• #Foligno, inaugurata piazza 3 ottobre

    Per ricordare le vittime delle migrazioni. Il Sindaco Mismetti: “la città ha capito che le differenze sono una ricchezza. Con l’indifferenza si creano nuovi muri, mentre noi abbiamo fatto la scelta dell’integrazione”.

    “Piazzetta tre ottobre: giornata delle vittime di tutte le migrazioni”. E’ questo il nome scelto dalla Diocesi e dal Comune di Foligno per rendere incancellabili le tragedie che ancora oggi avvengono quotidianamente in tutto il mondo. C’è ancora chi in cerca di speranza e di un futuro migliore perde la propria vita. Esempio tangibile quello delle vittime in mare, che dall’Africa cercano di arrivare in Europa attraverso l’Italia. Ne sa qualcosa Tareke Brhane, presidente del Comitato 3 ottobre, uno dei superstiti della strage di Lampedusa del tre ottobre 2013.

    Presente all’inaugurazione della piazza, Tareke Brhane ha ricordato che da quella data ad oggi, nelle traversate del Mediterraneo sono morte 11.400 persone. Con questo gesto Foligno vuole promuovere la realtà dell’accoglienza e dell’integrazione. “Tareke è il rappresentante di chi ha perso la voce – ha spiegato il vescovo di Foligno, Gualtiero Sigismondi -. Il primo ponte da creare tra le culture – ha poi proseguito – è quello della stretta di mano”. Per don Luigi Filippucci, è importante “affermare sempre di più la vita e dire no alla morte”, mentre la presidente del consiglio regionale Donatella Porzi ha sottolineato come “il dialogo è la prima forma di solidarietà per attuare una strategia comune”. La nuova piazzetta sorge nell’area del polo scolastico di viale Marconi.

    Dopo Roma, quella di Foligno è la seconda piazza d’Italia a portare questo nome, “segno – ha affermato il sindaco Mismetti – che la città ha capito che le differenze sono una ricchezza. Con l’indifferenza – ha concluso il primo cittadino – si creano nuovi muri, mentre noi abbiamo fatto la scelta dell’integrazione”. Non solo piazzetta Tre ottobre. Nella giornata di mercoledì infatti, in viale Marconi sono stati piantati degli ulivi come simbolo di pace. Alla cerimonia erano presenti, tra gli altri, Rita Barbetti, vicesindaco, l’assessore Maura Franquillo, i consiglieri comunali, Vincenzo Falasca e Michela Matarazzi, rappresentanti delle forze dell’ordine e gli studenti delle scuole medie superiori. Atteso anche il prefetto di Perugia, che però non ha partecipato alla cerimonia.

    http://www.perlapace.it/foligno-inaugurata-piazza-3-ottobre
    #3_octobre #commémoration #migrations #toponymie #toponymie_politique #toponymie_migrante #réfugiés #mourir_en_mer #morts_en_mer #3_octobre_2023 #naufrage #Italie

  • Dal Poli occupato : di #non_neutralità_della_scienza e #violenza_algoritmica@0
    https://radioblackout.org/2024/05/di-non-neutralita-della-scienza-e-violenza-algoritmica

    Che l’ambito dell’istruzione e della ricerca sia un terreno importante su cui si sta giocando la partita della mobilitazione bellica generale, ma anche il suo possibile incepparsi, è evidente, e anche qui a Torino ne abbiamo parlato in alcuni incontri relativi alla scuola. Gli aspetti più espliciti della questione riguardano la produzione materiale e culturale […]

    #L'informazione_di_Blackout #guerra #politecnico_occupato
    https://cdn.radioblackout.org/wp-content/uploads/2024/05/politecnico.mp3

  • I luoghi della memoria dell’Italia fascista

    Il territorio di questo paese conserva molte tracce del suo passato fascista sotto forma di edifici, monumenti, ma anche nomi di strade, vie o scuole. In alcuni casi, quando simboli, monumenti e intitolazioni sono presenti nella nostra vita quotidiana senza essere oggetto di commemorazione o ricostruzione memoriale specifica, essi giacciono lì, muti per la maggior parte della popolazione, ma presenti e disponibili a diversi tipi di riattivazione. In altri casi questi luoghi sono invece oggetto di commemorazioni e cerimonie, per lo più presidi di una memoria minoritaria, ma che riappare carsicamente nella storia d’Italia, coltivate da minoranze neofasciste o della nuova destra, che cercano di costruire un ponte che legittimi il presente attraverso la storia del passato fascista, ma anche che permetta di coltivare costruzioni identitarie antidemocratiche.

    Per riflettere su questi fenomeni, l’Istituto nazionale Ferruccio Parri ha avviato un progetto che ha l’obiettivo di mappare e ricostruire progressivamente la storia dei ‘luoghi della memoria’ locale e nazionale del fascismo storico (1919-1945). Obiettivo del progetto è individuare e analizzare i monumenti e le intitolazioni di strade e edifici pubblici che sono stati costruiti come luoghi della memoria del fascismo durante il regime o negli anni successivi alla Liberazione del paese.

    Questa mappatura ha l’obiettivo di verificare la geografia di questi monumenti e di queste intitolazioni ricorrenti; leggerne la stratificazione storica e in ogni caso ricostruire la storia di questi luoghi della memoria, del significato che hanno assunto del tempo e di come sono stati modificati dal tempo o dagli uomini e dalle donne di questo paese. Questa ricerca dovrebbe così permettere di leggere e analizzare i diversi modi in cui nelle composite comunità locali e territoriali la memoria del fascismo è stata preservata e/o ricostruita, come questa costruzione si collochi in relazione con altre memorie politiche e come, nel corso di questi anni, in concomitanza con la rilegittimazione in corso dell’esperienza fascista, queste memorie si siano ridefinite e rialimentate. Questo progetto ha nutrito anche una riflessione scientifica più articolata, che è stata ripresa e riarticolata nel volume curato da Giulia Albanese e Lucia Ceci intitolato I luoghi del fascismo. Memoria, politica e rimozione (Viella, 2022).

    Questo progetto è coordinato da Giulia Albanese insieme a un gruppo di lavoro del comitato scientifico del Parri composto da Filippo Focardi (direttore scientifico dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri), Mirco Carrattieri, Lucia Ceci, Costantino Di Sante, Carlo Greppi, Metella Montanari, Nicola Labanca. Questo gruppo, a partire dal 2021, è stato sostituito dai membri del nuovo Comitato scientifico del Parri (2021-2024): Filippo Focardi (Direttore scientifico, Presidente), Laura Bordoni, Lucia Ceci, Annalisa Cegna, Chiara Colombini, Andrea Di Michele, Nicola Labanca, Matteo Mazzoni, Santo Peli, Antonella Salomoni, Giovanni Scirocco.

    Il progetto del sito e del database è stato realizzato da Igor Pizzirusso.
    Antonio Spinelli e Giulia Dodi hanno invece curato redazione, approfondimento scientifico e validazione delle schede (oltre a contribuire con ulteriori segnalazioni).
    Fondamentale è stato il lavoro dei volontari della rete degli istituti per la storia della resistenza che hanno inviato segnalazioni o realizzato il primo censimento, ma anche da studiosi indipendenti che hanno collaborato all’individuazione dei luoghi e alla loro schedatura. Questa ricerca è dunque il frutto di un progetto collaborativo e in progress, ma ciascuna scheda riporta l’indicazione dell’autore della compilazione.

    L’Istituto nazionale Ferruccio Parri ha aperto una collaborazione con Postcolonialitaly.com, per rendere disponibili a quel progetto i luoghi coloniali censiti in questo sito e ricevere le schede di quel sito con riferimento ai luoghi coloniali che sono pertinenti per questo progetto. Nella scheda descrittiva daremo conto di eventuali schede derivate da quel progetto.


    https://www.luoghifascismo.it

    #Italie_fasciste #fascisme #Italie #cartographie #traces #visualisation #mémoire #toponymie #toponymie_politique #toponymie_fasciste

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    • I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione

      Cosa resta dei monumenti, dei complessi architettonici, delle opere d’arte attraverso cui il fascismo intese esplicitamente celebrare e tramandare sé stesso? Quale uso è stato fatto nell’Italia repubblicana di queste tracce materiali?

      In che modo la memoria dei luoghi del fascismo somiglia a quanto è avvenuto in altri stati con esperienze analoghe?

      Il volume indaga questi temi a partire da alcuni luoghi particolarmente significativi nella storia italiana (presenti in città come Roma, Milano, Latina, Livorno, Padova o in piccoli centri della Calabria) e di alcuni paesi europei (Germania, Spagna, Portogallo). Il lavoro si inserisce in un ampio progetto di ricerca dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri finalizzato alla mappatura dei luoghi della memoria commemorativa del fascismo in Italia.

      https://www.viella.it/libro/9791254691908

      #livre

  • Perché serve mappare i “segni” del fascismo presenti nelle nostre città

    Targhe, intitolazioni e monumenti. I “resti” del regime ancora evidenti sul territorio italiano sono stati raccolti in una piattaforma online dall’Istituto nazionale Ferruccio Parri. Ma tocca alla cittadinanza decidere in che modo agire per dargli un nuovo senso.

    Nell’atrio della questura di Trieste è impossibile non vedere una lapide che ricorda i nomi dei poliziotti caduti nel compimento del proprio dovere. Nell’elenco compare anche quello di Gaetano Collotti e di altri agenti che tra il 1942 e il 1945 avevano fatto parte dell’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza incaricato alla repressione di partigiani e antifascisti. A Corigliano Calabro, in provincia di Cosenza, c’è ancora una via intitolata a Emilio De Bono, gerarca della prima ora e quadrumviro della Marcia su Roma. All’imbocco della galleria ferroviaria tra Ibla e Ragusa (RG) è ancora visibile la scritta: “Duce, i nostri caduti di guerra saranno vendicati”. Per non parlare dell’imponente obelisco all’ingresso del Foro italico di Roma, con le scritte “Mussolini” e “Dux”.

    Sono solo alcuni esempi -piccoli e grandi- dei molti luoghi dove ancora oggi è possibile trovare tracce del passato fascista dell’Italia, raccolti dai ricercatori dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri (che coordina la rete degli istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea in Italia) in una mappa online nell’ambito del progetto “I luoghi del fascismo” e che è possibile approfondire attraverso singole schede dedicate a ciascuna targa, intitolazione o monumento censito. “Il fascismo aveva un’idea molto chiara del fatto che il controllo politico del territorio passava necessariamente anche attraverso l’intitolazione di strade e monumenti -spiega Giulia Albanese, professoressa di Storia contemporanea presso l’Università di Padova e coordinatrice del progetto-. La forza di questo impatto, tuttavia, non è mai stata oggetto di una riflessione ampia da parte della classe dirigente dell’Italia repubblicana”.

    Il progetto affonda le sue radici in una discussione all’interno della rete degli Istituti per la storia della Resistenza rispetto ai simboli del regime ancora evidenti sul territorio. “A innescare questo percorso, nel 2018, fu il dibattito attorno alla possibile istituzione di un museo del fascismo a Predappio -ricorda Albanese-. La mia proposta fu quella di ragionare in maniera complessiva su quali fossero i luoghi commemorativi ancora presenti oggi in Italia e così, pur tra molte difficoltà, abbiamo dato il via alla mappatura”.

    Nel database e nella mappa sono stati inseriti monumenti e lapidi, scritte, intitolazioni di scuole e di vie che commemorano personaggi ed episodi legati al fascismo, sia a livello nazionale sia locale. Per individuarli è stato necessario applicare alcuni criteri: “Il territorio italiano è pieno di opere architettoniche che nel dopoguerra sono state utilizzate per altri scopi: noi abbiamo scelto di includere solo quelle che avevano forti segni commemorativi ancora visibili”, spiega Albanese. Un’analoga selezione è stata fatta per le vie che portano il nome di protagonisti o di luoghi legati al colonialismo italiano: in questo caso la scelta è stata di inserire solo quelle intitolate dopo il 1922, anno della presa del potere da parte di Mussolini. Il lavoro ha portato non solo alla creazione del sito (che può essere costantemente aggiornato ed è possibile inviare le proprie segnalazioni grazie a un apposito form) ma anche alla pubblicazione del volume “I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione” (Viella, 2022): una raccolta di saggi a firma di diversi autori che approfondiscono vari aspetti del tema.

    Da un punto di vista temporale parte di questi monumenti e di queste intitolazioni risalgono agli anni Venti e Trenta del Novecento e non sono stati rimossi con la caduta del regime. “Dopo il 1945 ci sono state alcune indicazioni in tal senso dalla presidenza del Consiglio dei ministri -ricorda Albanese- ma in generale la questione è stata demandata alle autorità, alle sensibilità e alle culture politiche locali. Nel nostro Paese è mancata una riflessione collettiva su che cosa fare con questo patrimonio e come agire per costruire un segno dell’Italia repubblicana sul nostro territorio”. Non solo: anche dopo il 25 aprile 1945 ci sono state nuove intitolazioni. “Questo è legato alla normalizzazione e alla banalizzazione dell’esperienza fascista, soprattutto nell’immediato dopoguerra. Poi, tra gli anni Ottanta e Novanta, assistiamo al ritorno nell’odonomastica di una serie di figure legate alla memoria di quel periodo storico e alla Repubblica sociale italiana, che fino a quel momento erano assenti -riprende Albanese-. Questa fase coincide con l’ascesa politica di Alleanza nazionale che ha fatto sì che alcune figure tornassero in auge. Ma non solo: fu Francesco Rutelli a proporre, nel 1995, di intitolare una strada di Roma a Giuseppe Bottai, già ministro sotto il fascismo. Segno anche di una certa inconsapevolezza di fronte a questi temi del mondo democratico e della sinistra”.

