rabin was advised that Harel would be making his own recommendations on this matter.

      At a meeting held on February 27, 1966, Harel issued orders to the IDF, the Shin Bet and the police concerning the prime minister’s decision to cancel military rule. The minutes of the discussion were top secret, and began with: “The mechanism of the military regime will be canceled. The IDF will ensure the necessary conditions for establishment of military rule during times of national emergency and war.” However, it was decided that the regulations governing Israel’s defense in general would remain in force, and at the behest of the prime minister and with his input, the justice minister would look into amending the relevant statutes in Israeli law, or replacing them.

      The historical documents cited here have only made public after a two-year campaign by the Akevot institute against the national archives, which preferred that they remain confidential, Akevot director Lior Yavne told Haaretz. The documents contain no information of a sensitive nature vis-a-vis Israel’s security, Yavne added, and even though they are now in the public domain, the archives has yet to upload them to its website to enable widespread access.

      “Hundreds of thousands of files which are crucial to understanding the recent history of the state and society in Israel remain closed in the government archive,” he said. “Akevot continues to fight to expand public access to archival documents – documents that are property of the public.”

    • Israel is turning an ancient Palestinian village into a national park for settlers

      The unbelievable story of a village outside Jerusalem: from its destruction in 1948 to the ticket issued last week by a parks ranger to a descendent of its refugees, who had the gall to harvest the fruits of his labor on his own land.

      Thus read the ticket issued last Wednesday, during the Sukkot holiday, by ranger Dayan Somekh of the Israel Nature and Parks Authority – Investigations Division, 3 Am Ve’olamo Street, Jerusalem, to farmer Nidal Abed Rabo, a resident of the Jerusalem-area village of Walaja, who had gone to harvest olives on his private land: “In accordance with Section 228 of the criminal code, to: Nidal Abed Rabo. Description of the facts constituting the offense: ‘picking, chopping and destroying an olive tree.’ Suspect’s response: ‘I just came to pick olives. I pick them and put them in a bucket.’ Fine prescribed by law: 730 shekels [$207].” And an accompanying document that reads: “I hereby confirm that I apprehended from Nidal Abed Rabo the following things: 1. A black bucket; 2. A burlap sack. Name of the apprehending officer: Dayan Somekh.”

      Ostensibly, an amusing parody about the occupation. An inspector fines a person for harvesting the fruits of his own labor on his own private land and then fills out a report about confiscating a bucket, because order must be preserved, after all. But no one actually found this report amusing – not the inspector who apparently wrote it in utter seriousness, nor the farmer who must now pay the fine.

      Indeed, the story of Walaja, where this absurdity took place, contains everything – except humor: the flight from and evacuation of the village in 1948; refugee-hood and the establishment of a new village adjacent to the original one; the bisection of the village between annexed Jerusalem and the occupied territories in 1967; the authorities’ refusal to issue blue Israeli IDs to residents, even though their homes are in Jerusalem; the demolition of many structures built without a permit in a locale that has no master construction plan; the appropriation of much of its land to build the Gilo neighborhood and the Har Gilo settlement; the construction of the separation barrier that turned the village into an enclave enclosed on all sides; the decision to turn villagers’ remaining lands into a national park for the benefit of Gilo’s residents and others in the area; and all the way to the ridiculous fine issued by Inspector Somekh.

      This week, a number of villagers again snuck onto their lands to try to pick their olives, in what looks like it could be their final harvest. As it was a holiday, they hoped the Border Police and the parks authority inspectors would leave them alone. By next year, they probably won’t be able to reach their groves at all, as the checkpoint will have been moved even closer to their property.

      Then there was also this incident, on Monday, the Jewish holiday of Simhat Torah. Three adults, a teenager and a horse arrived at the neglected groves on the mountainside below their village of Walaja. They had to take a long and circuitous route; they say the horse walked 25 kilometers to reach the olive trees that are right under their noses, beneath their homes. A dense barbed-wire fence and the separation barrier stand between these people and their lands. When the national park is built here and the checkpoint is moved further south – so that only Jews will be able to dip undisturbed in Ein Hanya, as Nir Hasson reported (“Jerusalem reopens natural spring, but not to Palestinians,” Oct. 15) – it will mean the end of Walaja’s olive orchards, which are planted on terraced land.

      The remaining 1,200 dunams (300 acres) belonging to the village, after most of its property was lost over the years, will also be disconnected from their owners, who probably won’t be able to access them again. An ancient Palestinian village, which numbered 100 registered households in 1596, in a spectacular part of the country, will continue its slow death, until it finally expires for good.

      Steep slopes and a deep green valley lie between Jerusalem and Bethlehem, filled with oak and pine trees, along with largely abandoned olive groves. “New” Walaja overlooks this expanse from the south, the Gilo neighborhood from the northeast, and the Cremisan Monastery from the east. To the west is where the original village was situated, between the moshavim of Aminadav and Ora, both constructed after the villagers fled – frightened off by the massacre in nearby Deir Yassin and in fear of bombardment.

      Aviv Tatarsky, a longtime political activist on behalf of Walaja and a researcher for the Ir Amim nonprofit organization, says the designated national park is supposed to ensure territorial contiguity between the Etzion Bloc and Jerusalem. “Since we are in the territory of Jerusalem, and building another settler neighborhood could cause a stir, they are building a national park, which will serve the same purpose,” he says. “The national park will Judaize the area once and for all. Gilo is five minutes away. If you live there, you will have a park right next door and feel like it’s yours.”

      As Tatarsky describes the blows suffered by the village over the years, brothers Walid and Mohammed al-‘Araj stand on a ladder below in the valley, in the shade of the olive trees, engrossed in the harvest.

      Walid, 52, and Mohammed, 58, both live in Walaja. Walid may be there legally, but his brother is there illegally, on land bequeathed to them by their uncle – thanks to yet another absurdity courtesy of the occupation. In 1995, Walid married a woman from Shoafat in East Jerusalem, and thus was able to obtain a blue Israeli ID card, so perhaps he is entitled to be on his land. His brother, who lives next door, however, is an illegal resident on his land: He has an orange ID, as a resident of the territories.

      A sewage line that comes out of Beit Jala and is under the responsibility of Jerusalem’s Gihon water company overflows every winter and floods the men’s olive grove with industrial waste that has seriously damaged their crop. And that’s in addition, of course, to the fact that most of the family is unable to go work the land. The whole area looks quite derelict, overgrown with weeds and brambles that could easily catch fire. In previous years, the farmers would receive an entry permit allowing them to harvest the olives for a period of just a few days; this year, even that permit has not yet been forthcoming.

      The olives are black and small; it’s been a bad year for them and for their owners.

      “We come here like thieves to our own land,” says Mohammed, the older brother, explaining that three days beforehand, a Border Police jeep had showed up and chased them away. “I told him: It’s my land. They said okay and left. Then a few minutes later, another Border Police jeep came and the officer said: Today there’s a general closure because of the holiday. I told him: Okay, just let me take my equipment. I’m on my land. He said: Don’t take anything. I left. And today I came back.”

      You’re not afraid? “No, I’m not afraid. I’m on my land. It’s registered in my name. I can’t be afraid on my land.”

      Walid says that a month ago the Border Police arrived and told him he wasn’t allowed to drive on the road that leads to the grove, because it’s a “security road.” He was forced to turn around and go home, despite the fact that he has a blue ID and it is not a security road. Right next to it, there is a residential building where a Palestinian family still lives.

      Some of Walaja’s residents gave up on their olive orchards long ago and no longer attempt to reach their lands. When the checkpoint is moved southward, in order to block access by Palestinians to the Ein Hanya spring, the situation will be even worse: The checkpoint will be closer to the orchards, meaning that the Palestinians won’t be permitted to visit them.

      “This place will be a park for people to visit,” says Walid, up on his ladder. “That’s it; that will be the end of our land. But we won’t give up our land, no matter what.” Earlier this month, one local farmer was detained for several hours and 10 olive trees were uprooted, on the grounds that he was prohibited from being here.

      Meanwhile, Walid and Mohammed are collecting their meager crop in a plastic bucket printed with a Hebrew ad for a paint company. The olives from this area, near Beit Jala, are highly prized; during a good year the oil made from them can fetch a price of 100 shekels per liter.

      A few hundred meters to the east are a father, a son and a horse. Khaled al-‘Araj, 51, and his son, Abed, 19, a business student. They too are taking advantage of the Jewish holiday to sneak onto their land. They have another horse, an original Arabian named Fatma, but this horse is nameless. It stands in the shade of the olive tree, resting from the long trek here. If a Border Police force shows up, it could confiscate the horse, as has happened to them before.

      Father and son are both Walaja residents, but do not have blue IDs. The father works in Jerusalem with a permit, but it does not allow him to access his land.

      “On Sunday,” says Khaled, “I picked olives here with my son. A Border Police officer arrived and asked: What are you doing here? He took pictures of our IDs. He asked: Whose land is this? I said: Mine. Where are the papers? At home. I have papers from my grandfather’s time; everything is in order. But he said: No, go to DCO [the Israeli District Coordination Office] and get a permit. At first I didn’t know what he meant. I have a son and a horse and they’ll make problems for me. So I left.”

      He continues: “We used to plow the land. Now look at the state it’s in. We have apricot and almond trees here, too. But I’m an illegal person on my own land. That is our situation. Today is the last day of your holiday, that’s why I came here. Maybe there won’t be any Border Police.”

      “Kumi Ori, ki ba orekh,” says a makeshift monument in memory of Ori Ansbacher, a young woman murdered here in February by a man from Hebron. Qasem Abed Rabo, a brother of Nidal, who received the fine from the park ranger for harvesting his olives, asks activist Tatarsky if he can find out whether the house he owns is considered to be located in Jerusalem or in the territories. He still doesn’t know.

      “Welcome to Nahal Refaim National Park,” says a sign next to the current Walaja checkpoint. Its successor is already being built but work on it was stopped for unknown reasons. If and when it is completed, Ein Hanya will become a spring for Jews only and the groves on the mountainside below the village of Walaja will be cut off from their owners for good. Making this year’s harvest Walaja’s last.

      https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-israel-is-turning-an-ancient-palestinian-village-into-a-national-p
      https://seenthis.net/messages/807722

    • Sans mémoire des lieux ni lieux de mémoire. La Palestine invisible sous les forêts israéliennes

      Depuis la création de l’État d’Israël en 1948, près de 240 millions d’arbres ont été plantés sur l’ensemble du territoire israélien. Dans l’objectif de « faire fleurir le désert », les acteurs de l’afforestation en Israël se situent au cœur de nombreux enjeux du territoire, non seulement environnementaux mais également identitaires et culturels. La forêt en Israël représente en effet un espace de concurrence mémorielle, incarnant à la fois l’enracinement de l’identité israélienne mais également le rappel de l’exil et de l’impossible retour du peuple palestinien. Tandis que 86 villages palestiniens détruits en 1948 sont aujourd’hui recouverts par une forêt, les circuits touristiques et historiques officiels proposés dans les forêts israéliennes ne font jamais mention de cette présence palestinienne passée. Comment l’afforestation en Israël a-t-elle contribué à l’effacement du paysage et de la mémoire palestiniens ? Quelles initiatives existent en Israël et en Palestine pour lutter contre cet effacement spatial et mémoriel ?

      https://journals.openedition.org/bagf/6779

    • Septembre 2021, un feu de forêt ravage Jérusalem et dévoile les terrassements agricoles que les Palestinien·nes avaient construit...
      Voici une image :

      « La nature a parlé » : un feu de forêt attise les rêves de retour des Palestiniens

      Un gigantesque incendie près de Jérusalem a détruit les #pins_européens plantés par les sionistes, exposant ainsi les anciennes terrasses palestiniennes qu’ils avaient tenté de dissimuler.

      Au cours de la deuxième semaine d’août, quelque 20 000 dounams (m²) de terre ont été engloutis par les flammes dans les #montagnes de Jérusalem.

      C’est une véritable catastrophe naturelle. Cependant, personne n’aurait pu s’attendre à la vision qui est apparue après l’extinction de ces incendies. Ou plutôt, personne n’avait imaginé que les incendies dévoileraient ce qui allait suivre.

      Une fois les flammes éteintes, le #paysage était terrible pour l’œil humain en général, et pour l’œil palestinien en particulier. Car les incendies ont révélé les #vestiges d’anciens villages et terrasses agricoles palestiniens ; des terrasses construites par leurs ancêtres, décédés il y a longtemps, pour cultiver la terre et planter des oliviers et des vignes sur les #pentes des montagnes.

      À travers ces montagnes, qui constituent l’environnement naturel à l’ouest de Jérusalem, passait la route Jaffa-Jérusalem, qui reliait le port historique à la ville sainte. Cette route ondulant à travers les montagnes était utilisée par les pèlerins d’Europe et d’Afrique du Nord pour visiter les lieux saints chrétiens. Ils n’avaient d’autre choix que d’emprunter la route Jaffa-Jérusalem, à travers les vallées et les ravins, jusqu’au sommet des montagnes. Au fil des siècles, elle sera foulée par des centaines de milliers de pèlerins, de soldats, d’envahisseurs et de touristes.

      Les terrasses agricoles – ou #plates-formes – que les agriculteurs palestiniens ont construites ont un avantage : leur durabilité. Selon les estimations des archéologues, elles auraient jusqu’à 600 ans. Je crois pour ma part qu’elles sont encore plus vieilles que cela.

      Travailler en harmonie avec la nature

      Le travail acharné du fermier palestinien est clairement visible à la surface de la terre. De nombreuses études ont prouvé que les agriculteurs palestiniens avaient toujours investi dans la terre quelle que soit sa forme ; y compris les terres montagneuses, très difficiles à cultiver.

      Des photographies prises avant la Nakba (« catastrophe ») de 1948, lorsque les Palestiniens ont été expulsés par les milices juives, et même pendant la seconde moitié du XIXe siècle montrent que les oliviers et les vignes étaient les deux types de plantation les plus courants dans ces régions.

      Ces végétaux maintiennent l’humidité du sol et assurent la subsistance des populations locales. Les #oliviers, en particulier, aident à prévenir l’érosion des sols. Les oliviers et les #vignes peuvent également créer une barrière naturelle contre le feu car ils constituent une végétation feuillue qui retient l’humidité et est peu gourmande en eau. Dans le sud de la France, certaines routes forestières sont bordées de vignes pour faire office de #coupe-feu.

      Les agriculteurs palestiniens qui les ont plantés savaient travailler en harmonie avec la nature, la traiter avec sensibilité et respect. Cette relation s’était formée au cours des siècles.

      Or qu’a fait l’occupation sioniste ? Après la Nakba et l’expulsion forcée d’une grande partie de la population – notamment le nettoyage ethnique de chaque village et ville se trouvant sur l’itinéraire de la route Jaffa-Jérusalem –, les sionistes ont commencé à planter des #pins_européens particulièrement inflammables sur de vastes portions de ces montagnes pour couvrir et effacer ce que les mains des agriculteurs palestiniens avaient créé.

      Dans la région montagneuse de Jérusalem, en particulier, tout ce qui est palestinien – riche de 10 000 ans d’histoire – a été effacé au profit de tout ce qui évoque le #sionisme et la #judéité du lieu. Conformément à la mentalité coloniale européenne, le « milieu » européen a été transféré en Palestine, afin que les colons puissent se souvenir de ce qu’ils avaient laissé derrière eux.

      Le processus de dissimulation visait à nier l’existence des villages palestiniens. Et le processus d’effacement de leurs particularités visait à éliminer leur existence de l’histoire.

      Il convient de noter que les habitants des villages qui ont façonné la vie humaine dans les montagnes de Jérusalem, et qui ont été expulsés par l’armée israélienne, vivent désormais dans des camps et communautés proches de Jérusalem, comme les camps de réfugiés de Qalandiya et Shuafat.

      On trouve de telles forêts de pins ailleurs encore, dissimulant des villages et fermes palestiniens détruits par Israël en 1948. Des institutions internationales israéliennes et sionistes ont également planté des pins européens sur les terres des villages de #Maaloul, près de Nazareth, #Sohmata, près de la frontière palestino-libanaise, #Faridiya, #Kafr_Anan et #al-Samoui sur la route Akka-Safad, entre autres. Ils sont maintenant cachés et ne peuvent être vus à l’œil nu.

      Une importance considérable

      Même les #noms des villages n’ont pas été épargnés. Par exemple, le village de Suba est devenu « #Tsuba », tandis que #Beit_Mahsir est devenu « #Beit_Meir », #Kasla est devenu « #Ksalon », #Saris est devenu « #Shoresh », etc.

      Si les Palestiniens n’ont pas encore pu résoudre leur conflit avec l’occupant, la nature, elle, s’est désormais exprimée de la manière qu’elle jugeait opportune. Les incendies ont révélé un aspect flagrant des composantes bien planifiées et exécutées du projet sioniste.

      Pour les Palestiniens, la découverte de ces terrasses confirme leur version des faits : il y avait de la vie sur cette terre, le Palestinien était le plus actif dans cette vie, et l’Israélien l’a expulsé pour prendre sa place.

      Ne serait-ce que pour cette raison, ces terrasses revêtent une importance considérable. Elles affirment que la cause palestinienne n’est pas morte, que la terre attend le retour de ses enfants ; des personnes qui sauront la traiter correctement.

      https://www.middleeasteye.net/fr/opinion-fr/israel-jerusalem-incendies-villages-palestiniens-nakba-sionistes-reto

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      An Israeli Forest to Erase the Ruins of Palestinian Agricultural Terraces

      “Our forest is growing over, well, over a ruined village,” A.B. Yehoshua wrote in his novella “Facing the Forests.” The massive wildfire in the Jerusalem Hills last week exposed the underpinning of the view through the trees. The agricultural terraces were revealed in their full glory, and also revealed a historic record that Israel has always sought to obscure and erase – traces of Palestinian life on this land.

      On my trips to the West Bank and the occupied territories, when I passed by the expansive areas of Palestinian farmland, I was always awed by the sight of the long chain of terraces, mustabat or mudrajat in Arabic. I thrilled at their grandeur and the precision of the work that attests to the connection between the Palestinian fellah and his land. I would wonder – Why doesn’t the same “phenomenon” exist in the hills of the Galilee?

      When I grew up, I learned a little in school about Israeli history. I didn’t learn that Israel erased Palestinian agriculture in the Galilee and that the Jewish National Fund buried it once and for all, but I did learn that “The Jews brought trees with them” and planted them in the Land of Israel. How sterile and green. Greta Thunberg would be proud of you.

      The Zionist movement knew that in the war for this land it was not enough to conquer the land and expel its inhabitants, you also had to build up a story and an ethos and a narrative, something that will fit with the myth of “a people without a land for a land without a people.” Therefore, after the conquest of the land and the expulsion, all trace of the people who once lived here had to be destroyed. This included trees that grew without human intervention and those that were planted by fellahin, who know this land as they do their children and as they do the terraces they built in the hills.

