• “Fermiamo tutto, altrimenti sarà guerra civile genocida tra Israele e Palestina”: le parole di #Dimi_Reider

    Dimi Reider, giornalista, attivista e fondatore della testata progressista israeliana +972 magazine parla con Fanpage.it del conflitto in corso. “L’unica soluzione? Un solo stato per entrambi i popoli, ma sarà impossibile se oggi esplode una guerra civile genocida nei territori occupati”

    Abbiamo raggiunto al telefono da Londra Dimi Reider, giornalista, attivista e tra i fondatori della testata israeliana progressista +972 mag, che da anni è diventata un punto di riferimento per tutti i media internazionali per il racconto della vita nei territori occupati e della società israeliana. Suoi articoli sono apparsi sul Guardian, New York Times, New Statesman e Foreign Policy, tra gli altri.

    Dopo la richiesta di evacuazione del Nord di Gaza, l’isolamento dalle forniture di acqua e luce e i bombardaamenti a tappeto, questa notte, con il bombardamento dell’Al-Ahli Arabi Baptist Hospital di Gaza, la guerra ha toccato l’apice dell’orrore. Come si può interrompere il ciclo della violenza?

    Dobbiamo amplificare gli appelli a prevenire un genocidio a Gaza e, allo stesso tempo, dire che ciò che Hamas ha fatto è inaccettabile, un crimine di guerra. È perfettamente possibile fare entrambe le cose. È essenziale fare entrambe le cose.
    Ho ancora qualche speranza che tra l’intenzione israeliana di invadere da terra, e la pressione degli Stati circostanti e quella dell’Iran e l’ovvia mancanza di fiducia degli israeliani nei confronti della loro leadership, possa ancora esserci una finestra per evitare questa catastrofe.

    Tuttavia, realisticamente, credo che sia troppo tardi. L’orrore si sta già consumando. I leader occidentali dovrebbero almeno costringere Netanyahu a dare un ultimatum ad Hamas prima di iniziare un’invasione di terra – ad esempio, evacuate i vostri leader e le vostre truppe da Gaza, risparmiate al vostro popolo la distruzione. Sulla falsa riga dell’evacuazione di Arafat da Beirut a Tunisi nella prima guerra del Libano. Ma letteralmente nessuno – leader occidentali, Netanyahu, Hamas – vorrà seguire questa strada. Almeno non ancora. Non prima che un’enorme porzione di Gaza vada in rovina e che il numero di morti israeliani sia superato molte volte da quelli palestinesi.

    Quale prospettiva vedi per questo conflitto asimmetrico?

    Vedo tre opzioni per l’immediato futuro. Una è Grozny a Gaza: distruzione totale, evacuazione, eliminazione dell’élite politica e poi, forse, ricostruzione. La seconda è Grozny a Gaza e la Jugoslavia/Rwanda dappertutto, forse con un’ulteriore guerra con Hezbollah. Non esiste uno scenario di vittoria palestinese: anche se Israele perdesse contro forze esterne – il che è dubbio, soprattutto se gli Stati Uniti si impegnano a entrare in guerra -, i palestinesi perderebbero per primi, in modo orribile. E il terzo scenario, altrettanto tragico ma migliore in termini di vite umane perse, è una capitolazione/compromesso di Hamas prima che Gaza sia completamente distrutta e il resto di Israele-Palestina esploda. Questo è possibile se Hamas cede prima del previsto, se i danni alle città israeliane sono più gravi del previsto o se l’uso degli ostaggi è più efficace del previsto. Al momento questo sembra lo scenario meno probabile.

    Quali obiettivi vedi dietro l’attacco del 7 ottobre? Motivi interni, far saltare gli accordi di Abramo, una forma spontanea di resistenza, come sostengono alcuni?

    Che sia stata una forma di resistenza «spontanea» mi sembra l’ipotesi meno plausibile. Sappiamo da fonti di Hamas che l’attacco è stato pianificato per un anno, forse due. Si è trattato di un’operazione militare – che si è rapidamente trasformata in un massacro – estremamente ben pianificata e ben eseguita. Per quanto riguarda gli obiettivi posso solo fare ipotesi. Sembrerebbe che Hamas volesse ripristinare la propria credibilità come movimento di resistenza, piuttosto che come un’OLP meglio organizzata. L’OLP è infatti corrotta, inefficiente e collabora strettamente con Israele. Hamas voleva reinserirsi come attore nell’intera arena politica palestinese, non solo a Gaza. E, piuttosto che far saltare gli Accordi di Abramo voleva un posto al tavolo, per essere preso in considerazione nel processo.

    Come inquadrare l’attacco di Hamas? Haggai Matar ha scrittoche il terrore e la violenza subiti dagli israeliani sono ciò che di solito subiscono i palestinesi.

    Dobbiamo parlare di crimini di guerra, avvenuti nel contesto di sette decenni di conflitto e compiuti in nome della comunità indubbiamente più debole e oppressa. Sono stati sia un attacco diretto alla strategia di assedio e contenimento di Israele, sia alla sua politica di divisione e conquista.

    L’operazione doveva mettere in mostra la formidabile potenza militare di Hamas e mettere al sicuro gli ostaggi, così da negoziare il rilascio del massimo numero possibile di prigionieri palestinesi. Sarebbe così diventato un rappresentante degli interessi nazionali palestinesi, con più successo dell’OLP. L’attacco doveva inoltre mettere a dura prova l’invincibilità israeliana, conseguendo un risultato con implicazioni regionali. Un altro obiettivo era quello di creare video indimenticabili di palestinesi in gabbia che evadono da Gaza, tornano sul loro territorio storico e conquistano una o due città con la forza – qualcosa che nessun gruppo palestinese ha mai realizzato, nemmeno nel 1948.
    Il collasso militare israeliano, tuttavia, è stato così rilevante che Hamas ha effettivamente raggiunto tutti questi obiettivi in un paio d’ore – ma poi ha continuato ad agire senza freni annullando i propri risultati. Questa brutalità – dal massacro al festival musicale, a quello di famiglie nei kibbutzim – ha posto Hamas fuori di qualsiasi tipo di negoziazione, sia per il cessate il fuoco che per gli ostaggi. Ha dato così carta bianca a Israele in occidente.

    La sinistra ebraica contro l’occupazione, in Israele e nella diaspora, è stretta tra il mainstream che ripropone la retorica dello scontro di civiltà e ignora le vittime palestinesi e parte della sinistra radicale – poco rilevante pubblicamente ma ingigantita nella percezione dalla stigmatizzazione sui media – che ignora le vittime israeliane. Le forze contro l’occupazione in Israele sono deboli e lo saranno sempre più? C’è una sensazione di isolamento rispetto alla solidarietà internazionale?

    Le prime 72 ore dopo l’attacco di Hamas hanno messo in luce alcune divisioni molto importanti nel movimento di solidarietà internazionale, sia all’interno della sinistra palestinese che tra altri attivisti internazionali e israeliani. Personalmente, penso che l’atteggiamento che legittima uccisione dei bambini israeliani faccia perdere credibilità alla giusta opposizione all’uccisione di bambini palestinesi. Abbiamo bisogno di coerenza morale. E credo che la reazione agli attentati metta in luce il fatto che la nostra coerenza morale è traballante.

    Dovremmo usare quest’ultima settimana per fermarci prima dell’abisso in cui si sta per precipitare. Ovviamente ciò che sta accadendo a Gaza è orribile e non è affatto giustificato da ciò che ha fatto Hamas. Inoltre, non ha alcun valore militare. Ma, se anche l’avesse, prendere di mira i civili è profondamente sbagliato.

    Il giornale progressista Haaretz ha incolpato Netanyahu per il fallimento della sicurezza. Pensi che il governo diventerà più forte – magari assorbendo l’opposizione e sfruttando la fine delle proteste contro la riforma giudiziaria – o più debole?

    Entrambe le cose. Probabilmente sopravviverà alla guerra stessa. Ma Netanyahu è completamente finito politicamente. Anche prima dell’attacco non era ben messo. Ora è diventato il primo ministro che peggio di tutti ha fallito nel proteggere Israele e il suo popolo. È qualcosa che gli israeliani non perdoneranno mai. Prima di lui, la prima ministro più odiato è stato Golda Meir. Il fallimento di Netanyahu supera il suo di un ordine di grandezza.

    Hai scritto – e sono d’accordo – che la soluzione dei due Stati è morta. Un unico Stato uguale per ebrei e palestinesi è un’opzione praticabile quando neanche si riesce a fermare l’escalation?

    Credo che uno Stato unico sia un’ipotesi percorribile, anche se più tardi di quanto avrei stimato. A meno che una delle due comunità non scompaia completamente come forza politico-demografica dalla Palestina storica (e purtroppo è facile dire quale comunità sarà). Se me lo avessi chiesto una settimana fa, ti avrei detto che uno Stato binazionale e consociativo che riconosca le differenti vicende storiche e garantisca la sicurezza e i diritti fondamentali di entrambe le comunità è qualcosa che potevamo ragionevolmente sperare di vedere all’orizzonte tra vent’anni. Oggi, ti direi che questa tempistica si è allungata a 40 – 50 anni, più di una generazione. Ma questo non è un motivo per smettere di lavorare. Al contrario. Ora però la priorità è evitare una guerra civile genocida.

    https://www.fanpage.it/esteri/fermiamo-tutto-altrimenti-sara-guerra-civile-genocida-tra-israele-e-palestin
    #Israël #Palestine #7_octobre_2023 #à_lire #Gaza #génocide #Hamas #crimes_de_guerre #otages #cohérence_morale #Netanyahu

  • Les éléments de certitude de Biden représentent des incertitudes pour les #MSM

    Guerre Israël-Hamas : incertitude persistante sur la cause de l’explosion à l’hôpital de Gaza
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/10/19/israel-hamas-incertitude-persistante-sur-la-cause-de-l-explosion-a-l-hopital

    A ce stade, les experts militaires habitués à travailler en source ouverte ne parviennent pas à s’accorder sur la signification de ces images. Un certain nombre d’entre eux, notamment Justin Bronk, un chercheur du club de réflexion londonien RUSI, spécialiste des questions aériennes, penchent en faveur de la thèse de l’armée israélienne, celle d’un accident de roquette tirée depuis Gaza : le projectile, tiré par le Jihad islamique palestinien, une formation alliée du Hamas, aurait été intercepté par le Dôme de fer, le système de défense antiaérien israélien, avant de retomber sur le parking et un jardin de l’hôpital où se trouvaient de nombreux civils. La taille de l’impact au sol apparaît, à ces mêmes experts, peu compatible avec celle d’un bombardement, notamment au moyen d’une bombe guidée – dite JDAM – une arme traditionnellement utilisée par l’aviation israélienne.

    « L’Iron Dome ne tape normalement [les tirs en direction d’Israël] qu’à partir de 4 km », rappelle le colonel Michel Goya, historien militaire et auteur de plusieurs ouvrages sur le Proche-Orient, dont Israël contre le Hezbollah. Chronique d’une défaite annoncée, 12 juillet-14 août 2006 (Editions du Rocher, 2014). Or l’hôpital visé se situait, à vol d’oiseau, à 3,5 km à l’ouest de la clôture fortifiée séparant la bande de Gaza d’Israël. « La roquette a pu être touchée par un missile Spyder [un missile israélien qui sert d’intercepteur] », estime M. Goya, tout en se gardant de toute conclusion définitive.

    Il arrive régulièrement que des roquettes tirées depuis Gaza retombent sur le territoire palestinien, soit parce qu’elles ont été interceptées, soit en raison d’une trajectoire défaillante. A l’été 2014, lors de l’opération « Bordure protectrice » qui avait opposé Israël au Hamas, 188 roquettes étaient tombées avant la frontière, selon M. Goya. Mercredi, l’armée israélienne a affirmé que 450 roquettes palestiniennes interceptées sont retombées sur la bande de Gaza depuis le début de la guerre. Aucune image des débris de la roquette qui aurait touché l’hôpital n’a été diffusée à ce stade.

    Pour Francesco Sebregondi, spécialiste de la recherche en source ouverte, et fondateur d’une ONG spécialisée dans le domaine, la thèse de la roquette palestinienne interceptée est toutefois à prendre avec précaution. Pour le chercheur, qui a diffusé son analyse sur le réseau X, il n’est pas possible, à ce stade, d’exclure « l’hypothèse de deux événements synchronisés : le tir d’une roquette et un bombardement ciblé », sans lien de causalité. Pour lui, le petit cratère observé sur le parking peut avoir été causé par une munition larguée depuis un drone, une arme également en usage au sein de l’armée israélienne.

    Si la version israélienne suscite la méfiance de certains observateurs, c’est aussi parce que, à plusieurs reprises par le passé, les éléments avancés par l’Etat hébreu pour se blanchir ont été contredits par des enquêtes indépendantes . Ce fut le cas avec Shireen Abu Akleh, la journaliste de la chaîne Al-Jazira abattue par un tir de l’armée israélienne en mai 2022, à Jénine, en Cisjordanie. Alors que le gouvernement israélien avait imputé sa mort à des combattants palestiniens, des enquêtes de plusieurs médias et organisations des droits humains ont invalidé cette thèse.

    Après l’explosion sur l’hôpital, des extraits d’une conversation, présentée comme un échange entre deux militants du Hamas intercepté par les services de renseignement de l’Etat hébreu, ont été diffusés, mercredi, par les autorités israéliennes. Dans cette discussion, un homme assure à un autre, à plusieurs reprises, que le carnage à l’hôpital Al-Ahli est le résultat d’un tir de roquette, effectué depuis un cimetière situé derrière l’hôpital et que le projectile appartenait au Jihad islamique. Ces « communications interceptées » ont été mentionnées par la Maison Blanche, avec « l’analyse d’images aériennes » et « les informations en accès libre », au titre des éléments qui ont incité le président Joe Biden à mettre Israël hors de cause. Le dialogue entre les deux militants du Hamas n’a toutefois pas pu être identifié de source indépendante .

    • Massacre de l’hôpital al-Ahli : déconstruire le mensonge israélien
      18 octobre 2023 Par Jonathan Cook
      https://www.chroniquepalestine.com/massacre-hopital-al-ahli-deconstruire-mensonge-israelien

      Il n’est pas seulement improbable qu’une roquette palestinienne ait détruit l’hôpital de Gaza. C’est tout simplement impossible. Les médias le savent, mais ils sont terrifiés à l’idée de le dire.

      Répétons-le encore une fois : les plus grandes fake news proviennent des médias de l’establishment. Lorsque les enjeux sont importants, ils ne se soucient guère de cacher leur rôle de porte-parole de la propagande occidentale.

      Il s’agit d’une répétition de l’affaire des armes de destruction massive irakiennes. Nous sommes en train de nous faire enfumer. Croyez vos yeux, vos oreilles et les lois de la physique, et non les mensonges colportés par nos dirigeants et nos médias à propos de la frappe de missile de la nuit dernière sur l’hôpital baptiste de Gaza :

      Aucun groupe palestinien ne dispose d’une roquette capable d’écraser un hôpital. Ce qu’ils ont, ce sont des engins souvent dérisoires glorifiés qui peuvent causer des dommages mineurs et occasionnellement faire un ou deux morts. Si le Hamas ou le Djihad islamique pouvait faire exploser un bâtiment, tuant des centaines de personnes, comme cela s’est produit la nuit dernière, on en entendrait parler à Tel-Aviv ou à Ashkelon également. Vous n’en entendez pas parler parce que ce n’est pas dans leur champ de possibilité. (...)

    • L’analyse du Monde, sans prétendre être définitive, met en avant la chute d’une roquette ou de débris de roquette tirée depuis Gaza, et interceptée par le Dôme de fer. Même s’il n’exclut pas l’hypothèse d’un tir de drone.

      https://www.lemonde.fr/international/article/2023/10/19/explosion-a-l-hopital-al-ahli-a-gaza-ce-que-montre-l-analyse-detaillee-des-i

      Explosion à l’hôpital Al-Ahli à Gaza : ce que montre l’analyse détaillée des images
      Par Liselotte Mas , Thomas Eydoux , Cellule Enquête vidéo , Elisa Bellanger (Motion design) et Marceau Bretonnier (Motion design)
      Publié aujourd’hui à 17h53, modifié à 18h52

      ENQUÊTE VIDÉO
      Deux jours après les faits, Hamas et armée israélienne continuent de se renvoyer la responsabilité du drame. Les images authentifiées et analysées par « Le Monde » permettent de mieux comprendre ce qu’il s’est passé.

      Mardi 17 octobre à Gaza, comme tous les jours depuis le début de la guerre entre le Hamas et Israël, la chaîne de télévision Al-Jazira filme les toits de Gaza en direct. A l’écran, le bandeau indique qu’il est 18 h 59, lorsqu’une lueur s’élève dans le ciel, puis disparaît dans un flash. Huit secondes plus tard, un nouveau flash est visible, au sol cette fois-ci : une explosion retentit à l’hôpital Al-Ahli, à Gaza.

      Rapidement, le Hamas accuse l’armée israélienne d’avoir bombardé l’hôpital. Selon les autorités gazaouies, 471 personnes auraient perdu la vie dans l’explosion. « Ce ne sont pas des frappes israéliennes qui ont touché l’hôpital », dément Daniel Hagari, le porte-parole de Tsahal. Israël accuse au contraire une roquette palestinienne et remet en question le nombre de victimes, bien plus faible selon eux.

      Le Monde a authentifié et analysé une dizaine de photos et vidéos du drame. Si ces images ne permettent pas de s’assurer de l’origine de l’explosion, elles apportent de nombreux éléments de contexte : comme la trajectoire probable du projectile, la présence de roquettes tirées de Gaza dans les instants qui précèdent l’explosion et les caractéristiques des dégâts.

      Le projectile suit une trajectoire allant du sud vers le nord
      Située à 1,4 kilomètre au nord-ouest de l’hôpital, en plein cœur de Gaza, la caméra d’Al-Jazira capte tout ce qui se passe à l’est de la ville. Sur les images, on voit un projectile avancer de la droite vers la gauche de l’écran. Il monte en cloche, puis explose dans le ciel. Les images ne permettent pas de suivre, ensuite, de trajectoires de débris potentiels vers le sol.

      Sur les images, on voit un projectile avancer de la droite vers la gauche de l’écran. Il monte en cloche, puis explose dans le ciel.
      La caméra dézoome et fait un mouvement vers le bas. Cinq secondes après la première explosion, une autre survient au sol. Puis trois secondes plus tard, une troisième, bien plus importante. Nous avons pu confirmer que cette dernière se produit dans l’enceinte de l’hôpital Al-Ahli, reconnaissable à plusieurs bâtiments. La chaîne de télévision précise qu’il est alors 18 h 59, heure locale.

      « Le Monde » a pu confirmer que cette explosion se produit dans l’enceinte de l’hôpital Al-Ahli, reconnaissable à plusieurs bâtiments.
      D’autres images montrent une salve de roquettes avant l’explosion

      La chaîne israélienne N12 affirme également avoir obtenu des images du moment où l’hôpital est touché par une explosion, prises par une caméra de surveillance à Netivot, en Israël, à 10 km de la frontière. Le Monde a pu déterminer précisément la position de la caméra, à l’extrémité nord-est de la ville. De là, elle enregistre tout ce qu’il se passe côté Gaza, à l’ouest.

      On voit une série de lueurs qui s’élèvent dans le ciel, en réalité une salve de projectiles, et se dirigent vers la droite de l’écran. L’une d’entre elles plonge subitement vers le sol. L’heure indique 18 h 59 et 20 secondes, comme celle d’Al-Jazira. En croisant les champs des deux caméras, il est possible d’affirmer qu’ils suivent une trajectoire allant du sud vers le nord.

      Trois vidéos authentifiées et analysées par « Le Monde » permettent de documenter l’explosion de 17 octobre à l’hôpital Al-Ahli.
      Une troisième caméra, située sur la frontière nord de la bande de Gaza, a également filmé la scène. Diffusée par le journaliste Emanuel Fabian sur X, elle montre à la droite de l’image des projectiles qui s’élancent dans le ciel. A la 19e seconde, une explosion au sol est visible à l’écran, sans qu’on puisse distinctement voir ce qui l’a provoquée.

      Le Monde a pu confirmer que ces images ont été prises à Netiv Haasara, un village israélien situé au nord de la bande de Gaza. La caméra est située entre le village et la frontière, à un peu moins de 10 kilomètres de l’hôpital Al-Ahli. Le journaliste israélien publie peu de temps après des éléments donnant l’heure précise à laquelle l’explosion a été enregistrée : 18 h 59 et 20 secondes. Le même horaire à la seconde près que celui de la vidéosurveillance de Netivot.

      La forme du rayonnement lumineux issu de l’explosion et sa durée correspondent aux deux vidéos précédentes. Comme elles, cette caméra ne montre pas de traces de bombardement aérien, ni ne permet de distinguer de projectile terminer sa course sur l’hôpital. Les images montrent toutefois que dans la minute qui précède l’explosion, des projectiles sont tirés de Gaza en direction d’Israël, vers le nord.

      L’impact dans l’enceinte de l’hôpital

      Le lendemain, mercredi 18 octobre, des photos et vidéos montrent les conséquences de l’explosion. Sur le parking de l’hôpital, plus d’une dizaine de voitures sont calcinées, dont quelques-unes presque entièrement détruites. De nombreux vêtements, sacs et affaires personnelles sont visibles sur une partie de la pelouse. Surtout, un cratère de moins d’un mètre de diamètre est creusé dans le sol.

      Une taille qui correspond à une faible charge explosive ou à un choc cinétique important, mais pas à un bombardement aérien israélien classique. Pour Justin Bronk, analyste militaire et chercheur spécialisé en aéronautique à RUSI, cela ne correspond en tout cas pas « aux bombes standard de la série JDAM/Mk80 de l’armée de l’air israélienne »

      Un bilan humain difficile à confirmer

      Le lendemain, mercredi 18 octobre, des photos et vidéos montrent les conséquences de l’explosion. Sur le parking de l’hôpital, plus d’une dizaine de voitures sont calcinées, dont quelques-unes presque entièrement détruites. De nombreux vêtements, sacs et affaires personnelles sont visibles sur une partie de la pelouse. Surtout, un cratère de moins d’un mètre de diamètre est creusé dans le sol.
      L’explosion a fait au moins 471 morts, selon le ministère de la santé du Hamas. Impossible, pour le moment, de vérifier cette information de manière indépendante. Une vidéo tournée de nuit et authentifiée par Le Monde montre toutefois des corps sur la pelouse de la cour de l’hôpital, vraisemblablement quelques instants après l’explosion. Au moins 15 personnes sans vie sont visibles, dont quatre enfants en bas âge.

      A la date du 19 octobre, aucune trace probante du ou des projectiles ayant pu causer cette explosion n’était disponible.

      A PROPOS DES IMAGES DE VIDÉOSURVEILLANCE

      Les deux vidéos de surveillance filmées à Netivot et Netiv Haasara présentent plusieurs similarités qui nous permettent de les inclure dans cette analyse. Les explosions visibles surviennent exactement au même moment, à la seconde près, et sont ressemblantes de par la forme et la durée du rayonnement lumineux qu’elles dégagent. Publiées par deux médias israéliens, elles sont assorties d’un horodatage, 18 h 59 et 20 secondes, que nous n’avons pas pu vérifier indépendamment mais qui correspond au moment de l’explosion dans l’hôpital gazaoui. La taille et durée de l’explosion sont également compatibles avec les images de l’hôpital gazaoui, de même que la position de l’explosion. Ce faisceau d’indices nous permet de penser qu’elles montrent bien le moment de l’explosion sur l’hôpita

    • travail. il me semble que tout le monde oublie qu’une force armée perd des hommes y compris lorsqu’elle n’intervient pas, et que ce que l’on appelle victimes collatérales (civils) ne sont pas toujours le résultat de calculs cyniques mais aussi d’inévitables imprécisions de l’action (ne pas croire qu’une intervention militaire peut être programmée de bout en bout, pas plus qu’une interv de flics ici : il y a une dynamique du processus que ses maîtres d’oeuvre ne peuvent contrôler en tous points). le caractère accidentogène de l’activité militaire, y compris en « temps de paix » est loin d’être nulle.

      pour ma part, au vu de diverses lectures, je vois 4 hypothèses

      – la plus logique, en tout cas la plus rationalisatrice : Tsahal à bombardé sciemment, pour encourager l’exil vers le sud, pour prouver sa détermination, pour continuer à préfigurer/préparer une intervention au sol, pour éliminer des responsables Hamas planqués en Hôpital chrétien ? pour qu’elle le fasse à la veille de l’arrivée de Biden (fric, matos, soutien politique), je vois que cette dernière raison. je ne crois pas qu’il s’agisse simplement de signifier en préalable que les simagrées humanitaires et les demandes de précautions méthodologiques (définir des buts de la guerre, en l’occurrence ceux d’une opération terrestre massive dans Gaza) n’ont pas cours, car c’est l’effet inverse que ça produit et les dirigeants Israéliens se sont montrés assez imbéciles de leur propre point de vue ces derniers temps (dégarnir Gaza, etc) pour être contraints de faire quelques efforts de réflexions aujourd’hui
      – une autre, conjoncturelle : Israël commet une bavure de son point de vue (mieux vaut tuer par voie aérienne beaucoup plus de monde lors dune opération terrestre, comme mesure complémentaire d’un contrôle du territoire très long et difficile à assurer, pas comme ça, comme un préalable), vu le niveau technique de leur boudin de mort, c’est pas le plus probable.
      – une faction palestinienne de Gaza (la moins bien équipée, le Djihad islamique ?) envoie une roquette qui dysfonctionne, retombe sur Gaza (les arguments sur la petitesse du cratère et le faible rayon d’action de l’explosif disqualifient le chiffrage Hamas propagandiste quant au nombre de vctimes à cet endroit et à cette heure)
      – encore dans le parano rationnalisateur, plus olé olé cette fois, un acte palestinien volontaire (forcer une martyrologie qui tarde à venir malgré des jours de bombardements et de morts) aux effets exagérés par la com du Hamas

      vous l’aurez compris, pour l’instant je penche plutôt pour la boulette palestinienne qu’il est indispensable d’exploiter une fois qu’elle a eu lieu. sans certitude aucune.

      j’ai par ailleurs lu quelques papiers où il est signalé que la mobilisation populaire énorme en défense des palestiniens (au Maroc par exemple) est dans le déni des actes commis par le Hamas en Israël (dont le résumé peu flatteur serait mis sur le compte de la propagande israélienne et occidentale et elles seules)

      il y a des vérités politiques douteuses et la guerre laisse peu de place à la raison et au sens critique
      https://seenthis.net/messages/1022005

      malgré la logique (utiliser l’attaque du 7 octobre pour annexer pour de bon Gaza, pour un « petit » Grand Israël) l’affaire se complique lorsqu’on regarde d’un peu près les difficultés militaires d’une invasion qui aurait pour but d’"éradiquer le Hamas" https://seenthis.net/messages/1022100 sauf à en éliminer des chefs au Quatar - pas moins !- et ailleurs (Algérie, etc.) , et, patiemment, à procéder à des exécutions ciblées -aux dégâts civils plus ou moins prononcés- de responsables locaux dans Gaza dès que c’est possible (mais ça l’est bien moins que pour d’autres dans les « territoires »).

      edit après 13 jours, le soutien de l’occident inclu par réalisme quelques bémols, ça ne s’arrangerait pas au sol ; sans compter le coût politique interne d’une opération massive qui tuera non seulement de nombreux soldats mais aussi des otages israéliens et « étrangers », etc.

