• Cassazione, dare i migranti ai guardiacoste di Tripoli è reato

    La consegna di migranti alla guardia costiera libica è reato perché la Libia «non è porto sicuro».

    E’ quanto sancisce una sentenza della Corte di Cassazione che ha reso definitiva la condanna del comandante del rimorchiatore #Asso_28 che il 30 luglio del 2018 soccorse 101 persone nel Mediterraneo centrale e li riportò in Libia consegnandoli alla Guardia costiera di Tripoli. Della sentenza scrive Repubblica.

    Per i supremi giudici favorire le intercettazioni dei guardiacoste di Tripoli rientra nella fattispecie illecita «dell’abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci e di sbarco e abbandono arbitrario di persone». Nella sentenza viene sostanzialmente sancito che l’episodio del 2018 fu un respingimento collettivo verso un Paese non ritenuto sicuro vietato dalla Convenzione europea per i diritti umani.

    Casarini, dopo Cassazione su migranti pronti a #class_action

    "Con la sentenza della Corte di Cassazione, che ha chiarito in maniera definitiva che la cosiddetta «guardia costiera libica» non può «coordinare» nessun soccorso, perché non è in grado di garantire il rispetto dei diritti umani dei naufraghi, diventa un reato grave anche ordinarci di farlo, come succede adesso. Ora metteremo a punto non solo i ricorsi contro il decreto Piantedosi, che blocca per questo le navi del soccorso civile, ma anche una grande class action contro il governo e il ministro dell’Interno e il memorandum Italia-Libia". E’ quanto afferma Luca Casarini della ong Mediterranea Saving Humans.

    "Dovranno rispondere in tribunale delle loro azioni di finanziamento e complicità nelle catture e deportazioni che avvengono in mare ad opera di una «sedicente» guardia costiera - aggiunge Casarini -, che altro non è che una formazione militare che ha come compito quello di catturare e deportare, non di «mettere in salvo» le donne, gli uomini e i bambini che cercano aiuto. La suprema corte definisce giustamente una gravissima violazione della Convenzione di Ginevra, la deportazione in Libia di migranti e profughi che sono in mare per tentare di fuggire da quell’inferno". Casarini ricorda, inoltre, che di recente la nave Mare Jonio di Mediterranea "di recente è stata colpita dal fermo amministrativo del governo per non aver chiesto alla Libia il porto sicuro. Proporremo a migliaia di cittadini italiani, ad associazioni e ong, di sottoscrivere la «class action», e chiederemo ad un tribunale della Repubblica di portare in giudizio i responsabili politici di questi gravi crimini. Stiamo parlando di decine di migliaia di esseri umani catturati in mare e deportati in Libia, ogni anno, coordinati di fatto da Roma e dall’agenzia europea Frontex.

    E il ministro Piantedosi, proprio ieri, l’ha rivendicato testimoniando al processo a Palermo contro l’allora ministro Salvini. Lui si è costruito un alibi, con la distinzione tra centri di detenzione legali e illegali in Libia, dichiarando che «l’Italia si coordina con le istituzioni libiche che gestiscono campi di detenzione legalmente. Finalmente questo alibi, che è servito fino ad ora a coprire i crimini, è crollato grazie al pronunciamento della Cassazione. Adesso questo ministro deve essere messo sotto processo, perché ha ammesso di avere sistematicamente commesso un reato, gravissimo, che ha causato morte e sofferenze a migliaia di innocenti».

    https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2024/02/17/cassazione-dare-i-migranti-a-guardiacoste-di-tripoli-e-reato_cfcb3461-c654-4f3c

    #justice #migrations #asile #réfugiés #frontières #gardes-côtes_libyens #Libye #jurisprudence #condamnation #externalisation #pull-backs #refoulements #push-backs #cour_de_cassation #cassation #port_sûr

    • Sentenza Cassazione: Consegnare gli immigranti alla guardia costiera libica è reato

      La Libia è un paese canaglia: bocciati Minniti, Conte e Meloni. Dice la sentenza della Cassazione, è noto che in Libia i migranti subiscono vessazioni, violenze e tortura. Quindi è un reato violare la legge internazionale e il codice di navigazione che impongono di portare i naufraghi in un porto sicuro

      Il governo italiano (sia questo in carica sia quelli di centrosinistra che avevano Marco Minniti come ministro dell’interno) potrebbe addirittura finire sotto processo sulla base di una sentenza emessa dalla Corte di Cassazione.

      Dice questa sentenza che la Libia non è un porto sicuro, e che dunque non si possono consegnare alla Libia (o favorire la cattura da parte delle motovedette libiche) le persone salvate da un naufragio.

      Dice la sentenza, è noto che in Libia i migranti subiscono vessazioni, violenze e tortura. Quindi è un reato violare la legge internazionale e il codice di navigazione che impongono di portare i naufraghi in un porto sicuro.

      Che la Libia non fosse un porto sicuro era stranoto. Bastava non leggere i giornali italiani per saperlo. La novità è che questa evidente verità viene ora formalmente affermata con una sentenza della Cassazione che fa giurisprudenza. E che, come è del tutto evidente, mette in discussione gli accordi con la Libia firmati dai governi di centrosinistra e poi confermati dai governi Conte e infine dai governi di centrodestra.

      Accordi che si basarono persino sul finanziamento italiano e sulla consegna di motovedette – realizzate a spese del governo italiano – alle autorità di Tripoli. Ora quegli accordi devono essere immediatamente cancellati e in linea di principio si potrebbe persino ipotizzare l’apertura di processi (se non è scattata la prescrizione) ai responsabili di quegli accordi.

      I reati per i quali la Cassazione con questa sentenza ha confermato la condanna al comandante di una nave che nel luglio del 2018 (governo gialloverde, Salvini ministro dell’Interno) consegnò alla guardia costiera libica 101 naufraghi salvati in mezzo al Mediterraneo sono “abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci, e di sbarco e abbandono arbitrario di persone”. La Cassazione ha dichiarato formalmente che la Libia non è un porto sicuro.

      Tutta la politica dei respingimenti a questo punto, se dio vuole, salta in aria. La Cassazione ha stabilito che bisogna tornare allo Stato di diritto, a scapito della propaganda politica. E saltano in aria anche i provvedimenti recentemente adottati dalle autorità italiane sulla base del decreto Spazza-naufraghi varato circa un anno fa dal governo Meloni.

      Ancora in queste ore c’è una nave della Ocean Viking che è sotto fermo amministrativo perché accusata di non aver seguito le direttive impartite dalle autorità libiche. Ovviamente dovrà immediatamente essere dissequestrata e forse c’è anche il rischio che chi ha deciso il sequestro finisca sotto processo. Inoltre bisognerà restituire la multa e probabilmente risarcire il danno.

      E quello della Ocean Viking è solo uno di numerosissimi casi. Certo, perché ciò avvenga sarebbe necessaria una assunzione di responsabilità sia da parte del Parlamento sia da parte della magistratura. E le due cose non sono probabilissime.

      https://www.osservatoriorepressione.info/sentenza-cassazione-consegnare-gli-immigranti-alla-guardia

    • Italy’s top court: Handing over migrants to Libyan coast guards is illegal

      Italy’s highest court, the Cassation Court, has ruled that handing over migrants to Libyan coast guards is unlawful because Libya does not represent a safe port. The sentence could have major repercussions.

      Handing over migrants rescued in the Central Mediterranean to Tripoli’s coast guards is unlawful because Libya is not a safe port and it is conduct which goes against the navigation code, the Cassation Court ruled on February 17. The decision upheld the conviction of the captain of the Italian private vessel Asso 28, which, on July 30, 2018, rescued 101 individuals in the central Mediterranean and then handed them over to the Libyan coast guards to be returned to Libya.

      The supreme court judges ruled in sentence number 4557 that facilitating the interception of migrants and refugees by the Libyan coast guards falls under the crime of “abandonment in a state of danger of minors or incapacitated people and arbitrary disembarkation and abandonment of people.” This ruling effectively characterizes the 2018 incident as collective refoulement to a country not considered safe, contravening the European Convention on Human Rights.

      NGOs announce class action lawsuit

      Beyond its political implications, the Cassation’s decision could significantly impact ongoing legal proceedings, including administrative actions. NGOs have announced a class action lawsuit against the government, the interior minister, and the Italy-Libya memorandum.

      The case, which was first examined by the tribunal of Naples, focuses on the intervention of a trawler, a support ship for a platform, to rescue 101 migrants who were on a boat that had departed from Africa’s coast.

      According to investigators, the ship’s commander was asked by personnel on the rig to take on board a Libyan citizen, described as a “Libyan customs official”, who suggested sailing to Libya and disembarking the rescued migrants.

      The supreme court judges said the defendant “omitted to immediately communicate, before starting rescue operations and after completing them, to the centres of coordination and rescue services of Tripoli and to the IMRCC (Italian Maritime Rescue Coordination Centre) of Rome, in the absence of a reply by the first,” that the migrants had been rescued and were under his charge.

      The Cassation ruled that, by operating in this way, the commander violated “procedures provided for by the International Convention for the Safety of Life at Sea (SOLAS) and by the directives of the International Maritime Organization,” thus carrying out a “collective refoulement to a port deemed unsafe like Libya.”

      Furthermore, the Cassation emphasized the commander’s obligation to ascertain whether the migrants wanted to apply for asylum and conduct necessary checks on accompanying minors.
      ’Cassation should not be interpreted ideologically on Libya’, Piantedosi

      “Italy has never coordinated and handed over to Libya migrants rescued in operations coordinated or directly carried out by Italy,” Interior Minister Matteo Piantedosi said on February 19, when asked to comment the Cassation’s ruling. “That sentence must be read well — sentences should never be interpreted in a political or ideological manner,” he said.

      Piantedosi contextualized the ruling within the circumstances prevailing in Libya at the time, citing efforts to assist Libya with EU cooperation. He highlighted the government’s adherence to principles governing repatriation activities and concluded by saying “there can be no spontaneity” and that “coordination” is essential.

      https://twitter.com/InfoMigrants/status/1759901204501438649?t=ZlLRzR3-jQ0e6-y0Q2GPJA

  • Tiens, un grand projet débile à Toulouse évidemment validé par la cour administrative.

    « La cour … a écarté l’ensemble des moyens des requérants...elle a également retenu le caractère proportionné de l’étude d’impact aux différents enjeux environnementaux ».

    Le machin prévu fait 150 mètres de haut :/

    Les associations ont été déboutées une nouvelle fois après le rejet de leur recours initial par le tribunal administratif en juin 2022. En novembre 2023, la cour d’appel avait de nouveau rejeté le recours des opposants. Ce recours portait sur la modification du Plan local d’urbanisme autorisant le promoteur à ne pas construire de logements sociaux dans la tour.

    https://france3-regions.francetvinfo.fr/occitanie/haute-garonne/toulouse/la-tour-occitanie-devrait-voir-le-jour-la-cour-administ

    #justice #promoteurs_immobilier #grands_projets_inutiles

  • badinter était pour la peine de mort des Palestiniens Abdalouahad Bouchal -

    Quatre jours après sa disparition et les louanges médiatiques qui l’ont accompagnée, il est utile de rappeler que robert badinter ne fût pas « que » l’infatigable abolitionniste de la peine de mort. Comme le décline l’analyste Abdalouahad Bouchal qui - à rebours des médias français - n’a pas la mémoire courte... en plein génocide perpétré contre les Palestiniens par l’État colonial d’israël, co-financé par la France et les États-Unis (I’A).


    
On peut s’être battu pour l’abolition de la peine de mort, en France, et être favorable à la mise à mort de tout un peuple, en Palestine. C’est ce que n’a cessé de nous démontrer robert #badinter en venant, sans discontinuer, au secours d’israël.

    Un soutien à un régime d’apartheid au demeurant moins étonnant que les arguments de cet éminent avocat s’articulant en faveur de Tel-Aviv, de façon aussi odieuse que stupide.

    Tout d’abord, fin décembre 2019, devant la Cour Pénale Internationale (CPI), badinter s’est évertué à défendre l’État d’israël pointé par une « enquête sur les éventuels crimes de guerre commis depuis juin 2014 en israël-Palestine ».

    A l’époque, selon badinter, israël et ses dirigeants ne pouvaient être traduits devant la CPI au prétexte que la partie requérante ne serait pas… un pays. A savoir, la Palestine. Or, bien que l’État de Palestine ne dispose que d’un statut d’observateur à l’assemblée des Nations-Unies, l’État palestinien est reconnu comme un État à part entière par les autres États signataires du statut de Rome et membres de la CPI.

    En effet, de 1988 à 2015, la Palestine a été reconnue par 138 États dont deux membres permanents du Conseil de sécurité (Russie et Chine). On pouvait donc, en 2019, être pour le moins perplexe à l’écoute des « arguments » de l’ancien garde des sceaux.

    Quels étaient les arguments de ce technicien du droit sur la recevabilité de la requête déposée jadis par l’Autorité palestinienne de Ramallah ? En voici le résumé, in extenso, dans un billet du chirurgien français Christophe Oberlin ( https://blogs.mediapart.fr/christophe-oberlin/blog/200220/cour-penale-internationale-face-aux-palestiniens-badinter-defend-net ) :

    « La Cour Pénale Internationale n’a pas juridiction sur les crimes prétendus avoir été commis en Cisjordanie, incluant Jérusalem Est et la bande de Gaza. Le terme « État » selon l’article 12(2) (a) du Statut de la Cour signifie que l’État est souverain, or la Palestine ne l’est pas. La Palestine n’est pas un « État » au regard de l’article 12 (2) (a) du Statut par sa simple adhésion au Statut de Rome. Ce n’est pas à la CPI de déterminer si la Palestine est un État souverain selon le droit international, ou si l’enquête en question s’applique « sur le territoire de » la Palestine alors que les parties sont engagées à trouver une solution négociée sur le statut d’état et les frontières. La Palestine ne remplit pas les critères d’un État selon le droit international. Et la seule façon d’enquêter sur des crimes commis dans ce cadre est constituée par la saisine de la CPI par le Conseil de sécurité. Les accords d’Oslo s’imposent à la juridiction de la Cour. » 

    Pour les sceptiques, Oberlin enfonce le clou : « Le résumé de l’argumentaire de robert badinter, présenté en tête de son texte, est identique mot pour mot aux déclarations récentes du Premier ministre israélien #benjamin_netanyahou. Et la suite du document ne fait qu’insister à la fois sur l’illégalité des plaintes palestiniennes, et de la Cour Pénale Internationale à les prendre en compte. Le professeur badinter commet ainsi de remarquables erreurs de droit et d’éthique. »

    Bref, en 2020, robert badinter conduisait une armée de tabellions rémunérés par le gouvernement de l’époque de #benjamin_netanyahu, futur génocidaire en 2023-2024. Il y a 4 ans, israël a finalement été débouté par la présidente ougandaise de la CPI et l’affaire a fait « pschiiiiit ! »

    La France, patrie des lumières blafardes et des droits de l’homme blanc, brille quelques fois d’un bien mauvais éclat. Qu’à cela ne tienne, les lumières, même les plus amoindries, attireront toujours les insectes…

    Protéger certains collabos français 
Plus loin dans le temps, on peut aussi rappeler qu’en 1975, robert badinter s’était violemment opposé à la fameuse Résolution 242 des Nations-Unies https://www.europarl.europa.eu/meetdocs/2004_2009/documents/fd/unresolutions_/unresolutions_fr.pdf . Celle-ci ordonnait, en son article premier :
    1) le « Retrait des forces armées israéliennes des territoires occupés » ;
    2) la « Cessation de toutes assertions de belligérance ou de tous états de belligérance et respect et reconnaissance de la souveraineté, de l’intégrité territoriale et de l’indépendance politique de chaque État de la région et leur droit de vivre en paix à l’intérieur de frontières sûres et reconnues ».

    Aux plus distraits, cette opposition résolue de badinter indique que ce n’est pas d’hier que « Bob » s’est positionné en ennemi de la cause palestinienne.

    Ensuite, pour les cacahuètes du pousse-café, on rajoutera que l’avocat et ex-ministre de la Justice avait vertement engueulé les français juifs venus huer le président François mitterrand lors d’une cérémonie de commémoration du Vélodrome d’Hiver https://www.youtube.com/watch?v=AkebDVjaPjk&t=5s&ab_channel=C%C3%A0vous

    (1992). La cause de cette hostilité citoyenne ? Le refus persistant du monarque mitterrand à reconnaître la responsabilité de la France dans la période de Vichy (1940-1944).

    Voilà donc un bien curieux personnage que ce badinter. S’il s’est incontestablement investi dans l’abolition de la peine de mort, en France et à travers le monde, il a aussi, par fidélité (ou intérêt ?), su se mettre en colère pour protéger « le père François » ; collaborateur du régime de Vichy dans la France occupée de la Seconde Guerre mondiale.

    Par ailleurs, le premier des abolitionnistes français protégera encore#rené bousquet https://fresques.ina.fr/mitterrand/fiche-media/Mitter00296/les-relations-de-francois-mitterrand-et-rene-bousquet.html, antisémite et collabo de l’occupant nazi et… « ami » proche de mitterrand. Cela, jusqu’à ce que – le 8 Juin 1993 – un illuminé vienne tirer 5 balles dans le buffet de l’ex-directeur général de la police de Vichy ET superviseur de « la rafle du Vel d’Hiv’ » [Vélodrome d’Hiver]. Le bilan du haut fonctionnaire bousquet d’avril 1942 à décembre 1943 ? Plus de 60.000 juifs arrêtés par ou avec le concours de la police française pour être déportés vers le camp d’extermination d’Auschwitz…

    L’assassinat de bousquet évitera à mitterrand et son clan « socialiste », la tenue d’un Procès bousquet qui aurait été – comme chacun le sait – très encombrant.

    Enfin, dans la famille badinter, on n’est pas à une contradiction près.

    La veuve de Robert, par exemple, qui, en bonne FÉMINISTE, porte toujours le patronyme de feu son époux, élisabeth_badinter, a été et demeure une pasionaria du féminisme islamophobe. Sans que cela interroge ou énerve quiconque durant sa carrière de présidente au sein du groupe Publicis, dont l’un des très gros clients n’était autre que l’Arabie Saoudite ; pays longtemps soutien inconditionnel de l’État d’israël.



    Abdalaouhad Bouchal

    Source : https://investigaction.net/badinter-etait-pour-la-peine-de-mort-des-palestiniens

    #Palestine #vichy #israël #collaboration #france #elisabeth_badinter #laïcité #islamophobie #badinter #politique #justice #Auschwitz #robert_badinter

    • Des rappels qu’il semble effectivement important de rappeler, sans minimiser le rôle de la personne qui a incarné (en France, donc) l’abolition de la peine de mort, un sujet qui reste malheureusement toujours autant d’actualité. Notamment, en Israël.

      Juste une remarque quelque peu décentrée par rapport au contenu essentiel de ce texte : à propos d’Élisabeth Badinter (on pourra s’étonner que certains patronymes soient privés de majuscules), une féministe,certes, old school , à qui l’on reproche d’avoir conservé le nom de son époux.

      Pour les femmes de cette génération, de toute façon, elles n’avaient pas le choix : c’était soit le nom du mari, soit le nom du père. Pour certaines femmes, choisir le nom du père était une manière de s’affranchir de l’emprise du mari. Et inversement. Dans tous les cas, tant qu’il n’a pas été possible de choisir le nom de la mère ou d’inventer ex nihilo son propre patronyme, il s’agit d’un non-choix, puisque cette expression de la filiation reste la marque symbolique forte du patriarcat.

    • @biggrizzly Alors, s’il n’est pas nécessaire de discuter la question biaisée de la filiation patronymique, on se demande bien ce que vient faire l’évocation de cette personne dans un texte qui concerne son époux, si ce n’est de rattacher, dans leurs identités respectives, l’une à l’autre, respectant ainsi le schéma patriarcal. Le caractère islamophobe et réactionnaire des positionnements politiques d’Élisabeth Badinter ne justifie pas ce type de raccourcis et d’amalgame.

      @mfmb tout à fait d’accord, c’est la raison pour laquelle il me semble que la seule façon de sortir vraiment du truc est la création d’un patronyme.

    • Probablement d’accord, mais alors si l’on critique les positions politiques d’Élisabeth Badinter on le traite dans un sujet qui concerne la personne elle-même ; pas en tant que pièce rapportée d’un texte qui concerne son mari.

  • « Faire les gentils, faire preuve d’humanité : mais on est humain ou on ne l’est pas, et l’humanité n’a aucun rapport avec un boulot qu’ils n’ont souvent pas choisi – on est maton de père en fils, et les épouses suivent leur maton de mari dans la profession, il m’est difficile de disséquer : têtes de surveillants, têtes de filles d’hôpital, têtes à vilains milieux, comment y départager l’humain, la vacherie et la petite fleur ? Moi, je suis prisonnière : la peine est dégoûtante, l’apparence exécrable ; et je ne puis en excuser ni en accuser personne…
    En taule, quel que soit leur côté de barrière, quelles que soient leurs raisons de s’y trouver, les gens ont toujours l’air de s’en excuser : les matuches, en nous faisant de petites faveurs ; nous, en acceptant de les en remercier.
    (Je te flingue, par égard pour ton uniforme, adieu maton, je t’aimais bien.) »

    #maton #accuser #excuser #justice #culpabilité

  • La revue de la semaine :

    #IRLANDE_DU_NORD

    Le Parlement nord-irlandais a désigné samedi dernier comme Première ministre Michelle O’Neill, vice-présidente du Sinn Fein, un parti qui défend la réunion de l’Irlande du Nord (Royaume-Uni) et de la République d’Irlande. Le Parlement nord-irlandais a repris ses travaux le même jour après deux ans de blocage liés aux dispositions commerciales post-Brexit. Michelle O’Neill est la première personnalité du Sinn Fein à être nommée à ce poste.

    #SÉNÉGAL

    Le président du Sénégal, Macky Sall, a annoncé samedi dernier le report de l’élection présidentielle prévue le 25 février dans le pays. Il a expliqué que le processus électoral était entaché de « conditions troubles » qui « pourraient gravement nuire à la crédibilité du scrutin en installant les germes d’un contentieux pré et post-électoral ». L’Assemblée nationale sénégalaise a adopté dans la nuit de lundi à mardi le projet de loi visant à repousser l’élection présidentielle au 15 décembre. Des heurts entre manifestants opposés au report de l’élection et forces de l’ordre ont eu lieu à plusieurs reprises au cours de la semaine.

    #JUSTICE

    Le tribunal correctionnel de Paris a relaxé lundi le président du MoDem, François Bayrou, dans l’affaire des emplois fictifs d’assistants parlementaires européens. La justice a déterminé qu’il y avait eu détournement de fonds publics, mais « aucun élément » ne permet d’affirmer que François Bayrou en avait connaissance, a affirmé le président du tribunal. Le MoDem a en revanche été condamné à une amende et cinq anciens députés européens du parti à de la prison avec sursis et à des amendes. Après avoir discuté avec le Premier ministre, Gabriel Attal, d’un possible retour au gouvernement, François Bayrou a déclaré mercredi ne pas le souhaiter, faute d’un « accord profond sur la politique à suivre ».

    #PIRATAGE

    Les données de plus de 33 millions de personnes, soit près de la moitié de la population vivant en France, ont été dérobées lors d’une attaque informatique, a annoncé mercredi la Cnil, l’autorité de contrôle en matière de protection des données personnelles. Cette attaque a visé les opérateurs Viamedis et Almerys, qui assurent la gestion du tiers payant pour des complémentaires santé.

    #GOUVERNEMENT L’Élysée a annoncé jeudi la composition de la totalité du gouvernement du Premier ministre, Gabriel Attal, après une première partie présentée le 11 janvier. Au total, en plus du Premier ministre, le gouvernement comprend 35 personnes, dont 13 ministres de plein exercice, 16 ministres délégués et six secrétaires d’État [voir la liste complète]. Amélie Oudéa-Castéra est remplacée au ministère de l’Éducation nationale par Nicole Belloubet, garde des Sceaux de 2017 à 2020, mais conserve le portefeuille des Sports et des Jeux olympiques et paralympiques.

    #POLITIQUE

    L’ancien ministre de la Justice Robert Badinter est mort dans la nuit de jeudi à vendredi, à l’âge de 95 ans. Il avait porté le projet de loi pour l’abolition de la peine de mort, adopté en 1981. Emmanuel Macron a salué sur X (ex-Twitter) « une figure du siècle, une conscience républicaine, l’esprit français ».

    • Badinter, un type qui sait se faire sa publicité.

      En 1966, il avait épousé en secondes noces Élisabeth Bleustein-Blanchet, fille de Marcel Bleustein-Blanchet, fondateur de Publicis.
      Des euros par centaines de millions.

      S’il n’avait pas supprimé la peine de mort, un ou une autre s’en serait chargé.

    • Rappelons que c’est François Mittérrand qui voulait l’abolition de la peine de mort.

      Homme politique Badinter, garde des Sceaux, président du Conseil constitutionnel, sénateur, passa son existence à défendre les intérêts de la grande bourgeoisie à laquelle il appartenait.
      Se plaçant systématiquement du côté de sa classe, il s’opposera toujours aux mesures sociales et politiques venues de la gauche.
      Dès 1981 il s’opposa en Conseil des ministres aux nationalisations pourtant prévues par le programme du nouveau président. Puis fut le comptable scrupuleux de l’indemnisation des actionnaires des sociétés concernées.

      On ajoutera sans allonger la liste son aveu d’avoir fait du Conseil constitutionnel, un bouclier contre l’expression souveraine du parlement. Sans oublier son aversion pour les couches populaires dont témoignèrent ses prises de position au moment de la crise des #gilets_jaunes.

  • Une organisation en #souffrance

    Les Français seraient-ils retors à l’effort, comme le laissent entendre les mesures visant à stigmatiser les chômeurs ? Et si le nombre de #démissions, les chiffres des #accidents et des #arrêts_de_travail étaient plutôt le signe de #conditions_de_travail délétères.

    Jeté dans une #concurrence accrue du fait d’un #management personnalisé, évalué et soumis à la culture froide du chiffre, des baisses budgétaires, le travailleur du XXIe siècle est placé sous une #pression inédite...

    L’étude de 2019 de la Darès (Ministère du Travail) nous apprend que 37% des travailleurs.ses interrogés se disent incapables de poursuivre leur activité jusqu’à la retraite. Que l’on soit hôtesse de caisse (Laurence) ou magistrat (Jean-Pierre), tous témoignent de la dégradation de leurs conditions de travail et de l’impact que ces dégradations peuvent avoir sur notre #santé comme l’explique le psychanalyste Christophe Dejours : “Il n’y a pas de neutralité du travail vis-à-vis de la #santé_mentale. Grâce au travail, votre #identité s’accroît, votre #amour_de_soi s’accroît, votre santé mentale s’accroît, votre #résistance à la maladie s’accroît. C’est extraordinaire la santé par le travail. Mais si on vous empêche de faire du travail de qualité, alors là, la chose risque de très mal tourner.”

    Pourtant, la #quête_de_sens est plus que jamais au cœur des revendications, particulièrement chez les jeunes. Aussi, plutôt que de parler de la semaine de quatre jours ou de développer une sociabilité contrainte au travail, ne serait-il pas temps d’améliorer son #organisation, d’investir dans les métiers du « soin » afin de renforcer le #lien_social ?

    Enfin, la crise environnementale n’est-elle pas l’occasion de réinventer le travail, loin du cycle infernal production/ consommation comme le pense la sociologue Dominique Méda : “Je crois beaucoup à la reconversion écologique. Il faut prendre au sérieux la contrainte écologique comme moyen à la fois de créer des emplois, comme le montrent les études, mais aussi une possibilité de changer radicalement le travail en profondeur.”

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/lsd-la-serie-documentaire/une-organisation-en-souffrance-5912905

    #travail #audio #sens #reconnaissance #podcast #déshumanisation #grande_distribution #supermarchés #Carrefour #salariat #accidents_du_travail # location-gérance #jours_de_carence #délai_de_carence #financiarisation #traçabilité #performance #néo-taylorisme #taylorisme_numérique #contrôle #don #satisfaction #modernisation #mai_68 #individualisation #personnalisation #narcissisation #collectif #entraide #épanouissement #marges_de_manoeuvre #intensification_du_travail #efficacité #rentabilité #pression #sous-traitance #intensité_du_travail #santé_au_travail #santé #épidémie #anxiété #dépression #santé_publique #absentéisme #dégradation_des_conditions_de_travail #sommeil #identité #amour_de_soi #santé_par_le_travail #tournant_gestionnaire #gouvernance_de_l'entreprise #direction_d'entreprise #direction #règles #lois #gestionnaires #ignorance #objectifs_quantitatifs #objectifs #performance #mesurage #évaluation #traçabilité #quantification #quantitatif #qualitatif #politique_du_chiffre #flux #justice #charge_de_travail

    25’40 : #Jean-Pierre_Bandiera, ancien président du tribunal correctionnel de Nîmes :

    « On finit par oublier ce qu’on a appris à l’école nationale de la magistrature, c’est-à-dire la motivation d’un jugement... On finit par procéder par affirmation, ce qui fait qu’on gagne beaucoup de temps. On a des jugements, dès lors que la culpabilité n’est pas contestée, qui font abstraction de toute une série d’éléments qui sont pourtant importants : s’attarder sur les faits ou les expliquer de façon complète. On se contente d’une qualification développée : Monsieur Dupont est poursuivi pour avoir frauduleusement soustrait 3 véhicules, 4 téléviseurs au préjudice de Madame Durant lors d’un cambriolage » mais on n’est pas du tout en mesure après de préciser que Monsieur Dupont était l’ancien petit ami de Madame Durant ou qu’il ne connaissait absolument pas Madame Durant. Fixer les conditions dans lesquelles ce délit a été commis de manière ensuite à expliquer la personnalisation de la peine qui est quand même la mission essentielle du juge ! Il faut avoir à chaque fois qu’il nous est demandé la possibilité d’adapter au mieux la peine à l’individu. C’est très important. On finit par mettre des tarifs. Quelle horreur pour un juge ! On finit par oublier la quintessence de ce métier qui est de faire la part des choses entre l’accusation, la défense, l’auteur de faits, la victime, et essayer d’adopter une sanction qui soit la plus adaptée possible. C’est la personnalisation de la peine, c’est aussi le devenir de l’auteur de cette infraction de manière à éviter la récidive, prévoir sa resocialisation. Bref, jouer à fond le rôle du juge, ce qui, de plus en plus, est ratatiné à un rôle de distributeur de sanctions qui sont plus ou moins tarifées. Et ça c’est quelque chose qui, à la fin de ma carrière, c’est quelque chose qui me posait de véritables problèmes d’éthique, parce que je ne pensais pas ce rôle du juge comme celui-là. Du coup, la qualité de la justice finit par souffrir, incontestablement. C’est une évolution constante qui est le fruit d’une volonté politique qui, elle aussi, a été constante, de ne pas consacrer à la justice de notre pays les moyens dont elle devait disposer pour pouvoir fonctionner normalement. Et cette évolution n’a jamais jamais, en dépit de tout ce qui a pu être dit ou écrit, n’ai jamais été interrompue. Nous sommes donc aujourd’hui dans une situation de détresse absolue. La France est donc ??? pénultième au niveau européen sur les moyens budgétaires consacrés à sa justice. Le Tribunal de Nîme comporte 13 procureurs, la moyenne européenne nécessiterait qu’ils soient 63, je dis bien 63 pour 13. Il y a 39 juges au Tribunal de Nîmes, pour arriver dans la moyenne européenne il en faudrait 93. Et de mémoire il y a 125 greffiers et il en faudrait 350 je crois pour être dans la moyenne. Il y avait au début de ma carrière à Nîmes 1 juge des Libertés et de la détention, il y en a aujourd’hui 2. On a multiplié les chiffres du JLD par 10. Cela pose un problème moral et un problème éthique. Un problème moral parce qu’on a le sentiment de ne pas satisfaire au rôle qui est le sien. Un problème éthique parce qu’on finit par prendre un certain nombre de recul par rapport aux valeurs que l’on a pourtant porté haut lorsqu’on a débuté cette carrière. De sorte qu’une certaine mélancolie dans un premier temps et au final un certain découragement me guettaient et m’ont parfois atteint ; mes périodes de vacances étant véritablement chaque année un moment où la décompression s’imposait sinon je n’aurais pas pu continuer dans ces conditions-là. Ce sont des heures de travail qui sont très très chargés et qui contribuent aussi à cette fatigue aujourd’hui au travail qui a entraîné aussi beaucoup de burn-out chez quelques collègues et puis même, semble-t-il, certains sont arrivés à des extrémités funestes puisqu’on a eu quelques collègues qui se sont suicidés quasiment sur place, vraisemblablement en grande partie parce que... il y avait probablement des problèmes personnels, mais aussi vraisemblablement des problèmes professionnels. Le sentiment que je vous livre aujourd’hui est un sentiment un peu partagé par la plupart de mes collègues. Après la réaction par rapport à cette situation elle peut être une réaction combative à travers des engagements syndicaux pour essayer de parvenir à faire bouger l’éléphant puisque le mammouth a déjà été utilisé par d’autres. Ces engagements syndicaux peuvent permettre cela. D’autres ont plus ou moins rapidement baissé les bras et se sont satisfaits de cette situation à défaut de pouvoir la modifier. Je ne regrette rien, je suis parti serein avec le sentiment du devoir accompli, même si je constate que en fermant la porte du tribunal derrière moi je laisse une institution judiciaire qui est bien mal en point."