    Che cosa fare, quindi, con questa eredità poco evidente ma decisamente ingombrante? “Il nostro compito, come storici, è stato quello di individuare e mappare i segni commemorativi del fascismo al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica. È arrivato il momento di affrontare questo tema in un’ottica nazionale, superando le polemiche sui singoli episodi come è avvenuto in passato. Accogliere questa consapevolezza, discutere per valutare le opzioni possibili è una scelta politica, che riguarda la polis e il modo con cui questa si relaziona con la propria storia”, sottolinea Albanese. Possibili risposte agli interrogativi su che cosa fare di questi luoghi sono offerte da due episodi di risignificazione. Il primo riguarda l’arco di trionfo costruito a Bolzano nel 1928 per celebrare la “vittoria” italiana della Prima guerra mondiale: nel 2014, contestualmente a un intervento di restauro, è stato inaugurato un percorso espositivo dedicato alla storia della città tra il 1918 e il 1945 che permette agli osservatori di contestualizzare il monumento. Il secondo arriva dal Comune di Palazzolo Acreide (SR) dove nel 1936 venne posta una lapide per ricordare “l’enorme ingiustizia” delle sanzioni comminate all’Italia dalla Società delle Nazioni a seguito dell’invasione dell’Etiopia. “Nel 2014 l’amministrazione comunale ha deciso di non rimuoverla ma di affiancarla a una targa in vetro che esprime la lontananza politica e culturale dagli avvenimenti citati -conclude Albanese-. Questi processi di contestualizzazione storica sono molto efficaci perché aiutano a costruire una condivisione di valori attorno a episodi del passato senza censurarli”.

    https://altreconomia.it/perche-serve-mappare-i-segni-del-fascismo-presenti-nelle-nostre-citta

    #Italie #toponymie_coloniale #toponymie_politique #noms_de_rue

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  • La memoria rimossa del massacro di Debre Libanos e dell’età coloniale italiana

    Tra il 20 e il 29 maggio 1937 le truppe italiane massacrarono più di duemila monaci e pellegrini al monastero etiope. Una strage che, come altri crimini di guerra commessi nelle colonie, trova spazio a fatica nel discorso pubblico, nonostante i passi fatti da storiografia e letteratura. Con quel passato il nostro Paese non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale.

    “Questo avvocato militare mi ha comunicato proprio in questo momento che habet raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debra Libanos con gli autori dello attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore. Prego farmi assicurazione comunicandomi il numero di essi”.

    È il 19 maggio 1937. Con queste poche parole Rodolfo Graziani, “viceré d’Etiopia”, dà il via al massacro dei monaci di Debre Libanos, uno dei monasteri più importanti del Paese, il cuore della chiesa etiopica. Solo tre mesi prima Graziani era sopravvissuto a un attentato da parte di due giovani eritrei, ex collaboratori dell’amministrazione coloniale italiana, che agirono isolatamente, seppur vicini alla resistenza anti-italiana. La reazione fu spietata: tra il 19 e il 21 febbraio le truppe italiane, appoggiate dai civili e dalle squadre fasciste, uccisero quasi 20mila abitanti di Addis Abeba.

    Le violenze proseguirono per mesi e si allargarono in tutta la regione dello Scioa fino a raggiungere la città-monastero di Debre Libanos, a circa 150 chilometri dalla capitale etiope dove tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo il più grande eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano.

    “Vennero massacrate circa duemila persone tra monaci e pellegrini perché ritenuti in qualche modo conniventi con l’attentato a Graziani -spiega ad Altreconomia Paolo Borruso, docente di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano e autore del saggio “Debre Libanos 1937” (Laterza, 2020)-. Si è trattato di un vero e proprio crimine di guerra, poiché l’eccidio è stato qualcosa che è andato al di là della logica militare, andando a colpire dei religiosi, peraltro cristiani e inermi”.

    Al pari di molte altre vicende legate al passato coloniale italiano, a partire proprio dal massacro di Addis Abeba, anche la tragica vicenda di Debre Libanos è rimasta ai margini del discorso pubblico. Manca una memoria consapevole sulle responsabilità per gli eccidi e le violenze commesse dagli italiani nel corso della loro “avventura” coloniale per andare alla ricerca di un “posto al sole” in Libia, in Eritrea, Somalia ed Etiopia al pari delle altre nazioni europee, vengono ancora oggi occultate dalla coscienza pubblica.

    “La storiografia, a partire dal lavoro di Angelo Del Boca, ha fatto enormi passi avanti. Non c’è un problema di ricerca storica sul tema, quello che manca, piuttosto, è la conoscenza di quello che è avvenuto in quella fase storica al di là dei circoli degli addetti ai lavori”, puntualizza Valeria Deplano, docente di storia contemporanea all’Università di Cagliari e autrice, assieme ad Alessandro Pes di “Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni” (Carocci, 2024).

    Se da un lato è molto difficile oggi trovare chi nega pubblicamente l’uso dei gas in Etiopia, dall’altro è ancora molto diffusa l’idea che le violenze furono delle eccezioni riconducibili alle decisioni di pochi, dei vertici: il mito degli italiani “brava gente”, dunque, resiste ancora a ben sedici anni di distanza dalla pubblicazione dell’omonimo libro di Angelo Del Boca.

    Che l’Italia non abbia ancora fatto compiutamente i conti con il proprio passato coloniale lo dimostrano, ad esempio, le accese polemiche attorno alle richieste avanzate da attivisti e comunità afro-discendenti per modificare e contestualizzare la toponomastica delle nostre città o per una ri-significazione dei di monumenti che celebrano il colonialismo italiano (ad esempio l’obelisco che celebra i cinquecento caduti italiani nella battaglia di Dogali a Roma, nei pressi della Stazione Termini) (https://altreconomia.it/perche-serve-mappare-i-segni-del-fascismo-presenti-nelle-nostre-citta). Temi che vengono promossi, tra gli altri, dalla rete Yekatit 12-19 febbraio il cui obiettivo è quello contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia e che vorrebbe il riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano.

    “C’è un rifiuto a riconoscere il fatto che i monumenti e le strade intitolate a generali e luoghi di battaglia sono incompatibili con i valori di cui la Repubblica dovrebbe farsi garante”, sottolinea Deplano ricordando come fu proprio nel secondo Dopoguerra che si costruì un racconto del colonialismo finalizzato a separare quello “cattivo” del regime fascista da quello “buono” dell’Italia liberale. Una narrazione funzionale all’obiettivo di ottenere dalle Nazioni Unite un ruolo nella gestione di alcune ex colonie alla fine della Seconda guerra mondiale: se l’Eritrea (la “colonia primigenia”) nel 1952 entra a far parte della Federazione etiopica per decisione dell’Onu, Roma ottenne invece l’Amministrazione fiduciaria della Somalia, esercitando un impatto significativo sulle sorti di quel Paese per decenni.

    “Invece ci fu continuità -sottolinea Deplano-. Furono i governi liberali a occupare l’Eritrea nel 1882 e ad aprire le carceri dove vennero rinchiusi i dissidenti eritrei, a dichiarare guerra all’Impero ottomano per occupare la Libia nel 1911 dove l’Italia fu il primo Paese a utilizzare la deportazione della popolazione civile come arma di guerra. Il fascismo ha proseguito lungo questa linea con ancora maggiore enfasi, applicando in Africa la stessa violenza che aveva già messo in atto sul territorio nazionale”.

    Con quel passato l’Italia non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale. Come ricorda Paolo Borruso in un articolo pubblicato su Avvenire (https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta), Graziani venne condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per i crimini commessi in Africa. Le ex colonie ricevettero indennizzi irrisori e persino gli oggetti sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia non furono mai ritrovati.

    “Gli italiani non possono ricordare solo quelle pagine della loro storia funzionali alla costruzione di un’immagine positiva, serve una consapevolezza nuova”, riflette Borruso. Che mette l’accento anche su una “discrasia pericolosa: da un lato la giusta memoria delle stragi nazi-fasciste commesse ‘in Italia’ e dall’altro la pubblica amnesia sulle violenze commesse ‘dall’Italia’ nelle sue colonie in Africa. Questo distacco dalla storia è molto preoccupante perché lascia la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti, aprendo vuoti insidiosi e facilmente colmabili da slogan e da letture semplificate del passato, fino alla riemersione di epiteti e attributi razzisti, che si pensava superati e che finiscono per involgarire la coscienza civile su cui si è costruita l’Italia democratica”.

    Se agli storici spetta il compito di scrivere la storia, agli scrittori spetta quello di tracciare fili rossi tra passato e presente, portando alla luce memorie sepolte per analizzarle e contestualizzarle. Lo ha fatto, ad esempio, la scrittrice Elena Rausa autrice di “Le invisibili” (Neri Pozza 2024) (https://neripozza.it/libro/9788854529120), un romanzo che si apre ad Addis Abeba, durante la rappresaglia del 1937 per concludersi in anni più recenti e che dà voce a uno dei “reduci” dell’avventura coloniale italiana e a suo figlio. “Ho voluto indagare in che modo le memorie negate dei traumi inflitti o subiti continuano a influenzare l’oggi -spiega ad Altreconomia-. Tutto ciò che non viene raccontato continua a esercitare delle influenze inconsapevoli: si stima che un italiano su cinque abbia nella propria storia familiare dei cimeli legati alle campagne militari per la conquista dell’Eritrea, della Libia, della Somalia e dell’Etiopia. In larga parte sono uomini che hanno fatto o, più facilmente, hanno visto cose di cui pochi hanno parlato”.

    A confermare queste osservazioni, Paolo Borruso richiama il suo ultimo saggio “Testimone di un massacro” (Guerini 2022) (https://www.guerini.it/index.php/prodotto/testimone-di-un-massacro), relativa al diario di un ufficiale alpino che partecipò a numerose azioni repressive in Etiopia, al comando di un reparto di ascari (indigeni arruolati), fino alla strage di Debre Libanos, sia pur con mansioni indirette di sorveglianza del territorio: una testimonianza unica, mai apparsa nella memorialistica coloniale italiana.

    Un altro filo rosso è legato alle date: l’invasione dell’Etiopia da parte delle truppe dell’Italia fascista ebbe inizio il 3 ottobre 1935. Quasi ottant’anni dopo, nel 2013, in quello stesso giorno più di trecento profughi, in larga parte eritrei ed etiopi, perdevano la vita davanti all’isola di Lampedusa. Migranti provenienti da Paesi che hanno con l’Italia un legame storico.

    E se oggi la migrazione segue una rotta che va da Sud verso Nord, in passato il percorso è stato inverso: “Come il protagonista del mio romanzo, anche il mio bisnonno è partito per l’Etiopia, ma non per combattere -racconta-. Migliaia di persone lasciarono l’Italia per lavorare in Etiopia e molti rimasero anche dopo il 1941. Anche in quel caso a partire furono persone che si misero in viaggio alla ricerca di condizioni migliori di vita per sé e per i propri figli. Ricordare anche quella parte di storia migratoria italiana significa riconoscere la radice inconsapevole del nostro modo di guardare chi oggi lascia la propria terra per compiere un viaggio inverso”.

    https://altreconomia.it/la-memoria-rimossa-del-massacro-di-debre-libanos-e-delleta-coloniale-it
    #colonialisme #Italie_coloniale #colonialisme_italien #massacre #Debre_Libanos #monastère #Ethiopie #histoire_coloniale #Rodolfo_Graziani #fascisme #Scioa #violence #crimes_de_guerre #mémoire #italiani_brava_gente #passé_colonial #toponymie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #déportations

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    • Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia

      Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All’eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant’anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858141083
      #livre #Paolo_Borruso

    • Storia. Su Debre Libanos il dovere della memoria è conquista di civiltà

      Dal 21 al 27 maggio 1937 il viceré Graziani fece uccidere duemila etiopi. Un eccidio coloniale a lungo rimosso che chiede l’attenzione delle istituzioni e della storiografia.

      Il nome di Debre Libanos è tristemente legato al più grave crimine di guerra italiano, ordinato dal viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani come rappresaglia per un attentato da cui era sfuggito. È il più antico santuario cristiano dell’Etiopia, meta di pellegrini da tutto il paese. Il 12 Ginbot (20 maggio) ricorre la memoria della traslazione, nel 1370, dei resti di san Tekla Haymanot – fondatore nel XIII secolo della prima comunità monastica in quel sito –: è la festa più sacra dell’anno, particolarmente attesa a Debre Libanos non solo tra i monaci, ma da tutti i cristiani etiopici provenienti da ogni parte del paese. È il giorno di massima affluenza di persone nel monastero. Ed è il motivo che spinse il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani ad una cinica pianificazione fin nei minimi dettagli. Tra il 21 e il 27 maggio 1937 i militari italiani, sotto la guida del generale Pietro Maletti, presidiarono il santuario e prelevarono i presenti, caricandoli a gruppi su camion verso luoghi isolati, dove ebbero luogo le esecuzioni, ordinate ai reparti coloniali musulmani per scongiurare possibili ritrosie degli ascari cristiani di fronte a correligionari. Nonostante le 452 esecuzioni dichiarate da Graziani per cautelarsi da eventuali inchieste, le indagini più recenti attestano un numero molto più alto, compreso tra le 1.800 e le 2.200.

      Sono passati 86 anni da quel tragico episodio, che andò molto al di là di una strategia puramente militare. Un «crimine di guerra», appunto, per il quale i responsabili non furono mai processati. Nel dopoguerra Graziani fu condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per le violenze inflitte in Africa, e scontò solo quattro mesi in seguito ad amnistia, divenendo nel 1952 presidente onorario del Movimento sociale italiano, erede diretto del fascismo.

      Nell’Italia del dopoguerra, le esigenze del nuovo corso democratico spinsero a rimuovere memorie e responsabilità di quella violenta e imbarazzante stagione, potenziali ostacoli ad una sua collocazione nel campo occidentale auspicata da Usa e Inghilterra. Dei risarcimenti previsti dai trattati di pace del ‘47, fu elargita una cifra irrisoria, oltre i termini temporali stabiliti di dieci anni; i beni e arredi sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia, mai ritrovati; unica restituzione, il noto obelisco di Axum, avvenuta nel 2004 (dopo quasi 60 anni!). Paradossalmente, la copertura dell’episodio parve una scelta obbligata anche per l’Etiopia di Haile Selassie, in nome di una ripresa del paese, dopo la fine dell’occupazione coloniale e della guerra mondiale, e di una inedita leadership internazionale negli anni della decolonizzazione, nonostante la persistenza di una ferita profonda mai rimarginata.