      #Gaza #Hamas #Palestine #Israël

  • 8 fois,
    Jean-Jacques Bourdin coupe 8 fois la Députée Danièle Obono pour lui poser la même question : « Le Hamas est-il un mouvement de résistance ? » La Députée esquive, se défend, essaye de placer ses mots.
    « C’est un groupe politique islamiste qui a une branche Armée... »
    Elle ne peut pas en dire plus.
    À force de répétition, Bourdin l’harcèle, la ramène toujours sur le même terrain. « Le Hamas est-il un mouvement de résistance ? »
    Petit à petit, elle tombe sous les coups de l’agression.
    « C’est un mouvement qui résiste », essaye-t-elle.
    Puis, « c’est un mouvement reconnu comme tel par les instances internationales. »
    Le piège s’est refermé. Bourdin a mis les mots qu’il voulait dans la conversation, c’est la Députée qui en paiera les frais. Sud Radio titre l’interview « Oui, le Hamas est un mouvement de résistance » (elle n’a même pas prononcé le mot).
    Quelques heures après, Darmanin saisi la justice contre la députée pour « apologie du terrorisme ». C’est une cible de choix. Elle a été plusieurs fois dans le collimateur de l’extrême droite.
    De nombreux médias titrent :
    " Gérald Darmanin saisit la justice pour « apologie du terrorisme » après les propos de la députée Danièle Obono sur le Hamas
    Puis France info pond un nouvel article sur ce seul fait :
    « Comment la guerre entre Israël et le Hamas exacerbe les divisions au sein de La France insoumise »

    https://twitter.com/SudRadio/status/1714172342421602780

    https://video.twimg.com/amplify_video/1714172303624339456/vid/avc1/1280x720/bJTH2QYHC5yyAyE6.mp4?tag=16

    #Jean-Jacques_Bourdin #Danièle_Obono #Hamas #Sud_Radio #Gerald_Darmanin

  • L’anthropologue #Didier_Fassin sur #Gaza : « La non-reconnaissance de la qualité d’êtres humains à ceux qu’on veut éliminer est le prélude aux pires violences »

    Le sociologue s’alarme, dans une tribune au « Monde », que l’Union européenne n’invoque pas, dans le cadre du conflit israélo-palestinien, la « responsabilité de protéger » votée par l’Assemblée des Nations unies, et qu’elle pratique le deux poids deux mesures dans ses relations internationales.

    L’incursion sanglante du #Hamas en #Israël a produit dans le pays un #choc sans précédent et a suscité des réactions d’horreur dans les sociétés occidentales. Les #représailles en cours à Gaza, d’autant plus violentes que le gouvernement israélien est tenu responsable par la population pour avoir favorisé l’essor du Hamas afin d’affaiblir le #Fatah [le parti politique du président palestinien, Mahmoud Abbas] et pour avoir négligé les enjeux de sécurité au profit d’une impopulaire réforme visant à faire reculer la démocratie, ne génèrent pas de semblables sentiments de la part des chancelleries occidentales, comme si le droit de se défendre impliquait un droit illimité à se venger. Certaines #victimes méritent-elles plus que d’autres la #compassion ? Faut-il considérer comme une nouvelle norme le ratio des tués côté palestinien et côté israélien de la guerre de 2014 à Gaza : 32 fois plus de morts, 228 fois plus parmi les civils et 548 fois plus parmi les enfants ?

    Lorsque le président français, #Emmanuel_Macron, a prononcé son allocution télévisée, le 12 octobre, on comptait 1 400 victimes parmi les Gazaouis, dont 447 enfants. Il a justement déploré la mort « de nourrissons, d’enfants, de femmes, d’hommes » israéliens, et dit « partager le chagrin d’Israël », mais n’a pas eu un mot pour les nourrissons, les enfants, les femmes et les hommes palestiniens tués et pour le deuil de leurs proches. Il a déclaré apporter son « soutien à la réponse légitime » d’Israël, tout en ajoutant que ce devait être en « préservant les populations civiles », formule purement rhétorique alors que #Tsahal avait déversé en six jours 6 000 bombes, presque autant que ne l’avaient fait les Etats-Unis en une année au plus fort de l’intervention en Afghanistan.

    La directrice exécutive de Jewish Voice for Peace a lancé un vibrant « #plaidoyer_juif », appelant à « se dresser contre l’acte de #génocide d’Israël ». Couper l’#eau, l’#électricité et le #gaz, interrompre l’approvisionnement en #nourriture et envoyer des missiles sur les marchés où les habitants tentent de se ravitailler, bombarder des ambulances et des hôpitaux déjà privés de tout ce qui leur permet de fonctionner, tuer des médecins et leur famille : la conjonction du siège total, des frappes aériennes et bientôt des troupes au sol condamne à mort un très grand nombre de #civils – par les #armes, la #faim et la #soif, le défaut de #soins aux malades et aux blessés.

    Des #crimes commis, on ne saura rien

    L’ordre donné au million d’habitants de la ville de Gaza de partir vers le sud va, selon le porte-parole des Nations unies, « provoquer des conséquences humanitaires dévastatrices ». Ailleurs dans le monde, lorsque éclatent des conflits meurtriers, les populations menacées fuient vers un pays voisin. Pour les Gazaouis, il n’y a pas d’issue, et l’armée israélienne bombarde les écoles des Nations unies où certains trouvent refuge. Ailleurs dans le monde, dans de telles situations, les organisations non gouvernementales apportent une assistance aux victimes. A Gaza, elles ne le peuvent plus. Mais des crimes commis, on ne saura rien. En coupant Internet, Israël prévient la diffusion d’images et de témoignages.

    Le ministre israélien de la défense, #Yoav_Gallant, a déclaré, le 9 octobre, que son pays combattait « des #animaux_humains » et qu’il « allait tout éliminer à Gaza ». En mars, son collègue des finances a, lui, affirmé qu’« il n’y a pas de Palestiniens, car il n’y a pas de peuple palestinien ».
    Du premier génocide du XXe siècle, celui des Herero, en 1904, mené par l’armée allemande en Afrique australe, qui, selon les estimations, a provoqué 100 000 morts de déshydratation et de dénutrition, au génocide des juifs d’Europe et à celui des Tutsi, la non-reconnaissance de la qualité d’êtres humains à ceux qu’on veut éliminer et leur assimilation à des #animaux a été le prélude aux pires #violences.

    Rhétorique guerrière

    Comme le dit en Israël la présidente de l’organisation de défense des droits de l’homme, B’Tselem, « Gaza risque d’être rayée de la carte, si la communauté internationale, en particulier les Etats-Unis et l’Europe, ne fait pas stopper – au lieu de laisser faire, voire d’encourager – les crimes de guerre qu’induit l’intensité de la riposte israélienne ». Ce n’est pas la première fois qu’Israël mène une #guerre à Gaza, mais c’est la première fois qu’il le fait avec un gouvernement aussi fortement orienté à l’#extrême-droite qui nie aux Palestiniens leur humanité et leur existence.
    Il existe une « responsabilité de protéger », votée en 2005 par l’Assemblée des Nations unies, obligeant les Etats à agir pour protéger une population « contre les génocides, les crimes de guerre, les nettoyages ethniques et les crimes contre l’humanité ». Cet engagement a été utilisé dans une dizaine de situations, presque toujours en Afrique. Que l’Union européenne ne l’invoque pas aujourd’hui, mais qu’au contraire la présidente de la Commission, Ursula von der Leyen, se rende, sans mandat, en Israël, pour y reprendre la #rhétorique_guerrière du gouvernement, montre combien le deux poids deux mesures régit les relations internationales.
    Quant à la #France, alors que se fait pressante l’urgence à agir, non seulement le gouvernement apporte son appui sans failles à l’#opération_punitive en cours, mais il interdit les #manifestations en faveur du peuple palestinien et pour une #paix juste et durable en Palestine. « Rien ne peut justifier le #terrorisme », affirmait avec raison le chef de l’Etat. Mais faut-il justifier les crimes de guerre et les #massacres_de_masse commis en #rétorsion contre les populations civiles ? S’agit-il une fois de plus de rappeler au monde que toutes les vies n’ont pas la même valeur et que certaines peuvent être éliminées sans conséquence ?

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/10/18/l-anthropologue-didier-fassin-sur-gaza-la-non-reconnaissance-de-la-qualite-d

    #à_lire #7_octobre_2023

    • Le spectre d’un génocide à Gaza

      L’annihilation du Hamas, que la plupart des experts jugent irréaliste, se traduit de fait par un massacre des civils gazaouis, ce que la Première ministre française appelle une « catastrophe humanitaire », mais dans lequel un nombre croissant d’organisations et d’analystes voient le spectre d’un génocide.

      Au début de l’année 1904, dans ce qui était alors le protectorat allemand du Sud-Ouest africain, les Hereros se rebellent contre les colons, tuant plus d’une centaine d’entre eux dans une attaque surprise.

      Au cours des deux décennies précédentes, ce peuple d’éleveurs a vu son territoire se réduire à mesure que de nouvelles colonies s’installent, s’emparant des meilleures terres et entravant la transhumance des troupeaux. Les colons traitent les Hereros comme des animaux, les réduisent à une forme d’esclavage et se saisissent de leurs biens. Le projet des autorités est de créer dans ce qui est aujourd’hui la Namibie une « Allemagne africaine » où les peuples autochtones seraient parqués dans des réserves.

      La révolte des Hereros est vécue comme un déshonneur à Berlin et l’empereur envoie un corps expéditionnaire avec pour objectif de les éradiquer. Son commandant annonce en effet qu’il va « annihiler » la nation herero, récompensant la capture des « chefs », mais n’épargnant « ni les femmes ni les enfants ». Si l’extermination n’est techniquement pas possible, ajoute-t-il, il faudra forcer les Hereros à quitter le pays, et « ce n’est qu’une fois ce nettoyage accompli que quelque chose de nouveau pourra émerger ».

      Dans les mois qui suivent, nombre de Hereros sans armes sont capturés et exécutés par les militaires, mais la plupart sont repoussés dans le désert où ils meurent de déshydratation et d’inanition, les puits ayant été empoisonnés. Selon l’état-major militaire, « le blocus impitoyable des zones désertiques paracheva l’œuvre d’élimination ». On estime que seuls 15 000 des 80 000 Hereros ont survécu. Ils sont mis au travail forcé dans des « camps de concentration » où beaucoup perdent la vie.

      Le massacre des Hereros, qualifié par les Allemands de « guerre raciale » est le premier génocide du XXe siècle, considéré par certains historiens comme la matrice de la Shoah quatre décennies plus tard. Dans Les Origines du totalitarisme, la philosophe Hannah Arendt elle-même a établi un lien entre l’entreprise coloniale et les pratiques génocidaires.

      Comparaison n’est pas raison, mais il y a de préoccupantes similitudes entre ce qui s’est joué dans le Sud-Ouest africain et ce qui se joue aujourd’hui à Gaza. Des décennies d’une colonisation qui réduit les territoires palestiniens à une multiplicité d’enclaves toujours plus petites où les habitants sont agressés, les champs d’olivier détruits, les déplacements restreints, les humiliations quotidiennes.

      Une déshumanisation qui conduisait il y a dix ans le futur ministre adjoint à la Défense à dire que les Palestiniens sont « comme des animaux ». Une négation de leur existence même par le ministre des Finances pour qui « il n’y a pas de Palestiniens car il n’y a pas de peuple palestinien », comme il l’affirmait au début de l’année. Un droit de tuer les Palestiniens qui, pour l’actuel ministre de la Sécurité nationale, fait du colon qui a assassiné vingt-neuf d’entre eux priant au tombeau des Patriarches à Hébron un héros. Le projet, pour certains, d’un « grand Israël », dont l’ancien président est lui-même partisan.

      Pendant les six premiers jours de l’intervention israélienne, 6 000 bombes ont été lâchées sur Gaza, presque autant que les États-Unis et ses alliés en ont utilisé en Afghanistan en une année entière

      Dans ce contexte, les attaques palestiniennes contre des Israéliens se sont produites au fil des ans, culminant dans l’incursion meurtrière du Hamas en territoire israélien le 7 octobre faisant 1 400 victimes civiles et militaires et aboutissant à la capture de plus de 200 otages, ce que le représentant permanent d’Israël aux Nations unies a qualifié de « crime de guerre ». La réponse du gouvernement, accusé de n’avoir pas su prévenir l’agression, s’est voulue à la mesure du traumatisme provoqué dans le pays. L’objectif est « l’annihilation du Hamas ».

      Pendant les trois premières semaines de la guerre à Gaza, les représailles ont pris deux formes. D’une part, infrastructures civiles et populations civiles ont fait l’objet d’un bombardement massif, causant 7 703 morts, dont 3 595 enfants, 1 863 femmes et 397 personnes âgées, et endommageant 183 000 unités résidentielles et 221 écoles, à la date du 28 octobre. Pendant les six premiers jours de l’intervention israélienne, 6 000 bombes ont été lâchées sur Gaza, presque autant que les États-Unis et ses alliés en ont utilisé en Afghanistan en une année entière, au plus fort de l’invasion du pays.

      Pour les plus de 20 000 blessés, dont un tiers d’enfants, ce sont des mutilations, des brûlures, des handicaps avec lesquels il leur faudra vivre. Et pour tous les survivants, ce sont les traumatismes d’avoir vécu sous les bombes, assisté aux destructions des maisons, vu des corps déchiquetés, perdu des proches, une étude britannique montrant que plus de la moitié des adolescents souffrent de stress post-traumatique.

      D’autre part, un siège total a été imposé, avec blocus de l’électricité, du carburant, de la nourriture et des médicaments, tandis que la plupart des stations de pompage ne fonctionnent plus, ne permettant plus l’accès à l’eau potable, politique que le ministre de la Défense justifie en déclarant : « Nous combattons des animaux et nous agissons comme tel ». Dans ces conditions, le tiers des hôpitaux ont dû interrompre leur activité, les chirurgiens opèrent parfois sans anesthésie, les habitants boivent une eau saumâtre, les pénuries alimentaires se font sentir, avec un risque important de décès des personnes les plus vulnérables, à commencer par les enfants.

      Dans le même temps, en Cisjordanie, plus d’une centaine de Palestiniens ont été tués par des colons et des militaires, tandis que plus de 500 éleveurs bédouins ont été chassés de leurs terres et de leur maison, « nettoyage ethnique » que dénoncent des associations de droits humains israéliennes. Croire que cette répression féroce permettra de garantir la sécurité à laquelle les Israéliens ont droit est une illusion dont les 75 dernières années ont fait la preuve.

      L’annihilation du Hamas, que la plupart des experts jugent irréaliste, se traduit de fait par un massacre des civils gazaouis, ce que la Première ministre française appelle une « catastrophe humanitaire », mais dans lequel un nombre croissant d’organisations et d’analystes voient le spectre d’un génocide.

      L’organisation états-unienne Jewish Voice for Peace implore « toutes les personnes de conscience d’arrêter le génocide imminent des Palestiniens ». Une déclaration signée par 880 universitaires du monde entier « alerte sur un potentiel génocide à Gaza ». Neuf Rapporteurs spéciaux des Nations unies en charge des droits humains, des personnes déplacées, de la lutte contre le racisme et les discriminations, l’accès à l’eau et à la nourriture parlent d’un « risque de génocide du peuple palestinien ». Pour la Directrice régionale de l’Unicef pour le Moyen Orient et l’Afrique du nord, « la situation dans la bande de Gaza entache de plus en plus notre conscience collective ». Quant au Secrétaire général des Nations unies, il affirme : « Nous sommes à un moment de vérité. L’histoire nous jugera ».

      Alors que la plupart des gouvernements occidentaux continuent de dire « le droit d’Israël à se défendre » sans y mettre de réserves autres que rhétoriques et sans même imaginer un droit semblable pour les Palestiniens, il y a en effet une responsabilité historique à prévenir ce qui pourrait devenir le premier génocide du XXIe siècle. Si celui des Hereros s’était produit dans le silence du désert du Kalahari, la tragédie de Gaza se déroule sous les yeux du monde entier.

      https://aoc.media/opinion/2023/10/31/le-spectre-dun-genocide-a-gaza

    • Cette réponse sur AOC est d’une mauvaise foi affligeante. Ils se piquent de faire du droit international, et ne se rendent pas compte que leurs conclusions vont à l’encontre de ce qui est déclamé par les instances multilatérales internationales depuis des dizaines d’années.

      Personnellement, les fachos qui s’ignorent et qui prennent leur plume pour te faire comprendre que tu n’es pas assez adulte pour comprendre la complexité du monde, ils commencent à me chauffer les oreilles. La tolérance c’est bien, mais le déni c’est pire. Et là, cette forme de déni, elle est factuelle. Elle n’est pas capillotractée comme lorsqu’on étudie les différentes formes d’un mot pour en déduire un supposé racisme pervers et masqué.

    • La réponse dans AOC mais fait vraiment penser à la sailli de Macron sur les violences policières : « dans un État de droit il est inadmissible de parler de violences policières » : autrement dit ce ne sont pas les violences elles-mêmes, concrète, prouvées, qui sont à condamner, mais c’est le fait d’en parler, de mettre des mots pour les décrire.

      Là c’est pareil, l’État israélien fait littéralement ces actions là : tuerie de masse par bombes sur civils, destruction des moyens de subsistance en brulant les champs (d’oliviers et autres), et en coupant tout accès à l’eau (base de la vie quand on est pas mort sous les bombes) ; ce qui correspond bien factuellement au même genre de stratégie militaire d’annihilation des Héréros par les allemands. Mais ce qui est à condamner c’est le fait de le décrire parce que ça serait antisémite, et non pas les actions elles-mêmes.

      Parce que l’accusation d’empoisonnement est un classique de l’antisémitisme depuis le moyen âge, alors si concrètement une armée et des colons de culture juive bloquent l’accès à la subsistance terre et eau, ça n’existe pas et il ne faut pas en parler.

      (Et c’est le même principe que de s’interdire de dire que le Hamas est un mouvement d’extrême droite, avec une politique autoritaire et ultra réactionnaire, et qu’ils promeuvent des crimes de guerre, parce qu’ils se battent contre l’État qui les colonise. Il fut un temps où beaucoup de mouvements de libération, de lutte contre le colonialisme et ou les impérialismes, faisaient attention aux vies civiles, comme le rappelait Joseph Andras il me semble.)

      #campisme clairement ("mon camp", « notre camp », ne peut pas faire ça, puisque c’est les méchants qui nous accusaient faussement de faire ça…)

  • #Gaza : le #droit_international comme seule boussole

    Le 7 octobre, le #Hamas a lancé une attaque sans précédent sur le sud d’Israël, semant la terreur et perpétrant de nombreux #crimes_de_guerre contre des #civils israéliens. En réponse à cette attaque, Israël a lancé une #opération_militaire d’une violence inédite sur la #bande_de_Gaza, alliant déplacements forcés de population et frappes indiscriminées, également constitutifs de crimes de guerre. Si rien ne peut justifier les crimes de guerre, quel que soit le camp, cette séquence s’inscrit cependant dans un contexte qu’il est indispensable de prendre en compte pour comprendre ce qu’elle représente et les conséquences dévastatrices qu’elle peut avoir.

    La bande de Gaza est, avec la Cisjordanie, l’une des deux composantes du #Territoire_palestinien_occupé. Après la Guerre des Six Jours, elle a, comme la Cisjordanie, fait l’objet d’une colonisation par Israël, avant que ce dernier ne l’évacue unilatéralement en 2005. L’année suivante, le Hamas gagnait les élections législatives à Gaza. L’UE exclut tout contact avec le Hamas compliquant la formation d’un gouvernement palestinien. S’en suit une guerre intra palestinienne entre Fatah et Hamas dans la bande de Gaza, qui se termine en 2007 par la prise de contrôle du territoire par le Hamas. Depuis cette date, un blocus est exercé par Israël sur Gaza, imposant ainsi une punition collective à 2,3 millions de Palestiniens et de Palestiniennes, à laquelle s’ajoutent depuis 2009 des bombardements réguliers et indiscriminés, qu’ils ne peuvent fuir. En conséquence de ces sévères restrictions à la liberté de mouvement des personnes et des biens, 97% de l’eau courante à Gaza est impropre à la consommation, le taux de chômage est de 47%, et 80% de la population dépend de l’aide internationale (données Oxfam).

    Ce #blocus est l’un des aspects du régime d’#apartheid qu’Israël impose à l’ensemble du peuple palestinien, c’est-à-dire un régime institutionnalisé d’#oppression et de #domination systématiques, établi dans l’intention de maintenir la #domination d’un groupe racial sur un autre, l’intention de le maintenir et qui comprend l’existence d’actes inhumains commis comme partie intégrante de ce régime, tels que l’ont récemment qualifiés de nombreux rapports Amnesty, Human Rights Watch et des Rapporteurs spéciaux de l’ONU.

    En décembre dernier, un gouvernement d’#extrême_droite a pris le pouvoir en Israël, renforçant ce régime d’apartheid et intensifiant la colonisation israélienne en Cisjordanie et à Jérusalem-Est. Au cours de l’année 2023, avant le 7 octobre, plus de 200 Palestiniens et Palestiniennes avaient déjà été tués par l’#armée_israélienne ou les colons, surtout en Cisjordanie mais aussi à Gaza. La #violence des colons a augmenté, autorisée et alimentée par le gouvernement israélien, menant à de nombreuses attaques sur des villages palestiniens. Sous les jougs conjugués d’ordres d’#expulsion et de la violence exercée par les colons, des communautés palestiniennes entières de la #zone_C ont été déplacées de force. Au sein de la société israélienne, mais aussi parmi les responsables politiques israéliens, les appels à la haine et au meurtre des Arabes palestiniens sont de plus en plus fréquents.

    Face à cette exacerbation de la violence, la communauté internationale, et l’UE en particulier, n’a réussi qu’à condamner, par des formules creuses et répétitives les multiples violations du droit international commises par Israël, sans jamais prendre de #sanctions.

    Tout cela, c’était avant le 7 octobre et l’attaque meurtrière du Hamas, qui tue plus de 1000 #victimes_civiles israéliennes et prend en #otages entre 120 et 200 personnes. Dans plusieurs lieux, des #meurtres_collectifs ont lieu, sans aucun doute constitutifs de crimes de guerre. Ces faits choquent l’opinion publique internationale et entraînent de nombreux messages de soutien à Israël de la part des responsables politiques, entre autres européens. Certains, tel le Secrétaire général de l’OTAN, Jens Stoltenberg, prennent la peine d’appeler à une réponse « proportionnée ». D’autres, comme la Présidente de la Commission européenne, se contentent d’apporter leur soutien sans faille à Israël, sans même rappeler les obligations qui lui incombent au regard du droit international.

    Depuis le début de la réponse militaire israélienne, les officiels israéliens multiplient les déclarations déshumanisant les Palestiniens, punissant collectivement la population de Gaza pour les crimes commis par le Hamas :

    Lundi 9 octobre, #Yoav_Gallant, le Ministre israélien de la Défense a déclaré : « J’ai ordonné un siège complet de la bande de Gaza. Il n’y aura pas d’électricité, pas de nourriture, pas de carburant, tout est fermé. Nous combattons des animaux humains et nous agissons en conséquence ».

    Mardi 10 octobre, le chef de la Coordination de l’administration civile dans les territoires (COGAT), le général #Ghassan_Alian a annoncé opérer un #blocus_complet sur la bande de Gaza, coupant le territoire en #électricité et en #eau, ne lui promettant que des dommages, et déclarant à l’adresse du Hamas : « Vous avez voulu l’enfer, vous aurez l’enfer ! ».

    Jeudi 12 octobre, le ministre israélien de l’Energie #Israël_Katz a déclaré : « Aucun interrupteur électrique ne sera allumé, aucune pompe à eau ne sera mise en route et aucun camion de carburant n’entrera tant que les Israéliens enlevés ne seront pas rentrés chez eux (…). Et personne ne peut nous faire la morale ».

    Vendredi 13 octobre, le gouvernement israélien a ordonné une #évacuation de toute la population du nord de la Bande de Gaza, soit 1,1 million de Palestiniens, vers le sud de la Bande de Gaza. Il s’agit d’un #déplacement_forcé de la moitié de la population de Gaza, déjà coupée d’électricité, d’eau et de carburant. Les organisations humanitaires ont tout de suite dénoncé l’impossibilité que cela puisse se passer sans conséquences catastrophiques. Depuis vendredi, plusieurs organes et responsables de l’ONU, l’UNRWA, l’OMS, le chef de l’aide humanitaire de l’ONU sont sortis de leur réserve habituelle et tirent la sonnette d’alarme. MSF multiplie également les déclarations pour dénoncer l’insoutenabilité de la situation sanitaire. Les témoignages qui nous viennent de Gaza sont glaçants : rationnement en eau des enfants, un boulanger qui ne peut plus faire de pain faute d’électricité, les cadavres qui ne trouvent plus de place dans les morgues, ou qui pourrissent sous les décombres.

    Depuis le début de l’attaque militaire israélienne contre Gaza, quelques 2778 Palestiniens sont morts, 9 938 personnes sont blessées, dans un système de santé qui s’est totalement effondré
    (données du 16 octobre).

    Pour rappel, 70% de la population de Gaza sont des #réfugiés, c’est-à-dire que leurs familles ont été chassées de leurs maisons par les Israéliens lors de la #Nakba (mot arabe qui signifie la « catastrophe » et qui désigne, pour les Palestiniens, l’exil forcé de 700 000 d’entre eux, lors de la proclamation de l’État d’Israël en 1948). Ils attendent depuis de pouvoir exercer leur #droit_au_retour, consacré par la Résolution 194 de l’Assemblée générale des Nations Unies. Même si un #corridor_humanitaire était mis en place, nombreux sont celles et ceux qui refuseraient de partir, estimant que quitter la Palestine signifierait ne jamais y revenir. C’est en effet le sort subi par tous les populations palestiniennes déplacées depuis la Nakba de 1948.
    Ce qui se risque de se passer à Gaza est qualifié par de nombreuses voix palestiniennes, dont PNGO, le réseau des ONG palestiniennes mais aussi la Rapporteuse spéciale des Nations Unies Francesca Albanese, comme du #nettoyage_ethnique, comme une nouvelle Nakba. Par ailleurs, pour les principales organisations palestiniennes de défense des droits humains (Al Haq, Al Mezan, PCHR), il devient évident « qu’Israël impose délibérément au peuple palestinien des conditions de vie susceptibles d’entraîner sa destruction physique totale ou partielle ». Ces organisations « appellent les États tiers à intervenir de toute urgence pour protéger le peuple palestinien contre le #génocide ». Ce constat rencontre celui de la Fédération internationale des droits humains (FIDH) qui qualifie l’#ordre_d’évacuation des 1,1 million de Palestiniens du nord de la bande de Gaza de « tentative de déplacement forcé et illégal de civil⋅es pouvant refléter une intention génocidaire ». Cette qualification est également appuyée par un historien spécialisé dans l’étude de l’Holocauste et du génocide, Raz Segal. Selon lui, « l’assaut contre Gaza peut également être compris en d’autres termes : comme un cas d’école de génocide se déroulant sous nos yeux ».

    Pendant ce temps, la situation en Cisjordanie et à #Jérusalem-Est se détériore aussi. Comme le fait remarquer Yehuda Shaul, le fondateur de l’ONG Breaking the Silence, et directeur du think tank israélien Ofek, « les crimes de guerre du Hamas sont l’occasion pour la droite israélienne de faire avancer son programme messianique au-delà de la réponse de l’armée israélienne à Gaza. De la reconstruction des colonies à Gaza à l’intensification de la prise de contrôle du Haram al Sharif [l’Esplanade des mosquées]-Montagne du Temple, en passant par les pogroms en Cisjordanie ». En Cisjordanie, 55 Palestiniens ont été tués par les colons et par l’armée en une semaine.

    En Israël même, la situation de la population palestinienne et de celles et ceux qui défendent leurs #droits devient très difficile. Suite à l’attaque du Hamas et les appels à la #revanche partout dans la société israélienne, les Palestiniens d’Israël (18% de la population) craignent de sortir de chez eux. Les Israéliens et Israéliennes du « camp de la paix » vivent aussi des moments compliqués, d’une part parce que de nombreuses victimes du Hamas étaient des militants et militantes pour la paix, d’autre part parce que la défense de la population civile palestinienne de Gaza et la nécessité d’une réponse israélienne mesurée n’est même plus audible dans l’opinion publique actuelle en Israël.

    "En refusant systématiquement d’obliger Israël à respecter le droit international et en laissant les violations impunies, la communauté internationale porte une responsabilité écrasante dans la situation désespérée que nous connaissons aujourd’hui."