      This is how white foreigners who never in their lives were fellahin or worked the land for a living came up with the national forestation project on the ruins of Arab villages, which David Ben-Gurion decided to flatten, such as Ma’alul and Suhmata. The forestation project including the importation of cypress and pine trees that were alien to this land and belong to colder climes, so that the new inhabitants would feel more at home and less as if they were in somebody else’s home.

      The planting of combustible cypresses and pines, which are not suited to the weather in this land, is not just an act of national erasure of the Palestinian natives, but also an act of arrogance and patronage, characteristics typical of colonialist movements throughout the world. All because they did not understand the nature, in both senses of the word, of the countries they conquered.

      Forgive me, but a biblical-historical connection is not sufficient. Throughout the history of colonialism, the new settlers – whether they ultimately left or stayed – were unable to impose their imported identity on the new place and to completely erase the place’s native identity. It’s a little like the forests surrounding Jerusalem: When the fire comes and burns them, one small truth is revealed, after so much effort went into concealing it.

      https://www.haaretz.com/opinion/.premium-an-israeli-forest-to-erase-the-ruins-of-palestinian-agricultural-t

      et ici :
      https://seenthis.net/messages/928766

    • Planter un arbre en Israël : une forêt rédemptrice et mémorielle

      Tout au long du projet sioniste, le végétal a joué un rôle de médiateur entre la terre rêvée et la terre foulée, entre le texte biblique et la réalité. Le réinvestissement national s’est opéré à travers des plantes connues depuis la diaspora, réorganisées en scènes signifiantes pour la mémoire et l’histoire juive. Ce lien de filiation entre texte sacré et paysage débouche sur une pratique de plantation considérée comme un acte mystique de régénération du monde.

      https://journals.openedition.org/diasporas/258

  • #José_Vieira : « La #mémoire des résistances face à l’accaparement des terres a été peu transmise »

    Dans « #Territórios_ocupados », José Vieira revient sur l’#expropriation en #1941 des paysans portugais de leurs #terres_communales pour y planter des #forêts. Cet épisode explique les #mégafeux qui ravagent le pays et résonne avec les #luttes pour la défense des #biens_communs.

    Né au Portugal en 1957 et arrivé enfant en France à l’âge de 7 ans, José Vieira réalise depuis plus de trente ans des documentaires qui racontent une histoire populaire de l’immigration portugaise.

    Bien loin du mythe des Portugais·es qui se seraient « intégré·es » sans le moindre problème en France a contrario d’autres populations, José Vieira s’est attaché à démontrer comment l’#immigration_portugaise a été un #exode violent – voir notamment La Photo déchirée (2001) ou Souvenirs d’un futur radieux (2014) –, synonyme d’un impossible retour.

    Dans son nouveau documentaire, Territórios ocupados, diffusé sur Mediapart, José Vieira a posé sa caméra dans les #montagnes du #Caramulo, au centre du #Portugal, afin de déterrer une histoire oubliée de la #mémoire_collective rurale du pays. Celle de l’expropriation en 1941, par l’État salazariste, de milliers de paysans et de paysannes de leurs terres communales – #baldios en portugais.

    Cette #violence étatique a été opérée au nom d’un vaste #projet_industriel : planter des forêts pour développer économiquement ces #territoires_ruraux et, par le même geste, « civiliser » les villageois et villageoises des #montagnes, encore rétifs au #salariat et à l’ordre social réactionnaire de #Salazar. Un épisode qui résonne aujourd’hui avec les politiques libérales des États qui aident les intérêts privés à accaparer les biens communs.

    Mediapart : Comment avez-vous découvert cette histoire oubliée de l’expropriation des terres communales ou « baldios » au Portugal ?

    José Vieira : Complètement par hasard. J’étais en train de filmer Le pain que le diable a pétri (2012, Zeugma Films) sur les habitants des montagnes au Portugal qui sont partis après-guerre travailler dans les usines à Lisbonne.

    Je demandais à un vieux qui est resté au village, António, quelle était la définition d’un baldio – on voit cet extrait dans le documentaire, où il parle d’un lieu où tout le monde peut aller pour récolter du bois, faire pâturer ses bêtes, etc. Puis il me sort soudain : « Sauf que l’État a occupé tous les baldios, c’était juste avant que je parte au service militaire. »

    J’étais estomaqué, je voulais en savoir plus mais impossible, car dans la foulée, il m’a envoyé baladé en râlant : « De toute façon, je ne te supporte pas aujourd’hui. »

    Qu’avez-vous fait alors ?

    J’ai commencé à fouiller sur Internet et j’ai eu la chance de tomber sur une étude parue dans la revue de sociologie portugaise Análise Social, qui raconte comment dans les années 1940 l’État salazariste avait pour projet initial de boiser 500 000 hectares de biens communaux en expropriant les usagers de ces terres.

    Je devais ensuite trouver des éléments d’histoire locale, dans la Serra do Caramulo, dont je suis originaire. J’ai passé un temps fou le nez dans les archives du journal local, qui était bien sûr à l’époque entièrement dévoué au régime.

    Après la publication de l’avis à la population que les baldios seront expropriés au profit de la plantation de forêts, plus aucune mention des communaux n’apparaît dans la presse. Mais rapidement, des correspondants locaux et des éditorialistes vont s’apercevoir qu’il existe dans ce territoire un malaise, qu’Untel abandonne sa ferme faute de pâturage ou que d’autres partent en ville. En somme, que sans les baldios, les gens ne s’en sortent plus.

    Comment sont perçus les communaux par les tenants du salazarisme ?

    Les ingénieurs forestiers décrivent les paysans de ces territoires comme des « primitifs » qu’il faut « civiliser ». Ils se voient comme des missionnaires du progrès et dénoncent l’oisiveté de ces montagnards peu enclins au salariat.

    À Lisbonne, j’ai trouvé aussi une archive qui parle des baldios comme étant une source de perversion, de mœurs légères qui conduisent à des enfants illégitimes dans des coins où « les familles vivent presque sans travailler ». Un crime dans un régime où le travail est élevé au rang de valeur suprême.

    On retrouve tous ces différents motifs dans le fameux Portrait du colonisé d’Albert Memmi (1957). Car il y a de la part du régime un vrai discours de colonisateur vis-à-vis de ces régions montagneuses où l’État et la religion ont encore peu de prise sur les habitants.

    En somme, l’État salazariste veut faire entrer ces Portugais reculés dans la modernité.

    Il y a eu des résistances face à ces expropriations ?

    Les villageois vont être embauchés pour boiser les baldios. Sauf qu’après avoir semé les pins, il faut attendre vingt ans pour que la forêt pousse.

    Il y a eu alors quelques histoires d’arrachage clandestin d’arbres. Et je raconte dans le film comment une incartade avec un garde forestier a failli virer au drame à cause d’une balle perdue – je rappelle qu’on est alors sous la chape de plomb du salazarisme. D’autres habitants ont aussi tabassé deux gardes forestiers à la sortie d’un bar et leur ont piqué leurs flingues.

    Mais la mémoire de ces résistances a peu été transmise. Aujourd’hui, avec l’émigration, il ne reste plus rien de cette mémoire collective, la plupart des vieux et vieilles que j’ai filmés dans ce documentaire sont déjà morts.

    Comment justement avez-vous travaillé pour ce documentaire ?

    Quand António me raconte cette histoire d’expropriation des baldios par l’État, c’était en 2010 et je tournais un documentaire, Souvenirs d’un futur radieux. Puis lorsqu’en 2014 un premier incendie a calciné le paysage forestier, je me suis dit qu’il fallait que je m’y mette.

    J’ai travaillé doucement, pendant trois ans, sans savoir où j’allais réellement. J’ai filmé un village situé à 15 kilomètres de là où je suis né. J’ai fait le choix d’y suivre des gens qui subsistent encore en pratiquant une agriculture traditionnelle, avec des outils de travail séculaires, comme la roue celte. Ils ont les mêmes pratiques que dans les années 1940, et qui sont respectueuses de l’écosystème, de la ressource en eau, de la terre.

    Vous vous êtes aussi attaché à retracer tel un historien cet épisode de boisement à marche forcée...

    Cette utopie industrialiste date du XIXe siècle, des ingénieurs forestiers parlant déjà de vouloir récupérer ces « terres de personne ». Puis sous Salazar, dans les années 1930, il y a eu un débat intense au sein du régime entre agrairistes et industrialistes. Pour les premiers, boiser ne va pas être rentable et les baldios sont vitaux aux paysans. Pour les seconds, le pays a besoin de l’industrie du bois pour décoller économiquement, et il manque de bras dans les villes pour travailler dans les usines.

    Le pouvoir central a alors même créé un organisme étatique, la Junte de colonisation interne, qui va recenser les baldios et proposer d’installer des personnes en leur donnant à cultiver des terres communales – des colonies de repeuplement pour résumer.

    Finalement, l’industrie du bois et de la cellulose l’a emporté. La loi de boisement des baldios est votée en 1938 et c’est en novembre 1941 que ça va commencer à se mettre en place sur le terrain.

    Une enquête publique a été réalisée, où tout le monde localement s’est prononcé contre. Et comme pour les enquêtes aujourd’hui en France, ils se sont arrangés pour dire que les habitants étaient d’accord.

    Qu’en est-il aujourd’hui de ces forêts ? Subsiste-t-il encore des « baldios » ?

    Les pinèdes sont exploitées par des boîtes privées qui font travailler des prolos qui galèrent en bossant dur. Mais beaucoup de ces forêts ont brûlé ces dernière décennies, notamment lors de la grande vague d’incendies au Portugal de 2017, où des gens du village où je filmais ont failli périr.

    Les feux ont dévoilé les paysages de pierre qu’on voyait auparavant sur les photos d’archives du territoire, avant que des pins de 30 mètres de haut ne bouchent le paysage.

    Quant aux baldios restants, ils sont loués à des entreprises de cellulose qui y plantent de l’eucalyptus. D’autres servent à faire des parcs d’éoliennes. Toutes les lois promues par les différents gouvernements à travers l’histoire du Portugal vont dans le même sens : privatiser les baldios alors que ces gens ont géré pendant des siècles ces espaces de façon collective et très intelligente.

    J’ai fait ce film avec en tête les forêts au Brésil gérées par les peuples autochtones depuis des siècles, TotalEnergies en Ouganda qui déplace 100 000 personnes de leurs terres pour du pétrole ou encore Sainte-Soline, où l’État aide les intérêts privés à accaparer un autre bien commun : l’eau.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/021223/jose-vieira-la-memoire-des-resistances-face-l-accaparement-des-terres-ete-

    #accaparement_de_terres #terre #terres #dictature #histoire #paysannerie #Serra_do_Caramulo #communaux #salazarisme #progrès #colonisation #colonialisme #rural #modernité #résistance #incendie #boisement #utopie_industrialiste #ingénieurs #ingénieurs_forestiers #propriété #industrie_du_bois #Junte_de_colonisation_interne #colonies_de_repeuplement #cellulose #pinèdes #feux #paysage #privatisation #eucalyptus #éoliennes #loi #foncier

  • « Plus haute #ZAD d’Europe » : faut-il encore aménager les #glaciers alpins ?

    Du 8 au 10 novembre, la France accueille le #One_Planet#Polar_Summit, premier sommet international consacré aux glaciers et aux pôles, pour appeler à une mobilisation exceptionnelle et concertée de la communauté internationale. Dans les #Alpes, les projets d’aménagements des glaciers à des fins touristiques ou sportives sont pourtant toujours en cours malgré leur disparition annoncée. C’est le cas par exemple dans le massif des Écrins (#Hautes-Alpes), sur le glacier de la #Girose où il est prévu d’implanter depuis 2017 le troisième tronçon du téléphérique de la #Grave.

    Du 7 au 13 octobre dernier, les #Soulèvements_de_la_Terre (#SLT) ont occupé le chantier afin d’en bloquer les travaux préparatoires. Ce nouvel aménagement a pour objectif de prolonger les deux tronçons existant, qui permettent depuis 1978 d’accéder au #col_des_Ruillans à 3 221 mètres et ainsi rallier à terme le #Dôme_de_La_Lauze à 3559 mètres. Porté par la #Société_d’aménagement_touristique_de_la_Grave (#SATG) et la municipalité, ce projet est estimé à 12 millions d’euros, investissement dont le bien fondé divise les habitants de #La_Grave depuis cinq ans.

    En jeu derrière ces désaccords, la direction à donner à la transition touristique face au changement climatique : renforcement ou bifurcation du modèle socio-économique existant en montagne ?

    Une #occupation surprise du glacier

    Partis du village de La Grave à 1 400 mètres dans la nuit du 6 au 7 octobre, une quinzaine de militants des SLT ont gravi 2 000 mètres de dénivelé avec des sacs à dos de 15 à 20 kg. Au terme de 12 heures d’ascension, ils ont atteint le haut d’un rognon rocheux émergeant du glacier de la Girose où doit être implanté un pylône du nouveau téléphérique. Ils y ont installé leur camp de base dans l’après-midi, avant d’annoncer sur les réseaux sociaux la création de « la plus haute zone à défendre (ZAD) d’Europe ».

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    Par cette mobilisation surprise, les SLT ont montré qu’ils pouvaient être présents sur des terrains où ils ne sont pas forcément attendus et que pour cela :

    - ils disposent de ressources logistiques permettant d’envisager une mobilisation de type occupationnelle de plusieurs jours à 3 400 mètres d’altitude

    - ils maîtrisent les techniques d’alpinisme et l’engagement physique qu’implique la haute montagne.

    Sur le glacier de la Girose, les conditions de vie imposées par le milieu n’ont en effet rien à voir avec celles des autres ZAD en France, y compris celles de La Clusaz (en novembre 2021 et octobre 2022), premières du type en montagne, dans le bois de la Colombière à 1 400 mètres d’altitude. Au cours de la semaine d’occupation, les températures étaient toutefois clémentes, oscillant entre -7° à 10 °C, du fait d’un automne anormalement chaud.
    Une communication bien rodée

    Très rapidement, cette occupation du glacier a donné un coup de projecteur national sur ce projet controversé d’aménagement local. Dès son annonce publique, les articles se sont succédés dans les médias nationaux à partir des éléments de communication (photographies, vidéos, communiqués de presse, live sur les réseaux sociaux) fournis par les SLT depuis le glacier de la Girose. Les militants présents disposaient en effet des compétences et du matériel nécessaires pour produire des contenus professionnels à 3400 mètres. Ils ont ainsi accordé une attention particulière à la mise en scène médiatique et à sa dimension esthétique.

    Bien qu’inédite par sa forme ainsi que les lieux et les moyens mobilisés, cette mobilisation s’inscrit dans une grammaire politique partagée faisant référence au bien commun ainsi qu’aux imaginaires et narratifs habituels des SLT, qu’elle actualise à partir de cette expérience en haute montagne. Elle est visible dans les stratégies de communication mobilisées : les références à la ZAD, à la stratégie du désarmement, l’apparition masquée des militants, les slogans tels que la « lutte des glaces », « nous sommes les glaciers qui se défendent » et « ça presse mais la SATArde ». Une fois déployée, cette grammaire de la mobilisation est aisément reconnaissable par les publics, qu’ils y soient favorables ou non.
    Une plante protégée sur le chantier

    Cette occupation du glacier a été imaginée dans l’urgence en quelques jours par les SLT pour répondre au début des travaux préliminaires entrepris par la SATG quelques jours auparavant. Son objectif était de stopper ces derniers suite à la décision du tribunal administratif de Marseille de rejeter, le 5 octobre, un référé liberté demandant leurs interruptions d’urgence. Déposé le 20 septembre par les associations locales et environnementales, ce dernier visait notamment à protéger l’androsace du Dauphiné présente sur le rognon rocheux.

    Cette plante protégée, dont la découverte formelle ne remonte qu’à 2021, a été identifiée le 11 juillet sur les lieux par deux scientifiques du Laboratoire d’écologie alpine (CNRS, Université Grenoble Alpes et Université Savoie Mont Blanc) et certifiée par l’Office français de la biodiversité (OFB). Leur rapport d’expertise écologique a été rendu public et remis aux autorités administratives le 18 juillet : il montre qu’il existe plusieurs spécimens de l’androsace du Dauphiné dans un rayon de moins de 50 mètres autour du projet d’implantation du pylône. Or, elle ne figure pas dans l’étude d’impact et le bureau d’étude qui l’a réalisée affirme l’avoir cherchée sans la trouver.

    Deux jours après le début de l’occupation, la SATG a demandé à la préfecture des Hautes-Alpes l’évacuation du campement des SLT afin de pouvoir reprendre au plus vite les travaux. Le 10 octobre, la gendarmerie s’est rendue sur le glacier pour notifier aux militants qu’un arrêté municipal interdisant le bivouac jusqu’au printemps avait été pris. Et que le campement était illégal, et donc passible de poursuites civiles et pénales.

    En réponse, un nouveau recours « référé-suspension » en justice a été déposé le lendemain par les associations locales et environnementales pour stopper les travaux… à nouveau rejeté le 30 octobre par le tribunal administratif de Marseille. Cette décision s’appuie sur l’avis de la Direction régionale de l’environnement, de l’aménagement et du logement (DREAL) et du préfet des Hautes-Alpes qui estiment que le risque d’atteinte à l’androsace du Dauphiné n’était pas suffisamment caractérisé. MW et LGA envisagent désormais de former un recours en cassation devant le Conseil d’État.

    Entre-temps, les SLT ont décidé de redescendre dans la vallée dès le 13 octobre, leur présence n’étant plus nécessaire pour empêcher le déroulement des travaux, puisque les conditions météorologiques rendent désormais leur reprise impossible avant le printemps 2024.

    https://twitter.com/lessoulevements/status/1712817279556084122

    Bien qu’illégale, cette occupation « à durée déterminée » du glacier pourrait permettre à la justice d’aboutir à un jugement de fond sur l’ensemble des points contestés par les associations locales et environnementales. En ce sens, cette occupation a permis de faire « gagner du temps » à Mountain Wilderness (MW) et à La Grave Autrement (LGA) engagées depuis cinq ans contre le projet. Leurs actions menées depuis le 3 avril dernier, date du permis de construire accordée par la mairie de la Grave à la SATG, n’ont jusqu’alors pas été en mesure d’empêcher le début des travaux… alors même que leurs recours juridiques sur le fond ne vont être étudiés par la justice que l’année prochaine et que les travaux auraient pu avoir lieu en amont.