    Min. 33’15, #Christophe_Dejours, psychanaliste :

    « Mais quand il fait cela, qu’il sabote la qualité de son travail, qu’il bâcle son travail de juge, tout cela, c’est un ensemble de trahisons. Premièrement, il trahi des collègues, parce que comme il réussi à faire ce qu’on lui demande en termes de quantité... on sait très bien que le chef va se servir du fait qu’il y en a un qui arrive pour dire aux autres : ’Vous devez faire la même chose. Si vous ne le faites pas, l’évaluation dont vous allez bénéficier sera mauvaise pour vous, et votre carrière... vous voulez la mutation ? Vous ne l’aurez pas !’ Vous trahissez les collègues. Vous trahissez les règles de métier, vous trahissez le justiciable, vous trahissez les avocats, vous leur couper la parole parce que vous n’avez pas le temps : ’Maître, je suis désolé, il faut qu’on avance.’ Vous maltraitez les avocats, ce qui pose des problèmes aujourd’hui assez compliqués entre avocats et magistrats. Les relations se détériorent. Vous maltraitez le justiciable. Si vous allez trop vite... l’application des peines dans les prisons... Quand vous êtes juges des enfants, il faut écouter les enfants, ça prend du temps ! Mais non, ’va vite’. Vous vous rendez compte ? C’est la maltraitance des justiciables sous l’effet d’une justice comme ça. A la fin vous trahissez la justice, et comme vous faites mal votre travail, vous trahissez l’Etat de droit. A force de trahir tous ces gens qui sont... parce que c’est des gens très mobilisés... on ne devient pas magistrat comme ça, il faut passer des concours... c’est le concours le plus difficile des concours de la fonction publique, c’est plus difficile que l’ENA l’Ecole nationale de magistrature... C’est des gens hyper engagés, hyper réglo, qui ont un sens de la justice, et vous leur faites faire quoi ? Le contraire. C’est ça la dégradation de la qualité. Donc ça conduit, à un moment donné, à la trahison de soi. Ça, ça s’appelle la souffrance éthique. C’est-à-dire, elle commence à partir du moment où j’accepte d’apporter mon concours à des actes ou à des pratiques que le sens moral réprouve. Aujourd’hui c’est le cas dans la justice, c’est le cas dans les hôpitaux, c’est le cas dans les universités, c’est le cas dans les centres de recherche. Partout dans le secteur public, où la question éthique est décisive sur la qualité du service public, vous avez des gens qui trahissent tout ça, et qui entrent dans le domaine de la souffrance éthique. Des gens souffrent dans leur travail, sauf que cette souffrance, au lieu d’être transformée en plaisir, elle s’aggrave. Les gens vont de plus en plus mal parce que le travail leur renvoie d’eux-mêmes une image lamentable. Le résultat c’est que cette trahison de soi quelques fois ça se transforme en haine de soi. Et c’est comme ça qu’à un moment donné les gens se suicident. C’est comme ça que vous avez des médecins des hôpitaux, professeurs de médecine de Paris qui sautent par la fenêtre. Il y a eu le procès Mégnien, au mois de juin. Il a sauté du 5ème étage de Georges-Pompidou. Il est mort. Comment on en arrive là ? C’est parce que les gens ont eu la possibilité de réussir un travail, de faire une oeuvre, et tout à coup on leur casse le truc. Et là vous cassez une vie. C’est pour cela que les gens se disent : ’Ce n’est pas possible, c’est tout ce que j’ai mis de moi-même, tous ces gens avec qui j’ai bossé, maintenant il faut que ça soit moi qui donne le noms des gens qu’on va virer. Je ne peux pas faire ça, ce n’est pas possible.’ Vous les obligez à faire l’inverse de ce qu’ils croient juste, de ce qu’ils croient bien. Cette organisation du travail, elle cultive ce qu’il y a de plus mauvais dans l’être humain. »

    #suicide #trahison #souffrance_éthique

    • Quels facteurs influencent la capacité des salariés à faire le même travail #jusqu’à_la_retraite ?

      En France, en 2019, 37 % des salariés ne se sentent pas capables de tenir dans leur travail jusqu’à la retraite. L’exposition à des #risques_professionnels – physiques ou psychosociaux –, tout comme un état de santé altéré, vont de pair avec un sentiment accru d’#insoutenabillité du travail.

      Les métiers les moins qualifiés, au contact du public ou dans le secteur du soin et de l’action sociale, sont considérés par les salariés comme les moins soutenables. Les salariés jugeant leur travail insoutenable ont des carrières plus hachées que les autres et partent à la retraite plus tôt, avec des interruptions, notamment pour des raisons de santé, qui s’amplifient en fin de carrière.

      Une organisation du travail qui favorise l’#autonomie, la participation des salariés et limite l’#intensité_du_travail tend à rendre celui-ci plus soutenable. Les mobilités, notamment vers le statut d’indépendant, sont également des moyens d’échapper à l’insoutenabilité du travail, mais ces trajectoires sont peu fréquentes, surtout aux âges avancés.

      https://dares.travail-emploi.gouv.fr/publication/quels-facteurs-influencent-la-capacite-des-salaries-faire-
      #statistiques #chiffres

  • Au procès des attentats de Trèbes et de Carcassonne, trois variations autour de l’« association de malfaiteurs terroriste »
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/02/10/au-proces-des-attentats-de-trebes-et-de-carcassonne-trois-variations-autour-

    La cour d’assises a commencé à se pencher cette semaine sur le sort des accusés. La diversité de leurs profils offre un échantillon rare des mille nuances de l’infraction phare de la justice antiterroriste.
    Par Soren Seelow

    Cette séquence a parfois ressemblé à une étude de cas pour tout élève avocat, jeune magistrat ou chaque lecteur désireux de mieux cerner les mille nuances de l’infraction phare de la justice antiterroriste : l’« association de malfaiteurs terroriste », ou AMT. La diversité des accusés de ce procès offre en effet un échantillon rare de la variété des profils et des comportements susceptibles d’être attrapés par le filet de cet objet judiciaire protéiforme.
    A la différence de la « complicité d’assassinats terroristes », l’AMT ne suppose pas que les accusés aient été au courant du projet criminel de Radouane Lakdim, un délinquant radicalisé qui a tué quatre personnes avant d’être abattu, le 23 mars 2018. Il suffit qu’ils l’aient soutenu, matériellement ou moralement, en ayant conscience qu’il était susceptible de commettre un attentat, sans nécessairement avoir partagé son idéologie.

    Au cœur de la politique pénale de la justice antiterroriste, l’AMT vise ainsi à rendre radioactif tout individu radicalisé – en brisant les solidarités de quartier et les complaisances amicales ou familiales – afin de dissuader toute personne de porter assistance à un terroriste en puissance. Une sorte d’arme de destruction judiciaire contre le « djihad d’atmosphère » [ou tout autre ennemi intérieur : https://paris-luttes.info/affaire-du-8-decembre-l-17399]. Elle provoque parfois à l’audience un sentiment de décalage entre la peine encourue – trente ans de réclusion criminelle – et la nature des faits reprochés aux accusés.

    #antiterrorisme #droit_policier #association_de_malfaiteurs_terroriste #justice_antiterroriste

    https://justpaste.it/8gaa0

    • Verdict du procès des attentats de Carcassonne et de Trèbes : un cours de droit et une leçon de morale
      https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/02/24/verdict-des-attentats-de-carcassonne-et-de-trebes-un-cours-de-droit-et-une-l

      Une leçon de droit, et une leçon de morale. Le président de la cour d’assises spéciale de Paris, Laurent Raviot, a fait coup double, vendredi 23 février, en rendant le verdict du procès des attentats qui ont fait quatre morts à Trèbes et à Carcassonne, le 23 mars 2018. A l’issue de ce procès sans assassin ni complice (le terroriste avait été abattu par les forces de l’ordre), il a prononcé des peines nettement inférieures aux réquisitions – entre six mois et quatre ans de prison ferme – et a abandonné l’essentiel des infractions terroristes reprochées aux accusés.

      La leçon de droit ? Elle vise les magistrats chargés de l’instruction de ce dossier : quatre des cinq accusés renvoyés pour « association de malfaiteurs terroriste » ont été acquittés pour ce crime, passible de trente ans de réclusion. Un désaveu cinglant. La leçon de morale ? Elle s’adresse aux sept accusés, et plus généralement à l’environnement du terroriste, Radouane Lakdim, dont les débats ont montré que tous, ou presque, avaient conscience de sa radicalisation violente.
      Mais la morale n’est pas le droit. « L’infraction d’association de malfaiteurs terroriste implique quand même des actes matériels au soutien d’un projet terroriste, a rappelé le président. S’il n’y a pas d’acte matériel, même en cas de complaisance vis-à-vis du terroriste, on ne peut pas retenir cette infraction. Beaucoup de gens dans cette affaire ont manifesté une grande complaisance vis-à-vis du terroriste. A défaut d’une responsabilité pénale, ils ont une grande responsabilité morale. Je les laisse à leur conscience… »
      Coup de frein à l’emballement de la jurisprudence
      Par ce verdict, la cour d’assises a rappelé les limites de l’infraction phare de la justice antiterroriste, dont les contours n’ont cessé de s’étendre et de se brouiller au fil des procès, au point d’être qualifiée de « pieuvre » à l’audience par un avocat de la défense. Cette décision marque ainsi un coup de frein à l’emballement de la jurisprudence observé depuis quelques années.

      Accompagner un ami radicalisé acheter un couteau de chasse dans un magasin de pêche peut-il constituer une association de malfaiteurs terroriste si cet ami s’en sert ensuite pour commettre un attentat ? Le ministère public avait considéré que oui et avait requis dix ans de réclusion contre Samir Manaa.

      Cet ami de quartier, qui n’est pas radicalisé, avait conduit Radouane Lakdim acheter le couteau avec lequel ce dernier égorgera le colonel Arnaud Beltrame deux semaines plus tard. La cour d’assises l’a acquitté pour ce « mauvais choix », selon les termes mêmes de l’accusation, et l’a condamné à trois ans de prison pour un simple délit, une détention d’armes sans lien avec les attentats.

      Un trafic de cannabis
      Diriger un trafic de cannabis, dans lequel travaille comme revendeur un individu radicalisé qui commettra un attentat, suffit-il à qualifier ce réseau d’association de malfaiteurs terroriste ? Cette fois, même le Parquet national antiterroriste (PNAT) avait jugé qu’on allait trop loin.
      Il avait donc demandé dans son réquisitoire de requalifier les faits reprochés à Reda El Yaakoubi et Ahmed Arfaoui en simple association de malfaiteurs de droit commun relative à un trafic de drogues. Mais c’est bien pour terrorisme que ces deux accusés avaient été renvoyés par les juges d’instruction, contre l’avis du ministère public.
      Lire aussi | Article réservé à nos abonnés Au procès des attentats de Trèbes et de Carcassonne, trois variations autour de l’« association de malfaiteurs terroriste »

      La cour n’a finalement suivi ni les uns ni les autres, considérant que l’association de malfaiteurs terroriste n’était pas constituée et qu’elle n’était pas saisie de l’association de malfaiteurs délictuelle. Reda El Yaakoubi a été condamné à quatre ans de prison pour détention d’armes, toujours sans aucun lien avec les attentats. Ahmed Arfaoui a quant à lui été condamné à trois ans de prison pour « soustraction de preuves » pour avoir fait le « ménage » dans l’appartement du terroriste.

      Une peine clémente pour la « petite amie »
      La seule association de malfaiteurs terroriste qui a survécu à ce naufrage judiciaire est celle retenue contre la petite amie du terroriste, Marine Pequignot. Cette jeune femme de 24 ans en avait 14 quand elle a rencontré son premier amour, Radouane Lakdim, de sept ans son aîné. C’est à son contact qu’elle s’était convertie à l’islam et radicalisée. C’est contre elle que la peine la plus sévère avait été requise : onze ans de réclusion criminelle.
      C’est contre elle également qu’une des condamnations les plus lourdes a été prononcée, bien qu’elle demeure très en deçà des réquisitions : cinq ans de prison, dont deux avec sursis, ce qui a évité à la jeune femme (qui a déjà passé plus de deux ans en détention provisoire), comme à l’ensemble des quatre accusés qui comparaissaient libres, d’être incarcérée à l’issue du verdict.

      Cette fois-ci, l’association de malfaiteurs terroriste est caractérisée. Marine Pequignot a partagé la rage djihadiste de Radouane Lakdim. La relative clémence de la cour tient sans doute à son jeune âge durant sa relation avec le terroriste, et peut-être au chemin qu’elle semble avoir parcouru depuis. Les travailleurs sociaux qui l’accompagnent dans le cadre du dispositif Pairs (programme d’accompagnement individualisé et de réaffiliation sociale), un suivi en milieu ouvert de personnes radicalisées, la disent aujourd’hui « déradicalisée ».

      « Décalage »
      Le cinquième et dernier accusé jugé pour association de malfaiteurs terroriste, un jeune homme radicalisé qui avait brièvement discuté sur Facebook avec le terroriste de l’opportunité de tuer les « mécréants » trois mois avant les faits, a lui aussi été acquitté de ce crime et condamné à deux ans ferme pour « provocation à un acte de terrorisme ». Un ami du djihadiste, très instable psychologiquement, a lui été condamné à un an ferme pour « non-dénonciation de crime terroriste ».
      Lors de son réquisitoire, le PNAT avait anticipé le « décalage » entre « l’horreur absolue » des attentats et les faits reprochés aux accusés : « Juger les accusés ne veut pas dire leur faire porter le poids de l’absence », avait-il averti. A la lecture du verdict, le « décalage » était encore plus vertigineux que prévu.

  • Senza frontiere: La criminalizzazione dei cosiddetti #scafisti nel 2023

    1. Dati e monitoraggio della cronaca
    Numero di fermi

    Come negli anni precedenti, nel 2023 abbiamo monitorato sistematicamente la cronaca sulle notizie degli arresti dei cosiddetti scafisti. Abbiamo registrato 177 arresti negli ultimi 12 mesi (rispetto ai 171 arresti nel 2021 e ai 261 arresti nel 2022). Una dichiarazione di Piantedosi che sostiene che “550 scafisti” sono stati arrestati nel biennio 2022-23 – visto che nell’aprile il governo ha rivendicato c. 350 fermi per 2022 – ci fa stimare un totale di 200 fermi nel 2023. Dal 2013, quindi, sono state fermate ormai circa 3.200 persone.

    Il numero di arresti nel 2023 non solo è inferiore in termini assoluti rispetto agli anni precedenti, ma mostra una diminuzione ancora più significativa in termini relativi. Nel 2023, circa 157.000 persone sono arrivate in Italia via mare, il che significa che sono state arrestate circa tre persone ogni 2.000 arrivi. Nel 2021 e nel 2022, il tasso di criminalizzazione era due volte questo.

    Esistono diverse ragioni che potrebbero spiegare questa diminuzione. La più significativa sembra essere un cambiamento di politica ad Agrigento e Lampedusa nel non effettuare arresti sistematici dopo gli sbarchi, concentrandosi invece su casi specifici che coinvolgono accuse di morti durante il viaggio, torture e, per la prima volta, pirateria. Ci teniamo ad aggiungere che – appoggiando il lavoro dell’associazione Maldusa – stiamo seguendo casi in cui le persone sono accusate dei suddetti reati, che hanno suscitato in noi importanti dubbi sulla correttezza delle accuse e sulle modalità con cui vengono portati avanti questi procedimenti penali che spesso sembrano vere e proprie sperimentazioni giuridiche. È anche evidente che le autorità ad Agrigento effettuano continuamente arresti di persone, soprattutto cittadini tunisini, che, essendo rientrati in Italia dopo espulsioni precedenti, sono imputati del reato di violazione del divieto di reingresso. Questo dimostra una manipolazione molto evidente del diritto penale come mezzo per sostenere le ingiuste politiche di chiusura e respingimento.

    Luoghi di fermo e il decreto Piantedosi

    In secondo luogo, l’anno scorso è stata attuata una nuova strategia nella guerra italiana contro le navi di soccorso delle ONG, a cui sono stati assegnati porti di sbarco in tutta Italia (il decreto Piantedosi). Un effetto collaterale è che spesso i luoghi che hanno accolto le imbarcazioni non hanno visto tanti sbarchi prima di quest’anno, e sono quindi poco familiari con la criminalizzazione sistematica che si è agita negli ultimi anni. Nei porti settentrionali a volte sono stati disposti gli arresti, che spesso poi non sono stati convalidati dai Giudici locali, che non hanno ritenuto neppure di disporre una misura cautelare dato che le prove contro gli imputati erano troppo deboli. Mentre ad Agrigento e nei porti del Nord possiamo forse notare una certa resistenza alla solita politica degli arresti sistematici dei capitani, lo stesso non si può dire in altre parti d’Italia. Nella Sicilia orientale e in Calabria un alto numero di persone è stato arrestato e incarcerato. Augusta ha registrato 28 arresti, Siracusa 11; Crotone ha visto 24 arresti e Roccella 18. E come si può vedere dalla mappa, questo modello si replica in altri porti delle stesse zone.

    Nazionalità

    Nel 2023, come nel 2021 e nel 2022, le autorità hanno preso di mira in particolare i cittadini egiziani, identificandone almeno 60 come capitani. Ciò è notevolmente diverso da quanto avveniva prima del 2020, quando gli egiziani avevano smesso di essere la principale nazionalità criminalizzata. Questa inversione di tendenza ha visto circa 300 cittadini egiziani arrestati dal 2020, la maggior parte dei quali probabilmente è ancora nelle carceri italiane.

    Un cambiamento significativo delle nazionalità delle persone arrestate registrato nel 2023 è invece l’importante aumento della criminalizzazione delle persone migranti provenienti dai paesi asiatici, che ammontano a circa 40 persone fermate quest’anno.

    Con riferimento alla rotta ionica, che arriva in Calabria – la stessa utilizzata dalla barca che è tragicamente affondata vicino a Cutro – nel 2021 la maggior parte delle persone arrestate come capitani proveniva da Russia e Ucraina. Con l’inizio della guerra, sono arrivate molte meno persone con queste nazionalità, mentre abbiamo assistito ad un allarmante aumento della persecuzione dei cittadini turchi nel 2022. Nell’ultimo anno, invece, abbiamo assistito a pochi arresti di persone provenienti dall’Europa orientale o dalla Turchia, e molti di più di persone provenienti dagli stati dell’Asia centrale.

    Va detto che la diminuzione dei fermi eseguiti dalla Procura di Agrigento dovrebbe essere letta alla luce della massiccia operazione posta in essere dalla polizia tunisina, con la benedizione e il finanziamento dell’Europa, contro i cosiddetti trafficanti a Sfax. I governi si vantano di ben 750 fermi nel paese nordafricano negli ultimi tre mesi, accanto a strategie violente di intercettazione e refoulement, come denunciato sia da Amnesty che dal Forum tunisino per i diritti economici e sociali. Anche in Egitto, l’inasprimento della legge nazionale contro i ‘trafficanti’ ha portato a diffusi arresti e processi ingiusti. Ad esempio, l’11 giugno 2023, una campagna di arresti ingiustificati per “smuggling” ha portato alla morte, alla città di Marsa Matruh, di un cittadino egiziano per colpi di arma da fuoco inferti dalla polizia, come ha denunciato Refugees Platform in Egypt. A livello dell’UE, si provano invece ad affinare gli strumenti legali, accrescendo le infrastrutture di controllo e criminalizzazione della frontiera e proponendo emendamenti – come quelli presentati in occasione del lancio dell’Alleanza globale contro il traffico di migranti – al cosiddetto Facilitators Package (in italiano “pacchetto facilitatori”).

    È chiaro quindi che, mentre festeggiamo alcune limitate vittorie, non possiamo negare che il “trafficante/scafista” rimane il capro espiatorio per eccellenza in Europa e non solo.
    2. Un anno di casi e udienze

    Attualmente seguiamo la situazione di 107 persone accusate di essere ‘scafisti’, 66 delle quali sono ancora in carcere. Dei detenuti, 32 si trovano in Sicilia e 16 in Calabria; gli altri sono sparsi in tutta Italia. Come ci si aspetterebbe dagli arresti degli ultimi anni, quasi la metà delle persone detenute che seguiamo proviene dall’Africa del Nord (30 su 44), mentre la maggior parte di quelle provenienti dall’Africa occidentale con cui siamo in contatto sono ormai libere (23 su 30). Siamo anche in contatto con 24 persone provenienti da paesi asiatici (tra cui Turchia, Palestina e i paesi ex-sovietici), la maggior parte delle quali è ancora detenuta.
    Cutro

    E’ trascorso poco meno di un anno da quando quasi 100 persone hanno perso la vita nelle acque di Cutro, in Calabria. Il Governo ha reagito non solo con finta commozione e decreti razzisti, ma anche, come quasi sempre accade, con un processo contro i cosiddetti scafisti. Insieme alle realtà calabresi, seguiamo attentamente i processi contro Khalid, Hasab, Sami, Gun e Mohamed, sopravvissuti al naufragio e provenienti dalla Turchia e dal Pakistan: ora si devono difendere contro il Ministero dell’Interno, il Consiglio dei Ministri e la Regione Calabria che si sono costituiti parti civili nel processo penale. Le istituzioni governative, anche se non esiste un fondo per questo, chiedono un risarcimento superiore a un milione di euro per danni al turismo e all’immagine: come se la tragedia del massacro di Cutro fosse questa.
    Processi

    Sono diversi i procedimenti penali che siamo riusciti a seguire da vicino, offrendo il nostro supporto ad avvocatə e persone criminalizzate, e, in alcuni casi, andando personalmente alle udienze.

    - Tra le vittorie ottenute non possiamo non citare la recentissima sentenza di assoluzione emessa dalla Corte di Appello di Messina in favore di Ali Fabureh, un giovane ragazzo gambiano che era stato erroneamente condannato dal Tribunale di Messina a 10 anni di carcere senza che – come appurato dalla Corte – avesse mai preso un timone in mano. E sempre a Messina abbiamo registrato un’altra importante vittoria: si è, infatti, concluso con una sentenza di assoluzione anche il procedimento penale iniziato due anni fa contro 4 persone accusate di aver condotto un peschereccio con a bordo centinaia di persone ed essere responsabili della morte di 5 di esse. Tra le persone assolte c’è A., che attualmente è ospitato presso l’associazione Baobab, e con cui continuiamo a rimanere in contatto. Un’altra importante vittoria di quest’anno è stata raggiunta a febbraio a Palermo, quando il Tribunale ha assolto 10 persone accusate di art. 12 TUI, riconoscendo loro lo stato di necessità per le violenze subite in Libia e aprendo la strada, si spera, a un maggior riconoscimento di questa causa di giustificazione. La sentenza è ora definitiva.
    - Purtroppo non tutti i procedimenti seguiti si sono conclusi positivamente, a dimostrazione del fatto che, anche se qualche passo nella direzione giusta è stato fatto, ne restano ancora tanti da compiere. Spesso può succedere che il processo contro due imputati nello stesso procedimento, ha avuto esiti diversi. Questo è stato il caso in un processo nei confronti di due cittadini senegalesi al Tribunale di Agrigento, che ha disposto l’archiviazione per uno di loro, mentre per l’altro il processo continua.
    – Altre volte è stata emessa una sentenza di condanna senza assoluzioni o archiviazioni. Questo è il caso della riprovevole condanna di 7 anni inflitta dal Tribunale di Locri a Ahmid Jawad, magistrato afghano che ancora lotta per dimostrare che era un semplice passeggero dell’imbarcazione che dalla Turchia l’ha condotto in Italia. E’ anche la situazione di Ahmed, che si è visto rigettare l’appello proposto alla Corte di Appello di Palermo avverso la sentenza di condanna del Tribunale di Agrigento.
    - Inoltre, non possiamo non mostrare indignazione e preoccupazione per i casi, come quello di E. (egiziano) al tribunale di Locri e M. e J. (del Sierra Leone) a Reggio Calabria, con cui siamo in contatto, a cui è stata applicata la nuova fattispecie di reato di cui all’art. 12 bis TUI, introdotta con il decreto Cutro, che prevede pene ancora più elevate. Seguiamo il loro processo da lontano: a gennaio, il tribunale di Locri ha rigettato la richiesta di remissione alla Corte Costituzionale presentata dagli avvocati per contestare l’art 12 bis.

    Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR)

    I problemi per le persone accusate di essere ‘scafisti’ non finiscono a fine pena, e anche con riferimento alla detenzione nei CPR abbiamo seguito casi che hanno avuto esiti molto diversi. Siamo felicə che gli ultimi due casi seguiti si siano conclusi in modo positivo. Nel mese di dicembre, infatti, una donna ucraina e un uomo tunisino entrambə codannatə per art. 12 TUI, sono statə scarceratə, rispettivamente dalle carceri di Palermo e di Caltagirone, senza essere deportatə presso i centri di detenzione. Sicuramente nel primo caso ha inciso la nazionalità della persona, mentre nel secondo il sovraccaricamento dei centri.

    Purtroppo non sempre è stato possibile evitare il CPR. Molte persone seguite, nonostante la richiesta asilo presentata tempestivamente, sono state trattenute nei centri di detenzione, chi per pochi giorni, chi per due mesi. Per circostanze che sembrano spesso fortuite, la maggior parte è riuscita ad uscire e, anche se con poche prospettive di regolarizzarsi, possono vivere in “libertà” in Italia.

    Purtroppo, per due persone seguite le cose sono andate diversamente. La macchina burocratica ha mostrato il suo volto più spietato e sono stati rimpatriati prima che avessero la possibilità di ricevere un aiuto più concreto; oggi si trovano in Gambia e Egitto. Nell’ultimo caso, la situazione è ancora più preoccupante perché era stato assolto dal Tribunale di Messina; nonostante ciò, all’uscita dal carcere lo aspettava la deportazione.
    Misure alternative

    Quest’anno è stato particolarmente significativo in termini del superamento del regime ostativo alle misure alterantive alla detenzione posto dall’art. 4 bis o.p., che si applica a chi subisce una condanna per art. 12 TUI. Abbiamo infatti registrato i primi casi in cui le persone incarcerate che seguiamo hanno potuto accedere a misure alternative alla detenzione. Questo è stato il caso di B., che ha ottenuto dal Tribunale di Sorveglianza di Palermo l’affidamento in prova ai servizi sociali in provincia di Sciacca. Adesso che ha raggiunto il fine pena si è stabilito lì, in poco più di un mese ha aggiunto i suoi obiettivi personali: ha un lavoro e una rete sociale. E questa è la storia anche di A., e O., che hanno fatto accesso alle misure alternative presso la comunità Palermitana Un Nuovo Giorno. Rimaniamo, invece, in attesa dell’esito della seconda istanza di accesso per M., cugino di B., con cui tentiamo dal 2022, e che speriamo possa presto vedere il cielo oltre le quattro mura.

    Abbiamo anche seguito 6 persone, tra cui i 3 accusati palestinesi che l’estate scorsa sono entrati in sciopero della fame, che sono riusciti ad accedere agli arresti domiciliari, che pur non essendo oggetto dell’art. 4 bis o.p., nel corso degli anni sono comunque rimasti difficili da ottenere. Queste vittorie sono state possibili grazie ai tentativi, a volte ripetuti, dellə loro avvocatə difensorə, e alle offerte di ospitalità di un numero crescente di realtà conosciute.

    È bello vedere che qualcuno riesce a sgusciare attraverso alcune crepe di questo meccanismo. Certamente lavoreremo per continuare ad allargarle, anche se sappiamo che questo strumento può solo alleviare la sofferenza di alcune persone, e certamente non riparare i danni subiti per la loro detenzione.
    3. Rete

    Per noi è fondamentale ribadire che è solo grazie a una rete forte, impegnata, diffusa e informata, che questo lavoro è possibile. Anche quest’anno, possiamo dire di aver avuto il grandissimo piacere di collaborare con realtà diverse, in tanti luoghi, da Torino a Napoli, da Lampedusa a Londra, da Roma a Bruxelles e New York.

    In particolare, segnaliamo la campagna recentemente avviata Free #Pylos 9, promossa della rete Captain Support, per le persone arrestate in seguito al massacro di Pylos in Grecia. Negli ultimi mesi abbiamo inoltre avuto modo di conoscere realtà solidali a Bruxelles, tra cui PICUM, che ha organizzato a fine novembre un incontro di scambio sulle pratiche di criminalizzazione attuate intorno al controllo della migrazione. Qui abbiamo avuto l’opportunità di aprire insieme una conversazione sul lancio della nuova Alleanza Globale Europea contro il Traffico di Migranti, che stava avvenendo proprio in quei giorni.