    Face au drame qui se déroule sous nos yeux, la boussole de la Belgique et de l’Union européenne doit plus que jamais rester le droit international et la protection de la vie, de la dignité et des droits humains. Pour l’UE et la Belgique, la priorité doit aujourd’hui être de mettre tout en œuvre pour obtenir un cessez-le-feu, la protection de toutes les populations civiles, et un accès à l’aide internationale pour la population gazaouie actuellement en urgence humanitaire absolue. Elles doivent également appeler à la libération de tous celles et ceux qui ont été illégalement privés de leur liberté, les otages retenus par le Hamas, comme les prisonniers politiques palestiniens arrêtés dans le cadre de la répression de la résistance à l’occupation. L’UE et la Belgique doivent en outre exiger d’Israël la levée du siège de la bande de Gaza, et cela dans une perspective de levée du blocus et d’une reconnexion du territoire avec le reste du territoire palestinien occupé. Elles doivent également s’attaquer aux causes structurelles du présent conflit en adoptant des mesures contraignantes contre Israël afin qu’il mette fin à l’occupation, à la colonisation et à l’apartheid contre le peuple palestinien, à commencer par la fin du commerce avec les colonies israéliennes. Enfin, la Belgique, pionnière historique de la lutte contre l’impunité en matière de crimes de guerre, doit apporter un soutien politique et financier à l’enquête en cours à la Cour pénale internationale sur la situation en Palestine et encourager le procureur de la Cour pénale à en faire une priorité afin que tous les criminels de guerre soient rapidement tenus responsables.

    https://www.cncd.be/gaza-le-droit-international-comme-seule-boussole
    #à_lire #Israël #Palestine #7_octobre_2023 #histoire

  • Imperialist Domination Produces War, Death, and Destruction
    https://the-spark.net

    Another barbaric war broke out in the #Middle_East, this time engulfing #Israel and #Gaza. The U.S. government and news media blame the Palestinian group, Hamas, for setting off this war.

    Yes, #Hamas fighters carried out a murderous rampage, killing over a thousand Israelis and wounding thousands more. This is blind violence, and it has to be condemned. But the U.S. is in no position to condemn this violence. Its hands are not clean.

    The Israeli military’s response to this rampage explains how we got here. For the Israeli military launched a war against the entire Gaza population of more than two million people, half of whom are children. The Israeli government cut off all water, electricity, gas, food, and medical supplies to the #Gaza_Strip, condemning countless people to sickness, starvation, and death. Warplanes have been dropping thousands of bombs every day on Gaza, killing thousands and turning entire neighborhoods into rubble. And while the Israeli army masses a heavily equipped army of 300,000 troops along the border, it has ordered all Palestinians living in the north of Gaza to move to the south, provoking a mass panic, exodus and certainly more death.

    Gaza is a tiny territory, half the size of Chicago. It is one of the most densely populated areas of land on Earth. Most people are refugees, who fled other wars and conflicts. They are extremely poor. And they are already trapped, completely surrounded by troops, guards, fences, walls, and war ships. Gaza is an open-air prison that has been periodically bombed and invaded in war after war.

    The Israeli military now proposes to invade—this means urban warfare, soldiers fighting street to street, house to house, and much more death and destruction. And what will that produce? Ethnic cleansing? This will bring more wars, endless wars. What it will not bring is more protection or security for the various peoples—obviously not the Palestinians, but certainly not the Israelis either.

    Israel, the U.S., and the rest of the big powers denounce Hamas for terrorism. But what these big powers carry out against the Palestinian population is unspeakable terror and violence from one of the biggest, most advanced, and heavily equipped militaries in the world.

    Biden, the U.S. government, and the U.S. military say their support of Israel is the support of the Jewish people. That is a lie. The U.S. supports the state of Israel for one reason: the Israeli state is U.S. imperialism’s cop in the Middle East, a region rich in oil resources, which means tremendous profits and wealth for U.S. oil companies, financiers, military contractors, the capitalist class as a whole.

    In order to safeguard those profits and wealth, the U.S. and the other big powers have divided the different peoples and ethnic groups of the region against each other. Divide and rule is how the U.S. and the other imperialist powers have always imposed their domination. Those divisions have produced nationalist and religious fundamentalism, and many, many wars: Lebanon, Iraq, Syria, Yemen, and all the wars between Israel and the #Palestinians. For the #Israeli_population, that means being on the front line, kill or be killed, over and over again.

    All the peoples of the Middle East could live together in peace, despite all their differences, ethnic or religious. That can only be brought about when the working class and poor of all the different countries in the Middle East rise up and overthrow their own rotten rulers, religious fanatics and parasites who oppress and divide them. This will allow them to get rid of the system that is causing the worsening cycle of wars and ethnic conflicts: capitalism and imperialism. And in so doing they will help the mighty working classes in the big imperialist countries to do the same.

    Peace is possible only when the working class takes power from that tiny capitalist minority that runs society today, in order to run society in the interests of the majority.

    #imperialism

  • Eva Illouz, sociologue : « Je crois qu’après les attaques terroristes, pour la société israélienne, le Hamas est devenu le nazi »

    L’universitaire franco-israélienne explique, dans un entretien au « Monde » que l’attaque terroriste du 7 octobre engage les deux camps dans une « guerre totale » et va changer irrémédiablement la perception des Palestiniens par les Israéliens.

    Eva Illouz, sociologue, est directrice d’études à l’Ecole des hautes études en sciences sociales à Paris. Elle a enseigné à l’université hébraïque de Jérusalem, à Princeton et à Zurich. Elle a notamment écrit Les Emotions contre la démocratie° (Premier Parallèle, 2022). Elle a pris position contre le gouvernement de Benyamin Nétanyahou et avait signé, en août, une pétition dénonçant « un régime d’apartheid »_ pour les Palestiniens. https://sites.google.com/view/israel-elephant-in-the-room/home

    [Luc Bronner...] Comment qualifier ce qui arrive à la société israélienne après l’attaque du Hamas, les 1 400 morts, les milliers de blessés et les otages ?

    On a du mal à trouver les catégories pour qualifier cet événement inédit. Des attaques terroristes de cette ampleur, il n’y en a jamais eu, dans aucun pays. Il y a des massacres, bien sûr, mais pas un attentat terroriste dont le nombre de victimes est, proportionnellement à la population, beaucoup plus grand que celui du 11-Septembre, ou qui serait l’équivalent de 10 000 personnes en France massacrées en quelques heures.

    J’oserais ajouter qu’il y a eu là des déclinaisons inédites de l’horreur : se réveiller un jour de fête au bruit de mitraillettes avec un ennemi infiltré chez soi, le faible devient le fort, le fort devient le faible, l’armée qu’on attend et qui ne vient pas, les terroristes qui tuent des bébés, décapitent, tuent les enfants en face de leurs parents, et les parents en face des enfants, kidnappent vieillards, enfants, hommes, femmes, l’enregistrement et la diffusion des massacres sur les réseaux sociaux, tout cela n’a aucun précédent. Il y a eu là une démultiplication des techniques de l’horreur.

    Cela va rester le plus grand choc de l’histoire juive post-Shoah. C’est toute la réalité ontologique d’Israël qui a été remise en question. Les nazis essayaient de cacher les atrocités, pas de les diffuser. La mort elle-même est devenue un motif de propagande. Il y a là un changement de régime de l’atrocité.

    C’est la raison pour laquelle la guerre est devenue totale et existentielle. Israël apparaît comme fort, mais cette force est sous-tendue par une peur existentielle qui s’est radicalisée. Pour un Israélien, la possibilité du génocide ne semble jamais très loin. Il y a aussi une confusion terminologique inédite, puisque les « indigénistes décoloniaux » en France et sur les campus américains ont emprunté le vocabulaire de la résistance pour qualifier un crime contre l’humanité.

    La société israélienne est une société fracturée, comme l’avaient montré les manifestations massives de ces derniers mois contre les réformes du gouvernement Nétanyahou. Quelles peuvent être les répercussions sur le plan politique ?

    L’horreur et la peur sont d’une telle ampleur que la société entière est soudée autour d’un objectif : redonner un sentiment de sécurité aux citoyens. En 1973, la guerre du Kippour avait aussi été vécue comme un choc, mais il y avait eu 2 800 morts, et parmi eux 0 civil tué. Dans la situation présente, la division entre civils et militaires s’est effacée ; c’est non seulement ce qui caractérise le terrorisme mais aussi parce que des Etats, comme l’Iran, agissent comme des organisations terroristes.

    Cela veut dire aussi que les civils israéliens qui n’ont jamais porté d’arme sont en train de s’armer parce que la #guerre peut surgir à tout moment dans leur cuisine. Il y a une forte militarisation de la société civile. Quand la sécurité sera retrouvée, il va y avoir des règlements de comptes avec le gouvernement d’extrême droite, qui, par sa négligence de tous les avertissements sécuritaires qu’on lui a donnés, a agi de façon criminelle.

    Mais je crois aussi que toutes les positions politiques vont subir des révisions dramatiques. C’est vrai pour la gauche et c’est vrai pour la droite. Le fait que la gauche postcolonialiste mondiale a refusé de condamner les massacres aura des répercussions sur la gauche israélienne. Après l’Intifada de l’an 2000, qui avait fait 1 000 morts israéliens, la gauche s’était effondrée parce qu’un grand nombre de gens étaient arrivés à la conclusion que les Palestiniens ne voulaient pas la paix. Cela va être plus dramatique aujourd’hui. Ce qui va disparaître notamment, c’est l’idée d’un Etat binational pour les deux populations qui était devenue en vogue cette dernière décennie.

    C’est vrai aussi pour la droite, qui nous a menés dans ce désastre à cause de la doctrine sécuritaire qu’elle a défendue : l’idée qu’on pouvait gérer, de façon indéfinie, les relations avec les Palestiniens comme un conflit militaire de basse intensité est un échec.

    Benyamin Nétanyahou et ses alliés ont voulu utiliser le #Hamas contre l’Autorité palestinienne pour rendre impossible la création de deux Etats ; ils n’ont pas voulu voir que le blocus de #Gaza allait créer une situation explosive et ont laissé penser que le Hamas était des gens minables qu’on contrôlait facilement par l’argent du Qatar. Mais la plus grande erreur a été de ne pas avoir vu que le Hamas est un mouvement idéologique, millénariste et génocidaire et qu’on n’achète pas le calme avec un tel mouvement dont l’objectif est de vous éliminer.

    La mise en place d’un cabinet d’union nationale peut-elle avoir des effets durables ?

    Les Israéliens ont eu le sentiment d’avoir été abandonnés par l’Etat, qui a été spectaculairement dysfonctionnel. On savait que le gouvernement était composé de gens cyniques, calculateurs, fanatiques et incompétents, on en a la preuve éclatante.

    La fonction essentielle d’un gouvernement d’union est de calmer les Israéliens sur le fait qu’on n’a pas donné la boîte d’allumettes à des pyromanes. Mais quand le retour à la sécurité va se faire, il est possible que le pays se divise encore plus profondément qu’avant la guerre. La droite accuse déjà les protestataires d’avoir été des traîtres et d’avoir permis ce désastre alors que le camp démocratique a, bien évidemment, tous les droits de penser que ce sont les réformes judiciaires et la négligence du gouvernement qui sont responsables de la situation.

    Israël est traumatisé par les otages enlevés par le Hamas et retenus à Gaza. Des voix peuvent-elles s’élever en Israël pour s’alarmer d’un usage disproportionné de la force à Gaza ?

    L’opération « Bordure protectrice », à Gaza en 2014, n’avait pas été conduite dans une situation aussi dramatique et répondait principalement à l’enlèvement et au meurtre de trois jeunes Israéliens et à de nombreux tirs de roquettes. Il avait pourtant été fait un usage excessif de la force. La plupart des Israéliens ne l’avait pas remis en question, seule une petite minorité, moins de 20 %, s’y était opposée. Moi-même je m’y étais opposée publiquement.

    Dans les circonstances actuelles, la proportion sera beaucoup plus faible. Mais il faut comprendre deux choses. La première, c’est que le Hamas se sert de sa population civile comme bouclier. Lorsque Tsahal a fait l’annonce que les #Palestiniens devaient évacuer le Nord pour aller dans le Sud, le Hamas a fait une contre-déclaration en disant qu’il s’agissait d’une « fake news »[?]. Tout le monde s’est concentré sur le désastre que l’annonce israélienne représentait pour les civils palestiniens – à juste titre, car il s’agit d’un désastre humanitaire à grande échelle –, mais presque personne n’a trouvé monstrueux que le Hamas puisse mentir à sa population pour la garder près de lui comme bouclier. On ne s’est pas non plus beaucoup ému du refus total de l’Egypte d’accueillir les Palestiniens.

    Deuxièmement, beaucoup d’Israéliens pensent que les civils palestiniens et leurs dirigeants ont en commun leur haine radicale des juifs. D’autant plus que les #images de corps ensanglantés de jeunes filles israéliennes exhibés dans les rues de Gaza au milieu d’une foule excitée apparaissent incriminantes pour les civils. Face à ces images, il devient difficile de faire la distinction entre le peuple de Gaza et ses leaders. On voit une population faire bloc avec le Hamas dans la haine des Israéliens et des juifs. La perception que les Israéliens ont des Palestiniens de Gaza est très différente de celle qu’ils ont des Iraniens, là il est beaucoup plus facile de distinguer entre le régime des ayatollahs et une population civile en insurrection. Avec le Hamas, la distinction s’estompe.

    Mais je voudrais aussi ajouter que cette notion de proportionnalité quand il s’agit d’un événement humain aussi violent que la guerre me laisse perplexe. Qu’est-ce que c’est la proportionnalité ? Décapiter, violer, torturer 1 500 Palestiniens contre les 1 500 juifs qui sont morts dans des conditions similaires ? Comment créer une commensurabilité des massacres ? Parce que #Israël vit constamment dans un état de guerre et de conflit, il a développé une doctrine militaire exigeant que l’ennemi paye un prix plus fort, pour le dissuader de recommencer.

    Cette guerre est différente : il s’agit d’un ennemi qui veut oblitérer Israël et sa population. Il s’agit d’une #guerre_totale. Les Israéliens pensent à cette guerre dans les termes suivants : ce sera nous ou eux. Lorsqu’un camp déclare officiellement que son but est de vous effacer de la surface de la Terre, il devient difficile de penser à la proportionnalité.

    J’ajouterais cependant que le but de Tsahal est d’éradiquer le Hamas et le Hamas seulement. Est-ce qu’ils y parviendront sans toucher massivement les civils ? Sans doute pas, et je le regrette profondément.

    La nature de la guerre va-t-elle évoluer ?

    Ce qui était perçu comme un conflit militaire ou colonial vieux de plus d’un siècle est désormais interprété à travers la grille de l’antisémitisme . Il y a un basculement du politique au racial et au religieux. Pour la société israélienne, l’antisémitisme génocidaire qui habitait sur les terres de l’Europe a migré vers l’#islamisme. Jusqu’à présent, les Palestiniens, aux yeux des Israéliens, n’étaient pas les nazis. Je crois qu’après les attaques terroristes cela a changé : le Hamas est devenu le nazi. Il y a un risque que, par effet de contamination, les Israéliens voient l’ensemble des Palestiniens de Gaza de la même façon. Est-ce que l’Europe aurait fait un compromis avec les nazis ? Churchill a décidé de bombarder Dresde, alors que l’Allemagne avait déjà perdu. Je ne dis pas que le Hamas est nazi. J’ai conscience des différences historiques et idéologiques. Mais c’est comme cela que, désormais, il est vu.

    Ce qui complique considérablement ces questions, c’est que ce sont les mêmes Palestiniens qui ont aussi été victimes d’un déplacement de population, du blocus, de la misère, qui est le résultat de l’asphyxie israélienne et de la corruption du Hamas.

    Nous avons un objet conceptuel et moral à deux faces : d’un côté il y a une victime, mais de l’autre cette victime s’identifie à un groupe à visée génocidaire. Il faut développer un regard humain et fraternel qui puisse voir toutes ces tragédies en même temps. Mais, aujourd’hui, il faut choisir son camp.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/10/17/eva-illouz-sociologue-je-crois-qu-apres-les-attaques-terroristes-pour-la-soc

    • Des attaques terroristes de cette ampleur, il n’y en a jamais eu, dans aucun pays.

      Il y a eu là une démultiplication des techniques de l’horreur.

      Que fait-on de Sabra et Chatila sous la surveillance des criminels de l’état sioniste ?

    • #damage_control #justification_de_génocide

      Ça fait tellement penser aux blancs justifiant les représailles contre les indiens, en Amérique du nord. Ça fait penser aux mauvais westerns, où les gentils blancs sont horrifiés par les scalpages commis par les indiens, parce qu’un convoi de colons s’est installé sur les terres des indiens, non sans avoir tué un ou deux membres de la tribu qui s’approchaient trop.

      « Vous comprenez, nous, on veut juste vivre paisiblement. Ok, parfois, il y a un accident malheureux. Mais bon, tout de même, là, ils nous en veulent en tant que blanc, c’est grave. C’est eux ou nous. Force doit rester à la loi (des blancs) ».

    • Réponse à Éva Illouz à propos d’une interview donnée dans le journal Le Monde, Ron Naiweld
      https://lundi.am/Reponse-a-Eva-Illouz

      Je suis né en Israël et y ai grandi, et je travaille comme historien du Judaïsme au CNRS et à l’EHESS, où Eva Ilouz est directrice d’études. Une réponse est nécessaire non seulement pour corriger des erreurs factuelles, mais aussi pour proposer quelque chose qu’elle ne propose pas – une vision de la réalité d’où pourrait surgir l’espérance face au conflit mortifère.

      [...]
      En fait, la nazification symbolique des Palestiniens est à la base de leur déshumanisation par beaucoup d’Israéliens.
      En faisant preuve de leur déshumanisation, les terroristes du 7 octobre sont tombés dans une place qui leur était déjà prête. Ce n’est pas pour relativiser leurs actes que je rappelle que des atrocités ont été commis aussi par des Israéliens pendant et après la Nakba – des massacres, des viols, des expulsions, des vols de terre, qui sont aujourd’hui documentés grâce à l’effort de chercheurs courageux en Israël. Ces violences sont inscrites dans des corps des humains qu’Eva Ilouz est prête à sacrifier pour la « sécurité » d’Israël et des Israéliens, comme l’indique ce passage dans lequel on croit entendre une porte-parole de l’armée israélienne – « J’ajouterais cependant que le but de Tsahal est d’éradiquer le Hamas et le Hamas seulement. Est-ce qu’ils y parviendront sans toucher massivement les civils ? Sans doute pas, et je le regrette profondément. »

    • D’une prédilection dune partie de la gauche française pour l’abjection - Digression à partir du texte de Judith Butler « Condamner la violence »
      https://lundi.am/D-une-predilection-d-une-partie-de-la-gauche-francaise-pour-l-abjection

      Il me revient ainsi que Sartre a pu, par exemple, justifier la prise d’otage du commando de Munich, ou encore, que Foucault a soutenu la révolution islamiste iranienne au moment même où celle-ci jetait en prison et torturait les révolutionnaires communistes. À ce goût pour l’abject, s’ajoute le fait que, manifestement, sur les sujets qui touchent au conflit israélo-palestinien, le #tiers-mondisme des années 70, et son antisémitisme plus ou moins larvé, n’a pas été assez critiqué.

      Le texte de Butler a donc l’immense mérite d’avoir une position morale très claire et très saine. Car, en effet, d’un point de vue moral, il n’y a aucune raison de discriminer entre les morts, les torturés, et les mutilés de l’un ou l’autre camp. Il est, en effet, totalement sophistique, et du plus pur cynisme, de lier et de réviser ceux-ci à la lumière d’une lecture purement politique – ou plutôt purement idéologique - , laquelle justifierait de juger qu’il y a des bonnes et des mauvaises victimes. Pour le dire autrement, les actes commis par le Hamas contre des civils, parfois des enfants, n’ont rien d’actes de #résistance, ce que l’histoire des résistances – parmi lesquelles celles de la résistance française - montre suffisamment bien. De même, la #guerre que mène Israël contre des civils, parfois des enfants, n’a rien de représailles justifiées.

      Toutefois, je pense qu’il y a une limite à la position de Butler et que celle-ci est politique. Tout d’abord, Butler semble conditionner la légitimité d’un #État au fait que celui-ci ne se serait pas fondé sur la violence. Cette prémisse sous-jacente me convient assez bien, car elle implique, en toute rigueur, que l’on s’oppose à tous les États, car je n’en connais aucun qui ne se soit pas fondé sur la violence . Il faudrait donc s’opposer à la fois à l’État israélien et au projet d’État palestinien et à tous les autres. Ce que ne fait pas, me semble-t-il, Butler.

      On peut penser que cela s’explique notamment parce que cette prémisse est, en fait, solidaire d’une autre, que je conteste : que l’État d’Israël serait fondamentalement le résultat d’un projet colonialiste. À nouveau, soit on le dit de tous les autres États, soit il faut repenser l’histoire politique du peuple juif et celle de la région où il a fondé son État. Je ne vois pas comment la première perspective pourrait ignorer que ce peuple, comme beaucoup d’autres, notamment les palestiniens, a droit à un État. Et je ne vois pas comment ne pas considérer, au regard de l’histoire de la région, que cet État puisse être ailleurs – et non dans quelques chimériques autant que bureaucratiques Birobidian... - parce qu’il y a toujours eu une présence juive dans cette région. Ce qu’on ne peut pas dire des français en Algérie ou en Indochine avant qu’ils ne s’accaparent ces territoires par exemple, ou des européens sur le continent américain. Dire de l’État d’Israël qu’il est intrinsèquement colonisateur et raciste, voilà l’erreur héritée du tiers-mondisme, qui biaise à mon avis les jugements que l’on peut porter sur cette situation. Car, une fois que l’on a dit cela, la seule perspective cohérente, est celle de la destruction de cet État. Mais alors, pourquoi pas de tous les autres États ?

      [...]

      Beaucoup de choses dépendent de ce raisonnement puisque, tant que cet État ne sera pas reconnu comme légitime par ses voisins immédiats et par les organisations telles que le Hamas, il n’aura aucune raison de cesser de faire la guerre. Et, pour ainsi dire, mécaniquement, il tendra infinitésimalement à faire de la rationalité guerrière, sa rationalité. Ce que personne de bon sens ne peut souhaiter, quelque soit l’État dont il est question. Je dis infinitésimalement parce que, tant que cet État est bien celui de tous les israéliens, dont les arabes israéliens, il ne pourra qu’approcher infinitésimalement d’une telle extrémité, c’est-à-dire qu’il s’en rapprochera très nettement comme cela est actuellement le cas, mais qu’il rencontrera, malgré cela, des #oppositions_internes – une résistance au sens exact du terme -, ce qui, encore une fois, est effectivement et actuellement le cas en Israël. Lorsque cette tendance ne sera plus infinitésimale, mais tout simplement totale, alors j’accepterai d’envisager la destruction de l’État d’Israël, et de tous les autres États et organisations – comme le Hamas - qui ne tolèrent aucune forme de résistance.

  • Conflit israélo-palestinien : le piège des mots dans un contexte passionnel

    Comment parler du conflit israélo-palestinien dans le contexte si passionnel engendré par les attaques du Hamas du 7 octobre 2023 sur les populations civiles israéliennes ? Les mots ont tant de poids que la meilleure boussole reste le droit international.

    Les mots pèsent extrêmement lourds à l’aune de la tragique actualité israélo-palestinienne. Un mot de trop, ou un mot de moins, et vous voilà accusé d’être partie prenante d’un côté, ou de l’autre. Comment appréhender ce lexique, cette sémantique si inflammable, si potentiellement connotée, qu’elle neutralise la parole, et paralyse les émotions ? Surtout dans ce contexte d’atrocités commises par le Hamas sur les civils israéliens (plus de 1 200 morts, selon le porte-parole de l’armée israélienne ce 13 octobre, dont au moins 13 Français, a annoncé Emmanuel Macron ce jeudi lors de son allocution télévisée), et de bombardements massifs par l’État israélien des zones peuplées de civils à Gaza en représailles (avec 1 537 personnes mortes, selon le dernier bilan des autorités locales publié vendredi). Sans oublier que plus de 423 000 personnes ont été contraintes de fuir leurs domiciles dans la bande de Gaza selon l’ONU, et que l’armée israélienne a ordonné ce vendredi matin l’évacuation vers le Sud de plus d’un million d’habitants du nord de la bande de Gaza. Il est maintenant l’"heure de la guerre", a déclaré le chef de l’armée israélienne.
    Qu’est-ce que le Hamas ?

    La présidente du groupe LFI à l’Assemblée, Mathilde Panot, qui a refusé de qualifier le Hamas de "groupe terroriste" à l’Assemblée, s’est attirée les foudres du gouvernement, comme de ses partenaires de gauche : les députés socialistes se sont désolidarisés de la préparation d’un contre-budget de la Nupes. Au Royaume-Uni, la BBC essuie elle aussi une pluie de critiques suite à son choix de ne pas utiliser le mot "terroriste" pour qualifier le Hamas. “‘Terrorisme’ est un mot lourd de sens, que les gens utilisent à propos d’un groupe qu’ils désapprouvent sur le plan moral. Ce n’est tout simplement pas le travail de la BBC de dire aux gens qui soutenir et qui condamner, qui sont les gentils et les méchants”, a argumenté John Simpson, chef de la rubrique internationale, le 11 octobre.

    Qu’est-ce que le Hamas ? Son nom est l’acronyme arabe de "Mouvement de la résistance islamique". Spécialiste du monde arabe et professeur au Collège de France, l’historien Henry Laurens souligne la parenté de ce mouvement, apparu en 1988, avec le Hezbollah, qui utilise aussi le terme de "résistance islamique" : "Il est d’abord née dans l’expérience libanaise, et ensuite dans l’expérience palestinienne. C’est un mouvement nationaliste, il ne se bat pas et ne commet pas d’attentats à l’extérieur de la frontière. D’autre part, il a une idéologie sunnite, c’est un rejeton des Frères musulmans qui a pris cette forme-là lors de la première Intifada."

    Effectivement, comme l’explique le spécialiste du droit international François Dubuisson, enseignant-chercheur à l’Université libre de Bruxelles (ULB), cette doctrine fondée sur la charia distingue le Hamas du mouvement laïc du Fatah, fondé en 1959 par Yasser Arafat notamment, qui s’inscrivait plutôt dans le panarabisme et la gauche anti-impérialiste : "Le Hamas est un mouvement qui a assez rapidement mis au centre de ses actions à la fois la lutte armée et les actions terroristes à partir du milieu des années 1990, en particulier pour lutter contre le processus d’Oslo qu’il récusait totalement." Pour donner au conflit colonial le visage d’une guerre de religion et "contrecarrer la création d’un état palestinien", Benyamin Nétanyahou aurait favorisé le Hamas au détriment du Fatah, comme l’explique la journaliste Lahav Harkov dans un article de mars 2019 du Jerusalem Post cité par Libération. Un article rendant compte d’une réunion entre Netanyahu et des parlementaires de son parti : "le Premier ministre, Benyamin Nétanyahou, a défendu le fait qu’Israël autorise régulièrement le transfert de fonds qataris vers Gaza, en affirmant que cela fait partie d’une stratégie plus large visant à maintenir la séparation entre le Hamas et l’Autorité palestinienne."

    a qualification de "terroriste", inopérante à l’aune du droit international ?

    Comme Israël, les États-Unis et il y a deux ans le Royaume-Uni, l’Union européenne a listé le Hamas comme "organisation terroriste". Une qualification qui, pour le juriste François Dubuisson, relève plutôt d’une stratégie de politique étrangère, dissociée de la définition juridique du terrorisme développée par l’Union européenne : "Cela permet par exemple d’adopter des mesures restrictives. On va identifier un certain nombre de personnes qu’on va interdire de séjour par exemple. On va éventuellement geler des fonds financiers. C’est sur cette base-là qu’on a suspendu à un moment donné le financement de l’Autorité palestinienne dès le moment où c’était le Hamas qui avait gagné les élections. Cette qualification "terroriste" est donc plutôt un outil politique. En tout cas, sur un plan plus sociologique, le mouvement Hamas est également un mouvement national palestinien, un mouvement politique, social, donc c’est difficile de le réduire uniquement à cette dimension terroriste."

    Pour l’historien Henry Laurens non plus, le mot "terrorisme" n’est pas vraiment signifiant à l’aune de la science politique : "Le terrorisme est plutôt une méthode qu’une essence, et puis, pratiquement, dès qu’il y a la moindre opposition, on la définit comme "terroriste". Le régime de Bachar al-Assad lutte contre les terroristes, le régime d’Abdel Fattah al-Sissi lutte contre les terroristes, etc. Il y a une phrase célèbre du général de Gaulle, dans sa conférence de novembre 1967, qui dit, de mémoire : ’Toute occupation suscite une résistance que les autres ensuite appellent terrorisme’."

    On se souviendra aussi après les accords d’Oslo du prix Nobel de la paix attribué en 1994 à Yasser Arafat, avec Yitzhak Rabin et Shimon Peres ; quand le dirigeant du Fatah et de l’OLP avait pour beaucoup d’abord été considéré comme un terroriste.