      Solo negli anni settanta, a partire dagli studi di Angelo Del Boca, l’«assordante» silenzio attorno ai «crimini» dell’Italia in Africa ha cominciato a dissolversi, decostruendo faticosamente il mito dell’«italiano brava gente». La storiografia ambiva divenire un polo di interlocuzione importante per la “memoria” pubblica del paese ed apriva la strada a nuove relazioni con l’Etiopia. Ne fu un segnale la visita ad Addis Abeba del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nel 1997, il quale richiamò il tributo di sangue versato dal popolo etiopico durante la dolorosa esperienza dell’occupazione fascista e la necessità di quella memoria per rilanciare proficui rapporti di pace e cooperazione. Ricordo, successivamente, la proposta di Del Boca, nel 2006, di istituire una “giornata della memoria” per le vittime del colonialismo italiano, ma neppure fu discussa in parlamento, e quindi fu archiviata. È qui che la storiografia è chiamata a consolidare gli anticorpi di fronte rimozioni e amnesie che rischiano di erodere rapidamente la coscienza pubblica. È il caso del monumento in onore del maresciallo Graziani, eretto nel 2012 ad Affile, nel Lazio, con i fondi della Regione, ultimo eclatante atto di oscuramento della memoria, suscitando immediate reazioni della comunità scientifica e dell’associazionismo italiano.

      A partire dal 2016, alcuni articoli apparsi sulla stampa, tra cui ripetuti interventi di Andrea Riccardi, e lo sconcertante film documentario Debre Libanos, realizzato da Antonello Carvigiani per TV 2000, hanno richiamato l’attenzione su quell’eccidio fascista. Un riconoscimento pubblico venne esplicitato in quell’anno dal presidente Mattarella ad Addis Abeba, quando in un eloquente “silenzio” depose una corona di fiori al monumento della vittoria Meyazia 27, in piazza Arat Kilo, in memoria dei caduti della resistenza etiopica dell’epoca e salutò uno ad uno ex partigiani etiopici, ormai anziani. Sotto queste sollecitazioni, l’allora ministero della difesa emanò un comunicato stampa, che richiamava la tragica rappresaglia con cui «il regime fascista fece strage della comunità dei copti; monaci, studenti, e fedeli del monastero di Debra Libanos. L’eccidio durò vari giorni, crudele e metodico. In Italia con il silenzio di tutti, durante il fascismo ma anche dopo, l’episodio era stato dimenticato […]», e si assumeva l’impegno ad approfondirne le dinamiche storiche con la costituzione di un’apposita commissione di studiosi, militari ed esperti. Altre urgenze, tuttavia, s’imposero nell’agenda politica e l’iniziativa non ebbe seguito.

      L’attuale disattenzione da parte delle istituzioni dello Stato italiano chiama nuovamente in causa la storiografia per la sua funzione civile di preservazione della memoria storica. C’è, qui, una discrasia da colmare: a fronte degli eccidi nazifascisti sul territorio italiano – oggi noti, con luoghi memoriali di alto valore simbolico per la storia nazionale –, il massacro di Debre Libanos è accaduto in Africa, fuori dal territorio nazionale, in un’area rimasta, per decenni, assente anche sul piano storiografico, le cui responsabilità sono ascrivibili direttamente all’Italia e non possono essere negate né oscurate. Occorre, in questo senso, allargare i confini della memoria storica, rinsaldando il rapporto tra storia e memoria come un argine di resistenza fondamentale per la difesa di una cultura civile, oggi provata da un crescente e preoccupante distacco dal vissuto storico. Lo smarrimento del contatto con “quel” passato coloniale, e con quella lunga storia di rapporti con l’Africa, rischia di lasciare la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti e discriminatorie, potenziali o in atto.

      https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta

  • #Macédoine_du_Nord : la nouvelle présidente refuse d’utiliser le nom officiel du pays

    Lors de sa prestation de serment, #Gordana_Siljanovska-Davkova, première femme présidente de la Macédoine du Nord, a refusé de prononcer le nouveau nom du pays adopté après un accord « historique » avec la Grèce.

    Fraîchement élue, la première femme présidente de la Macédoine du Nord a refusé de prononcer le nouveau nom du pays utilisé depuis un accord conclu en 2018 avec la Grèce. « Je déclare que j’exercerai la fonction de présidente de Macédoine de manière consciencieuse et responsable, que je respecterai la Constitution et les lois et que je protégerai la souveraineté, l’intégrité territoriale et l’indépendance de la Macédoine », a déclaré dimanche 12 mai Gordana Siljanovska-Davkova devant les députés du Parlement et des invités lors de sa prestation de serment.

    Dans le texte officiel, qu’elle a répété, c’est bien le nom constitutionnel de Macédoine du Nord qui est employé. Skopje a conclu en 2018 un accord « historique » avec la Grèce, en acceptant d’ajouter la mention géographique « du Nord » au nom du pays, pour mettre fin à une querelle de longue date avec son voisin, qui bloquait pour cette raison son adhésion à l’OTAN et ses négociations d’adhésion à l’Union européenne (UE).

    Depuis, le pays est devenu membre de l’OTAN. Mais la formation de droite nationaliste VMRO-DPMNE, dont Gordana Siljanovska-Davkova était la candidate au dernier scrutin présidentiel, s’opposait à cet accord avec la Grèce.

    Départ de l’ambassadrice de #Grèce

    Athènes a vivement réagi aux propos de Gordana Siljanovska-Davkova. Sa déclaration est une « violation flagrante de l’accord de Prespa et de la Constitution du pays voisin, qui est conforme à ses obligations internationales », a écrit dans un communiqué le ministère des affaires étrangères grec.

    « La Grèce déclare catégoriquement que la poursuite des progrès dans ses relations bilatérales avec la Macédoine du Nord et le parcours européen de cette dernière dépendent de la mise en œuvre intégrale de l’accord de Prespa et, surtout, de l’utilisation du nom constitutionnel du pays voisin », a ajouté le ministère. L’ambassadrice de Grèce à Skopje a quitté la cérémonie au Parlement en signe de protestation, ont rapporté les médias locaux, en citant l’ambassade grecque.
    Skopje rappelée au respect de ses engagements

    Dans un premier temps, la prise de fonctions de la présidente macédonienne a été saluée depuis Bruxelles par la présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen, et le président du Conseil européen, Charles Michel. Mais dans un second message posté sur X, la présidente de la Commission européenne a jugé « primordial » que la Macédoine du Nord « continue sur la voie des réformes et respecte pleinement ses engagements » dans la perspective d’une adhésion à l’UE.

    Le VMRO-DPMNE est également arrivé largement en tête des élections législatives, qui se sont déroulées aussi le 8 mai, s’assurant 58 des 120 sièges au Parlement en battant l’Union sociale-démocrate de Macédoine (SDSM), au pouvoir depuis 2017. Le retour au pouvoir de l’opposition de droite dans ce pays pauvre des Balkans de 1,8 million d’habitants risque de raviver les tensions avec la Grèce mais aussi avec la Bulgarie, qui pose ses propres conditions pour faire avancer les négociations d’adhésion de la Macédoine du Nord à l’UE.

    Elue le 8 mai pour un mandat de cinq ans, en battant avec 65 % des voix le chef de l’Etat sortant social-démocrate, Stevo Pendarovski, Mme Siljanovska-Davkova est la première femme à accéder à cette fonction depuis la proclamation d’indépendance de ce petit pays des Balkans en 1991. Cette professeure universitaire à la retraite, qui a fêté samedi son 71e anniversaire, a assuré qu’elle serait la présidente de « tous les citoyens » et a appelé à l’« unité » dans le pays.

    https://www.lemonde.fr/international/article/2024/05/12/macedoine-du-nord-la-nouvelle-presidente-refuse-d-utiliser-le-nom-officiel-d

    #toponymie #toponymie_politique

    via @reka

  • Mettre l’#eau_en_bouteille

    A Vittel, la naissance du #thermalisme au milieu du 19ème a jeté les bases d’un accaparement de la #ressource_aquifère par l’intérêt privé. Cet intérêt porte aujourd’hui le nom d’une multinationale, Nestlé, qui pompe des millions de mètres cubes par an.

    Nous sommes à Vittel. Ici, Nestlé Waters produit annuellement plus d’un milliard de bouteilles vendues sous les marques Vittel, #Hepar et #Contrex. Si l’eau puisée ici a fait rayonner la ville dans le monde entier depuis 1854, l’épuisement de la ressource et la sécheresse qui l’accompagne déclenchent aujourd’hui une importante levée de bouclier.

    Bernard Schmidt, militant du collectif eau 88 s’interroge : “Le problème de l’eau en bouteille, c’est de savoir à qui appartient l’eau ? Comment se fait-il qu’une entreprise, hier une entreprise familiale, aujourd’hui Nestlé, possède un quasi-monopole, je dis quasi parce que juridiquement c’est compliqué, mais un quasi-monopole d’exploitation que l’Etat ne sait pas ou ne veut pas remettre en cause. Si moi je veux faire un puits derrière chez moi, n’importe où en France, je peux le faire ici. Il faut que je démontre à Nestlé que je ne vais pas nuire à sa production. Et Nestlé a fait fermer tous les puits, les hôtels qui avaient eu nos gratuites”.

    Comment une ville d’eau a-t-elle pu en manquer au point d’être reconnue en état de catastrophe naturelle en 2022 ? Nous racontons ici comment le combat homérique d’une poignée d’habitants contre la multinationale témoigne des préoccupations environnementales contemporaines et d’une évolution du rapport de force.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/lsd-la-serie-documentaire/mettre-l-eau-en-bouteille-4596377

    #eau #sécheresse #Vittel #Nestlé #Nestlé_waters #société_des_eaux #décharges #décharges_sauvages #résistance #justice #condamnation #prise_illégale_d'intérêt #intérêt_public #foncier #terres #accaparement_des_terres #Vosges #néo-féodalisme #néo-colonialisme #agriculture #safer #AGRIVAIR #green-washing #nappes_de_surface #agriculture_biologique #multinationales #escroquerie #sous-sol #appropriation #propriété #eaux_souterraines

    #audio #podcast

  • #France : une #statue de #Bigeard, le tortionnaire des Algériens, déclenche la polémique

    Alors que l’Algérie continue de réclamer la reconnaissance et la condamnation de la torture coloniale française, le projet d’ériger une statue à #Toul (Meurthe-et-Moselle, nord-est de la France) en l’honneur du colonel Marcel Bigeard suscite une colère légitime chez les Algériens et les Français qui ont conscience des crimes de la #colonisation.

    Bigeard, symbole de la cruauté et de la barbarie de la guerre d’Algérie, est accusé d’avoir commandité et pratiqué la torture contre des Algériens. Son nom est gravé dans la mémoire collective comme synonyme de terreur et de répression.

    Les témoignages poignants des victimes et de leurs familles, ainsi que les documents historiques, accablent Bigeard. Son Manuel de contre-guérilla, véritable manuel de torture, justifie et encourage l’utilisation de cette pratique barbare.

    Le refus de Bigeard de reconnaître ses crimes et son arrogance face aux accusations ne font qu’amplifier la douleur et la colère des Algériens.

    « Comment pouvons-nous envisager d’ériger une statue du parachutiste Marcel Bigeard, comme le souhaite la municipalité de Toul ? Est-il concevable de glorifier la pratique de la torture coloniale dont il est l’un des symboles ? »
    L’association Union Algérienne menace de saisir la justice pour « apologie de crime de guerre »

    C’est ainsi que s’interrogent les historiens français Fabrice Riceputi et Alain Ruscio dans une longue pétition cosignée par les deux hommes et publiée samedi (16 mars) sur le site « Histoire coloniale » (lancé en 2017 par des chercheurs et des enseignants en histoire en France). La pétition est adressée au public français.

    Les historiens annoncent que l’Association française d’histoire coloniale a l’intention de faire pression sur la municipalité de Toul, d’où est originaire Bigeard (décédé en 2010), pour l’empêcher d’ériger la statue.

    La pétition souligne que « l’acte que la municipalité de Toul s’apprête à accomplir intervient au moment où les municipalités de Paris et de Marseille ont retiré les plaques commémorant le maréchal Bugeaud, bourreau du peuple algérien pendant la conquête coloniale ».

    Alors que la France s’engage timidement à reconnaître son passé colonial, glorifier un tortionnaire comme Bigeard est une insulte à la mémoire des victimes algériennes et un obstacle à la réconciliation entre les deux pays.

    De son côté, l’association Unions Algérienne compte saisir la justice pour « apologie de crime de guerre » si la statue de #Marcel_Bigeard est érigée à Toul.

    https://www.algerie360.com/france-une-statue-de-bigeard-le-tortionnaire-des-algeriens-declenche-la-
    #Algérie #monument #toponymie #toponymie_politique #torture #guerre_d'Algérie

    ping @cede

    • Scandale à Toul, une statue pour honorer le général Bigeard, tortionnaire en Algérie

      Dans la sous-préfecture de Meurthe-et-Moselle, l’érection d’une statue en #hommage au général Marcel Bigeard, accusé de torture en Algérie, oppose la mairie, pourtant de gauche, à un collectif citoyen d’historiens, d’associatifs, de communistes et d’insoumis.

      La statue en bronze, haute de plus de deux mètres, dort pour le moment dans un entrepôt de caserne du 516e régiment du train. À moins de deux kilomètres de la vive controverse qu’elle suscite dans cette sous-préfecture de Meurthe-et-Moselle, peuplée de 15 000 habitants.

      Elle représente, glorieux dans son uniforme de parachutiste, Marcel Bigeard. Général multidécoré, résistant, ancien député et secrétaire d’État à la Défense. Né à Toul, élu à Toul, mort à Toul. Bref un « enfant du pays », dont la statue devait être érigée le 18 juin prochain, pour l’anniversaire de l’appel de Charles de Gaulle et celui de la mort de Bigeard.