    Cette mobilisation des SLT a aussi contraint les promoteurs du projet à sortir du silence et à prendre position publiquement. Ils ont ainsi dénoncé « quatorze hurluberlus qui ne font rien de leur vie et entravent ceux qui travaillent », ce à quoi la presse montagne a répondu « les glaciers disent merci aux hurluberlus ».
    Sanctuarisation et manque de « cohérence »

    En Europe, cette mobilisation des SLT en haute montagne est inédite dans l’histoire des contestations socio-environnementales du tourisme, et plus largement dans celles des mouvements sociaux. Cela lui confère une forte dimension symbolique, en même temps que le devenir des glaciers est lui-même devenu un symbole du changement climatique et que leur artificialisation à des fins touristiques ou sportives suscite de plus en plus de critiques dans les Alpes. Dernier exemple en date, le creusement d’une piste de ski dans un glacier suisse à l’aide de pelles mécaniques afin de permettre la tenue d’une épreuve de la coupe du monde de ski.

    Une telle situation où un engin de travaux publics brise de la glace pour l’aplanir et rendre possible la pratique du ski alpin a déjà été observée à la Grave en septembre 2020. L’objectif était alors de faire fonctionner le vieux téléski du glacier de la Girose, que le troisième tronçon du téléphérique entend remplacer à terme… sauf que l’objectif de ce dernier est d’accroître le nombre de skieurs alpins sur un glacier qui subit de plein fouet le réchauffement climatique, ce qui impliquera ensuite la mise en place d’une sécurisation des crevasses à l’aide de pelleteuses. Dans ce contexte, la question que pose la mobilisation des SLT peut donc se reformuler ainsi : ne faut-il pas désormais laisser le glacier de la Girose libre de tout moyen de transport pour en faire un avant-poste de la transition touristique pour expérimenter une nouvelle approche de la montagne ?

    Cette question résonne avec la position du gouvernement français au One Planet Summit sur la nécessaire sanctuarisation des écosystèmes que représentent les glaciers… dont le projet d’aménagement du glacier de la Girose représente « quelques accrocs à la cohérence », reconnaît Christophe Béchu, ministre de la Transition écologique, du fait d’un dossier complexe.
    Un dialogue à rouvrir pour avancer

    Au lendemain de la fin de l’occupation du glacier par les SLT, le 14 octobre, une manifestation a été organisée à l’initiative des Enseignes de La Meije (association des commerçants de la Grave) pour défendre l’aménagement du troisième tronçon du téléphérique. Pour eux, comme pour la SATG et la municipalité, l’existence de la station est en péril sans celui-ci, ce que conteste LGA dans son analyse des retombées économiques sur le territoire. Le bureau des guides de la Grave est lui aussi divisé sur le sujet. Le débat ne se résume donc pas à une opposition entre les amoureux du glacier, là-haut, et ceux du business, en bas ; entre ceux qui vivent sur le territoire à l’année et les autres qui n’y sont que quelques jours par an ; entre des « hurluberlus qui ne font rien de leur vie » et ceux qui travaillent, etc.

    Comme partout en montagne, le débat à la Grave est plus complexe qu’il n’y paraît et appelle à rouvrir le dialogue si l’on prend au sérieux l’inévitable bifurcation du modèle de développement montagnard face aux effets du changement climatique. Considérer qu’il n’y a pas aujourd’hui deux montagnes irréconciliables n’implique pas d’être d’accord sur tout avec tout le monde en amont. Les désaccords peuvent être féconds pour imaginer le devenir du territoire sans que l’artificialisation du glacier soit l’unique solution pour vivre et habiter à La Grave.

    Si les travaux du troisième tronçon du #téléphérique étaient amenés à reprendre au printemps prochain, les SLT ont d’ores et déjà annoncé qu’ils reviendront occuper le glacier de la Girose.

    https://theconversation.com/plus-haute-zad-deurope-faut-il-encore-amenager-les-glaciers-alpins-
    #tourisme #aménagement_du_territoire #résistance

    • Écologie : dans un village des Hautes-Alpes, le #téléphérique de la discorde

      À La Grave, dans les Hautes-Alpes, des habitants se mobilisent contre la construction d’un téléphérique, vu comme un levier de #tourisme_de_masse. Éleveurs, mais aussi artisan ou guide de haute montagne, ils défendent un mode de vie alternatif et adapté à la crise climatique.

      Comme tous les matins d’hiver, Agathe Margheriti descend à ski, avec précaution, le sentier enneigé et pentu qui sépare sa maison de la route. Son sac à dos est chargé d’une précieuse cargaison : les œufs de ses 200 poules, qu’elle vend au porte-à-porte, une fois par semaine, aux habitant·es de la vallée de la Romanche. Chaque jour, elle descend la ponte du jour et la stocke dans des boîtes isothermes dans sa camionnette qui stationne en bord de route, au pied du chemin.

      Il y a six ans, cette jeune femme a fait un choix de vie radical. Avec son compagnon Aurélien Routens, un ancien snowboardeur professionnel, elle a acheté un hameau en ruine, le #Puy_Golèfre, dans le village de La Grave (Hautes-Alpes). « Pour 140 000 euros, c’est tout ce que nous avons trouvé à la portée de nos moyens. Il n’y a ni eau ni électricité, et il faut 20 minutes pour monter à pied depuis la route, mais regardez cette vue ! », montre Agathe, rayonnante.

      La petite maison de pierre retapée par le couple, orientée plein sud, chauffée au bois et dotée d’énergie solaire, offre un panorama époustouflant sur la face nord de la Meije, la plus impressionnante montagne des Alpes françaises, toute de glace et de roche, qui culmine à 3 983 mètres.

      Son sommet occupe une place à part dans l’histoire de l’alpinisme : il n’a été atteint qu’en 1877, un siècle après le mont Blanc. L’autre originalité du lieu, à laquelle Agathe et Aurélien tiennent tant, c’est que La Grave est le seul village d’Europe à être doté d’un téléphérique dont la gare d’arrivée, à 3 200 mètres d’altitude, débouche sur un domaine skiable sauvage. Ni piste damée ni canon à neige, mais des vallons de neige vierge aux pentes vertigineuses, paradis des snowboardeurs freeride qui font leurs traces dans la poudreuse.

      Ce paradis, Agathe et Aurélien veulent le préserver à tout prix. Avec une poignée d’amis du village, ils luttent depuis trois ans contre un projet qu’ils jugent aussi inutile qu’anachronique : la construction d’un troisième tronçon de téléphérique par son exploitant, le groupe #SATA, qui permettrait de monter jusqu’au #dôme_de_la_Lauze, à 3 559 mètres. Ce nouvel équipement, d’un coût de 14 millions d’euros (dont 4 millions d’argent public), permettrait de skier sur le #glacier de la #Girose, actuellement doté d’un #téléski vieillissant, dont l’accès est devenu problématique en raison du réchauffement climatique.

      Un téléphérique sur un glacier, alors que les Alpes se réchauffent deux fois plus vite que le reste de la planète et que les scientifiques alertent sur la disparition de la moitié des glaciers de montagne d’ici à 2100 ?

      Pour tenter d’empêcher la réalisation de ce projet fou, des habitant·es de la Grave, constitué·es dans le collectif #La_Grave_autrement, luttent sur deux fronts : judiciaire et médiatique. Deux recours ont été déposés devant le tribunal administratif pour contrer le projet de la SATA, un groupe qui exploite aussi les domaines skiables de l’Alpe d’Huez et des Deux-Alpes, emploie 800 personnes et réalise un chiffre d’affaires de 80 millions d’euros. Les jugements au fond n’interviendront pas avant le printemps 2024… Trop tard, peut-être, pour empêcher le démarrage des travaux.

      Alors, parallèlement, des militant·es se sont activé·es sur le terrain : en octobre, l’association #Mountain_Wilderness a déployé une banderole sur le glacier, puis #Les_Soulèvements_de_la_Terre ont symboliquement planté leurs tentes sur le rognon rocheux situé au milieu du glacier, sur lequel doit être édifié le pylône du téléphérique et où des botanistes ont découvert une plante rare et protégée, l’#androsace_du_Dauphiné.

      Enfin, en novembre, des habitant·es de La Grave, accompagné·es de la glaciologue Heidi Sevestre, ont symboliquement apporté un gros morceau de glace de la Girose à Paris, le jour de l’ouverture du One Planet-Polar Summit, et interpellé le gouvernement sur l’urgence de protéger les glaciers.

      Depuis, la neige est tombée en abondance sur la Meije et dans la vallée. À La Grave et dans le village voisin de Villar d’Arène, les opposant·es au projet prouvent, dans leur vie quotidienne, qu’une #alternative au tout-ski est possible et que la vallée peut se réinventer sans porter atteinte à ce milieu montagnard si menacé.

      Thierry Favre, porte-parole de La Grave autrement, vit dans une ancienne bergerie, au cœur du hameau des Hières, à 1 800 mètres d’altitude, qu’il a achetée il y a trente ans, après être tombé amoureux du site pour la qualité de sa neige et la verticalité de ses pentes. Après avoir travaillé dans l’industrie de la soierie à Lyon et à Florence, il a fondé ici sa propre entreprise de création d’étoffes, #Legend’Enhaut, qui fabrique des tissus haut de gamme pour des décorateurs. « Nous sommes bien situés, sur un grand axe de circulation entre Grenoble et Briançon. Nous avons l’immense chance de ne pas avoir vu notre cadre de vie massacré par les ensembles immobiliers qui défigurent les grandes stations de ski des Alpes. Mais il faut être vigilants. La Grave compte déjà 75 % de #résidences_secondaires. Et le projet de nouveau téléphérique s’accompagnera inévitablement de la construction d’une résidence de tourisme. Il y a urgence à proposer un autre modèle pour l’avenir. »

      À 60 ans, Thierry Favre s’applique à lui-même ce souci de sobriété dans son activité professionnelle. « Mon entreprise marchait bien mais j’ai volontairement mis le pied sur le frein. Je n’ai conservé que deux salariés et deux collaborateurs extérieurs, pour préserver ma qualité de vie et garder du temps pour militer. »

      À deux kilomètres de là, à la ferme de Molières, Céline Gaillard partage la même philosophie. Après avoir travaillé à l’office du tourisme de Serre-Chevalier et à celui de La Grave, cette mère de deux enfants s’est reconvertie dans l’élevage de chèvres. Elle et son mari Martin, moniteur de ski trois mois par an, exploitent un troupeau de 50 chèvres et fabriquent des fromages qu’ils vendent sur place. Pendant les six mois d’hiver, les bêtes vivent dans une vaste chèvrerie, où elles ont de l’espace pour bouger, et en été, elles paissent sur les alpages voisins. « Je ne veux pas en avoir plus de cinquante, par souci du bien-être animal. Nous pourrions produire plus de fromages, car la demande est forte. Mais le travail saisonnier de Martin nous apporte un complément de revenus qui nous suffit. »

      Avec les œufs de ses poules, Agathe fait le même constat : « Je pourrais en vendre dix fois plus. L’an dernier, nous avons planté de l’ail et des framboisiers : nous avons tout vendu très vite. Ce serait bien que d’autres éleveurs s’installent. Si nous avions une production locale plus fournie, nous pourrions ouvrir une épicerie coopérative au village. »

      Contrairement à Agathe qui milite dans le collectif La Grave autrement, Céline, la chevrière, ne s’oppose pas ouvertement au nouveau téléphérique. Mais elle n’est « pas d’accord pour se taire » : « Nous n’avons pas pu avoir un vrai débat sur le projet. Il faudrait un moratoire, le temps d’échanger avec la population. Je ne comprends pas cette volonté d’exploiter la montagne jusqu’à son dernier souffle. »

      Céline et Martin Gaillard ne sont pas seuls à pratiquer l’élevage autrement dans le village. Au hameau des #Cours, à #Villar_d’Arène, un autre jeune couple, originaire de l’ouest de la France, s’est installé en 2019. Sylvain et Julie Protière, parents d’un enfant de 4 ans, ont repris la ferme du Lautaret, dans laquelle ils élèvent 35 vaches d’Herens, une race alpine particulièrement adaptée à la rudesse du climat montagnard.

      Alors que la plupart des fermiers traditionnels de La Grave et de Villar d’Arène élèvent des génisses qu’ils revendent à l’âge de 3 ans et n’exploitent donc pas le lait, Sylvain et Julie traient leurs vaches et fabriquent le fromage à la ferme. Cela leur procure un meilleur revenu et leur permet de fournir en fromage les consommatrices et consommateurs locaux. « Nous vendons toute notre production aux restaurants, refuges et gîtes dans un rayon de 5 kilomètres, et nous n’en avons pas assez pour satisfaire la demande », témoigne Sylvain.

      À mesure que le combat des opposants et opposantes au nouveau téléphérique se médiatise et se radicalise, les tensions s’avivent au sein de la communauté villageoise. Les partisans du téléphérique accusent les opposants de vouloir la mort de l’économie de la vallée. Selon eux, sans le troisième tronçon, le téléphérique actuel n’est plus viable.

      Aucun·e des opposant·es que Mediapart a rencontré·es, pourtant, ne souhaite l’arrêt des remontées mécaniques. Benjamin Ribeyre, guide de haute montagne et cofondateur du collectif La Grave autrement, pense au contraire que l’actuel téléphérique pourrait servir de base à un développement touristique tourné vers la transition écologique. « L’actuelle plateforme d’arrivée, à 3 200 mètres, permet un accès facile au glacier de la Girose. C’est unique en France, bien mieux que la gare du Montenvers de Chamonix, d’où l’on ne voit de la mer de glace que des moraines grises. Ici, grâce au téléphérique, nous pourrions proposer des sorties d’éducation au climat, en particulier pour les enfants des écoles. Le réchauffement climatique bouleverse notre activité de guides de haute montagne. Nous devons d’urgence nous réinventer ! »

      Niels Martin, cofondateur de La Grave autrement, conteste, pour sa part, les calculs économiques des promoteurs du projet. Père de deux jeunes enfants, il partage sa vie entre La Grave et la Savoie, où il travaille dans une institution de la montagne. « Ce troisième tronçon n’est pas indispensable à la survie du téléphérique. Le fait que La Grave soit restée à l’écart des grands aménagements du plan neige des années 1970 doit devenir son principal attrait. » Au nom du collectif, Niels vient d’envoyer une lettre au préfet coordonnateur du massif des Alpes dans laquelle il propose que le village devienne en 2024 un site pilote des États généraux de la transition du tourisme en montagne, où se concoctent des solutions d’avenir pour faire face au réchauffement climatique dans les Alpes. Les Soulèvements de la Terre, eux, n’ont pas dit leur dernier mot. Dès la fonte des neiges, ils ont promis de remonter sur le glacier de la Girose.

      https://www.mediapart.fr/journal/ecologie/251223/ecologie-dans-un-village-des-hautes-alpes-le-telepherique-de-la-discorde

    • #Guillaume_Gontard : Glacier de la #Girose - La #Grave :

      J’ai interrogé le ministre @Ecologie_Gouv sur l’avenir du glacier de la #Girose dans les #Alpes.
      Ce lieu unique est menacé par un projet de prolongation d’un téléphérique permettant de skier sur un glacier dont les jours sont comptés.

      https://twitter.com/GuillaumGontard/status/1740306452957348349

  • En Sardaigne, le voile se lève sur la mystérieuse civilisation des nuraghes


    Vue aérienne d’un village nuragique, sur le site archéologique Su Nuraxi, à Barumini, en Sardaigne, en Italie. BRIDGEMAN IMAGES

    Durant mille ans, de 1800 à 800 av. J.-C., la culture nuragique a dominé l’île italienne. Ce peuple méconnu, car sans écriture, a laissé peu de traces de son existence, sauf 8 000 grandes tours rondes en pierre, disséminées sur le territoire. A la découverte de cette civilisation des #villages, loin des autres cultures méditerranéennes.

    Au début, on n’y prend pas garde. Et puis, petit à petit, à parcourir en voiture les routes de #Sardaigne sous un soleil qui joue les prolongations d’octobre, le regard s’aiguise, l’œil s’exerce, et l’on finit par les voir partout. Postés au loin comme des sentinelles de pierre, certains encore fièrement dressés, d’autres écroulés mais toujours là, défiant les millénaires. Eux, ce sont les nuraghes. Qu’on ne s’y trompe pas : malgré leur air de tours de château fort, ces édifices monumentaux – dont la silhouette orne des étiquettes de pecorino sarde ou de bouteilles de vin – ne renvoient pas au Moyen Age. Non, ces constructions sont les symboles d’une civilisation mystérieuse bien plus ancienne qui, mille ans durant, de 1800 à 800 av. J.-C., à cheval sur l’âge du bronze et celui du fer, domina la Sardaigne.

    Archéologue en France à l’Institut national de recherches archéologiques préventives, Isabelle Catteddu, de père sarde, a fait ses premières armes ici et y revient tous les étés. Elle, dont le grand-père abritait ses moutons dans l’un des huit mille nuraghes qui subsistent, avait alors pour but de « comprendre comment le territoire avait évolué jusqu’à la période romaine où on a réutilisé les sites nuragiques ».

    .... Quand on monte à l’étage, la vue est dégagée à 180 degrés et l’on peut apercevoir, dans le lointain, la #Méditerranée. Et aussi un autre nuraghe, qui lui-même a vue sur un troisième… Un réseau se dessine et, par endroits, les tours se font écho tous les 500 à 1 000 mètres. « Un peu plus loin, précise Isabelle Catteddu, on a une concentration incroyable, avec deux ou trois nuraghes au kilomètre carré. » Dans cet univers à la fois rural et polycentrique, on est loin des cultures orientales de la même époque, avec villes et pouvoir centralisé.

    .... L’habitat se retrouve à l’extérieur, dans des villages encore lisibles dans le paysage, car leurs « cabanes », comme les archéologues les appellent, rondes, avaient une base en pierre. Au-dessus devait être disposé un toit conique fait de roseaux.
    La vie est donc hors les nuraghes – la mort aussi. Petit détour par le site d’Imbertighe, en pleine campagne, où se trouve une « tombe de géant ». Pourquoi ce nom ? Parce qu’il s’agit d’une immense tombe collective. Au premier plan, un espace cultuel délimité par un muret en forme de deux cornes de taureau au milieu desquelles s’élève une grande porte en pierre d’un seul bloc, qui sépare les vivants des morts. Derrière, ceux-ci reposent dans un long couloir autrefois couvert de dalles. « La technique de dépôt consistait à soulever une dalle et à glisser le défunt dans la tombe, précise Isabelle Catteddu. Ces tombes sont là depuis le début de l’âge nuragique. Elles contiennent parfois plus de cent squelettes. Une population sans distinction de sexe, d’âge ou de classe sociale. » Les tombes individuelles n’apparaîtront qu’à la fin de la civilisation.

    https://www.lemonde.fr/sciences/article/2023/11/06/en-sardaigne-le-voile-se-leve-sur-la-mysterieuse-civilisation-des-nuraghes_6

    https://archive.ph/ZPjZX

    #Nuragiques #nuraghes #archéologie

  • Un mégaprojet de #Tony_Parker dans une #station_de_ski fait tourner la tête d’élus du #Vercors

    La mairie de #Villard-de-Lans s’apprête à céder un terrain à l’ancien international de basket pour une vaste #résidence_hôtelière quatre étoiles dans le massif isérois. Une #mobilisation citoyenne s’organise, qualifiée de « ski-bashing » par des élus locaux contrariés.