    Henry Laurens, qui a publié en 2010 une analyse à la fois historique et juridique de la notion de terrorisme avec la juriste et universitaire française Mireille Delmas-Marty (Terrorisme, 2010, éditions du CNRS), pointe l’extrême difficulté, chez les juristes, à définir ce terme : "Normalement, un délit ou un crime correspond à une valeur. Le vol renvoie à la propriété, l’assassinat, à la vie. ’Terrorisme’, on ne voit pas très bien à quelle valeur cela renvoie en antagonisme... peut-être, à la rigueur, à la ’sécurité’ ou à la ’sûreté’".

    François Dubuisson confirme cette difficulté rencontrée par les juristes en droit international : "On a eu historiquement une opposition entre le camp occidental qui voulait avoir une définition assez large du terrorisme, et les pays du Sud qui voyaient les membres des mouvements de libération nationale comme des combattants de la liberté qu’on ne pouvait pas qualifier de terroristes. On a toujours eu une distorsion de ce fait-là."

    Dans ces dissensions qui existent entre les États du Sud et les Occidentaux, il y a aussi le fait que dans la définition juridique du terrorisme de l’Union européenne, un État ne puisse pas commettre des actes terroristes, quel que soit le comportement de ses forces armées, poursuit le juriste : "Il y a une sorte de légitimation par principe des actions d’un État, et plus facilement une disqualification par principe d’actes commis par des groupes armés qui peuvent être multidimensionnels. Il est évident que le Hamas a commis des actes de terrorisme et on peut qualifier les présents actes d’actes de terrorisme. Mais en même temps, le Hamas ne se résume pas à ça et pendant longtemps, il a d’ailleurs mené une politique beaucoup plus pragmatique."

    "Crimes", "crime contre l’humanité", "violations"… : pourquoi qualifier plutôt les actes ?

    Il est possible d’utiliser des périphrases très objectives pour désigner le Hamas, comme "mouvement islamiste", ou "commando", perpétrant des actes terroristes - le mot commando définissant simplement une unité militaire de petite taille qui commet des attaques, que ce soit d’une armée régulière ou d’un mouvement illégal. Mais comment alors appréhender ce mouvement dans la réalité de toute l’horreur et la barbarie des crimes perpétrés ? Pour l’historien Henry Laurens, il n’y a pas vraiment de définition appropriée du Hamas.

    En droit international, on va plutôt s’attacher à la qualification de certains actes, explique le juriste François Dubuisson : "Est-ce que les actes commis par un groupe sont des actes terroristes, ou en tout cas des actes contraires au droit international ? Il n’y a pas de convention internationale qui vise le type d’actes commis par le Hamas et qui le qualifierait spécifiquement de "terroriste". Pour cette raison, on va plutôt avoir recours aux qualifications de ’crimes de guerre’, ’violations du droit des conflits armés’. Évidemment, en s’attaquant très directement à des civils, il y a violation du droit de la guerre et éventuellement même crime contre l’humanité, qui vise, un cran plus haut, les attaques systématiques et généralisées contre une population civile."

    Interviewée par Le Monde, Françoise Bouchet-Saulnier, Conseillère stratégique en droit international humanitaire de Médecins sans Frontières (MSF), privilégie elle aussi la qualification des actes commis : "Il n’y a pas de définition des terroristes dans le droit des conflits. Mais celui-ci interdit le recours à des méthodes dont le but principal est de répandre la terreur parmi la population (…). Prendre des civils en otage est un crime, cela fait partie des infractions graves aux conventions de Genève".

    Pourquoi tant de précautions oratoires, pourquoi couper les cheveux en quatre sur la sémantique ? Non pas pour minimiser ou relativiser les inqualifiables barbaries commises par le Hamas, mais bel et bien parce que, comme le souligne Françoise Bouchet-Saulnier dans ce même article du Monde : "Qualifier l’adversaire de terroriste, cela revient à dire qu’on ne discutera pas avec lui et que la seule chose qu’il mérite est d’être tué."

    Pourquoi un tel climat d’exacerbation ?

    Le déchainement de violence sur les réseaux sociaux en témoigne : le sujet du conflit israélo-palestinien est plus que jamais à vif, inflammable, passionnel, avec deux "camps" inconciliables, comme l’analyse François Dubuisson :

    "Chacun veut apparaître comme étant l’incarnation du bien et le meilleur moyen pour dire que l’autre est le camp du mal, pour le moment, c’est le concept de terrorisme, même si cela ne rend pas compte de la complexité de la situation. Oui, on peut dire que le mouvement du Hamas est une organisation terroriste, mais cela ne donne aucune réponse aux questions que l’on peut se poser sur la solution à essayer d’apporter au conflit : qu’est-ce qu’Israël peut faire pour empêcher le Hamas de continuer à mener ses actions ? Le fait qu’il soit une organisation terroriste ou pas, ne change rien à l’application des règles. On ne peut pas viser les civils, on ne va pas pouvoir raser Gaza. C’est un objectif inatteignable à la fois sur le plan pratique, mais aussi sur le plan juridique, avec les moyens qu’on devrait mettre en œuvre pour essayer d’éradiquer purement et simplement le Hamas : cela supposerait pratiquement de raser toute la bande de Gaza."

    Le juriste regrette que le contexte soit si passionnel, si manichéen, que, "sans avancer toute une série de mots un peu codifiés", on ne soit pas admis à entrer dans le débat, et que si l’on cherche à complexifier ce débat, on soit accusé de prendre, ou au contraire de ne pas prendre parti.

    Henry Laurens, lui, replace cette violence dans le contexte de "colonisation de refoulement" théorisé par la science historique et politique, "la pire des situations" : "Un peuple arrive et pousse l’autre. Du coup, celui qui a été poussé ne rêve que d’une seule chose, de mettre le premier à la mer, et celui qui est dans ce cas-là a peur qu’on le jette à la mer, et il devient violent. Un système de violence est engendré. C’était le cas par exemple de la France en Algérie, des Anglais au Kenya et en Rhodésie, c’est ce qu’on appelle techniquement de la colonisation de refoulement", explique-t-il, avant de souligner que les souvenirs mémoriels entraînés par ce jeu de violence des uns sur les autres accentue encore la violence qui, à son tour, exacerbe les passions et les tensions internes : "Je dis qu’ils sont au corps à corps depuis un siècle et plus. En un sens, l’État d’Israël est un double échec : un échec de la normalisation parce qu’on le met en situation permanente d’exceptionnalité, et il ne peut agir qu’en position d’exceptionnalité. Il y a aussi l’impossibilité d’être heureux. L’État d’Israël se trouve toujours en situation de violence. Vous pouvez essayer de croire que vous êtes, entre guillemets, normaux, mais vous êtes en situation de guerre en permanence et de peur en permanence, ce qui se se réplique sur la diaspora elle-même. Donc ça donne des choses tout à fait épouvantables sur le plan psychologique."
    Les autres mots du conflit

    "Tsahal"

    Ce terme est parfois utilisé par les médias. Henry Laurens y voit l’empreinte du "romantisme occidental" : "Cela fait plus sérieux ou plus exotique. Vous dites ’US Army’ au lieu d’"armée américaine", "check point" au lieu de "barrage routier" et ainsi de suite." Sauf que Tsahal sont les initiales de "Tsva Haganah Lé-Yisrael", qui signifie "Armée de défense d’Israël" : "Qualifier une armée uniquement d’"armée de défense" lorsqu’on sait qu’elle a envahi le Liban, la Syrie, occupe encore la Palestine, etc., c’est évidemment assez problématique. Généralement, quand on essaie d’avoir une approche plus neutre, on parle de l’"Armée israélienne", explique François Dubuisson.

    "Conflit armé"

    "Les débuts de la violence entre Juifs sionistes et Arabes palestiniens commencent en 1908. À partir de 1948, on a parlé de ’conflit israélo-arabe’ parce que ce qui était en tête de gondole, c’étaient des États arabes par rapport à Israël. À partir des années 1980, on est revenu à un ’conflit israélo-palestinien’. On dit ’conflit’ pour l’instant, mais ensuite on le scande en guerres : guerre de 48, guerre de 66, guerre de 67, guerre de 82, etc. Ou on fait l’inverse, on dit ’guerre’ et puis on le scande en conflits, remarque Henry Laurens.

    La guerre est, par définition, une lutte armée entre États, mais ils sont nombreux, notamment du côté des militants palestiniens, à récuser le mot conflit : selon eux, le terme mettrait sur le même plan la Palestine et Israël alors que, de leur point de vue, le conflit est totalement asymétrique avec un État occupant et une population occupée. Pourtant, juridiquement, le mot "conflit" est sans ambiguïté estime François Dubuisson : "Je dirais d’un point de vue plutôt scientifique ou simplement même juridique, qu’on l’utilise dans un sens assez neutre. Dès qu’il y a une opposition, en particulier armée, dans un cadre donné, on va très facilement parler de conflit, et ça reste la manière la plus simple d’y faire référence".

    "Territoires occupés"

    C’est le terme consacré en droit international et utilisé par l’ensemble de la communauté internationale, c’est l’appellation officielle dans toutes les résolutions des Nations unies : "À part Israël et parfois les États-Unis en fonction du président en place, qui vont utiliser des mots moins directs, tout le monde parle des territoires palestiniens occupés, qui qualifient Gaza, la Cisjordanie et Jérusalem-Est. C’est en fait l’absence d’utilisation des mots ’territoires occupés’ qui est extrêmement connotée : quand on parle de ’territoires disputés’ ou qu’on parle de Judée et Samarie plutôt que de Cisjordanie, on veut épouser le point de vue israélien. Celui-ci consiste à dire qu’il ne reconnaît pas que ces territoires doivent bénéficier au peuple palestinien, que le peuple palestinien y jouit du droit à l’autodétermination et que ce serait des territoires dont le statut ne serait pas clairement défini et qui serait donc totalement ouverts à la négociation avec des revendications légitimes de souveraineté de la part d’Israël", explique le juriste François Dubuisson.

    En effet, la dénomination est officialisée dans la résolution 242 de l’ONU du 22 novembre 1967 : "Ils devraient être régis par les conventions de Genève mais Israël ne les respecte pas depuis longtemps, ne serait ce que parce que les conventions de Genève interdisent la colonisation. Or Israël, dans sa totalité, est un fait colonial, comme aurait dit mon maître Maxime Rodinson [historien et sociologue français, NDR]", souligne Henry Laurens.

    "Colonisation"

    Dans le contexte du début du XXᵉ siècle, la colonisation était normale, personne ne la niait, explique encore Henry Laurens : "La principale institution sioniste qui achetait des terres c’était le Jewish Colonization Association. Et puis est arrivé un moment où le mot "colonial" a commencé à devenir péjoratif, donc on a rayé le terme."

    Pour François Dubuisson, l’article 49 de la quatrième Convention de Genève, qui interdit l’installation de populations civiles de la puissance occupante en territoires occupés, est une interdiction assez claire : "Là aussi, il y a une interprétation très largement établie et reprise dans les résolutions du Conseil de sécurité des Nations unies ou de l’Assemblée générale, qui considère que la politique israélienne d’établissement d’implantations juives est une politique de colonisation, et une politique qui est contraire à cette quatrième Convention de Genève."

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/conflit-israelo-palestinien-le-piege-des-mots-dans-un-contexte-passionne
    #à_lire #Israël #Palestine #7_octobre_2023 #Hamas #mots #vocabulaire #terminologie #droit_international #terrorisme #Tsahal #conflit_armé #Territoires_occupés #Colonisation

  • Stop aux #massacres en cours à #Gaza

    L’horreur succède à l’horreur. Aux crimes antisémites commis par le #Hamas le week-end dernier et à la découverte des atrocités succède désormais la #vengeance aveugle du gouvernement israélien. Après avoir bestialisé les Palestinien·nes de Gaza par des déclarations racistes aux accents exterminateurs, le gouvernement Netanyahu déploie toute la disproportion de sa puissance militaire et diplomatique et prive les habitant·es de Gaza d’eau, d’électricité et de carburant tant que les otages ne sont pas libéré·es, et organise le déplacement forcé de plus de 1,1 million de personnes.

    Ces mesures criminelles et inhumaines, qui engagent le pronostic vital de 2,3 millions de personnes, s’accompagnent de #bombardements massifs occasionnant des victimes en grande majorité civiles, parmi lesquelles des enfants et des personnes vulnérables. Le bilan est actuellement de plus de 1500 mort·es et plus de 6600 blessé·es et s’alourdit d’heure en heure. Le massacre, les déplacements forcés de population et les restrictions infligées aux Gazaoui·es ne sont en aucune façon une réponse tolérable aux tueries du 7 octobre. Comme sont proscrits les prises d’otages et les massacres du Hamas, le #droit_international, notamment la convention de Genève interdit ce que pratique le gouvernement israélien : la prise pour cible de #civils ou d’objectifs civils, les #punitions_collectives, et le fait de priver des populations des biens nécessaires à leur survie. On ne peut répondre à des #crimes par d’autres crimes.

    Le massacre du 7 octobre oblige Israël à repenser la forme que peut prendre l’avenir pour les deux peuples sur cette terre. Deux options existent : la recherche difficile d’une solution politique acceptable pour les deux peuples, ou l’écrasement dans un #bain_de_sang de toute revendication palestinienne auquel continueront à répondre des meurtres et des attentats. La seule possibilité acceptable est celle d’une #paix fondée sur la #justice, pour toutes et tous. C’est ce que résume le slogan « Pas de justice, pas de paix », que beaucoup comprennent comme un appel à se battre mais qui n’est en réalité qu’un constat. Aujourd’hui, la pire solution semble privilégiée, mais nous n’avons pas d’autre choix que celui de croire en des jours meilleurs et de tout faire pour les voir arriver. Tikoun Olam.

    Nous pleurons toutes les victimes, assassinées par les tueurs du Hamas ou massacrées par le gouvernement d’Israël qui n’a comme seule ligne de conduite la #domination par la puissance des #armes. De part et d’autre de la frontière, plus de 2700 personnes ont déjà perdu la vie, plus de 10000 sont blessées et plus d’une centaine sont retenues en otage.

    Il est urgent que l’ensemble des pouvoirs étatiques, ONG, et observateurices exterieur·es, civil·es ou professionnel·les, mettent tout en œuvre pour obtenir la reprise des flux vitaux vers Gaza et la libération immédiate des #otages. Ils doivent imposer un #cessez-le-feu et forcer la reprise d’un réel processus vers une #paix_juste et durable dans le respect des résolutions de l’ONU, du droit international et des légitimes aspirations de paix et de justice pour les Palestinien·nes et les Israélien·nes.

    Notre cœur est déchiré mais nous ne pouvons pas participer en l’état à un certain nombre de rassemblements « en faveur des Palestinien·nes » organisés entre autres par des groupes ayant explicitement soutenu l’attaque du Hamas. Nous appelons ces organisations à une sérieuse #auto-critique. Nous rappelons encore une fois que le Hamas inscrit l’#antisémitisme jusque dans sa charte, que pour lui, tous·tes les Juif·ves sont des cibles, et qu’il n’a jamais hésité à mettre cette idée en pratique. Les déclarations de ces partis et groupes politiques ne nous permettent donc pas d’envisager ces rassemblements comme autre chose que des espaces d’indifférence ou même de réjouissance face aux massacres antisémites perpétrés. Elles nous indiquent, au contraire, que ce sont des lieux où notre sécurité physique et psychologique n’est pas assurée.

    Il en est ainsi lorsque le NPA dans un texte consacré au massacre dit apporter « son soutien aux moyens de lutte choisis par les Palestiniens pour résister » et parle, pour désigner les villages et kibboutzim où, au même moment, les tueurs du Hamas sont à l’œuvre, de « colonies acquises aux résistantEs »(communiqué du 7 octobre) ; lorsque #Palestine_Vaincra lit le massacre comme « une démonstration de force des capacités de la résistance qui met à nu la faillibilité du projet sioniste » (le 7 octobre) ; lorsque l’#UJFP compare les tueurs du Hamas aux héros de l’affiche rouge (le 9 octobre) ; lorsque Unité Communiste voit dans ces attaques « une preuve d’espoir pour les colonisés du monde entier » (le 10 octobre) ; ou lorsque le groupe Inverti·es mentionne le Hamas comme « un groupe de résistance derrière lequel se mobilise le peuple palestinien, […] fruit du #colonialisme » (11 octobre).

    Dans le même temps nous assistons à un durcissement de la droite, caractérisé notamment par la volonté du ministère de l’Intérieur de criminaliser et d’interdire toute manifestation de solidarité avec les Palestinien·nes. Parallèlement, certains utilisent le massacre du 7 octobre pour stigmatiser les minorités arabe et musulmane, considérées comme collectivement complices. Nous condamnons avec la plus grande force tout ces discours de #haine et de #stigmatisation envers les personnes arabes et/ou musulmanes et leur apportons tout notre soutien. Les Musulman·es de France ne sont pas plus responsables des crimes du Hamas que les Juif·ves de France ne le sont de ceux du gouvernement israélien.

    Nous ne souscrivons pas à la criminalisation du mouvement de #solidarité avec les Palestinien·es, qui n’est rien d’autre qu’une façon de laisser les mains libres au gouvernement israélien pour écraser Gaza sous les bombes et priver les Gazaoui·es des moyens élémentaires de survie. Au contraire, nous souhaitons participer à l’établissement d’un front réellement unitaire se donnant l’objectif et les moyens de réaliser une pression populaire internationale sur l’ensemble des acteurs du conflit.

    L’établissement d’un tel front ne peut se faire que sur la base d’une #condamnation sans équivoque des crimes du Hamas et du gouvernement israélien et avec une revendication de #paix_dans_la_justice. Nous appelons donc toutes les personnes partageant ces objectifs à réfléchir avec nous à l’organisation d’initiatives pour la paix et la justice qui ne sombreraient pas dans des logiques mortifères.

    https://juivesetjuifsrevolutionnaires.wordpress.com/2023/10/13/stop-aux-massacres-en-cours-a-gaza
    #7_octobre_2023 #Palestine #Israël #à_lire

  • Le Moyen-Orient crie justice – La chronique de #Joseph_Andras

    Nous accueillons régulièrement l’écrivain Joseph Andras pour une chronique d’actualité qui affûte nos armes et donne du style à nos frustrations.

    Deux États bombardent deux peuples en cet instant. Au #Kurdistan syrien et en #Palestine. Chaque heure qui passe nous mine. Mais nos mots n’ont pas le moindre sens là-bas. S’ils en ont un, ça n’est qu’ici. Ceci oblige à parler droit, c’est-à-dire à parler juste. Tout intellectuel, disait Edward W. Saïd, a pour fonction de refuser « les formules faciles ». La rigueur est la seule chose qui reste quand le sang coule au loin.

    Deux populations colonisées

    Le Kurdistan est historiquement colonisé par les États turc, iranien, irakien et syrien. Le Kurdistan irakien, dirigé par un pouvoir corrompu et autoritaire, a gagné son autonomie et mène de nos jours une politique de collaboration zélée avec Ankara. Le Kurdistan syrien a conquis, par la voie révolutionnaire, une autonomie précaire et conduit, laborieusement, une politique inspirée par les principes post-marxistes du KCK, plateforme des forces révolutionnaires kurdes au Moyen-Orient. Le Kurdistan turc vit sous occupation et a vu ses résistants brutalement écrasés dans les années 2015 et 2016. Le Kurdistan iranien, acteur majeur du dernier soulèvement en date contre la dictature théocratique iranienne, vit lui aussi sous occupation. L’État turc, bâti sur la négation du génocide arménien, a longtemps nié l’existence même des Kurdes : leur langue était proscrite, leurs porte-paroles abattus ou incarcérés, leur culture traquée. Dans les années 1990, ce sont environ 4 000 villages et hameaux kurdes qui ont été rasés. « Nous avons opté pour la règle de la terreur et de l’anéantissement », a ainsi déclaré Hanefi Avci, un temps chef-adjoint du Bureau du renseignement de la Direction générale de la sûreté.

    La Palestine est, aux côtés, notamment, du Kurdistan et du #Sahara_occidental, l’une des dernières colonies de par le monde. Elle végète aujourd’hui, de l’aveu même de Tamir Pardo, ancien chef du Mossad, en situation d’apartheid. L’État israélien, officialisé après le génocide des Juifs d’Europe, s’est construit sur le nettoyage ethnique de la Palestine : s’il était besoin, nombre d’historiens israéliens l’ont confirmé. « Nous devons expulser les Arabes et prendre leur place… », a confié Ben Gourion dans sa correspondance, le 5 octobre 1937. Ce nettoyage ethnique reposait sur une idéologie coloniale, autrement dit raciste, arguant qu’il n’existait aucun peuple sur cette terre. Or un peuple existait et, depuis 1948, celui-ci est déplacé, spolié, massacré, assassiné, parqué, détenu en masse. La Cisjordanie et la bande de Gaza sont emmurées avec la collaboration des « démocraties » occidentales, étasunienne au premier chef. Les colonies dévorent chaque année toujours plus de terres. L’Autorité palestinienne de Mahmoud Abbas – qui, selon Amnesty International, relève de l’« État policier » – n’a plus aucune légitimité aux yeux de la population palestinienne : elle n’est, pour reprendre les mots du militant socialiste israélien Michel Warschawski, qu’un « instrument au service de l’occupation ». L’actuel gouvernement de Netanyahu, ouvertement fasciste et raciste, a accompli l’exploit de jeter dans la rue des centaines de milliers d’opposants israéliens.
    Deux puissances coloniales alliées

    Trois jours après l’opération Déluge al-Aqsa co-orchestrée par le Hamas le 7 octobre, Erdoğan a dénoncé le siège de la bande de Gaza : « Où sont donc passés les droits de l’Homme ? » Et, de fait : l’ONU vient de rappeler que le droit international l’interdit en ce qu’il constitue une « punition collective » attentatoire aux civils. Gaza agonise sous le phosphore blanc en l’attente d’une possible invasion terrestre. Sauf que : Erdoğan est bien le dernier à pouvoir parler. La Turquie est « la plus grande prison au monde pour les journalistes » (Amnesty) et son gouvernement bombarde actuellement le Kurdistan syrien. Des infrastructures civiles sont à terre : hôpitaux, écoles, stations électriques, stations de pompage d’eau, barrages, silos à grain, fermes, stations services, installations pétrolières, usines… Deux millions de personnes sont privées d’eau et d’électricité. Les hôpitaux sont saturés ; on compte pour l’heure près de 50 morts, dont une dizaine de civils.

    Le prétendu soutien de l’État turc à la Palestine est une farce, grossière avec ça. La Turquie est le quatrième partenaire commercial d’Israël, avec un commerce bilatéral en hausse de 30 % en 2021. La ministre israélienne de l’Économie et de l’Industrie du gouvernement Bennett-Lapid a fait état, l’an dernier, de « l’engagement d’Israël à approfondir les liens économiques avec la Turquie ». L’État turc, membre clé de l’OTAN, a acheté des drones israéliens pour lutter contre le PKK, chef de file de la résistance socialiste kurde. En 2018, il a envahi le Kurdistan syrien fort d’une centaine de chars M60-A1 modernisés par l’industrie israélienne (et du concours d’anciens combattants de Daech) : le canton nord-syrien d’Afrîn, majoritairement kurde, vit depuis sous occupation militaire. Abdullah Öcalan, leader du PKK incarcéré depuis deux décennies, disait déjà en mars 1998 : « Les Turcs ont conclu un accord avec Israël pour tuer les Kurdes. »

    « Les Turcs ont conclu un accord avec Israël pour tuer les Kurdes.”
    Abdullah Öcalan, leader du PKK

    Au lendemain de l’opération ordonnée par le Hamas, Yeşil Sol Parti, le Parti de la gauche verte implanté en Turquie, a publié un communiqué titré : « La paix ne viendra pas au Moyen-Orient tant que les problèmes palestinien et kurde ne seront pas résolus ». Tout en réprouvant « le meurtre de civils » et « la torture de cadavres », l’organisation kurde a apporté son soutien à « la lutte du peuple palestinien pour la liberté » et condamné « l’occupation de la Palestine par Israël ». Quelle issue au carnage ? Une « solution démocratique et juste ». C’est que les résistances kurde et palestinienne sont liées par le sang versé depuis les années 1980 : le PKK et l’OLP ont combattu cote à cote contre l’occupation israélienne. Can Polat, cadre kurde de la révolution nord-syrienne, avait ainsi déclaré à l’écrivain palestinien Mazen Safi : « Le point important, mon frère et camarade, est que les facteurs qui nous lient sont mille fois plus importants que les facteurs qui nous divisent, en dépit des tyrans, des agents et des racistes. Victoire sur Jérusalem occupée. »
    Résister

    Résister à l’oppression est légitime. Y résister par les armes l’est aussi. Le droit international ne dit rien d’autre : la résolution 37/43 de l’Assemblée générale des Nations Unies a, le 3 décembre 1982, réaffirmé « la légitimité de la lutte des peuples pour l’indépendance, l’intégrité territoriale, l’unité nationale et la libération de la domination coloniale et étrangère, de l’occupation étrangère, par tous les moyens disponibles, y compris la lutte armée ».