      Mais le général, décédé en 2010, n’a pas que des thuriféraires. Car l’homme est aussi, bien qu’il l’ait nié toute sa vie, l’un des artisans du système de torture institutionnalisé durant la guerre d’Algérie, notamment durant la « bataille d’Alger ».

      Lorsque l’armée française se livre à des exécutions sommaires, coulant les pieds de ses prisonniers dans le béton avant de les jeter à la mer depuis des hélicoptères, les Algériens surnomment cette technique sordide « les crevettes Bigeard ». Un collectif toulois, « Histoire et mémoire dans le respect des droits humains », s’est donc créé pour protester contre l’érection de la statue, votée deux fois par le conseil municipal, pourtant dirigé par la gauche, en 2018 et en 2023.
      « La mettre à côté d’un monument aux morts, c’est une honte ! »

      Le 26 mars, une centaine de Toulois, communistes, insoumis, militants de la Ligue des droits de l’homme ou d’associations antiracistes ont bravé le crachin qui mouille les pavés du vieux centre, non loin de l’hôtel de ville, pour protester à nouveau contre cette décision.

      L’initiateur du collectif, Philippe Champouillon, 88 ans et lui-même vétéran d’Algérie, monte à la tribune. Il s’est longtemps battu seul contre la mairie. Sa voix usée peine à contenir son émotion : « Cette statue glorifierait un passé qui salit la France, et ternirait le patrimoine culturel de Toul. La mettre à côté d’un monument aux morts, c’est une honte ! »

      La sculpture doit en effet prendre place dans un ensemble mémoriel, située à l’entrée de la ville pour qui arrive par la gare de Toul. Un imposant édifice commémorant les morts de l’invasion prussienne de 1870 y toise les grandes plaques en hommage aux morts des deux guerres mondiales.

      Derrière, coule une petite rivière, à l’ombre des remparts de la vieille ville, réminiscence de la fonction militaire de cette commune, qui accueille depuis plusieurs siècles des garnisons. Durant l’entre-deux-guerres, il y vivait plus de militaires que de civils. Dans cette commune où l’on peut croiser l’ancienne ministre Nadine Morano, qui fit un mandat de députée dans la circonscription, les soldats ont bonne presse, et la fibre patriote est vive.

      « Nous ne sommes pas dans une ville ouvrière, marquée par des luttes syndicales, confirme Patrick Bretenoux, secrétaire de la section PCF de Toul. C’est plutôt une ville marquée par son passé militaire, et l’ancrage de la religion catholique. Il y a un fort vote RN. » Marine Le Pen a recueilli 49,4 % des suffrages à Toul, au second tour de la présidentielle 2022. Le député actuel est toutefois socialiste. Mais Dominique Potier n’a pas souhaité, pour le moment, s’exprimer sur l’affaire de la statue de Toul. Le maire, Alde Harmand, lui, « assume ».
      Une décision en plusieurs étapes

      Rembobinons. En 2018, la Fondation Général-Bigeard, dépositaire de sa mémoire, propose d’offrir à Toul une statue du général, tous frais payés. Anne-Marie Quenette préside cet organisme. Outre son combat en faveur du gradé, cette ancienne avocate, aujourd’hui très âgée, s’est battue pour réhabiliter la mémoire de son père, Jean Quenette, un préfet « vichysto résistant » déclaré inéligible après la Libération pour avoir voté les pleins pouvoirs à Pétain. Le conseil municipal met la proposition au vote.

      Elle est acceptée. Les communistes, qui siégeaient dans la majorité et y siègent encore, s’abstiennent lors de ce premier scrutin. Cinq ans et une pandémie mondiale plus tard, en 2023, le maire organise un second scrutin. Les communistes votent cette fois contre, mais l’installation de la statue est à nouveau adoptée.

      Ses promoteurs s’appuient sur le fait qu’il n’y a pas de preuve directe que Marcel Bigeard se soit livré lui-même à des actes de torture, et sur ses dénégations tout au long de sa vie. En 2000, dans les colonnes du journal d’extrême droite Minute, le général en retraite assurait être « incapable d’écraser un poulet sur la route ou d’égorger un lapin. »

      Bigeard n’a rien avoué ni regretté, tout juste a-t-il évoqué un « mal nécessaire », contrairement à ses compagnons d’armes Aussaresses ou Massu. Ce dernier avait d’ailleurs déclaré, sans qu’on puisse prouver ses dires : « la première fois que j’ai vu une gégène, c’était chez Bigeard. »

      Le général Bigeard a aussi rédigé sept autobiographies pour parler de ses « hauts faits ». « De nombreux participants de la guerre d’Algérie ont éprouvé le besoin d’écrire sur eux-mêmes, de se mettre en scène, relève l’historien spécialiste de la période coloniale Alain Ruscio, qui a fait le déplacement à Toul pour épauler le collectif anti-statue. Bigeard, qui écrit souvent à la troisième personne en parlant de lui-même, se raconte comme le grand vainqueur de la « bataille d’Alger ». »

      En 1957, dix mille parachutistes sont largués sur la capitale coloniale, pour briser les revendications d’indépendance. « Ce n’était pas une bataille, mais une militarisation de la répression, voulue par le pouvoir politique, socialiste en l’occurrence, rappelle l’historien Fabrice Riceputi, présent également à Toul.

      L’objectif n’est pas de combattre les poseurs de bombe, mais de briser une grève anticoloniale déclarée par le FLN. Pour ça, les paras ont carte blanche pour enfermer, torturer, exécuter. C’est à ça qu’a participé le régiment commandé par Marcel Bigeard. Sa responsabilité est évidente. »

      Au vu de son grade d’officier parachutiste pendant la « bataille d’Alger », le fait qu’il ait cautionné et commandé l’utilisation de la gégène ou du supplice de la noyade ne souffre donc aucune contestation. Auprès de l’Humanité, le maire de Toul, Alde Harmand, ex-socialiste, balaie pourtant : « c’est le point de vue de certains, ce n’est pas à la collectivité de juger. Nous recevons autant de courriers de gens pour la statue que de gens contre. »

      L’élu concède qu’il « eut été plus heureux qu’il soit représenté en général ou en civil, plutôt qu’en para. Mais cet uniforme, ce n’est pas que l’Algérie, c’est aussi Dien Bien Phu ». Avant Alger, Marcel Bigeard a en effet opéré en Indochine, sans que l’on comprenne bien en quoi c’est une bonne nouvelle. Alde Harmand s’agace de cette controverse qui dépasse maintenant la seule politique locale : « c’est quelqu’un d’important pour Toul, il y est né, il y est mort.
      Nostalgérie

      C’est un des généraux les plus décorés de France, si on avait estimé qu’il avait commis des actes condamnables, il aurait été déchu. » « Dire qu’il y aurait encore un débat sur l’utilisation de la torture comme système en Algérie, cela relève du négationnisme », tranche l’historien Fabrice Riceputi.

      À Toul, difficile de « déboulonner » l’aura du général Bigeard. Le militaire a déjà une avenue à son nom qui, en longeant la Moselle, permet de rejoindre l’autoroute. Elle fut inaugurée de son vivant, en 1979, en présence de Valéry Giscard d’Estaing, qui l’avait nommé au gouvernement.

      Au village de Lucey, à quelques kilomètres de là, tous les 1er mai, des petits groupes de retraités, anciens d’Algérie, crapahutent dans la campagne lors du traditionnel « rallye Bigeard ». Une promenade au vert, prétexte à un gueuleton nostalgique, où on mange du couscous « comme là-bas ». Il fut un temps où le général Bigeard y participait lui-même. En 2022, sa fille en était l’invitée d’honneur.

      « Au niveau de la commune, on peine à rassembler et surtout à intéresser les jeunes, qui ne connaissant pas Bigeard ou bien s’en fichent », reconnaît le communiste toulois Patrick Bretenoux. Au niveau national, la pétition contre la statue a été signée entre autres par le secrétaire national du PCF Fabien Roussel et les députés insoumis Antoine Léaument et Thomas Portes. Elle totalise un peu plus de 1200 signatures.

      La statue sera-t-elle révélée en grande pompe le 18 juin 2024, comme prévu à l’origine ? Le bras-de-fer continue. D’autant que le nom du sculpteur choisi par la Fondation Marcel-Bigeard n’a pas échappé aux détracteurs du projet. Boris Lejeune est un collaborateur régulier de la revue Catholica, proche de l’ultra-droite catholique.

      L’artiste a à son actif une statue de Jeanne d’Arc livré à la mairie de Saint-Pétersbourg en 2021. Et, à Orange, ville dirigée de longue date par l’extrême droite, c’est sa signature qu’on retrouve en bas du Mémorial de la Terreur, dédié aux religieux tués lors de la Révolution française.

      https://www.humanite.fr/politique/guerre-dalgerie/scandale-a-toul-une-statue-pour-honorer-le-general-bigeard-tortionnaire-en-

  • #Roma_coloniale

    Sul colonialismo italiano pesa il torto di una rimozione storica, culturale e politica, ancora inspiegabile: un buco nel registro delle morti del Novecento, pagine bianche nei manuali di storia nazionale.
    Il Colonialismo spiega, più di quel che si è portati a credere, il pregiudizio razzista che ancora oggi pervade le piaghe più nascoste della società italiana; un razzismo ordinario, che può esplodere, a certe condizioni, in episodi terribili, oppure continuare a covare sotto la cenere.

    Roma è una città distratta. Le tracce coloniali, incomprese, sono ovunque: viali, piazze, obelischi, cinema, statue, targhe, tutti omaggi dedicati all’impero. Si incontrano a Villa Borghese, al Circo Massimo, alla Stazione Termini, a San Giovanni, al Foro Italico, a Garbatella, a Casalbertone. E in un intero quartiere: quello Africano.
    Forse è venuto il momento di discuterne, di ricercarle e assegnare loro un significato storico più doloroso e più giusto, senza continuare a sperare nell’oblio.

    https://lecommariedizioni.it/prodotto/roma-coloniale
    #Rome #colonialisme #Italie #Italie_coloniale #colonialisme_italien #livre #traces #toponymie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #noms_de_rue #liste #inventaire

    –-

    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

  • Presentazione pubblica della mappa sull’odonomastica coloniale di Milano

    La ricerca storico archivistica commissionata dall’Area Museo delle Culture, Progetti Interculturali e Arte nello Spazio Pubblico e condotta dall’Istituto nazionale Ferruccio Parri si è focalizzata sulle denominazioni e le intitolazioni con riferimenti alle campagne coloniali, di alcune strade e piazze della città: attraverso lo studio delle delibere del Consiglio comunale di Milano e delle delibere di Giunta è stato possibile ricostruire il periodo storico in cui queste sono state denominate dall’amministrazione cittadina. Con questa ricerca sono state individuate circa centocinquanta strade e piazze intitolate a militari, esploratori, battaglie, città e altre località o persone connesse alla storia coloniale italiana. L’elenco comprende anche quegli istituti culturali e monumenti che hanno avuto un ruolo centrale nel dibattito sul colonialismo italiano.

    La mappa che viene presentata è quindi uno strumento utile per avere una maggiore consapevolezza della storia coloniale italiana e sulla sua ricaduta sul tessuto urbano. Il lavoro svolto viene inquadrato all’interno di un panorama più ampio di riflessione sulle memorie coloniali. Il Mudec ha riattivato il dialogo con alcune personalità delle comunità Habesha presenti a Milano, già coinvolta nel progetto di museologia partecipata intrapreso per l’allestimento della sezione dedicata al colonialismo italiano all’interno di Milano Globale. Il mondo visto da qui, percorso permanente del museo. Nell’ottica di un processo di rilettura della nostra storia coloniale e di risignificazione del patrimonio ma anche dei luoghi della città marcati dalla presenza di odonimi coloniali, il Mudec ha aperto un confronto che si desidera costante e permanente sulle tematiche del colonialismo con cittadine e cittadini anche con origini diasporiche. Il lavoro realizzato fino ad oggi viene presentato a Palazzo Marino in una settimana fortemente simbolica che vuole ricordare Yekatit 12 (12 febbraio secondo il calendario etiopico, equivalente al 19 febbraio nel calendario gregoriano) data della strage di Addis Abeba del 19 febbraio 1937 a opera dell’esercito italiano.

    https://www.reteparri.it/eventi/pagine-rimosse-lesperienza-coloniale-nelle-vie-milano-nei-racconti-dalleti

    –-> j’espère pouvoir récupérer la carte...

    #toponymie #carte #Milan #Italie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #passé_colonial #colonialisme #cartographie #visualisation #noms_de_rue

    • Una settimana per indagare la memoria del colonialismo italiano

      La rete #Yekatit_12-19_febbraio -composta da associazioni, comunità di afrodiscendenti, collettivi e istituzioni- organizza una serie di eventi in diverse città italiane per riaccendere l’attenzione collettiva sul rimosso passato coloniale dell’Italia, fatto di violenze e crimini. Per riflettere sul passato ma soprattutto sul presente

      Per la quasi totalità degli italiani quella del 19 febbraio è una data senza particolari significati. Una data rimossa dalla memoria collettiva insieme a molti altri eventi dell’esperienza coloniale italiana ma che meriterebbe un uno spazio significativo sui libri di storia e non solo. Tra il 19 e il 21 febbraio 1937, infatti, le truppe italiane -con il supporto dei civili e delle squadre fasciste- massacrarono circa 20mila abitanti di Addis Abeba, una feroce repressione a seguito del fallito attentato contro il maresciallo Rodolfo Graziani -allora viceré d’Etiopia- a opera di due giovani resistenti eritrei. Le violenze degli italiani durarono per mesi e si estesero ad altre parti del Paese, fino all’eccidio di chierici e fedeli nella cittadina monastica di Debre Libanos a maggio dello stesso anno.

      Per riaccendere l’attenzione collettiva su questa vicenda, sulle violenze e i crimini del colonialismo italiano e sulle memorie rimosse della storia italiana, la rete Yekatit 12-19 febbraio -formata da associazioni, comunità di afrodiscendenti, collettivi e istituzioni- che prende il nome proprio dalla data del massacro indicata secondo il calendario etiope, sia secondo il calendario gregoriano, ha organizzato l’iniziativa “Memorie e (R)esistenze” con un ricco calendario di appuntamenti diffusi in numerose città (da Milano a Roma, da Bologna a Firenze passando per Modena, Padova, Napoli e Bari) che si concentra soprattutto nella settimana compresa tra il 12 e il 19 febbraio ma che in alcuni territori si prolungherà addirittura fino a maggio.