    A New York a novembre abbiamo partecipato alla conferenza dell’Università di Columbia sulla criminalizzazione della migrazione nel mondo, e abbiamo presentato il nostro lavoro al centro sociale Woodbine, insieme ad altri gruppi locali impegnati nella lotta contro le frontiere.

    Qua in Italia, se da un lato il decreto Piantedosi ha ottusamente costretto le navi ONG a sbarcare in diversi porti d’Italia (come abbiamo scritto nei paragrafi sopra), dall’altro ha contribuito a catalizzare la consapevolezza sugli arresti allo sbarco in diverse città. Grazie al lavoro di alcunə avvocatə e individui solidali a Napoli, e con il supporto della Clinica Legale Roma 3, le persone arrestate agli sbarchi in Campania hanno avuto accesso a un supporto indipendente ed esaustivo.

    L’evento Capitani Coraggiosi, organizzato da Baobab Experience alla Città dell’Altra Economia a Roma, ha visto proiezione del film Io Capitano di Matteo Garrone (ora fra i candidati agli Oscar), e un dibattito col regista e con altre persone impegnate in questa lotta. Qui è stata lanciata la campagna in vista della presentazione della richiesta di revisione del caso di Alaji Diouf, che ha subito una condanna di 7 anni per il reato di favoreggiamento. Adesso, Alaji chiede che sia fatta giustizia sul suo caso, come affermato nel suo intervento dopo la proiezione del film “Io Capitano”, quando ha detto “Tutto quello che succede dopo, da lì parte davvero il film. […] ora che sono libero voglio far conoscere al mondo la verità”.

    ‘Dal mare al carcere’
    un progetto di Arci Porco Rosso e borderline-europe
    4° report trimestrale 2023.

    Leggete il report ‘Dal mare al carcere’ (2021), e i seguenti aggiornamenti trimestrale, al www.dal-mare-al-carcere.info.

    Ringraziamo Iuventa Crew, Sea Watch Legal Aid e Safe Passage Fund che hanno supportato il nostro lavoro nel 2023. Vuoi sostenerlo anche tu? Puoi contribuire alla nostra raccolta fondi.

    https://arciporcorosso.it/senza-frontiere
    #scafista #criminalisation_de_la_migration #migrations #asile #réfugiés #frontières #Méditerranée #mer_Méditerranée #Arci_Porco_Rosso #Italie #chiffres #statistiques #2023 #justice #procès #détention_administrative #rétention #Cutro

  • INFO RMC - Le parquet de Paris a requis le renvoi devant le tribunal correctionnel de Christophe Ruggia pour agressions sexuelles sur mineur de 15 ans par personne ayant autorité sur Adèle Haenel. Dans son réquisitoire définitif rendu mercredi 6 février 2024 que RMC a pu consulter, le parquet de Paris retient donc deux circonstances aggravantes à l’encontre de Christophe Ruggia pour « plusieurs épisodes d’attouchement de nature sexuelle » datant de courant 2001 alors qu’Adèle Haenel avait 12 ans jusqu’au 10 février 2004.https://rmc.bfmtv.com/actualites/police-justice/faits-divers/affaire-adele-haenel-le-parquet-de-paris-requiert-un-proces-contre-christ
    #pédocriminalité #justice#Adèle_Haenel

  • Forêts : le Conseil d’Etat rejette la limitation des coupes rases
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2024/02/07/forets-le-conseil-d-etat-rejette-la-limitation-des-coupes-rases_6215210_3244

    Plusieurs associations environnementales demandent purement et simplement l’interdiction des coupes rases, comme c’est le cas en Suisse et en Autriche pour toute coupe de plus de deux hectares.

    Le #Conseil_d’Etat a rejeté une requête du parc naturel du Morvan visant à limiter les « coupes rases », abattages de la totalité des #arbres d’une parcelle accusés de dégrader durablement les #écosystèmes, a appris l’Agence France-Presse (AFP), mercredi 7 février, auprès du Conseil.
    Le parc naturel régional du Morvan, recouvert de forêts sur 135 000 hectares, avait saisi le Conseil d’Etat en avril 2022. Il lui demandait de contraindre le gouvernement français à accepter sa demande, faite en 2018, de soumettre à autorisation toute coupe rase à partir de 0,5 hectare, contre quatre hectares actuellement.
    Selon le parc, la France se serait ainsi conformée à la directive européenne du 13 décembre 2011, qui exige l’évaluation des « incidences sur l’environnement » de tout déboisement, laissant aux Etats membres le loisir de fixer le seuil d’application (à partir de 0,5 hectare, a décidé la France).

    Des associations environnementales demandent son interdiction
    Mais, dans un jugement consulté par l’AFP, le Conseil d’Etat rappelle qu’un arrêt de la Cour de justice de l’Union européenne a estimé que la directive invoquée par le parc « vise, non pas tout déboisement, mais uniquement les opérations réalisées en vue de conférer aux sols concernés un nouvel usage ». Les coupes rases qui ne mettent pas fin à une destination forestière ne sont donc pas concernées, selon le Conseil.
    Ces coupes, également dites « à blanc », libèrent de grandes quantités de carbone tout en détruisant non seulement un paysage, mais également les écosystèmes et les sols, selon les opposants.

    Plusieurs associations environnementales demandent purement et simplement l’interdiction des coupes rases, comme c’est le cas en Suisse – depuis 1876 – et en Autriche pour toute coupe de plus de deux hectares. De plus, ces coupes franches sont très souvent destinées à planter des monocultures de résineux, plus rentables mais très pauvres en biodiversité.
    « L’enrésinement » (plantation de résineux) du Morvan, petite montagne qui forme un prolongement bourguignon du Massif central, est régulièrement dénoncé par les associations environnementales.
    Les feuillus (chênes, hêtres et autres châtaigniers) représentent encore 54 % de la forêt morvandelle, contre 35 % pour les résineux et 11 % pour les essences mélangées. Mais la part des pins et autres épicéas progressent rapidement : de 2005 à 2016, 10 800 hectares de résineux ont été plantés, tandis que 4 300 hectares de feuillus ont été arrachés, selon les chiffres du parc.

    #forêt #résineux #coupes_rases #économie #écologie #justice #propriété (la liberté d’user et d’abuser)

  • Cadences, sous-traitance, pression… quand le travail tue

    « Morts au travail : l’hécatombe. » Deux personnes meurent chaque jour, en moyenne, dans un accident dans le cadre de leur emploi. Ce chiffre, sous estimé, qui n’intègre pas les suicides ou les maladies, illustre un problème systémique

    « J’ai appris la mort de mon frère sur Facebook : la radio locale avait publié un article disant qu’un homme d’une trentaine d’années était décédé près de la carrière, raconte Candice Carton. J’ai eu un mauvais pressentiment, j’ai appelé la gendarmerie, c’était bien lui… L’entreprise a attendu le lendemain pour joindre notre mère. » Son frère Cédric aurait été frappé par une pierre à la suite d’un tir de mine le 28 juillet 2021, dans une carrière à Wallers-en-Fagne (Nord). Il travaillait depuis dix-sept ans pour le Comptoir des calcaires et matériaux, filiale du groupe Colas.

    Deux ans et demi plus tard, rien ne permet de certifier les causes de la mort du mécanicien-soudeur de 41 ans. D’abord close, l’enquête de gendarmerie a été rouverte en septembre 2023 à la suite des conclusions de l’inspection du travail, qui a pointé la dizaine d’infractions dont est responsable l’entreprise. Cédric Carton n’avait pas le boîtier pour les travailleurs isolés, qui déclenche une alarme en cas de chute. « Ils l’ont retrouvé deux heures après, se souvient sa sœur. Le directeur de la carrière m’a dit que mon frère était en sécurité, et qu’il avait fait un malaise… alors qu’il avait un trou béant de 20 centimètres de profondeur de la gorge au thorax. » En quête de réponses, elle a voulu déposer plainte deux fois, chacune des deux refusée, multiplié les courriers au procureur, pris deux avocats… Sans avoir le fin mot de cette triste histoire.

    Que s’est-il passé ? Est-ce la « faute à pas de chance », les « risques du métier » ? Qui est responsable ? Chaque année, des centaines de familles sont confrontées à ces questions après la mort d’un proche dans un accident du travail (AT), c’est-à-dire survenu « par le fait ou à l’occasion du travail, quelle qu’en soit la cause ».

    « Un chauffeur routier a été retrouvé mort dans son camion », « Un ouvrier de 44 ans a été électrocuté », « Un homme meurt écrasé par une branche d’arbre », « Deux ouvriers roumains, un père et son fils, trouvent la mort sur un chantier à Istres [Bouches-du-Rhône] »… Le compte X de Matthieu Lépine, un professeur d’histoire-géographie, qui recense depuis 2019 les accidents dramatiques à partir des coupures de presse locale, illustre l’ampleur du phénomène. Vingt-huit ont été comptabilisés depuis janvier.

    En 2022, selon les derniers chiffres connus, 738 décès ont été recensés parmi les AT reconnus. Soit deux morts par jour. Un chiffre en hausse de 14 % sur un an, mais stable par rapport à 2019. Et, depuis une quinzaine d’années, il ne baisse plus. A cela s’ajoutent 286 accidents de trajet mortels (survenus entre le domicile et le lieu de travail) et 203 décès consécutifs à une maladie professionnelle.

    Et encore, ces statistiques sont loin de cerner l’ampleur du problème. La Caisse nationale d’assurance-maladie (CNAM) ne couvre que les salariés du régime général et n’intègre donc ni la fonction publique, ni les agriculteurs, ni les marins-pêcheurs, la majorité des chefs d’entreprise ou les autoentrepreneurs. C’est ainsi qu’en 2022 la Mutualité sociale agricole (MSA) a dénombré 151 accidents mortels dans le secteur des travaux agricoles, 20 % de plus qu’en 2019.

    Pour disposer de chiffres plus complets, il faut se tourner vers la direction de l’animation de la recherche, des études et des statistiques du ministère du travail (Dares). Problème : sa dernière étude porte sur 2019… A cette époque, elle dénombrait 790 AT mortels chez les salariés affiliés au régime général ou à la MSA et les agents des fonctions publiques territoriale et hospitalière.

    Le secteur de la construction est celui où la fréquence des accidents mortels est la plus importante (le triple de la moyenne). Arrivent ensuite l’agriculture, la sylviculture et la pêche, le travail du bois et les transports-entreposage. Quatre-vingt-dix pour cent des victimes sont des hommes, et les ouvriers ont cinq fois plus de risques de perdre la vie que les cadres.

    Les accidents mortels sont deux fois plus fréquents chez les intérimaires. (...)
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/02/06/cadences-sous-traitance-pression-quand-le-travail-tue_6214988_3234.html

    https://justpaste.it/2ozrb

    #travail #accidents_du_travail #le_travail_tue

    • Accidents du travail : la lenteur de la justice pour faire reconnaître la responsabilité de l’employeur
      https://www.lemonde.fr/emploi/article/2024/02/06/morts-au-travail-la-douloureuse-lenteur-de-la-justice_6215011_1698637.html

      Les familles de victimes d’accidents mortels doivent parfois attendre des années avant de voir le bout de procédures judiciaires complexes.

      Pour ceux qui ont perdu un proche à la suite d’un accident du travail, la reconnaissance de la responsabilité de l’employeur est essentielle. Mais les procédures, d’ordre pénal ou civil, tournent parfois au parcours du combattant, voire s’étirent sur des années, ajoutant à la douleur des familles. Fabienne Bérard, du collectif Familles : stop à la mort au travail, cite l’exemple de Fanny Maquin, qui a perdu son mari cordiste, Vincent, il y a douze ans. Et qui n’est toujours pas passée en justice pour être indemnisée. « Comme souvent, il y a eu un grand nombre de renvois d’audience, explique-t-elle. L’avocat adverse met en avant que, depuis ce temps, elle a reconstruit une cellule familiale et que le préjudice ne peut pas être établi de la même manière… »

      Tout accident du travail mortel est suivi d’une enquête de l’inspection du travail (qui doit intervenir dans les douze heures), et de la gendarmerie ou de la police. Depuis 2019, les deux institutions peuvent mener une enquête en commun, mais c’est encore rare. Et souvent, l’enquête de l’inspection dure plusieurs mois, parce que les effectifs manquent pour mener à bien les constats immédiats, les auditions des témoins ou encore solliciter des documents auprès de l’entreprise.

      Ces investigations permettent de déterminer si la responsabilité pénale de l’employeur est engagée. Si les règles de santé et sécurité n’ont pas été respectées, l’inspection du travail en avise le procureur, qui est le seul à pouvoir ouvrir une procédure. « Dès lors, le parquet a trois possibilités, explique l’avocat Ralph Blindauer, qui accompagne souvent des familles. Soit l’affaire est classée sans suite, soit une information judiciaire avec juge d’instruction est ouverte, car le cas est jugé complexe, soit, le plus couramment, une ou plusieurs personnes sont citées à comparaître devant le tribunal correctionnel. »

      Un montant négligeable

      En cas de poursuite au pénal, l’employeur est fréquemment condamné pour homicide involontaire en tant que personne morale – ce qui est peu satisfaisant pour les victimes, et peu dissuasif. L’amende est en effet de 375 000 euros maximum, un montant négligeable pour un grand groupe. L’employeur est plus rarement condamné en tant que personne physique, car il est difficile d’identifier le responsable de la sécurité – la peine encourue est alors l’emprisonnement.

      Dans le cas d’une procédure au civil, la reconnaissance d’une « faute inexcusable » de l’employeur permet aux ayants droit (conjoints, enfants ou ascendants) d’obtenir la majoration de leur rente, ainsi que l’indemnisation de leur préjudice moral. La faute est caractérisée lorsque l’entreprise a exposé son salarié à un danger dont il avait, ou aurait dû, avoir conscience et qu’il n’a pas pris les mesures nécessaires pour l’en préserver.

      « Le nœud du sujet, c’est la conscience du danger, en particulier lors d’un malaise mortel, explique Morane Keim-Bagot, professeure de droit à l’université de Strasbourg. Les employeurs remettent en question le caractère professionnel de l’accident, en démontrant qu’il y a une cause étrangère exclusive. » Certains prétendent ainsi que la victime souffrait d’un problème cardiaque décelé au moment de l’autopsie, de surpoids, de stress ou de tabagisme.

      « Si vous tombez sur un inspecteur surchargé, un parquet qui s’y attelle moyennement, des gendarmes non spécialisés et débordés, les procédures durent facilement des années, sans compter les renvois d’audience fréquents, conclut Me Blindauer. La longueur très variable de ces affaires illustre aussi le manque de moyens de la #justice. »

      #responsabilité_de_l’employeur #inspection_du_travail #responsabilité_pénale

    • Entre déni des entreprises et manque de données, l’invisibilisation des suicides liés au travail

      https://www.lemonde.fr/emploi/article/2024/02/06/entre-deni-des-entreprises-et-manque-de-donnees-l-invisibilisation-des-suici

      Le manque de prise en compte du mal-être au travail renforce les risques d’accidents dramatiques.
      Par Anne Rodier

      « La dernière conversation que j’ai eue avec mon mari [Jean-Lou Cordelle] samedi 4 juin [2022] vers 22 heures concernait les dossiers en cours à son travail. Le lendemain matin, mon fils découvrait son père au bout d’une corde pendu dans le jardin », témoigne Christelle Cordelle dans la lettre adressée aux représentants du personnel d’Orange pour leur donner des précisions sur l’état psychologique de son mari avant son suicide, à l’âge de 51 ans, après des mois de surcharge de travail, d’alertes vaines à la hiérarchie et à la médecine du travail.

      Son acte, finalement reconnu comme « accident de service » – c’est ainsi que sont nommés les accidents du travail (#AT) des fonctionnaires –, n’est pas recensé dans le bilan annuel de la Sécurité sociale. Celui-ci ne tient pas, en effet, compte de la fonction publique, invisibilisant les actes désespérés des infirmières, des professeurs ou encore des policiers.

      L’Assurance-maladie parle d’une quarantaine de suicides-accidents du travail par an. Un chiffre stable, représentant 5 % du total des accidents du travail mortels, mais qui serait nettement sous-évalué. C’est entre vingt et trente fois plus, affirme l’Association d’aide aux victimes et aux organismes confrontés aux suicides et dépressions professionnelles (ASD-pro), qui l’évalue plutôt entre 800 et 1 300 chaque année, sur la base d’une étude épidémiologique sur les causes du suicide au travail réalisée fin 2021 par Santé publique France. https://www.santepubliquefrance.fr/recherche/#search=Suicide%20et%20activité%20professionnelle%20en%20France

      L’explosion des risques psychosociaux (RPS) en entreprise constatée étude après étude et par la Caisse nationale d’assurance-maladie (CNAM : https://assurance-maladie.ameli.fr/etudes-et-donnees/2018-sante-travail-affections-psychiques) apporte de l’eau au moulin de l’ASD-pro : 1 814 maladies professionnelles relèvent de maladies psychiques, en augmentation régulière, note le rapport 2022. Quant au dernier baromètre du cabinet Empreinte humaine, publié en novembre 2023, il est sans équivoque : près d’un salarié sur deux (48 %) était en détresse psychologique en 2023.

      « Passage à l’acte brutal »

      La mécanique mortifère de la souffrance au travail est connue. « Les mécanismes à l’œuvre semblent être toujours liés : atteintes à la professionnalité et à l’identité professionnelle, perte de l’estime de soi, apparition d’un sentiment d’impuissance », explique Philippe Zawieja, psychosociologue au cabinet Almagora.
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      Tous les RPS ne conduisent pas au geste fatal. « Il y a moins de suicidés chez les #salariés que parmi les #chômeurs, et 90 % des suicides interviennent sur fond de problème psychiatrique antérieur », souligne M. Zawieja. Mais « il existe des actes suicidaires qui ne sont pas la conséquence d’un état dépressif antérieur, qui marquent un passage à l’acte brutal [raptus], lié à un élément déclencheur conjoncturel », indique l’Institut national de recherche et de sécurité pour la prévention des accidents du travail et des maladies professionnelles (INRS) https://www.inrs.fr/risques/suicide-travail/ce-qu-il-faut-retenir.html. Comme ce fut le cas du management toxique institutionnel à France Télécom. C’est alors que survient l’accident.

      « Pour Jean-Lou, tout s’est passé insidieusement, témoigne sa veuve. Il était en surcharge de travail depuis octobre-novembre 2021, avec des salariés non remplacés, des départs en retraite. Un jour de janvier, je l’ai vu buguer devant son ordinateur. A partir de là, j’ai été plus attentive. En mars [2022], ils ont allégé sa charge de travail mais insuffisamment. En avril, il a craqué. La médecine du travail a été prévenue. Il a finalement été mis en arrêt, sauf qu’il continuait à recevoir des mails. Ils lui avaient laissé son portable professionnel et il n’y avait pas de message de gestion d’absence renvoyant vers un autre contact. Jusqu’au bout, Orange n’a pas pris la mesure ».

      Le plus souvent, les suicides au travail sont invisibilisés, au niveau de l’entreprise d’abord, puis des statistiques. « Classiquement, l’entreprise, quand elle n’est pas tout simplement dans le déni, considère que c’est une affaire privée et que le travail n’en est pas la cause », explique le juriste Loïc Lerouge, directeur de recherche au Centre national de la recherche scientifique (CNRS) et spécialiste du sujet.

      Un déni qui a valu à Renault la première condamnation pour « faute inexcusable de l’employeur pour n’avoir pas pris les mesures nécessaires alors qu’il avait conscience du danger » concernant les salariés du Technocentre de Guyancourt (Yvelines) qui ont mis fin à leurs jours dans les années 2000. [en 2012 https://www.lemonde.fr/societe/article/2012/05/12/suicide-au-technocentre-renault-condamne-pour-faute-inexcusable_1700400_3224 « On reconnaît pleinement la responsabilité de la personne morale de l’entreprise depuis l’affaire #France_Télécom », précise M. Lerouge.

      Caractérisation délicate

      L’#invisibilisation des suicides commence par le non-dit. En réaction aux deux suicides de juin 2023 à la Banque de France, où l’une des victimes avait laissé une lettre incriminant clairement ses conditions de travail, la direction a déclaré avoir « fait ce qui s’impose » après un tel drame https://www.lemonde.fr/economie/article/2023/10/10/a-la-banque-de-france-le-suicide-de-deux-salaries-empoisonne-le-dialogue-soc . Puis, lors des vœux 2024 adressés au personnel le 2 janvier, le gouverneur de la Banque de France, François Villeroy de Galhau, n’a pas prononcé le mot « suicide », évoquant les « décès dramatiques de certains collègues ». Et s’il a déclaré « prendre au sérieux les résultats et les suggestions » de l’enquête qui acte le problème de #surcharge_de_travail, présentée au comité social et économique extraordinaire du 18 janvier, il n’a pas mis sur pause le plan de réduction des effectifs dans la filière fiduciaire. Celle-là même où travaillaient les deux salariés qui ont mis fin à leurs jours. « Beaucoup de gens n’ont pas les moyens de faire correctement leur travail et sont en souffrance. Il existe à la Banque de France une forme de maltraitance généralisée », affirme Emmanuel Kern, un élu CGT de l’institution.

      La caractérisation des suicides en accidents du travail est un exercice délicat, au cœur de la reconnaissance de la responsabilité de l’employeur. Pour Santé publique France, la définition est assez simple (« Surveillance des suicides en lien potentiel avec le travail », 2021). Il s’agit de tout suicide pour lequel au moins une des situations suivantes était présente : la survenue du décès sur le lieu du travail ; une lettre laissée par la victime mettant en cause ses conditions de travail ; le décès en tenue de travail alors que la victime ne travaillait pas ; le témoignage de proches mettant en cause les conditions de travail de la victime ; des difficultés connues liées au travail recueillies auprès des proches ou auprès des enquêteurs.

      Mais pour l’administration, le champ est beaucoup plus restreint : l’Assurance-maladie prend en compte « l’acte intervenu au temps et au lieu de travail ». Et la reconnaissance n’aura pas lieu si des éléments au cours de l’enquête permettent d’établir que « le travail n’est en rien à l’origine du décès », précise la charte sur les accidents du travail rédigée à destination des enquêteurs de la Sécurité sociale https://www.atousante.com/wp-content/uploads/2011/05/Charte-des-AT-MP-acte-suicidaire-et-accident-du-travail.pdf. « En dehors du lieu de travail, c’est à la famille de faire la preuve du lien avec l’activité professionnelle », explique Michel Lallier, président de l’ASD-pro. Une vision nettement plus restrictive, qui explique cet écart entre les bilans des suicides au travail.

      #suicide_au_travail #risques_psychosociaux #médecine_du_travail #conditions_de_travail #management #cadences #pression #surcharge_de_travail

    • Manque de sécurité sur les chantiers : « Notre fils est mort pour 6 000 euros », Aline Leclerc
      https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/02/07/manque-de-securite-sur-les-chantiers-notre-fils-est-mort-pour-6-000-euros_62

      Pour réduire les coûts et tenir les délais, certaines entreprises du bâtiment accumulent les négligences et infractions au code du travail, susceptibles d’engendrer de graves accidents du travail

      Alban Millot avait trouvé l’offre d’emploi sur Leboncoin. Touche-à-tout débrouillard enchaînant les petits boulots, il n’avait aucune expérience dans la pose de panneaux photovoltaïques ni dans le travail en hauteur. Trois semaines après son embauche, il est passé à travers la toiture d’un hangar, le 10 mars 2021. Une chute mortelle de plus de 5 mètres. Le jour de ses 25 ans.

      « Quand le gendarme vous l’annonce, il parle d’un “accident”, comme on dit quand quelqu’un meurt sur la route », se rappelle douloureusement Laurent Millot, son père. La chute renvoie toujours d’abord l’idée d’une erreur d’attention, d’un déséquilibre. La faute à pas de chance. Et à la victime surtout – Alban n’a-t-il pas marché sur une plaque translucide qu’il savait fragile ?

      Ce n’est que quelque temps après que reviennent en mémoire ces petites phrases qui donnent à l’« accident » un autre sens. « J’avais eu Alban au téléphone une semaine avant. Il m’a dit que son travail était hyperdangereux, et qu’il allait s’acheter son propre harnais parce que celui fourni par la boîte était bas de gamme », raconte Véronique Millot, sa mère. Quand pour la rassurer il lui a dit : « Je fais ça seulement jusqu’à l’été », elle a répondu : « Te tue pas pour un boulot… »

      Inexpérimentés

      L’enquête, étoffée dans ce dossier, a mis en évidence une effarante liste de dysfonctionnements et d’infractions au code du travail de la PME qui l’employait, dont l’activité officiellement enregistrée (son code NAF ou APE) était « commerce de détail en quincaillerie, peintures ». Le seul technicien dûment diplômé avait quitté la société deux mois avant l’embauche d’Alban. Sur les vingt-cinq salariés, une dizaine de commerciaux et seulement trois équipes de deux poseurs, lesquels étaient en conséquence soumis à un rythme intense pour honorer les commandes.

      Avant sa mort, Alban et son collègue de 20 ans, et trois mois d’ancienneté seulement, étaient partis le lundi de Narbonne (Aude) pour un premier chantier en Charente, puis un autre en Ille-et-Vilaine, avant un troisième, le lendemain, dans les Côtes-d’Armor, et un ultime, le mercredi, en Ille-et-Villaine, où a eu lieu l’accident. Alban, seul à avoir le permis, avait conduit toute la route.

      Inexpérimentés, les deux hommes n’avaient reçu qu’une formation sommaire à la sécurité. Et, surtout, ne disposaient pas de harnais complets pour s’attacher, comme l’a constaté l’inspectrice du travail le jour du drame.

      « Méconnaissance totale » et « déconcertante » du dirigeant

      Sans matériel, ils ont loué sur place une échelle chez Kiloutou. « Combien pèse une plaque photovoltaïque ? », a demandé le président du tribunal correctionnel de Rennes, lors du procès en première instance. « Dix-huit kilos », a répondu le chef d’entreprise. « Il faut monter l’échelle avec le panneau sous le bras ? », s’est étonné le président. « Cela dépend du chantier. »

      Il sera démontré pendant l’enquête, puis à l’audience, la « méconnaissance totale » et « déconcertante » du dirigeant, commercial de formation, de la réglementation en vigueur sur le travail en hauteur comme sur les habilitations électriques. Il n’avait entrepris aucune démarche d’évaluation des risques. Et ce, alors que deux autres accidents non mortels avaient eu lieu peu de temps avant sur ses chantiers.

      Dans son jugement du 6 juin 2023, le tribunal a reconnu l’employeur – et non l’entreprise, déjà liquidée – coupable d’homicide involontaire, retenant la circonstance aggravante de « violation manifestement délibérée » d’une obligation de sécurité ou de prudence, « tant l’inobservation était inscrite dans ses habitudes ».

      Enjeux financiers

      Car ces négligences tragiques cachent aussi des enjeux financiers. Monter un échafaudage, c’est plusieurs heures perdues dans un planning serré, et un surcoût de 6 000 euros, qui aurait doublé le devis, a chiffré un ouvrier à l’audience. « En somme, notre fils est mort pour 6 000 euros », souligne Mme Millot.

      L’affaire résonne avec une autre, dans laquelle Eiffage Construction Gard et un sous-traitant ont été condamnés en première instance comme en appel lors des procès qui se sont tenus en mai 2021 et avril 2022, à Nîmes. Mickaël Beccavin, cordiste de 39 ans, a fait une chute mortelle le 6 mars 2018, alors qu’il assemblait des balcons sur les logements d’un chantier d’envergure. Pour une raison restée inexpliquée, une corde sur laquelle il était suspendu a été retrouvée sectionnée, trop courte de plusieurs mètres. Quand la défense de l’entreprise a plaidé la seule responsabilité de la victime, qui aurait mal vérifié son matériel, l’inspecteur du travail a proposé une autre analyse.

      « On peut vous expliquer que le cordiste doit faire attention, mais la question n’est pas que là. La question est : est-ce qu’on devait faire appel à des cordistes pour ce chantier ? », a expliqué Roland Migliore à la barre, en mai 2021. Car la législation n’autorise les travaux sur cordes, particulièrement accidentogènes, qu’en dernier recours : cette pratique n’est possible que si aucun autre dispositif de protection dite « collective » (échafaudage, nacelle…) n’est envisageable. « La protection collective protège le salarié indépendamment de ce qu’il peut faire lui. S’il s’attache mal, il est protégé, rappelle l’inspecteur du travail. Au contraire, si l’on choisit la protection individuelle, on fait tout reposer sur le salarié. »

      « Précipitation »

      Le recours à la corde était apparu à l’audience comme un choix de dernière minute, sur un chantier où « tout le monde était pressé ». L’inspecteur du travail avait alors souligné cet aspect : « Malheureusement, dans le BTP, les contraintes sur les délais de livraison poussent à la précipitation : on improvise, quitte à ne pas respecter le plan général de coordination. »

      Secrétaire CGT-Construction, bois et ameublement de Nouvelle-Aquitaine, Denis Boutineau n’en peut plus de compter les morts. « Très souvent, c’est lié à un manque de sécurité. Quand vous êtes en ville, regardez les gens qui travaillent sur les toits, il n’y a aucune protection ! Pourquoi ? Pour des raisons économiques ! » Il cite ainsi le cas d’un jeune couvreur passé à travers un toit Everite. « L’employeur avait fait deux devis ! Un avec la mise en sécurité, un sans ! Bien sûr, le second était moins cher. Lequel croyez-vous qu’a accepté le client ? »

      Caroline Dilly reste, elle aussi, hantée par un échange avec son fils Benjamin, 23 ans, quelque temps avant sa mort, le 28 février 2022. Couvreur lui aussi, il aurait chuté en revenant dans la nacelle après avoir remis une ardoise en place sur un toit. Il n’était pas titulaire du certificat d’aptitude à la conduite d’engins en sécurité (Caces), nécessaire à l’utilisation de cet engin. Et la nacelle était-elle adaptée pour réaliser ce chantier ? C’est ce que devra établir la procédure judiciaire, encore en cours.

      Mais avant de rejoindre cette entreprise, Benjamin avait été renvoyé par une autre, au bout de quinze jours. « Il avait refusé de monter sur un échafaudage qui n’était pas aux normes », raconte sa mère, qui s’entend encore lui faire la leçon : « Y a ce que t’apprends à l’école et y a la réalité du monde du travail ! » « Je m’en veux tellement d’avoir dit ça… J’ai pris conscience alors à quel point prendre des risques au travail était entré dans nos mœurs. Tout ça pour aller plus vite. Comment en est-on arrivés à ce que la rentabilité prime sur le travail bien fait, en sécurité ? », se désole-t-elle.

      « Quand on commence, on est prêt à tout accepter »

      Depuis qu’elle a rejoint le Collectif familles : stop à la mort au travail, elle est frappée par la jeunesse des victimes : « Quand on commence dans le métier, on n’ose pas toujours dire qu’on a peur. Au contraire, pour s’intégrer, on est prêt à tout accepter. »

      Alexis Prélat avait 22 ans quand il est mort électrocuté sur un chantier, le 5 juin 2020. Son père, Fabien, bout aujourd’hui d’une colère qui lui fait soulever des montagnes. Sans avocat, il a réussi à faire reconnaître par le pôle social du tribunal judiciaire de Périgueux la « faute inexcusable » de l’employeur.