    « Mais le projet de Tony Parker, ce n’est pas le projet de Tony Parker. Il n’y est pour rien, lui ! Il ne met pas un centime sur les projets immobiliers. Vous croyez qu’il a les moyens de mettre 100 millions sur la table ? Il faut arrêter..., s’agace Guillaume Ruel, ex-élu de #Corrençon-en-Vercors (Isère) devenu partenaire d’une société de l’ancien basketteur. Grâce à Tony, on a réussi à attirer l’attention de gestionnaires et de promoteurs, mais aujourd’hui, rien n’est fait. »

    Rien n’est fait, et pourtant, le massif du Vercors retient son souffle. Jeudi soir, le maire de Villard-de-Lans, #Arnaud_Mathieu, doit proposer à son conseil municipal une #résolution pour autoriser la vente d’un immense #parking_public de 350 places à une société contrôlée par Tony Parker (la Société d’équipement de Villard-de-Lans et Corrençon-en-Vercors, #SEVLC) pour qu’il mette en œuvre un projet de résidence hôtelière quatre étoiles sur 12 100 mètres carrés, comprenant 132 suites-appartements, soit neuf cents lits touristiques, un « espace de bien-être de 800 mètres carrés » (avec un solarium et deux piscines), et une zone de commerce, selon la dernière version présentée à l’autorité environnementale en 2023. Le projet aurait été depuis réduit à cent suites-appartements, soit 550 lits, plus les lits d’appoint.

    Mobilisée depuis un an contre le projet, l’association #Vercors_Citoyens appelle à manifester devant la salle du conseil municipal de Villard pour dénoncer la cession du parking et le fait « qu’aucune communication » n’ait prévenu les habitant·es de « cette étape cruciale ». Il s’agit, pour l’association, de « demander (a minima) le report du vote après reprise de la concertation publique ». « C’est un #mégaprojet d’ampleur, explique Loïs Habert, président de Vercors Citoyens. Ça mérite une concertation. Si le terrain est vendu, ça devient un projet privé. Nous demandons d’abord que le projet soit présenté. Or le maire ne communique absolument pas. »

    En outre, la présentation par le maire de Villard-de-Lans des délibérations concernant les cessions mutuelles de terrains entre la ville et la SEVLC pourrait se heurter à une difficulté juridique. En effet, l’épouse du maire est cadre administrative et financière au sein de la SEVLC, un lien d’intérêt qui aurait pu – ou dû – conduire Arnaud Mathieu à se déporter. « Je n’ai pas l’intention de me déporter, explique-t-il à Mediapart. Je n’ai rien contre la transparence de la vie publique, et je ne suis pas soumis à la déclaration d’intérêts en tant que maire. On va laisser l’administration faire. Je ne vois rien d’anormal ni d’illégal. Mais si c’est le cas, je me mettrai en retrait. »
    Avis critique de l’Autorité environnementale

    Venu sur le plateau du Vercors peu avant sa retraite de joueur, l’ancien meneur des San Antonio Spurs (Texas) a pris le contrôle de la station de ski en 2019, en rachetant pour 9 millions d’euros les parts des fondateurs de la SEVLC, Daniel et Victor Huillier. Tony Parker a ainsi pris les clés d’un #domaine_skiable qui compte 125 kilomètres de pistes de ski alpin, 110 kilomètres de ski nordique, et 21 remontées mécaniques, mais aussi d’un terrain agricole devenu constructible en bordure de Villard-de-Lans, lui permettant déjà d’imaginer une opération immobilière d’envergure.

    Dans Le Parisien, il annonce alors qu’il « adore l’univers du ski », ou qu’il « apprécie aussi la raclette et la fondue ». Et s’il n’a « jamais skié de sa vie », il a « hâte de commencer ». Son train de vie, sa propriété à San Antonio au Texas, ou son yacht Infinity Nine s’affichent dans les magazines et rassurent probablement les élus locaux, peu nombreux à se questionner ouvertement. Tony est vu comme un futur ambassadeur de la neige, une tête de gondole des stations. Selon Le Dauphiné libéré, il serait « sur le point d’investir dans les stations des Gets et de Morzine en Haute-Savoie ». Une information non confirmée par le groupe.

    En octobre 2022, Tony Parker dévoile l’opération de Villard-de-Lans, « #Ananda_Ressort », lors d’une conférence de presse dans les locaux lyonnais de sa société. Il n’y a pas encore de maquette, seulement un dessin d’architecte qui positionne une barre d’immeubles, non plus sur le terrain agricole mais sur le parking « P1 » de la station de Villard, devant les « Balcons de Villard », un long bâtiment des années 1970. À la surprise générale, deux élus encadrent Tony Parker dans ses locaux : le maire de Villard-de-Lans, Arnaud Mathieu, et celui de Corrençon-en-Vercors, Thomas Guillet.

    Le scénario est précisé : Villard-de-Lans compte vendre son parking à Parker, et celui-ci vendra en retour sa parcelle agricole à la mairie. Une façon d’éviter qu’on artificialise davantage les terres, à condition de rendre à nouveau inconstructible la parcelle agricole. Les journalistes présents à la conférence de presse découvrent « un projet à 96 millions pour Tony Parker dans le Vercors ». Leurs articles laissent planer l’idée que le basketteur investit son propre argent. À tort.

    « Les gens disent “les 100 millions de Tony Parker”, mais ce ne sont pas les 100 millions de Tony Parker, précise à Mediapart Marie-Sophie Obama, une proche du basketteur, dirigeante du club professionnel #Lyon-ASVEL_Féminin, et d’#Infinity_Nine_Mountain (#INM), la société qui investit pour lui en #montagne. À INM, on est coordinateur de ce projet qui implique différentes parties prenantes : un futur gestionnaire qui exploitera la structure hôtelière, des investisseurs qui vont aménager, construire, revendre à une foncière, et une foncière qui louera à ce gestionnaire. Nous, on n’est aucune de ces parties, mais on essaye de fédérer ces acteurs-là. »

    Selon la dirigeante, le groupe de Tony Parker a pris en compte l’avis très critique rendu par l’Autorité environnementale en mai dernier. « On s’est réunis, avec les services techniques de la ville de Villard, de la communauté de communes, et les services de l’État pour revoir un peu la voilure, expose-t-elle. On a fait de nouvelles propositions communiquées à la commune. Quant à l’opposition au projet, nous, on l’entend, et ça a permis de réajuster. Mais ce ne sont pas les seuls acteurs qui s’expriment, même s’ils font parfois le plus de bruit. Il y a d’autres acteurs du territoire avec lesquels on a essayé de repenser tout ça. Je ne vais pas donner leurs noms parce qu’ils ne se sont pas exprimés publiquement. »

    Bien que gestionnaire de la station, le groupe de Tony Parker n’a pas franchi le pas de rencontrer la population. « On nous demande de communiquer sur des choses qui ne sont pas encore déterminées, se défend Marie-Sophie Obama. Ça laisse peut-être un vide, mais on est encore à l’étape de l’avant-projet. Les objections, on les entend. Mais on est un acteur privé. On n’est pas un acteur public ou politique. On fait une proposition de projet. Je n’ai pas de problème avec le fait que les gens ne soient pas d’accord. Le temps viendra où on précisera tout ça. Ce n’est pas le moment aujourd’hui. »
    L’invention du « ski-bashing »

    « Il y a un état de droit, argumente de son côté Arnaud Mathieu auprès de Mediapart. Le plan local d’urbanisme intercommunal (PLUI) a été adopté à l’unanimité. Il n’y a pas eu de recours. On a un investisseur, M. Parker, qui a été accueilli à bras ouverts sur notre territoire. Dans ce projet, il y avait cette résidence hôtelière, un projet de télécabine qui allait du village à la station, et 200 lits supplémentaires. Voilà ce qui a été vendu à M. Parker, voilà pourquoi il a acheté. »

    Élu aux municipales de 2020, le maire n’a fait que reprendre un dossier engagé par sa prédécesseure. Rapidement, après son élection, il affirme « partager la même vision » que les associés de Tony Parker, mais c’est lui qui le contraint de déplacer son projet sur l’emprise urbaine, pour éviter l’artificialisation. À l’entendre, la survie de la station de ski est en jeu.

    « La moyenne montagne est fragilisée par le réchauffement climatique, admet-il. Mais il y a un système de neige de culture qui fonctionne. Il y a des ressources en eau [des réserves ont été créées en altitude – ndlr]. L’objectif, c’est d’avoir une résidence hôtelière sur quatre saisons, pour réaliser une transition douce. Qu’est-ce qui devrait obliger les élus de montagne à porter le deuil précoce d’une activité qui fait vivre des centaines de personnes ? C’est ce que j’appelle du “ski-bashing”. »

    « Il y a un clivage sur la pratique de la montagne, rétorque Loïs Habert. Ceux qui ne vivent que du ski ne sont pas dans notre camp. On a du mal à se parler. Certains élus pensent qu’on a encore trente ans devant nous ! Aujourd’hui, on en est à plastifier des pistes pour que des gens glissent sur des bouées ! »

    Thomas Guillet, maire de Corrençon-en-Vercors, est lui aussi engagé contre le « ski-bashing ». « La neige, c’est chaotique chez nous, explique-t-il. Mais elle représente encore 70 à 80 % du chiffre d’affaires du plateau du Vercors. Moi, je ne suis pas pour le catastrophisme. S’il y a du soleil, on crie à la sécheresse, et s’il se met à pleuvoir, on crie aux inondations. On stigmatise. Les piscines consomment beaucoup plus d’eau que la neige de culture. »

    « La neige fait toujours partie du projet, abonde Marie-Sophie Obama. On ne découvre pas le réchauffement climatique et cet aléa. On a des études qui présentent des perspectives d’enneigement jusqu’à 2050. Elles disent que l’on va pouvoir continuer à skier de manière régulière au-delà de 1 500 mètres et qu’en dessous, il allait falloir repenser les choses. »
    Du business pour des élus

    Dans son avis, la mission de l’Autorité environnementale a recommandé au porteur de projet de « reprendre son bilan » sur la ressource en eau, afin de présenter sa dynamique d’évolution, « en prenant en compte les effets du changement climatique ». Elle a aussi pointé la faiblesse de son étude sur les travaux nécessaires à l’assainissement des eaux usées, et lui a demandé de préciser « les flux routiers actuels » et les futures modalités d’accès au site. Parmi les habitats naturels à préserver, on relève une zone humide à une centaine de mètres du projet, la présence d’espèces protégées (chevreuil ou renard roux, entre autres) à proximité du site.

    Enfin, la mission a recommandé d’élargir l’évaluation environnementale à « l’ensemble du projet de développement de la station », en incluant « les développements immobiliers » à Corrençon-en-Vercors.

    Située en contrebas, cette commune a elle aussi confié ses installations de remontées mécaniques à la SEVLC – en vertu d’une délégation de service public (DSP) – quelques années avant l’arrivée de Tony Parker.

    À Corrençon-en-Vercors, Parker est arrivé par un des sponsors du Lyon basket féminin (LDLC-ASVEL), Ruben Jolly, patron du promoteur Federaly, qui négocie alors l’achat d’un terrain constructible sur un autre site, le Clos de la Balme, sur lequel il a un projet de six cents lits sur 8 000 mètres carrés de plancher. Il s’associe donc à Parker dans la reprise de la station, et il débauche un jeune élu, adjoint au maire de Corrençon, Guillaume Ruel.

    « En tant qu’élu, j’ai aidé à trouver un promoteur et un gestionnaire pour le Clos de la Balme », admet Guillaume Ruel. « Un projet mairie », dit-il. Par la suite, il fait le lien entre Ruben Jolly et les frères Huillier, alors propriétaires majoritaires de la SEVLC.

    « Quand Tony Parker est arrivé sur le Vercors, c’est Guillaume qui lui a fait visiter le territoire, parce qu’il le connaît très bien, comme passionné de montagne et comme adjoint, raconte Thomas Guillet. Il l’avait emmené visiter le domaine. »

    Compte tenu du statut de la société, délégataire de service public, les élus de Corrençon-en-Vercors comme ceux de Villard sont appelés à donner un avis pour valider la cession des parts de la SEVLC à Tony Parker. Aussitôt le rachat signé, Guillaume Ruel est propulsé président de la SEVLC et démissionne de ses fonctions d’élu. Il prend aussi des parts dans l’entreprise. « Quand on a racheté les remontées mécaniques, je ne savais pas quelle place j’allais avoir », se justifie-t-il aujourd’hui. « Ça faisait aussi partie du deal d’avoir des acteurs locaux au conseil d’administration », commente le maire de Corrençon-en-Vercors. Ruel est présenté comme « l’enfant du pays » choisi pour diriger la station.

    Déjà gérant de deux magasins Sport 2000 sur Villard et Corrençon, Thomas Guillet a aussi racheté une entreprise gestionnaire de remontées mécaniques et de plusieurs golfs, le groupe Loisirs Solutions, en 2020, avec… l’adjointe aux finances du maire de Villard, Christelle Cuioc. Cette femme d’affaires avait candidaté à la reprise de la SEVLC avant son rachat par Tony Parker – sur une proposition inférieure à celle du basketteur.

    Le maire de Corrençon-en-Vercors a décidé de revendre ses parts et de quitter l’entreprise par crainte… d’un conflit d’intérêts. Ses partenaires au sein de Loisirs Solutions envisagent en effet désormais de candidater à la reprise de la délégation de service public des remontées mécaniques de Villard-de-Lans, qui doit être renouvelée en 2026. « Je n’étais pas favorable à ce positionnement. Et en tant que maire de la commune voisine, j’ai souhaité sortir pour éviter qu’il y ait un conflit d’intérêts. »

    L’adjointe au maire, Christelle Cuioc, reconnaît l’existence de ce projet de reprise, qui l’opposerait au groupe de Tony Parker. « C’est dans un coin de notre tête, confirme-t-elle à Mediapart. Mais d’ici là, il faudra que j’abandonne ma fonction à la mairie. On ne peut pas cumuler un poste à la mairie et une délégation de service public, c’est soit l’un, soit l’autre. »

    https://www.mediapart.fr/journal/france/261023/un-megaprojet-de-tony-parker-dans-une-station-de-ski-fait-tourner-la-tete-
    #ski #aménagement_du_territoire #Isère #résistance

  • La #géographie, c’est de droite ?

    En pleine torpeur estivale, les géographes #Aurélien_Delpirou et #Martin_Vanier publient une tribune dans Le Monde pour rappeler à l’ordre #Thomas_Piketty. Sur son blog, celui-ci aurait commis de coupables approximations dans un billet sur les inégalités territoriales. Hypothèse : la querelle de chiffres soulève surtout la question du rôle des sciences sociales. (Manouk Borzakian)

    Il y a des noms qu’il ne faut pas prononcer à la légère, comme Beetlejuice. Plus dangereux encore, l’usage des mots espace, spatialité et territoire : les dégainer dans le cyberespace public nécessite de soigneusement peser le pour et le contre. Au risque de voir surgir, tel un esprit maléfique réveillé par mégarde dans une vieille maison hantée, pour les plus chanceux un tweet ironique ou, pour les âmes maudites, une tribune dans Libération ou Le Monde signée Michel Lussault et/ou Jacques Lévy, gardiens du temple de la vraie géographie qui pense et se pense.

    Inconscient de ces dangers, Thomas Piketty s’est fendu, le 11 juillet, d’un billet de blog sur les #inégalités_territoriales (https://www.lemonde.fr/blog/piketty/2023/07/11/la-france-et-ses-fractures-territoriales). L’économiste médiatique y défend deux idées. Premièrement, les inégalités territoriales se sont creusées en #France depuis une génération, phénomène paradoxalement (?) renforcé par les mécanismes de #redistribution. Deuxièmement, les #banlieues qui s’embrasent depuis la mort de Nahel Merzouk ont beaucoup en commun avec les #petites_villes et #villages souffrant de #relégation_sociospatiale – même si les défis à relever varient selon les contextes. De ces deux prémisses découle une conclusion importante : il incombe à la #gauche de rassembler politiquement ces deux ensembles, dont les raisons objectives de s’allier l’emportent sur les différences.

    À l’appui de son raisonnement, le fondateur de l’École d’économie de Paris apporte quelques données macroéconomiques : le PIB par habitant à l’échelle départementale, les prix de l’immobilier à l’échelle des communes et, au niveau communal encore, le revenu moyen. C’est un peu court, mais c’est un billet de blog de quelques centaines de mots, pas une thèse de doctorat.

    Sus aux #amalgames

    Quelques jours après la publication de ce billet, Le Monde publie une tribune assassine signée Aurélien Delpirou et Martin Vanier, respectivement Maître de conférences et Professeur à l’École d’urbanisme de Paris – et membre, pour le second, d’ACADIE, cabinet de conseil qui se propose d’« écrire les territoires » et de « dessiner la chose publique ». Point important, les deux géographes n’attaquent pas leur collègue économiste, au nom de leur expertise disciplinaire, sur sa supposée ignorance des questions territoriales. Ils lui reprochent le manque de rigueur de sa démonstration.

    Principale faiblesse dénoncée, les #données, trop superficielles, ne permettraient pas de conclusions claires ni assurées. Voire, elles mèneraient à des contresens. 1) Thomas Piketty s’arrête sur les valeurs extrêmes – les plus riches et les plus pauvres – et ignore les cas intermédiaires. 2) Il mélange inégalités productives (le #PIB) et sociales (le #revenu). 3) Il ne propose pas de comparaison internationale, occultant que la France est « l’un des pays de l’OCDE où les contrastes régionaux sont le moins prononcés » (si c’est pire ailleurs, c’est que ce n’est pas si mal chez nous).

    Plus grave, les géographes accusent l’économiste de pratiquer des amalgames hâtifs, sa « vue d’avion » effaçant les subtilités et la diversité des #inégalités_sociospatiales. Il s’agit, c’est le principal angle d’attaque, de disqualifier le propos de #Piketty au nom de la #complexité du réel. Et d’affirmer : les choses sont moins simples qu’il n’y paraît, les exceptions abondent et toute tentative de catégoriser le réel flirte avec la #simplification abusive.

    La droite applaudit bruyamment, par le biais de ses brigades de twittos partageant l’article à tour de bras et annonçant l’exécution scientifique de l’économiste star. Mais alors, la géographie serait-elle de droite ? Étudier l’espace serait-il gage de tendances réactionnaires, comme l’ont laissé entendre plusieurs générations d’historiens et, moins directement mais sans pitié, un sociologue célèbre et lui aussi très médiatisé ?