    Les populations kurdes et palestiniennes ont déployé un nombre incalculable de modalités de lutte, non violentes et violentes : grèves de la faim, marches, recours juridiques et institutionnels, guérilla, attentats. L’ennemi, comme l’a indiqué Nelson Mandela dans Un long chemin vers la liberté, détermine toujours le cadre du combat. « Nous avons utilisé toutes les armes non violentes de notre arsenal – discours, délégations, menaces, arrêts de travail, grèves à domicile, emprisonnement volontaire –, tout cela en vain, car quoi que nous fassions, une main de fer s’abattait sur nous. Un combattant de la liberté apprend de façon brutale que c’est l’oppresseur qui définit la nature de la lutte, et il ne reste souvent à l’opprimé d’autres recours que d’utiliser les méthodes qui reflètent celles de l’oppresseur. » Le « pacifisme » de Mandela, longtemps présenté comme « terroriste » par les puissances capitalistes, est un mythe. Les États coloniaux turc et israélien qualifient à leur tour la résistance de « terrorisme ».
    La fin et les moyens

    Résister est légitime. Mais il est des moyens de résistance qui le sont moins. Le PKK s’engage de longue date à ne frapper que les cibles militaires et policières. Quand, par malheur, un civil perd la vie au cours d’une opération, sa direction présente sans délai ses excuses aux familles. Öcalan a reconnu que des femmes et des enfants étaient tombés sous les coups de son mouvement et promis en avoir « souffert », assurant que leur mort avait eu lieu lors d’échanges de tirs : « ce n’était pas intentionnel ». Georges Habbache, fondateur socialiste du FPLP palestinien, a quant lui confié dans les années 2000 : « Nous sommes opposés à tout acte terroriste gratuit qui frappe les civils innocents. […] [L]a vie humaine a une trop grande valeur pour que j’approuve ces attentats-kamikazes [palestiniens]. »

    Le 7 octobre, des soldats et des policiers israéliens ont été pris pour cible par les combattants du Hamas, du Jihad islamique, du DFLP et du FPLP. Nul ne saurait le dénoncer, sauf à ratifier l’apartheid et la colonisation militaires. Mais le Hamas a également fait le choix de frapper des civils. On dénombre à l’heure qu’il est la mort de 1 300 Israéliens. Parmi eux, 260 festivaliers et nombre de civils : le kibboutz Be’eri comptait des enfants, celui de Kfar Aza aussi. Un massacre qui tord le cœur. Il s’agit donc de parler droit, à l’instar de Rima Hassan, fondatrice franco-palestinienne de l’Observatoire des camps de réfugiés : « Que ça soit clair, il est moralement inacceptable de se réjouir de la mort de civils ». Et de préciser : « Le faire c’est oublier les principes qui nous engagent dans la perspective d’une paix qui doit nous sauver ». Frapper les civils, c’est affaiblir la résistance. Dans ses mémoires Récits de la longue patience, Daniel Timsit, militant communiste du FLN algérien, a raconté avoir confectionné des engins explosifs pour le compte du mouvement indépendantiste. Les bombes visaient l’armée française occupante. « Mais quand ont eu lieu les premiers attentats terroristes dans la ville, ça a été atroce ! » Plus loin il ajoutait : « La fin ne justifie pas les moyens. L’utilisation consciente de moyens immoraux pourrit l’âme, et le cycle infernal se constitue. »

    « La fin ne justifie pas les moyens. L’utilisation consciente de moyens immoraux pourrit l’âme, et le cycle infernal se constitue.”
    Daniel timsit, militant communiste du fln algérien

    La morale n’est pas un à-côté de la lutte : elle a toujours été son cœur battant. « Si nous voulons changer le monde, c’est aussi, et peut-être d’abord, par souci de moralité », avançait un texte collectif initié, en 1973, par le militant anticolonialiste et trotskyste Laurent Schwartz. De fait : les révolutionnaires livrent partout bataille pour la dignité, la liberté, la justice et l’égalité. En un mot pour l’émancipation. L’amoralisme n’est que la grammaire de l’ordre en place. Aucune guerre n’est « propre » et toutes les causes justes, on le sait, on ne le sait même que trop, ont pu à l’occasion se faire injustes : des communards ont exécuté dix hommes de foi, rue d’Haxo, en dépit des protestations de Vallès ; l’IRA provisoire a tué 12 civils en frappant l’établissement La Mon House Hostel (puis s’en est excusée) ; la branche armée de l’ANC sud-africain a posé une bombe à quelques pas de Church Square, tuant et blessant des civils (puis s’en est excusée) ; etc. L’injustice occasionnelle n’invalide en rien la cause juste ; elle l’amoindrit. Car ce qu’il reste à l’occupé qu’on écrase, disait Edward W. Saïd, c’est justement « la lutte morale ». Le PKK s’y évertue et, au Kurdistan syrien, les prisonniers de Daech sont maintenus en vie. Il ne saurait être question d’idéalisme abstrait mais de morale concrète – révolutionnaire, aurait dit Hô Chi Minh. Elle engage les militants, non sans d’immenses difficultés, et, peut-être plus encore, ceux qui, sans craindre pour leur vie, prennent par internationalisme position sur ces questions. Saïd poursuivait : il est du ressort des intellectuels « de soulever des questions d’ordre moral ». C’est en toute cohérence que le penseur palestinien, pourfendeur de l’occupation israélienne et de la collaboration palestinienne, s’est continûment levé contre la mise à mort des civils. « Je me suis toujours opposé au recours de la terreur », rappelait-il en 1995. Les attentats sont « moralement ignobles » et « stratégiquement nuls ». Toucher des enfants est « une abomination qui doit être condamnée sans conditions ».
    Le Hamas

    Il se trouve que le Hamas se réclame de l’idée révolutionnaire. Or révolutionnaire il ne l’est pas. Car l’idée révolutionnaire n’est rien d’autre que l’idée démocratique enfin réalisée. Le Hamas, dont les menées antidémocratiques ne sont plus à démontrer, ne constitue pas une force d’émancipation. « On sait même que les Israéliens ont soutenu Hamas au début pour affaiblir les courants laïcs et démocratiques de la résistance palestinienne. Bref, l’islam politique a été construit par l’action systématique de l’impérialisme soutenu bien entendu par les forces réactionnaires locales obscurantistes », a rappelé en 2006 l’économiste socialiste Samir Amin, contempteur résolu de l’islamisme en ce qu’il ne « peut être un adversaire authentique de la mondialisation capitaliste-impérialiste ». Enfant des Frères musulmans né au lendemain de la première Intifada, le Hamas s’est d’abord montré favorable à la fondation d’un État islamique. En 1993, il appelait dans un mémorandum à la « Guerre sainte » contre l’occupant et se dressait, dans sa charte fondatrice (amendée depuis), contre « l’idée laïque » telle que portée par l’OLP. Son ancrage contre-révolutionnaire était ouvertement revendiqué dans la charte en question : les Juifs, lisait-on, étaient à l’œuvre derrière la Révolution française et le communisme… L’antisémitisme est une triple trahison : de la cause humaine, palestinienne et révolutionnaire. Humaine, voilà qui se passe de commentaire ; palestinienne, car la guerre en cours n’oppose pas des Arabes et des Juifs mais une population colonisée, à la fois musulmane et chrétienne, et un régime d’apartheid ; révolutionnaire, car que serait cette tradition sans l’inestimable contribution juive ? À un projet raciste – « Une terre sans peuple pour un peuple sans terre » –, l’antiracisme fournit l’unique réponse.

    En toute logique, le Hamas témoigne son admiration pour Erdoğan et a encouragé, par la voix de Khaled Mechaal, l’opération de nettoyage ethnique kurde entreprise à Afrîn. Aucun partisan de l’égalité ne peut se montrer solidaire d’un ennemi de l’égalité. Il en va d’une élémentaire cohérence politique. Bien des Palestiniens ont mis en évidence le problème que pose le Hamas au sein du mouvement de libération. Lisons Edward W. Saïd, en 1995 : « Le Hamas et le Jihad islamique ne sauraient constituer une alternative : leur pensée réductrice, leur vision réactionnaire et leurs méthodes irrationnelles ne peuvent en aucun cas servir l’avènement d’un ordre social acceptable. » Lisons Mustapha Barghouti, fondateur de Palestinian National Initiative, dénonçant en 2004 « le fondamentalisme du Hamas ». Lisons Mahmoud Darwich, évoquant deux ans plus tard les succès électoraux de l’organisation islamiste : « Quand on défend une Palestine plurielle et laïque, on ne peut que craindre pour les droits des femmes, pour les jeunes et pour les libertés individuelles. » Lisons Georges Habbache, à la même époque : « Le modèle islamiste comporte beaucoup de points négatifs ; en termes de choix de société, notre vision est différente, notamment sur la question de la femme. Aujourd’hui, à Gaza, certains aspects sociaux de la vie quotidienne sont inquiétants. » Lisons enfin Leïla Khaled, figure socialiste de la lutte armée, en 2014 : « Le Hamas estime que la Palestine est un endroit sacré qui appartient aux musulmans, ce qui va à l’encontre de nos opinions ».

    “L’antisémitisme est une triple trahison : de la cause humaine, palestinienne et révolutionnaire.’‘
    joseph andras

    On ne saurait, tant s’en faut, réduire la question palestinienne à celle du Hamas. La Palestine était assujettie avant sa création ; elle continuera de l’être quand bien même celui-ci disparaîtrait. Le point central, c’est l’occupation. C’est l’apartheid. C’est, depuis 1948, la spoliation sans fin. Le Hamas n’en est pas moins une force palestinienne incontournable. Il est un acteur de la guerre et, à ce titre, quantité de ses opposants palestiniens savent qu’il faudra bien compter avec lui pour entrevoir quelque issue. Le Hamas est une maladie de l’occupation. Sa funeste résultante. Enfermez une population, privez-la de tout espoir, déchiquetez-la : les démocrates, mécaniquement, s’épuisent. « On a rendu Gaza monstrueux », vient de déclarer le cinéaste israélien Nadav Lapid. Bombarder la bande de Gaza, comme l’État israélien n’a de cesse de le faire, ajoute seulement à l’horreur. Ces bombardements pointent « officiellement » le Hamas ; ce dernier, supposément affaibli, vient pourtant de diligenter une opération militaire d’une envergure inégalée. Depuis 2008, quatre guerres ont été menées contre ce minuscule ghetto asphyxié. Une cinquième est en cours. L’opération Plomb durci a tué 1 315 Palestiniens – 65 % de civils, dont plus de 400 enfants. L’opération Pilier de défense a tué plus de 100 Palestiniens – dont 66 civils. L’opération Bordure protectrice a tué au moins 245 enfants. Au 12 octobre 2023, on compte plus de 1 400 morts, dont 447 enfants. Autant de crimes sans noms. Une vie, pourtant, ne paraît pas valoir une vie en Occident « démocratique ». Personne n’a allumé la tour Eiffel pour eux. Personne ne leur a apporté un « soutien inconditionnel ». Personne n’a organisé de minutes de silence en leur mémoire. Car, comme vient de l’admettre le « philosophe » Raphaël Enthoven : « Je pense qu’il faut marquer cette différence, que c’est même très important de la faire. Là encore, ça n’est pas commensurable. » Une franchise emblématique : l’esprit colonial au grand jour.
    Deux solutions politiques

    Un jour, comme toujours, les armes seront rangées. Ce jour n’est pas venu. Les forces d’émancipation kurdes ne se lassent pas de le scander, jusqu’en France : « Solution politique pour le Kurdistan ! » Le PKK a de longue date proposé un plan de paix et, par suite, le désarmement complet de ses unités. Tout est prêt sur le papier ; l’État turc s’y refuse et Erdoğan a mis un terme aux derniers pourparlers. Le PKK – et avec lui le parti de gauche HDP, quoique sous des modalités différentes, réformistes et légalistes – réclame l’autonomie des territoires kurdes au sein des frontières constituées. Non un État-nation indépendant, comme il le souhaitait originellement, mais le respect démocratique de la vie culturelle, linguistique et politique kurde dans les quatre portions du Kurdistan historique. « On ne peut concevoir de solution plus humaine et modeste », note Öcalan du fond de sa prison. La réélection d’Erdoğan au mois de mai repousse à nouveau l’espoir de la paix. Mais une solution, qui passera par la libération du leader du PKK, existe bel et bien sur la table – aux internationalistes de l’appuyer à leur façon.

    En Palestine, la fameuse « solution à deux États » est caduque de l’aveu de tous les analystes informés : une fable pour plateaux de télévision et discutailleries diplomatiques. Expansion coloniale oblige, un État palestinien – auquel le Hamas a finalement consenti – n’est plus à même de voir le jour. La Cisjordanie est totalement disloquée et aucune continuité territoriale n’est assurée avec Gaza. Le ministre israélien des Finances, Bezalel Smotrits, a lui-même reconnu en juillet 2023 que « le rêve arabe d’un État en Cisjordanie n’est plus viable ». Il ne reste aux Palestiniens que deux alternatives : « renoncer à leurs aspirations nationales » (et vivre en Israël en tant qu’individus) ou « émigrer » dans un pays arabe. Pourtant, parmi les ruines, demeure une solution : un État « commun » ou « binational ». Perspective incommode, à l’évidence. Certainement pas réalisable dans l’immédiat. Mais des gens de justice s’y rallient de part et d’autre. En 2001, Michel Warschawski a publié l’ouvrage Israël-Palestine le défi binational : il invitait, sur le modèle sud-africain, à tourner la page de l’apartheid par « un État unitaire ». La décennie suivante, l’historien israélien Ilan Pappé y appelait à son tour : « décolonisation, changement de régime et solution à un État ». De leur vivant, Georges Habbache et Edward W. Saïd sont allés dans le même sens : le premier a loué « un État démocratique et laïc » comme « seule solution » ; le second indiqué que les Israéliens et les Palestiniens vivaient dans une promiscuité quotidienne telle qu’une séparation étatique n’avait aucun sens. Pour que le sang ne coule plus, reste à bâtir un espace de « citoyens égaux en paix sur une même terre ».

    “Un jour, comme toujours, les armes seront rangées“
    joseph andras

    Ici, oui, nous ne pouvons rien. Tout juste nous faire l’écho malaisé des voix démocratiques en lutte. C’est peu. Mais ce peu-là, entre les cris et l’hystérie médiatique française, vaut peut-être un petit quelque chose si l’on aspire à la libération des peuples.

    https://www.frustrationmagazine.fr/moyen-orient

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    #à_lire

  • Aux #origines de l’#histoire complexe du #Hamas

    Le Hamas replace violemment la question palestinienne sur le devant de la scène géopolitique. Retour aux origines du mouvement islamiste palestinien, fondé lors de la première Intifada et classé organisation terroriste par les États-Unis et l’Union européenne.

    L’arméeL’armée israélienne a indiqué, samedi 14 octobre, avoir tué deux figures du Hamas qui auraient joué un rôle majeur dans l’attaque terroriste qui a plongé il y a une semaine le peuple israélien dans « les jours les plus traumatiques jamais connus depuis la Shoah », pour reprendre l’expression de la sociologue franco-israélienne Eva Illouz (plus de 1 300 morts, 3 200 blessés ainsi qu’au moins 120 otages, parmi lesquels de nombreux civils).

    Le responsable des Nukhba, les unités d’élite du Hamas, Ali Qadi, aurait été tué, de même que Merad Abou Merad, chef des opérations aériennes dans la ville de Gaza. Dimanche, c’est la mort d’un commandant des Nukhba, Bilal el-Kadra, présenté par l’armée israélienne comme le responsable des massacres du 7 octobre dans les kibboutz de Nirim et de Nir Oz, qui a été annoncée.

    Depuis l’offensive surprise du Hamas, Israël assiège et pilonne en représailles la bande de Gaza. Ses bombardements ont fait en l’espace de quelques jours 2 750 morts, dont plus de 700 enfants, et 9 700 blessés, selon un bilan du ministère palestinien de la santé du Hamas établi lundi matin. « Ce n’est que le début », a prévenu le premier ministre israélien Benyamin Nétanyahou, qui a déclaré : « Le Hamas, c’est Daech et nous allons les écraser et les détruire comme le monde a détruit Daech. »

    S’il est difficile de ne pas convoquer la barbarie de Daech en Syrie, en Irak ou sur le sol européen devant les massacres commis le 7 octobre par le mouvement islamiste palestinien dans la rue, des maisons ou en pleine rave party, la comparaison entre les deux organisations a ses limites.

    « Oui, le Hamas a commis des crimes odieux, des crimes de guerre, des crimes contre l’humanité, mais c’est un mouvement nationaliste qui n’a rien à voir avec Daech ou Al-Qaïda, nuance Jean-Paul Chagnollaud, professeur des universités, directeur de l’Institut de recherche et d’études Méditerranée/Moyen-Orient (iReMMO). Il représente ou représentait largement un bon tiers du peuple palestinien. Si Mahmoud Abbas [chef de l’Autorité palestinienne – ndlr] a annulé les élections il y a deux ans, c’est parce que le Hamas avait des chances d’emporter les législatives. »

    « La comparaison avec Daech a une visée politique qui consiste à enfermer le Hamas dans un rôle de groupe djihadiste, abonde le chercheur Xavier Guignard, spécialiste de la Palestine au sein du centre de recherche indépendant Noria. Je comprends le besoin de caractériser ce qu’il s’est produit, mais cette comparaison nous prive de voir tout ce qu’est aussi le Hamas », un mouvement islamiste de libération nationale, protéiforme, politique et militaire, qui est l’acronyme de « Harakat al-muqawama al-islamiya », qui signifie « Mouvement de la résistance islamique ».

    Considéré comme terroriste par l’Union européenne, les États-Unis ainsi que de nombreux pays occidentaux, le Hamas, dont la branche politique dans la bande de Gaza est dirigée par Yahya Sinouar (qui fut libéré en 2011 après vingt-deux ans dans les geôles israéliennes lors de l’échange de 1 027 prisonniers palestiniens contre le soldat franco-israélien Gilad Shalit), est arrivé au pouvoir lors d’une élection démocratique. Il a remporté les législatives de 2006. L’année suivante, il prend par la force le contrôle de la bande de Gaza au terme d’affrontements sanglants et aux dépens de l’Autorité palestinienne (AP), reconnue par la communauté internationale et dominée par le Fatah (Mouvement national palestinien de libération, non religieux) de Mahmoud Abbas, qui contrôle la Cisjordanie.
    Guerre fratricide

    Cette prise de pouvoir constitue un moment charnière. Elle provoque une guerre fratricide entre les formations palestiniennes et offre à l’État hébreu une occasion de durcir encore, en riposte, le blocus dans la bande de Gaza, en limitant la circulation des personnes et des biens, avec le soutien de l’Égypte. Un blocus dévastateur par terre, air et mer qui asphyxie l’économie et la population depuis plus d’une décennie et a été aggravé par les guerres successives et les destructions sous l’effet des bombardements israéliens.

    Officiellement, pour Israël, qui a décolonisé le territoire en 2005, le blocus vise à empêcher que le Hamas, qui se caractérise par une lutte armée contre l’État hébreu, se fournisse en armes. Créé en décembre 1987 par les Frères musulmans palestiniens (dont la branche a été fondée à Jérusalem en 1946, deux ans avant la proclamation de l’État d’Israël), lors de la première intifada (soit le soulèvement palestinien contre l’occupation israélienne de la Cisjordanie et de la bande de Gaza), alors massive et populaire, le mouvement a épousé la lutte armée contre Israël à cette époque.

    « Un profond débat interne » avait alors agité ses fondateurs, comme le raconte sur la plateforme Cairn l’universitaire palestinien Khaled Hroub : « Deux points de vue s’opposent. Les uns poussent à un tournant politique dans le sens d’une résistance à l’occupation, contournant par là les idées anciennes et traditionnelles en fonction desquelles il convient de penser avant tout à l’islamisation de la société. Les autres relèvent de l’école classique des Frères musulmans : “préparer les générations” à une bataille dont la date précise n’est toutefois pas fixée. Avec l’éruption de l’intifada, les tenants de la ligne dure gagnent du terrain, arguant des répercussions très négatives sur le mouvement si les islamistes ne participent pas clairement au soulèvement, sur un même plan que les autres organisations palestiniennes qui y prennent part. »

    Acculé par son « rival plus petit et plus actif », le Jihad islamique, « une organisation de même type – et non pas nationaliste ou de gauche », poursuit Khaled Hroub, le Hamas a fini par accélérer sa transformation interne.

    La transformation de la branche palestinienne des Frères musulmans en Mouvement de la résistance islamique n’est pas allée de soi, et les discussions ont été vives avant que le sheikh Yassin, tout frêle qu’il soit dans son fauteuil roulant de paralytique, ne l’emporte. Une partie des membres tenaient en effet à rester sur la ligne frériste : transformer la société par le prêche, l’éducation et le social. Le nationalisme n’a pas droit de cité dans cette conception, c’est la communauté des croyants qui compte. Le Hamas, lui, rajoute à l’islam politique une dimension nationaliste.

    Sa charte, 36 articles en cinq chapitres, rédigée en 1988, violemment antisémite, est sans équivoque : le Hamas appelle au djihad (guerre sainte) contre les juifs, à la destruction d’Israël et à l’instauration d’un État islamique palestinien. Vingt-neuf ans plus tard, en 2017, une nouvelle charte est publiée sans annuler celle de 1988. Le Hamas accepte l’idée d’un État palestinien limité aux frontières de 1967, avec Jérusalem pour capitale et le droit au retour des réfugié·es, et dit mener un combat contre « les agresseurs sionistes occupants » et non contre les juifs.

    En 1991, la branche du Hamas consacrée au renseignement devient une branche armée, celle des Brigades Izz al-Din al-Qassam. À partir d’avril 1993, l’année des accords d’Oslo signés entre l’OLP (Organisation de libération de la Palestine) de Yasser Arafat et l’État hébreu, que le Hamas a rejetés estimant qu’il s’agissait d’une capitulation, les Brigades Izz al-Din al-Qassam mènent régulièrement des attaques terroristes contre les soldats et les civils israéliens pour faire échouer le processus de paix. Pendant des années, elles privilégient les attentats-suicides, avant d’opter à partir de 2006 pour les tirs de roquettes et de mortiers depuis Gaza.

    Ces dernières années, le Hamas, critiqué pour sa gestion autoritaire de la bande de Gaza, sa corruption, ses multiples violations des droits humains (il a réprimé en 2019 la colère de la population exténuée par le blocus israélien), était réputé en perte de vitesse, mis face à l’usure du pouvoir.
    Prise de pouvoir de la branche militaire

    Son offensive meurtrière par la terre, les airs et la mer du samedi 7 octobre – cinquante ans, quasiment jour pour jour, après le déclenchement de la guerre de Kippour et à l’heure des accords d’Abraham visant à normaliser les relations entre Israël et plusieurs pays arabes sur le dos des Palestiniens et sous pression des États-Unis – le replace en première ligne. Elle révèle sa nouvelle puissance ainsi qu’un savoir-faire jusque-là inédit dans sa capacité de terrasser l’une des armées les plus puissantes de la région et d’humilier le Mossad et le Shin Bet, les tout-puissants organes du renseignement extérieur et intérieur israélien.

    Elle révèle aussi le pouvoir pris par la branche militaire sur la branche politique d’un mouvement sunnite qui serait fort d’une mini-armée, dotée d’environ 40 000 combattants et de multiples spécialistes, notamment en cybersécurité, selon Reuters. Un mouvement qui peut compter sur ses alliés du « Front de la résistance » pour l’équiper : l’Iran, la Syrie et le groupe islamiste chiite Hezbollah au Liban, avec lesquels il partage le rejet d’Israël.

    Sur les plans militaire, diplomatique et financier, l’Iran chiite est l’un de ses principaux soutiens. Selon un rapport du Département d’État américain de 2020, cité par Reuters, l’Iran fournit environ 100 millions de dollars par an à des groupes palestiniens, notamment au Hamas. Cette aide aurait considérablement augmenté au cours de l’année écoulée, passant à environ 350 millions de dollars, selon Reuters.

    Le Hamas n’est pas seulement un mouvement politique et une organisation combattante, c’est aussi une administration. À ce titre, il lève des impôts et met en place des taxes sur tout ce qui rentre dans la bande de Gaza, soit légalement, par les points de passage avec Israël et avec l’Égypte, soit illégalement. Les revenus qu’il perçoit ainsi sont estimés à près de 12 millions d’euros par mois. Ce qui est peu, finalement, car cette administration doit payer ses fonctionnaires et assurer un minimum de protection sociale, sous forme d’écoles, d’institutions de santé, d’aides aux plus défavorisés. Il est en cela aidé par le Qatar sunnite, avec l’aval du gouvernement israélien. L’émirat a ainsi versé 228 millions d’euros en 2021 et cette somme devait être portée à 342 millions en 2021.

    Le Hamas figurant sur les listes américaine et européenne des mouvements soutenant le terrorisme, le système bancaire international lui est fermé. Aussi, quand cette aide est mise en place, en 2018, ce sont des valises de billets qui arrivent, en provenance du Qatar, à l’aéroport de Tel Aviv et prennent ensuite la route de Gaza où elles pénètrent le plus officiellement du monde. Par la suite, les opérations seront plus discrètes.

    Plus discrets, aussi, d’autres transferts à des fins moins avouables que le paiement du fuel pour la centrale électrique ou des médicaments pour les hôpitaux. Ceux-là arrivent jusqu’au Hamas par des cryptomonnaies. Même si les relations avec l’Iran sont moins bonnes depuis que le Hamas a soutenu la révolution syrienne de 2011, la république islamique reste encore le principal financier de son arsenal, de l’aveu même d’Ismail Hanniyeh. Le chef du bureau politique du Hamas, basé à Doha, a affirmé en mars 2023 que Téhéran avait versé 66 millions d’euros pour l’aider à développer son armement.

    Le Qatar accueille également plusieurs des dirigeants du Hamas. Quand ils ne s’abritent pas au Liban ou dans « le métro » de Gaza, ce dédale de tunnels creusés sous terre depuis l’aube des années 2000, qui servent tout à la fois de planques et d’usines où l’on fabrique ou importe des armes, bombes, mortiers, roquettes, missiles antichar et antiaériens, etc.

    Pour les uns, le Hamas a enterré la cause palestinienne à jamais le 7 octobre 2023 et est le meilleur ennemi des Palestinien·nes. Pour les autres, il a réalisé un acte de résistance, de libération nationale face à la permanence de l’occupation, la mise en danger des lieux saints à Jérusalem, l’occupation en Cisjordanie. « Quand il s’agit de la cause palestinienne, tout mouvement se dressant contre Israël est considéré comme un héraut, quelle que soit son idéologie », constate Mohamed al-Masri, chercheur au Centre arabe de recherches et d’études politiques de Doha, au Qatar, dans un entretien à Mediapart.

    Samedi 7 octobre, c’est Mohammed Deif qui a annoncé le lancement de l’opération « Déluge d’al-Aqsa » contre Israël pour « mettre fin à tous les crimes de l’occupation ». Le nom n’est pas choisi au hasard. Il fait référence à l’emblématique mosquée dans la vieille ville de Jérusalem, symbole de la résistance palestinienne et troisième lieu saint de l’islam après La Mecque et Médine, d’où le prophète Mahomet s’est élevé dans le ciel pour rencontrer les anciens prophètes, dont Moïse, et se rapprocher de Dieu.

    Mohammed Deif est l’ennemi numéro un de l’État hébreu, le cerveau de ce qui est devenu « le 11-Septembre israélien » : il est le commandant de la branche armée du Hamas. Surnommé le « chat à neuf vies » pour avoir survécu à de multiples tentatives d’assassinat, Mohammed Diab Ibrahim al-Masri, de son vrai nom, serait né en 1965 dans le camp de réfugié·es de Khan Younès, dans le sud de la bande de Gaza. Il doit son surnom de « Deif » – « invité » en arabe – au fait qu’il ne dort jamais au même endroit.

    Il a rejoint le Hamas dans les années 1990, connu la prison israélienne pour cela, avant d’aider ensuite à fonder la branche armée du Hamas dans les pas de son mentor qui lui a appris les rudiments des explosifs, Yahya Ayyash. Après l’assassinat de ce dernier, il a pris les rênes des Brigades Al-Qassam. Israël peut détruire l’appareil du Hamas, avec des assassinats ciblés. D’autres se tiennent prêts à prendre la relève dans l’ombre des maîtres. Deif en est un exemple emblématique.

    « Le Hamas a été promu en sous-main par Nétanyahou, rappelle dans un entretien à Mediapart l’écrivain palestinien et ancien ambassadeur de la Palestine auprès de l’Unesco, Elias Sanbar. J’ai le souvenir, tandis qu’Israël organisait un blocus financier à l’encontre du Fatah et de l’Autorité palestinienne, que les transferts d’argent au Hamas passaient alors par des banques israéliennes ! La créature d’Israël s’est retournée contre lui. Entre-temps, elle s’est nourrie des échecs de l’Autorité palestinienne, dont les représentants sont accusés d’être des naïfs, sinon des traîtres, partant depuis 1993 dans des négociations avec Israël pour en revenir toujours bredouilles. »

    –—

    Sur la charte de 1988 et le document de 2017

    La charte du Hamas, publiée en 1988 (il existe une traduction du texte intégral réalisée par le chercheur Jean-François Legrain, spécialiste du Hamas), reprend les antiennes antisémites européennes. Elle définit le Hamas comme « un des épisodes du djihad mené contre l’invasion sioniste » et affirme notamment que le mouvement « considère que la terre de Palestine [dans cette acceptation Israël, Cisjordanie et bande de Gaza – ndlr] est une terre islamique de waqf [mot arabe signifiant legs pieux et désignant des biens inaliénables dont l’usufruit est consacré à une institution religieuse ou d’utilité publique – ndlr] pour toutes les générations de musulmans jusqu’au jour de la résurrection. Il est illicite d’y renoncer tout ou en partie, de s’en séparer tout ou en partie ».

    Dans son livre Le Grand aveuglement, sur les relations parfois en forme de pas-de-deux, entre les dirigeants israéliens successifs et le Hamas, Charles Enderlin cite de nombreux rapports du Shabak, service de renseignement intérieur de l’État hébreu. Dont celui-ci, dans la foulée de la diffusion de la charte de 1988 : « Le Hamas présente la libération de la Palestine comme liée à trois cercles : palestinien, arabe et islamique. Cela signifie le rejet absolu de toute initiative en faveur d’un accord de paix, car : “Renoncer à une partie de la Palestine équivaut à renoncer à une partie de la religion. La seule solution au problème palestinien c’est le djihad”. »

    Dans la lignée de ce texte, le Hamas, qui n’appartient pas à l’Organisation de Libération de la Palestine (OLP), dont fait partie le Fatah, parti de Yasser Arafat, rejette évidemment les Accords d’Oslo et toutes les phases de négociations.

    Au fil des années cependant se feront jour des déclarations plus pragmatiques. Le sheikh Yassin lui-même a, avant son assassinat par Israël en 2004, affirmé à plusieurs reprises que le Hamas était près à une hudna (trêve) avec l’État hébreu, laissant aux générations futures le soin de reprendre, ou non, le combat.

    La participation du Hamas aux élections législatives de 2006 est considérée comme une reconnaissance informelle et non dite de l’État d’Israël. Le Hamas accepte en effet un scrutin qui se déroule sur une partie, et une partie seulement, de la Palestine historique, celle des frontières de 1967, ceci en contradiction avec la charte de 1988.

    Dans une longue et savante analyse, l’historien Jean-François Legrain, reconnu comme un des meilleurs spécialistes français du Hamas, explique que la charte de 1988, écrit par un individu anonyme, n’a pas fait consensus dans les instances dirigeantes du Hamas. Elle était très peu citée par ses cadres. Ce qui ne signifie pas que des responsables du Hamas ne tenaient pas des discours antisémites. Lors d’une interview en 2009, Mahmoud al-Zahar, alors important responsable du Hamas dans la bande de Gaza, défendait la véracité du Protocole des sages de Sion, cité dans la charte de 1988.