      C’est-à-dire à démontrer que ce dernier avait connaissance du danger auquel Alexis a été exposé et n’a pas pris les mesures nécessaires pour l’en préserver. Le jeune homme est descendu dans une tranchée où était clairement identifiée, par un filet rouge, la présence d’un câble électrique. « Le préposé de l’employeur sous les ordres duquel travaillait la victime ce jour-là aurait dû avoir connaissance du danger », dit le jugement rendu le 11 mai 2023, qui liste des infractions relevées par l’inspecteur du travail, notamment l’« absence d’habilitation électrique » et l’« absence de transcription de l’ensemble des risques dans le document unique d’évaluation des risques ».

      Fabien Prélat relève également que, comme pour Alban Millot, le code APE de l’entreprise ne correspond pas à son activité réelle. Elle est identifiée comme « distribution de produits informatiques, bureautique et papeterie ». Il estime par ailleurs que le gérant, « de fait », n’est pas celui qui apparaît sur les documents officiels. « Bien sûr, ce n’est pas ça qui a directement causé la mort de mon fils. Mais si l’Etat contrôlait mieux les choses, ces gens-là n’auraient jamais pu s’installer », s’emporte-t-il.

      « Pas assez de contrôles de l’inspection du travail »

      Cheffe du pôle santé et sécurité à la Confédération de l’artisanat et des petites entreprises du bâtiment (Capeb), syndicat patronal, et elle-même gestionnaire d’une PME de charpente et couverture dans le Puy-de-Dôme, Cécile Beaudonnat s’indigne de ces pratiques. « Ce sont des gens contre qui on lutte, explique-t-elle. On les repère quand leurs clients nous contactent, dépités, quand ils comprennent que l’entreprise qui leur a mal installé des panneaux solaires n’avait ni les techniciens qualifiés, ni l’assurance professionnelle décennale », explique-t-elle.

      Normalement, pour s’installer, il y a l’obligation d’avoir une formation professionnelle qualifiante homologuée (au moins un CAP ou un BEP) ou de faire valider une expérience de trois ans sous la supervision d’un professionnel. « Malheureusement, il n’y a pas assez de contrôles de l’inspection du travail », déplore-t-elle. Avant d’ajouter : « Pour nous, c’est avant tout au chef d’entreprise d’être exemplaire, sur le port des équipements de protection, en faisant ce qu’il faut pour former ses salariés et en attaquant chaque chantier par une démarche de prévention des risques. Nous sommes une entreprise familiale, on n’a aucune envie d’avoir un jour un décès à annoncer à une famille. »

      « Il y a une bataille à mener pour faire changer les mentalités. Y compris chez les ouvriers, pour qu’ils ne se mettent pas en danger pour faire gagner plus d’argent à l’entreprise ! Quand on voit les dégâts que ça fait sur les familles… », s’attriste Denis Boutineau.

      Les deux parents d’Alexis Prélat ont obtenu, chacun, 32 000 euros en réparation de leur préjudice moral, sa sœur 18 000 euros. Ils espèrent maintenant un procès en correctionnelle. « La meilleure façon de changer les choses, c’est d’obtenir des condamnations exemplaires », estime Fabien Prélat.

      Fait rare, l’employeur d’Alban Millot a, lui, été condamné en correctionnelle à trente-six mois de prison dont dix-huit ferme. Il a fait appel du jugement. « Avant le procès, j’avais la haine contre ce type, confie Laurent Millot. L’audience et, surtout, une sanction telle que celle-là m’ont fait redescendre. »

    • Accidents du travail : quand les machines mettent en péril la vie des salariés
      https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/02/08/accidents-du-travail-quand-les-machines-tuent_6215360_3234.html

      Dans l’industrie, le BTP ou l’agriculture, les accidents liés à l’utilisation de machines comptent parmi les plus graves et les plus mortels. Employeurs, fabricants et responsables de la maintenance se renvoient la faute.

      Lorsqu’il prend son poste, ce lundi 27 décembre 2021, cela fait déjà plusieurs mois que Pierrick Duchêne, 51 ans, peste contre la machine qu’il utilise. Après deux décennies dans l’agroalimentaire, il est, depuis cinq ans, conducteur de presse automatisée dans une agence Point P. de fabrication de parpaings, à Geneston (Loire-Atlantique). Depuis un an et demi, la bonne ambiance au boulot, cette fraternité du travail en équipe qu’il chérit tant, s’est peu à peu délitée. L’atmosphère est devenue plus pesante. La cadence, toujours plus infernale. Les objectifs de #productivité sont en hausse. Et ces #machines, donc, « toujours en panne », fulmine-t-il souvent auprès de sa femme, Claudine.

      Ce jour-là, il ne devait même pas travailler. Mais parce qu’il était du genre à « toujours aider et dépanner », dit Claudine, il a accepté de rogner un peu sur ses vacances pour participer à la journée de maintenance et de nettoyage des machines. Pierrick Duchêne a demandé à son fils qu’il se tienne prêt. Dès la fin de sa journée, à 15 heures, ils devaient aller à la déchetterie. Mais, vers 11 h 30, il est retrouvé inconscient, en arrêt cardiorespiratoire, écrasé sous une rectifieuse à parpaing. Dépêché sur place, le service mobile d’urgence et de réanimation fait repartir son cœur, qui s’arrête à nouveau dans l’ambulance. Pierrick Duchêne meurt à l’hôpital, le 2 janvier 2022.

      Son histoire fait tragiquement écho à des centaines d’autres, se produisant chaque année en France. En 2022, la Caisse nationale d’assurance-maladie a recensé 738 accidents du travail mortels dans le secteur privé, selon son rapport annuel publié en décembre 2023. 1 % d’entre eux sont liés au « risque machine » – auquel on peut ajouter les accidents liés à la « manutention mécanique », de l’ordre de 1 % également. Selon l’Institut national de recherche et de sécurité (INRS), qui répertorie plus précisément les incidents de ce type, les machines sont mises en cause dans 10 % à 15 % des accidents du travail ayant entraîné un arrêt supérieur ou égal à quatre jours, ce qui représente environ 55 000 accidents. Dont une vingtaine sont mortels chaque année.

      « La peur suppure de l’usine parce que l’usine au niveau le plus élémentaire, le plus perceptible, menace en permanence les hommes qu’elle utilise (…), ce sont nos propres outils qui nous menacent à la moindre inattention, ce sont les engrenages de la chaîne qui nous rappellent brutalement à l’ordre », écrivait Robert Linhart, dans L’Etabli (Editions de Minuit), en 1978. L’industrie, et notamment la métallurgie, est un secteur d’activité dans lequel les risques pour la santé des ouvriers sont amplifiés par l’utilisation d’outils et de machines. Les employés agricoles, les salariés de la chimie ou les travailleurs du BTP sont aussi très exposés. Sur le terrain, les services de l’inspection du travail font régulièrement état de la présence de machines dangereuses.

      « Aveuglement dysfonctionnel »

      Si leur fréquence baisse depuis les années 1990, ces accidents sont souvent les plus graves, avec des blessures importantes, et les procédures qui s’ensuivent sont extrêmement longues. La responsabilité peut être difficile à établir, car plusieurs acteurs sont en jeu : l’employeur, le fabricant de la machine, l’installateur, la maintenance. La plupart du temps, chacun se renvoie la faute. Comme si la machine permettait à tous de se dédouaner.

      « Le risque zéro n’existe pas », entend-on régulièrement au sujet des accidents du travail, qui plus est quand une machine est en cause. Pourtant, le dysfonctionnement brutal que personne ne pouvait anticiper, qui accréditerait la thèse d’une infortune létale, n’est quasiment jamais à l’œuvre. Au contraire, les défaillances des machines sont souvent connues de tous. « Il peut s’installer une sorte d’aveuglement dysfonctionnel, analyse Jorge Munoz, maître de conférences en sociologie à l’université de Bretagne occidentale. Le problème est tellement récurrent qu’il en devient normal. »

      Une situation qui hante encore les jours et les nuits de Delphine et de Franck Marais, les parents de Ludovic. Personne ne pouvait soupçonner que ce jeune apprenti barman de 19 ans mettait sa vie en péril en servant pintes et cafés derrière le comptoir d’une brasserie réputée de Tours. Mais, le 16 décembre 2019, quelques minutes avant de rentrer chez lui, à 23 h 45, sa tête est percutée par le monte-charge des poubelles.

      La machine fonctionnait depuis des mois, voire plusieurs années, avec les grilles de protection ouvertes. « Quelqu’un a désactivé la sécurité qui empêchait le monte-charge de démarrer ainsi, grilles ouvertes », raconte Franck, le père. Qui ? Un salarié, pour gagner du temps ? L’employeur, pour que ses salariés aillent plus vite ? Le responsable de la maintenance, à la demande de l’employeur ? Un oubli du technicien ? « On ne saura probablement jamais, mais, finalement, là n’est pas la question, estime l’avocate des parents, Marion Ménage. Ce qui compte, c’est que l’entreprise savait qu’il fonctionnait grilles ouvertes et qu’elle n’a rien fait. »

      « Il se sentait en danger »

      Sécurité désactivée, maintenance non assurée, prévention déconsidérée… Les mêmes logiques, les mêmes légèretés face à des machines dangereuses reviennent méthodiquement dans les récits, soulignant le caractère systémique de ces événements dramatiques. « Les dispositifs de sécurité ralentissent parfois le processus de travail et empêchent de tenir la cadence, analyse Jorge Munoz. On peut être tenté de défaire le mécanisme et, donc, de mettre en péril l’utilisateur. » C’est cette logique mortifère qui a été fatale à Flavien Bérard. Le jeune homme de 27 ans était sondeur pour la Société de maintenance pétrolière (SMP), une entreprise de forage et d’entretien de puits pétroliers, gaziers et de géothermie.

      D’abord employé sur un site dans le Gard, où il s’épanouit malgré les conditions de travail difficiles, Flavien Bérard est transféré après une semaine à Villemareuil, en Seine-et-Marne. Il se retrouve sur un chantier de forage pétrolier dont est propriétaire SMP, « les puits du patron », comme on surnomme le lieu. Industrie lourde, à l’ancienne, rythme en trois-huit, rendements à tout prix… Flavien est confronté à un milieu dur et peu accueillant. « Il nous a vite dit que c’était difficile, se souvient sa mère, Fabienne. Le gaillard de 1,84 mètre, plus de 80 kilos, corps de rugbyman, est pourtant du genre à tenir physiquement.

      « Il nous a surtout dit qu’il se sentait en danger, que les machines étaient dangereuses et qu’il avait des doutes sur la sécurité », déplore aujourd’hui Fabienne Bérard. Ses inquiétudes s’avèrent prémonitoires. Alors qu’il avait décidé de ne pas poursuivre sur le site une fois sa mission arrivée à son terme, le 5 mars 2022, vers 4 heures, une pièce métallique d’une trentaine de kilos se détache d’une machine de forage et percute Flavien à la tête, une quinzaine de mètres plus bas. Il meurt le lendemain, à l’hôpital de la Pitié-Salpêtrière, à Paris.

      « On nous a tout de suite parlé d’une erreur humaine, avec une sécurité désactivée », explique le père de la victime, Laurent Bérard. Selon l’avocat des parents, Lionel Béthune de Moro, le rapport machine de l’expert judiciaire ferait état de « 373 non-conformités », dont 3 concerneraient le système responsable de l’accident. « Une sécurité essentielle a été désactivée, pour le rendement », ajoute-t-il. « On nous a même dit que ce n’était pas la première fois qu’il y avait un problème avec cette machine », renchérit Fabienne Bérard.

      Complexité des procédures

      Ces exemples posent la question de la #prévention et de la maintenance. « L’objectif, c’est que les entreprises voient celles-ci comme un profit et non comme un coût », affirme Jean-Christophe Blaise, expert de l’INRS. L’institut a justement pour mission de développer et de promouvoir une culture de prévention des accidents du travail au sein des entreprises. « Dans certains cas, elle peut être perçue comme quelque chose qui alourdit les processus, qui coûte plus cher, complète Jorge Munoz. Mais l’utilisation d’une machine nécessite une organisation spécifique. »

      D’autant qu’une politique de prévention se déploie sur le long terme et nécessite des actions régulières dans le temps. Les agents de l’INRS travaillent sur trois aspects pour éviter les drames autour des machines : les solutions techniques, l’organisation du travail et le levier humain (formation, compétences, etc.). « Un accident du travail est toujours multifactoriel et il faut agir sur tout à la fois, souligne M. Blaise. La clé, c’est la maintenance préventive : anticiper, prévoir plutôt que subir. »

      Les accidents du travail liés aux machines ont un autre point commun : la complexité des procédures qui s’ensuivent. Plus de deux ans après les faits, Claudine Duchêne ne connaît toujours pas les circonstances exactes de la mort de son mari. « Je sais juste que la machine n’aurait pas dû fonctionner en ce jour de maintenance, qu’il n’aurait pas dû y avoir d’électricité », assure-t-elle. L’enquête de la gendarmerie a été close en juillet 2022, celle de l’inspection du travail a été remise à la justice en juin 2023. Celle-ci révélerait « une faute accablante sur l’organisation de la journée de maintenance », précise Claudine Duchêne. Depuis, elle attend la décision du parquet de Nantes.

      Aux enquêtes de police et de l’inspection du travail peut s’ajouter une expertise judiciaire, ralentissant encore un peu plus la procédure, comme dans le cas de Flavien Bérard. « L’attente est longue et douloureuse pour les familles, souligne Me Béthune de Moro. Plus il y a d’intervenants, plus cela alourdit les choses, mais c’est toujours pour éclairer la situation, dans un souci de manifestation de la vérité. » La famille attend désormais d’éventuelles mises en examen et une ordonnance de renvoi dans l’année pour un procès en 2025.

      Après l’accident de Ludovic Marais, le monte-charge a été mis sous scellé jusqu’en mars 2023, une procédure indispensable mais qui allonge encore les délais. Cela a empêché l’intervention d’un expert judiciaire pendant plus de trois ans. « Le nouveau juge d’instruction a décidé de lever les scellés et une nouvelle expertise est en cours », confie Me Ménage. Le rapport pourrait arriver d’ici à l’été. Sachant que les avocats de la défense pourront éventuellement demander une contre-expertise. La brasserie, le patron, la tutrice du jeune apprenti, Otis (la société ayant installé le monte-charge) et un de ses techniciens chargé de la maintenance sont mis en examen pour « homicide involontaire par violation manifestement délibérée d’une obligation de sécurité et de prudence dans le cadre du travail ». Un procès pourrait avoir lieu fin 2024 ou en 2025. La fin d’un chemin de croix judiciaire pour qu’enfin le deuil soit possible.

    • Accidents du travail : les jeunes paient un lourd tribut
      https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/02/09/accidents-du-travail-les-jeunes-paient-un-lourd-tribut_6215566_3234.html

      Entre les entreprises peu scrupuleuses et la nécessité pour les jeunes de faire leurs preuves dans un monde du travail concurrentiel, les stagiaires, élèves de lycées professionnels ou apprentis sont les plus exposés aux risques professionnels.

      Quatre jours. L’unique expérience professionnelle de Jérémy Wasson n’aura pas duré plus longtemps. Le #stage d’observation de cet étudiant en première année à l’Ecole spéciale des travaux publics, du bâtiment et de l’industrie (ESTP) devait durer deux mois, dans l’entreprise Urbaine de travaux (filiale du géant du BTP Fayat). Le 28 mai 2020, il est envoyé seul sur le toit du chantier du centre de commandement unifié des lignes SNCF de l’Est parisien, à Pantin (Seine-Saint-Denis). A 13 h 30, il fait une chute en passant à travers une trémie de désenfumage – un trou laissé dans le sol en attente d’aménagement – mal protégée. Il meurt deux jours plus tard, à 21 ans.

      L’accident de Jérémy a laissé la grande école du bâtiment en état de choc. « C’est ce qui m’est arrivé de pire en trente ans d’enseignement supérieur », exprime Joël Cuny, directeur général de l’ESTP, directeur des formations à l’époque. La stupeur a laissé la place à de vibrants hommages. Un peu courts, toutefois… L’ESTP ne s’est pas portée partie civile au procès, regrette Frédéric Wasson, le père de Jérémy, qui souligne que « Fayat est l’entreprise marraine de la promo de [s]on fils… », ou que, dès 2021, Urbaine de travaux reprenait des dizaines de stagiaires issus de l’école.

      #Stagiaires, élèves de lycées professionnels en période de formation en milieu professionnel, #apprentis… Les jeunes paient un lourd tribut parmi les morts au travail : trente-six travailleurs de moins de 25 ans n’ont pas survécu à un accident du travail en 2022, selon le dernier bilan de la Caisse nationale d’assurance-maladie (CNAM). C’est 29 % de plus qu’en 2019. Et encore cela ne porte que sur les salariés du régime général. La CNAM souligne aussi que, par rapport aux autres accidents du travail, il s’agit davantage d’accidents « classiques, c’est-à-dire hors malaises et suicides », et d’accidents routiers.

      « Irresponsabilité totale »

      L’inexpérience de ces jeunes, quand elle n’est pas compensée par un accompagnement renforcé, explique en partie cette surmortalité. Quelque 15 % des accidents graves et mortels surviennent au cours des trois premiers mois suivant l’embauche, et plus de la moitié des salariés de moins de 25 ans morts au travail avaient moins d’un an d’ancienneté dans le poste.

      Tom Le Duault a, lui, perdu la vie le lundi 25 octobre 2021. Cet étudiant en BTS technico-commercial entame alors son quatrième contrat court dans l’abattoir de LDC Bretagne, à Lanfains (Côtes-d’Armor). Sa mère y travaille depuis vingt-neuf ans, et il espère ainsi mettre un peu d’argent de côté. Comme lors de ses premières expériences, il est « à la découpe », où il s’occupe de mettre en boîte les volailles. Ce matin-là, un salarié est absent. Tom doit le remplacer dans le réfrigérateur où sont stockées les caisses de viande. Il est censé y empiler les boîtes avec un gerbeur, un appareil de levage.

      « Sur les dernières images de vidéosurveillance, on le voit entrer à 9 h 53. Il n’est jamais ressorti, et personne ne s’est inquiété de son absence », regrette Isabelle Le Duault, sa mère. Il est découvert à 10 h 45, asphyxié sous deux caisses de cuisses de volaille. Elle apprend la mort de son fils par hasard. « J’ai vu qu’il y avait plein de monde dehors. Une fille m’a dit qu’il y avait un accident grave, elle m’a dit de demander si ce n’était pas mon fils au responsable. Il m’a demandé : “C’est Tom comment ?” C’était bien lui… »

      Les conclusions des enquêtes de gendarmerie et de l’inspection du travail ont vite écarté une éventuelle responsabilité du jeune homme. Jean-Claude Le Duault, son père, en veut à l’entreprise. « Tom n’a pas voulu les décevoir, vu que sa mère travaillait là. Mais on ne met pas un gamin de 18 ans seul dans un atelier, une heure, sans vérifier, sur un gerbeur. Il ne connaît pas les dangers, les règles de sécurité. C’est une irresponsabilité totale, à tous les étages. »

      Manquements

      Dans un monde du travail concurrentiel, les jeunes se doivent de faire leurs preuves. A quel prix ? Selon une enquête du Centre d’études et de recherches sur les qualifications publiée en 2020, 59 % des jeunes sortant de la voie professionnelle sont exposés à des risques de blessures ou d’accidents. Or, dans le même temps, ils n’ont pas la même connaissance de leurs droits. Toujours dans cette étude, 42 % déclaraient ne pas avoir reçu de formation ou d’informationsur la santé et la sécurité à l’arrivée sur leur poste. C’est le cas de Tom Le Duault, qui n’avait même pas de fiche de poste. Comme son utilisation du gerbeur n’était pas prévue, il avait été formé sur le tas.

      « Il avait déjà travaillé avec un appareil de levage lors de son précédent contrat, et il s’était déjà blessé à la cheville, ce qui avait causé trois semaines d’arrêt, fulmine Ralph Blindauer, avocat de la famille. Il a été formé par un autre intérimaire. C’était une formation à l’utilisation, pas à la sécurité ! »

      A l’absence d’encadrement et de formation s’ajoutent d’autres manquements, détaillés lors du procès de l’entreprise au pénal : l’appareil était défaillant, ce qui a vraisemblablement causé l’accident, et les salariés de LDC avaient l’habitude d’empiler les caisses sur trois niveaux au lieu de deux, faute de place dans la chambre froide, ce qui est contraire aux règles de sécurité.

      Le rôle du tuteur est crucial

      LDC Bretagne a été condamné, en mai 2023, à une amende de 300 000 euros, tandis que l’ancien directeur de l’#usine – devenu, entre-temps, « chargé de mission » au sein de l’entreprise – a été condamné à deux ans de prison avec sursis. Reconnaissant ses manquements, l’entreprise n’a pas fait appel, chose rare. La direction de cette grosse PME déclare que des mesures complémentaires ont été prises à la suite du décès de Tom, notamment un « plan de formation renforcé à la sécurité, des habilitations, une évaluation complète et approfondie des risques sur les différents postes, des audits par des cabinets indépendants ou le suivi d’indicateurs ».

      Un badge est désormais nécessaire pour se servir d’un gerbeur, ajoute Isabelle Le Duault. Elle a choisi de rester dans l’entreprise, mais à mi-temps. « Moi, je ne peux plus passer devant cette usine, ou même dans cette ville », renchérit son mari.

      En stage ou en apprentissage, le rôle du tuteur est crucial. Sur le chantier d’Urbaine de travaux, à Pantin, l’arrivée de Jérémy Wasson n’avait pas été anticipée. Le lundi matin, personne ne s’occupe de lui, car le chantier est en retard. Il ne reçoit rien d’autre qu’un livret d’accueil et un rendez-vous de quinze minutes pendant lequel on lui parle surtout des gestes barrières. « Jérémy s’est très vite interrogé sur la nature de son stage. Dès le premier jour, on lui a fait faire du marteau-piqueur, le mercredi soir, il trouvait ça fatigant et inintéressant. Ce soir-là, on a hésité à prévenir l’école… », raconte son père.

      Renforcer la formation à la sécurité

      La société Urbaine de travaux a été condamnée, en 2022, à 240 000 euros d’amende pour « homicide involontaire », et l’ingénieure en chef du chantier à 10 000 euros et deux ans de prison avec sursis. Cette décision du tribunal de Bobigny a confirmé les lourdes conclusions de l’inspection du travail, notamment la violation délibérée d’une obligation de #sécurité, l’absence d’encadrement et de formation de Jérémy et l’absence de #sécurisation de la trémie. L’entreprise a fait appel.

      Face à la violence de ces récits, qui concernent parfois des mineurs, le sujet a été érigé en axe prioritaire dans le plan santé au travail du gouvernement. Mais le choix du ministère du travail de publier deux mémentos qui mettent jeunes et entreprises sur le même plan, les invitant à « respecter toutes les consignes », peut étonner.

      Les écoles et centres de formation ont aussi un rôle à jouer pour renforcer la formation à la sécurité. En 2022, la CNAM a recensé plus de 1 million d’élèves et apprentis (CAP et bac professionnel) ayant reçu un enseignement spécifique en santé et sécurité au travail.

      Faciliter la mise en situation des adolescents

      A la suite du décès de Jérémy, l’ESTP a renforcé les enseignements – déjà obligatoires – sur la sécurité. Un élève ne peut se rendre en stage sans avoir obtenu une certification. « En cas de signalement, on fait un point avec les RH de l’entreprise, et si ça ne se résout pas, nous n’avons pas de scrupules à arrêter le stage. Mais je ne remets pas en cause la volonté des entreprises de créer un environnement de sécurité pour accueillir nos élèves », déclare Joël Cuny.

      Un argument difficile à entendre pour la famille de Jérémy Wasson… Car les #entreprises restent les premières responsables de la santé des jeunes sous leur responsabilité, comme du reste de leurs salariés. Le nombre d’apprentis a explosé ces dernières années, la réforme du lycée professionnel souhaite faciliter la mise en situation des adolescents.

      Par ailleurs, le gouvernement a annoncé l’obligation pour les élèves de 2de générale et technologique, dès 2024, d’effectuer un stage en entreprise ou en association de deux semaines, semblable au stage de 3e. La question ne s’est jamais autant posée : les employeurs mettront-ils les moyens pour protéger tous ces jeunes ?

      #apprentissage

    • Avec la sous-traitance, des accidents du travail en cascade, Anne Rodier
      https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/02/10/avec-la-sous-traitance-des-accidents-du-travail-en-cascade_6215798_3234.html

      Pression économique des donneurs d’ordre, délais resserrés, manque de prévention… Les salariés des entreprises en sous-traitance, en particulier sur les chantiers et dans le nettoyage, sont plus exposés aux accidents du travail. Surtout lorsqu’ils sont #sans-papiers.

      https://justpaste.it/axscq

      #sous-traitance

  • « #Anatomie_d’une_chute » et la question de l’#interprétation du #récit

    « Vous ne contextualisez pas, vous délirez sur un détail ! »
    « Un roman n’est pas la vie, un auteur n’est pas un personnage ! »
    « Mais un auteur peut exprimer ses idées par ses personnages ! »

    Des bribes d’un cours de licence de lettres ? Des débats lors d’un colloque littéraire ? Non ! Il s’agit de certains échanges entre les personnages du film Anatomie d’une chute de Justine Triet, palme d’or du dernier Festival de Cannes, qui met en scène le procès de l’écrivaine Sandra Voyter, accusée d’avoir tué son mari Samuel.

    On pourrait penser que ces échanges sont irréalistes. Mais la littérature s’invite parfois dans des procès bien réels : dans Histoire de la violence, Edouard Louis relate, de manière autobiographique, un épisode traumatique (une agression physique et un viol). Lors du procès, son avocat a renvoyé, dans sa plaidoirie, au récit de l’écrivain, alors que l’avocate de l’accusé a déclaré qu’Edouard Louis « avait confondu son roman avec la réalité ». La procureure elle, a appelé à trouver une « vérité judiciaire » et non « littéraire ».

    La manière dont le film de Justine Triet traite la question du couple, du genre, de l’innocence et de la culpabilité a été abondamment commentée. Mais une autre question irrigue le film : celle de l’interprétation du récit littéraire (les deux protagonistes du couple étant, l’une écrivaine à succès, l’autre aspirant écrivain), notamment lorsque ce récit joue sur certaines marges troubles, entre fiction et non-fiction, représentation artistique et fidélité mimétique au réel et lorsqu’il se confronte à d’autres récits, qui ont leurs propres critères de cohérence, de validité, de recevabilité : le récit juridique, mais aussi le récit journalistique, le récit psychanalytique, le récit médical, le récit d’expert, etc.

    Chaque catégorie peut par ailleurs se décliner en une multitude de récits : les récits des avocats comme ceux des experts peuvent être diamétralement opposés, par exemple. Le passage d’une langue à l’autre dans le film – de l’anglais au français et vice-versa – nous fait d’ailleurs littéralement entendre cette polyphonie.

    L’autofiction, ou l’art de brouiller les limites entre fiction et réalité

    « What do you want to know ? » (« Que voulez-vous savoir ? ») demande, au tout début du film, Sandra à l’étudiante venue l’interroger. Elle veut savoir ce qui relève de la réalité et de la fiction dans les écrits de Sandra Voyter, et si l’écrivaine pense qu’on ne peut inventer, créer, qu’à partir de la réalité. Or la production littéraire de Sandra se situe dans un genre qu’on peut appeler l’autofiction.

    Le terme a été employé pour la première fois en 1977 par l’écrivain et critique Serge Doubrovsky (pour qualifier son récit, Fils). Il mêle ce qu’on pourrait croire a priori opposé : l’autobiographie et la fiction. L’autofiction est en effet un récit inspiré par la vie de l’autrice ou de l’auteur du récit, mais un récit qui se permet de romancer, d’imaginer, qui ne veut pas se plier aux critères de sincérité, d’authenticité, de conformité aux faits qu’on associe souvent à l’autobiographie traditionnelle (et au « pacte autobiographique » tel qu’il a été défini par Philippe Lejeune).

    Le terme autofiction a donné lieu à de multiples définitions et à de multiples critiques, comme l’a montré le chercheur Philippe Gasparini. Il n’est notamment pas aisé de le distinguer du roman autobiographique comme l’a résumé Sylvie Jouanny, on peut distinguer deux tendances : l’une, référentielle, qui repose sur l’homonymie entre narrateur/narratrice, auteur/autrice et personnage et qui considère que « l’autofiction est un roman qui traite de la réalité, fût-ce dans le recours à la fiction », l’autre, fictionnelle, qui défend « la fiction plus que l’autobiographie » et s’intéresse au travail de « fictionnalisation de soi » (cette fictionnalisation pouvant remettre en cause l’homonymie entre narrateur/narratrice, auteur/autrice et personnage).

    Dans Anatomie d’une chute, il est admis que Sandra Voyter écrit de l’autofiction en s’inspirant des éléments de sa vie (notamment l’accident de son fils, mais aussi ses relations avec son père). Lorsque l’étudiante, au début du film, essaie de distinguer ce qui est réel de ce qui est inventé, Sandra esquive et déplace le sujet de la conversation. Mais, tout au long du film, elle va devoir répondre aux questions de la police, de ses avocats, avant et pendant le procès.

    Elle va devoir parler d’elle, de ses livres, et chaque élément de son discours va être disséqué, chacun des mots prononcés (ou échappés, comme lorsque l’étudiante appelle l’accusée par son prénom durant le procès) va être analysé comme on pourrait le faire dans une explication de texte.
    « Alors, on va vraiment entrer dans un débat littéraire ? »

    C’est lorsqu’un des livres de Sandra est brandi au procès, malgré les protestations d’une des avocates de la défense (« On ne juge pas des livres, on juge des faits ») qu’on se retrouve au cœur de questions débattues dans le monde de la recherche et de la critique littéraires.

    Reprenons les échanges entre l’accusation et la défense et la manière dont ces débats incarnent différentes manières de lire l’œuvre littéraire.

    Les questions posées sont fondamentales dès qu’il s’agit d’interpréter une œuvre littéraire : qui parle ? (le personnage ou l’auteur/l’autrice ?) Peut-on comprendre le sens d’un extrait (d’un livre ou d’un enregistrement – celui de la dispute du couple –) sans le mettre en rapport avec un contexte plus large ? Qui décide du sens d’un texte (la personne qui produit le discours ? Celle qui le reçoit ?)

    L’accusation veut lire l’extrait d’un livre de Sandra Voyter, qui raconte les pensées d’un personnage qui éprouve le désir de tuer. L’accusation établit clairement un lien mimétique entre ce passage et la mort de Samuel : Sandra aurait préfiguré dans son roman son désir de tuer.