    Pensée bourgeoise et pensée critique

    D’abord, on comprend les deux géographes redresseurs de torts. Il y a mille et une raisons, à commencer par le mode de fonctionnement de la télévision (format, durée des débats, modalité de sélection des personnalités invitées sur les plateaux, etc.), de clouer au pilori les scientifiques surmédiatisés, qui donnent à qui veut l’entendre leur avis sur tout et n’importe quoi, sans se soucier de sortir de leur champ de compétence. On pourrait même imaginer une mesure de salubrité publique : à partir d’un certain nombre de passages à la télévision, disons trois par an, tout économiste, philosophe, politologue ou autre spécialiste des sciences cognitives devrait se soumettre à une cérémonie publique de passage au goudron et aux plumes pour expier son attitude narcissique et, partant, en contradiction flagrante avec les règles de base de la production scientifique.

    Mais cette charge contre le texte de Thomas Piketty – au-delà d’un débat chiffré impossible à trancher ici – donne surtout le sentiment de relever d’une certaine vision de la #recherche. Aurélien Delpirou et Martin Vanier invoquent la rigueur intellectuelle – indispensable, aucun doute, même si la tentation est grande de les accuser de couper les cheveux en quatre – pour reléguer les #sciences_sociales à leur supposée #neutralité. Géographes, économistes ou sociologues seraient là pour fournir des données, éventuellement quelques théories, le cas échéant pour prodiguer des conseils techniques à la puissance publique. Mais, au nom de leur nécessaire neutralité, pas pour intervenir dans le débat politique – au sens où la politique ne se résume pas à des choix stratégiques, d’aménagement par exemple.

    Cette posture ne va pas de soi. En 1937, #Max_Horkheimer propose, dans un article clé, une distinction entre « #théorie_traditionnelle » et « #théorie_critique ». Le fondateur, avec #Theodor_Adorno, de l’#École_de_Francfort, y récuse l’idée cartésienne d’une science sociale détachée de son contexte et fermée sur elle-même. Contre cette « fausse conscience » du « savant bourgeois de l’ère libérale », le philosophe allemand défend une science sociale « critique », c’est-à-dire un outil au service de la transformation sociale et de l’émancipation humaine. L’une et l’autre passent par la #critique de l’ordre établi, dont il faut sans cesse rappeler la contingence : d’autres formes de société, guidées par la #raison, sont souhaitables et possibles.

    Quarante ans plus tard, #David_Harvey adopte une posture similaire. Lors d’une conférence donnée en 1978 – Nicolas Vieillecazes l’évoque dans sa préface à Géographie de la domination –, le géographe britannique se démarque de la géographie « bourgeoise ». Il reproche à cette dernière de ne pas relier les parties (les cas particuliers étudiés) au tout (le fonctionnement de la société capitaliste) ; et de nier que la position sociohistorique d’un chercheur ou d’une chercheuse informe inévitablement sa pensée, nécessitant un effort constant d’auto-questionnement. Ouf, ce n’est donc pas la géographie qui est de droite, pas plus que la chimie ou la pétanque.

    Neutralité vs #objectivité

    Il y a un pas, qu’on ne franchira pas, avant de voir en Thomas Piketty un héritier de l’École de Francfort. Mais son texte a le mérite d’assumer l’entrelacement du scientifique – tenter de mesurer les inégalités et objectiver leur potentielle creusement – et du politique – relever collectivement le défi de ces injustices, en particulier sur le plan de la #stratégie_politique.

    S’il est évident que la discussion sur les bonnes et les mauvaises manières de mesurer les #inégalités, territoriales ou autres, doit avoir lieu en confrontant des données aussi fines et rigoureuses que possible, ce n’est pas manquer d’objectivité que de revendiquer un agenda politique. On peut même, avec Boaventura de Sousa Santos, opposer neutralité et objectivité. Le sociologue portugais, pour des raisons proches de celles d’Horkheimer, voit dans la neutralité en sciences sociales une #illusion – une illusion dangereuse, car être conscient de ses biais éventuels reste le seul moyen de les limiter. Mais cela n’empêche en rien l’objectivité, c’est-à-dire l’application scrupuleuse de #méthodes_scientifiques à un objet de recherche – dans le recueil des données, leur traitement et leur interprétation.

    En reprochant à Thomas Piketty sa #superficialité, en parlant d’un débat pris « en otage », en dénonçant une prétendue « bien-pensance de l’indignation », Aurélien Delpirou et Martin Vanier désignent l’arbre de la #rigueur_intellectuelle pour ne pas voir la forêt des problèmes – socioéconomiques, mais aussi urbanistiques – menant à l’embrasement de banlieues cumulant relégation et stigmatisation depuis un demi-siècle. Ils figent la pensée, en font une matière inerte dans laquelle pourront piocher quelques technocrates pour justifier leurs décisions, tout au plus.

    Qu’ils le veuillent ou non – et c’est certainement à leur corps défendant – c’est bien la frange réactionnaire de la twittosphère, en lutte contre le « socialisme », le « wokisme » et la « culture de l’excuse », qui se repait de leur mise au point.

    https://blogs.mediapart.fr/geographies-en-mouvement/blog/010823/la-geographie-cest-de-droite

  • I #villani

    2018, dans un monde dominé par l’agriculture et la pêche industrielle, nous allons suivre aux quatre coins de l’Italie, quatre #paysans et deux #pêcheurs qui ont décidé de pratiquer leur métier comme autrefois, dans le respect de la nature. Depuis #Alcamo en #Sicile nord occidentale avec Salvatore, à #Baselice au cœur de la #Campanie avec Modesto, à #Trambileno dans le #Trentin avec Luigina, jusqu’au port du vieux #Tarente avec les frères Galasso, nous découvrons des réalités d’aujourd’hui qui nous sont totalement inconnues. Des paysans libres qui ne suivent pas les règles imposées par l’Union européenne et ses lois liberticides qui assassinent la biodiversité, pour produire leurs fromages, leurs tomates, leurs confitures ou bien leurs moules. Le point commun entre tous ces travailleurs, c’est cette volonté de bien faire, cet amour pour leur métier, ce respect pour la nature dont ils dépendent ainsi que les conditions de vie bien difficiles qui en découlent. Il y a en filigrane la voix off de ce vigneron Lombard, Lino Maga, qui relie les destins croisés de ces survivants dont il faut espérer qu’ils feront des émules.

    « Pour bien manger, il faut respecter un certain rythme : celui de la cuisine, des saisons. Il faut aussi respecter la terre et la mer, tout ce que la modernité en réalité ne fait plus. C’est ainsi que naît cette nouvelle exigence : vivre comme autrefois dans notre temps présent. En quinze ans de travail, à travers mes livres et mes spectacles, j’ai essayé de montrer les liens entre la cuisine et l’art, de dire ce que représentait pour moi la cuisine. Ce qui m’émeut et que je veux partager, c’est l’existence de ces personnes qui sont capables de créer des gestes et de construire autour un savoir vivant. Leur existence est primordiale. Le documentaire est l’instrument qui peut permettre que cette rencontre se réalise : je ne renonce pas à mon point de vue mais celui-ci se fond dans leur réalité. »

    https://festival-villerupt.com/title-item/i-villani

    #film #documentaire #film_documentaire
    #Italie #agriculture #portraits #

  • Le #Lyon-Turin menace les #sources de la #Maurienne

    Sources taries, #nappes_phréatiques en baisse soudaine… Les travaux de la #ligne_ferroviaire Lyon-Turin entraînent des perturbations du #cycle_de_l’eau en Maurienne, ce qui inquiète les montagnards et les écologistes.

    Les orages sont fréquents en cette mi-juin en #Haute-Maurienne. L’herbe y est d’un vert profond, complétée par des touches de couleurs des coquelicots et autres fleurs de cette fin de printemps. Le débit de l’#Arc, la #rivière qui creuse lentement le fond de vallée, est important. Et pourtant la possibilité d’un manque d’eau inquiète, en raison des travaux du #tunnel_ferroviaire Lyon-Turin.

    Cette angoisse remonte à 2003. Il y a 20 ans, les premières galeries commençaient à être creusées dans la #montagne, des descenderies qui doivent permettre de ventiler, d’assurer la maintenance ou de servir d’issues de secours. De petits travaux en comparaison aux grands tubes qui permettront de faire passer les trains. Mais qui ont suffi à tarir d’un coup une source du village de #Villarodin-Bourget.

    « Pour ramener l’eau dans les fontaines du village, les promoteurs ont dû réaliser un captage et construire 5 kilomètres de tuyauterie », explique Gilles Margueron, le maire de la commune depuis 2008. Évidemment, l’eau de la source n’a pas disparu. En l’état actuel des travaux, elle ressort dans l’Arc, juste en dessous du village.

    « Mais quand les travaux seront achevés et le tunnel creusé, l’eau ressortira à #Saint-Jean-de-Maurienne, [à 30 kilomètres de là]. En gros, l’eau qui était chez nous ne sera plus chez nous. » La #qualité_de_l’eau en prend aussi un coup, l’eau de source étant de meilleure qualité que l’eau de l’Arc.

    Depuis 2003, le sujet de l’eau est parfois tombé presque dans l’oubli, avant de ressurgir avec plus de force encore au fur et à mesure que le dérèglement climatique resserre son emprise en montagne. Actuellement, la végétation est resplendissante, sans que ce soit le signe de nappes phréatiques pleines ni d’absence de difficultés cet été.

    « L’été dernier, nous avons eu des restrictions d’eau avec interdiction d’arroser les jardins en journée, rappelle Brigitte [*], venue voir l’avancée des travaux sur les bords de l’Arc. Alors quand on voit que les travaux assèchent des sources… » Quant aux glaciers, ces véritables réservoirs d’eau pour l’été ne cessent de se réduire avec l’augmentation des températures.

    Ces inquiétudes ont bien été cernées par les organisateurs de la manifestation du 17 et 18 juin contre la liaison ferroviaire Lyon-Turin. Sur leur site, les Soulèvements de la Terre, l’une des associations organisatrices, tape fort : « Le #drainage de 100 millions de m³ [d’eau] souterraine chaque année [est] à prévoir, asséchant de façon irrémédiable la montagne. Si l’eau c’est la vie, alors c’est bien au droit à vivre des populations locales que ce projet s’attaque… »

    Un mot d’ordre partagé par Philippe Delhomme, président de l’association locale #Vivre_et_Agir_en_Maurienne. « En mettant en avant ce thème de l’eau, on peut toucher plus de monde », renchérit-il, en ne décollant presque pas les yeux de son téléphone portable, qui vibre continuellement au gré des messages et appels qu’il reçoit pour l’organisation de la manifestation.

    « C’est un thème que nous avons en commun avec les Soulèvements de la Terre, qui se sont fait connaître sur des thèmes liés à l’agriculture, notamment les mégabassines », continue-t-il.

    Déboucher la baignoire

    Pour bien faire comprendre comment un réseau de galeries fait craindre un #assèchement de la montagne, une comparaison circule beaucoup dans la vallée : imaginez que vous remplissiez une baignoire bouchée de pierres et de gravats, puis que vous y mettiez de l’eau. Quand le niveau est bas, l’eau reste invisible. Ce n’est que quand elle a rempli tous les interstices et qu’elle déborde de la baignoire qu’on peut la voir.

    C’est la même chose en montagne : les sources sont la manifestation de ce trop plein. Mais si vous enlevez le bouchon au fond de la baignoire, l’eau va être drainée. Adieu les sources. Plusieurs habitants craignent que les tunnels du Lyon-Turin produisent le même effet.

    Un tiers d’eau en moins dans la #nappe_phréatique

    D’autant que ce phénomène est bien connu des chercheurs et des industriels qui travaillent sur des tunnels. Si chaque montagne est différente, quasiment toutes regorgent d’eau, notamment dans des failles que le tunnel peut traverser et qui, si elles ne sont pas bouchées, peuvent agir comme ce bouchon qu’on enlève au fond de la baignoire.

    Une véritable vidange qui se serait produite à #Orelle, un village de la vallée, situé entre Saint-Michel-de-Maurienne et Modane. Selon le maire de Villarodin-Bourget, Gilles Margueron, le niveau d’une nappe phréatique dans laquelle le village puise son eau potable aurait diminué d’un tiers, sans autre explication. Si ce n’est que le creusement des tunnels progresse.

    Jean-Louis est installé un peu plus loin dans la vallée. Il possède des terres à Bramans et emmène ses 80 vaches laitières, productrices de lait à Beaufort, dans des alpages sur les pentes du Mont Cenis. Le tunnel doit passer juste en dessous.

    « J’ai deux chalets alimentés par des sources qui sont au niveau du tracé, raconte l’agriculteur. On ne sait pas d’où proviennent ces sources exactement. On a donc très peur qu’elles se tarissent quand le tunnel arrivera à notre niveau. Et je ne pense pas qu’ils pourront résoudre le problème par un captage plus haut, comme à Villarodin-Bourget, car cela voudrait dire réaliser des dizaines de kilomètres de tuyaux. »

    L’eau, « une ressource à protéger »

    Si le promoteur du projet, #Telt, pour #Tunnel_euralpin_Lyon-Turin, assure sur son site que l’eau « est une ressource à protéger » et qu’une cartographie a été mise en place pendant la phase de conception pour limiter les dégâts, les opposants l’accusent de ne pas faire assez.

    « Depuis 2003, les dégâts sur l’eau ont été systématiquement minimisés. En vue des mesures qui sont faites, on ne peut pas dire que ces travaux vont tarir toutes les sources. Ni dire qu’il n’y aura aucun problème. Selon moi, le principe de précaution doit donc s’appliquer », explique longuement un scientifique local, qui préfère rester anonyme. Un signe des tensions qui traversent la vallée sur le sujet du Lyon-Turin.

    « Les défenseurs du Lyon Turin pointent parfois les changements climatiques comme cause de la baisse d’une nappe ou du débit d’un ruisseau. Si on avait des données globales qui montrent que ce niveau baisse dans toute la vallée, pourquoi pas, continue ce scientifique. Mais quand une source se tarit d’un coup, ce n’est pas la même chose. »

    « Si, à la rigueur, il n’y avait pas de ligne ferroviaire déjà existante pour traverser les Alpes… Mais il y en a déjà une ! » rappelle Yann, un habitant brin défaitiste, rencontré en train de siroter une bière à un bar non loin du chantier. « Jusqu’à pas longtemps, je me sentais hyper protégé du dérèglement climatique en montagne. Mais là, quand je vois les difficultés qu’on a déjà et celles ajoutées par le Lyon-Turin… »

    https://reporterre.net/L-eau-preoccupation-centrale-du-Lyon-Turin
    #no_TAV #no-tav #eau

  • Assises « Vers des Villes sans Voitures »
    http://carfree.fr/index.php/2023/05/26/assises-vers-des-villes-sans-voitures

    En octobre 1997, environ 65 militants provenant de 21 pays différents se sont retrouvés durant une semaine à #lyon en France pour organiser les « Assises Vers des Villes sans Voitures. » Lire la suite...

    #Alternatives_à_la_voiture #Fin_de_l'automobile #Îles_sans_voitures #Marche_à_pied #Quartiers_sans_voitures #Ressources #Transports_publics #Vélo #Vie_sans_voiture #Villages_sans_voitures #Ville_sans_voitures #actions #activisme #conférence #Europe #histoire #ville

  • Editions de la Roue, De la démocratie villageoise à la démocratie directe, 2014
    https://sniadecki.wordpress.com/2022/12/15/laroue-democratie

    Un long chapitre du livre La Lampe hors de l’horloge,
    Éléments de critique anti-industrielle
    , sur la commune villageoise, la démocratie, notamment sur la période du moyen âge. Avec pas mal de pendule à l’heure sur des mythes du moyen âge.

    La forme d’organisation la plus commune à l’intérieur de cette civilisation paysanne fut donc la «  démocratie villageoise  », c’est-à-dire la manière collective de diriger les affaires communes, privilégiant à peu près partout dans le monde les mêmes valeurs : travaux collectifs, usages collectifs des communaux, solidarités mutuelles et fêtes ritualisant les dons et contre-dons afin de réduire le plus possible les inégalités. On pourrait, en allant vite, définir cette «  démocratie villageoise  » comme une autogestion des us et coutumes liés à une vie de terrien : une manière d’habiter sur Terre avec la terre. Dans ce contexte :

    «  le village c’est donc tout simplement et d’abord un certain cadre monumental qui exprime les relations sociales des villageois et la nature de leurs solidarités.  » [12]

    Les villageois mettent en commun tous les instruments aussi bien domestiques que laborieux au sein du finage, qui est le territoire nourricier de la collectivité. L’exploitation de parcelles non contiguës ainsi que la création de la place publique favorisent la rencontre et la sociabilité. Les terres non labourées sont la propriété collective, le droit de pâture est réglementé collectivement, les troupeaux sont regroupés et surveillés par des bergers communs la plupart du temps. L’assolement et les dates de moisson sont décidés communautairement, la moisson est également effectuée en commun et le battage est réalisé sur l’aire du village. Les redevances sont calculées sur le manse, qui est l’unité de mesure, et non sur le nombre de ses différents occupants (familles, compagnons), qui se nomment les socii. Solidairement responsables, ils se répartissent l’impôt. En Languedoc pyrénéen, les manses s’appelaient «  mas  » ou «  mazades  » et constituaient des hameaux dont les parçonniers [13] persistèrent pendant des siècles à posséder la terre en commun, jusqu’au XIXe siècle et même au début du XXe.

    #Histoire #moyen_âge #démocratie #village #commune #communauté #démocratie_directe

  • Santiago, Italia

    Le documentaire rend compte à travers des documents d’époque et des témoignages, de l’activité de l’ambassade Italienne à Santiago lors des mois qui ont suivi le coup d’état de Pinochet le 11 septembre 1973 mettant fin au régime démocratique de Salvador Allende2. L’ambassade a donné refuge à des centaines d’opposants au régime du général Pinochet, leur permettant ensuite de rejoindre l’Italie3.

    https://fr.wikipedia.org/wiki/Santiago,_Italia
    #film #documentaire #film_documentaire

    #Chili #Santiago #Unidad_Popular #Allende #histoire #mémoire #socialisme_humaniste_et_démocratique #marxisme #cuivre #nationalisme #prix_bloqués #médias #démocratie #coup_d'Etat #dictature #témoignage #terreur #climat_de_peur #peur #enfermement #MIR #torture #stade #Villa_Grimaldi #disparitions #ambassade_d'Italie #ambassades #réfugiés #réfugiés_chiliens #solidarité

  • Gérald Darmanin à Nice : les messages féministes d’une librairie cachés par des policiers lors de sa visite - ladepeche.fr
    https://www.ladepeche.fr/2022/12/09/gerald-darmanin-a-nice-les-messages-feministes-dune-librairie-caches-par-d

    Une librairie de Nice a vu sa vitrine recouverte d’un panneau noir ce vendredi 9 décembre, en marge de la visite de Gérald Darmanin. La vitrine comportait des messages féministes.