    Au cours de la décennie qui suit sa victoire aux élections législatives puis sa guerre fratricide avec le Fatah, le Hamas, maître désormais de la bande de Gaza, montrera qu’il ne renonce pas à la lutte armée : s’il semble avoir renoncé aux attentats-suicides, si nombreux de 1993 à 1996 puis entre 2001 et 2005, il lance régulièrement des roquettes Qassam, du nom de sa branche militaire, en direction du territoire israélien.

    Ce sont les civils qui en paient le prix, avec des guerres lancées contre la bande de Gaza en 2008, 2012, 2014 et 2021. Le Hamas, sans abandonner la lutte armée, adopte en 2017 un Document de principes et de politique généraux qui semble aller contre les principes de la charte de 1988. Il ne s’agit plus de lutter contre les Juifs, mais contre les sionistes : « Le Hamas affirme que son conflit porte sur le projet sioniste et non sur les Juifs en raison de leur religion. Le Hamas ne mène pas une lutte contre les Juifs parce qu’ils sont juifs, mais contre les sionistes qui occupent la Palestine » (article 16). Plus remarqué encore, l’acceptation des frontières de 1967 : « Le Hamas rejette toute alternative à la libération pleine et entière de la Palestine, du fleuve à la mer. Cependant, sans compromettre son rejet de l’entité sioniste et sans renoncer à aucun droit palestinien, le Hamas considère que la création d’un État palestinien pleinement souverain et indépendant, avec Jérusalem comme capitale, selon les lignes du 4 juin 1967, avec le retour des réfugiés et des personnes déplacées dans leurs foyers d’où ils ont été expulsés, est une formule qui fait l’objet d’un consensus national » (article 20).

    La charte de 1988 n’est pour autant pas caduque, explique à la chercheuse Leila Seurat Khaled Mechaal, un des membres fondateurs du Hamas : « Le Hamas refuse de se soumettre aux désidératas des autres États. Sa pensée politique n’est jamais le résultat de pressions émanant de l’extérieur. Notre principe c’est : pas de changement de document. Le Hamas n’oublie pas son passé. Néanmoins la charte illustre la période des années 1980 et le document illustre notre politique en 2017. À chaque époque ses textes. Cette évolution ne doit pas être entendue comme un éloignement des principes originels, mais plutôt comme une dérivation (ichtiqaq) de la pensée et des outils pour servir au mieux la cause dans son étape actuelle. »

    Le nouveau document maintient, de toute façon, la lutte armée comme moyen de parvenir à ses fins.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/161023/aux-origines-de-l-histoire-complexe-du-hamas
    #à_lire
    #complexité #Palestine #Israël #Intifada #Gaza #bande_de_Gaza #Daech #Fatah #blocus #lutte_armée #frères_musulmans #nationalisme #islam_politique #djihad #Brigades_Izz al-Din_al-Qassam #terrorisme #corruption #droits_humains #droits_fondamentaux #Iran #Qatar #armes #armement #tunnels #occupation #résistance #libération_nationale #Déluge_d’al-Aqsa #7_octobre_2023 #Mohammed_Deif #Yahya_Ayyash #Brigades_Al-Qassam #Autorité_palestinienne

  • “Un nettoyage ethnique en Palestine” – Kaoutar harchi & joseph andras
    https://www.frustrationmagazine.fr/nettoyage-ethnique-palestine

    Un nettoyage ethnique a cours sous nos yeux. Ne pas le dire c’est y prendre part. Chaque silence vaut blanc-seing. Chaque fausse parole aussi. Écoutons Catherine Colonna, ministre française de l’Europe et des Affaires étrangères : « Israël a le droit de se défendre face à la monstruosité du Hamas et du danger qu’il représente. Sa réponse […]

  • Sortir de l’enfer - La méridienne
    https://www.la-meridienne.info/spip.php?article22

    « Pourquoi une bombe lâchée sur un immeuble de Gaza, ça ne te fait rien ?, demandait l’autre jour une amie arabe à un Français de son entourage bouleversé, à juste titre, par l’attaque du Hamas, mais totalement indifférent au reste. Tu crois que c’est plus doux ? » C’est une vraie question.

    « D’une manière globale, je trouve que l’international est de moins en moins présent dans les discours de gauche. Chez les jeunes générations, l’internationalisme n’est pas toujours une évidence comme il l’était pour des générations plus anciennes », disait récemment la députée de La France insoumise Clémentine Autain à Mediapart, à propos d’une autre cause : la cause arménienne. C’est une explication possible. Mais on voit aussi (et ici je demande pardon à mes lecteur-ices concerné-es pour la brutalité du constat, même si je me doute que je ne leur apprends rien) les effets de longues années de déshumanisation et de diabolisation des musulman-es. Lentement mais sûrement, l’islamophobie et ses innombrables relais ont fait leur office, ils ont émoussé les sensibilités.

  • « Le sermon que je ne voulais pas écrire », Delphine Horvilleur, 24 septembre 2023

    « Méfiez-vous de la puissance quand elle vous mène simplement à vouloir écraser l’autre »

    Deux semaines avant les attaques du #Hamas en #Israël, Delphine Horvilleur a prononcé, à Paris, un discours à l’occasion de la fête juive de Yom Kippour. « Inquiète », comme elle le relate dans un entretien au Monde pris après les attentats du 7 octobre, de l’évolution politique du pays, mené par un gouvernement d’extrême_droite, la rabbine avait décidé d’évoquer dans son sermon_ « cette question politique, cette menace qui pèse sur Israël, dans son illusion de toute-puissance ». « L’Etat d’Israël, né sur les cendres de la Shoah, a promis aux juifs du monde qu’il y aurait toujours une force à leurs côtés, que c’en était fini de leur absolue vulnérabilité_, précise-t-elle dans cet entretien. La menace quasi permanente pour sa survie ces soixante-quinze dernières années n’a fait que renforcer ce narratif de force qui a gonflé, gonflé, jusqu’à exploser partiellement aujourd’hui. »« D’une certaine manière, poursuit-elle, Israël vient de reprendre conscience de la faille et de la vulnérabilité qui ont été une constante de l’histoire juive. Lorsque j’ai écrit mon sermon de Kippour, il y a trois semaines, je n’imaginais pas à quel point il allait trouver une résonance presque immédiate. » Nous donnons ici à lire les principaux extraits de son discours.

    Peut-être que je dois commencer ce sermon de Kippour en vous demandant « pardon ». Pas simplement parce que c’est le jour du grand pardon, mais pour une raison plus simple, que je pourrais énoncer en une seule phrase : « J’ai essayé, vraiment essayé de ne pas écrire le sermon que vous vous apprêtez à entendre. Mais je n’y suis pas arrivée. »
    Je me suis dit, encore et encore, que ce n’était pas une bonne idée, ­ que je ferais mieux de parler d’autre chose, qu’on risquait de se fâcher… (…)
    Chers amis, ce soir, jour solennel de Yom Kippour dans lequel nous entrons, nous sommes précisément à une date anniversaire, connue de tous. Il y a cinquante ans, jour pour jour, à l’office de Kol Nidré 1973, allait débuter dans quelques heures la terrible guerre qui porterait pour toujours le nom de cette journée solennelle : la guerre de Kippour. (…)

    Vous me voyez venir, avec mes gros sabots (ou, devrais-je dire, ma grosse artillerie) : ces derniers jours, en réfléchissant à l’écriture de ce sermon, il m’a semblé que je n’avais pas le choix et que ce soir, je devais vous parler d’Israël… vous parler de cette douleur que beaucoup d’entre nous ressentent aujourd’hui face à la crise terrible que ce pays traverse, la polarisation extrême qui a porté au pouvoir un gouvernement et des ministres d’#extrême droite, un #messianisme_ultranationaliste et, face à cela, pour la 38e semaine d’affilée, des centaines de milliers de personnes dans la rue pour dire leur inquiétude (et c’est un euphémisme) pour la démocratie, leur inquiétude face à la montée du fanatisme religieuse, de la violence politique, la menace pour le droit des femmes, la montée du fondamentalisme qui fait soudain exiger qu’elles se couvrent dans la rue ou s’assoient au fond du bus, qui pousse d’autres à tolérer ou à couvrir la violence de jeunes juifs contre des villages arabes, des attaques contre des minorités. Et la montée de discours de suprématie ou de violences contre la diversité religieuse, contre des sensibilités juives non orthodoxes. Et la remise en question des institutions judiciaires dans leur rôle de contre-pouvoir, la multiplication d’arguments populistes ou de revendications ultraorthodoxes.

    Bien sûr, nous sommes nombreux à regarder cela avec angoisse, mais aussi avec la force de tout notre attachement et de notre amour pour ce pays et, pour beaucoup d’entre nous, avec la conviction de notre sionisme qui, soudain, peine à se retrouver dans le discours de ceux qui revendiquent ce même amour d’Israël ou du sionisme pour un projet aux antipodes de nos aspirations.

    Je sais par cœur et je connais toutes les résistances et les mises en garde, exprimées par les uns et les autres contre ceux qui expriment depuis la diaspora leur critique du gouvernement israélien. (…)
    Pourtant, chers amis, et bien que connaissant tous ces arguments, je me tiens devant vous en cet instant solennel, convaincue que, plus que jamais et peut-être particulièrement ce soir, il nous faut en parler. (…)
    Il y a cinquante ans tout juste, Israël encore grisé par les succès miraculeux de la guerre des Six jours, les territoires conquis et la force de son armée, ne s’attendait pas à se percevoir vulnérable, à se trouver désemparé.
    A la frontière égyptienne, les combats faisaient rage et, soudain, un homme inattendu a surgi. Il était venu rendre visite aux troupes. Je ne sais pas si vous connaissez l’histoire de cette visite, mais vous connaissez forcément cet individu. Il s’appelait Leonard Cohen. Le célèbre chanteur Leonard Cohen a accompagné sur le terrain les troupes israéliennes. Et c’est là que l’homme qui écrira près de dix ans plus tard son célébrissime Hallelujah, a composé un autre air que vous connaissez sans doute. Cette chanson qu’il a écrite pendant la guerre de Kippour, s’appelle Who By Fire ?

    Elle dit en substance : « Who by fire ? » qui périra par le feu, et qui périra par l’eau, qui mourra en plein jour et qui une fois la nuit tombée, qui mourra de faim et qui de soif, et la chanson lancinante dit encore et encore. « Who shall I say is calling ? » ce qui signifie en anglais (canadien) « qui dois-je annoncer ? ».
    Mais ces paroles, beaucoup d’entre vous les connaissent même s’ils n’ont jamais entendu cette chanson de Leonard Cohen (…) Car ces mots, à peine retouchés, sont tirés du livre que vous tenez entre les mains. (…)
    Dans la prière solennelle du Ounetane Tokef, il est écrit : « A Rosh ha-shana, l’arrêt est prononcé et à Yom Kippour, il est scellé ». Et la liturgie hébraïque poursuit ainsi : Mi yihie ou miyamout, comme dans la chanson de Cohen, « qui va vivre et qui va mourir ? » ; Mi bamayim ou mibaesh etc. etc. « qui par le feu ? et qui par l’eau ? qui en son temps et qui bien avant l’heure prévue ? etc. »
    Vous le comprenez maintenant : pendant la guerre de Kippour, Leonard Cohen assiste aux combats terribles sur les champs de bataille. Il va alors aller puiser dans la liturgie de Kippour pour écrire l’une des plus belles chansons de son répertoire, une réflexion sur la vulnérabilité, sur la mortalité et la finitude de notre condition humaine. (…)
    Quel rapport tout cela a-t-il avec la question d’Israël, la crise qu’il traverse et le mal-être que beaucoup d’entre nous perçoivent aujourd’hui ? (…)
    Nous entrons dans les « jours redoutables » pendant la lecture à la synagogue du livre du Deutéronome, dernier livre du Pentateuque, qu’on appelle parfois le « testament de Moïse ». (…) Et nos sages nous disent : assure-toi de faire dialoguer le message du Deutéronome avec les jours redoutables.
    Que dit donc ce livre ? C’est un message que Moïse adresse aux Hébreux, au peuple réuni au seuil de la terre promise ou ils s’apprêtent à entrer. Moïse sait, à cet instant du récit, que lui n’entrera pas en Israël : il est un homme de la Diaspora, il est né en Egypte et il mourra dans le désert. Il ne posera jamais le pied en terre promise. Mais il adresse dans ce livre des recommandations, des mises en garde, depuis la Diaspora aux hommes et aux femmes qui s’apprêtent à s’y installer.

    Bien sûr ces hommes et ces femmes devront être forts et combattre, et lutter et mener des guerres pour s’installer, mais ce n’est pas le message que Moïse leur délivre. A la place, il va, encore et encore, insister sur trois idées, ce qu’on pourrait appeler « la leçon du Deutéronome ».
    Moïse dit aux Hébreux : « Viendra un jour où vous serez tranquillement installés sur cette terre. Viendra un jour où vous aurez une souveraineté sur ce territoire et, à ce moment-là, plusieurs choses vont vous arriver. »

    « D’abord, dit Moïse, quand vous serez propriétaires terriens, vous devrez absolument récolter les premiers fruits de vos champs et, immédiatement, les apporter au Grand Prêtre, les lui donner et vous en déposséder. Et vous devrez alors dire : mon ancêtre était un migrant, arami oved avi. »

    Etrange phrase de sédentaire, n’est-ce pas ? étrange façon de célébrer sa récolte que de s’en débarrasser.

    Mais ce n’est pas tout.

    Deuxième message du livre du Deutéronome, Moïse dit aux Hébreux : « Viendra un jour où vous serez installés sur cette terre. Et vous aurez soudain envie de placer à votre tête un roi, un chef, un leader, exactement comme le font les autres nations. Assurez-vous alors, poursuit Moïse, que ce roi ne soit pas trop arrogant. Assurez-vous qu’il n’ait en sa possession ni trop d’argent ni trop de femmes ni trop de chevaux. »
    (…)

    Et puis, troisième mise en garde du livre du Deutéronome, et celle-là ne cesse d’être répétée, Moïse dit aux Hébreux : « Il arrivera qu’installés sur votre terre, vous deveniez idolâtres, et que vous rendiez un culte à d’autres divinités locales. » Ces divinités cananéennes, dans le livre du Deutéronome, portent un nom particulier. On les appelle les Bealim. Le culte de Baal est le service d’un dieu cananéen. Oui mais voilà, ce mot, en hébreu, signifie autre chose : « Baal » signifie « propriétaire ». Le culte de baal, en hébreu, est donc littéralement le culte de la possession, de la propriété.

    Je m’arrête là un instant pour m’assurer que vous entendiez résonner les mots, qui ne sont pas les miens, mais ceux du livre que nous lisons actuellement dans toutes les synagogues, ces mots qui doivent être lus chaque année, avant d’entrer dans Kippour. Le peuple aux portes de la terre promise et nous, aux portes des jours redoutables, nous devons entendre les mêmes choses :

    – Toute souveraineté s’accompagne de menaces, tout simplement parce que toute force et toute installation s’accompagne de menaces : la menace de se croire propriétaire, la menace d’idolâtrer la possession, ou la force militaire, ou la puissance financière, ou le culte du chef…

    – Et puis, Moïse enseigne, de façon paradoxale et puissante, que la première chose que peut faire un propriétaire sur la terre est d’être prêt à renoncer à une partie à sa propriété, de donner un peu des fruits de son champ, et de se souvenir de sa migration, c’est-à-dire de sa fragilité et de tout ce que ses ancêtres n’ont pas possédé.

    Et tandis que je lis ces textes, semaine après semaine à la synagogue, je ne cesse de penser à ce qui déchire aujourd’hui le peuple d’Israël et ce pays qui nous est si cher. La façon dont, pour certains, il faut le reconnaître, le sionisme est devenu synonyme de pouvoir, de puissance, de propriété, et la façon dont un parti d’extrême droite, aujourd’hui aux commandes de postes-clé, s’est donné un nom étrange : le parti d’Itamar Ben Gvir s’appelle Otzma Yehudit, « la puissance juive ». Mais de quelle puissance est-il question ? où nous mènera-t-elle exactement dans l’Histoire ?

    Et voilà comment des leaders politiques affirment aujourd’hui représenter les valeurs juives, défendre un Etat juif, quitte à ce qu’il ne soit pas démocratique, en habillant leur judaïsme de noms ou de discours qu’on pourrait aisément qualifier de problématiques pour une certaine sagesse juive biblique ou rabbinique. Une sagesse de la vulnérabilité et une conscience d’un dialogue nécessaire, en nous, entre puissance et impuissance.

    Et je sais ce que certains pensent ici, ou diront sans doute : Israël est menacé, et n’a peut-être pas le luxe d’être impuissant, faillible et vulnérable. Il se doit d’être fort et engagé dans un combat de survie depuis des décennies… Certes et pourtant, par-delà cette menace extérieure, il en est une plus terrifiante encore, celle que nous a déjà enseignée l’Histoire.

    Car cette situation n’est pas sans précédent historique. A deux reprises déjà, les Juifs ont connu une souveraineté sur la terre d’Israël et ont dirigé une forme étatique, à savoir un pouvoir politique, une continuité territoriale, une armée, et tout ce qui construit une souveraineté pleine et entière.

    Petite leçon d’Histoire.

    Il y a près de trois mille ans, fut établie la toute première souveraineté juive en Israël : une continuité territoriale, une armée, un chef on ne peut plus connu. Ce roi s’appelle David et, après avoir vaincu Goliath, il instaure un royaume qui unit les territoires de Judée et d’Israël, et il fait de Jérusalem sa capitale. David règne trente-trois ans sur Jérusalem, son fils Salomon prend sa suite et assoit son pouvoir pendant quarante ans. Le royaume est puissant. Le fils de Salomon, un certain Rehovoam prendra la suite du leadership – c’est la troisième génération à connaître le pouvoir et l’installation. Sous son règne, les tribus d’Israël se déchirent, le peuple s’affronte… Et voilà qu’en l’espace de deux ans, deux ans seulement, les royaumes de Juda et d’Israël deviennent ennemis et se séparent l’un de l’autre. Fin de la première souveraineté juive sur le territoire complet. Se sont écoulés seulement soixante-quinze ans.

    Mille ans plus tard environ, s’érige une deuxième souveraineté juive : les rois Hasmonéens règnent sur le pays, les héritiers des Maccabim et de l’histoire de Hanouka. Cette monarchie fondée en – 140 de notre ère installa une pleine souveraineté, riche et puissante. Elle durera jusqu’en – 63 lorsque, après des combats internes de la population juive, Pompée et les Romains prennent le pouvoir sur Jérusalem. Fin de la souveraineté ; soixante-dix-sept ans se sont écoulés.

    Et il faudra attendre 1948 pour qu’une troisième souveraineté voit le jour, celle de l’Etat d’Israël que nous connaissons.

    Mais écoutez résonner ces chiffres terrifiants : la première souveraineté a duré soixante-quinze ans, et la deuxième aussi, à deux ans près.
    Et voilà que la troisième est rongée aujourd’hui par les mêmes affrontements, de mêmes fanatismes qui surgissent, des visions du monde, du judaïsme et du sionisme qui ne parviennent à se réconcilier. Et voilà qu’Israël a 75 ans, l’âge où toutes les souverainetés précédentes se sont effondrées. Existe-t-il une malédiction ? Sommes-nous tragiquement condamnés à répéter un scénario catastrophique ? (…)

    Pardon. Je voulais tant ne pas écrire le sermon que je viens de prononcer. Mais je n’y suis pas arrivée. Je crois qu’un défi nous est posé à tous aujourd’hui. A ceux, bien sûr, qui vivent là-bas et qui doivent trouver comment vivre ensemble, mais aussi à nous qui vivons loin de là, qui avons l’avenir d’Israël à cœur, et qui avons le devoir, me semble-t-il de faire résonner la voix du Deutéronome, celle de Moïse qui, depuis la #Diaspora, s’adresse à un peuple en chemin vers l’installation.

    Et peut-être lui dire, hors de l’Etat d’Israël : « Il arrivera qu’une fois installé sur ta terre, tu te croies fort mais que, soudain, tu perçoives tes brisures… il arrivera que résonnent des voix apparemment irréconciliables, des tribus qui se détestent et aspirent à se séparer, et tu devras alors, plus que tout, chérir non pas la force mais la faille, non pas chercher l’unité, mais respecter les voix dissonantes qui résonnent en ton sein et qui pourront encore trouver un chemin de dialogue. »

    C’est ce même enseignement qu’à sa manière, un homme nommé Leonard Cohen, qui n’était pas combattant de l’armée israélienne, est venu faire résonner aux oreilles de soldats sur un champ de bataille, il y a cinquante ans. Soyez conscients de votre force, mais aussi de votre fragilité.

    Méfiez-vous de la puissance quand elle vous mène simplement à vouloir écraser l’autre. (…)

    Bien plus tard, ce même chanteur écrira un extraordinaire Hallelujah et bien d’autres chansons qui sont, à mon sens, de véritables prières…. Une d’entre elles dit la chose suivante : « There is a crack in everything, that’s how the light gets in… », « il y a une brisure dans chaque chose, mais c’est là que la lumière se faufile ».

    Au cœur de l’obscurité de la nuit de Kippour, au cœur de l’obscurité du monde qui nous entoure, assurons-nous où que nous nous trouvions de laisser un peu de lumière nous traverser, traverser nos doutes et nos convictions.

    Puissions-nous être inscrits dans le Livre de la vie.

    https://www.lemonde.fr/le-monde-des-religions/article/2023/10/15/le-sermon-que-je-ne-voulais-pas-ecrire-par-delphine-horvilleur_6194572_60385

    #disapora

  • Israël : Ursula von der Leyen, la bourde permanente – Libération
    https://www.liberation.fr/international/europe/israel-ursula-von-der-leyen-la-bourde-permanente-20231015_24YINO2VDZAH3G4
    https://www.liberation.fr/resizer/MMUWd9MAXfdvJT6EEeCWbZCht0U=/1200x630/filters:format(jpg):quality(70):focal(3450x1227:3460x1237)/cloudfront-eu-central-1.images.arcpublishing.com/liberation/IKSQQKWC2FDSHH5IGRFMLSQ62Q.jpg

    Lors de sa visite improvisée en soutien à Israël vendredi 13 octobre, la présidente de la Commission européenne a largement dépassé ses fonctions, sans aucun mandat des Vingt-Sept.

    Si quelqu’un a la suite de l’article ?

    • l’Europe « hongroise »

      #Benyamin_Nétanyahou n’en a sans doute pas cru ses oreilles lorsqu’#Ursula_von_der_Leyen a proclamé, urbi et orbi, à l’issue de leur rencontre à Tel-Aviv, vendredi 13 octobre, qu’#Israël avait « le droit » et « même le devoir de défendre et de protéger sa population » après l’attaque terroriste des islamistes du #Hamas. C’est peu dire que les capitales européennes, mais aussi les responsables communautaires soigneusement tenus à l’écart, se sont étranglés de fureur en découvrant ces propos qui ne reflètent que « la sensibilité personnelle » de Von der Leyen, selon les mots d’un ambassadeur, et absolument pas la position de l’Union, la présidente de la Commission n’ayant aucune compétence en matière de politique étrangère. Mais le mal est fait : pour l’ensemble du monde, et notamment le monde arabe, peu au fait des subtilités de l’architecture institutionnelle communautaire, l’#UE a proclamé son alignement sans réserve sur un gouvernement israélien dirigé par un boutefeu de droite radicale engagé dans une opération de représailles sanglantes. D’autant que ce dérapage intervient après la tentative de la Commission de suspendre l’aide européenne aux #Palestiniens en début de semaine [revirement : vu les besoins actuels tout à faits... croissants, l’aide a depuis été multipliée par 5 -humanitaire only ?, l’UE ayant pour habitude de financer des pansements de la destructice politique israélienne, ndc]. Un cauchemar diplomatique.

      Pis encore, l’ancienne ministre allemande de la Défense n’a manifesté aucune compassion pour les civils palestiniens pris dans la tourmente de cette guerre éternelle [c’est Jean Quatremer..., ndc]. Elle s’est même abstenue de tout appel à la retenue dans la riposte, comme l’ont [très vaguement, ndc] fait les Etats-Unis [qui outre de nouvelles livraison d’armes à Israël, envoient un 2eme porte avions et préparent des forces d’élite en appui, officiellement pour dissuader Hezbollah et Iran, ndc] alors que le nombre de morts et de blessés ne cesse d’augmenter dans la bande de Gaza. « Je souscris pleinement à votre appel au Hamas pour qu’il libère immédiatement tous les otages et qu’il renonce totalement à prendre des civils comme boucliers, ce que le Hamas fait constamment », a-t-elle affirmé, rendant ainsi implicitement responsable des morts à venir le seul Hamas qui « constitue une menace non seulement pour Israël, mais aussi pour le peuple palestinien ».

      A #Bruxelles, #Eric_Mamer, le porte-parole de la Commission ou de Nétanyahou – on ne sait plus trop –, en a remis une couche sur les propos guerriers de sa patronne en expliquant à quel point #Tsahal respecte le #droit_humanitaire : « Les civils doivent être prévenus et alertés de l’imminence des opérations militaires, ce qui leur permet de partir. C’est ce que fait Israël. » Bien sûr, si le Hamas « empêche les gens de partir et les utilise comme bouclier humain », ça ne sera pas bien, mais que peut-on y faire ? Fermez le ban !

      Plantage

      Le problème est qu’Ursula von der Leyen a franchi une ligne rouge en interférant ainsi dans la politique étrangère de l’Union et dans celle des Etats membres . En effet, elle s’est non seulement rendue en Israël sans aucun mandat des Vingt-Sept, mais sans prévenir qui que ce soit [et pourtant, elle n’est pas hongroise, ndc] : Josep Borrell, le chef de la diplomatie de l’Union, et Charles Michel, le président du Conseil européen des chefs d’Etat et de gouvernement, les deux seules personnes ayant des compétences dans le domaine de la politique étrangère, ont appris son déplacement par des rumeurs puis par la presse. Selon nos informations, Von der Leyen, apprenant que la Maltaise Roberta Metsola, la présidente du Parlement européen, allait se rendre en Israël à l’invitation de la Knesset, s’est imposée dans son avion…

      Le téléphone a manifestement chauffé au rouge entre les capitales et Bruxelles. Samedi en fin d’après-midi, elle a donc annoncé que l’UE allait augmenter son aide humanitaire de 50 millions d’euros, et a enfin fait un peu de diplomatie : « La Commission soutient le droit d’Israël de se défendre contre les terroristes du Hamas, [mais] dans le plein respect du droit humanitaire international. Nous mettons tout en œuvre pour que les civils innocents de Gaza reçoivent un soutien dans ce contexte. »

      Ce plantage de Von der Leyen n’est pas le premier, mais c’est sans aucun doute le plus monumental. Car, depuis le début de son mandat, elle se prend pour la présidente de l’Union, ce qu’elle n’est pas, et a donc lancé une OPA sur les compétences de Charles Michel et de Josep Borrell, qu’elle déteste (mais on se demande qui elle ne déteste pas). Elle n’a manifestement pas compris qu’il n’y a pas de politique étrangère autonome de la Commission et que l’Union n’a une politique étrangère que dans les domaines où il y existe un consensus, comme sur l’Ukraine, mais pas sur le Proche-Orient.

      Il faut cependant reconnaître que l’Espagne, qui n’a toujours pas de gouvernement, est largement responsable de ce cafouillage : dès le lendemain des massacres du 7 octobre, Madrid, qui exerce la présidence tournante du Conseil des ministres, aurait dû convoquer les 27 ambassadeurs de l’Union pour arrêter les grandes lignes de la réponse européenne. Ou un Conseil européen des chefs d’Etat et de gouvernement comme la présidence française l’a fait deux jours après le début de la guerre en Ukraine. Ce que l’#Espagne n’a pas fait, en dépit des demandes de plusieurs Etats membres, laissant ainsi la Commission libre de se livrer à des improvisations catastrophiques. Reste à savoir si les Etats s’en souviendront en juin, lorsqu’il faudra renouveler le mandat de Von der Leyen.

      #Europe (la phénicienne a mal tourné)

    • Le déplacement de von der Leyen en Israël provoque une nouvelle tempête au sein de l’UE
      https://www.lefigaro.fr/international/le-deplacement-de-von-der-leyen-en-israel-cree-une-nouvelle-tempete-au-sein

      « Je convoque un Conseil européen extraordinaire pour définir une position commune et une ligne d’action claire et unifiée ». Charles Michel a annoncé samedi soir une réunion en urgence des Vingt-Sept. Elle aura lieu mardi, en fin d’après-midi, par visio.