    Pour la défense, c’est inacceptable : « Vous ne contextualisez pas ! Vous délirez sur un détail » ! L’extrait n’est pas contextualisé, il ne s’agit que d’un personnage secondaire, qui d’ailleurs ne passe pas à l’acte. Même dans le régime du texte littéraire, il ne s’agit que d’un fantasme, pas d’un fait. La défense reproche à l’accusation de surinterpréter en faisant d’un passage secondaire le cœur du livre – ce à quoi l’accusation répond que la défense avait également relevé ce passage, ce qui voudrait dire qu’elle le considérait bien comme significatif.

    La défense insiste : il faut distinguer l’autrice du personnage. Le point de vue du personnage n’engage pas l’autrice. Il existe une différence entre le monde de la fiction (du personnage) et celui de la réalité (de l’autrice).

    L’accusation se justifie alors sur ce dernier point : « Les livres de Sandra Voyter font partie du procès, elle y met son existence, notamment son couple ». Les livres de l’accusée appartiennent au récit de soi, d’inspiration autobiographique, on peut donc faire cette adéquation entre personnage et autrice puisqu’il ne s’agit pas de fiction.

    Pour la défense, il ne s’agit pas d’autobiographie, mais d’autofiction, un genre qui se permet de réintroduire de la fiction dans l’écriture de soi. La défense essaie de ridiculiser la lecture de la littérature comme mimétique de la réalité (« Vous allez nous dire que Stephen King est un serial killer ? »), l’accusation la justifie (« La femme de Stephen King n’a pas été retrouvée morte ! »)
    La littérature ou le jeu avec les limites

    Par rapport au trouble suscité par le récit littéraire, l’enregistrement de la dispute entre Sandra et son mari semble pouvoir constituer un récit fiable. Mais en réalité cette dispute se révèle être, comme le dit l’avocat de la défense, un « document ambigu » tout aussi ambigu que le texte de Sandra Voyter, pour deux raisons.

    D’une part, comme le texte cité par l’accusation, l’enregistrement n’est qu’un extrait, qu’un moment de la relation entre deux personnes et ne peut représenter toute leur vie. Sandra Voyter le dit : l’enregistrement n’est pas la réalité, car il n’est qu’une partie de la réalité – tout comme elle dit au psychanalyste, joué par le metteur en scène Wajdi Mouawad, qui rapporte le récit de ses sessions avec Samuel : « Mais ce que vous dites n’est qu’une petite partie de la situation globale ». Il s’agit bien de leurs échanges, de leurs mots, de leurs voix, mais ce n’est pas eux – tous leurs êtres, la somme de leurs échanges, de leurs interactions, de leurs corps : on ne peut jamais saisir l’entièreté d’un être ni d’une relation.

    D’autre part, alors qu’on croit a priori, avec cet enregistrement, être à coup sûr dans le domaine de la réalité, des faits (et non de la fiction et de la représentation) on apprend, via l’avocat de la défense, que Samuel enregistrait des moments de sa vie et les retranscrivait, qu’il cherchait à faire de « l’autofiction » (le mot est prononcé) en s’inspirant de la méthode de son épouse. On pense ici à différentes productions de littérature contemporaine qui donnent une part de plus en plus importante à des documents matériels : Annie Ernaux, qui retranscrit son journal intime (dans Se perdre ou Je ne suis pas sortie de ma nuit), qui introduit des reproductions de photographies dans ses livres (tout comme Édouard Louis), Neige Sinno qui reproduit dans Triste Tigre les articles de presse parlant de son enfance et de l’arrestation de son beau-père pour viol.

    On pense plus généralement aux productions, qui se développent depuis les années 1960, que la chercheuse Marie-Jeanne Zenetti appelle, après l’écrivain Magnus Enzensberger, des factographies. Les factographies cherchent une nouvelle manière de dire le réel en captant des images, des sons, des discours. Elles peuvent se manifester formellement par des compilations de notes, des retranscriptions, des reproductions d’archives. Dans ces récits à l’« écriture enregistreuse », il s’agit de « jouer au document et avec le document » comme le dit Marie-Jeanne Zenetti.

    L’enregistrement fait par Samuel Voyter n’est-il pas aussi un objet littéraire ? La défense se demande ainsi si Samuel n’aurait pas provoqué la dispute pour avoir de la matière pour son livre. L’ordre traditionnel (la littérature qui vient après la vie, retranscrit la vie, représente la vie) est inversé : il y aurait d’abord la littérature (l’envie d’écrire, la mise en scène) et ensuite la vie. On retrouve les propos tenus par Sandra Voyter dans un ancien entretien : « Mon travail, c’est de brouiller les pistes pour que la fiction détruise le réel » et le commentaire des journalistes : « On a l’impression que ça vient de ses livres, qu’elle l’a déjà écrit ».

    Dernier récit et dernier doute du film : lorsque l’enfant du couple, Daniel, fait le récit de son trajet avec son père, pour emmener leur chien chez le vétérinaire. Il rapporte les propos de Samuel, qui aurait filé une métaphore entre l’état du chien et le sien, pour préparer son fils à sa mort prochaine. « Ce récit est extrêmement subjectif » déclare l’accusation. S’agit-il d’une interprétation ? D’une invention ? Ou Daniel se met-il lui aussi à pratiquer l’autofiction ?
    Anatomie d’une chute ou les mises en abyme du récit

    En filmant le public du procès, la réalisatrice met en abyme notre situation de spectatrices et spectateurs : nous regardons le public qui regarde le procès, ce public qui frémit à l’annonce d’un éventuel rebondissement – tout comme nous. Le film nous renvoie à nos attentes et nos projections sur le type de récit que nous avons envie de voir (ou d’entendre, ou de lire…)

    Ainsi, dans une émission de débat télévisé de deuxième partie de soirée représentée dans le film – sur laquelle tombe Sandra Voyter en zappant – la question de sa culpabilité ou de son innocence n’est plus liée aux faits, mais, plus cyniquement (ou d’un point de vue plus littéraire ?) à l’intérêt de l’un ou l’autre récit : « L’idée d’une écrivaine qui assassine son mari est tellement plus intéressante que celle d’un prof qui se suicide ».

    D’un côté, les émois potentiellement romanesques du couple, le lien dangereux entre fiction et non-fiction, de l’autre la mort banale d’un homme qui a échoué en tant qu’écrivain. La conclusion judiciaire du procès a l’air d’entériner le second récit (le suicide), puisque Sandra est acquittée, mais c’est bien le premier récit (la femme coupable) qui est interrogé et mis en scène. Parce que c’est ce que le public (le public du procès, le public du film) voulait voir ?

    « Je crois qu’il y a eu trop de mots dans ce procès et j’ai plus rien à dire », déclare Sandra Voyter aux journalistes à la sortie du tribunal. De fait, on parle beaucoup dans Anatomie d’une chute (nous avons pu commenter le film dans cet article en ne parlant quasiment que de dialogue verbal, sans mentionner les autres manifestations du langage cinématographique !) – jusqu’au silence final de Sandra : la multitude des récits n’aboutit pas à une vérité proclamée, mais à l’indicible, à l’invérifiable, à l’opacité (ce qui est devenu quasiment un topos romanesque). Se refuser à toute conclusion rassurante, est-ce une déconstruction du récit traditionnel… ou une variation sur un type de récit dont nous avons déjà l’habitude, un récit ouvert, un récit réflexif, un récit qui joue sur la mise en abyme de lui-même, bref le récit d’un film littéraire ?

    https://theconversation.com/anatomie-dune-chute-et-la-question-de-linterpretation-du-recit-2158

    #procès #justice #littérature #vérité #fiction #non-fiction #cohérence #validité #recevabilité #récit_juridique #polyphonie #réalité #autofiction #Serge_Doubrovsky #factographies

  • Au tribunal de Bobigny, après l’affaire Théo, hors norme, l’ordinaire d’un procès de policiers

    Le procès de l’affaire Théo, en janvier, au palais de justice de Bobigny (Seine-Saint-Denis), avait été hors norme : deux semaines d’audience, la grande salle des assises, le défilé des témoins, la longue déposition de la victime, la nuée de caméras et de micros à chaque suspension, la colère bruyante, à l’issue du verdict, de militants contre les violences policières, dans une enceinte quadrillée par les forces de l’ordre.
    Retour à l’ordinaire, jeudi 1er février, dans l’anonymat de la modeste salle 3 de ce même tribunal, où se tient, tous les premiers jeudis du mois devant la 14e chambre correctionnelle, une audience exclusivement consacrée aux délits commis par des policiers – les dossiers, manifestement, ne manquent pas.
    Deux agents de la brigade anticriminalité, Jordan M., 27 ans, et Loïc C., 31 ans, comparaissaient pour des violences injustifiées lors d’une interpellation, une nuit de mai 2023 à Saint-Ouen : des coups de pied, des coups de poing, des balayettes sur un individu qui, au terme d’une course-poursuite, s’était mis de lui-même au sol, les mains en évidence. Comme un écho, toutes proportions gardées, du procès de l’affaire Théo – trois #policiers jugés pour un coup de matraque tristement célèbre, qui avait justifié le renvoi aux assises, mais aussi pour tout un tas de gestes brutaux commis alors que le jeune homme était menotté et au sol.

    Comme l’affaire Théo, celle-ci n’aurait jamais atterri au tribunal si la scène n’avait pas été captée par une caméra de vidéosurveillance dont les images ont été diffusées à l’audience. Contrairement à l’affaire Théo, ce n’est pas la victime – introuvable – qui a signalé à la #justice le comportement des policiers indélicats, mais leur propre hiérarchie, alertée par un opérateur du centre de supervision urbaine de Saint-Ouen, choqué par ce qu’il avait vu sur ses écrans de contrôle cette nuit-là.

    « Comportement de cow-boy »

    « Ce procès n’est pas celui de #police, c’est celui de la violence illégitime, d’autant plus inacceptable qu’elle est commise par des gens qui portent le titre de gardien de la paix. » Ces mots ne sont pas de l’avocat de la partie civile, puisqu’il n’y en avait pas ; ils avaient été prononcés deux semaines plus tôt par Antoine Vey, avocat de Théodore Luhaka, lors de sa plaidoirie qui se serait aussi bien appliquée au procès du jour.

    Le procureur Loïc Pageot, qui représentait déjà l’accusation au procès Théo, aurait lui aussi pu répéter des pans entiers de son réquisitoire sur l’autorité qui « ne se conçoit que si elle est juste et proportionnée », mais il a choisi un registre un peu plus direct : « Qu’est-ce que c’est que ce comportement de cow-boy ? » « Des contrôles comme ça, il doit y en avoir tous les jours. S’il n’y a pas de vidéosurveillance, c’est ni vu ni connu », a-t-il aussi souligné.
    Est-ce le caractère incontestable des images, bien plus nettes que celles de l’interpellation de Théo ? Ou l’absence de public – hormis quelques collègues – et de médias ? Les deux prévenus du jour se sont en tout cas montrés plus penauds et contrits que les trois accusés du procès Théo – « On a été incompétents de A à Z », a résumé Loïc C. –, même si leurs explications ont été assez ressemblantes : fatigue, stress, environnement hostile, pas de volonté de faire mal.

    Les deux hommes s’en sont tirés avec quatre mois de prison avec sursis – un de plus que deux des trois accusés du procès Théo – et trois mois d’interdiction d’exercer sur la voie publique. Le procès de l’affaire Théo avait duré deux semaines. Il a fallu deux heures pour boucler ce procès-là. Le procès, selon la formule du procureur, de « la violence illégitime au quotidien ».
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/02/03/au-tribunal-de-bobigny-apres-l-affaire-theo-hors-norme-l-ordinaire-d-un-proc

    #violences_policières

    • Ce compromis, approuvé par un juge, permet d’éviter un procès qui se profilait notamment dans le Massachusetts, mais dans son communiqué, Letitia James met violemment en cause Publicis. « Pendant une décennie, Publicis a aidé les fabricants d’opioïdes comme Purdue Pharma à convaincre les médecins de prescrire trop d’opioïdes, alimentant directement la crise des opioïdes et provoquant la dévastation de communautés à l’échelle nationale », déclare la procureure.

      Si t’es riche, suffit de payer un peu et la justice passe à autre chose, même si ton crime est immense.

      #justice

      https://justpaste.it/9r87d

    • Pour les forfaitures infects mises sous le tapis grâce à cet accord avec #publicis faudra voir avec le mari de Amélie Claire Castéra (devenue Amélie Oudéa-Castéra et multiministre) qui en est directeur.

      Oups, EDIT, c’est son père qui était directeur de Publicis !

  • L’#Europe et la fabrique de l’étranger

    Les discours sur l’ « #européanité » illustrent la prégnance d’une conception identitaire de la construction de l’Union, de ses #frontières, et de ceux qu’elle entend assimiler ou, au contraire, exclure au nom de la protection de ses #valeurs particulières.

    Longtemps absente de la vie démocratique de l’#Union_européenne (#UE), la question identitaire s’y est durablement installée depuis les années 2000. Si la volonté d’affirmer officiellement ce que « nous, Européens » sommes authentiquement n’est pas nouvelle, elle concernait jusqu’alors surtout – à l’instar de la Déclaration sur l’identité européenne de 1973 – les relations extérieures et la place de la « Communauté européenne » au sein du système international. À présent, elle renvoie à une quête d’« Européanité » (« Europeanness »), c’est-à-dire la recherche et la manifestation des #trait_identitaires (héritages, valeurs, mœurs, etc.) tenus, à tort ou à raison, pour caractéristiques de ce que signifie être « Européens ». Cette quête est largement tournée vers l’intérieur : elle concerne le rapport de « nous, Européens » à « nous-mêmes » ainsi que le rapport de « nous » aux « autres », ces étrangers et étrangères qui viennent et s’installent « chez nous ».

    C’est sous cet aspect identitaire qu’est le plus fréquemment et vivement discuté ce que l’on nomme la « #crise_des_réfugiés » et la « #crise_migratoire »

    L’enjeu qui ferait de l’#accueil des exilés et de l’#intégration des migrants une « #crise » concerne, en effet, l’attitude que les Européens devraient adopter à l’égard de celles et ceux qui leur sont « #étrangers » à double titre : en tant qu’individus ne disposant pas de la #citoyenneté de l’Union, mais également en tant que personnes vues comme les dépositaires d’une #altérité_identitaire les situant à l’extérieur du « #nous » – au moins à leur arrivée.

    D’un point de vue politique, le traitement que l’Union européenne réserve aux étrangères et étrangers se donne à voir dans le vaste ensemble de #discours, #décisions et #dispositifs régissant l’#accès_au_territoire, l’accueil et le #séjour de ces derniers, en particulier les accords communautaires et agences européennes dévolus à « une gestion efficace des flux migratoires » ainsi que les #politiques_publiques en matière d’immigration, d’intégration et de #naturalisation qui restent du ressort de ses États membres.

    Fortement guidées par des considérations identitaires dont la logique est de différencier entre « nous » et « eux », de telles politiques soulèvent une interrogation sur leurs dynamiques d’exclusion des « #autres » ; cependant, elles sont aussi à examiner au regard de l’#homogénéisation induite, en retour, sur le « nous ». C’est ce double questionnement que je propose de mener ici.

    En quête d’« Européanité » : affirmer la frontière entre « nous » et « eux »

    La question de savoir s’il est souhaitable et nécessaire que les contours de l’UE en tant que #communauté_politique soient tracés suivant des #lignes_identitaires donne lieu à une opposition philosophique très tranchée entre les partisans d’une défense sans faille de « l’#identité_européenne » et ceux qui plaident, à l’inverse, pour une « #indéfinition » résolue de l’Europe. Loin d’être purement théorique, cette opposition se rejoue sur le plan politique, sous une forme tout aussi dichotomique, dans le débat sur le traitement des étrangers.

    Les enjeux pratiques soulevés par la volonté de définir et sécuriser « notre » commune « Européanité » ont été au cœur de la controverse publique qu’a suscitée, en septembre 2019, l’annonce faite par #Ursula_von_der_Leyen de la nomination d’un commissaire à la « #Protection_du_mode_de_vie_européen », mission requalifiée – face aux critiques – en « #Promotion_de_notre_mode_de_vie_européen ». Dans ce portefeuille, on trouve plusieurs finalités d’action publique dont l’association même n’a pas manqué de soulever de vives inquiétudes, en dépit de la requalification opérée : à l’affirmation publique d’un « #mode_de_vie » spécifiquement « nôtre », lui-même corrélé à la défense de « l’#État_de_droit », « de l’#égalité, de la #tolérance et de la #justice_sociale », se trouvent conjoints la gestion de « #frontières_solides », de l’asile et la migration ainsi que la #sécurité, le tout placé sous l’objectif explicite de « protéger nos citoyens et nos valeurs ».

    Politiquement, cette « priorité » pour la période 2019-2024 s’inscrit dans la droite ligne des appels déjà anciens à doter l’Union d’un « supplément d’âme
     » ou à lui « donner sa chair » pour qu’elle advienne enfin en tant que « #communauté_de_valeurs ». De tels appels à un surcroît de substance spirituelle et morale à l’appui d’un projet européen qui se devrait d’être à la fois « politique et culturel » visaient et visent encore à répondre à certains problèmes pendants de la construction européenne, depuis le déficit de #légitimité_démocratique de l’UE, si discuté lors de la séquence constitutionnelle de 2005, jusqu’au défaut de stabilité culminant dans la crainte d’une désintégration européenne, rendue tangible en 2020 par le Brexit.

    Précisément, c’est de la #crise_existentielle de l’Europe que s’autorisent les positions intellectuelles qui, poussant la quête d’« Européanité » bien au-delà des objectifs politiques évoqués ci-dessus, la déclinent dans un registre résolument civilisationnel et défensif. Le geste philosophique consiste, en l’espèce, à appliquer à l’UE une approche « communautarienne », c’est-à-dire à faire entièrement reposer l’UE, comme ensemble de règles, de normes et d’institutions juridiques et politiques, sur une « #communauté_morale » façonnée par des visions du bien et du monde spécifiques à un groupe culturel. Une fois complétée par une rhétorique de « l’#enracinement » desdites « #valeurs_européennes » dans un patrimoine historique (et religieux) particulier, la promotion de « notre mode de vie européen » peut dès lors être orientée vers l’éloge de ce qui « nous » singularise à l’égard d’« autres », de « ces mérites qui nous distinguent » et que nous devons être fiers d’avoir diffusés au monde entier.

    À travers l’affirmation de « notre » commune « Européanité », ce n’est pas seulement la reconnaissance de « l’#exception_européenne » qui est recherchée ; à suivre celles et ceux qui portent cette entreprise, le but n’est autre que la survie. Selon #Chantal_Delsol, « il en va de l’existence même de l’Europe qui, si elle n’ose pas s’identifier ni nommer ses caractères, finit par se diluer dans le rien. » Par cette #identification européenne, des frontières sont tracées. Superposant Europe historique et Europe politique, Alain Besançon les énonce ainsi : « l’Europe s’arrête là où elle s’arrêtait au XVIIe siècle, c’est-à-dire quand elle rencontre une autre civilisation, un régime d’une autre nature et une religion qui ne veut pas d’elle. »

    Cette façon de délimiter un « #nous_européen » est à l’exact opposé de la conception de la frontière présente chez les partisans d’une « indéfinition » et d’une « désappropriation » de l’Europe. De ce côté-ci de l’échiquier philosophique, l’enjeu est au contraire de penser « un au-delà de l’identité ou de l’identification de l’Europe », étant entendu que le seul « crédit » que l’on puisse « encore accorder » à l’Europe serait « celui de désigner un espace de circulation symbolique excédant l’ordre de l’identification subjective et, plus encore, celui de la #crispation_identitaire ». Au lieu de chercher à « circonscri[re] l’identité en traçant une frontière stricte entre “ce qui est européen” et “ce qui ne l’est pas, ne peut pas l’être ou ne doit pas l’être” », il s’agit, comme le propose #Marc_Crépon, de valoriser la « #composition » avec les « #altérités » internes et externes. Animé par cette « #multiplicité_d’Europes », le principe, thématisé par #Etienne_Balibar, d’une « Europe comme #Borderland », où les frontières se superposent et se déplacent sans cesse, est d’aller vers ce qui est au-delà d’elle-même, vers ce qui l’excède toujours.

    Tout autre est néanmoins la dynamique impulsée, depuis une vingtaine d’années, par les politiques européennes d’#asile et d’immigration.

    La gouvernance européenne des étrangers : l’intégration conditionnée par les « valeurs communes »

    La question du traitement public des étrangers connaît, sur le plan des politiques publiques mises en œuvre par les États membres de l’UE, une forme d’européanisation. Celle-ci est discutée dans les recherches en sciences sociales sous le nom de « #tournant_civique ». Le terme de « tournant » renvoie au fait qu’à partir des années 2000, plusieurs pays européens, dont certains étaient considérés comme observant jusque-là une approche plus ou moins multiculturaliste (tels que le Royaume-Uni ou les Pays-Bas), ont développé des politiques de plus en plus « robustes » en ce qui concerne la sélection des personnes autorisées à séjourner durablement sur leur territoire et à intégrer la communauté nationale, notamment par voie de naturalisation. Quant au qualificatif de « civique », il marque le fait que soient ajoutés aux #conditions_matérielles (ressources, logement, etc.) des critères de sélection des « désirables » – et, donc, de détection des « indésirables » – qui étendent les exigences relatives à une « #bonne_citoyenneté » aux conduites et valeurs personnelles. Moyennant son #intervention_morale, voire disciplinaire, l’État se borne à inculquer à l’étranger les traits de caractère propices à la réussite de son intégration, charge à lui de démontrer qu’il conforme ses convictions et comportements, y compris dans sa vie privée, aux « valeurs » de la société d’accueil. Cette approche, centrée sur un critère de #compatibilité_identitaire, fait peser la responsabilité de l’#inclusion (ou de l’#exclusion) sur les personnes étrangères, et non sur les institutions publiques : si elles échouent à leur assimilation « éthique » au terme de leur « #parcours_d’intégration », et a fortiori si elles s’y refusent, alors elles sont considérées comme se plaçant elles-mêmes en situation d’être exclues.

    Les termes de « tournant » comme de « civique » sont à complexifier : le premier car, pour certains pays comme la France, les dispositifs en question manifestent peu de nouveauté, et certainement pas une rupture, par rapport aux politiques antérieures, et le second parce que le caractère « civique » de ces mesures et dispositifs d’intégration est nettement moins évident que leur orientation morale et culturelle, en un mot, identitaire.

    En l’occurrence, c’est bien plutôt la notion d’intégration « éthique », telle que la définit #Jürgen_Habermas, qui s’avère ici pertinente pour qualifier ces politiques : « éthique » est, selon lui, une conception de l’intégration fondée sur la stabilisation d’un consensus d’arrière-plan sur des « valeurs » morales et culturelles ainsi que sur le maintien, sinon la sécurisation, de l’identité et du mode de vie majoritaires qui en sont issus. Cette conception se distingue de l’intégration « politique » qui est fondée sur l’observance par toutes et tous des normes juridico-politiques et des principes constitutionnels de l’État de droit démocratique. Tandis que l’intégration « éthique » requiert des étrangers qu’ils adhèrent aux « valeurs » particulières du groupe majoritaire, l’intégration « politique » leur demande de se conformer aux lois et d’observer les règles de la participation et de la délibération démocratiques.

    Or, les politiques d’immigration, d’intégration et de naturalisation actuellement développées en Europe sont bel et bien sous-tendues par cette conception « éthique » de l’intégration. Elles conditionnent l’accès au « nous » à l’adhésion à un socle de « valeurs » officiellement déclarées comme étant déjà « communes ». Pour reprendre un exemple français, cette approche ressort de la manière dont sont conçus et mis en œuvre les « #contrats_d’intégration » (depuis le #Contrat_d’accueil_et_d’intégration rendu obligatoire en 2006 jusqu’à l’actuel #Contrat_d’intégration_républicaine) qui scellent l’engagement de l’étranger souhaitant s’installer durablement en France à faire siennes les « #valeurs_de_la_République » et à les « respecter » à travers ses agissements. On retrouve la même approche s’agissant de la naturalisation, la « #condition_d’assimilation » propre à cette politique donnant lieu à des pratiques administratives d’enquête et de vérification quant à la profondeur et la sincérité de l’adhésion des étrangers auxdites « valeurs communes », la #laïcité et l’#égalité_femmes-hommes étant les deux « valeurs » systématiquement mises en avant. L’étude de ces pratiques, notamment les « #entretiens_d’assimilation », et de la jurisprudence en la matière montre qu’elles ciblent tout particulièrement les personnes de religion et/ou de culture musulmanes – ou perçues comme telles – en tant qu’elles sont d’emblée associées à des « valeurs » non seulement différentes, mais opposées aux « nôtres ».

    Portées par un discours d’affrontement entre « systèmes de valeurs » qui n’est pas sans rappeler le « #choc_des_civilisations » thématisé par #Samuel_Huntington, ces politiques, censées « intégrer », concourent pourtant à radicaliser l’altérité « éthique » de l’étranger ou de l’étrangère : elles construisent la figure d’un « autre » appartenant – ou suspecté d’appartenir – à un système de « valeurs » qui s’écarterait à tel point du « nôtre » que son inclusion dans le « nous » réclamerait, de notre part, une vigilance spéciale pour préserver notre #identité_collective et, de sa part, une mise en conformité de son #identité_personnelle avec « nos valeurs », telles qu’elles s’incarneraient dans « notre mode de vie ».

    Exclusion des « autres » et homogénéisation du « nous » : les risques d’une « #Europe_des_valeurs »

    Le recours aux « valeurs communes », pour définir les « autres » et les conditions de leur entrée dans le « nous », n’est pas spécifique aux politiques migratoires des États nationaux. L’UE, dont on a vu qu’elle tenait à s’affirmer en tant que « communauté morale », a substitué en 2009 au terme de « #principes » celui de « valeurs ». Dès lors, le respect de la dignité humaine et des droits de l’homme, la liberté, la démocratie, l’égalité, l’État de droit sont érigés en « valeurs » sur lesquelles « l’Union est fondée » (art. 2 du Traité sur l’Union européenne) et revêtent un caractère obligatoire pour tout État souhaitant devenir et rester membre de l’UE (art. 49 sur les conditions d’adhésion et art. 7 sur les sanctions).

    Reste-t-on ici dans le périmètre d’une « intégration politique », au sens où la définit Habermas, ou franchit-on le cap d’une « intégration éthique » qui donnerait au projet de l’UE – celui d’une intégration toujours plus étroite entre les États, les peuples et les citoyens européens, selon la formule des traités – une portée résolument identitaire, en en faisant un instrument pour sauvegarder la « #civilisation_européenne » face à d’« autres » qui la menaceraient ? La seconde hypothèse n’a certes rien de problématique aux yeux des partisans de la quête d’« Européanité », pour qui le projet européen n’a de sens que s’il est tout entier tourné vers la défense de la « substance » identitaire de la « civilisation européenne ».

    En revanche, le passage à une « intégration éthique », tel que le suggère l’exhortation à s’en remettre à une « Europe des valeurs » plutôt que des droits ou de la citoyenneté, comporte des risques importants pour celles et ceux qui souhaitent maintenir l’Union dans le giron d’une « intégration politique », fondée sur le respect prioritaire des principes démocratiques, de l’État de droit et des libertés fondamentales. D’où également les craintes que concourt à attiser l’association explicite des « valeurs de l’Union » à un « mode de vie » à préserver de ses « autres éthiques ». Deux risques principaux semblent, à cet égard, devoir être mentionnés.

    En premier lieu, le risque d’exclusion des « autres » est intensifié par la généralisation de politiques imposant un critère de #compatibilité_identitaire à celles et ceux que leur altérité « éthique », réelle ou supposée, concourt à placer à l’extérieur d’une « communauté de valeurs » enracinée dans des traditions particulières, notamment religieuses. Fondé sur ces bases identitaires, le traitement des étrangers en Europe manifesterait, selon #Etienne_Tassin, l’autocontradiction d’une Union se prévalant « de la raison philosophique, de l’esprit d’universalité, de la culture humaniste, du règne des droits de l’homme, du souci pour le monde dans l’ouverture aux autres », mais échouant lamentablement à son « test cosmopolitique et démocratique ». Loin de représenter un simple « dommage collatéral » des politiques migratoires de l’UE, les processus d’exclusion touchant les étrangers constitueraient, d’après lui, « leur centre ». Même position de la part d’Étienne Balibar qui n’hésite pas à dénoncer le « statut d’#apartheid » affectant « l’immigration “extracommunautaire” », signifiant par là l’« isolement postcolonial des populations “autochtones” et des populations “allogènes” » ainsi que la construction d’une catégorie d’« étrangers plus qu’étrangers » traités comme « radicalement “autres”, dissemblables et inassimilables ».

    Le second risque que fait courir la valorisation d’un « nous » européen désireux de préserver son intégrité « éthique », touche au respect du #pluralisme. Si l’exclusion des « autres » entre assez clairement en tension avec les « valeurs » proclamées par l’Union, les tendances à l’homogénéisation résultant de l’affirmation d’un consensus fort sur des valeurs déclarées comme étant « toujours déjà » communes aux Européens ne sont pas moins susceptibles de contredire le sens – à la fois la signification et l’orientation – du projet européen. Pris au sérieux, le respect du pluralisme implique que soit tolérée et même reconnue une diversité légitime de « valeurs », de visions du bien et du monde, dans les limites fixées par l’égale liberté et les droits fondamentaux. Ce « fait du pluralisme raisonnable », avec les désaccords « éthiques » incontournables qui l’animent, est le « résultat normal » d’un exercice du pouvoir respectant les libertés individuelles. Avec son insistance sur le partage de convictions morales s’incarnant dans un mode de vie culturel, « l’Europe des valeurs » risque de produire une « substantialisation rampante » du « nous » européen, et d’entériner « la prédominance d’une culture majoritaire qui abuse d’un pouvoir de définition historiquement acquis pour définir à elle seule, selon ses propres critères, ce qui doit être considéré comme la culture politique obligatoire de la société pluraliste ».

    Soumis aux attentes de reproduction d’une identité aux frontières « éthiques », le projet européen est, en fin de compte, dévié de sa trajectoire, en ce qui concerne aussi bien l’inclusion des « autres » que la possibilité d’un « nous » qui puisse s’unir « dans la diversité ».

    https://laviedesidees.fr/L-Europe-et-la-fabrique-de-l-etranger
    #identité #altérité #intégration_éthique #intégration_politique #religion #islam

    • Politique de l’exclusion

      Notion aussi usitée que contestée, souvent réduite à sa dimension socio-économique, l’exclusion occupe pourtant une place centrale dans l’histoire de la politique moderne. Les universitaires réunis autour de cette question abordent la dimension constituante de l’exclusion en faisant dialoguer leurs disciplines (droit, histoire, science politique, sociologie). Remontant à la naissance de la citoyenneté moderne, leurs analyses retracent l’invention de l’espace civique, avec ses frontières, ses marges et ses zones d’exclusion, jusqu’à l’élaboration actuelle d’un corpus de valeurs européennes, et l’émergence de nouvelles mobilisations contre les injustices redessinant les frontières du politique.