      “La rete vuole contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia, con l’obiettivo di proporre strumenti sempre più accurati per leggere la realtà in cui viviamo, i suoi legami con la storia recente dell’Italia e con la sua costruzione statuale, nazionale e identitaria”, spiegano i promotori di Yekatit 12-19 febbraio. Conferenze, dibattiti, presentazioni di libri e documentari “saranno occasione per condividere riflessioni sul passato e sul presente di un Paese che vogliamo aperto al mondo, transculturale e capace di riconoscere e combattere il razzismo, la violenza e le ingiustizie”.

      “Il nostro obiettivo è quello di arrivare al riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano”, spiega ad Altreconomia Silvano Falocco, uno dei coordinatori della rete e autore del saggio “Roma coloniale” (Le comari edizioni, 2022). Un primo passo in questo senso è stato fatto lo scorso ottobre quando è stata presentata alla Camera una proposta di legge per l’istituzione di un Giorno della memoria per commemorare gli eccidi, le campagne militari e la politica di occupazione a cui sono state sottoposte le popolazioni dei Paesi africani dominati dall’Italia: “La promozione di iniziative locali di sensibilizzazione e informazione dal basso su questo tema ha come obiettivo quello di farne comprendere all’opinione pubblica la necessità di questa giornata”.

      Tra gli eventi più significativi di “Memorie e (R)esistenze” c’è l’incontro “Memorie decoloniali” in programma martedì 20 febbraio alla Casa della memoria e della storia di Roma: un convegno che sarà anche occasione per iniziare costruire una raccolta “dal basso” delle fotografie e dei diari che raccontano la storia coloniale italiana. “Ogni volta che partecipo a un’iniziativa pubblica sul tema vengo avvicinato da persone del pubblico che mi raccontano di avere a casa foto d’epoca o altra documentazione, spesso appartenuta ai nonni -continua Falocco-. Ci rivolgeremo ai figli e ai nipoti dei colonizzatori invitandoli a condividere con noi questo materiale che spesso percepiscono come problematico. E ci piacerebbe molto anche riuscire a intercettare la documentazione che è stata portata in Italia dai discendenti dei colonizzati per conservare la memoria del proprio Paese d’origine”.

      La rete coinvolge diverse associazioni e realtà attive sui diversi territori, tra cui Resistenze in Cirenaica e il collettivo Arbegnouc Urbani che hanno organizzato due rappresentazioni dello spettacolo teatrale “Italiani brava gente”, ispirato all’opera dello storico Angelo Del Boca, a Bologna il 16 febbraio e a Reggio Emilia il 17 febbraio. A Modena, invece, gli eventi principali saranno il convegno “Altre resistenze. Etiopia e Liba”, la presentazione della graphic novel “Yekatit 12” che racconta la lotta degli etiopi contro l’occupazione fascista e lo spettacolo teatrale “Italiani bravissima gente. Quando eravamo colonialisti” di e con Carlo Lucarelli.

      La rassegna vuole essere anche un’occasione per riflettere sui luoghi delle nostre città che portano con sé un retaggio coloniale. A partire dalla toponomastica, dai nomi di strade e piazze in titolate a sanguinose battaglie o a militari che si sono resi responsabili di massacri ai danni della popolazione civile e che non vengono “interrogati”. “Il racconto di chi ha subito le mire espansionistiche dell’Italia liberale prima e dell’imperialismo fascista poi, non sembra trovare sufficiente spazio -continua la rete-. Così come non trova spazio il racconto di chi ha organizzato la resistenza all’occupazione italiana, di chi gli è sopravvissuto come figlio, figlia, compagna o concubina e di chi ha rielaborato quella storia pensando di poter trovare cittadinanza nel Belpaese a partire già dagli anni Venti”.

      Da qui la volontà di Rete Yekatit 12-19 febbraio di contribuire ad un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia, con l’obiettivo di proporre strumenti sempre più accurati per leggere la realtà in cui viviamo, i suoi legami con la storia recente dell’Italia e con la sua costruzione statuale, nazionale e identitaria. “Il colonialismo non è semplicemente un periodo storico, ma è anche una pratica economica che prevede occupazioni e stermini -conclude Falocco-. Tempo fa avevamo rivolto un questionario a un campione di cittadini e meno del 5% delle persone che hanno risposto conoscevano il passato coloniale dell’Italia. A dimostrazione che questa storia non fa ancora parte della nostra memoria collettiva”.

      https://altreconomia.it/una-settimana-per-indagare-la-memoria-del-colonialismo-italiano
      #19_février

  • Le #jardin_Villemin situé au 105 quai de Valmy est renommé Jardin Mahsa Jina Amini, du nom de cette Iranienne de 22 ans morte il y a tout juste un an, le 16 septembre 2022, aux mains de la police des moeurs, pour un voile mal porté.

    https://twitter.com/arminarefi/status/1702978930360111602
    #toponymie #toponymie_politique #Mahsa_Amini #noms_de_rue

  • #Allemagne : une nouvelle place au nom du résistant camerounais #Rudolf_Douala_Manga_Bell

    Une troisième place au nom de Rudolf Douala Manga Bell, résistant camerounais à la colonisation allemande, a été inaugurée en Allemagne, à #Aalen, le 1er juillet dernier. Une #pétition circule auprès des autorités allemandes pour la #réhabilitation de Rudolf Douala Manga Bell et de #Ngosso_Din.

    Rudolf Douala Manga Bell fut l’ancien roi du clan Bell du peuple Douala au Cameroun pendant la période coloniale allemande. Pour avoir tenté de fédérer les communautés contre le colonisateur, il fut pendu « pour haute trahison » le 8 août 1914 à Douala avec son secrétaire Ngosso Din.

    #Jean-Pierre_Félix_Eyoum, membre de la famille et installé en Allemagne depuis un demi-siècle, travaille depuis trente ans sur cette histoire. La place Manga Bell de Aalen a été inaugurée en présence des représentants des autorités du Cameroun. Avant cela, une place a été inaugurée à #Ulm en octobre, une autre à #Berlin en décembre.

    Jean-Pierre Félix Eyoum a déposé il y a un an une pétition auprès des autorités allemandes pour la réhabilitation de Rudolf Douala Manga Bell et Ngosso Din. Pourquoi une place à Aalen ? Parce que ce fut la ville d’accueil de Roudolf Douala Manga Bell, quand il vient apprendre l’allemand à 16/17 ans en 1891 en Allemagne raconte Jean-Pierre Félix Eyoum, au micro de Amélie Tulet, de la rédaction Afrique.

    La demande de réhabilitation de Rudolf Douala Manga Bell et Ngosso Din, figures de la #résistance contre la #colonisation_allemande, est examinée au Bundestag allemand. Avant sa visite en octobre dernier au Cameroun, la ministre adjointe aux Affaires étrangères allemande avait déclaré : « la peine capitale prononcée contre le roi Rudolf Douala Manga Bell en 1914 est un parfait exemple d’#injustice_coloniale ».

    https://amp.rfi.fr/fr/afrique/20230709-allemagne-une-nouvelle-place-au-nom-du-r%C3%A9sistant-camerounais-r

    #Cameroun #toponymie #toponymie_politique #décolonial #toponymie_décoloniale #colonialisme #mémoire #noms_de_rue

    ping @cede @_kg_ @reka

    • Le #martyr camerounais Rudolf Douala Manga Bell a désormais sa place à Berlin

      Après Ulm, Berlin est la deuxième ville allemande à avoir une rue ou une place du nom de Rudolf Douala Manga Bell, ce roi camerounais, figure de la résistance face aux colonisateurs.

      Le gris et le froid berlinois n’ont pas douché l’enthousiasme de la foule. Et pour cause : la place Gustav Nachtigal, du nom du colonisateur qui hissa le drapeau allemand sur le Cameroun, n’existe plus ; elle s’appelle désormais place Rudolf et Emily Douala Manga Bell.

      Rudolf Douala Manga Bell, c’est ce roi devenu héros national pour avoir osé défier le colonisateur allemand et qui fut exécuté en 1914. « Il s’était opposé à certains plans du gouvernement allemand colonial qui essayait de déposséder les gens, de leur prendre leurs terrains... et évidemment, ça n’a pas plu aux Allemands », raconte Jean-Pierre Félix Eyum, l’un de ses descendants. Emily Douala Manga Bell, l’épouse de Rudolf, fut quant à elle l’une des premières Camerounaises à avoir été scolarisées.
      « Un message d’espoir »

      Mais si Rudolf Douala Manga Bell a maintenant une place à son nom à Berlin, il n’est pas totalement réhabilité, ce qu’attend désormais Jean-Pierre Félix Eyum. « J’attends que le gouvernement allemand prononce enfin ces mots-là : "Nous sommes désolés d’avoir fait ce que nous avons fait". C’est cela que j’appelle réhabiliter Rudolf Douala Manga Bell », indique-t-il. Il se dit optimiste à ce sujet. Il a récemment déposé une pétition dans ce sens au Parlement allemand.

      L’actuel roi de Douala, Jean-Yves Eboumbou Douala Manga Bell, voit quant à lui dans cette cérémonie en l’honneur de son ancêtre « un symbole extraordinairement important de reconnaissance d’une situation qui a été déplorable en son temps ». « Un message d’espoir », dit-il. Cette inauguration est en tout cas une nouvelle étape dans la reconnaissance très récente par l’Allemagne de son passé colonial. Un passé longtemps éclipsé par les crimes commis par le régime nazi durant la Seconde Guerre mondiale.

      https://www.rfi.fr/fr/afrique/20221202-le-martyr-camerounais-rudolf-douala-manga-bell-a-d%C3%A9sormais-sa-plac

    • L’Allemagne inaugure une place Rudolf Douala Manga Bell en hommage au martyr camerounais

      Pour la première fois sur le sol allemand, une place au nom de Rudolf Douala Manga Bell a été inaugurée le 7 octobre, dans une tentative allemande de regarder son passé de colonisateur du Cameroun. Cela à Ulm, dans le sud de l’Allemagne, où le roi Rudolf Douala Manga Bell avait étudié le droit à la fin du XIXe siècle, avant de rentrer au Cameroun, où il fut ensuite exécuté par l’administration allemande pour avoir tenté de fédérer des communautés camerounaises contre les colons.

      Au Cameroun, son nom est dans tous les manuels scolaires : Rudolf Douala Manga Bell était un roi, le roi du clan Bell au sein du peuple Douala. Celui-ci était établi depuis des générations sur la côte Atlantique, au bord de l’estuaire du Wouri, où se trouve l’actuelle ville de Douala, capitale économique du Cameroun.

      C’est son père, le roi Auguste Douala Ndumbe Bell, qui l’envoie étudier en Allemagne pour qu’il maîtrise la langue de ceux dont la présence augmente sur la côte, avec l’arrivée de missionnaires puis l’installation de comptoirs pour le commerce.

      Mais quelques années après le retour de Rudolf Douala Manga Bell au Cameroun, le gouvernement colonial allemand remet en cause le traité de protectorat signé avec les chefs Douala. Le texte stipule que la terre appartient aux natifs, mais le gouverneur allemand veut alors déplacer les populations.

      Rudolf Douala Manga Bell s’y oppose, d’abord de façon légaliste, allant jusqu’au Parlement allemand plaider la cause de son peuple, avant de se résoudre à tenter de fédérer les autres communautés du Cameroun contre le colonisateur allemand. Mais il est arrêté en mai 1914, jugé et condamné en un seul jour. Il est pendu le 8 août 1914 avec son lieutenant pour « haute trahison ».

      Le Cameroun avait été sous domination allemande d’abord, avant d’être placé sous les mandats britannique et français après la Première guerre mondiale.
      Les descendants de la figure camerounaise appellent à la réhabilitation de son image par l’Allemagne

      Les descendants du roi Rudolf Douala Manga Bell attendent notamment sa réhabilitation par les autorités allemandes, pour laver son nom. Un des combats que mène notamment son arrière-petite-fille, la Princesse Marylin Douala Manga Bell qui constate que les choses bougent en Allemagne depuis le milieu des années 2010.

      https://www.rfi.fr/fr/afrique/20221025-l-allemagne-inaugure-une-place-rudolf-duala-manga-bell-en-hommage-au-ma

  • Nos Statues Coloniales - Teaser officiel

    Depuis 2020, en #France, les #statues_coloniales sont aux cœur des débats. Certains veulent les déboulonner d’autres se mobilisent pour les protéger. Mais est-ce qu’on connaît réellement l’histoire de ces statues ? Qui étaient les grands généraux statufiés ? Bugeaud, Gallieni, Marchand, Lyautey, Mangin... Qui a décidé de leur ériger des statues ? Vous avez votre petite idée ?

    Dans ce documentaire nous retraçons l’histoire de 5 statues coloniales parisienne. Nous sommes accompagnés par Catherine Coquery-Vidrovitch, Françoise Vergès, Jacqueline Lalouette et Pascal Blanchard.

    https://www.youtube.com/watch?v=YUPa7WMteTY


    #statues #toponymie_politique (même si c’est pas vraiment de la toponymie, mais bon... ça m’est utile pour mes archives) #déboulonnage #histoire #film #documentaire #film_documentaire #colonialisme #toponymie_coloniale
    #passé_colonial #histoire_coloniale
    ping @cede @reka @isskein

  • Ürümqi, métatoponyme de la contestation en Chine, ouvre l’ère de la révolte des plaques
    https://neotopo.hypotheses.org/5704

    de Neotoponymy/Néotoponymie Ürümqi est le nom d’une ville la région martyr chinoise du Xinjiang. Lors du confinement autoritaire et absolu imposé par les autorités chinoises, un immeuble dans lequel des personnes étaient retenues...