    • A Nice, une librairie féministe fermée de force pendant la visite de Gérald Darmanin
      https://www.lemonde.fr/politique/article/2022/12/14/a-nice-une-librairie-feministe-fermee-de-force-pendant-la-visite-de-gerald-d

      Mardi 13 décembre, la librairie niçoise et Hélène Devynck ont saisi la justice. Leur avocate, Lorraine Questiaux, a déposé une requête au tribunal administratif de Nice sollicitant l’annulation de la décision qui a mené à l’opération de police. Elle souhaite obtenir la reconnaissance de « l’illégalité » de cette décision, qui découle, selon elle, d’ « un détournement de pouvoir ». Hasard du calendrier : au même moment, la cour d’appel de Paris examinait l’appel de Sophie Patterson-Spatz contre le non-lieu prononcé en faveur de Gérald Darmanin dans l’enquête pour « #viol ».

      « On est vraiment dans le fait du prince, dans des agissements qui relèvent plus des régimes tyranniques. Ce degré d’atteinte là est relativement inédit », estime Lorraine Questiaux. La requête relève une atteinte pour la librairie quant à « l’exercice de sa liberté d’expression en censurant les messages figurant en vitrine », et, d’autre part, « [celle] de sa liberté de commerce, puisque l’opération de police s’est soldée par une fermeture forcée de l’établissement durant plusieurs heures », en pleine période de Noël.

      De son côté, Hélène Devynck en sourirait presque. « Tant d’efforts pour une tartufferie… Si le féminisme n’était pas politique, on n’aurait pas ce genre de scène. Visiblement, le mot impunité déplaît. Il doit avoir une certaine force… » Avant de finir : « On pourrait même en rire, si seulement ils n’imposaient pas leur noirceur. »
      « Quand on sait que la libération de la parole des femmes est largement contestée par une partie réactionnaire de la société, une telle censure a un effet sur toutes les femmes », ajoute Me Questiaux, qui y voit une menace pour la liberté d’expression. « C’est quoi, la prochaine ? Maintenant, à chaque fois qu’un ministre se rend près d’une librairie où il y a des livres qui ne lui plaisent pas, il va falloir la cacher ? » Dans sa requête, l’avocate rappelle que la protection de la liberté d’expression est « renforcée » dès lors qu’elle s’inscrit « dans le contexte d’une expression de nature politique ». La décision devrait être rendue dans les prochaines semaines.

      #Gérald_Darmanin #Darmanin #impunité #féminisme

  • La Dordogne sans #pétrole
    http://carfree.fr/index.php/2022/08/05/la-dordogne-sans-petrole

    Le département de la Dordogne et TER Nouvelle-Aquitaine publient un topo-guide pour visiter la Dordogne #sans_voiture. « La Dordogne sans pétrole » propose 21 circuits à faire à pied ou à Lire la suite...

    #Fin_du_pétrole #Guides #Ressources #Vie_sans_voiture #Villages_sans_voitures #alternatives #guide #Vivre_sans_voiture

  • Le gouvernement s’accorde sur une capacité d’#urgence via la Défense pour l’accueil des demandeurs d’asile

    Le gouvernement s’est accordé mercredi sur des mesures qui doivent soulager le réseau d’accueil des demandeurs d’asile saturé depuis plusieurs semaines, a annoncé la secrétaire d’État à l’Asile, Nicole de Moor, en commission de la Chambre. “La situation est urgente”, a-t-elle ajouté dans un communiqué.

    Pour permettre un accueil d’urgence, la Défense sera mise à contribution à court terme pour fournir une capacité de 750 places d’urgence dans les quartiers militaires et ensuite, à plus long terme, 750 places dans des villages de #conteneurs. Un appel sera par ailleurs lancé à l’adresse des communes et aux ONG afin qu’elles fournissent des #initiatives_locales d’accueil et des places collectives.

    750 #abris_temporaires

    Dans la première phase, la Défense fournira 750 #abris temporaires dans des #hangars, avec des installations sanitaires mobiles si nécessaire, a précisé la ministre de la Défense, Ludivine Dedonder. Les hangars seront compartimentés afin d’offrir un #confort_de_base aux demandeurs d’asile. La #restauration sera assurée provisoirement par la #Défense, dans l’attente d’un contrat structurel de restauration. Dans cette phase, la Défense fournit l’infrastructure, Fedasil en coopération éventuelle avec des ONG sera responsable de l’exploitation des centres d’accueil temporaires avec du personnel qualifié.

    Village de conteneurs

    Dans la deuxième phase, la Défense utilisera des contrats-cadres existants pour construire un #village_de_conteneurs de 750 places d’accueil. L’emplacement de ce village de conteneurs sera bientôt déterminé en fonction de la présence de commodités de base telles que l’eau et l’électricité. La Défense assurera la coordination de la logistique et de la construction du village de conteneurs. Là encore, Fedasil se chargera du fonctionnement du centre d’accueil.
    Structures adaptées ou adaptables

    Dans la troisième et dernière phase, la Régie des bâtiments est chargée de trouver des infrastructures adaptées ou adaptables pour accueillir des familles.

    “Aujourd’hui, la Défense est à nouveau sollicitée pour désamorcer une crise. Même si la Défense fait aujourd’hui face à des défis internes majeurs et qu’elle est en pleine reconstruction et transformation, le département est toujours présent pour définir une méthode de travail et un cadre pour désamorcer la crise d’accueil”, a souligné la ministre. Celle-ci a rappelé que son département fournissait déjà 6.000 places d’accueil, soit 20% de la capacité d’accueil totale du pays.
    Dissuader des demandeurs présents en Europe

    Le gouvernement intensifiera par ailleurs les #campagnes cherchant à dissuader des demandeurs qui se trouvent dans d’autres États membres de l’UE d’entamer une nouvelle procédure en Belgique. Plus de 50 % des demandes d’asile ont déjà une demande correspondante dans un autre État membre de l’UE, dont les Pays-Bas, la France et l’Allemagne. Un centre “Dublin” -en référence à la procédure européenne qui détermine le pays européen, et lui seul, compétent pour examiner une demande d’asile- sera aménagé dans un centre existant à #Zaventem, avec une capacité de 220 personnes. Il devra faciliter le #retour des demandeurs dans le pays de leur premier enregistrement.

    “La pression de l’asile devient énorme dans notre pays si les demandeurs d’asile ne retournent pas dans le premier pays d’arrivée de l’UE”, a insisté Mme de Moor.

    Afin d’accélérer le flux sortant de demandeurs, ceux qui ont un emploi pourront sortir des centres d’accueil et libérer de la sorte de la place pour les autres. Le Commissariat Général aux Réfugiés et Apatrides (CGRA) est appelé à prendre davantage de décisions. Leur nombre devrait se situer entre 2.200 et 2.500 par mois alors qu’il s’établissait à une moyenne de 1.600 entre janvier et mai. L’instance qui se prononce sur les demandes d’asile œuvrait déjà à un plan visant augmenter les décisions. Des recrutements sont également en cours.

    Grâce à ces mesures, le gouvernement entend éviter le paiement d’astreintes prononcées par la justice parce que des demandeurs d’asile resteraient à la rue, a encore précisé la secrétaire d’État. “Le contribuable ne veut pas voir son argent servir à payer des astreintes”.

    https://www.7sur7.be/belgique/le-gouvernement-s-accorde-sur-une-capacite-d-urgence-via-la-defense-pour-laccu

    #renvois #Dublin #centre_Dublin #règlement_Dublin #armée

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    Commentaire reçu via la mailing-list Migreurop :

    La Belgique, condamnée depuis la fin de l’année 2021 par la justice pour le non-accueil des demandeur.se.s d’asile, a finalement trouvé une « solution d’urgence » afin de faire face à cette crise.

    La solution ? Passer par l’armée belge et utiliser les hangars disponibles de la Défense afin de les aménager sommairement et de fournir un toit à plusieurs centaines de personnes.

    Cette réponse est censée être de courte durée et restera en place le temps d’installer un village de containers pouvant abriter 750 personnes. Une sorte d’encampement organisé et voulu par les autorités belges...

    Autre mesure prévue : le rassemblement des demandeur.se.s d’asile Dublin en un lieu unique, à proximité de l’aéroport de Bruxelles, et ce afin de faciliter leur expulsion vers le pays de prise en charge. Il deviendra bientôt difficile de faire la différence entre les centres d’accueil, supposés être des lieux ouverts pour demandeur.se.s d’asile et les centres fermés, ces lieux de détention administrative, entourés de barbelés et surmontés de miradors.

    #encampement #Belgique #accueil #réfugiés #migrations #asile #campagne #dissuasion

    ping @isskein @karine4

  • « #Lausanne doit reconnaître son passé colonialiste »

    En lutte contre une inscription problématique sur un immeuble du #Flon, au centre-ville de Lausanne, #Samson_Yemane va plus loin : le conseiller communal socialiste demande à la Municipalité de réaliser un #état_des_lieux du #passé_colonialiste de la cité olympique.

    Les questions relatives à la migration ne sont pas qu’un dossier politique pour Samson Yemane : c’est l’histoire de la vie du conseiller communal lausannois. Le socialiste n’avait que « 12 ou 13 ans » lorsqu’il a fui l’Érythrée en direction de la Libye puis de l’Europe. Sur un bateau.

    Aujourd’hui bientôt trentenaire et naturalisé, le Vaudois travaille à l’Organisation suisse d’aide aux réfugiés et s’est beaucoup engagé dans la votation sur Frontex, l’agence européenne de protection des frontières dont il a fait le sujet de son mémoire de master.

    Malheureux de l’issue de la votation sur le plan fédéral, Samson Yemane essaie d’agir à son échelle : celle de sa commune de Lausanne. Il vient de déposer un postulat pour rendre la capitale vaudoise « inclusive et non-discriminante ». Interview.

    Vous écrivez que Lausanne a directement participé, voire contribué à l’#esclavage et au #colonialisme. À quoi faites-vous référence ?
    C’est là tout l’enjeu : la population n’a pas du tout conscience qu’au début du XXe siècle encore et même jusqu’à la Seconde Guerre mondiale, il y avait des « #zoos_humains » au coeur de Lausanne. La Suisse a accueilli des dizaines de « #villages_nègres » et autres exhibitions exotiques, pour le plus grand plaisir des habitants. Il y a donc un immense devoir de mémoire et de #visibilisation.

    Votre #postulat a pour point de départ le travail d’une étudiante sur une devanture au Flon. Or, la régie voulait justement faire retrouver au bâtiment son visage d’origine. N’est-ce pas précisément un travail de mémoire ?
    Où est l’importance historique de cette inscription ? Elle avait été effacée et, là, on la fait renaître sans contexte, sans explication. Il s’agit purement de #racisme_ordinaire, et c’est pour cela que j’ai pris autant cette histoire à cœur : elle mérite que des mesures soient prises.

    Par exemple ?
    Tout dépend du contexte. Pour cette inscription, beaucoup de gens sont pour qu’elle soit effacée, car elle n’a pas vraiment d’utilité et elle heurte les personnes concernées. De manière générale, je milite pour qu’un état des lieux soit réalisé sur le passé colonial de Lausanne. Cela peut prendre plusieurs formes (conférence, discussion, etc.), mais devrait impérativement inclure des personnes compétentes dans ces sujets-là.

    Jusqu’où cela peut-il aller ? Le stade #Pierre_de_Coubertin (ndlr : notoirement raciste, persuadé de la supériorité des Blancs sur les Noirs) doit-il être rebaptisé, selon vous ?
    C’est un bon contre-exemple : dans ce cas, ce lieu a un important #héritage_historique. Le rebaptiser serait contre-productif et ne serait pas compris par la population. Je ne suis pas pour réécrire l’histoire, ni pour créer une polémique, mais pour sensibiliser les Lausannois : pourquoi ne pas mettre une mention sur place, ou réaliser quelque chose au Musée olympique par exemple ?

    N’est-ce pas un peu infantilisant, comme démarche ? Faut-il vraiment une intervention du monde politique ?
    Il y a toujours des combats plus importants que d’autres, mais celui-ci est très légitime à mes yeux. Cette inscription heurte beaucoup de monde, et le vivre-ensemble est primordial, surtout au niveau communal. Plusieurs études scientifiques prouvent que reconnaître notre passé colonial nous amène à consolider notre #cohésion_sociale. D’autres villes (Berne, Zurich, Genève...) ont d’ailleurs fait cet exercice.

    Lausanne dispose déjà pour cela d’un Bureau lausannois pour les immigrés (BLI), avec notamment une permanence contre le racisme. Vous voulez aller plus loin ?
    Mon postulat s’inscrit précisément dans ce contexte. Le travail du BLI est crucial et contribue intellectuellement à notre cohésion sociale. Je veux encourager la Municipalité à mettre l’accent sur l’histoire coloniale. Je l’ai vu avec les réactions après votre premier article : c’est un sujet tabou, très clivant et qui fait parler tout le monde. Un débat public éclairé n’en sera que plus bénéfique. « Décoloniser » l’espace public ne vise en aucun cas à falsifier l’histoire de notre commune — au contraire, le but est de reconnaître les faits historiques et de sensibiliser.

    #Mobimo « comprend la polémique »

    Informée par la Ville que l’#inscription « #Magasin_de_denrées_coloniales » du Flon faisait débat, la régie propriétaire du bâtiment assure à Blick qu’elle avait comme « unique perspective un rappel purement historique de la fonctionnalité du bâtiment ».

    C’est pour cette raison que Mobimo a voulu restituer le nom des enseignes présentes au Flon comme au début du XXe siècle. « Nous comprenons les sensibilités actuelles et sommes conscient des préoccupations de notre société face à des faits socio-historiques ainsi qu’à la portée sémantique des mots », assure Hélène Demont, porte-parole pour la Suisse romande.

    Mobimo estime qu’en tant qu’acteur économique, elle n’a « pas la légitimité de porter un jugement sur des faits historiques se rapportant à l’inscription ». Mais elle veut la replacer dans son contexte avec une notice explicative, et se conformera à la décision de la Ville si un effacement venait à être décidé.

    https://www.blick.ch/fr/news/suisse/le-combat-de-samson-yemane-lausanne-doit-reconna-tre-son-passe-colonialiste-id
    #histoire #Suisse #colonisation

    ping @cede

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    ajouté à la métaliste sur le #colonialisme_suisse :
    https://seenthis.net/messages/868109

  • « Le village de Bamboula »
    https://france3-regions.francetvinfo.fr/pays-de-la-loire/loire-atlantique/documentaire-le-village-de-bamboula-l-indecence-pavee-d
    https://france3-regions.francetvinfo.fr/image/3NncEZFWJqyMu7as5_EF3t5RJ88/930x620/regions/2022/01/04/61d4abc9433bd_1-le-village-de-bamboula-c-yves-forestier

    En 1994, 25 hommes, femmes et enfants ont vécu six mois retenus dans un parc animalier à Port Saint-Père dans la relative indifférence de la société de l’époque, avec la bénédiction des pouvoirs publics. Cette histoire est liée à celle d’un biscuit chocolaté vendu dans les années 80 : Bamboula.

    j’ignorais totalement cette histoire, on m’a parlé du #docu le we dernier

    #zoo_humain

  • En #aveyron, une #association explore des #Alternatives_à_la_voiture
    http://carfree.fr/index.php/2022/03/31/en-aveyron-une-association-explore-des-alternatives-a-la-voiture

    Fondée en 2018 à Castelnau-Pégayrols, un petit village de montagne, l’association In’VD milite pour sortir les territoires ruraux de leur #dépendance à la voiture individuelle. Franceinfo réalise en ce moment Lire la suite...

    #Fin_de_l'automobile #Vie_sans_voiture #Villages_sans_voitures #alternatives #campagne #millau #Vivre_sans_voiture

  • Difficult Heritage

    The Royal Institute of Art in Stockholm and the University of Basel are collaborating in the organization of the international summer program Difficult Heritage. Coordinated by the Decolonizing Architecture Course from Sweden and the Critical Urbanism course from Switzerland, the program takes place at #Borgo_Rizza (Syracuse, Italy) from 30 August to 7 September 2021, in coordination with Carlentini Municipality, as well as the local university and associations.
    The program is constituted by a series of lectures, seminars, workshop, readings and site visits centered around the rural town of Borgo Rizza, build in 1940 by the ‘#Ente_della_colonizzazione’ established by the fascist regime to colonize the south of Italy perceived as backward and underdeveloped.
    The town seems a perfect place for participants to analyze, reflect and intervene in the debate regarding the architectural heritage associated to painful and violent memories and more broadly to problematize the colonial relation with the countryside, especially after the renew attention due the pandemic.
    The summer program takes place inside the former ‘entity of colonization’ and constitutes the first intensive study period for the Decolonizing Architecture Advanced Course 2020/21 participants.

    https://www.youtube.com/watch?v=x0jY9q1VR3E

    #mémoire #héritage #Italie #Sicile #colonialisme #Italie_du_Sud #fascisme #histoire #architecture #Libye #Borgo_Bonsignore #rénovation #monuments #esthétique #idéologie #tabula_rasa #modernisation #stazione_sperimentale_di_granicoltura #blé #agriculture #battaglia_del_grano #nationalisme #grains #productivité #propagande #auto-suffisance #alimentation #Borgo_Cascino #abandon #ghost-town #villaggio_fantasma #ghost_town #traces #conservation #spirale #décolonisation #défascistisation #Emilio_Distretti

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

    via @cede qui l’a aussi signalé sur seenthis : https://seenthis.net/messages/953432

    • Architectural Demodernization as Critical Pedagogy: Pathways for Undoing Colonial Fascist Architectural Legacies in Sicily

      The Southern question

      In 1952, #Danilo_Dolci, a young architect living and working in industrial Milan, decided to leave the North – along with its dreams for Italy’s economic boom and rapid modernization – behind, and move to Sicily. When he arrived, as he describes in his book Banditi a Partinico (The Outlaws of Partinico, 1956), he found vast swathes of rural land brutally scarred by the war, trapped in a systematic spiral of poverty, malnutrition and anomie. After twenty years of authoritarian rule, Italy’s newly created democratic republic preserved the ‘civilising’ ethos established by the fascist regime, to develop and modernize Sicily. The effect of these plans was not to bridge the gap with the richer North, but rather, to usher in a slow and prolonged repression of the marginalised poor in the South. In his book, as well as in many other accounts, Dolci collected the testimonies of people in Partinico and Borgo di Trappeto near Trapani, western Sicily.1, Palermo: Sellerio Editore, 2009.] Living on the margins of society, they were rural labourers, unemployed fishermen, convicted criminals, prostitutes, widows and orphans – those who, in the aftermath of fascism, found themselves crushed by state violence and corruption, by the exploitation of local notables and landowners, and the growing power of the Mafia.

      Dolci’s activism, which consisted of campaigns and struggles with local communities and popular committees aimed at returning dignity to their villages, often resulted in confrontations with the state apparatus. Modernization, in this context, relied on a carceral approach of criminalisation, policing and imprisonment, as a form of domestication of the underprivileged. On the one hand, the South was urged to become like the North, yet on the other, the region was thrown further into social decay, which only accelerated its isolation from the rest of the country.