      Tout en discutant des usages du concept d’exclusion en tenant compte des apports critiques, ce livre explore la manière dont la notion éclaire les dilemmes et les complexités contemporaines du rapport à l’autre. Il entend ainsi dévoiler l’envers de l’ordre civique, en révélant la permanence d’une gouvernementalité par l’exclusion.

      https://www.puf.com/politique-de-lexclusion

      #livre

  • Berliner Antifa-Aktivist bekennt sich
    https://www.nd-aktuell.de/artikel/1179596.tag-der-ehre-berliner-antifa-aktivist-bekennt-sich.html

    La Hongrie ne fait plus partie des pays touristiques sûrs. La justice y pratique des méthodes japonaises où une arrestation mène systématiquement à une condamnation. Ce qui arrive là aux antifascistes concerne chaque personne qui tombe entre les mains de cet état. Un conflit autour de la facture dans un restaurant, un excès de vitesse, en cas d’arrestation c’est fini. L’arbitraire règne. Tu avoueras tout pour sortier du cachot d’instruction. Le pays se montre peu acceuillant.

    29.1.2024 Matthias Monroy - Gericht in Budapest verurteilt Tobias E. wegen Mitgliedschaft in krimineller Vereinigung

    Der aus Berlin stammende Antifa-Aktivist Tobias E. hat sich vor dem Stadtgericht in Budapest schuldig bekannt, Mitglied einer kriminellen Vereinigung zu sein. Anschließend wurde der 29-Jährige in einem Vorverfahren zu drei Jahren Haft verurteilt. Hintergrund ist ein Verfahren wegen einer Serie gewaltsamer Angriffe am Rande des »Tages der Ehre« am vergangenen 10. und 11. Februar in der ungarischen Hauptstadt. Bei dem europaweiten Neonazi-Aufmarsch waren neun tatsächliche oder vermeintliche Rechtsextremisten verletzt worden, sechs davon schwer. Die Angreifer sollen mit Teleskopschlagstöcken, Hämmern und Bleihandschuhen bewaffnet gewesen sein, von einem der Vorfälle gibt es eine Videoaufzeichnung.

    Es war der erste Verhandlungstag eines Prozesses, in dem drei Aktivisten aus Deutschland und Italien angeklagt sind. Gegen Tobias E. ließ die Staatsanwaltschaft eine Anklage wegen Körperverletzung fallen, übrig blieb deshalb nur der Vereinigungsparagraf. »Ich bitte das Gericht und die Staatsanwaltschaft um Entschuldigung. Ich erkenne meine Schuld an und verzichte auf die mir im Verfahren zustehenden Rechte«, zitierte ihn die ungarische Zeitung »Blikk«. Der Angeklagte sitzt seit seiner Festnahme vor einem Jahr in Untersuchungshaft und wurde in Hand- und Fussfesseln in den Saal geführt.

    Die Staatsanwaltschaft hatte für Tobias E. dreieinhalb Jahre Haft beantragt und könnte nun in Berufung gehen. Anschließend kann die Verteidigung beantragen, dass er seine Gefängnisstrafe in Deutschland absitzen darf. Bliebe er in Ungarn inhaftiert, wäre nach zwei Dritteln der Strafe eine Umwandlung in eine Bewährung möglich.

    Die Staatsanwaltschaft warf Tobias E. vor, für die Taten in Budapest eine »mit der linksextremen Ideologie sympathisierende Organisation« gegründet zu haben. Hauptangeklagte in diesem Verfahren ist die Italienerin Ilaria S.; ihr wird außerdem versuchte lebensgefährliche Körperverletzung vorgeworfen – dafür verlangt die Staatsanwaltschaft elf Jahre Haft. »Ich habe diese Verbrechen nicht begangen, ich akzeptiere nicht, was sie mir vorwerfen«, sagte sie laut einer ungarischen Zeitung am Montag vor Gericht.

    Wegen der menschenunwürdigen Haftbedingungen von Ilaria S. hat sich in Italien eine große Solidaritätskampagne gebildet. Eine Petition zu ihrer Freilassung und Überstellung nach Italien hat die anvisierten 50 000 Unterschriften erreicht und ist nunmehr geschlossen. Zu dem Prozess am Montag war auch der Vater der in Italien bekannten Aktivistin angereist, auch verschiedene italienische Medien waren anwesend.

    In dem Verfahren ist außerdem die aus Deutschland stammende Anna M. angeklagt. Anders als die anderen beiden Aktivisten erhielt sie vor einem Jahr Haftverschonung und Meldeauflagen an ihrem Wohnort; zum Prozess am Montag war sie angereist. Auch gegen sie steht nur noch der Vorwurf der Mitgliedschaft in einer kriminellen Vereinigung, sie soll deshalb ebenfalls dreieinhalb Jahre ins Gefängnis.

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    Zusammen mit Tobias E. soll Anna M. laut der Anklage einer deutschen Gruppe angehören, die es sich zur Aufgabe gemacht habe, militant gegen Rechtsextremisten vorzugehen. Vier Personen waren in diesem Zusammenhang Ende Mai im sogenannten Antifa-Ost-Verfahren vom Landgericht in Dresden wegen mehrerer Angriffe zu mehrjährigen Gefängnisstrafen verurteilt worden. Das deutsche Urteil ist noch nicht rechtskräftig.

    Zusammen mit dem Landeskriminalamt in Sachsen fahndet die ungarische Staatsanwaltschaft nach 14 weiteren mutmaßlichen Tätern, darunter zehn Deutsche. Mindestens vier sollen sich auch an den Taten beim »Tag der Ehre« in Budapest beteiligt haben. Nach einem europäischen Haftbefehl aus Ungarn hat die Berliner Polizei im Dezember eine weitere beschuldigte Person in Berlin festgenommen, die von ihrem Unterstützerkreis Maja T. genannt wird und in Dresden in der Untersuchungshaft auf den Ausgang ihres Auslieferungsverfahrens wartet. In Italien war zuvor Gabriele M. festgenommen und in Hausarrest gesteckt worden.

    Vergangene Woche hat eine Initiative von Angehörigen mehrerer Gesuchter einen »Elternbrief« veröffentlicht und dazu aufgerufen, den zehn aus Ungarn gesuchten Deutschen ein faires Verfahren in Deutschland zu ermöglichen und diese nach einer Festnahme nicht auszuliefern. In drohe ansonsten ein »im Vergleich zu Deutschland unangemessen hohes Strafmaß«.

    In die gleiche Richtung argumentieren mehrere Verteidiger rund um den »Antifa-Ost-Komplex« in einer Erklärung. »Das ungarische Justizsystem entspricht nicht rechtlichen Standards«, heißt es darin unter Verweis auf Urteile mehrerer Oberlandesgerichte. Mit den Haftbedingungen sollten die Gesuchten mürbe gemacht und bewogen werden, sich in Deutschland zu stellen, kritisieren die Anwälte.

    In diese Lücke stößt nun das Bundesamt für Verfassungsschutz (BfV), das nach Aussagen mehrerer Angehöriger von Gesuchten in mehreren Bundesländern Ansprachen durchgeführt hat. Jedoch blieb der Geheimdienst erfolglos, keiner der Angesprochen war zur Mitarbeit bereit. Nun ist auch klar was das Amt vorhat: Laut der Anwaltsgruppe hat sich das BfV der Generalstaatsanwaltschaft in Dresden als »Vermittlung« für einen Deal angeboten. Die Gesuchten sollten sich stellen, dafür soll die Nichtauslieferung zugesichert werden. Ob sich die Justiz auf eine solche Absprache einlässt, ist noch unklar.

    Auch die Soligruppen von Tobias E. und Maja T. vermuten, dass das heutige Schuldbekenntnis auf die menschenunwürdigen Bedingungen im Budapester Gefängnis zurückgeht. »Dass Tobias den Deal des Gerichts angenommen hat, beweist, wie das ungarische System funktioniert: Beschuldigte werden durch die unsäglichen U-Haftbedingungen zu Geständnissen gezwungen«, heißt es in einer Stellungnahme. Ein fairer Prozess könne deshalb gar nicht erst stattfinden. »Deswegen müssen wir die Auslieferung von Maja und Gabriele unbedingt verhindern und Tobias und Ilaria sobald wie möglich in ihre Länder zurückholen.«

    #Europe #Hongrie #justice #antifascisme

  • Migranti, patto Italia-Albania : sì dalla Corte costituzionale albanese all’accordo

    Cinque giudici supremi su nove non si oppongono all’intesa Roma-Tirana sui centri temporanei di accoglienza. Ora l’ultimo passaggio parlamentare in Albania, poi l’implementazione dell’accordo

    La Corte costituzionale albanese vota a favore dell’accordo per la realizzazione dei centri di accoglienza dei migranti siglato dai governi italiano e albanese. A sostenerlo è una nota della Consulta che conferma così le anticipazioni del Corriere.

    La decisione

    Secondo le fonti 5 giudici – su 9 – della Consulta locale hanno stabilito che l’intesa siglata a Roma dai premier Giorgia Meloni ed Edi Rama risulta «conforme» alla costituzione albanese. Dopo questo pronunciamento ora è atteso un veloce passaggio parlamentare per approvare l’accordo.

    Le motivazioni

    «La Corte ha valutato che il “protocollo sulla migrazione” non stabilisce confini territoriali e neppure altera l’integrità territoriale della Repubblica d’Albania, pertanto non costituisce un accordo relativo al territorio dal punto di vista fisico», si legge nella nota ufficiale. E ancora: «La Corte ha valutato che nelle due zone in cui agisce il protocollo, si applica il diritto albanese, oltre al diritto italiano» e che «la Corte ha constatato che per i diritti e le libertà umane opera una giurisdizione duplice, il che significa che la giurisdizione italiana nelle due zone in questione non esclude la giurisdizione albanese». L’accordo, poi, «non crea nuovi diritti e libertà costituzionali e non impone restrizioni aggiuntive ai diritti e alle libertà umane esistenti, al di là di quanto previsto dall’ordinamento giuridico albanese».

    Il patto

    Lo scorso novembre Meloni e Rama hanno siglato l’intesa che prevede la realizzazione in Albania di due centri per l’identificazione e l’accoglienza dei migranti salvati nel Mediterraneo. La prima struttura, quella di «registrazione», secondo l’accordo dovrebbe sorgere al porto di Shëngjin, nel nord del Paese, mentre nell’entroterra dovrebbe essere costruito un centro di permanenza a Gjadër. Tirana si è offerta di accogliere fino a 3 mila migranti in attesa di sapere se possono mettere piede nel territorio italiano o devono essere rimpatriati, il tutto a spese di Roma. Il protocollo ha una validità di cinque anni, prorogabili automaticamente di altri cinque in assenza di rilievi da parte italiana o albanese.

    Il ricorso

    L’accordo era stato però fortemente osteggiato dall’opposizione albanese che, dopo aver raccolto le firme necessarie, aveva portato il patto Roma-Tirana alla Corte costituzionale. Il 13 dicembre scorso i giudici albanesi hanno ammesso il ricorso e lo scorso 18 gennaio hanno iniziato a esaminarlo. Due i punti da chiarire, in particolare: il presunto mancato rispetto della procedura di negoziazione e firma e la possibile violazione dei diritti umani.

    Il voto

    Negli ultimi giorni la Consulta ha poi ricevuto ulteriori documenti dalla parte ricorrente – oltre alle «memorie» difensive del governo – e dopo diverse ore di confronto, anche acceso, 5 giudici non muovono obiezioni all’accordo, gli altri 4 sì.

    https://www.corriere.it/politica/24_gennaio_29/migranti-patto-italia-albania-si-corte-costituzionale-albanese-all-accordo-

    #Italie #asile #migrations #réfugiés #Albanie #accord #externalisation #centres #cour_constitutionnelle #justice #accord

    –-

    ajouté à la métaliste sur l’#accord entre #Italie et #Albanie pour la construction de #centres d’accueil (sic) et identification des migrants/#réfugiés sur le territoire albanais...
    https://seenthis.net/messages/1043873

    • Accordo Meloni-Rama: via libera della Corte costituzionale albanese

      Con cinque voti a favore e quattro contrari, la Corte costituzionale albanese ha convalidato il protocollo stipulato tra il premier Rama e la sua omologa Meloni sulla creazione di centri di accoglienza per migranti sul suolo albanese

      Ieri pomeriggio (29 gennaio) la Corte costituzionale albanese si è pronunciata sulla conformità del protocollo bilaterale stipulato il 6 novembre scorso sul trasferimento dei migranti nei centri situati a Gjadër e presso il Porto di Shëngjin.

      Il protocollo “è conforme alla Costituzione” cita il comunicato stampa della Corte, dando così il via libera al processo di ratifica da parte del Parlamento.

      Nella sua argomentazione, la Corte sostiene che il protocollo non incide sull’integrità territoriale dell’Albania sotto l’aspetto fisico. Nelle due aree previste per l’accoglienza dei migranti vige la giurisdizione albanese, oltre a quella italiana. Rimangono inoltre in vigore le norme del diritto internazionale in materia di migrazione e diritto di asilo, le cui convenzioni sono già ratificate da entrambi i paesi.

      La firma del protocollo tra i due premier si basa sul trattato di amicizia stipulato tra i due paesi nel 1995, il quale secondo la Corte funge da accordo quadro che permette al governo albanese di non necessitare della previa concessione di un mandato plenipotenziario di negoziazione da parte del Presidente della Repubblica.

      Il ricorso per incostituzionalità è stato presentato il 6 dicembre scorso da 30 deputati dell’opposizione provenienti dalle file del Partito Democratico e del Partito della Libertà.

      A seguito del pronunciamento della Corte, immediata è stata la reazione del promotore del ricorso, l’onorevole Gazment Bardhi sui social, il quale ha dichiarato : “Negare la trasparenza e soprattutto eludere l’opportunità di un parere consultivo da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono una chiara indicazione che la Corte costituzionale ha perso fin dall’inizio l’opportunità di fare giustizia su questo caso”.

      Non sono mancate neanche le reazioni da parte delle organizzazioni della società civile. “La Corte costituzionale ha ignorato il fatto che sull’accordo non sono stati consultati i cittadini, soprattutto gli abitanti di quelle aree, e non sono stati nemmeno interpellati i gruppi di interesse”, recita il comunicato di Qëndresa Qytetare (Resistenza civica), associazione civica attiva nella promozione dei diritti dei cittadini.

      In segno di protesta, un gruppo di giovani ha deposto simbolicamente una corona di fiori all’ingresso della Corte costituzionale, per simboleggiare il “decesso” della giustizia.

      Nelle prossime settimane verrà pubblicata la decisione della Corte sulla Gazzetta Ufficiale, dando così il via al processo di ratifica da parte del Parlamento. Il Partito Socialista al governo detiene attualmente la maggioranza di 74 deputati sui 140 complessivi.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Accordo-Meloni-Rama-via-libera-della-Corte-costituzionale-albanese-2

    • Albanie : la Cour constitutionnelle approuve l’accord avec l’Italie sur l’externalisation des demandes d’asile

      Bloqué par une procédure judiciaire, l’accord migratoire entre Rome et Tirana a finalement obtenu le feu vert de la Cour constitutionnelle albanaise. D’ici quelques mois, l’Albanie accueillera donc deux centres d’accueil pour les demandeurs d’asile secourus dans les eaux italiennes, malgré les nombreuses critiques visant le projet.

      Feu vert pour le projet italien. Lundi 29 janvier, la Cour constitutionnelle albanaise a approuvé la construction dans le pays de deux centres d’accueil pour les migrants secourus dans les eaux italiennes. L’accord entre Tirana et Rome « ne nuit pas à l’intégrité territoriale de l’Albanie », a tranché la Cour, faisant fi des nombreuses critiques d’ONG et de l’opposition albanaise qui l’avait saisie estimant que l’accord « violait la Constitution albanaise ».

      « Nous ne vendons pas un morceau de terre de l’Albanie », s’est défendu dans une interview à l’AFP le ministre albanais de l’Intérieur, Taulant Balla. « Nous offrons ces terres à l’Italie comme nous le faisons habituellement lorsque nous établissons une ambassade ».

      Cet accord ne nuit pas non plus, selon le communiqué de la Cour, « aux droits humains et aux libertés », et est « conforme à la Constitution albanaise ». Il doit maintenant être ratifié par le Parlement, ce qui devrait être une formalité puisque le Premier ministre et signataire de l’accord, le socialiste Edi Rama, y dispose d’une majorité.

      https://twitter.com/ecre/status/1752248412777353397

      Signé en novembre entre les deux pays, le texte prévoit l’ouverture d’un centre dans le port de Shëngjin (nord), servant à l’enregistrement des demandeurs d’asile. La structure sera construite sur un périmètre d’environ 240 mètres, et sera entouré d’une clôture de 4 mètres de haut, rehaussée de barbelés. Le centre de Gjader, lui, hébergera les migrants dans l’attente d’une réponse à leur demande d’asile.

      Ces deux centres qui seront gérés par l’Italie sur le territoire d’un pays qui ne fait pas partie de l’Union européenne (UE) - mais y aspire - pourront accueillir jusqu’à 3 000 migrants arrivés en Italie par voie maritime.
      Entre 650 et 750 millions d’euros

      Avec ce traité, les migrants récupérés en mer ne débarqueront pas en Italie, et ne fouleront même pas son sol. Ils seront directement emmenés vers les ports albanais. Rome contourne ainsi la responsabilité légale d’accueil qui lui incombe lorsqu’un demandeur d’asile est secouru sur son territoire, maritime en l’occurrence.

      En Italie, l’accord, avant même son éventuelle entrée en vigueur, a suscité de très nombreuses critiques. « Publicité électorale » en vue des élections européennes de juin, « inutile et coûteux », « inhumain et illégitime » : les députés d’opposition italiens n’ont pas manqué de dénoncer durement cet accord au cours du débat parlementaire.

      Ils en ont également critiqué le coût, estimé entre 650 et 750 millions d’euros sur cinq ans. Les dépenses pour la construction de ces deux centres et des infrastructures nécessaires, pour leur fonctionnement, pour la sécurité ainsi que pour les soins médicaux des demandeurs d’asile seront en effet couvertes à 100% par la partie italienne, selon les autorités albanaises.

      Un coût prohibitif qui s’ajoutent aux nombreuses critiques d’ONG et d’institutions contre le projet. L’International Rescue Committee (IRC) a fustigé un accord « déshumanisant », quand Amnesty International dénonçait une « proposition irréalisable, nuisible et illégale ».

      Le Conseil de l’Europe, lui, avait considéré en novembre que ce « régime d’asile extraterritorial se caractérise par de nombreuses ambiguïtés légales ». Il risque « d’aboutir à un traitement différent entre ceux dont les demandes d’asile seront examinées en Albanie et ceux pour qui cela se déroulera en Italie », avait estimé la commissaire aux droits de l’Homme du Conseil de l’Europe, Dunja Mijatovic dans un communiqué.

      Cela n’a pas empêché les députés italiens d’adopter le projet le 24 janvier, par 155 voix pour et 115 contre, avec deux abstentions. Le Sénat, où la coalition ultraconservatrice au pouvoir de Giorgia Meloni dispose d’une large majorité parlementaire, devrait aussi l’approuver sans difficulté.
      Faciliter les expulsions

      Le nombre de personnes tentant de rejoindre l’Europe via l’Italie a beaucoup augmenté l’an dernier. Selon le ministère italien de l’Intérieur, 157 652 personnes ont débarqué sur les côtes italiennes en 2023, contre 105 131 en 2022.

      Depuis quelques mois, Rome multiplie donc les mesures pour dissuader les exilés de débarquer sur son sol. Le 28 novembre, la Chambre des députés a voté à la majorité le décret Cutro 2, qui fixe notamment les conditions d’hébergement des exilés sur son sol. Avec la nouvelle législation par exemple, toute personne reconnue coupable, même avec une peine non définitive, de blessures corporelles sur des individus mineurs ou infirmes ne pourra entrer en Italie.

      Aussi, le délai de recours contre l’expulsion d’un étranger titulaire d’un titre de séjour de longue durée dans l’Union européenne est réduit de 30 à 15 jours.

      Le 24 septembre, un centre d’hébergement flambant neuf a par ailleurs été inauguré à Pozzallo en Sicile. Il accueillera uniquement les exilés provenant de « pays sûrs », qui ont donc très peu d’espoir d’obtenir une protection en Italie. Objectif affiché de cette nouvelle structure ? Accélérer le traitement des demandes d’asile, et donc les expulsions.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/54855/albanie--la-cour-constitutionnelle-approuve-laccord-avec-litalie-sur-l

    • La Corte costituzionale albanese approva il Protocollo Meloni-Rama con un voto politico, ma contro la legislazione dell’Unione Europea

      1. Le notizie di agenzia diffuse in Italia non hanno fornito le motivazioni del voto della Corte Costituzionale albanese che, a stretta maggioranza (5 contro 4), ha dichiarato che il Protocollo Italia-Albania sulla esternalizzazione delle procedure di identificazione e asilo non viola la Costituzione albanese. Una decisione che non chiude affatto la questione della conrarietà del Protocollo con la legislazione dell’Unione Europea e con principi altrettanto rilevanti e di immediata applicazione sanciti dalla Costituzione italiana. Rimane poi una consistente parte dei parlamentari albanesi, oggi all’opposizione, che continua a ritenere che non sia stata rispettata la procedura per la negoziazione e la stipula dell’accordo, in quanto il suo oggetto rientrerebbe nella categoria di accordi che necessitano dell’autorizzazione preventiva del Presidente della Repubblica ai sensi dell’articolo 121, co. 1, lett. a) e b) della Costituzione, in quanto riguarda questioni di territorialità e diritti fondamentali. Se la decisione della Corte Costituzionale albanese sembra escludere la necessità della autorizzazione preventiva del Presidente della Repubblica, rimane aperta, anche in Albania la questione della possibile lesione dei diritti fondamentali della persona nei due nuovi centri che l’Italia dovrebbe aprire e gestire sotto giurisdizione italiana in territorio albanese.

      La ratifica del Protocollo da parte della Camera dei deputati in Italia ha lasciato aperte questioni che neppure la Corte costituzionale albanese ha risolto. Il riconoscimento dell’Albania non solo come “paese terzo sicuro”, ma come territorio nel quale si dovrebbe esercitare la “giurisdizione italiana”, non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea, pratiche illegali di privazione dela libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      La Direttiva “rimpatri” 2008/115/CE si applica esclusivamente ai “cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nel territorio di uno Stato membro è irregolare” (art.2). salva la possibilità di deroga nei casi di respingimento in frontiera, nel rispetto del principio di non refoulement (art.33 Conv. Ginevra 1951), delle procedure e delle garanzie fissate dall’art. 13 del Codice frontiere Schengen e in ogni caso dei divieti di respingimento collettivo richiamati anche dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

      Secondo il vigente Regolamento Dublino n.604/2013, “ Ogni Stato membro mantiene la possibilità di inviare un richiedente in un paese terzo sicuro, nel rispetto delle norme e delle garanzie previste dalla direttiva 2013/32/UE”. La norma fa però riferimento a persone che comunque abbiano già uno status di richiedente asilo. Al riguardo la direttiva procedure appena citata individua chiaramente come ambito di applicazione il territorio degli Stati membri. In particolare, l’articolo 3 della direttiva 2013/32/UE (procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale) prevede che la direttiva si applichi “a tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito degli Stati membri” e che invece non si applichi “alle domande di asilo diplomatico o territoriale presentate presso le rappresentanze degli Stati membri”. Analogamente, l’articolo 3 della direttiva 2013/33/UE (norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale) prevede che la direttiva si applichi a “tutti i cittadini di paesi terzi e agli apolidi che manifestano la volontà di chiedere la protezione internazionale nel territorio di uno Stato membro, comprese la frontiera, le acque territoriali, o le zone di transito, purché siano autorizzati a soggiornare in tale territorio inqualità di richiedenti, nonché ai familiari, se inclusi nella domanda di protezione internazionale ai sensi del diritto nazionale” e che la direttiva non si applica invece “alle domande di asilo diplomatico o territoriale presentate presso le rappresentanze degli Stati membri”.

      Non si può neppure ritenere che il Protocollo firmato da Giorgia Meloni e da Edi Rama si collochi al di fuori del diritto dell’Unione europea, come pure era stato rilevato da qualche esponente della Commissione a Bruxelles, perchè se si arrivasse a questa conclusione la discriminazione tra le persone soccorse in acque internazionali e sbarcate in Albania, rispetto a quelle salvate nelle stesse acque internazionali, sempre da navi militari italiane, risulterebbe incompatibile con il principio di non discriminazione, affermato nella Costituzione italiana (art.3), nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e nella Convenzione europea sui diritti dell’Uomo. Come rileva la stessa Commissione europea, peraltro, al Protocollo “si applicano le leggi italiane, che comunque devono rispettare quelle comunitarie”.

      In ogni caso, non si può valutare il Protocollo Italia-Albania, e il relativo Disegno di legge di ratifica in Italia, come se il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo approvato con una intesa politica dal Conisglio dell’Unione Europea del dicembre dello scorso anno, fosse già un atto legislativo. Si deve dunque considerare ancora come termine di paragone la vigente legislazione europea, comprensiva anche della Direttiva rimpatri 2008/115/CE e del Regolamento Dublino n. 604/2013, che non sono stati ancora sostituiti, modificati o rifusi secondo le norme più restrittive che si vorrebbero introdurre con il nuovo Patto sulle migrazioni e l’asilo, concordato tra rappresentanti del Consiglio, e del Parlamento pochi mesi fa, ma ancora privo di qualsiasi valenza normativa.

      2. Come al solito le notizie sui fatti reali, dunque sulla reale portata della sentenza della Corte costituzionale albanese sono assai rare ma, per quanto accessibili, possiamo riprendere le poche fonti di informazione che hanno riportato i contenuti della decisione dei giudici albanesi, mentre in Italia si è rimasti al livello della propaganda politica a favore, o contro i partiti di governo. Partiti che nel parlamento italiano hanno una tale maggioranza da fare approvare tutti i provvedimenti che varano, anche nelle forme semplificate dei decreti legge, che di fatto espropriano le assemblee elettive, grazie anche al ricorso sistematico al voto di fiducia, di quel potere di controllo sull’esecutivo che rimane l’ultima traccia di un pluralismo democratico che oggi in Italia, come del resto in altri paesi europei, e nella stessa Albania, non esiste più. E la vicenda del Protocollo Italia-Albania lo conferma in pieno, sempre che poi dai progetti di legge e dalle campagne elettorali si passi ai fatti. E dunque alla realizzazione delle due grandi strutture di accoglienza/detenzione che il Protocollo prevede siano costruite in Albania e gestite “sotto la piena giurisdizione italiana”, anche se ormai è chiaro che sarà necessario ricorrere al concorso delle forze di polizia albanesi, quantomeno per i trasferimenti in territorio albanese e per le procedure di rimpatrio forzato dagli aeroporti di quel paese.

      Secondo quanto riferito dal sito “Politiko”, la Corte costituzionale albanese ha ritenuto che “il diritto internazionale vincolante per la Repubblica d’Albania, relativo alle questioni relative all’immigrazione e all’asilo, è applicabile anche dalle autorità italiane a causa della ratifica degli accordi internazionali da parte della Repubblica d’Italia. In base a questa analisi, la Corte non non ha messo in dubbio l’esistenza della responsabilità dello Stato albanese per le questioni regolate dal Protocollo sulle Migrazioni, che trae origine non solo da norme costituzionali, ma anche dal diritto internazionale che regola la responsabilità degli Stati nell’ambito della sua attuazione extraterritoriale”. La Corte Costituzionale albanese ha quindi ritenuto che “in materia di diritti e libertà dell’uomo opera una doppia giurisdizione, il che significa che la giurisdizione italiana nei due ambiti in questione non esclude la giurisdizione albanese,”

      Sulla base di questa considerazione, come riferisce la stessa fonte, la Corte Costituzionale albanese è giunta alla conclusione che il Protocollo sulle migrazioni non rientra nella categoria degli accordi internazionali previsti dalla lettera b) del punto 1 dell’articolo 121 della Costituzione perché, in sostanza, non crea nuovi diritti e libertà costituzionali, né comporta ulteriori restrizioni ai diritti umani e alle libertà esistenti, oltre a quelle previste dall’ordinamento giuridico albanese. E dunque, “tenendo conto che da un lato la questione costituzionale in esame costituisce una innovazione nella giurisprudenza albanese, in particolare per la nozione di accordo internazionale sotto il profilo giurisdizionale relativo alla sovranità, e dall’altro il Protocollo sulla Migrazione non afferma in una qualsiasi delle sue disposizioni che il governo albanese è privato della giurisdizione sul territorio albanese, la Corte ha analizzato se il governo albanese disponesse dei poteri adeguati per la negoziazione e la firma del protocollo in questione. A questo proposito, “la Corte ha valutato che il Trattato di Amicizia e Cooperazione tra la Repubblica d’Albania e la Repubblica Italiana, del 1995, costituisce un accordo quadro internazionale che, ai sensi dell’articolo 180 della Costituzione, si considera ratificato ai sensi della Costituzione e costituisce base sufficiente per il Protocollo sulla migrazione dovrà essere negoziato con l’autorizzazione del Primo Ministro e poteri conferiti dal Ministro degli Affari Esteri, nonché firmato dallo stesso Primo Ministro. Per questi motivi, la Corte Costituzionale della Repubblica d’Albania, in base agli articoli 131, comma 1, lettera “b” e 134, punto 1, lettera “c”, della Costituzione, nonché degli articoli 52 e 52/a , lettera “a”, della legge n. 8577 del 10.02.2000 “Sull’organizzazione e il funzionamento della Corte Costituzionale della Repubblica d’Albania”, decide a maggioranza che il Protocollo tra il Consiglio dei Ministri della Repubblica d’Albania e il Governo della Repubblica italiana, “Sul rafforzamento della cooperazione nel campo dell’immigrazione”, è conforme alla Costituzione consentendo la sua ratifica da parte dell’Assemblea. Secondo quanto riportato dalla stessa fonte, “La decisione finale sarà resa motivata entro i termini di legge previsti dalla legge n. 8577 del 10.02.2000 “Sull’organizzazione e il funzionamento della Corte Costituzionale della Repubblica d’Albania”, come modificato dal Regolamento sulle procedure giudiziarie della Corte Costituzionale. In base all’articolo 52/a, comma 2, della legge organica, la decisione finale è comunicata al Presidente, all’Assemblea e al Consiglio dei ministri ed è inviata per la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. La decisione definitiva entra in vigore al momento della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e con l’entrata in vigore decade automaticamente la misura sospensiva”.