    #A_votre_vote_ !A_vos_noms ! #ExploreNeotopo #Neotopo_vous_signale #Toponobservations

  • Rosa-Parks ou Angela-Davis ? #Valérie_Pécresse et #Pap_Ndiaye se querellent sur le nom d’un #lycée à #Saint-Denis

    Face à un début de polémique, la présidente du conseil régional d’Ile-de-France a saisi le ministre de l’Education sur le choix du nom d’un lycée à Saint-Denis. Dans un courrier, consulté par « le Monde », Pap Ndiaye refuse d’y répondre, avançant des arguments historiques.

    L’affaire est partie d’une décision du conseil régional d’Ile-de-France : celle de changer le nom d’un lycée de Saint-Denis. Face à une polémique naissante, la présidente LR de la région, Valérie Pécresse, a demandé au ministre de l’Education nationale, Pap Ndiaye, de se déterminer sur ce changement de dénomination, indique le Monde dans un article paru mardi 18 avril. La réponse du ministre de l’Education nationale ne s’est pas fait attendre. Dans un courrier, consulté par le quotidien du soir, l’ancien universitaire a adressé « une fin de non-recevoir » à Pécresse. Une décision en partie fondée sur une « question de droit », mais surtout sur des considérations historiques.

    Au cœur de cette polémique : le lycée polyvalent de la Plaine, à Saint-Denis. Inauguré il y a six ans, l’établissement scolaire de 1 200 élèves « n’a toujours pas de nom officiel », rappelle l’article. Depuis son ouverture pourtant, élèves, enseignants et habitants, « tout comme le site de l’Education nationale », « le désignent du nom de l’écrivaine et militante américaine Angela Davis ». Une dénomination non prise en compte par la région Ile-de-France, seule autorité à pouvoir décider du nom officiel de l’établissement selon le code de l’éducation.

    Une figure « trop conflictuelle »

    Fin mars, Valérie Pécresse a alors relancé le débat. Elle a proposé de baptiser l’établissement du nom de Rosa Parks, une autre figure du mouvement des droits civiques aux Etats-Unis. Une personnalité, selon elle, « plus consensuelle », écrit le Monde. « Le conseil d’administration du lycée avait pourtant validé le nom d’Angela Davis dès mai 2018, soutenu par le maire de Saint-Denis de l’époque », développe le quotidien. La proposition a fait réagir les enseignants de l’établissement, « choqués » de ne pas y avoir été associés. Face à ce début de controverse, l’ancienne candidate à la présidentielle a saisi le ministre de l’Education nationale et le préfet de la région pour trancher.

    Dans une lettre du 31 mars destinée à Pap Ndiaye, Valérie Pécresse avance notamment la « radicalité d’ex-Black Panthers » d’Angela Davis pour justifier son choix. Les prises de position de la militante sont, d’après l’élue, trop « conflictuelle[s] pour incarner la sérénité qui doit prévaloir dans un établissement scolaire ». Des arguments balayés par Pap Ndiaye dans sa réponse. Semblant « délaisser sa casquette de ministre pour reprendre celle de l’universitaire », note le Monde, le spécialiste de l’histoire sociale des Etats-Unis et des minorités estime que l’opposition suggérée entre Rosa Parks et Angela Davis est « trop simple ». Il rappelle aussi que de nombreux établissements scolaires puisent leur nom dans des références « qui ne font pas nécessairement consensus ».

    Une réponse loin de satisfaire la présidente du conseil régional d’Ile-de-France. Interrogée par le Monde, Valérie Pécresse a affirmé donner deux mois à la communauté éducative du lycée de Saint-Denis pour lui soumettre un nouveau nom. Faute de quoi, celui de Rosa Parks sera gardé.

    https://www.liberation.fr/societe/education/rosa-parks-ou-angela-davis-valerie-pecresse-et-pap-ndiaye-se-querellent-s
    #toponymie #toponymie_politique #dénomination #Rosa_Parks #Angela_Davis

    • Ile-de-France : sur l’impulsion de #Pécresse, la région débaptise le lycée Angela-Davis de Saint-Denis

      Malgré la demande de la région de changer de nom, le conseil d’administration de l’établissement avait conforté le 21 juin celui d’Angela-Davis. Puisque la région a autorité sur les lycées, la majorité de droite a voté ce mercredi 5 juillet : Angela-Davis sera remplacée par Rosa-Parks.

      Epilogue d’une polémique insensée. Le changement de nom d’un lycée de Saint-Denis avait fait du bruit dans la presse il y a déjà quelques mois. Valérie Pécresse, présidente de la région Ile-de-France, s’opposait à la décision du conseil régional d’entériner le nom de l’établissement scolaire en hommage à Angela Davis, pourtant choisi depuis 2018. La région a enterré le débat en débaptisant le lycée ce mercredi 5 juillet. La majorité de droite a en effet voté en commission permanente pour que le nom d’Angela-Davis soit plutôt remplacé par celui de Rosa-Parks.

      En guise de justification, l’ex-candidate LR à la présidentielle avait déjà donné le ton fin mars lorsqu’elle avait refusé une première fois d’entériner le nom de la militante, pourtant choisi dès 2018 par le conseil d’administration du lycée et validé par le maire de l’époque. En résumé : pas question pour elle qu’un lycée prenne le nom d’Angela Davis, dont elle fustige les positions « contraires aux lois de la République ». Il est notamment reproché à l’universitaire, aujourd’hui âgée de 79 ans, une tribune cosignée en 2021 dans laquelle elle déplorait la « mentalité coloniale [qui] se manifeste dans les structures de gouvernance de la France, en particulier vis-à-vis des citoyens et des immigrés racisés ».
      « Course à l’échalote »

      Saisi par Valérie Pécresse à ce sujet, le ministre de l’Education Pap Ndiaye a estimé en avril qu’il n’était « pas opportun de changer le nom du lycée Angela-Davis », une « grande figure du mouvement pour les droits civiques, dont personne n’est obligé de partager tous les points de vue, mais qui peut cependant figurer sur les frontons de nos écoles ». « De très nombreuses écoles et établissements portent déjà le nom d’Angela-Davis », avait ajouté Pap Ndiaye pour qui « le nom de l’établissement » de Saint-Denis est aussi « entré dans l’usage » depuis son ouverture en 2017.

      Qu’importe : la région Ile-de-France a décidé de n’en faire qu’à sa tête, jugeant que le ministre « a détourné les yeux de cette question et s’en est remis au choix de la région ». Et ajoute que le conseil d’administration du lycée a conforté le 21 juin le nom Angela-Davis. « Faute d’avoir reçu une nouvelle proposition », la région, qui a autorité sur les lycées, choisit donc de le nommer Rosa-Parks, « figure emblématique de la lutte contre la ségrégation aux Etats-Unis, qui faisait également partie de la présélection du lycée ». L’opposition communiste a dénoncé dans un communiqué une « nouvelle démonstration de la course à l’échalote qu’une partie de la droite se livre avec l’extrême droite dans la quête de marqueurs identitaires et réactionnaires ».

      https://www.liberation.fr/societe/education/la-region-ile-de-france-change-le-nom-du-lycee-angela-davis-de-saint-deni

    • Au nom de la « #laïcité » et contre l’avis de Pap Ndiaye, Valérie Pécresse débaptise le lycée Angela-Davis

      Le conseil régional d’Île-de-France a voté, mercredi, pour débaptiser le lycée Angela-Davis, en Seine-Saint-Denis, et le renommer Rosa-Parks, malgré l’avis contraire émis par le ministre de l’éducation nationale.

      LaLa région Île-de-France, dirigée par Valérie Pécresse, a finalement baptisé Rosa-Parks le lycée de Saint-Denis qui avait choisi le nom d’Angela Davis, à l’occasion d’un vote en commission permanente, mercredi 5 juillet. Le motif de cette décision : les positions de l’universitaire américaine, jugées « contraires aux lois de la République », à cause notamment d’une tribune de 2021 dans laquelle Angela Davis fustigeait la « mentalité coloniale [qui] se manifeste dans les structures de gouvernance de la France, en particulier vis-à-vis des citoyens et des immigrés racisés ».

      Devant la bronca de l’opposition, la majorité de droite avait, dans un premier temps, suspendu le processus et annoncé, en mars dernier, saisir au préalable le ministère de l’éducation nationale. En avril, Pap Ndiaye a estimé qu’il n’était « pas opportun de changer le nom du lycée Angela-Davis », une « grande figure du mouvement pour les droits civiques, dont personne n’est obligé de partager tous les points de vue, mais qui peut cependant figurer sur les frontons de nos écoles ». Le 21 juin dernier, de nouveau, le conseil d’administration du lycée a appuyé le choix de nommer le lycée Angela-Davis.

      Mais Valérie Pécresse et sa majorité estiment aujourd’hui que, « faute d’avoir reçu une nouvelle proposition » de l’établissement et puisque la région a autorité sur les lycées, le nom Rosa-Parks, « figure emblématique de la lutte contre la ségrégation aux États-Unis », doit être entériné.

      L’opposition communiste a aussitôt fustigé dans un communiqué une « nouvelle démonstration de la course à l’échalote qu’une partie de la droite se livre avec l’extrême droite dans la quête de marqueurs identitaires et réactionnaires ».

      Nous republions notre article du 28 mars 2023, intitulé « Au nom de la “laïcité ”, Valérie Pécresse veut débaptiser le lycée Angela-Davis ».

      *

      Valérie Pécresse a fait marche arrière. Mercredi 29 mars, la présidente du conseil régional d’Île-de-France a finalement renoncé à soumettre au vote une délibération relative aux lycées franciliens. Sur le bâti scolaire, dont l’état est calamiteux par endroits ? Sur les agents techniques, en sous-effectif constant ? Sur les neuf lycées parisiens qui doivent fermer à la rentrée de septembre ? Rien de tout cela. Il s’agissait de changer le nom du lycée Angela-Davis de Saint-Denis (Seine-Saint-Denis), inauguré en 2017 et dont le titre n’avait jamais été entériné par la collectivité régionale.

      Devant l’indignation de l’opposition, Valérie Pécresse a annoncé vouloir d’abord saisir le ministère de l’éducation nationale et la préfecture « au titre du contrôle de légalité ». Ils devront déterminer si le nom d’Angela Davis répond à toutes les exigences d’une circulaire de 1988 « sur la dénomination des établissements » et à la jurisprudence administrative (notamment sur le trouble à l’ordre public).

      Voilà pourtant presque cinq ans que le conseil d’administration de l’établissement a voté cette dénomination à une très large majorité et que le nom d’Angela-Davis figure sur tous les documents du lycée, de la Région et de l’Éducation nationale.

      Mais pourquoi Angela Davis dérange-t-elle autant la présidente LR de la Région ? L’amendement préparé par le groupe majoritaire, essentiellement composé d’élu·es Les Républicains (LR), listait la « défense de la laïcité » et des « valeurs républicaines » ainsi que de la lutte contre « l’obscurantisme ».

      Dans l’exposé des motifs de cet amendement, la droite régionale détaille ses griefs à l’encontre de la militante américaine, figure de la lutte pour les droits civiques aux États-Unis. Elle se voit reprocher d’avoir signé une tribune en 2013 contre l’interdiction du voile dans les crèches associatives ou d’avoir déclaré qu’une femme voilée pouvait être « plus féministe » qu’une femme qui ne l’est pas.

      « On considère qu’un certain nombre de ses prises de position ne sont pas acceptables, pointe l’entourage de Valérie Pécresse. Dans un lycée, on doit essayer de rassembler les élèves. » « Dans un lycée français, on doit apprendre à aimer la France », a expliqué mercredi la présidente.

      Vincent Jeanbrun, le président du groupe majoritaire au conseil régional, avance aussi auprès de Mediapart : « On peut retenir énormément de choses positives sur le parcours d’Angela Davis mais il y a aussi quelques zones d’ombre. On était loin d’un engagement universaliste dans la deuxième partie de sa vie. Elle a aussi été très proche des dictatures en URSS et à Cuba. »

      À la place, Valérie Pécresse et ses soutiens proposent d’attribuer au lycée le nom de Rosa Parks, une autre figure de la lutte contre la ségrégation aux États-Unis. « Elle incarne tout aussi bien le combat contre la ségrégation raciale et elle s’est battue toute sa vie pour les droits de la femme et l’universalisme », justifie Vincent Jeanbrun. À l’inverse, conserver le nom d’Angela Davis – qui est toujours en vie – enverrait « un message désastreux à notre jeunesse et particulièrement aux jeunes femmes », estime-t-il dans l’amendement déposé.

      La position de la droite régionale est d’autant plus surprenante que depuis cinq ans, elle n’a pas exprimé la moindre réticence à l’égard du nom choisi par la communauté éducative du lycée. Début mars 2020, elle en avait même soumis l’approbation à l’assemblée régionale. Avant de retirer le rapport de l’ordre du jour, invoquant de simples vérifications administratives. « Pour moi, il n’y a aucun sujet, assurait Valérie Pécresse face aux inquiétudes des groupes de gauche. Le lycée s’appelle Angela-Davis, il a été nommé Angela-Davis, il n’y a pas de sujet. »

      En septembre 2019, l’ancienne ministre allait même plus loin. Interpellée à ce sujet par l’écologiste Bénédicte Monville, elle affirmait : « À aucun moment nous n’avons refusé d’entériner le nom d’une personnalité donnée à un lycée et cela ne nous viendrait pas à l’esprit, sauf si on appelait un lycée Adolf-Hitler. Là, nous aurions un droit de réserve et une opposition à formuler. » Et Valérie Pécresse de conclure : « Dites au proviseur du lycée de nous en saisir et nous entérinerons ces noms [sic]. »

      Trois ans plus tard, les promesses ont fait long feu. Valérie Pécresse a visiblement changé d’avis, même si son entourage assure qu’elle « donnera sa position demain [mercredi] après avoir écouté les arguments de chacun ». Alors que le code de l’éducation impose de recueillir leur avis, la droite régionale n’a averti ni la communauté éducative du lycée ni le maire de Saint-Denis, Mathieu Hanotin, qui s’en est vivement ému sur Twitter.
      Le corps enseignant « profondément choqué »

      L’indignation est plus grande encore parmi les enseignant·es mobilisé·es, qui se sont dit « profondément choqué·es » dans un communiqué. « Quelle vision des responsabilités et du fonctionnement démocratique peut découler d’une décision qui passe outre les engagements pris, les procédures officielles et l’expression collective et souveraine d’un vote ? », pointe le texte, cosigné par les sections Snes-FSU, Sud Éducation et CGT de l’établissement, qui dénonce par ailleurs les « incohérences » et le « jeu politique » d’une « droite en quête de symboles ».