      The radical economic and social divide between Italy’s North and South has deep roots in national history and in the colonial/modern paradigm. From 1922, Antonio Gramsci branded this divide as evidence of how fascism exploited the subaltern classes via the Italian northern elites and their capital. Identifying a connection with Italy’s colonisation abroad, Gramsci read the exploitation of poverty and migrant labour in the colonial enterprise as one of ‘the wealthy North extracting maximum economic advantage out of the impoverished South’.2 Since the beginning of the colonisation of Libya in 1911, Italian nationalist movements had been selling the dream of a settler colonial/modern project that would benefit the underprivileged masses of southern rural laborers.

      The South of Italy was already considered an internal colony in need of modernization. This set the premise of what Gramsci called Italy’s ‘Southern question’, with the southern subalterns being excluded from the wider class struggle and pushed to migrate towards the colonies and elsewhere.3 By deprovincialising ‘the Southern question’ and connecting it to the colonial question, Gramsci showed that the struggle against racialised and class-based segregation meant thinking beyond colonially imposed geographies and the divide between North and South, cities and countryside, urban labourers and peasants.

      Gramsci’s gaze from the South can help us to visualise and spatialise the global question of colonial conquest and exploitation, and its legacy of an archipelago of colonies scattered across the North/South divide. Written in the early 1920s but left incomplete, Gramsci’s The Southern Question anticipated the colonizzazione interna (internal colonization) of fascism, motivated by a capital-driven campaign for reclaiming arable land that mainly effected Italy’s rural South. Through a synthesis of monumentalism, technological development and industrial planning, the fascist regime planned designs for urban and non-urban reclamation, in order to inaugurate a new style of living and to celebrate the fascist settler. This programme was launched in continuation of Italy’s settler colonial ventures in Africa.

      Two paths meet under the roof of the same project – that of modernization.

      Architectural colonial modernism

      Architecture has always played a crucial role in representing the rationality of modernity, with all its hierarchies and fascist ramifications. In the Italian context, this meant a polymorphous and dispersed architecture of occupation – new settlements, redrawn agricultural plots and coerced migration – which was arranged and constructed according to modern zoning principles and a belief in the existence of a tabula rasa. As was the case with architectural modernism on a wider scale, this was implemented through segregation and erasure, under the principle that those deemed as non-modern should be modernized or upgraded to reach higher stages of civilisation. The separation in the African colonies of white settler enclaves from Indigenous inhabitants was mirrored in the separation between urban and rural laborers in the Italian South. These were yet another manifestation of the European colonial/modern project, which for centuries has divided the world into different races, classes and nations, constructing its identity in opposition to ‘other’ ways of life, considered ‘traditional’, or worse, ‘backwards’. This relation, as unpacked by decolonial theories and practices, is at the core of the European modernity complex – a construct of differentiations from other cultures, which depends upon colonial hegemony.

      Taking the decolonial question to the shores of Europe today means recognising all those segregations that also continue to be perpetuated across the Northern Hemisphere, and that are the product of the unfinished modern and modernist project. Foregrounding the impact of the decolonial question in Europe calls for us to read it within the wider question of the ‘de-modern’, beyond colonially imposed geographical divides between North and South. We define ‘demodernization’ as a condition that wants to undo the rationality of zoning and compartmentalisation enforced by colonial modern architecture, territorialisation and urbanism. Bearing in mind what we have learned from Dolci and Gramsci, we will explain demodernization through architectural heritage; specifically, from the context of Sicily – the internal ‘civilisational’ front of the Italian fascist project.

      Sicily’s fascist colonial settlements

      In 1940, the Italian fascist regime founded the Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano (ECLS, Entity for the Colonization of the Sicilian Latifondo),4 following the model of the Ente di Colonizzazione della Libia and of colonial urban planning in Eritrea and Ethiopia. The entity was created to reform the latifondo, the predominant agricultural system in southern Italy for centuries. This consisted of large estates and agricultural plots owned by noble, mostly absentee, landlords. Living far from their holdings, these landowners used local middlemen and hired thugs to sublet to local peasants and farmers who needed plots of land for self-sustenance.5 Fascism sought to transform this unproductive, outdated and exploitative system, forcing a wave of modernization. From 1940 to 1943, the Ente built more than 2,000 homesteads and completed eight settlements in Sicily. These replicated the structures and planimetries that were built throughout the 1930s in the earlier bonifica integrale (land reclamation) of the Pontine Marshes near Rome, in Libya and in the Horn of Africa; the same mix of piazzas, schools, churches, villas, leisure centres, monuments, and a Casa del Fascio (fascist party headquarters). In the name of imperial geographical unity, from the ‘centre’ to the ‘periphery’, many of the villages built in Sicily were named after fascist ‘martyrs’, soldiers and settlers who had died in the overseas colonies. For example, Borgo Bonsignore was named after a carabinieri (military officer) who died in the Battle of Gunu Gadu in 1936, and Borgo Fazio and Borgo Giuliano after Italian settlers killed by freedom fighters in occupied Ethiopia.

      The reform of the latifondo also sought to implement a larger strategy of oppression of political dissent in Italy. The construction of homesteads in the Sicilian countryside and the development of the land was accompanied by the state-driven migration of northern labourers, which also served the fascist regime as a form of social surveillance. The fascists wanted to displace and transform thousands of rural laborers from the North – who could otherwise potentially form a stronghold of dissent against the regime – into compliant settlers.6 Simultaneously, and to complete the colonizing circle, many southern agricultural workers were sent to coastal Libya and the Horn of Africa to themselves become new settlers, at the expense of Indigenous populations.

      All the Sicilian settlements were designed following rationalist principles to express the same political and social imperatives. Closed communities like the Pontine settlements were ‘geometrically closed in the urban layout and administratively closed to farmers, workmen, and outside visitors as well’.7 With the vision of turning waged agrarian laborers into small landowners, these borghi were typologically designed as similar to medieval city enclaves, which excluded those from the lower orders.

      These patterns of spatial separation and social exclusion were, unsurprisingly, followed by the racialisation of the Italian southerners. Referring to a bestiary, the propaganda journal Civiltà Fascista (Fascist Civilisation) described the Pontine Marshes as similar to ‘certain zones of Africa and America’, ‘a totally wild region’ whose inhabitants were ‘desperate creatures living as wild animals’.8 Mussolini’s regime explicitly presented this model of modernization, cultivation and drainage to the Italian public as a form of warfare. The promise of arable land and reclaimed marshes shaped an epic narrative which depicted swamps and the ‘unutilised’ countryside as the battlefield where bare nature – and its ‘backward inhabitants’ – was the enemy to be tamed and transformed.

      However, despite the fanfare of the regime, both the projects of settler colonialism in Africa and the plans for social engineering and modernization in the South of Italy were short-lived. As the war ended, Italy ‘lost’ its colonies and the many Ente were gradually reformed or shut down.9 While most of the New Towns in the Pontine region developed into urban centres, most of the fascist villages built in rural Sicily were meanwhile abandoned to a slow decay.

      Although that populationist model of modernization failed, the Sicilian countryside stayed at the centre of the Italian demographic question for decades to come. Since the 1960s, these territories have experienced a completely different kind of migration to that envisaged by the fascist regime. Local youth have fled unemployment in huge numbers, migrating to the North of Italy and abroad. With the end of the Second World War and the colonies’ return to independence, it was an era of reversed postcolonial migration: no longer white European settlers moving southwards/eastwards, but rather a circulatory movement of people flowing in other directions, with those now freed from colonial oppression taking up the possibility to move globally. Since then, a large part of Sicily’s agrarian sector has relied heavily on seasonal migrant labour from the Southern Hemisphere and, more recently, from Eastern Europe. Too often trapped in the exploitative and racist system of the Italian labour market, most migrants working in areas of intensive agriculture – in various Sicilian provinces near the towns of Cassibile, Vittoria, Campobello di Mazara, Caltanissetta and Paternò – have been forced out of cities and public life. They live isolated from the local population, socially segregated in tent cities or rural slums, and without basic services such as access to water and sanitation.

      As such, rural Sicily – as well as vast swathes of southern Italy – remain stigmatised as ‘insalubrious’ spaces, conceived of in the public imagination as ‘other’, ‘dangerous’ and ‘backward’. From the time of the fascist new settlements to the informal rural slums populated by migrants in the present, much of the Sicilian countryside epitomises a very modern trope: that the South is considered to be in dire need of modernization. The rural world is seen to constitute an empty space as the urban centres are unable to deal with the social, economic, political and racial conflicts and inequalities that have been (and continue to be) produced through the North/South divides. This was the case at the time of fascist state-driven internal migration and overseas settler colonial projects. And it still holds true for the treatment of migrants from the ex-colonies, and their attempted resettlement on Italian land today.

      Since 2007, Sicily’s right-wing regional and municipal governments have tried repeatedly to attain public funding for the restoration of the fascist settlements. While this program has been promoted as a nostalgic celebration of the fascist past, in the last decade, some municipalities have also secured EU funding for architectural restoration under the guise of creating ‘hubs’ for unhoused and stranded migrants and refugees. None of these projects have ever materialised, although EU money has financed the restoration of what now look like clean, empty buildings. These plans for renovation and rehousing echo Italy’s deepest populationist anxieties, which are concerned with managing and resettling ‘other’ people considered ‘in excess’. While the ECLS was originally designed to implement agrarian reforms and enable a flow of migration from the north of the country, this time, the Sicilian villages were seen as instrumental to govern unwanted migrants, via forced settlement and (an illusion of) hospitality. This reinforces a typical modern hierarchical relationship between North and South, and with that, exploitative metropolitan presumptions over the rural world.

      The Entity of Decolonization

      To imagine a counter-narrative about Sicily’s, and Italy’s, fascist heritage, we presented an installation for the 2020 Quadriennale d’arte – FUORI, as a Decolonizing Architecture Art Research (DAAR) project. This was held at the Palazzo delle Esposizioni in Rome, the venue of the Prima mostra internazionale d’arte coloniale (First International Exhibition of Colonial Art, 1931), as well as other propaganda exhibitions curated by the fascist regime. The installation aims to critically rethink the rural towns built by the ECLS. It marks the beginning of a longer-term collaborative project, the Ente di Decolonizzazione or Entity of Decolonization, which is conceived as a transformative process in history-telling. The installation builds on a photographic dossier of documentation produced by Luca Capuano, which reactivates a network of built heritage that is at risk of decay, abandonment and being forgotten. With the will to find new perspectives from which to consider and deconstruct the legacies of colonialism and fascism, the installation thinks beyond the perimeters of the fascist-built settlements to the different forms of segregations and division they represent. It moves from these contested spaces towards a process of reconstitution of the social, cultural and intimate fabrics that have been broken by modern splits and bifurcations. The project is about letting certain stories and subjectivities be reborn and reaffirmed, in line with Walter D. Mignolo’s statement that ‘re-existing means using the imaginary of modernity rather than being used by it. Being used by modernity means that coloniality operates upon you, controls you, forms your emotions, your subjectivity, your desires. Delinking entails a shift towards using instead of being used.’10 The Entity of Decolonization is a fluid and permanent process, that seeks perpetual manifestations in architectural heritage, art practice and critical pedagogy. The Entity exists to actively question and contest the modernist structures under which we continue to live.

      In Borgo Rizza, one of the eight villages built by the Ente, we launched the Difficult Heritage Summer School – a space for critical pedagogy and discussions around practices of reappropriation and re-narrativisation of the spaces and symbols of colonialism and fascism.11 Given that the villages were built to symbolise fascist ideology, how far is it possible to subvert their founding principles? How to reuse these villages, built to celebrate fascist martyrs and settlers in the colonial wars in Africa? How to transform them into antidotes to fascism?

      Borgo Rizza was built in 1940 by the architect Pietro Gramignani on a piece of land previously expropriated by the ECLS from the Caficis, a local family of landowners. It exhibits a mixed architectural style of rationalism and neoclassical monumentalism. The settlement is formed out of a perimeter of buildings around a central protected and secured piazza that was also the main access to the village. The main edifices representing temporal power (the fascist party, the ECLS, the military and the school) and spiritual power (the church) surround the centre of the piazza. To display the undisputed authority of the regime, the Casa del Fascio took centre stage. The village is surrounded on all sides by eucalyptus trees planted by the ECLS and the settlers. The planting of eucalyptus, often to the detriment of indigenous trees, was a hallmark of settler colonialism in Libya and the Horn of Africa, dubiously justified because their extensive roots dry out swamps and so were said to reduce risks of malaria.

      With the end of the Second World War, Borgo Rizza, along with all the other Sicilian settlements, went through rapid decay and decline. It first became a military outpost, before being temporarily abandoned in the war’s aftermath. In 1975, the ownership and management of the cluster of buildings comprising the village was officially transferred to the municipality of Carlentini, which has since made several attempts to revive it. In 2006, the edifices of the Ente di Colonizzazione and the post office were rehabilitated with the intent of creating a garden centre amid the lush vegetation. However, the garden centre was never realised, while the buildings and the rest of the settlement remain empty.

      Yet despite the village’s depopulation, over the years the wider community of Carlentini have found an informal way to reuse the settlement’s spaces. The void of the piazza, left empty since the fall of fascism, became a natural spot for socialising. The piazza was originally designed by the ECLS for party gatherings and to convey order and hierarchy to the local population. But many locals remember a time, in the early 1980s, before the advent of air-conditioned malls that offered new leisure spaces to those living in peri-urban and rural areas, when people would gather in the piazza for fresh air amid summer heatwaves. The summer school builds on these memories, to return the piazza to its full public function and reinvent it as a place for both hospitality and critical pedagogy.

      Let’s not forget that the village was first used as a pedagogical tool in the hands of the regime. The school building was built by the ECLS and was the key institution to reflect the principles of neo-idealism promoted by the fascist and neo-Hegelian philosophers Giovanni Gentile and Giuseppe Lombardo Radice. Radice was a pedagogue and theoretician who contributed significantly to the fascist reforms of the Italian school system in the 1930s. Under the influence of Gentile, his pedagogy celebrated the modern principle of a transcendental knowledge that is never individual but rather embodied by society, its culture, the party, the state and the nation. In the fascist ideal, the classroom was designed to be the space where students would strive to transcend themselves through acquired knowledge. A fascist education was meant to make pupils merge with the ‘universal’ embodied by the teacher, de facto the carrier of fascist national values. In relation to the countryside context, the role of pedagogy was to glorify the value of rurality as opposed to the decadence wrought by liberal bourgeois cultures and urban lifestyles. The social order of fascism revolved around this opposition, grounded in the alienation of the subaltern from social and political life, via the splitting of the urban and rural working class, the celebration of masculinity and patriarchy, and the traditionalist nuclear family of settlers.

      Against this historical background, our summer school wants to inspire a spatial, architectural and political divorce from this past. We want to engage with decolonial pedagogies and encourage others to do the same, towards an epistemic reorganisation of the building’s architecture. In this, we share the assertion of Danilo Dolci, given in relation to the example of elementary schools built in the fascist era, of the necessity for a liberation from the physical and mental cages erected by fascism:

      These seemed designed (and to a large extent their principles and legacies are still felt today) to let young individuals get lost from an early age. So that they would lose the sense of their own existence, by feeling the heavy weight of the institution that dominates them. These buildings were specifically made to prevent children from looking out, to make them feel like grains of sand, dispersed in these grey, empty, boundless spaces.12

      This is the mode of demodernization we seek in this project: to come to terms with, confront, and deactivate the tools and symbols of modern fascist colonization and authoritarian ideologies, pedagogy and urbanism. It is an attempt to fix the social fabric that fascism broke, to heal the histories of spatial, social and political isolation in which the village originates. Further, it is an attempt to heal pedagogy itself, from within a space first created as the pedagogical hammer in the hands of the regime’s propagandists.

      This means that when we look at the forms of this rationalist architecture, we do not feel any aesthetic pleasure in or satisfaction with the original version. This suggests the need to imagine forms of public preservation outside of the idea of saving the village via restoration, which would limit the intervention to returning the buildings to their ‘authentic’ rationalist design. Instead, the school wants to introduce the public to alternative modes of heritage-making.

      Architectural demodernization

      In the epoch in which we write and speak from the southern shores of Europe, the entanglement of demodernization with decolonization is not a given, and certainly does not imply an equation. While decolonization originates in – and is only genealogically possible as the outcome of – anti-colonialist struggles and liberation movements from imperial theft and yoke, demodernization does not relate to anti-modernism, which was an expression of reactionary, anti-technological and nationalist sentiment, stirred at the verge of Europe’s liberal collapse in the interwar period. As Dolci explained for the Italian and Sicilian context, there is no shelter to be found in any anachronistic escape to the (unreal and fictional) splendours of the past. Or, following Gramsci’s refusal to believe that the Italian South would find the solutions to its problems through meridionalism, a form of southern identitarian and essentialist regionalism, which further detaches ‘the Southern question’ from possible alliances with the North.

      Demodernization does not mean eschewing electricity and wiring, mortar and beams, or technology and infrastructure, nor the consequent welfare that they provide, channel and distribute. By opposing modernity’s aggressive universalism, demodernization is a means of opening up societal, collective and communal advancement, change and transformation. Precisely as Dolci explains, the question it is not about the negation of progress but about choosing which progress you want.13

      In the context in which we exist and work, imagining the possibility of an architectural demodernization is an attempt to redraw the contours of colonial architectural heritage, and specifically, to raise questions of access, ownership and critical reuse. We want to think of demodernization as a method of epistemic desegregation, which applies to both discourse and praxis: to reorient and liberate historical narratives on fascist architectural heritage from the inherited whiteness and ideas of civilisation instilled by colonial modernity, and to invent forms of architectural reappropriation and reuse. We hold one final aim in mind: that the remaking of (post)colonial geographies of knowledge and relations means turning such fascist designs against themselves.

      https://www.internationaleonline.org/research/decolonising_practices/208_architectural_demodernization_as_critical_pedagogy_pathway

      #Partinico #Borgo_di_Trappeto #Italie_du_Sud #Italie_meridionale #Southern_question #colonizzazione_interna #colonisation_interne #Ente_di_Colonizzazione_de_Latifondo_Siciliano (#ECLS) #Ente_di_Colonizzazione_della_Libia #modernisation #bonifica_integrale #Pontine_Marshes #Borgo_Bonsignore #Borgo_Fazio #Borgo_Giuliano #latifondo #Pietro_Gramignani #Caficis

  • Comment le recyclage détruit l’environnement au Vietnam | Zoom Ecologie
    https://zoom-ecologie.net/?Comment-le-recyclage-detruit-l-environnement-au-Vietnam-Entretien-av

    Mikaëla Le Meur a publié « Le mythe du recyclage », un livre qui reprend ses observations de terrain dans le village de Minh Kai au Vietnam. Elle explique comment le commerce international de déchets « recyclables » y entraîne une délocalisation de la pollution. Les restes de la consommation européenne, états-unienne, japonaise ou australienne s’accumulent dans des espaces mal équipés pour les traiter, polluant l’environnement tout en produisant de nouveaux objets de médiocre qualité. Durée : 59 min. Source : Fréquence Paris Plurielle

    https://zoom-ecologie.net/IMG/mp3/zoom_ecolo_2022_24_02_recyclage_vietnam.mp3

  • Le quartier #Chaffit à #Valence, une histoire à l’écart (1950-1990)

    Chaffit, c’est au sud de Valence : 30 hectares bordés par l’A7, le Rhône, qui abritent la caserne des pompiers, la Clinique générale et l’aire des gens du voyage. On pourrait presque croire que ce quartier n’a pas d’identité, pas de #mémoire. Et pourtant… L’historienne Linda Guerry nous présente son histoire après la Seconde Guerre mondiale.

    https://lecpa.hypotheses.org/1961
    #histoire #gens_du_voyage #aire_d'accueil #village_chaffit #marginalisation #stigmatisation #nationalisme #xénophobie #travailleurs_étrangers #travailleurs_algériens

  • Escapades #sans_voiture en Wallonie
    http://carfree.fr/index.php/2022/01/04/escapades-sans-voiture-en-wallonie

    Lâchez la pédale d’accélérateur et découvrez la Wallonie en mode slow. Explorez la région avec des transports doux : en train, à #Vélo et à pied. Votre escapade démarre toujours d’une Lire la suite...