      3. Fatta la dovuta riserva sulla mancanza di una decisione finale e di un iter parlamentare che in Albania, a differenza di quanto successo in Italia, non si presenta affatto agevole, anche alla luce della strettissima maggioranza con cui la Corte costituzionale albanese ha dato via libera all’approvazione della legge di ratifica del Protocollo Meloni-Rama, le motivazioni della decisione dei giudici albanesi fin qui trapelate sembrerebbero corrispondere alle integrazioni apportate in Italia, in sede di ratifica del Protocollo, con una aggiunta importante sulla doppia giurisdizione, italiana e albanese, alla quale sarebbero sottoposti i due centri di accoglienza/detenzione, ammesso che si riesca ad aprirli, a Shengjin porto nel quale dovrebbe effettuarsi la identificazione e la selezione delle persone migranti e a Gijader struttura ubicata nella regione più interna del paese. Dove si dovrebbe realizzare la coesistenza, all’interno dell’area concessa all’Italia dalle autorità albanesi, di una parte destinata ad Hotspot, per le procedure accelerate in frontiera, ed una parte destinata a funzionare come centro per i rimpatri (CPR), alle quali dovrebbe aggiungersi una terza sezione destinata a carcere vero e proprio per quei migranti che si dovessero rendere responsabili di reati all’interno delle altre strutture. Insomma persino un carcere di alta sicurezza, il tutto formalmente sotto giurisdizione italiana, ma apprendiamo adesso dalla legge di ratifica in Italia, e dalla Corre costituzionale albanese, anche sotto la legislazione albanese, non sappiamo con quale compatibilità con il dettato della Costituzione italiana.

      La previsione che i centri in Albania, e dunque le persone che ci saranno deportate, potranno essere soggette alla legislazione, e dunque alla giurisdizione “europea, italiana ed albanese” costituisce soltanto un sotterfugio per aggirare gli ostacoli che venivano da parte albanese per la ratifica del Protocollo, di fronte alla previsione di una “piena giurisdizione italiana” da esercitare in territorio albanese, come hanno affermato da mesi i politici italiani, ma la soluzione inventata per quadrare il cerchio solleva problemi di compatibilità con il diritto internazionale dei rifugiati, con le normative europee vincolanti (alle quali l’Albania non è tenuta) in materia di procedure di protezione internazionale e di rimpatri forzati, e con le norme della Costituzione italiana in materia di uguaglianza (art.3), di asilo (art.10), di libertà personale (art.13), di diritti di difesa (art.24) e di ordine gerarchico delle fonti normative (art.117). Di certo la presenza di persone private della libertà personale all’interno delle strutture che si dovrebbero aprire in base al Protocollo Italia-Albania rende impossibile qualunque assimilazione al regine territoriale delle ambasciate italiane all’estero. Come rimane una mera dichiarazione di principio che il trattamento e la condizione giuridica delle persone sbarcate in Albania da navi militari italiane possa risultare del tutto corrispondente alla condizione giuridica delle persone migranti sbarcate in Italia e accolte o trattenute in centri italiani, siano Hotspot o Centri per il rimpatrio (CPR). Nè sembra che siano state richiamate con la dovuta evidenza, anche per le persone sbarcate in Albania, le norme che in Italia permettono il riconoscimento di una delle diverse forme di protezione speciale, soprattutto nei casi in cui ricorrano divieti di espulsione o di respingimento, anche con riferimento agli obblighi costituzionali dello Stato italiano.

      Gravi criticità rimangono evidenti nella individuazione dei soggetti cd. “vulnerabili”, che nella maggior parte dei casi dovrebbe avvenire nel tragitto dal luogo dei soccorsi in acque internazionali al porto di sbarco in Albania. Come si ricava dagli atti parlamentari, nella seduta della Camera dei deputati del 15 gennaio 2024, il rappresentante del Governo ha affermato che lo screening dei soggetti vulnerabili (considerando tali, “secondo la vigente normativa, i minori, minori non accompagnati, disabili, anziani, donne, genitori singoli con figli minori, vittime della tratta, persone affette da gravi malattie o disturbi mentali, persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, vittime di mutilazioni genitali”) dovrebbe essere effettuato “nelle fasi immediatamente successive al loro soccorso o recupero, per mezzo di assetti navali a disposizione delle autorità statali, in modo da escludere che coloro che presentino vulnerabilità siano condotti in Albania”; il rappresentante del Governo ha anche affermato che “l’obiettivo dello screening preventivo da esperire a bordo di strutture idonee in mare, ove il migrante possa trovare un luogo sicuro in attesa della prossima destinazione, sarebbe dunque quello di alleviare l’impatto delle attività sui soggetti fragili riducendo il numero di stranieri da trasportare in Italia in un momento successivo, in relazione alle diverse posizioni accertate”. Il rappresentante del Governo ha rilevato infine che “resta ferma la possibilità di effettuare eventuali, ulteriori valutazioni di condizioni di vulnerabilità successivamente allo sbarco in Albania, presso le strutture adibite all’identificazione e alla primissima accoglienza. Al riguardo, osserva che non di rado la condizione di vulnerabilità può non essere immediatamente rilevabile mediante lo screening preventivo a bordo (ad esempio, coloro che si dichiarano vittime di tratta di esseri umani), richiedendo approfondimenti in una fase successiva” (Camera dei deputati, Commissioni I e III, seduta del 15 gennaio 2024)

      Si nota come nelle prime notizie diffuse dal governo Meloni circa navi di soccorso che trasferissero migranti salvati, o “recuperati” in acque internazionali si facesse ricferimento esclusivamente a navi militari italiane, e nel testo del Protocollo a “mezzi delle competenti autorità italiane, mentre con il disegno di legge di ratifica si è passati alla formula “assetti navali a disposizione delle autorità statali,“,con la previsione di una ingente somma di danaro da destinare evidentememte al noleggio di navi civili, per il trasporto dei naufraghi, perchè di naufraghi si tratta, verso l’Albania (e forse anche dall’Albania verso l’Italia). Rimangono assolutamente oscure, ed a alto rischio di violazione di diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita, le modalità di trasferimento e/o trasbordo (in acque internazionali ?) degli stessi naufraghi dalla prima nave soccorritrice, che presumibilmente sarà una nave militare italiana, verso una seconda nave (civile ?) che dovrebbe poi trasferirli e sbarcarli in un porto albanese. Si potrebbe anche configurare una ennesima forma anomala (senza convalida giurisdizionale) di trattenimento amministrativo a bordo dei traghetti, come si è già verificato durante l’emergenza da Covid 19 a bordo delle cd. “navi quarantena”.

      Non sembra comunque ammissibile operare una qualsiasi sorta di pre-idntificazione in assenza di mediatori, interpreti e di una adeguata informazione, già a bordo delle navi militari o civili che siano, che hanno operato i soccorsi in acque internazionali, e ritornare dunque alla prassi degli “sbarchi selettivi”, distinguendo, e separando, già su queste stesse navi soggetti vulnerabili e non vulnerabili, operando di fatto quella stessa distinzione tra i naufraghi già ritenuta illegittima dal Tribunale di Catania lo scorso anno.

      In ogni caso non sembra possibile escludere che, già a bordo degli “assetti navali a disposizione delle autorità statali”, le persone soccorse in acque internazionali godano dei diritti fondamentali riconosciuti dalle Convenzioni internazionali e dall’ordinamento italiano.. Quanti saranno soccorsi in acque internazionali e si trovano a bordo di ” assetti navali a disposizione delle autorità statali”, non possano essere sbarcati in Albania, dove veranno sottoposte anche alla legislazione albanese, ed ai poteri concorrenti della polizia albanese, senza una preventiva convalida giurisdizionale, e dunque sulla base della mera discrezionalità di polizia, subendo nei fatti un respingimento collettivo, senza alcuna possibilità di ricorso. Come se le persone soccorse in mare, dunque naufraghi, fossero riducibili alla condizione di oggetto e non più di soggetto di diritti, forse non “carichi residuali”, ma pur sempre “carichi” da sbarcare in un porto straniero, una volta esclusa, in modo che non potrà che risultare approssimativo, la loro vulnerabilità. Per non parlare dei trattamenti inumani o degradanti ai quali gli stessi naufraghi potrebbero essere sottoposti durante i lunghi trasferimenti, fino a quando rimarranno su navi militari evidentemente prive di adeguati spazi ricettivi, dai luoghi degli eventi di soccorso al porto albanese.

      4. Con il voto della Camera in Italia, e adesso con questa decisione della Corte costituzionale albanese, si è completamente disattesa la dichiarazione dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, che aveva espresso “preoccupazione” per l’accordo. Secondo Turk, “Questi trasferimenti in Albania per adempiere alle procedure di asilo e di rimpatrio evitano importanti questioni relative ai diritti umani, in particolare la libertà dalla detenzione arbitraria e la necessità di garantire adeguate procedure di asilo, compresi lo screening e l’identificazione”.

      Non si vede soprattutto come le “procedure accelerate in frontiera” pure previste da Direttive europee e dalla legislazione italiana, possaono essere applicate sulla base di una finzione, come se la frontiera o il territorio prossimo alla frontiera (italiana) potesse delocalizzarsi fino all’esterno dell’Unione europea, in Albania. E dunque come se il diritto dell’Unione Europea fosse applicabile su persone che si trovano all’esterno degli Stati membri, Ed è proprio la recentissima decisione della Corte costituzionale albanese, che afferma il principio della doppia giurisdizione, a svelare i diversi profili di contrasto tra le prevision delle Direttive europee e il Protocollo Italia-Albania, come specificato nel disegno di legge di ratifica approvato in Italia dalla Camera.

      Per avviare i lavori di costruzione dei nuovi centri di accoglienza detenzione previsti in Albania “sotto giurisdizione italiana”, ma anche albanese, occorre ancora un voto del Parlamento albanese, dopo che la Corte costituzionale albanese avrà pubblicato tutte le sue motivazioni, ed il completamento dell’iter della legge di ratifica in Italia, con il voto del Senato. Non sembra prevedibile che le maggioranze assolute di cui dispongono Giorgia Meloni ed Edi Rama nei rispettivi parlamenti nazionali possano fallire l’obiettivo della ratifica del Protocollo. Dunque si può attendere l’ennesima ventata di propaganda con l’avvio dei lavori di costruzione e di riadattamento delle strutture previste a Shengjin e a Gijader proprio quando la campagna elettorale per le europee entrerà nel vivo. Difficile atttendersi in questa fase una posizione critica da parte di esponenti delle istituzioni europee, come la Presidente della Commissione Ursula Von der Leyen, o la Commissaria europea agli Interni Ylva Johansson, che hanno in vista il supporto della Meloni per uno scambio di voti nell’indicazione delle prossime presidenze europee. Al di là della propaganda, imane però il nodo del contrasto tra le norme internazionali, i principi costituzionali italiani, e le previsioni del Protocollo Italia-Albania. Una questione democratica, che non riguarda soltanto le persone migranti che saranno sbarcate in Albania.

      Si dovranno monitorare da vicino tutte le prassi amministrative che potrebbero seguire in materia di “procedure accelerate in frontiera” per i richiedenti asilo, e di trattenimento e di allontanamento forzato, per tutti coloro che neppure saranno ammessi ad una procedura di protezione internazionale, oppure saranno denegati in tempi tanto brevi da non consentire un esercizio effettivo dei diritti di difesa. Ammesso che, oltre la propaganda elettorale, le strutture di contenimento e di deportazione in Albania (perchè di questo si tratta) dei migranti soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo siano davvero attivate. Anche se, a fronte dei tempi di trattenimento sempre più lunghi, non si raggiungeranno i numeri iperbolici promessi dalla Meloni (3000 persone al mese, 36.000 persone trattenute in un anno), ci si dovrà preparare ad una raffica di ricorsi a difesa delle singole persone soccorse in alto mare, pre-identificate su una nave italiana, deportate in Albania. Ricorsi che si dovranno sostenere ai più alti livelli della giurisdizione nazionale ed internazionale. Perchè fino a quando i governi non riusciranno a controllare del tutto la magistratura, rischio sempre più concreto anche a fronte della prevedibile valanga di destra che caratterizzerà le prossime elezioni europee, la giurisdizione, come l’informazione indipendente, rimangono gli unici argini per la difesa della democrazia e dei diritti umani in Europa, ed anche in Albania, se gli albanesi sperano davvero tanto di entrare nell’Unione Europea.

      https://www.a-dif.org/2024/01/30/la-corte-costituzionale-albanese-approva-il-protocollo-meloni-rama-con-un-vot

    • La Cassazione rinvia il “Decreto Cutro” alla Corte di Giustizia UE: in dubbio le “procedure accelerate in frontiera”, e dunque anche il Protocollo Italia-Albania

      1. Come era prevedibile dopo la requisitoria della Procura generale, la Corte di Cassazione, a sezioni unite, con una “ordinanza interlocutoria”, ha chiesto alla Corte di giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulla norma del Decreto Cutro che prevede il pagamento di una cauzione da parte dei richiedenti asilo provenienti da paesi terzi sicuri per evitare il trattenimento amministrativo durante la cd. “procedura accelerata in frontiera”. La stessa Corte di Cassazione ha chiesto che la questione pregiudiziale sia trattata con procedimento d’urgenza; sospendendo il giudizio sui ricorsi presentati dal governo, tramite l’Avvocatura dello Stato, contro la mancata convalida dei decreti di trattenimento emessi dal Questore di Ragusa, pronunciata dai giudici Apostolico e Cupri del Tribunale di Catania. Il procedimento di fronte alla Corte di Cassazione proseguirà dunque dopo la pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea, ma alcune motivazioni adottate dai giudici della Cassazione potranno avere effetti immediati sulle procedure accelerate in frontiera, in particolare sulle norme che a tale riguardo prevedono il trattenimento amministrativo generalizzato dei richiedenti asilo provenienti da “paesi terzi sicuri, qualora in assenza di documenti identificativi non venga prestata una garanzia finanziaria , e quindi anche sulla attuazione del Protocollo Italia-Albania, che punta proprio ad esternalizzare le procedure accelerate in frontiera e la detenzione amministrativa prevista nei loro confronti dal “Decreto Cutro”.

      Per quanto la Corte di Cassazione sembri accogliere quasi per intero le motivazioni della Procura generale che, a sua volta, riprendeva le principali tesi del ricorso del governo rappresentato dall’Avvocatura dello Stato, è evidente che il dubbio e quindi la questione posta dai giudici italiani alla Corte di Giustizia dell’Unione europea riguarda un punto centrale del “Decreto Cutro” (legge 50 del 2023) e dunque la legittinità dei provvedimenti adottati dalla questura di Ragusa, nella fase di prima applicazione del decreto nel centro Hotspot di Modica-Pozzallo, con il trattenimento dei richiedenti asilo provenienti da “paesi terzi sicuri”, trattenimento che non era stato convalidato dai giudici del Tribunale di Catania. Tra le altre motivazioni di fatto e di diritto per cui i decreti di trattenimento adottati dal questore di Ragusa non potevano essere convalidati, i giudici Apostolico e Cupri osservavano che l’art. 6-bis del d.lgs. n. 142 del 2015, come modificato dal cd. “Decreto Cutro”, prevede una garanzia finanziaria la cui prestazione si configura non come misura effettivamente alternativa al trattenimento, ma come un requisito imposto al richiedente asilo, proveniente da un “paese terzo sicuro”, per evitare il trattenimento amministrativo, requisito che nella pratica non si sarebbe mai potuto adempiere.

      La Corte di Cassazione, a sezioni unite, riconduce la maggior parte dei motivi di ricorso del governo alla questione pregiudiziale che solleva davanti alla Corte di Giustizia UE e dunque ” al rapporto tra la valutazione caso per caso – che si richiede sia espressa in motivazione da parte dell’autorità amministrativa per il trattenimento alla frontiera onde stabilirne la necessità, la ragionevolezza e la proporzionalità a fronte della effettiva impraticabilità di misure alternative – e la prestazione della garanzia finanziaria, che, per come disciplinata dal diritto interno, non appare sintonica con il fine perseguito”. Tutte le altre motivazioni dei ricorsi presentati dal governo sembrano dunque assorbite da questa questione, e pertanto la Corte di Cassazione non tratta, e quindi neppure smentisce, i diversi rilievi di fatto e di diritto che avevano spinto il Tribunale di Catania, con diversi provvedimenti, a negare la convalida dei decreti di trattenimento adottati dal Questore di Ragusa. Anche se poi si afferma “La necessità di sollevare questione pregiudiziale interpretativa degli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33/UE per emanare la sentenza discende altresì da una prognosi, ad una prima valutazione, di non manifesta infondatezza dei motivi del ricorso del Ministero dell’interno e del Questore della Provincia di Ragusa attinenti al profilo della “erronea affermazione della non applicabilità della procedura accelerata ai sensi dell’art. 28-bis d.lgs. n. 25/2008 e degli artt. 31, 33 e 43, direttiva 2013/32/UE”. “Prognosi ad una prima valutazione” che però non affronta specificamente i diversi problemi di legittimità dei decreti di trattenimento del questore di Ragusa non convalidati dal Tribunale di Catania. Il rinvio alla Corte di Giustizia riguarda comunque i primi casi affrontati dalla dott.ssa Apostolico, mentre la Cassazione si è riservata di decidere su altri otto successivi ricorsi del governo, sui quali potrebbe pronunciarsi dopo la decisione dei giudici di Lussemburgo, magari per giustificare comunque la legittimità degli ulteriori decreti di trattenimento adottati dal Questore di Ragusa.

      2. Dopo un richiamo a vari precedenti della Corte di Giustizia UE, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affermano come “Da tali pronunce si evince, tra l’altro, che gli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33 ostano a che un richiedente protezione internazionale venga trattenuto per il solo fatto che non può sovvenire alle proprie necessità; ostano pure a che tale trattenimento abbia luogo senza la previa adozione di una decisione motivata che disponga il trattenimento e senza che siano state esaminate la necessità e la proporzionalità di una siffatta misura. L’eccezionalità della misura del trattenimento e la soggezione della stessa ai principi di necessità e proporzionalità inducono a giustificare il trattenimento solo qualora non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive, il cui catalogo è esemplificato dall’art. 8, paragrafo 4. Le misure «alternative» al trattenimento non sono definite nel dettaglio; si tratta comunque di limitazioni dei diritti umani dei richiedenti che, se non ingerenti quanto il trattenimento, non di meno devono applicarsi, quando comunque vi siano motivi legittimi per il trattenimento, sulla base di una valutazione caso per caso di necessità, ragionevolezza e proporzionalità”. Si osserva in particolare come “Il punto fondamentale – allora – è dato dal nesso tra la previsione della garanzia come misura alternativa al trattenimento e la valutazione caso per caso che si richiede ai fini della decisione di trattenimento, da esprimere necessariamente nella motivazione del provvedimento dell’autorità amministrativa”. Sfidiamo chiunque a trovare una qualsiasi traccia di motivazione individuale su questo specifico punto nei decreti di trattenimento adottati dalla questura di Ragusa, nei casi di mancata convalida da parte della giudice Apostolico di Catania. Oggetto a suo tempo di una violenta campagna di odio e di diffamazione. Ma analoghe perplessità sulla motivazione persistono anche nei casi delle successive mancate convalide dei decreti di trattenimento adottati dalla Questura di Ragusa sulle quali è intervenuto il giudice Cupri, dello stesso Tribunale di Catania, a fronte di una parvenza di motivazione, che però le Sezioni Unite della Cassazione non hanno preso in considerazione, limitandosi al rilievo della questione pregiudiziale ed al rinvio ai giudici di Lussemburgo. Questioni complesse, che comunque impongono considerazioni differenziate sui dieci procedimenti, esaminati in tempi diversi dai giudici Apostolico e Cupri, con riferimento ai singoli casi, che non potrano certo essere eluse dopo la soluzione della questione pregiudiziale da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Intanto prendiamo atto che i dubbi sollevati dai giudici catanesi che non hanno convaldato i decreti di trattenimento amministrativo disposti dal Questore di Ragusa sono stati, almeno in parte, condivisi anche dalla Corte di Cassazione a Sezioni unite.

      La Corte, dopo avere affermato con la richiamata ” prognosi ad una prima valutazione”, di condividere i motivi di ricorso del governo e del Questore di Ragusa, afferma infatti un principio di diritto che va decisamente in favore dei provvedimenti di mancata convalida del trattenimento adottati dal Tribunale di Catania, ed a tale riguardo basta leggere le motivazioni dei giudici catanesi e confrontarle con la carente motivazione che si riscontra nei provvedimenti adottati dalla Questura di Ragusa nei confronti dei richiedenti asilo trattenuti in procedura accelerata “in frontiera” nel centro Hotspot di Modica-Pozzallo. Nelle ordinanze della dott.ssa Apostolico che non convalidava il trattenimento amministrativo si leggeva appunto come il provvedimento del questore non fosse corredato da una motivazione “idonea”, in quanto privo di una “valutazione su base individuale delle esigenze di protezione manifestate, nonché della necessità e proporzionalità della misura in relazione alla possibilità di applicare misure meno coercitive”.

      Secondo la Corte di Cassazione, “Il provvedimento che dispone il trattenimento deve essere corredato da motivazione, la quale esamini la necessità, la ragionevolezza e la proporzionalità di una siffatta misura rispetto alla specifica finalità, nonché l’effettiva impraticabilità delle misure alternative, sulla base di una valutazione caso per caso. Se così è, dovrebbe ostare all’osservanza del diritto dell’Unione una normativa nazionale che sia interpretata ed applicata nel senso che un richiedente protezione internazionale sia trattenuto per il solo fatto che non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente, e ancor più che sia trattenuto perché non abbia prestato idonea garanzia finanziaria, stabilita in maniera rigida e non adattabile alla situazione individuale; vale a dire con modalità come quelle che si evincono nella riportata legislazione nazionale” .Nei provvedimenti adottati dal Questore di Ragusa non si rinviene traccia della valutazione “caso per caso” che la Corte di cassazione sembra ritenere una condizione imprescindibile di legittimità del trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo provenienti da paesi terzi sicuri. Non si vede dunque su quali elementi la Corte di Cassazione, in sede di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, fondi la sua”prognosi, ad una prima valutazione, di non manifesta infondatezza dei motivi del ricorso del Ministero dell’interno e del Questore della Provincia di Ragusa attinenti al profilo della “erronea affermazione della non applicabilità della procedura accelerata ai sensi dell’art. 28-bis d.lgs. n. 25/2008 e degli artt. 31, 33 e 43, direttiva 2013/32/UE“. E’ probabile che i giudici della Cassazione su questo punto dirimente non si pronuncino in attesa della decisione della Corte di giustizia UE, ma comunque. al di là della loro “prognosi ad una prima valutazione” (politica?),sembrano confermare i rilievi del Tribunale di Catania che ha rilevato il carattere illegittimo dei decreti di trattenimento adottati dalla Questura di Ragusa.

      3. Quanto riportato dalle principali agenzie di informazione e contenuto nella parte finale della decisione della Cassazione, secondo cui “ Il rinvio pregiudiziale attiene a una questione sul sistema europeo comune di asilo, il quale costituisce uno degli elementi fondamentali dell’obiettivo dell’Unione europea relativo all’istituzione progressiva di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia aperto a quanti, spinti dalle circostanze, cercano legittimamente protezione nell’Unione”, contiene una affermazione ovvia che non può coprire la contraddizione interna presente nella decisione della stessa Corte di Cassazione. La Corte, a sezioni unite, afferma pregiudizialmente di propendere per le tesi del governo e del questore di Ragusa, ricorrenti rappresentati dall’avvocatura dello Stato, ma fornisce motivazioni che vanno a rafforzare le motivazioni dei giudici catanesi, che non vengono certo definite “apparenti” come nel ricorso presentato dalla stessa avvocatura dello Stato. Motivazioni che, almeno sul punto della “garanzia finanziaria”, vengono sostanzialmente riprese proprio dai giudici delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

      Non sappiamo per quanto tempo resterà sospeso il procedimento davanti alla Corte di Cassazione relativo ai ricorsi del governo e del questore di Ragusa contro i provevdimenti del Tribunale di Catania, in attesa di una decisione, che pure è stata richiesta con procedura d’urgenza, da parte della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Procedura d’urgenza che può essere adottata solo” in casi eccezionali”, e su questo punto di ammissibilità dovranno pronunciarsi entro alcune settimane i giudici europei. Di certo questa questione rimane aperta a Lussemburgo e lascia in sospeso l’operatività del cd. Decreto Cutro con riferimento alle procedure accelerate in frontiera previste per i richiedenti asilo provenienti da paesi terzi sicuri. Le conseguenze dei profili dubbi del trattenimento amministrativo generalizzato dei richiedenti asilo provenienti da “paesi terzi sicuri” , che si sono già tradotti nel blocco delle “procedure accelerate in forntiera” presso il centro Hotspot di Modica-Pozzallo, potrebbero ricadere anche sull’attuazione del Protocollo Italia-Albania, ammesso che si riesca a superare le gravi problematiche attinenti le strutture logistiche e gli adempimenti procedurali, previsti dalla legge di ratifica in corso di approvazione al Senato, per non parlare degli ineludibili profili di conrrasto con la normativa euro-unitaria, se non di incostituzionalità, che sembrano tanto gravi da bloccarne la effettiva applicazione. Se la prestazione di una “garanzia finanziaria” per evitare il trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo provenienti da “paesi terzi sicuri” desta già tali perplessità per le persone che vengono sbarcate in territorio italiano, cosa potrebbero pensare i giudici italiani e le corti internazionali di una analoga “garanzia finanziaria” nel caso di persone “trasportate” in Albania ? Oppure, queste persone sarebbero escluse dalla possibilità di prestare una analoga garanzia finanziaria, ancora prevista dalla legislazione italiana, con evidente violazione della normativa europea e del principio di non discriminazione?

      Non rimane che attendere un esercizio imparziale della giurisdizione, con provvedimenti motivati sulla base del principio di legalità e non per ragioni politiche, sia in Italia che davanti alla Corte di Giustizia UE, per garantire il prncipio di non discriminazione, la certezza del diritto, le garanzie sulla libertà personale previste dalla Costituzione italiana e dalla normativa cogente europea, i diritti di difesa e, non da ultimo, il diritto alla protezione internazionale ed il divieto di espulsioni o respingimenti collettivi. Intanto nella fase finale della ratifica da parte del Parlamento italiano del controverso Protocollo Italia-Albania, sarebbe opportuno che si tenesse conto di quanto osservato dalla Corte di Cassazione a sezioni unite, e del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europa, anche al fine di evitare i ricorsi alla Corte costituzionale italiana che si potrebbero sollevare se si arriverà ad una prima applicazione del trattenimento amministrativo “generalizzato” nelle “procedure accelerate in frontiera” in territorio albanese, nelle aree concesse in uso alle autorità italiane, ma sotto la “doppia giurisdizione” italiana ed albanese, come ha ribadito ancora di recente la Corte Costituzionale albanese.

      GIOVEDÌ 08 FEBBRAIO 2024 17.04.27

      == Migranti: avvocata, Cassazione conferma rilievi Apostolico =

      (AGI) – Ragusa, 8 feb. – “La Corte di Cassazione ha confermato i dubbi interpretativi che sono sorti dalla emissione del decreto Cutro”. Lo ha detto all’AGI Rosa Emanuela Lo Faro, avvocata di buona parte dei Migranti coinvolti nel procedimento per il quale la Corte Suprema ha sospeso la decisione sui trattenimenti nel Cpr di Pozzallo rinviado la materia alla Corte di giustizia europea. “Con questa ordinanza interlocutoria – ha proseguito Lo Faro – si chiarisce che le ordinanze della dott.ssa Apostolico avevano il solo scopo di applicare il diritto italiano in maniera conforme al diritto Unionale. Non fare politica o attaccare i politici, ma preservare la liberta’ di ogni singolo individuo”. (AGI) Rg3/Fab 081704 FEB 24

      GIOVEDÌ 08 FEBBRAIO 2024 16.34.05

      >>>ANSA/’Corte Ue si pronunci su fidejussione per i migranti’

      Ordinanza della Cassazione. Legale,confermati dubbi sul dl Cutro (di Marco Maffettone) (ANSA) – ROMA, 08 FEB – Il decreto Cutro finisce all’attenzione dei giudici della Corte di Giustizia Europea. E’ quanto stabilito dalle Sezioni unite civili di Cassazione che chiedono ai giudici della Ue di pronunciarsi, in tema di migranti provenienti da Paesi sicuri, sul segmento del decreto approvato dal Governo a settembre relativo alla garanzia finanziaria di circa 5mila euro che un richiedente asilo deve versare per evitare di essere trattenuto in un centro alla frontiera in attesa dell’esito dell’iter della domanda di protezione. In due ordinanze “interlocutorie” i giudici della Suprema Corte, accogliendo sostanzialmente la richiesta del procuratore generale, sollecitano ai giudici europei un intervento in via d’urgenza. Le Sezioni unite erano chiamate a vagliare 10 ricorsi del ministero dell’Interno sulle ordinanze con cui il tribunale di Catania non ha convalidato, nei mesi scorsi, i trattenimenti di alcuni migranti tunisini a Pozzallo, in applicazione di quanto disposto dal decreto Cutro. Nei due provvedimenti, entrambi di una ventina di pagine, le Sezioni Unite civili chiedono alla Corte Ue se le norme del Parlamento europeo e del Consiglio del 2013 “ostino”, in tema di garanzia finanziaria, “una normativa di diritto interno”. In particolare il quesito posto ai giudici con sede in Lussemburgo riguarda “gli articoli 8 e 9 della direttiva Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale” e se “ostino a una normativa di diritto interno che contempli, quale misura alternativa al trattenimento del richiedente (il quale non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente), la prestazione di una garanzia finanziaria il cui ammontare è stabilito in misura fissa – spiega la Cassazione – anziché in misura variabile senza consentire alcun adattamento dell’importo alla situazione individuale del richiedente, né la possibilità di costituire la garanzia stessa mediante intervento di terzi, sia pure nell’ambito di forme di solidarietà familiare”. In questo modo “imponendo modalità suscettibili di ostacolare la fruizione della misura alternativa da parte di chi non disponga di risorse adeguate, nonché precludendo la adozione di una decisione motivata che esamini e valuti caso per caso la ragionevolezza e la proporzionalità di una siffatta misura in relazione alla situazione del richiedente”. Per il legale di sei dei 10 migranti trattenuti dal questore di Ragusa e poi liberati dai giudici etnei Iolanda Apostolico e Rosario Cuprì, con questa decisione la “Cassazione ha confermato i dubbi interpretativi che sono sorti dalla emissione del decreto Cutro. Qui in Italia le leggi non sono chiare, perché dovrebbero essere compatibili con le norme internazionali e non si capisce se lo sono. Per questo la Suprema Corte ha investito della questione la Corte Ue”, afferma l’avvocato Rosa Maria Lo Faro. In merito alla “proceduta accelerata” nei trattenimenti, nell’udienza del 30 gennaio scorso, l’ufficio del pg rappresentato in aula da dall’avvocato generale Renato Finocchi Ghersi e dal sostituto procuratore generale Luisa De Renzis, l’ha definita “legittima e conforme alla legge”. Nella requisitoria il Pg ha sostenuto che “non si può trascurare quanto affermato dall’Avvocatura dello Stato circa la situazione di emergenza a Lampedusa, caratterizzata da flussi consistenti e ravvicinati in quella zona e dall’elevato numero delle domande di protezione internazionale così da rendere difficilmente gestibile la trattazione della domanda nel luogo di arrivo”. (ANSA). 2024-02-08T16:33:00+01:00 ANSA

      GIOVEDÌ 08 FEBBRAIO 2024 15.20.22

      Migranti: Albano (Md), verdetto Cassazione conferma Apostolico

      Migranti: Albano (Md), verdetto Cassazione conferma Apostolico (ANSA) – ROMA, 08 FEB – “La decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione di chiedere la verifica di conformità al diritto Ue di alcune norme del decreto Cutro – dichiara la presidente di Magistratura democratica Sivia Albano – conferma che gli attacchi nei confronti della giudice Apostolico erano privi di senso anche sul piano giuridico. Le Sezioni unite confermano che c’è un problema di conformità alla direttiva delle norme che prevedono una garanzia finanziaria come alternativa alla detenzione nei centri”. “Quando il giudice rileva profili di illegittimità delle norme per la non conformità al diritto della Ue o alla Costituzione, – prosegue Albano – non lo fa certo per fare opposizione al Governo, ma esercita la funzione che la Costituzione e i trattati gli attribuiscono”. “Ciò significa anche – conclude Albano – che la pronuncia delle Sezioni unite non dovrebbe essere caricata di significati, in un senso o nell’altro. E’ un fisiologico controllo di legittimità: quello della Corte di Cassazione, quello della giudice Apostolico, quello di tutti i giudici che hanno ragionevolmente espresso dubbi su quel decreto”. (ANSA). 2024-02-08T15:20:00+01:00 COM-ANSA

      https://www.a-dif.org/2024/02/08/la-cassazione-rinvia-il-decreto-cutro-alla-corte-di-giustizia-ue-in-dubbio-le

  • 4-5-6 mars 2024 : #Procès en #appel concernant l’#incendie des #Tattes

    Non, ce n’est pas fini. Oui, ça fera 10 ans cette année.