      « Pour tenter d’exister politiquement, la droite régionale joue la diversion, commente Céline Malaisé, présidente du groupe communiste au conseil régional. Elle provoque une énième panique identitaire et attise la concurrence mémorielle entre deux femmes combattantes contre la discrimination raciale aux États-Unis. Cet amendement inacceptable et honteux doit être retiré. Ce lycée s’appelle Angela-Davis, c’est un état de fait, il est temps que la droite l’accepte. »

      À l’unisson, le conseiller régional socialiste Yannick Trigance dénonce un choix « absolument scandaleux » et « extrêmement choquant ». « Que le Rassemblement national se prononce contre la dénomination en hommage à Angela Davis, ça ne nous surprend pas, pointe le secrétaire national du PS sur les questions d’éducation. Mais que la droite se rallie à cette position… Ça traduit une dérive de la droite vers la radicalité et l’extrémisme et Valérie Pécresse n’y échappe pas. »

      Et Pap Ndiaye, qu’en pense-t-il ? Le ministre de l’éducation nationale connaît le sujet de près, lui qui a écrit Les Noirs américains : en marche pour l’égalité en 2009 et travaillé depuis trente ans sur la condition noire aux États-Unis et en France et la lutte contre les discriminations raciales. Contacté par Mediapart, il n’avait pas donné suite à l’heure où cet article a été publié. C’est maintenant à lui de se prononcer.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/050723/au-nom-de-la-laicite-et-contre-l-avis-de-pap-ndiaye-valerie-pecresse-debap

    • La région Ile-de-France change le nom du lycée Angela-Davis en raison des critiques de l’icône des droits civiques contre la France

      Valérie Pécresse a refusé d’entériner ce nom en pointant des prises de position des positions « contraires aux lois de la République ». Pap Ndiaye avait défendu une « grande figure du mouvement pour les droits civiques, dont personne n’est obligé de partager tous les points de vue ».

      La région Ile-de-France dirigée par Valérie Pécresse a baptisé mercredi 5 juillet Rosa-Parks le lycée de Saint-Denis qui avait lui-même choisi le nom d’Angela Davis, en raison des positions de cette dernière, jugées « contraires aux lois de la République ». La majorité de droite a voté en commission permanente cette dénomination officielle, « faute d’avoir reçu une nouvelle proposition » de la part de la communauté éducative du lycée, explique l’exécutif régional dans l’amendement adopté.

      A la fin de mars, la candidate LR à la présidentielle avait refusé d’entériner le nom d’Angela Davis, pourtant choisi dès 2018 par le conseil d’administration du lycée et validé par le maire de l’époque, en raison de prises de position critiques vis-à-vis de la France. En cause notamment, une tribune cosignée en 2021 par l’universitaire, aujourd’hui âgée de 79 ans, dans laquelle elle fustigeait la « mentalité coloniale [qui] se manifeste dans les structures de gouvernance de la France, en particulier vis-à-vis des citoyens et des immigrés racisés ».

      Saisi par Mme Pécresse à ce sujet, le ministre de l’éducation, Pap Ndiaye, avait estimé en avril qu’il n’était « pas opportun de changer le nom du lycée Angela-Davis », une « grande figure du mouvement pour les droits civiques, dont personne n’est obligé de partager tous les points de vue, mais qui peut cependant figurer sur les frontons de nos écoles ». « De très nombreuses écoles et établissements portent déjà le nom d’Angela Davis », avait ajouté M. Ndiaye, pour qui « le nom de l’établissement » de Saint-Denis est aussi « entré dans l’usage » depuis son ouverture, en 2017.

      Le ministre « a détourné les yeux de cette question et s’en est remis au choix de la région », estime cette dernière, qui annonce que le conseil d’administration du lycée a conforté le 21 juin le nom Angela-Davis. « Faute d’avoir reçu une nouvelle proposition », la région, qui a autorité sur les lycées, choisit donc de le nommer Rosa-Parks, « figure emblématique de la lutte contre la ségrégation aux Etats-Unis, qui faisait également partie de la présélection du lycée ».

      L’opposition communiste a fustigé dans un communiqué une « nouvelle démonstration de la course à l’échalote qu’une partie de la droite se livre avec l’extrême droite dans la quête de marqueurs identitaires et réactionnaires ».

      https://www.lemonde.fr/politique/article/2023/07/05/la-region-ile-de-france-change-le-nom-du-lycee-angela-davis-de-saint-denis_6

    • Lycée Angela-Davis : les enseignants dénoncent un « coup de force nauséabond »

      La région Ile-de-France a voté pour rebaptiser un lycée « Rosa-Parks » contre l’avis du conseil d’administration de l’établissement. Une cinquantaine d’enseignants dénonce une instrumentalisation politique de Valérie Pécresse et demande aux intellectuels et aux citoyens un soutien massif.

      C’est par voie de communiqué que nous avons appris, le mercredi 5 juillet, la décision de la majorité de droite de la région Ile-de-France de renommer le lycée Angela-Davis en lycée Rosa-Parks, justifiée dans un amendement invoquant la « défense de la laïcité », des « valeurs républicaines » ainsi que de la lutte contre « l’obscurantisme ».

      Le 21 juin, le conseil d’administration de l’établissement avait pourtant bien, suivant les prérogatives transmises directement par le rectorat et le ministère, répondu à l’ultimatum posé par Valérie Pécresse. A la question de savoir si nous souhaitons que notre lycée se nomme « Angela-Davis » ou « Rosa-Parks », l’écrasante majorité des élu·e·s du personnel, des parents et des élèves a répondu « Angela-Davis ». Pour la deuxième fois, dans une sorte de sentiment d’absurdité, nous avons réaffirmé notre nom. Ce que la majorité régionale nomme une « absence de réponse » est en réalité une réponse qu’elle ignore volontairement.

      Lors de ce même conseil d’administration, et comme c’est le cas depuis maintenant près de cinq ans, aucun·e représentant·e de la région n’était présent·e. Or nous pouvions légitimement attendre des explications d’un membre de cette institution devant la représentation élue du lycée.

      Nous aurions aussi saisi cette occasion pour ré-alerter la région, parmi tant d’autres choses, sur l’état de délabrement des toilettes de notre établissement, qui, mal construites, sont constamment inutilisables pour les élèves, et ce depuis l’ouverture du lycée. Ou le niveau d’effondrement de la structure de notre lycée fleuron, dont certaines poutres tombent déjà au milieu des élèves. Si la majorité régionale souhaite tant nous aider dans nos missions, qu’elle commence par répondre à nos courriers et à nos multiples appels à l’aide sur ce délabrement de l’établissement.
      De l’instrumentalisation du lycée

      Ce changement de nom est le signe d’une priorité politique qui nous dépassent et nous consternent, mais ne nous laissent pas dupes : les enjeux éducatifs sont secondaires, Valérie Pécresse qui fustige les positions « contraires aux lois de la République » d’Angela Davis, instrumentalise notre lycée pour donner des gages à son électorat dans la course à la surenchère avec l’extrême droite. En rejetant cette icône, il s’agit ici de répondre au « wokisme » présumé d’un nom en le remplaçant par un autre jugé plus consensuel.

      Au-delà de l’absurdité historique et politique qui consiste à opposer Angela Davis à Rosa Parks, deux femmes noires féministes et antiracistes, nous refusons de défendre une vision tronquée des valeurs de la République qui opère un tri partisan parmi les figures de l’histoire et ignore ouvertement l’expression démocratique des élèves, des parents et des enseignant·e·s.

      Nous refusons cette décision justifiée comme souvent par la droite au nom d’une défense d’une conception dévoyée de la laïcité. Nous refusons d’être les victimes de cette basse manœuvre politique, et nous refusons que les quartiers populaires soient, d’autant plus dans le contexte actuel de mobilisation de la jeunesse après la mort du jeune Nahel de la main de la police à Nanterre, à nouveau stigmatisés et instrumentalisés par cette droite bourgeoise et conservatrice.

      Encore une fois, c’est la voix de notre jeunesse qui est ignorée : alors que les élèves, avec les parents et l’entière communauté éducative, avaient voté pour Angela Davis, on piétine leur expression comme si elle n’était rien. Alors que les élèves ont choisi une figure militante noire et féministe pour représenter leur lycée, on leur oppose l’argument odieux que leur choix n’est pas assez « français » ou « républicain ». En imposant une décision autoritaire et absurde à la jeunesse du quartier de La Plaine Saint-Denis, madame Pécresse ne fait que jeter de l’huile sur le feu et affiche clairement son mépris pour nous, nos élèves, et leurs familles.

      Nous sollicitons donc l’intervention de notre ministre Pap Ndiaye, garant des libertés démocratiques de notre communauté éducative, qui s’est déjà exprimé en avril en faveur du nom Angela Davis, pour s’opposer à ce coup de force nauséabond. Nous appelons également les intellectuel·le·s et citoyen·ne·s à exprimer publiquement leur opposition à ce qui pourrait constituer un dangereux précédent, qui dit quelque chose de la droitisation extrême d’une partie de notre société.

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/lycee-angela-davis-les-enseignants-denoncent-un-coup-de-force-nauseabond-

    • Lycée Angela Davis débaptisé : sur France Inter, la militante américaine tacle Valérie Pécresse

      Durant l’été, Valérie Pécresse avait demandé de changer le nom d’un lycée de La Plaine Saint-Denis car des déclarations d’Angela Davis avaient été jugées « contraires aux lois de la République ».

      Une intervention inattendue, mais salutaire. Invitée de la matinale de France Inter ce lundi 20 novembre, l’activiste américaine et universitaire Angela Davis n’a pas manqué d’égratigner la présidente Les Républicains de la Région Île-de-France lors de ce passage en France.

      Il faut dire que la militante aujourd’hui âgée de 79 ans s’était bien malgré elle retrouvée au cœur d’une polémique politique durant l’été lorsque Valérie Pécresse avait refusé que le nom d’Angela Davis soit associé à un lycée de La Plaine Saint-Denis à cause de positions de cette dernière jugées « contraires aux lois de la République ».

      La décision avait alors été prise de remplacer le nom d’Angela Davis par celui de Rosa Parks, autre grande figure marquante de la lutte pour les droits civiques aux États-Unis. Interrogée par Sonia Devillers ce lundi sur cette décision votée en commission permanente par la majorité de droite, Angela Davis a taclé poliment la droite française et Valérie Pécresse.

      « Je ne peux pas dire que le lycée ne doit pas être nommée Rosa Parks », a-t-elle d’abord expliquée après avoir rappelé que Rosa Parks « a participé à la campagne pour (s)a liberté » et qu’elle a fait « beaucoup plus que refuser de céder sa place dans un bus » en tant que « militante et progressiste ».

      « Pourquoi Rosa Parks convient à la droite française, mais pas Angela Davis ? », lui demande alors la journaliste. « Parce que la droite française ne sait pas qui est Rosa Parks », glisse alors Angela Davis en souriant.

      « C’est au fond lui donner raison »

      Une pique délicate mais qui a le mérite de mettre l’élue des Républicains face à l’absurdité de sa décision. En effet, le 5 juillet, Valérie Pécresse avait motivé cette décision en condamnant des déclarations d’Angela Davis sur la France. « Dans ces conditions et compte tenu du fait qu’Angela Davis est toujours vivante et qu’elle peut continuer de s’exprimer de manière très positive sur l’État français (...) Je crois qu’il est nécessaire que nous rejetions la dénomination du lycée Angela Davis », avait ironisé la présidente de région.

      À la place, Valérie Pécresse avait proposé le nom de Rosa Parks, « figure emblématique de la ségrégation aux États-Unis, qui faisait partie de la présélection » pour renommer le lycée.

      Parmi les propos relevés par Valérie Pécresse pour échanger le nom d’Angela Davis : « le racisme systémique de l’État français » dénoncé par la militante. Une phrase extraite d’une tribune cosignée par Angela Davis en 2021 sur la « mentalité coloniale dans les structures de gouvernance de la France ».

      Le changement de nom avait toutefois été épinglé par Éric Coquerel, député LFI de la circonscription du lycée. « Débaptiser le lycée Angela-Davis à Saint-Denis, dans ma circonscription, parce que cette grande figure de la lutte pour les droits civiques aux États-Unis aurait dénoncé une certaine forme de racisme en France, c’est au fond lui donner raison », s’était-il permis de souligner.

      Tout comme l’opposition communiste au sein de la région Île-de-France, qui avait déploré dans un communiqué cette « nouvelle démonstration de la course à l’échalote qu’une partie de la droite se livre avec l’extrême droite dans la quête de marqueurs identitaires et réactionnaires ».

      Le ministre de l’Éducation au moment de la polémique, Pap Ndiaye, avait lui même jugé inopportun de procéder à un changement de nom de l’établissement quelques mois plus tôt et alors que le lycée porte ce nom depuis 2017.

      https://www.huffingtonpost.fr/france/article/lycee-angela-davis-debaptise-sur-france-inter-la-militante-americaine

  • Dedicato a chi rimpiange le statue degli schiavisti

    Il dibattito sui monumenti civici è appassionante. Ma il punto non è la riscrittura della storia quanto la contesa dello spazio pubblico. Dopo decenni di privatizzazioni.

    Da storico dell’arte trovo appassionante il dibattito che, in tutto l’Occidente, divampa intorno alle statue civiche. Il punto non è la riscrittura della storia, tantomeno la sua cancellazione (come vorrebbe la vulgata di destra che lo condanna): il vero oggetto di contesa è lo spazio pubblico come luogo in cui una comunità civile costruisce se stessa attraverso un giudizio sul passato e indica una via verso il futuro.