      C’est une réponse directe au récent déplacement d’Ursula von der Leyen en Israël. Sur place vendredi, lors de ses entretiens avec le premier ministre israélien Benyamin Netanyahou ni lors de ses prises de parole publique, la présidente de la Commission européenne n’avait pas évoqué la question brûlante de l’évacuation risquée de Gaza ordonnée par Israël et plus largement le devoir d’Israël de respecter le droit international, n’insistant que sur le droit de ce pays à répliquer aux « atrocités commises par le Hamas ».

    • @kassem l’article cité est de Ration. Outre celui du Figaro également cité, Les échos semble rester allusif (mais #paywall)
      Israël-Hamas : les Vingt-Sept cherchent à unifier leurs positions
      https://www.lesechos.fr/monde/europe/israel-hamas-les-vingt-sept-cherchent-a-unifier-leurs-positions-1987194

      https://media.lesechos.com/api/v1/images/view/652be35debce0a406947f8d7/1024x576-webp/0902817241173-web-tete.webp
      (c’est du webp... sur fond de mur ocre criblé d’impacts elle est entourée, l’air pincé, de gradés de Tsahal équipé et en gilets pare balle)

      Le 13 octobre, Les présidentes du Parlement européen et de la Commission européenne, Roberta Metsola et Ursula von der Leyen, se sont rendues en Israël pour une visite qui a créé la polémique. (Union Européenne/Hans Lucas/AFP)

      Le Président du Conseil européen convoque une réunion extraordinaire des leaders de l’UE pour mardi 17 octobre. Il s’agit d’envoyer un message commun qui resserre les rangs après une semaine de cacophonie.

      @arno la dame semble plutôt en campagne pour un deuxième mandat : Union européenne : la discrète entrée en campagne d’Ursula von der Leyen
      https://www.lemonde.fr/international/article/2023/04/22/union-europeenne-la-discrete-entree-en-campagne-d-ursula-von-der-leyen_61705

  • Seven days of terror that shook the world and changed the Middle East
    https://www.theguardian.com/world/2023/oct/14/seven-days-of-terror-that-shook-the-world-and-changed-the-middle-east

    Seven days of terror that shook the world and changed the Middle East Since dawn broke last Saturday, thousands have died and the political fallout has spread across the region. Observer reporters tell the full story of a week that began in blood and ends in fear. Source: The Guardian

    • The sun was spreading its rays across the desert in southern Israel last Saturday morning when sirens wailed and rockets thudded. But at an all-night festival at a kibbutz near the Gaza border, the sounds blended with the music and the people danced on.

      A few miles to the west, hundreds of Hamas forces had breached the hi-tech security fence that surrounds Gaza, a narrow strip of land blockaded by land, sea and air where 2.3 million Palestinians live mostly in misery and hardship.

      In unbelievable and deeply shocking scenes, armed men poured into Israel on motorbikes, trucks, bicycles and paragliders. Thousands of rockets were fired at towns and communities in southern Israel and as far away as the major cities of Tel Aviv and Jerusalem.

      Israeli families – parents, grandparents, teenagers and toddlers – rushed to bomb shelters and safe rooms. At the Supernova festival at Kibbutz Re’im, panic took hold as people realised Hamas gunmen were in their midst.

      Over the next few hours there was chaos, confusion, terror, disbelief and horrific bloodshed as hundreds of Israelis were slaughtered in a terrorist attack that shocked the world. And since what US president Joe Biden described as “the deadliest day for Jews since the Holocaust”, Palestinians in Gaza have also faced violence, destruction and a humanitarian catastrophe on an unprecedented scale.

      The attack
      It came from the air in the form of at least 2,500 rockets, and on the ground as hundreds of Hamas forces invaded Israel. The attack caught Israeli security forces and intelligence agencies, politicians and the public off guard.

      Video shot by Hamas showed a detonation at Erez, the high-security crossing at the northern end of the Gaza Strip. Members of Hamas’s special forces – Nukhba – gained control of the complex and the access gate used by the Israeli military to enter Gaza during incursions.

      In dozens of places, Hamas forces bulldozed the long barrier around Gaza – supposedly one of the most impenetrable and closely watched frontiers on the planet – allowing their men to cross and begin a day of carnage.

      It was the most audacious attack in Hamas’s history. Founded in 1987 as an offshoot of the Muslim Brotherhood, the group is dedicated to extinguishing the state of Israel and reclaiming all of historic Palestine using force against soldiers and civilians. It is proscribed as a terrorist organisation by countries including the US and the UK.

      It won elections in Gaza in 2006, and seized full control of the strip the following year. Whether it continues to command support among the people of Gaza is unclear: there have been no elections for 17 years, and Hamas brutally represses signs of dissent.

      As its forces were massacring Israeli citizens last Saturday, Ismail Haniyeh, Hamas’s political leader, who lives outside Gaza, restated the organisation’s goals in unambiguous and chilling terms.

      Israelis take cover from the incoming rocket fire from the Gaza Strip in Ashkelon, southern Israel, on 11 October.
      Israelis take cover from the incoming rocket fire from the Gaza Strip in Ashkelon, southern Israel, on 11 October. Photograph: Léo Corrêa/AP
      “Our objective is clear: we want to liberate our land, our holy sites, our Al-Aqsa mosque, our prisoners. We have no hesitation about this. This is the goal that is worthy of this battle, worthy of this heroism, worthy of this courage,” he said in a speech.

      To “the enemy”, he concluded: “We have only one thing to say to you: get out of our land. Get out of our sight. Get out of our city of Al-Quds [Jerusalem] and our al-Aqsa mosque. We no longer wish to see you on this land. This land is ours, Al-Quds is ours, everything [here] is ours. You are strangers in this pure and blessed land. There is no place of safety for you.”

      Saturday’s attack was planned by around half a dozen top commanders in Gaza and even the group’s closest allies were not informed in advance about the timing, according to Ali Barakeh, a member of Hamas’s exiled leadership. “Only a handful of Hamas commanders knew about the zero hour,” he said.

      Armed men appeared on the streets and in the homes of 20 towns and communities in southern Israel, many of them peaceful kibbutzim just a few miles from the border with Gaza. Some Israeli citizens were killed immediately in their houses, on the streets or in their cars.

      Others spent hours in safe rooms and shelters. Daniel Rahamim, 68, from the Israeli village of Nahal Oz, and his family were trapped at home for hours. “We have terrorists in our community, I’m locked in my security room with my wife from 6.30am. We hear a lot of gunshots. We know the army is here, but not with enough forces,” he said.

      Amid the unfolding atrocities of the day, the response of the army and the police was slow and inadequate. People cowering in dark safe rooms as gunmen occupied their homes and killed their neighbours sent messages pleading for rescue. “There is no army. It has been hours. People are begging for their lives,” said one Israeli in a southern kibbutz.

      Nadav Peretz and his partner, Eli Dudaei, both 42, who have lived in Nahal Oz for seven years, shut themselves in their safe room with their dog Mack. “As the time wore on, we realised that the army hadn’t come to help,” said Dudaei.

      Panicked messages started pouring into the community’s WhatsApp group, said Peretz. “The messages said, ‘please save us’, ‘please send the army’, ‘they are killing us’, ‘they are in my house’, some of them were saying goodbye. When we heard the men in the garden, I also sent messages to my mum, telling her I loved her.”

      In some kibbutzim, Hamas forces lit fires or threw molotov cocktails to smoke terrified families out of safe rooms.

      In Kfar Azar, the army took 20 hours to reach some of its terrified residents. Davidi Ben Zion, the deputy commander of Unit 71, a team of paratroopers, said Hamas gunmen had killed families, including babies. Some victims had been decapitated, he said.

      Maj Gen Itai Veruv, of the Israel Defence Forces (IDF), told reporters visiting Kfar Azar: “You see the babies, the mothers, the fathers, in their bedrooms … It’s not a war, it’s not a battlefield. It’s a massacre. It’s something that we used to imagine from our grandfathers, grandmothers in the pogrom in Europe and other places.”

      The aftermath of the attack on the Supernova music festival by Palestinian militants, near Kibbutz Reim in the Negev desert.
      The aftermath of the attack on the Supernova music festival by Palestinian militants, near Kibbutz Reim in the Negev desert. Photograph: Getty Images
      Across the area, the smell of death hung in the air as the bodies of Israeli residents and Hamas men lay on the ground outside gutted homes and torched cars. Israel said it had recovered the bodies of 1,500 Hamas men inside Israel.

      At the Supernova festival, revellers were gunned down as they tried to escape on foot or in cars. Videos posted on social media showed hundreds of young people running as Hamas gunmen pursued them on motorbikes. Some played dead for hours until they heard voices speaking in Hebrew and knew help had arrived.

      Steve Markachenko, 25, and his girlfriend, Elisa Levin, 34, had driven four hours to join the party that started at about 10pm on Friday, just hours after the end of the week-long Sukkot religious festival.

      The couple apparently managed to escape the initial chaos, Markachenko’s brother Dima said, with their car’s GPS system showing the vehicle about three miles from the party site. But 24 hours later, no one had heard from them.

      “We don’t know anything. The Home Front, the police, the army, no one has any information to give us. We’ve been to every hospital in the country, nothing,” Dima Markachenko said.

      Jake Marlowe, a 26-year-old British man who was working on the festival’s security team, was not heard from after he called his mother, Lisa, at dawn on Saturday to say rockets were flying overhead. An hour later he texted to say “signal very bad, everything OK, will keep you updated I promise you”.

      On Wednesday, Marlowe’s parents said in a statement: “We are heartbroken to have to inform you the crushing news that our son Jake has been confirmed dead in southern Israel.”

      Marlowe was one of 260 people killed at the Supernova festival. The overall death toll from Hamas’s murderous rampage and its aftermath did not become clear for several days, but after a week it stood at more than 1,300, mostly civilians.

      It was the deadliest day in Israel’s history.

      The response
      “We are at war,” Israel’s prime minister, Benjamin Netanyahu, declared within hours of the Hamas onslaught.

      In a televised address on Saturday night, he told the Israeli public that the military would use all its might to destroy Hamas’s capabilities. The people of Gaza should “get out of there now”, he said – although there is no escape for the 2.3 million people living in the blockaded territory.

      Gaza has been hit by powerful airstrikes day and night for the past week, and at least 360,000 Israeli military reservists have been called up before a widely expected ground invasion of the territory.

      By Friday, 1,799 people had been killed in Gaza, and 6,388 wounded, according to Gaza’s health ministry. The casualties include hundreds of children.

      Information from inside Gaza has been sketchy. With scant power and internet, communications have been difficult, and Israel has not allowed journalists in to report on the war.

      But harrowing stories have emerged. Nasser Abu Quta, 57, said 19 members of his family and five of his neighbours were killed in an airstrike on their building in a refugee camp in Rafah, southern Gaza. The building housed only civilians, he insisted. “This is a safe house, with children and women,” he said.

      Smoke rises after an Israeli airstrike on Gaza City on 9 October.
      Smoke rises after an Israeli airstrike on Gaza City on 9 October. Photograph: Mohammed Saber/EPA
      Attiya Fathi Al-Nabaheen, 24, and 12 members of his family were killed in a “targeted airstrike” without prior warning, said a Palestinian rights group. Among the dead were children playing at the building’s entrance, they said.

      Rama Abu Amra, 21, a university student, spoke of “bombs falling all around us”. She said: “We are so afraid about what will happen next.… They are trying to kill us, not with bombs but psychologically. I am terrified of losing my home, or a member of my family. We are so afraid of the night coming. It feels like the darkness is enveloping us.”

      The Israeli military said it had hit hundreds of targets in the relatively well-to-do al-Rimal neighbourhood of Gaza City, home to members of the Hamas government as well as universities, aid agencies and media organisations. “The whole district was just erased,” said resident Radwan Abu al-Kass.

      Statistics issued by the IDF were hard to comprehend: in the first six days, 6,000 bombs, weighing 4,000 tonnes, were dropped on more than 3,600 targets in Gaza.

      On the Gaza border, Israeli forces were installing “an iron wall” of tanks and helicopters before an expected ground invasion, an Israeli military spokesperson said. Hamas leader Ali Barakeh, in Beirut, said the group was prepared for a prolonged war.

      On Friday, a different kind of bombshell dropped on the people of Gaza. In an unprecedented move, the IDF ordered the entire population of the northern half of the strip to evacuate to the southern half as it prepared to intensify military action.

      Relocating 1.1 million people – including children, older people, and those who were sick or disabled – across a war zone was impossible, warned aid agencies. A panicked scramble south began. But the order also stirred up visceral fears among people for whom memories of the 1948 Nakba, when hundreds of thousands of Palestinians lost their homes and became lifelong refugees, burn bright.

      Hamas urged people to stay put. Eyad Al-Bozom, spokesperson for the Hamas interior ministry, said: “The occupation wants to displace us once again from our land … We will die and we will not leave.”

      The hostages
      Soon after the attack, Hamas began releasing videos of what it said were people snatched by its forces from their homes and the music festival and taken into Gaza as hostages. Many were covered in blood, some hooded or with hands tied behind their backs, most with terror in their eyes.

      Hamas understands well the value of Israeli hostages. In 2006, the year Hamas won elections in Gaza, Gilad Shalit, a young Israeli soldier, was seized and held in Gaza for more than five years. For most Israelis, whose sons and daughters do compulsory army service on leaving school, his captivity was a cause of immense pain and shame. Shalit was eventually released in exchange for more than 1,000 Palestinian prisoners.

      Israel has always vowed that none of its own would be “left behind”. Now it faces its biggest hostage crisis ever with up to 150 Israelis – civilians and soldiers, children and elderly people – being held in Gaza by Hamas in unknown locations and conditions, and under heavy Israeli bombardment.

      One video from the Supernova festival showed Noa Argamani being driven away on a motorbike by two men, her arms outstretched and pleading for life. Her partner, Avinatan Or, was marched away by gunmen.

      Another video appeared to show a partygoer, reported to be Shani Louk, a 23-year-old German-Israeli dual national, being paraded through the streets of Gaza. CNN said it had verified a video showing her being driven in a truck guarded by a man carrying a rocket-propelled grenade, while another held her by the hair.

      Palestinians take a captured Israeli civilian from Kibbutz Kfar Azza into the Gaza Strip.
      Palestinians take a captured Israeli civilian from Kibbutz Kfar Azza into the Gaza Strip. Photograph: Hatem Ali/AP
      Louk’s mother, Ricarda, later said: “We were sent a video in which I could clearly see our daughter unconscious in the car with the Palestinians and them driving around the Gaza Strip.”

      Yoni Asher said his wife, two young children and mother-in-law had been abducted from Kibbutz Nir Oz, and he had tracked his wife’s phone to the Gaza Strip. “My two little girls, they’re only babies. They’re not even five years old and three years old,” he said.

      Many relatives complained about the lack of information. Israel set up a “hostage situation room” to gather information on the identity of each hostage. By Thursday, 97 people had been identified.

      In London, the families of Israelis believed to have been seized pleaded for their safe release. Noam Sagi, who says his mother Ada Sagi, 75, was abducted from her home in the Nir Oz kibbutz, said: “We are bleeding. We are in pain. We are in disbelief.”

      Sharon Lifschitz said she had felt “hollow” since her parents, peace activists in their 80s who also lived in the Nir Oz kibbutz, went missing in the attack. “Somewhere in Gaza there are children and mothers, and this is our fight,” she said. “We need these people to come back home.”

      The presence of hostages in Gaza is a hugely complicating factor in Israel’s military response to the Hamas attack. By Friday, according to Hamas, 17 hostages had been killed in airstrikes. Any ground invasion would risk killing more.

      The organisation also vowed to kill a hostage for every airstrike carried out by Israel without prior warning to residents of the area.

      According to a diplomatic source, the hostages were spread out across the enclave, with some being held in private houses. Islamist factions in Gaza were unsure of the total number of hostages.

      On Thursday, Lt Gen Herzi Halevi, the IDF chief of staff, warned: “The price of war is high and difficult. We will do everything to bring the captives back home.”

      The security failure
      No one saw it coming. The failure of Israel’s vaunted intelligence services to foil Hamas’s unprecedented sea, air and ground offensive is likely to reverberate for decades to come.

      On day six, Halevi acknowledged the catastrophic error. “The IDF is responsible for the security of the country and its citizens, and on Saturday morning in the area surrounding the Gaza Strip, we did not handle it,” he said.

      Gaza is closely monitored by the Israeli security establishment. Phones and other communications are tapped, surveillance drones constantly fly overhead, and Palestinians are recruited as informants, usually with the help of blackmail or other coercion. The Hamas operation must have taken detailed planning over months, if not years. It’s almost inconceivable that nothing caught the attention of intelligence officials.

      Yet Egypt perhaps did see it coming. An unnamed Egyptian official claimed early last week that his country had warned Israel that “an explosion of the situation is coming, and very soon, and it would be big. But they underestimated such warnings.”

      Netanyahu dismissed the claim as “fake news”. But then a senior US politician caused a stir when he shored up the Egyptian official’s claim. Michael McCaul, the Republican chair of the US House foreign affairs committee, said: “We know that Egypt has warned the Israelis three days prior that an event like this could happen. I don’t want to get too much into classified [details], but a warning was given. I think the question was at what level.”

      An Israeli army self-propelled howitzer fires rounds near the border with Gaza in southern Israel on 11 October
      An Israeli army self-propelled howitzer fires rounds near the border with Gaza in southern Israel on 11 October Photograph: AFP/Getty Images
      He added: “We’re not quite sure how we missed it. We’re not quite sure how Israel missed it.”

      A British intelligence expert suggested Israel had suffered a “failure of imagination”. In 2001, there had been another one, said Alex Younger, a former head of MI6. “9/11 classically was that. The assumption was… that it essentially wasn’t possible,” Younger told BBC Radio 4.

      Hamas may have been able to achieve surprise by “the complete abandonment of any electronic device or signature”, thereby evading electronic surveillance or signals intelligence, Younger added.

      Others said Israeli intelligence had focused on the most serious unrest and violence in the West Bank for 20 years, and there was a belief that Hamas was uninterested in confrontation. Hamas gave the impression that it was “not ready for a fight … while preparing for this massive operation,” said one Israeli security source.

      When the immediate crisis has passed, there will be demands for a major postmortem into Israel’s security failures. But the faith and confidence of Israeli citizens in the ability of their intelligence and military leaders to protect them may have been irrevocably shaken.

      The humanitarian crisis in Gaza
      With Israelis in a state of shock and grief, the country’s political leaders ramped up the pressure on Gaza. As well as the most sustained bombardment of any of the previous four conflicts between Israel and Hamas over the past 14 years and on top of a 16-year blockade that had already impeded the flow of food and fuel, they ordered a “complete siege” of Gaza. “There will be no electricity, no food, no fuel – everything is closed,” said defence minister Yoav Gallant.

      On Thursday, Israel’s energy minister, Israel Katz, doubled down despite mounting concern over the rapidly deteriorating humanitarian situation. “No electrical switch will be turned on, no water hydrant will be opened and no fuel truck will enter until the Israeli abductees are returned home. Humanitarianism for humanitarianism. And no one will preach us morality,” he wrote on social media.

      At least 400,000 people were internally displaced by the bombardment even before the IDF’s order that 1.1 million people in the north of Gaza should move to the south. Families were crammed into UN schools, camping in corridors, classrooms and playgrounds, in the hope the premises would offer some degree of safety.

      The grounds of the Shifa hospital in Gaza City, the largest medical facility in the strip, quickly became a refugee camp. “The grounds are full of families with children sleeping on mattresses or makeshift rugs,” Ghassan Abu Sitta, a British-Palestinian surgeon working at the Shifa, wrote on social media on Wednesday. The following day, he said: “We are at breaking point … All hospitals are beyond, beyond capacity.”

      Residents flee Gaza City on Friday 14 October before the expected Israeli ground invasion.
      Residents flee Gaza City on Friday 14 October before the expected Israeli ground invasion. Photograph: Mohammed Saber/EPA
      The Shifa and other hospitals warned that fuel supplies for their generators would soon run out. “Without electricity, hospitals risk turning into morgues,” said Fabrizio Carboni, regional director of the International Committee of the Red Cross. Lack of power would put “newborns in incubators and elderly patients on oxygen at risk. Kidney dialysis stops, and X-rays can’t be taken,” he said.

      By midweek, Mohammad Abu Selim, the Shifa’s general director, said the hospital was full. “The patients are now on the streets. The wounded are on the streets. We cannot find a bed for them.”

      Water and medical supplies are running out. In these dire and dangerous circumstances, some 5,500 women are due to give birth in the next month, bringing new life into what many see as hell on earth.

      The political and diplomatic fallout
      In response to the overwhelming crisis, Netanyahu invited the opposition to join an emergency wartime government. A war cabinet, comprising Netanyahu, Benny Gantz, a senior opposition figure and formerly an army general and defence minister, and Yoav Gallant, the current defence minister, was formed. Gantz, who has been a strident critic of Netanyahu’s far-right government, said it was time to close ranks. “We are all in this together. We are all enlisting.”

      The government’s planned judicial reforms, which have been the cause of huge protests in Israel, were put on the back burner.

      Internationally, country after country rallied to Israel’s side, emphatically endorsing its right to defend itself. America’s top diplomat, secretary of state Antony Blinken, travelled to Israel to offer “unwavering support” for the country and to declare: “We will always be there by your side.”

      The US promised arms for Israel to deploy in its war with Hamas, and the UK also offered to “bolster security” by sending naval ships, surveillance aircraft, helicopters and a detachment of Royal Marines to the eastern Mediterranean.

      Rishi Sunak called Netanyahu on Thursday to pledge the UK’s “steadfast support for Israel following Hamas’s appalling terrorist attack”. By the end of the week, Ursula von der Leyen, the president of the European Commission, Lloyd Austin, US defence secretary, and James Cleverly, the UK foreign secretary, had all visited Israel to show solidarity.

      Diplomats warned that the war between Israel and Hamas risked drawing in other players in the region.

      Following the Hamas atrocities, there was immediate speculation about Iran’s involvement in the planning and execution. It was dismissed by both Tehran and western diplomats, but Iranian officials congratulated Hamas on its “commendable operation”.

      And on Friday came a warning from Iran that the violence could spread. Foreign minister Hossein Amir-Abdollahian said: “If these organised war crimes that are committed by the Zionist entity don’t stop immediately, then we can imagine any possibility.”

      Israeli military vehicles (IFVs) mass along the border with the Gaza Strip in southern Israel.
      Israeli military vehicles (IFVs) mass along the border with the Gaza Strip in southern Israel. Photograph: Jack Guez/AFP/Getty Images
      Earlier in the week, Hezbollah, the Iranian-backed force based in Lebanon, launched rockets across Israel’s northern border, prompting concerns about a second front opening.

      On Thursday, Syrian state media reported that Israeli airstrikes had hit airports in Damascus and the northern city of Aleppo, putting them out of service.

      One reason mooted for the Hamas attack was to scupper moves by Saudi Arabia to “normalise” relations with Israel. On Thursday, the Saudi crown prince Mohammed bin Salman and Iranian president Ebrahim Raisi spoke on the phone about “the need to end war crimes against Palestine”.

      Meanwhile, Qatar, Turkey and Egypt – which had previously brokered agreements between Israel and Hamas – pressed for humanitarian assistance to civilians in Gaza. Qatar tried to negotiate a partial release of hostages, suggesting Hamas might release women and children in exchange for 36 Palestinian women and adolescent prisoners held in Israeli jails.

      Amid fears that the conflict could spread across the Middle East, Blinken embarked on a tour of six Arab capitals after leaving Israel. Egypt came under US pressure to open its border with Gaza at the southern end of the strip.

      As well as the wider region, the bombardment of Gaza and killing of civilians are likely to fuel resentment and resistance among Palestinians living in the West Bank and East Jerusalem, as well as Palestinian-Israelis living in Israel itself.

      Israelis who had come to believe that the Palestinian issue was broadly containable have witnessed a painful new reality over the past week. And for western governments that had lessened their engagement with the Israeli-Palestinian crisis, and had eased pressure for a long-term peace deal, a brutal lesson has been learned.

      On the ground, Israelis and Palestinians buried their loved ones and braced themselves for what lies ahead. A week that started with unspeakable terror ended in grief, shock, anger and the fear of yet more violence, more bloodshed and more agony to come.

      Associated Press and Reuters contributed to this report

      #palestiniens #Gaza #Hamas #Palestine #Israël

  • Polizei Berlin verbietet pro-palästinensische Demo heute am Pariser Platz
    https://www.berliner-zeitung.de/news/polizei-verbietet-pro-palaestinensische-demo-am-pariser-platz-li.21

    Les procureurs d’état berlinois et leur bras armé la police viennent de définir comme acte criminel (délit de « Volksverhetzung » introduit contre la propagande nazie) la revendication de la libération de la Palestine.

    Merci aux amis de #Hamas de #Tsahal, vous venez de nous libérer davantage de notre marge d’expression personnelle et politique.

    Alors soyez rassurés, si jamais vous m’entendez revendiquer la liberté pour la région « from the river to the sea » , il s’agira de Berlin d’Est en Ouest « from the river Spree to the sea WannSee » ou dans l’autre sens « from the river Havel to the sea MüggelSee ». ;-)

    Il n’y a pas de liberté pour les habitants des pays en guerre et les perspectives pour les Européens sous domination de l’OTAN sont plutôt sombres. Pourtant un de ces jours les guerres dans lequelles vous êtes actuellement en train de nous embarquer seront terminées et avec un peu de soutien extérieur nous aurons reconquis notre liberté.

    Dans le passé notre tentative d’extermination des peuples slaves nous a déjà valu notre propre libération. ... ex oriente pax , ça vous rappelle quelque chose ?

    13.19.2023 von Sophie Barkey - Vor dem Brandenburger Tor sollte heute um 16 Uhr eine Demonstration in Solidarität mit Palästina stattfinden. Wie in den letzten Tagen kommt nun ein kurzfristiges Verbot der Polizei.

    Die Berliner Polizei hat am Freitag eine angekündigte Demonstration mit dem Titel „Frieden in Nahost – Stopp der Krieg in Nahost“ verboten. Die Kundgebung sollte von 16 Uhr bis 18 Uhr auf dem Pariser Platz stattfinden. 60 angekündigte Teilnehmer wollten dabei ihre Solidarität mit Palästina und Gaza demonstrieren. Auch jede Ersatzveranstaltung ist laut Mitteilung der Polizei bis zum 19. Oktober untersagt.

    Zur Erklärung heißt es weiter, „dass die unmittelbare Gefahr besteht, dass es bei der Versammlung zu volksverhetzenden, antisemitischen Ausrufen, Gewaltverherrlichungen, dem Vermitteln von Gewaltbereitschaft und dadurch zu Einschüchterungen sowie Gewalttätigkeiten kommen kann.“

    Die für heute auf dem #PariserPlatz angemeldete Versammlung „Frieden in Nahost - Stopp den Krieg in Nahost!“ sowie alle Ersatzveranstaltungen wurden nach Abwägung sämtlicher Interessen von der Versammlungsbehörde bis zum 19.10.23 verboten.
    Die Gründe finden Sie in unserer PM:…
    — Polizei Berlin (@polizeiberlin) October 13, 2023

    Angesichts des Terrorangriffs auf Israel wollen Berliner Staatsanwaltschaft und Polizei rigider gegen israelfeindliche Parolen bei Demonstrationen von Palästinensergruppen vorgehen. Die Verwendung der oft verwendeten Parole „From the River to the Sea, Palestine will be free“ werde jetzt von der Staatsanwaltschaft als strafbar eingeordnet, sagte eine Polizeisprecherin am Freitag der Deutschen Presse-Agentur. Mit dem Satz ist gemeint, es solle ein freies Palästina geben auf einem Gebiet vom Fluss Jordan bis zum Mittelmeer - dort wo sich jetzt Israel befindet. Entsprechende Landkarten zeigen bei Demonstrationen das Gebiet ganz in grün, der Farbe des Islam.

    Die Staatsanwaltschaft sehe bei der Parole einen Anfangsverdacht auf Volksverhetzung, weil das Existenzrecht Israels dadurch betroffen sei, sagte die Sprecherin. Bei dem entsprechenden Paragrafen 130 heißt es, bestraft werde, wer gegen „nationale, rassische, religiöse oder durch ihre ethnische Herkunft bestimmte Gruppen“ zum Hass aufstachele oder zu Gewalt- oder Willkürmaßnahmen auffordere. Verboten sind laut Gesetz schon lange Parolen wie „Tod den Juden“. Andere Parolen, die Israel angreifen, sind dagegen als Meinungsäußerung zulässig.