    #Alternatives_à_la_voiture #Marche_à_pied #Transports_publics #Vie_sans_voiture #Villages_sans_voitures #Ville_sans_voitures #Belgique #bruxelles #liège #mons #tourisme #Vivre_sans_voiture #voyage

  • #Wassenaar : la cour de justice se prononce pour une expulsion
    https://fr.squat.net/2021/12/24/wassenaar-la-cour-de-justice-se-prononce-pour-une-expulsion

    Wassenaar (Pays-Bas) – Le lundi 20 décembre, le tribunal de #La_Haye a décidé que nous devions quitter la #Villa_Ivicke dans les six semaines. Nous ne sommes pas surpris.es par ce verdict en faveur du propriétaire, et nous n’allons pas l’accepter sans réagir. L’argumentation du tribunal est que notre résidence ici est en violation […]

    #Pays-Bas #procès #Rust_en_Vreugdlaan_2 #spéculation

  • Retour au « village de Bamboula » : en 1994, un « zoo humain » à prétention touristique - Page 1 | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/france/090521/retour-au-village-de-bamboula-en-1994-un-zoo-humain-pretention-touristique

    Retour au « village de Bamboula » : en 1994, un « zoo humain » à prétention touristique
    9 mai 2021 Par Julien Coquelle-Roëhm et Nina Soyez

    Le 10 mai 2001, la loi Taubira reconnaissait la traite et l’esclavage comme crimes contre l’humanité. Mediapart revient sur l’organisation du dernier « zoo humain » français, près de Nantes. Un épisode entouré de silences.

    Port-Saint-Père (Loire-Atlantique).– « À toute chose, malheur est bon. Dans la vie, c’est l’expérience qui te fait grandir. » Lassina Coulibaly n’est pas du genre à se morfondre. Toute sa vie, il a pu vivre de ce qu’il aimait le plus : la musique. Encore aujourd’hui, à 52 ans, on le retrouve avec son groupe d’afro-rock dans une ferme de Loire-Atlantique, loin de sa Côte d’Ivoire natale.

    Son vieil ami Benoît, ancien professeur de percussions, raconte comment il a rencontré Lassina en 1994, au parc Safari Africain de Port-Saint-Père, pas loin de Nantes, qui venait d’ouvrir son « village de Côte d’Ivoire » : « On m’avait dit qu’il y avait des musiciens ivoiriens qui jouaient super bien. Ces jeunes qui avaient l’air d’être des enfants jouaient avec une telle qualité de son. Tout le monde au parc était époustouflé. » Mais « quand on est arrivés, se souvient aussi Benoît, un petit enfant a montré du doigt mon fils qui est métis et a dit : “Oh ! regarde, maman, un Bamboula !” J’ai vu la pancarte au loin, j’ai vite compris. »

    L’entrée du parc Safari Africain de Port-Saint-Père, en avril 1994, exhibition rappelant les « zoos humains » de l’époque coloniale. © Yves Forestier / Sygma via Getty Images L’entrée du parc Safari Africain de Port-Saint-Père, en avril 1994, exhibition rappelant les « zoos humains » de l’époque coloniale. © Yves Forestier / Sygma via Getty Images

    Haute de plusieurs mètres, flanquée d’une statue géante à l’effigie d’un petit garçon noir habillé d’un pagne au motif léopard, l’entrée du parc affiche « Le village de Bamboula ». La pancarte est affublée d’un logo de la biscuiterie St Michel, qui commercialise alors les gâteaux du même nom. Face à la caméra de la télévision locale, en novembre 1993, Dany Laurent, le directeur du Safari Africain, principal parc touristique de la région où sont exposés plus d’un millier d’animaux, semble convaincu de sa dernière attraction : « Ce village, c’est une première sur le sol français et même sur le sol européen. Je me suis inspiré d’un village authentique qui s’appelle Fégéré en Côte d’Ivoire. J’ai voulu que ce soit une vraie reconstitution. [...] Le but ici est de promouvoir le tourisme en Côte d’Ivoire. En contrepartie, le ministère du tourisme nous offre [sic] des artisans et un groupe [d’artistes] pour assurer l’animation toute la saison. »

    Sur un prospectus publicitaire du parc, la visite du village « protégé par les fétiches » qui « transporte au cœur de l’Afrique Noire » est présentée comme une « aventure sereine, colorée et inoubliable ». « Ici, le folklore a le goût de l’authentique, les jeunes chantent et dansent au rythme des coutumes ancestrales. » Une « authenticité » poussée jusque dans la construction du village, réalisée par des ouvriers venus de Côte d’Ivoire pendant l’hiver 1993, et saluée par le premier ministre ivoirien Daniel Kablan Duncan, présent le jour de l’inauguration.

    Parmi « les jeunes [qui] chantent », on retrouve Lassina, qui a alors 25 ans et joue du djembé. Il y a aussi les treize autres membres du DJOLEM, la troupe de musiciens et de danseurs choisie par le ministère du tourisme ivoirien. « Comme tout groupe en Afrique, quand on nous a dit qu’on allait venir en France, on était tous contents », raconte Lassina. « Le mot “bamboula”, je ne savais même pas ce qu’il voulait dire. »

    Certains d’entre eux sont très jeunes : derrière leurs djembés, Harouna Dembélé et son petit frère Issouf ont respectivement 15 et 10 ans. « On était contents de jouer, et puis c’était notre travail, affirme sans détour Harouna, retrouvé par Mediapart. On savait qu’on pourrait gagner un peu d’argent pour nourrir notre famille en Afrique. »

    Les cases du village factice accueillent aussi des artisans qui « pratiquent leur art traditionnel » devant les touristes : un forgeron, une potière, un tisserand, un peintre et un sculpteur, Kolo, qui pose pour la photo devant l’entrée du parc. Mediapart l’a retrouvé, au bout du fil, à Korhogo, une ville du nord de la Côte d’Ivoire célèbre pour son artisanat. « Nous, les artisans, on venait tous de Korhogo. J’étais le seul à être déjà venu en France. Pour les autres, c’était la première fois. On nous avait demandé de venir avec notre femme, certains ont accepté, moi j’ai refusé », raconte le sculpteur. « Le forgeron est reparti au bout de trois mois car sa femme était enceinte. Dany Laurent était d’accord pour la renvoyer au pays, mais il voulait que le forgeron reste. Le forgeron a refusé que sa femme rentre seule. »

    Pour Sandrine Lemaire, professeure agrégée en histoire, qui a coécrit avec Pascal Blanchard, Gilles Boëtsch et Nicolas Bancel l’ouvrage Zoos humains et exhibitions coloniales (La Découverte), le concept du « faux » village résonne fortement avec les attractions de l’époque coloniale. « En plus du processus d’exhibition, on leur demande de rejouer une vie quotidienne supposée. Tout cela est très similaire au zoo humain. »

    Que la visite du parc animalier se finisse par celle du village est aussi très significatif : « En mêlant des humains à des animaux, on les présente, si l’on puit dire, plus proches de l’animal que de la civilisation, comme des sauvages. On est encore dans des stéréotypes très coloniaux. »

    Tous les jours de la semaine, les artistes et artisans animent le village en habits traditionnels dans des températures qui, parfois, ne dépassent pas 15 °C. Les femmes dansent souvent seins nus, en extérieur, devant les touristes. Les performances s’enchaînent toutes les 30 minutes, jusqu’à la fermeture du parc à 19 heures. « Dans le ballet, en Afrique, on répète tous les jours, mais ce ne sont pas les mêmes conditions, détaille Harouna. Dans une répétition, tu as une énergie différente du spectacle où tu donnes tout. Un spectacle de 30 minutes peut te prendre l’énergie d’une répétition de 4 heures. À un moment, c’est vrai qu’il y avait de la fatigue, et on a gardé ce même rythme pendant 6 mois. »

    Lassina se souvient de ses mains douloureuses à force de jouer : « Certains jours, c’était dur. Parfois, quand on finissait, on passait les mains sous l’eau tiède et on frottait avec du beurre de karité. Et puis au tout début, il faisait froid. On avait tellement mal qu’il nous est arrivé de prendre des baguettes pour jouer. »

    Vivant sur place, dans une maison située dans l’enceinte du parc, les déplacements des artistes et artisans sont aussi limités car soumis aux horaires d’ouverture. « Le soir, quand le parc fermait, ils barraient la grande porte, on était comme des animaux », se rappelle Kolo.

    « Il y avait des enfants qui travaillaient sept jours sur sept »

    Au Safari, les plaintes sont pourtant passées sous silence. Souleymane*, le chef de la troupe du DJOLEM, répond à toutes les questions des touristes et demandes d’interviews de la presse locale et nationale. « Si je n’étais pas venu ici, je l’aurais regretté à mort. Aucun de nous ici n’est malheureux, ni exploité », assure-t-il devant la caméra de TF1 en avril 1994. Aucun autre membre du village ne souhaite s’exprimer, et pour cause : « Souleymane et Dany Laurent nous avaient prévenus que si l’on ne disait pas que tout allait bien, si on se plaignait, on nous renverrait au pays », confie Lassina. Les interrogations de la presse, des syndicats et des associations, pourtant, s’accumulent peu à peu.

    La section locale du SNAM-CGT (Union nationale des syndicats d’artistes-musiciens de France) a pris connaissance du village avant même son ouverture. Philippe Gauthier, son représentant, devenu aujourd’hui secrétaire général national, débutait dans le syndicalisme lorsqu’il a entendu parler du « village de Côte d’Ivoire ». « Tout était écrit dans le journal local avant même que ça commence : qu’ils n’allaient pas être salariés français mais payés au tarif de la Côte d’Ivoire. Il y avait des enfants qui travaillaient sept jours sur sept, personne n’a pensé qu’il y avait une obligation scolaire en France. »

    Un constat auquel Dany Laurent, le directeur – décédé en 2014 – opposera toujours le même argument : « Tout le monde est sous l’autorité de l’Organisation internationale du tourisme et de l’hôtellerie (OITH) et de la législation ivoirienne par le biais d’une convention. Ici, c’est le droit ivoirien qui s’applique. » Les salaires sont alors déterminés en francs CFA, entre 50 000 à 120 000 pour les artistes (équivalent à 76 et 182 euros), et 300 000 (457 euros) pour les artisans. Aucune scolarisation des enfants n’est prévue, le directeur compare leur situation à celle « des enfants de cirque ».

    Mais les associations locales n’entendent pas en rester là. La section nantaise de la Ligue des droits de l’Homme, le SNAM-CGT, le GASPROM (branche nantaise de l’Association de soutien aux travailleurs immigrés) et SOS Racisme créent le collectif « Non à la réserve humaine », qui entame ses premières actions contre l’imaginaire colonialiste du village et ses entorses au droit du travail.

    Plusieurs militants se rendent régulièrement au parc, et distribuent à l’entrée des tracts qui comparent le village à l’exposition coloniale de Lyon de 1894, où les « villages nègres » apparaissaient en tête d’affiche comme l’attraction phare.

    Certains membres du collectif découvrent la maison qu’occupent les artistes et les artisans. Les 14 membres du DJOLEM se répartissent dans deux chambres, femmes et hommes séparés : six femmes se partagent 12 m2 et huit hommes 14 m2, alors que le droit du travail prescrit au minimum 6 m2 par personne. Adultes et enfants dorment ensemble sur des matelas posés à même le sol. Les artisans, moins nombreux, manquent aussi d’espace. La direction départementale du travail et de l’emploi jugera étonnamment leurs conditions de vie « correctes ».

    Les militants interpellent alors les pouvoirs publics et élus locaux sur la situation au village, sans grand succès. Le département, qui louait les terres au parc et siégeait à son conseil de surveillance, n’a jamais répondu aux interrogations du collectif. Jean-Marc Ayrault, alors maire de Nantes depuis 1989, n’a jamais réagi à la polémique.

    Aujourd’hui président de la Fondation pour la mémoire de l’esclavage, l’ex-premier ministre n’a pas souhaité répondre aux questions de Mediapart. Ni son épouse, Brigitte Ayrault, conseillère générale de Loire-Atlantique à l’époque. Joseph Thomas, maire de Port-Saint-Père en 1994, proche de Dany Laurent et soutien du parc depuis sa création, n’a pas non plus donné suite à nos demandes d’interview.

    Après avoir multiplié les réclamations, le collectif « Non à la réserve humaine » décide d’assigner le parc en référé. « Peu de temps après, le préfet nous convoque en réunion, nous informant que le Safari voudrait nous faire des propositions », se souvient Philippe Gautier de la CGT. « Ils étaient d’accord pour augmenter tous les artistes et leur assurer une couverture sociale si l’on retirait notre référé. »

    Le collectif accepte, mais peu de choses changent. Les sorties hors du parc sont toujours contrôlées, Philippe Gautier raconte même avoir vu l’ensemble des passeports ivoiriens dans le coffre-fort de Dany Laurent. Les enfants continueront de travailler un jour sur deux. De l’école, ils ne verront qu’une institutrice détachée sur le parc quelques heures le matin, pendant seulement un mois.

    Enfin, les artistes et artisans ne percevront jamais le Smic : « [Après cette réunion], on nous a dit qu’il n’y aurait plus de cadeau. Que la nourriture, le logement et les charges seraient désormais à nos frais, raconte Kolo, le sculpteur. On devait toucher 600 000 francs CFA par mois [l’équivalent du Smic français en 1994 – ndlr], mais à la fin, il n’en restait que 400 000. »

    Chez les musiciens, c’est Souleymane qui se charge depuis le début de redistribuer l’argent. Mais « un mois avant de partir, on a voulu un peu d’argent pour acheter des cadeaux, les ramener au pays, se souvient Lassina. Souleymane nous a dit qu’il avait transféré notre argent sur son compte ivoirien, et qu’il nous paierait en rentrant à Abidjan. » De retour en Côte d’Ivoire, le percussionniste se souvient n’avoir touché en tout que 100 000 francs CFA (152 euros) pour 6 mois. « On ne savait pas comment le système marchait, quels étaient nos droits ou même le montant des salaires français », constate aujourd’hui Lassina Coulibaly.

    Pour Kolo, l’ensemble du groupe a été « trompé » par un directeur qui les a « baladés ». « Aujourd’hui, si l’on me demandait de faire un travail dans ces conditions, je n’accepterais pas », admet Harouna Dembélé, devenu musicien professionnel.

    Mis au courant des agissements de la direction, le collectif entame en juillet 1994 une seconde action en justice, qui, cette fois, ne se soldera pas par un arrangement à l’amiable. Un rapport d’expert est alors exigé par le juge. Alors que les griefs se multiplient et que la gronde se répand peu à peu au sein du groupe ivoirien, le « village » ferme ses portes en septembre et ne rouvrira pas au printemps d’après, comme prévu. C’est dans un parc vide que l’expert mène donc son enquête. Elle confirmera de nombreux points soulevés par le collectif et permettra d’autres découvertes : un employé du Safari racontera qu’en cas de maladie, les Ivoiriens étaient parfois soignés par le vétérinaire du parc.

    Trois ans plus tard, en 1997, le tribunal de grande instance de Nantes condamne le Safari Africain pour des violations du droit du travail et de droits aussi fondamentaux que celui « d’aller et venir », au préjudice des « contractants ivoiriens ». Le parc versera un franc symbolique aux cinq associations qui l’ont attaqué, et déboursera 4 000 francs de dommages et intérêts pour les frais de justice.

    « Le travail illégal est, au final, l’unique raison pour laquelle le village a fermé », s’étonne Sandrine Lemaire, coauteure de l’ouvrage sur les zoos humains. « Ce n’est pas tant la morale qui a choqué, mais plutôt l’aspect financier et légaliste de la chose. » L’image réductrice et colonialiste de l’Afrique perpétuée en 1994 par le directeur Dany Laurent persiste même de nos jours selon l’historienne : « Cette vision de hiérarchie des civilisations reste encore très présente dans les esprits. Ça reste inconcevable qu’on puisse montrer une Afrique très urbanisée, très développée, parce qu’on continue à les présenter comme symptômes du sous-développement. »

    Un sentiment partagé par Mathilde Bouclé-Bossard, présidente de l’association Les Anneaux de la Mémoire qui travaille sur le passé esclavagiste de Nantes : « Il y a des images de l’Afrique qui restent encore, comme celles qui ont été véhiculées au village africain. » Pour la militante, les circonstances de la création du « village » interpellent : « Depuis 1992, une exposition au château des ducs de Bretagne retraçait les thématiques de la traite à travers le passé négrier de Nantes. » Exposition à laquelle certains Ivoiriens ont d’ailleurs été invités. « Ça montrait bien qu’il y avait encore besoin de remettre des choses en place... »

    Depuis 1994, le Safari Africain a été revendu et s’est trouvé, comme parc animalier, un nouveau nom : Planète Sauvage. Le « village de Côte d’Ivoire » est, lui, devenu le « village de Kirikou », où le petit personnage du film de Michel Ocelot guide le visiteur. Des outils, des instruments de musique et des fétiches inspirés du film sont disposés dans ce qu’il reste des habitations artificielles. Le touriste est désormais invité à s’essayer au pilage du mil, à jouer du djembé, ou encore à « palabrer », comme le propose un des panneaux explicatifs. On peut y lire aussi que la musique est un « moyen d’expression » auquel les « Africains s’initient dès le plus jeune âge ». Un peu plus loin, un dessin montre Kirikou accroupi, laissant ses empreintes à côté de celles d’animaux. Aujourd’hui encore, à Port-Saint-Père, se visite une certaine idée de l’Afrique.

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