    È commovente che questo accada dopo decenni di privatizzazioni selvagge che tendono a far letteralmente sparire, in tutto il mondo, il concetto stesso di spazio pubblico. Si dovrà convenire che tenere (letteralmente) su un piedistallo nella piazza (centro della polis e dunque luogo politico per eccellenza) un personaggio, significa indicarlo come modello di virtù civili. È l’equivalente civile della santificazione: “Guardatelo, prendetelo a esempio, fate come lui”. La statua che vedete nella fotografia in questa pagina raffigura Edward Colston (1636-1721) ricco magnate della Bristol dell’età barocca, fondatore di scuole e filantropo: “Uno dei più virtuosi e saggi figli della città”, lo celebrava l’iscrizione sul basamento dell’opera che lo raffigura. Ma questo sant’uomo era uno dei più terribili schiavisti dell’età moderna: le sue navi trasportarono dalle coste africane all’America almeno 100mila persone rapite ai loro villaggi e ai loro affetti. Non meno di 20mila morirono durante le disumane traversate oceaniche.

    Ebbene, il 7 giugno 2020, l’onda lunga delle manifestazioni per la dignità della vita dei neri suscitata dall’uccisione di George Floyd a Minneapolis, ha travolto anche Edward Colston: la statua è stata abbattuta, mutilata, dileggiata e infine gettata in acqua a furor di popolo. Non ci nascondiamo dietro un dito: se masse oppresse in tutto l’Occidente non riescono a condividere la saggia svolta contro il vandalismo compiuta dalla Rivoluzione trionfante, è appunto perché sono tuttora oppresse e sconfitte. Negli ultimi vent’anni a Bristol si era aperto un duro confronto su questa statua: una petizione per la sua rimozione aveva raccolto 11mila firme, ma le autorità si sono opposte financo all’apposizione di una targa che facesse conoscere al pubblico le ombre della vita di quell’uomo vissuto quasi quattrocento anni fa. Eppure, numerose installazioni spontanee avevano reso visibile intorno alla figura bronzea di Colston l’immane tragedia che egli provocò. La notte del 18 ottobre 2018 (Giornata europea della tratta contro gli esseri umani), apparve intorno alla statua un’installazione artistica che presentava una serie di figurine di cemento giacenti a terra. Erano disposte secondo la pianta di una delle navi negriere in cui gli schiavisti come Colston trasportavano le persone in America.

    A lato dell’installazione erano presenti i nomi delle professioni odierne a rischio di schiavitù moderne: dagli addetti all’autolavaggio ai domestici, ai raccoglitori di frutta. Un eccellente esempio di risemantizzazione. L’artista Banksy ne ha proposto un altro: “Ecco un’idea che si rivolge sia a chi sente la mancanza della statua di Colston sia a chi non la sente -scrive Banksy ai suoi 9,4 milioni di follower su Instagram-. Lo tiriamo fuori dall’acqua, lo rimettiamo sul piedistallo, gli mettiamo un cavo attorno al collo e facciamo realizzare alcune statue di bronzo a grandezza naturale di manifestanti nell’atto di tirarlo giù. Tutti contenti. Un giorno straordinario commemorato”. Non sarebbe una cattiva idea.

    https://altreconomia.it/dedicato-a-chi-rimpiange-le-statue-degli-schiavisti

    #monument #monuments #statue #esclavage #toponymie_politique
    #espace_public #Edward_Colston #Colston
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  • #Mapping_Diversity

    Mapping Diversity is a platform for discovering key facts about diversity and representation in street names across Europe, and to spark a debate about who is missing from our urban spaces.

    We looked at the names of 145,933 streets across 30 major European cities, located in 17 different countries. More than 90% of the streets named after individuals are dedicated to white men. Where did all the other inhabitants of Europe end up? The lack of diversity in toponymy speaks volumes about our past and contributes to shaping Europe’s present and future.


    https://mappingdiversity.eu
    #cartographie #noms_de_rue #toponymie #toponymie_féministe #toponymie_politique #visualisation #Europe #base_données #villes #urban_matter #ressources_pédagogiques

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    • Pocas y ocultas: la infrarrepresentación de las mujeres en el callejero de Europa

      Da igual que sea una calle principal en las afueras de una gran ciudad o un pequeño callejón en el centro histórico; en Escandinavia o en el Mediterráneo; en la ciudad más occidental de Europa o en la sufrida Kiev. Las calles del Viejo Continente tienen una cosa en común: rinden homenaje a muchos más hombres que mujeres.

      La European Data Journalism Network (EDJNet) ha analizado, con la participación de El Orden Mundial, 145.933 calles en 30 grandes ciudades de 17 países de la Unión Europea o candidatos a formar parte del grupo comunitario. De todas ellas, el 91% llevan nombre masculino. Incluso en la ciudad con menor brecha de género, Estocolmo, las calles que homenajean a hombres siguen suponiendo más del 80% del callejero.

      No todas las ciudades son iguales

      En algunas ciudades de Europa, particularmente en el norte y el este del continente, es relativamente común dedicar nombres de calles a personas. Además de la capital sueca, las urbes con mayor representación de mujeres son las españolas (Madrid, Barcelona y Sevilla) y Copenhague, aunque en el caso de España las cifras están condicionadas por la gran cantidad de calles dedicadas a las vírgenes católicas (211 calles en 3 ciudades). En el lado contrario, menos de un 5% de las calles de Atenas, Praga y Debrecen (Hungría) tienen nombre de mujer.

      En total, la EDJNet ha identificado 41.000 individuos con al menos una calle en su honor, y aunque Europa es una región densamente poblada y con cientos de años de rica historia, solo 3.500 mujeres aparecen en el callejero de las 30 ciudades que forman parte de la investigación. Si todas ellas hubiesen coincidido en el tiempo, apenas ocuparían las casas y viviendas de una simple avenida. La preponderancia de figuras masculinas en las calles de Europa es un fuerza sublime pero constate que ayuda a perpetuar la marginación de las mujeres y su contribución a la historia, la cultura y la ciencia.

      La Virgen María y Santa Ana son las figuras femeninas mas populares en el callejero de las ciudades analizadas por la EDJNet. Pese a esto, la mayoría de calles dedicadas a mujeres no son de figuras religiosas, sino del mundo de la cultura y la ciencia, incluidas escritoras y artistas. La nobleza y la política son otros campos con una representación fuerte en el callejero femenino de Europa.

      Existen, eso sí, diferencias entre ciudades. Tanto Copenhague como Cracovia tiene 71 calles dedicadas a mujeres, pero en la primera ciudad solo hay una figura religiosa, mientras que en la capital polaca son diez. Las diferencias son mucho más pequeñas cuando se analiza el origen de estas mujeres: aparte de algunas santas de Oriente Medio, la inmensa mayoría son mujeres europeas. Solo destacan dos excepciones: la líder india Indira Gandhi y la artista sudafricana Miriam Makeba.
      Una brecha que no se cierra

      La gran brecha de género en el callejero europeo no sorprende si se tienen en cuenta los siglos de discriminación que han sufrido las mujeres en la educación, la vida pública y la economía. Los paisajes urbanos tienden a reflejar las relaciones de poder que existían cuando se construyeron las calles. En el caso de Europa, esto sucedió en el siglo XIX y principios del XX.

      Gracias al esfuerzo de activistas o intelectuales, la concienciación en torno a la sobrerrepresentación de hombres blancos y ricos en el callejero ha crecido en Europa. Sin embargo, los datos sugieren que esta concienciación aún no se ha visto acompañada de un cambio significativo en los nombres de las calles. Durante los últimos diez años, ninguna de las grandes ciudades de Europa ha estado cerca de cerrar la brecha de género, y en algunos casos se ha perpetuado: en el periodo 2012-2022, ciudades como Ámsterdam, Berlín, Valencia o Milán siguieron dedicando más calles a hombres que mujeres.

      «Desde 2017, hemos aplicado estrictamente el reparto equitativo en la denominación de las calles, homenajeando a una nueva mujer por cada nuevo hombre. Sin embargo, todavía recibimos muchas más propuestas de nombres masculinos, unas diez veces más, que nombres femeninos», dice Antonella Amodio, la funcionaria a cargo de seleccionar los nombres de las calles en Milán. Una mayor sensibilidad hacia el tema ha llevado a una mayor concienciación: la ciudad ahora monitorea la brecha de género y está construyendo un sitio web dedicado a explorar lugares y monumentos dedicados a mujeres destacadas y sus vidas.

      Pero aplicar la paridad no es suficiente para cerrar la brecha de género. De hecho, ni siquiera sería suficiente si todas las calles nuevas llevasen nombre de mujer. Las ciudades europeas simplemente no crecen tan rápido como solían hacer, y solo se construyen algunas decenas de calles cada año. En la actualidad hay 43.330 calles más dedicas a hombres que a mujeres en las ciudades analizadas, por lo que la desigualdad tardaría siglos en cerrarse.

      Es más, los expertos advierten de que las nuevas valles dedicadas a mujeres tienden a estar localizadas en áreas periféricas, zonas residenciales donde la visibilidad es menor, como el barrio de Sanchinarro en Madrid. Por contra, las calles con nombres de hombres siguen siendo las avenidas y plazas más importantes de los centros históricos.

      https://elordenmundial.com/mapas-y-graficos/infrarrepresentacion-mujeres-callejero-europa

  • En Soutien à l’Ukraine dans la guerre d’invasion et d’agression menée par la Russie : une plateforme pour le changement des noms de rues dans lesquelles se trouvent les représentations russes
    https://neotopo.hypotheses.org/4929

    La plateforme Ukraine Street regroupe l’ensemble des pétitions en cours et abouties réclamant des changements de noms de voies ou places où se situent les représentations russes (ambassades et consulats). Elles concernent 35 pays...

    #A_votre_vote_ !A_vos_noms ! #ExploreNeotopo #Neotopo_vous_signale #Toponobservations

  • #Alana_Osbourne - “Decolonial Tours” - 30th June 2022 - Beyond Inhabitation Lab Spring Seminar Series

    I focus on tour guides who offer decolonial narratives and experiences of Brussels to an eclectic and changing audience. Drawing on the embodied temporalities of walking tours and by reviving urban memories, these guides give texture and shape to the city’s sensorium in a way that reaffirms black life against the resonances of colonialism in Belgium. Suturing past, present and future, this quilting of urban times fosters new relationships between people, landscapes and histories, and opens spaces of togetherness within a riven city.

    Dr. Alana Osbourne is a FNRS post-doctoral fellow at the Anthropological Laboratory for Contemporary Worlds (LAMC) at the Brussels Free University (ULB | Université Libre de Bruxelles). An anthropologist and filmmaker, her research interests include: sensorial anthropology and affect, the anthropology of violence, archival studies, Caribbean studies and film. She alternates her academic work with film and theatre projects.

    https://www.youtube.com/watch?v=03AOAlPxQV8


    #balade_décoloniale #Bruxelles #Belgique #décolonial #villes #urban_matter #temps #passé #présent #conférence #toponymie #toponymie_politique

    via @cede

    • #There_Are_Black_People_In_The_Future

      There are Black People in the Future is inspired by afro-futurist artists and writers who highlight the need for Black people to claim their place. Through the inscription and utterance of the words, ‘There are Black People in the Future,’ the project addresses systemic oppression of black communities through space and time by reassuring the presence of Black bodies. In 2017, Wormsley placed these words on a billboard in East Liberty, a neighborhood in Pittsburgh’s east end that has suffered gentrification. When the billboard was removed by the city, community members protested, in response to this community support, Wormsley has raised grant money to artists, activists, and community workers in Pittsburgh around their interpretation of the phrase “There Are Black People in the Future”. Since then, the billboard has been replicated in Detroit, Charlotte, New York City, Kansas City and Houston, internationally London, Accra and Qatar. Each site can pull from this precedence of supporting Black futures locally, whether through commissions, grants, project funding or programming. The text, which Wormsley encourages others to use freely, has since been used in protest, critical art theory, essays, song, testimony and collective dreaming.


      https://www.alishabwormsley.com/tabpitf

      #art #TABPITF #Alisha_Wormsley

    • La conférence de Alana Osbourne commence par introduire (et se construit à partir de) du rapport de la #commission_parlementaire (belge) chargée d’examiner le #passé_colonial :
      Le #rapport sur le passé colonial de la Belgique achoppe sur la question des #excuses

      Après deux ans et demi de travaux, des déplacements en République démocratique du Congo, au Rwanda, au Burundi, l’audition de près de 300 personnes, la commission parlementaire chargée d’examiner le passé colonial du pays devait remettre son rapport final. Mais les libéraux ont refusé d’adopter le texte lundi.

      L’écologiste Wouter de Vriendt, qui préside la commission parlementaire chargée d’examiner le passé colonial de la Belgique, avait demandé que la chambre des représentants présente des excuses aux peuples congolais, burundais et rwandais pour « la #domination et l’#exploitation_coloniale, les #violences et les #atrocités, les violations individuelles et collectives des droits humains durant cette période, ainsi que le #racisme et la #discrimination qui les ont accompagnées ».

      #Wouter_de_Vriendt invitait également « le pouvoir exécutif à faire des démarches analogues sur le plan des #réparations_symboliques ». Le président de la commission précisait bien que cette #reconnaissance du rôle de la Belgique, n’impliquerait aucune #responsabilité_juridique et ne pourrait donc donner lieu à une #réparation_financière.

      Des précautions qui n’ont pas suffi à convaincre les députés libéraux. Ces derniers ont claqué la porte de la commission lundi 19 décembre. Ils refusent que soient présentées des excuses, car celles-ci pourraient entraîner selon eux des réparations financières, ce dont ils ne veulent pas entendre parler. Ces députés préfèrent ainsi en rester aux regrets présentés par le roi.

      Faute d’accord sur cette question des excuses, la commission ne remettra donc pas son rapport final. C’est là un échec, d’autant plus douloureux que nombre de recommandations formulées par le président de cette commission semblaient faire consensus.

      https://www.rfi.fr/fr/afrique/20221220-les-excuses-au-c%C5%93ur-des-dissensions-parlementaires-sur-le-pass%C3%