    Wegen Gewaltaufrufen der islamistischen Palästinenser-Organisation Hamas hat sich die Berliner Polizei bereits besonders auf diesen Freitag und das anstehende Wochenende vorbereitet. Israelische und jüdische Einrichtungen werden noch mehr als sonst geschützt. Demonstrationen oder Ansammlungen palästinensischer Gruppen sollen wegen möglicher antisemitischer Inhalte entweder sehr genau beobachtet oder verboten werden.

    Nach dem Terrorangriff auf Israel und den darauffolgenden Bombardierungen der israelischen Armee im Gazastreifen rief die Hamas Muslime auf der ganzen Welt zu Protesten auf. Das israelische Außenministerium und der Nationale Sicherheitsrat warnten: „Es ist davon auszugehen, dass es in verschiedenen Ländern zu Protestveranstaltungen kommen wird, die in Gewalt umschlagen können.“ Israelis wurde empfohlen, sich von Demonstrationen fernzuhalten.

    Am Donnerstag hatten sich trotz Verboten immer wieder Gruppen von Menschen mit Palästinenser-Fahnen oder -Symbolen zusammengefunden. Am Potsdamer Platz versammelten sich am Nachmittag einige Dutzend Menschen. Am späten Abend standen in der Pankstraße in Wedding Menschen mit Palästinenserfahnen. Die Polizei nahm von einigen Teilnehmern die Personalien auf. Nach kurzer Zeit habe sich die Gruppe wieder zerstreut, hieß es. Mehrfach hatte die Polizei geplante palästinensische Demonstrationen wegen möglicher antisemitischer Ausrufe oder Gewaltverherrlichung verboten. Auch für das Wochenende sind Demonstrationen angekündigt.

    #Allemagne #Berlin #police #justice #politique #censure #Palestine #Israël

  • Condamner la violence, Judith Butler

    Il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute condamnation nécessite un refus de comprendre, de peur que cette compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre capacité de jugement. Mais que faire s’il est moralement impératif d’étendre notre condamnation à des crimes tout aussi atroces, qui ne se limitent pas à ceux mis en avant et répétés par les médias ? Quand et où doit commencer et s’arrêter notre acte de condamnation ? N’avons-nous pas besoin d’une évaluation critique et informée de la situation pour accompagner notre condamnation politique et morale, sans avoir à craindre que s’informer et comprendre nous transforme, aux yeux des autres, en complices immoraux de crimes atroces ?

    Certains groupes se servent de l’histoire de la violence israélienne dans la région pour disculper le Hamas, mais ils utilisent une forme corrompue de raisonnement moral pour y parvenir. Soyons clairs. Les violences commises par Israël contre les Palestiniens sont massives : bombardements incessants, assassinats de personnes de tous âges chez eux et dans les rues, torture dans les prisons israéliennes, techniques d’affamement à Gaza, expropriation radicale et continue des terres et des logements. Et ces violences, sous toutes leurs formes, sont commises sur un peuple qui est soumis à un régime colonial et à l’apartheid, et qui, privé d’État, est apatride.

    Mais quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard (Harvard Palestine Solidarity Groups) publient une déclaration disant que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques mortelles du Hamas contre des cibles israéliennes, ils font une erreur et sont dans l’erreur. Ils ont tort d’attribuer de cette façon la responsabilité, et rien ne saurait disculper le Hamas des tueries atroces qu’ils ont perpétrées. En revanche, ils ont certainement raison de rappeler l’histoire des violences : « de la dépossession systématique des terres aux frappes aériennes de routine, des détentions arbitraires aux checkpoints militaires, des séparations familiales forcées aux assassinats ciblés, les Palestiniens sont forcés de vivre dans un état de mort, à la fois lente et subite. » Tout cela est exact et doit être dit, mais cela ne signifie pas que les violences du Hamas ne soient que l’autre nom des violences d’Israël.

    (...) Si l’on nous demandait de comprendre la violence palestinienne comme une continuation de la violence israélienne, ainsi que le demandent les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard, alors il n’y aurait qu’une seule source de culpabilité morale, et même les actes de violence commis par les Palestiniens ne seraient pas vraiment les leurs. Ce n’est pas rendre compte de l’#autonomie d’action des Palestiniens.

    (...) La question de savoir quelles vies méritent d’être pleurées fait partie intégrante de la question de savoir quelles sont les vies qui sont dignes d’avoir une valeur. Et c’est ici que le racisme entre en jeu de façon décisive.

    (...) tous les gens que je connais vivent dans la peur de ce que va faire demain la machine militaire israélienne, si le discours génocidaire de Netanyahu va se matérialiser par une option nucléaire ou par d’autres tueries de masse de Palestiniens.

    https://aoc.media/opinion/2023/10/12/condamner-la-violence

    https://justpaste.it/9zy1v

    #Judith_Butler #violence #pleurer #Palestine #Hamas #Israël #discours_génocidaire

    • où l’on voit une intello BDS qui plane au point de penser que le Hamas se crée après les accords d’Oslo, sans voir que c’est bien avant 1987 qu’Israël à produit les conditions d’émergence d’une telle organisation. donc outre le fait de signaler ce « discours génocidaire » qui gouverne Israël, pas mal de bêtises de quelqu’un qui s’est débattu pour arriver à écrire dans l’après 7 octobre 2023, après l’attaque du Hamas.
      le point qui m’intéresse c’est celui qu’elle évoque trop rapidement : l’autonomie politique, celle des palestiniens en l’occurence, et ce depuis un aspect décisif qu’elle fait mine de résoudre par une « non-violence » ici encore absurde.

      on arrive bien à essentialiser « la violence » lorsque l’on est pas confronté en première personne à la question de son usage, de sa nécessité (ou que cet usage vous est garanti par la la force et la loi). ça nous donne des indignations qui loupent totalement le coeur du problème qu’exemplifie cette attaque du Hamas : de quelle type de violence use-t-on ? quelles limites est on a même de lui donner ? de quoi parle-t-on au juste, concrètement ?

      c’est sur ce point à mon sens que pour le Hamas la comparaison avec Daesh vaut quelque chose. un proto-État à moins encore de limites que bien des États (Hiroshima, Sétif, etc.) et se situe exactement dans le même registre : s’autoriser le massacre de civils.

      c’est la visée politique qui donne sa forme à la violence employée. le contenu vient avec : attentats massacre (extrême droite), pogroms (dont le Hamas vient de fournir un exemple qui surpasse spectaculairement, bravo ! ce que les meurtres quotidiens de palestiniens dans les territoires occupés donnent à voir).

      l’autonomie, se donner une, des lois, ce n’est pas l’État, cela a souvent voulu dire s’empêcher, autant que faire se peut, prendre des précautions (souvent coûteuses) et avant tout s’interdire le massacre sans distinction d’aucune sorte. c’est à ce titre que les organisations combattantistes des années 70 étaient critiqués non pas depuis des positions extérieures mais depuis d’autres usages de la violence révolutionnaire.

  • Vincent Lemire, historien : « Depuis l’attaque du Hamas contre Israël, nous sommes entrés dans une période obscure qu’il est encore impossible de nommer »

    Il n’y a aucun précédent. Plus de 1 200 morts en une seule journée, pour les Israéliens c’est un bilan plus lourd que durant les cinq années de la seconde Intifada (2000-2005). Rapportée à la population française, cela correspondrait à 10 000 morts en France. C’est proprement vertigineux, et jamais #Israël n’avait vécu un traumatisme aussi profond. Revenir aux épisodes les plus sombres du conflit suffit pour s’en convaincre.
    En août 1929, le massacre d’Hébron, commis par des insurgés palestiniens, se solde par la mort de 70 civils juifs. En avril 1948, environ 120 civils palestiniens sont assassinés à Deir Yassin par les troupes paramilitaires juives. En septembre 1982, plusieurs centaines de réfugiés palestiniens sont tués avec sauvagerie dans les camps libanais de Sabra et de Chatila, alors sous contrôle israélien. Or ces trois massacres sont encore gravés dans toutes les mémoires. On a donc franchi un cap.

    Sur le plan militaire, l’attaque surprise de la guerre du Kippour, ou « guerre du Ramadan » en arabe, le 6 octobre 1973, avait déjà stupéfait les Israéliens. Mais il s’agissait alors d’une guerre conventionnelle visant des militaires dans le Sinaï occupé. Cinquante ans plus tard, ce sont surtout des civils qui ont été visés, sur le territoire israélien.

    Il n’y a donc aucun point de comparaison dans l’#histoire du conflit, ce qui conduit à convoquer d’autres références pour inscrire cet événement dans les consciences et les récits.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/10/14/vincent-lemire-historien-depuis-l-attaque-du-hamas-contre-israel-nous-sommes
    https://justpaste.it/cxsb7

    #Palestine #Hamas

    • Comment définir l’époque dans laquelle nous entrons ?

      Le 7 octobre nous fait basculer dans le cinquième acte de la tragédie israélo-palestinienne. Le premier acte est celui de la genèse des projets nationaux concurrents (1897-1917). Le deuxième acte est marqué par des confrontations sporadiques sous tutelle britannique (1917-1947). Au cours du troisième acte, nous assistons à des guerres conventionnelles entre Etats (1947-1987). Le quatrième acte se traduit par une « repalestinisation » du conflit, avec une alternance d’intifadas (« soulèvements ») et de négociations, dont le Fatah fondé par Yasser Arafat était le pivot (1987-2023).

      Aucune de ces références historiques ne correspond à ce que nous sommes en train de vivre. Nous entrons donc dans une période obscure qu’il est encore impossible de nommer, même si l’on comprend que le Hamas en est le désormais le pivot.

  • Isaac Saul sur X : "People ask me all the time if I am “pro-Israel” because I am a Jew who has lived in Israel, and my answer is that being “pro-Israel” or being “pro-Palestine” or being a “Zionist” does not properly capture the nuance of thought most people do or should have about this issue. It…" / X
    https://twitter.com/Ike_Saul/status/1711780282725011520

    People ask me all the time if I am “pro-Israel” because I am a Jew who has lived in Israel, and my answer is that being “pro-Israel” or being “pro-Palestine” or being a “Zionist” does not properly capture the nuance of thought most people do or should have about this issue. It certainly doesn’t capture mine.

    I have a lot to say. I’ve spent the last 72 hours writing, texting, and talking to Israelis, Jews, Muslims, and Palestinians. Much of my reaction is going to piss off people on “both sides,” but I am exhausted and hurting and I do not think there is any way to discuss this situation without being radically honest about my views. So I’m going to try to say what I believe to be true the best I can.

    Let me start with this: It could have been me.

    That’s a hard thought to shake when watching the videos out of Israel — the concert goers fleeing across an empty expanse, the hostages being paraded through the streets, the people shot in the head at bus stops or in their cars. I went to those parties in the desert, I rubbed shoulders with Israelis and Arabs and Jews and Muslims, I could have easily accepted an invitation to some concert near Sderot and gone without a care, only to be indiscriminately slaughtered. Or, perhaps worse, taken hostage and tortured.

    I don’t believe #Hamas is killing Israelis to liberate themselves, nor do I believe they are doing it to make peace. They’re doing this because they represent the devil on the shoulder of every oppressed Palestinian who has lost someone in this conflict. They’re doing it because they want vengeance. They are evening the score, and acting on the worst of our human impulses, to respond to blood with blood — an inclination that is easy to give in to after what their people have endured. It should not be hard to understand their logic — it is only hard to accept that humans are capable of being driven to this. Not defending Hamas is a very low bar to clear. Please clear it.

    It’s not possible to recap the entire 5,000 year history of people fighting over this strip of land in one newsletter. There are plenty of easily accessible places you can learn about it if you want to (and, by the way, many of you should — far too many people speak on this issue with an obscene amount of ignorance, loads of arrogance, and a narrow historical lens focused on the last few decades). But I’ll briefly highlight a few things that are important to me.

    In my opinion, the Jewish people have a legitimate historical claim to the land of Israel. Jews had already been expelled and returned and expelled again a half dozen times before the rise of the Muslim and Arab rule of the Ottoman Empire. Of course it’s messy because we Jews and Arabs and Muslims are all cousins and descendents of the same Canaanites. But Arabs won the land centuries ago the same way Israel and Jews won it in the 20th century: Through conflict and war. The British defeated the Ottoman Empire and then came the Balfour Declaration, which amounted to the British granting the area to the Jewish people, a promise they’d later try to renege on — all before the wars that have defined the region since 1948.

    That historical moment in the late 1940s was unique. After World War II, with many Arab and Muslim states already in existence, and after six million Jews were slaughtered, the global community felt it was important to grant the Jewish people a homeland. In a more logical or just world that homeland would have been in Europe as a kind of reparation for what the Nazis and others before them had done to the Jews, or perhaps in the Americas — like Alaska — or somewhere else. But the Jews wanted Israel, the British had taken to the Zionist movement, the British had conquered the Ottoman Empire which handed them control of the land, and America and Europe didn’t want the Jews. As a result, we got Israel.

    The Arab states had already rejected a partitioned Israel repeatedly before World War II and rejected it again after the Holocaust and the end of the war. They did not want to give up even a little bit of their land to a bunch of Jewish interlopers who were granted it all of a sudden by British interlopers who had arrived a hundred years prior. Who could blame them? It had been centuries since Jews lived there in large numbers, and now they wanted to return in waves as secularized Europeans. Many of us would probably react the same way. So, just as humans have done forever, they fought. The many existing Arab states turned against the burgeoning new Jewish state. One side won and one side lost. This is the brutal and broken and violent world we live in, but it is what created the global world order we have now.

    Are Israelis and British people “colonizers” because of this 20th century history? Sure. But that view flattens thousands of years of history and conflict, and the context of World War I and World War II. I don’t view Israelis and Brits as colonizers any more than the Assyrians or the Babylonians or the Romans or the Mongols or the Egyptians or the Ottomans who all battled over the same strip of land from as early as 800 years before Jesus’s time until now. The Jews who founded Israel just happened to have won the last big battle for it.

    You can’t speak about this issue in a vacuum. You can’t pretend that it wasn’t just 60 years ago when Israel was surrounded on all sides by Arab states who wanted to wipe them off the face of the planet. Despite the balance of power shifting this century, that threat is still a reality. And you can’t talk about that without remembering the only reason the Jews were in Israel in the first place was that they’d spent the previous centuries fleeing a bunch of Europeans who also wanted to wipe them off the face of the planet. And then Hitler showed up.

    American partisans have a narrow view of this history, and an Americentric lens that is infuriating to witness. As Lee Fang perfectly put it, “Hamas would absolutely execute the ACAB lefties cheering on horrific violence against Israelis if they lived in Gaza & U.S. right-wingers blindly cheering on Israeli subjugation of Palestinians would rebel twice as violently if Americans were subjected to similar occupation.”

    And yet, many Americans only view modern #Israel as the “powerful” one in this dynamic. Which is true — they obviously are. It isn’t a fair fight and it hasn’t been for decades because Israel’s government is rich and resourceful, has the backing of the United States and most of Europe, and has an incredibly powerful military. At the same time, Israeli leadership has made technological and military advancements that have further tipped those scales — all while the Israeli government has helped create a resource-thin open air prison of two million Arabs in Gaza.

    Conversely, Palestinians are devoid of any real unified leadership, and the Arab world is now divided on the issue of Palestine. Israel is unwilling to give the people in Gaza and the West Bank more than an inch of freedom to live. These are largely the refugees and descendents of the refugees of the 1948 and 1967 wars that Israel won. And you can’t keep two million people in the condition that those in the Gaza strip live in and not expect events like this.

    I’m sorry to say that while the blood on the ground is fresh. The Israelis who were killed in this attack largely have nothing to do with those conditions other than being born at a time when Israel and Jews have the upper hand in this conflict. Some of the victims weren’t even Israeli — they were just tourists. This is why we describe them as “innocent” and why Hamas has only reaffirmed that they are a brutal terror organization with this attack — an organization that I hope is quickly toppled, for the sake of both the Palestinian people and the Israelis. But as someone with a deep love for Israel, with friends in danger and people I know still missing, it breaks my heart to say it but I’m saying it again because it remains perhaps the most salient point of context in a tangled mess full of centuries of context:

    You cannot keep two million people living in the conditions people in Gaza are living in and expect peace.

    You can’t. And you shouldn’t. Their environment is antithetical to the human condition. Violent rebellion is guaranteed. Guaranteed. As sure as the sun rising.

    And the cycle of violence seems locked in to self-perpetuate, because both sides see a score to settle:

    1) Israel has already responded with a vengeance, and they will continue to. Their desire for violence is not unlike Hamas’s — it’s just as much about blood for blood as any legitimate security measure. Israel will “have every right to respond with force." Toppling Hamas — a group, by the way, Israel erred in supporting — will now be the objective, and civilian death will be seen as necessary collateral damage. But Israel will also do a bunch of things they don’t have a right to. They will flatten apartment buildings and kill civilians and children and many in the global community will probably cheer them on while they do it. They have already stopped the flow of water, electricity, and food to two million people, and killed dozens of civilians in their retaliatory bombings. We should never accept this, never lose sight that this horror is being inflicted on human beings. As the group B’Tselem said, “There is no justification for such crimes, whether they are committed as part of a struggle for freedom from oppression or cited as part of a war against terror.” I mourn for the innocents of Palestine just as I do for the innocents in Israel. As of late, many, many more have died on their side than Israel’s. And many more Palestinians are likely to die in this spate of violence, too.

    Unfortunately, most people in the West only pay attention to this story when Hamas or a Palestinian in Gaza or the West Bank commits an act of violence. Palestinian citizens die regularly at the hands of the Israeli military and their plight goes largely unnoticed until they respond with violence of their own. Israel had already killed an estimated 250 Palestinians, including 47 children, this year alone. And that is just in the West Bank.

    2) Every single time Israel kills someone in the name of self-defense they create a handful of new radicalized extremists who will feel justified in wanting to take an Israeli life in retribution sometime in the future. Half of Gaza’s two million people are under the age of 19 — they know little besides Hamas rule (since 2006), Israeli occupation, blockades, and rockets falling from the sky. The suffering of these innocent children born into this reality is incomprehensible to me. They will suffer more now because of Hamas’s actions and Israel’s response, all through no fault of their own.

    There is no way out of this pattern until one side exercises restraint or leaders on both sides find a new solution. Israelis will tell you that if Palestinians put their guns down then the war would end, but if Israel put their guns down they’d be wiped off the planet. I don’t have a crystal ball and can’t tell you what is true. But what I am certain of is that every time Israel kills more innocents they engender more rage and hatred and recruit more Palestinians and Arabs to the cause against them. There is no disputing this.

    So, why did this happen now?

    I’m not sure how to answer that question except to say it was bound to happen eventually. It was a massive policy and intelligence failure and Netanyahu should pay the price politically — he is a failed leader. Iran probably helped organize the attack and the money freed up by the Biden administration’s prisoner swap probably didn’t help the situation, either. Israel’s increasingly extremist government and settlers provoking Palestinians certainly didn’t help. Nor has going to the Al-Aqsa mosque and desecrating it. Nor do blockades and bombings and indiscriminate subjugation of a whole people. Nor does refusing to talk to non-terrorist leaders in Palestine. Nor does illegally continuing to expand and steal what is left of Palestinian land, as many Jews and Israelis have been doing in the 21st century despite cries from the global community to stop. A violent response was predictable — in fact, plenty of people did predict it.

    Israel is forever stuffing these people into tinier and tinier boxes with fewer and fewer resources. But if you want to blame Israeli leaders for continuing to expand and settle land that does not belong to them (as I do), then you should also spare some blame for Palestinian leaders for repeatedly not accepting a partitioned Israel during the 20th century that could have led to peace (as I do).

    Please also remember this: Hamas is still an extremist group. The Palestinian people do not have a government or leaders who legitimately represent their interests, and it sure as hell isn’t Hamas. Will some Palestinians cheer and clap at the dead, or spit on them as they are paraded through Gaza? Yes they will. And they have. Many will also mourn because they loathe Hamas and know this will only make things worse. This is no different than how some Americans cheer at the dead in every single war we’ve ever fought. It’s no different than the Israelis who set up lawn chairs to watch their government bomb Palestine and cheer them on, too. This doesn’t mean Palestinians or Israelis or Americans are evil — it means some of them are giving in to their violent impulses, and their zealous feelings of righteous vengeance.

    Solutions, you ask? I can’t say I have any. If you came here for that, I’m sorry. The two-state solution looks dead to me. A three-state solution makes some sense but feels out of the view of all the people who matter and could make it happen. I wish a one-state solution felt realistic — a world of Israelis and Arabs and Muslims and Jews living side by side with equal rights, fully integrated and defused of their hate, is a version of Israel that I would adore. But it seems less and less realistic with every new act of violence.

    Am I pro-Israel or pro-Palestine? I have no idea.

    I’m pro-not-killing-civilians.

    I’m pro-not-trapping-millions-of-people-in-open-air-prisons.

    I’m pro-not-shooting-grandmas-in-the-back-of-the-head.

    I’m pro-not-flattening-apartment-complexes.

    I’m pro-not-raping-women-and-taking-hostages.

    I’m pro-not-unjustly-imprisoning-people-without-due-process.

    I’m pro-freedom and pro-peace and pro- all the things we never see in this conflict anymore.

    Whatever this is, I want none of it.

    #Palestine

    • Au fond les choses ne sont pas très compliquées.

      The Jews who founded Israel just happened to have won the last big battle for it.

      Si l’état d’Israël continue à suivre cette logique, tôt ou tard le jour viendra quand un autre groupe aura « gagné la dernière bataille ». Je suis convaincu qu’uniquement une solution provisoire équitable pourra précéder la paix dans la région de Palestine. L’exemple allemand montre que c’est possible mais toujours insuffisant. On n’arrête pas l’histoire.

      #Palestine #Israël #guerre #histoire

  • « Une partie de l’opinion palestinienne pourrait se retourner contre le Hamas », Dominique Vidal
    https://basta.media/Israel-Palestine-objectifs-des-attaques-du-Hamas-riposte-israelienne-bombar

    basta ! : Quels sont les objectifs du Hamas ? Pourquoi s’attaquer à des kibboutz ou tuer systématiquement les civils israéliens rencontrés sur le passage de leurs commandos ? Pourquoi ne pas avoir ciblé spécifiquement des objectifs militaires ?

    Dominique Vidal : En préambule, quiconque s’en prend à des civils, qu’ils soient israéliens ou palestiniens, que ce soit dans les kibboutz dont les habitants ont été massacrés ou sous les bombes israéliennes à Gaza, commet des crimes de guerre, voire des crimes contre l’humanité. Quand on dit qu’il ne faut pas deux poids deux mesures, cela s’applique dans les deux sens.

    C’est la première fois depuis 1948 que des combattants armés étrangers pénètrent sur le sol israélien. Cela ne s’était jamais produit, même en 1973 avec la guerre du Kippour – car c’est cette date, 50 ans après, que le Hamas a choisi pour déclencher son attaque. À l’époque, des soldats syriens et égyptiens ont attaqué le plateau du Golan [territoire syrien à l’époque occupé par Israël après la guerre de 1967, ndlr], et le canal de Suez, mais aucun n’a pénétré sur le territoire israélien en tant que tel. Donc ce qui s’est passé ce 7 octobre est vraiment sans précédent.

    Cette opération aussi préparée, massive, brutale et sanglante répond à trois motivations. La première est de traumatiser les Israéliens. C’est à mon avis un raisonnement absurde, qui ne tient pas compte des leçons de l’histoire, y compris de celle du Hamas. Lorsque, pendant la seconde intifada (de 2000 à 2005), le Hamas a mené des attentats kamikazes – environ 600 à 700 Israéliens sont morts dans ces attentats –, cela a contribué à faire basculer une partie de la population israélienne, y compris celle plutôt favorable au « processus de paix », vers la droite et l’#extrême_droite.

    #Palestine #Hamas #Gaza #Marwan_Barghouti #Israël #crimes_de_guerre #Iran #Arabie_Saoudite

    • Pourquoi le Hamas ne s’est-il pas contenté d’obtenir des avancées en négociant avec Israël ?

      C’est ce qu’il a fait jusqu’à ce 7 octobre. De bombardement en bombardement, d’attentat en attentat, on a quand même assisté à une forme d’alliance entre ces deux meilleurs ennemis que sont le Hamas et Israël. Les autorités israéliennes ont facilité la constitution du Hamas dès 1987 puis son développement pour qu’il puisse devenir un concurrent sérieux du Fatah, comme le raconte Charles Enderlin [correspondant de France 2 au Proche-Orient pendant plus de trente ans, ndlr] dans son livre Le grand aveuglement : Israël et l’irrésistible ascension de l’islam radical. L’objectif à l’époque était de diviser les Palestiniens pour les maîtriser plus facilement. Ce jeu s’est poursuivi avec Netanyahou pour affaiblir l’Autorité palestinienne.

    • Israël a avant toute chose créé (et j’estime que cela fut fait sciemment), les conditions d’apparition du Hamas en choisissant d’envahir le Liban pour liquider l’OLP ("paix en Gallilée", 1982), une tâche qui fut pour partie déléguée aux phalangistes libanais (massacres de palestiniens commis à Sabra et Chatila).

      37 ans après, la blague de « Bibi » 2019 (pour être peinards, encourageons le financement du Hamas) n’est que rappel obscène de ce choix, maintenu.

      et c’est ce qui vient de changer.

      #Benyamin_Netanyahou

    • Benyamin Netanyahou . Made in USA
      https://www.monde-diplomatique.fr/mav/98/VIDAL/16573

      Que M. Benyamin Netanyahou soit tombé, enfant, dans la marmite de l’extrême droite ne saurait surprendre : son père avait été le secrétaire du fondateur du mouvement sioniste révisionniste, Zeev Jabotinsky – que Benito Mussolini, un expert, qualifiait de « fasciste ». Réactionnaire, Benzion Netanyahou le fut au point d’abandonner, en 1963, un #Israël jugé « socialiste » pour s’exiler aux Etats-Unis.

      Pour « Bibi » commence une adolescence américaine. Certes, en 1967, à 18 ans, il part pour Israël prendre place, comme son frère Yonathan (qui trouvera la mort lors du sauvetage des otages d’Entebbe), dans l’unité d’élite de l’armée. 1973, retour outre-Atlantique. Sous le patronyme de Ben Nitaï, il devient américain et étudie l’économie au Massachusetts Institute of Technology.

      Après un passage en Israël, où… il vend des meubles, M. Netanyahou revient à New York. Ami de son père, l’ambassadeur israélien d’alors, Moshe Arens, l’appelle en 1982 à ses côtés. Le jeune diplomate – qui a rechangé de citoyenneté – apprend le bon usage des médias. Choyé par les vedettes de la télévision, il gravit les échelons : représentant d’Israël aux Nations unies en 1984, vice-ministre des affaires étrangères d’Israël en 1988, vice-ministre dans le cabinet du premier ministre en 1991.

      La victoire d’Itzhak Rabin met provisoirement fin à son ascension. « Bibi » prend alors la tête du Likoud, auquel il impose ses recettes. Américain, il ne le reste pas seulement par son accent bostonien. Economiquement, il ne jure que par la politique libérale de Milton Friedmann : privatisation des entreprises publiques, réduction du déficit budgétaire au détriment des services publics et des programmes sociaux, abaissement du taux d’imposition des riches comme des entreprises, etc.

      Stratégiquement, il s’inscrit pleinement dans la croisade contre le terrorisme, à laquelle il consacre trois livres. Il y regrette le soutien du président William Clinton à l’autonomie palestinienne, affirmant : « De même que les zones de libre échange stimulent le commerce, la création d’une “zone de libre-terrorisme” ne peut qu’encourager cette pratique. »

      Telle est l’inspiration du programme du gouvernement qu’il dirige à partir de 1996. M. Netanyahou inscrit son pays dans la mondialisation tout en multipliant les provocations contre les accords d’Oslo : ouverture du tunnel au bas de l’esplanade des Mosquées, construction de la colonie de Har Homa, sabotage du miniaccord de Wye River… Battu par M. Ehoud Barak en 1999, il se rabat sur la direction du Likoud, mais y trouve plus à droite que lui : le général Ariel Sharon lui souffle le leadership de l’opposition, avant d’être élu chef du gouvernement. Dès lors, il n’a plus d’autre choix que de participer à celui-ci, tout en jouant la surenchère, dans l’espoir de tirer un jour son épingle du jeu…

      Histoires d’Israël « manière de voir » 2008 un n° coordonné par Dominique Vidal.
      https://www.monde-diplomatique.fr/mav/98
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