    Et C. Hauswirth, responsable en 2014 de la sécurité incendie de tous les #CHC (#centres_d’hébergement_collectifs) du canton n’est toujours pas déclaré coupable ni condamné.

    Et les sinistrés (une quarantaine, dont 1 mort et 2 personnes gravement lésées dans leur santé physique et psychique) ne sont toujours pas dédommagés et n’ont toujours pas tous reçu un permis B. Parmi eux, Ayop Aziz, vous vous rappelez ? Maudet avait essayé de l’expulser vers l’Espagne quelques mois après la catastrophe où Ayop s’était gravement blessé en sautant du 3ème étage pour échapper aux flammes. Il est toujours là, avec une balafre sur le front et un « papier blanc » qui ne donne droit qu’à l’aide d’urgence (10 fr. par jour pour vivoter dans notre ville).

    (Pour rappel de ce qui s’est dit au procès de décembre 2022, voir : Procès des Tattes : 8 ans pour rendre l’injustice : https://solidaritetattes.ch/4-5-6-mars-2024-proces-en-appel-concernant-lincendie-des-tattes)

    « La lenteur de la #justice »… on se dit que c’est normal, il y a tellement de cas à traiter, les fonctionnaires ne peuvent pas faire mieux, ne peuvent pas aller plus vite. Mais la lenteur de la justice, ce n’est pas un problème de désorganisation dans les institutions qui doit susciter notre compréhension : c’est une volonté politique malhonnête qui permet à la justice de ne pas s’appliquer.

    Car comment rendre justice dans l’affaire des Tattes, après tellement d’années, pour obtenir les témoignages de personnes qui ont quitté la Suisse pour la plupart d’entre elles ? Comment rendre justice aux plaignants de Giffers qui ont subi les violences des Protectas, alors qu’après plusieurs années ils ont disparu dans d’autres pays européens, vivant dans la rue pour plusieurs d’entre eux ? Comment rendre justice, après plusieurs années, en ce qui concerne le suicide d’Ali Reza, décédé en 2019, alors que sa famille vit à l’autre bout du monde et que ses amis sont dispersés en Suisse et ailleurs ?

    4-5-6 mars 2024 : 10 ans pour rendre l’injustice.

    Réservez déjà ces dates pour venir soutenir les personnes incriminées et les avocates qui les défendent !

    reçu le 29.01.2024, via la mailing-list de #Solidarité_Tattes

    #asile #migrations #réfugiés #Suisse #Genève

    –—

    sur l’incendie des Tattes, voir aussi :
    https://seenthis.net/messages/910972

    • Interview par Solidarité Tattes de Me Laïla Batou

      À la suite du procès, Viviane Luisier de Solidarité Tattes a interviewé Me Laïla Batou, avocate de cinq parties plaignantes au procès de l’incendie du Foyer des Tattes, afin d’avoir son impression sur les suites de cette affaire.

      Sol. Tattes : Cette semaine se terminait le procès des responsables de l’incendie du Foyer des Tattes devant la Cour d’Appel. Pourquoi s’agit-il d’une affaire d’intérêt public ?

      Me Laïla Batou : Il y a un enjeu humanitaire, car elle interpelle sur la façon dont Genève traite les personnes les plus vulnérables, mais aussi un enjeu démocratique, dans le fait que l’Etat se retrouve à juger l’un de ses agents. Cette procédure met en jeu la séparation des pouvoirs.

      Sol. Tattes : Dix ans après les faits, est-ce que la situation n’est pas complètement embourbée ?

      Me L.B. : Pas du point de vue de la procédure. Au contraire, on commence enfin à y voir plus clair dans le déroulement des faits et les responsabilités qu’ils révèlent. Il a été difficile d’amener le fonctionnaire en charge de la sécurité du Foyer (ci-après : le Coordinateur incendie) sur le banc des accusés. Mais c’est sur ses manquements que se sont focalisés les débats d’appel.

      Sol. Tattes : Pourquoi n’était-il pas en cause depuis le début ?

      Me L.B. : Au lendemain du drame, tout le monde est tombé sur les occupants de la chambre qui a pris feu. C’étaient les coupables idéaux : l’un et l’autre avaient des petits casiers judiciaires, ils étaient ivres au moment des faits et avaient cuisiné et fumé dans une chambre alors que c’était interdit par le règlement du foyer. Et pourtant, on pouvait légitimement s’étonner qu’un départ de feu puisse avoir de telles conséquences : deux asphyxies dont une mortelle, et une quarantaine de défenestrations… N’y avait-il pas un problème plus structurel ? La procureure Viollier, alors en charge du dossier, a accepté de se poser la question.

      Deux explications se sont alors affrontées : la nôtre, qui mettait en cause la sécurité du foyer, et celle du responsable de cette sécurité, pour qui les victimes avaient cédé à la panique pour des raisons « culturelles ». Rapidement, nous sommes parvenus à montrer que les agents de sécurité présents sur le site s’étaient comportés de façon complètement erratique, et que c’est ce qui avait donné cette ampleur au drame. Il a fallu plus de temps pour faire entendre que ces agents n’avaient peut-être pas été correctement instruits et formés, ce qui était de la responsabilité du Coordinateur incendie.

      Sol. Tattes : Quelles ont été les étapes de cette prise de conscience ?

      Me L.B. : Aussi étonnant que cela puisse paraître, après quatre incendies dévastateurs sur le site dont il était responsable, le Coordinateur incendie a d’abord été entendu comme témoin par le Ministère public. La Procureure Viollier a toutefois décidé de faire expertiser le bâtiment, et elle a eu le bon sens de confier cette tâche à des experts non-genevois. L’expertise, livrée en 2017, arrivait à la conclusion que vu son utilisation, notamment son extrême densité de peuplement, le bâtiment était si dangereux que se posait la question de sa fermeture immédiate !

      La responsabilité du Coordinateur incendie ne pouvait plus être écartée d’un revers de main. Il a donc été réentendu en procédure, non plus en qualité de témoin cette fois-ci, mais en qualité de « personne appelée à donner des renseignements », soit un possible futur prévenu. Les déclarations qu’il a faites à ce moment-là étaient particulièrement accablantes pour lui : il en ressortait que les procédures qu’il avait mises en place pour gérer l’apparition d’un sinistre étaient extrêmement confuses, même à ses propres yeux.

      Sol. Tattes : Il a donc été mis en prévention ?

      Me L.B. : Pas du tout. Malgré les conclusions de l’expertise et malgré ses déclarations complètement aberrantes, la nouvelle Procureure en charge du dossier l’a tout simplement sorti de la procédure. Elle a renvoyé en jugement les deux occupants de la chambre d’où était parti le feu et deux agents de sécurité qui avaient eu le réflexe d’éteindre le feu avant d’évacuer le bâtiment.

      Nous avons dû saisir l’autorité de recours pour forcer la Procureure à mettre en accusation le Coordinateur incendie.

      Ce n’était là qu’une étape. Car au procès de première instance, la Procureure a pour ainsi dire plaidé son acquittement dans son réquisitoire, ce qui est pour le moins inhabituel. Plus inhabituel encore : l’un des plaignants, soit l’Hospice général lui-même, présent au procès pour demander l’indemnisation de son dommage matériel, a lui aussi plaidé en faveur de ce prévenu – qui n’était autre que son propre agent !

      Sol. Tattes : Et alors, le résultat des courses ?

      Me L.B. : Le juge ne s’est pas senti contraint d’examiner sérieusement la violation, par le Coordinateur, de son devoir de diligence. Il n’a pas daigné constater que les mesures prises par le Coordinateur sur ce site à hauts risques étaient gravement insuffisantes, voire qu’elles avaient accru le danger pour les résidents. Le juge n’a pas non plus tenu compte de la désinvolture que trahissaient les déclarations confuses et contradictoires du Coordinateur tout au long de la procédure.

      C’est ainsi qu’il a condamné les deux agents de sécurité qui avaient privilégié l’extinction sur le sauvetage, et le résident de la chambre d’où le feu est parti. Il a en revanche été contraint d’acquitter l’autre résident accusé, qui n’avait fait que passer la soirée dans la chambre qui a brûlé.

      Sol. Tattes : Pourquoi dites-vous que les mesures prises par le Coordinateur ont accru le danger pour les résidents ?

      Me L.B. : Pour prévenir le risque incendie, il y a trois axes d’intervention : le constructif, le technique et l’organisationnel.

      S’agissant du constructif, le Coordinateur a fait installer des portes coupe-feu en métal qui, en cas d’incendie, ne peuvent plus s’ouvrir sans clé dans le sens de l’entrée, même avec des outils de force. Or, il a omis d’équiper ces portes de serrures SI. S’agissant du technique, il a fait installer une centrale de détection d’incendie, mais cette dernière n’était pas, ou pas encore, raccordée au SIS. Autrement dit, pour être alertés, et ensuite pour accéder au bâtiment, les pompiers dépendaient de « quelqu’un » sur le site.

      C’est une situation assez dangereuse. En tous cas, cela suppose que ce « quelqu’un » soit défini avec précision, qu’il sache exactement ce qu’il doit faire et qu’il développe des réflexes : c’est l’axe organisationnel.

      Or, les agents de sécurité présents sur le site pensaient tous que la centrale de détection avertissait directement les pompiers ! Ils ignoraient aussi que les pompiers n’avaient pas de clés permettant d’accéder aux étages.

      Sol. Tattes : Mais cela n’explique pas pourquoi les résidents se sont défenestrés…

      Me L.B. : Les agents de sécurité ont manifestement paniqué à la vue du feu. Ils ont cherché à l’éteindre avant que les pompiers aient été alertés et avant d’évacuer le bâtiment, et pour cela ils ont ouvert la chambre en feu. La fumée a envahi le chemin de fuite, bloquant les résidents encore endormis dans leurs chambres. La plupart ont été réveillés en sursaut alors que le bâtiment était déjà sens dessus-dessous. Personne n’avait jamais pris la peine de leur dire ce qu’il fallait faire en cas de feu, ni même de leur fournir le numéro de téléphone des pompiers. Personne n’était là pour leur dire quoi faire, et ils n’avaient aucune instruction à remobiliser pour calmer la panique.

      Sol. Tattes : Le Coordinateur incendie pouvait-il s’attendre à un tel mouvement de panique ?

      Me L.B. : Evidemment. D’abord, parce que les risques liés à la panique en cas d’incendie sont notoires, ce qu’il savait en tant qu’expert. Ensuite et surtout, parce que des personnes s’étaient déjà défenestrées lors de l’incendie de 2011, avec un bilan de 13 blessés dont cinq graves.

      Sol. Tattes : Mais était-il vraiment en mesure de le prévenir ?

      Me L.B. : Bien entendu. Il avait constaté depuis 2011 qu’il devait installer des consignes sur le comportement à adopter en cas d’incendie dans tous les bâtiments, et ne s’est jamais exécuté. De même, il connaissait depuis 2013 son obligation légale de procéder à deux exercices d’évacuation pour entraîner son personnel et les résidents. Non seulement il n’en a organisé qu’un seul, en avril 2014 ; mais en plus il en a exclu un bâtiment entier : celui des hommes célibataires en cours de procédure d’asile ou déboutés, dont il craignait qu’ils prennent d’assaut les bus TPG ou n’investissent le magasin IKEA situé à proximité. Le premier juge n’aurait jamais dû recevoir cet argument : le Coordinateur n’est pas garant des intérêts d’IKEA ou des TPG, c’est à la police de s’en occuper. Lui, son travail, c’est de protéger la vie et la sécurité de tous les résidents du Foyer, sans distinction de sexe ou de statut légal.

      Sol. Tattes : Et maintenant, que va-t-il se passer ? Quels sont vos pronostics ?

      Me L.B. : C’est un dossier sensible, et une page sombre de l’Histoire de Genève, mais Genève peut faire mieux, si elle accepte de se remettre en question sur la base des faits tels qu’ils se sont réellement produits. Ce n’est pas facile, pour l’Etat, d’admettre que l’Etat a fauté, mais ce dossier ne permet pas vraiment de tirer une autre conclusion. Personnellement, je continue de croire à la séparation des pouvoirs.

      reçu le 09.03.2024, via la mailing-list de #Solidarité_Tattes

  • XI #Marcha_po_la_Dignidad - #Tarajal | 3.02.2024 | 10 AÑOS EXIGIENDO VERDAD, JUSTICIA Y REPARACIÓN.

    *English version below.
    **Traduction en Français ci-dessous.

    La XI MARCHA POR LA DIGNIDAD es un acto en memoria de las personas a las que arrebataron la vida la mañana del 6 de febrero de 2014 en la playa del Tarajal en Ceuta, pero también es un acto de denuncia por todas las personas a las que les arrebatan la vida por falta de vías legales y seguras para migrar.

    Los colectivos y organizaciones que quieran adherirse a la XI MARCHA POR LA DIGNIDAD deberán completar el siguiente formulario. Ello supondrá el siguiente compromiso:
    – Su inclusión como firmante en el manifiesto al que se dará lectura al finalizar el recorrido de la marcha en la Playa de El Tarajal.
    – Su inclusión en carteles y publicaciones para difusión del acto.
    – Su compromiso en la promoción y difusión de la iniciativa en redes locales, nacionales e internacionales.
    – El acceder a la información y materiales relacionados con la Marcha.
    – La facilitación de la toma de contacto con cualesquiera otros de los miembros incorporados a la red.
    – Asumir las directrices de las personas que conforman la organización de los actos.

    Os esperamos el próximo 3 de febrero en Ceuta.

    Redes de la Organización de la marcha:
    E-mail: marcha.tarajal@gmail.com
    Facebook: @marcha.tarajal
    Instagram: @marcha.tarajal
    Twitter: @marchatarajal
    ____________________________
    «10 YEARS DEMANDING TRUTH, JUSTICE AND REPARATION.»

    The XI MARCH FOR DIGNITY is an act in memory of the people whose lives were taken on the morning of February 6, 2014 on the beach of Tarajal, but it is also an act of denunciation for all the people whose lives are taken away from them due to the lack of legal and safe ways to migrate.

    Collectives and organizations wishing to join the XI MARCH FOR DIGNITY must complete the following form. This will involve the following commitment:

    / Their inclusion as a signatory organization in the manifesto that will be read at the end of the march.
    / Their inclusion in posters and publications for the dissemination of the event.
    / Your commitment in the promotion and dissemination of the initiative in local, national and international networks.
    / Access to information related to the march.
    / Facilitating contact with any other members of the network.
    / Assuming the guidelines of the Associations organizing the events.

    We look forward to seeing you on February 3th.

    Social networks of the March Organisation:
    E-mail: marcha.tarajal@gmail.com
    Facebook: @marcha.tarajal
    Instagram: @marcha.tarajal
    Twitter: @marchatarajal
    ____________________________
    «10 ANS D’EXIGENCE DE VÉRITÉ, DE JUSTICE ET DE RÉPARATION».

    La 11e MARCHE POUR LA DIGNITÉ est un acte en mémoire des personnes dont la vie a été arrachée le matin du 6 février 2014 sur la plage de Tarajal, mais c’est aussi un acte de dénonciation pour toutes les personnes dont la vie leur est enlevée en raison de l’absence de moyens légaux et sûrs de migrer.

    Les collectifs et organisations qui souhaitent se joindre à la 11ème MARCHE POUR LA DIGNITÉ doivent remplir le formulaire suivant. Cela implique l’engagement suivant :

    / Leur inclusion en tant que signataire dans le manifeste qui sera lu à la fin de la marche.
    / Leur inclusion sur les affiches et les publications pour faire connaître l’événement.
    / Votre engagement à promouvoir et à diffuser l’initiative dans les réseaux locaux, nationaux et internationaux.
    / Accès aux informations relatives à la marche.
    / Faciliter le contact avec l’un des autres membres du réseau.
    / Assumer les directives des associations qui organisent les événements.

    Nous vous attendons le 3 février.

    Réseaux sociaux de l’organisation de la mache :
    E-mail: marcha.tarajal@gmail.com
    Facebook: @marcha.tarajal
    Instagram: @marcha.tarajal
    Twitter: @marchatarajal

    #commémoration #commémoraction #asile #migrations #réfugiés #Ceuta #Maroc #Espagne #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #2024 #dignité #justice #vérité #mémoire

    • A 10 anni dalla strage del Tarajal la XI Marcha por la dignidad

      Sono passati 10 anni dalla strage del Tarajal a Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco. Quella tragica mattina del 6 febbraio del 2014 un gruppo molto numeroso di migranti (circa 300) prova ad entrare a Ceuta a nuoto, attraverso la spiaggia di Tarajal. La Guardia Civil cerca di fermarli, sparando pallottole di gomma e fumogeni molto vicino alle persone che si trovano in acqua. Alcuni testimoni affermano che vengono lanciati proprio sulle persone, molte delle quali galleggiano a fatica. Gli agenti sparano anche quasi duecento colpi a salve. Si diffonde il panico in acqua. Muoiono 15 persone e altri rimangono feriti.

      Per ricordare questa strage e la brutalità del regime delle frontiere ogni anno a Ceuta si svolge una manifestazione, la Marcha por la Dignidad, un atto in memoria delle persone che sono state uccise, ma anche di denuncia per tutte le persone che vengono uccise a causa della mancanza di vie legali e sicure per migrare. Quest’anno sarà sabato 3 febbraio.

      «Quanto accaduto il 6 febbraio 2014 è un chiaro esempio di razzismo di Stato. È nostro dovere antirazzista sapere cosa sta accadendo al confine meridionale spagnolo, dare eco e denunciare le flagranti violazioni dei diritti umani che vi si verificano» – scrivono dalle pagine della Marcha – «anno dopo anno, manteniamo viva la fiamma della memoria e continuiamo a denunciare le politiche migratorie europee che causano morte».

      La giornata di mobilitazione, che ha raccolto oltre 220 adesioni, è organizzata in due momenti. Nel pomeriggio dalle 15.15 inizierà la manifestazione che attraverserà le strade di Ceuta da Plaza de Los Reyes per raggiungere la spiaggia della strage. Nella tarda mattinata, alle 11.30 nella Sala delle Assemblee dell’IES ABYLA di Ceuta, la tavola rotonda in cui interverranno Patuca Fernández, Viviane Ogou e Mouctar Bah (l’incontro sarà trasmesso in diretta qui).

      «La logica razziale e coloniale ha determinato le politiche migratorie dell’Europa. I confini di Ceuta e Melilla stabiliscono una divisione tra coloro che sono considerati persone e coloro che non lo sono», spiegava nella tavola rotonda del 2023, Youssef M. Ouled, giornalista specializzato in razzismo istituzionale e sociale.
      «Ricordiamo il Tarajal ma parliamo di altre stragi. Quello che è successo nel 2014 non è qualcosa di aneddotico ma sistematico», ha sottolineato.

      Sono tante, troppe, le date che rappresentano purtroppo i punti più alti del razzismo e della violenza delle frontiere. Fra meno di un mese sarà passato un anno dal 26 febbraio 2023, giorno in cui 94 persone (34 di loro erano bambine/i) sono morte a soli 150 metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro in Calabria: non una fatalità come le istituzioni vogliono far credere, ma un eccidio per omissione di soccorso diventato legge. Anche a Cutro, dopo un anno, si tornerà a manifestare ancora al fianco dei familiari e dei superstiti per non dimenticare e continuare a chiedere verità e giustizia.

      https://www.youtube.com/watch?v=g5fGZLGBVSg


      https://www.meltingpot.org/2024/02/a-10-anni-dalla-strage-del-tarajal-la-xi-marcha-por-la-dignidad

    • En 2023...

      Tarajal. Il dovere della memoria per tutte le vittime di frontiera

      Fare memoria non riguarda solo il ricordo, ma costituisce un atto politico e uno strumento di lotta per la verità e il riconoscimento delle responsabilità

      A Ceuta, enclave spagnolo situato a nord nel continente africano, centinaia di persone, tra attivistə e giovani migranti, continuano la Marcha por la Dignidad che da nove anni percorre l’intera cittadina lungo la linea che divide la Spagna dal Marocco per raggiungere la spiaggia del Tarajal dove, il 6 febbraio 2014 furono assassinate oltre 15 persone di origine sub-sahariana delle 300 che tentavano di attraversare il confine a nuoto.

      Quella mattina, all’alba di un’ennesima violenza razzista e coloniale, la Guardia Civil spagnola non solo sparò contro di loro proiettili di gomma per impedire che raggiungessero la costa, provocandone l’annegamento, ma eluse ogni tipo di soccorso delle persone in difficoltà e il recupero dei corpi in mare.

      Alla Frontera Sur sono trascorsi nove anni di impunità, nove anni di ingiustizia e violenza perpetrata verso le vittime di quella tragedia e contro tutte coloro che ogni giorno sfidano una delle frontiere più ineguali al mondo. Vigile e repressiva in modo sempre più assiduo sulle persone che da diversi paesi dell’Africa tentano l’attraversamento per mare e per terra della valla di filo spinato che separa i due continenti.

      Se è vero che nel Mediterraneo è iniziata l’Europa, altrettanto certo è che nel Mediterraneo stesso si esaurisce, tra le colonne di un mito che non ha più eroi ma esseri umani in cerca di sogni brutalmente lacerati. Uomini e donne disumanizzate affinché il fardello di colpe e responsabilità trainato da secoli di imperialismo e gerarchie di potere – ben oltre la colonialità storica – alleggerisca il suo peso.

      «Esistono due morti: quella fisica e quella ermeneutica» ha affermato Patuca Fernandez, l’avvocata di Coordinadora de barrios che prese in carico il caso del Tarajal, nel suo intervento sul dovere della memoria delle vittime di frontiera 1

      La prima costituisce quella biologica mentre la seconda riguarda quella inflitta dal processo di normalizzazione e di riduzione o perdita di rilievo del crimine che l’ha provocata. Un criminale non solo uccide la vittima ma impiega ogni sforzo necessario per trovare forme strategiche di ridurre la carica penale che ricadrebbe sui crimini commessi.

      È il modus operandi di una più profonda logica razziale che tende a interiorizzare e disumanizzare le persone migranti per normalizzare la violenza e gli abusi a loro inflitti.

      Ma queste morti non sono occasionali, né tanto meno naturali. Sono sistematiche e strutturali, legittimate da una necropolitica razzista in quanto applicata esclusivamente sulle persone che provengono da territori direttamente o indirettamente vincolati alle (ex)colonie, mediante accordi in materia di sicurezza e criminalizzazione applicata sulla base della propria origine.

      Ad oggi questo crimine resta ancora impunito, sotto la responsabilità di nessuno se non delle vittime stesse, profanate non soltanto in vita ma calpestate nella propria dignità in morte e in quella dei familiari, privati di verità e di giustizia, del diritto al dolore, al lutto, al risarcimento e alla non ripetizione.

      Fare memoria non riguarda solo il ricordo, ma costituisce un atto politico e uno strumento di lotta per la verità e il riconoscimento delle responsabilità.

      Puntare lo sguardo indietro ha un significato estremamente potente per quanto accade nel presente, e dare contenuto a quel passato che continua sistematicamente a ripetersi. Fare memoria vuol dire far conoscere la realtà di quanto accade ed esigere giustizia per ogni vittima di frontiera.

      «Ricordiamo il Tarajal ma parliamo di altre stragi», ha affermato Youssef M.Ouled, giornalista specializzato in razzismo istituzionale e sociale. «Quello che è successo nel 2014 non è qualcosa di aneddotico ma sistematico», ha continuato ricordando quanto accaduto di recente a Melilla2. Se cambiassero il luogo e la data, l’evidenza della violenza delle frontiere, esterne ed interne al Paese, sarebbero esattamente le medesime.

      https://www.youtube.com/watch?v=4HayyEDFaSc

      Tra le vittime più recenti, Moussa Sylla, espulso dal Ceti (Centro di residenza temporanea per migranti) di Ceuta dove era stato accolto al suo arrivo in territorio spagnolo lo scorso dicembre 2022. Moussa ha dovuto lasciare il centro senza però avere un altro luogo dove andare, allontanato come tanti altri minori che arrivano soli e finiscono abbandonati a sé stessi e alla disperazione. Fino allo scorso 26 gennaio era rimasto davanti alla porta dello stabilimento per chiedere di entrare. Sotto pioggia e freddo supplicava ripetutamente di non esser rilegato al margine ancora una volta. Ma non è stato ascoltato. Espulso dallo Stato che difende le frontiere anziché proteggere le persone, Moussa si è impiccato ad un albero dinanzi le porte dello stabilimento.

      Le colonne di Ercole, erette una di fronte all’altra nello stretto di Gibilterra, non sono più elemento di connessione ed unione tra due mondi inesplorati di un Ulisse che dal suo viaggio fa ritorno in patria. Le colonne dello stretto sono una stretta sul popolo in movimento indesiderato, una strategia ulteriore di chiusura all’Altro per cui l’hospes si è risolto in hostis.

      In questo incrocio di acque – Atlantico e Mediterraneo – e di terre, l‘Europa dall‘Africa, sorge l’inquietudine di una frontiera in cui i paesi e gli uomini non solo stanno di fronte ma sul fronte, in prima linea di guerra, per fronteggiarsi ed ispezionarsi.

      E’ al grido di «Basta violenza alle frontiere» che accompagniamo la marcia di commemor-azione che da nove anni si batte contro l’impunità che vige sul caso: l’inchiesta giudiziaria aperta, che stava per mettere al banco per omicidio colposo 16 guardie civili (scampate applicando la ‘dottrina Loot’), è stata definitivamente archiviata dalla Corte Suprema nel giugno dello scorso anno. La Corte Costituzionale sta ancora studiando se accogliere o meno i ricorsi presentati da diverse organizzazioni non governative e per conto delle famiglie delle vittime (a cui non è stato nemmeno permesso di recarsi in Spagna) per violazione dei loro fondamentali diritti alla vita, protezione giudiziaria effettiva e integrità morale, come indicato nelle dichiarazioni dell’avvocata Fernández.

      In memoria di Roger, Yves, Samba, Larios, Daouda, Luc, Youssouf, Armand, Ousmane, Keita, Jeannot, Oumarou, Blasie e le altre persone non identificate, continuiamo ad esigere che si faccia giustizia, che venga riconosciuta la responsabilità dei crimini di frontiera e garantire equi diritti a tutte le persone senza condizione alcuna.

      https://www.meltingpot.org/2023/02/tarajal-il-dovere-della-memoria-per-tutte-le-vittime-di-frontiera

    • La tomba 147 e l’instancabile lotta di giustizia per la strage del Tarajal

      Ceuta, 10 anni dal 6 febbraio 2014

      Nei tranquilli e placidi passaggi del cimitero di Santa Catalina a Ceuta, situato nel cortile di Santa Beatriz de Silva, c’è un corridoio infinito fiancheggiato da due file di lapidi, in cui si può scoprire un enigmatico labirinto di marmo. È adornato da nomi, cognomi e ornamenti che evocano la memoria di coloro che non ci sono più. Oltre questa fila, nel punto più alto, si trovano tombe meticolosamente numerate, sigillate nel freddo abbraccio del cemento. Questi loculi sono privi di nomi o vasi di fiori che ricordano le anime che riposano al loro interno. Guardando dall’altra parte dello stretto, si vedono le tombe dei migranti che sono morti nel tentativo di raggiungere la spiaggia di Tarajal a Ceuta e di altri che hanno subito lo stesso destino. Si tratta di tombe anonime. Qui giacciono cinque delle quindici persone che, il 6 febbraio 2014, hanno cercato di raggiungere a nuoto la spiaggia di Tarajal a Ceuta, situata al confine tra Marocco e Spagna.
      Ostacoli all’identificazione dei corpi delle vittime di Tarajal

      Solo il corpo di Nana Roger Chimie, un giovane camerunense, è stato identificato; gli altri resti sepolti nel sito rimangono non identificati, nonostante gli sforzi delle famiglie e degli avvocati di Samba, Larios e Ussman Hassan per chiarire l’identità dei corpi trovati dopo il ritrovamento di Nana, che giacciono sepolti lì.

      Patricia Fernández Vicent, avvocata della Coordinadora de Barrios, conferma che «Nana è stato identificato perché il suo corpo è stato ritrovato solo due giorni dopo i fatti e grazie agli oggetti personali che portava con sé quando ha cercato di attraversare il mare per raggiungere la Spagna. Inoltre, le sue condizioni hanno permesso di verificare le sue impronte digitali con i database camerunesi. Roger riposa nella tomba numero 147», che si distingue solo per la data e l’iscrizione: “Tarajal 6-2-14“.

      L’identità degli altri rimane un mistero. L’avvocata aggiunge: «Abbiamo chiesto al tribunale il test del DNA, ma è stato rifiutato in quanto non necessario per chiarire i fatti, quindi non è mai stato effettuato». C’è anche un quinto corpo la cui identità rimane sconosciuta, poiché non è stato fatto alcun tentativo formale di identificarlo.

      A distanza di dieci anni, le famiglie delle vittime sono ancora in cerca di giustizia e lottano senza sosta per ottenere il permesso di recarsi a Ceuta per identificare i loro cari. Tuttavia, il governo spagnolo ha ripetutamente negato i visti necessari per verificare se i resti appartengono a qualcuno dei parenti ancora dispersi.

      A tre anni dagli eventi, le famiglie delle vittime del Tarajal erano state ascoltate dal Congresso dei Deputati, in coincidenza con l’anniversario. Una dozzina di padri, madri, fratelli e sorelle di coloro che morirono sulla spiaggia di Ceuta avevano partecipato a un atto commemorativo in videoconferenza. «Vogliamo che sia fatta giustizia, vogliamo che la loro morte non rimanga impunita», aveva esclamato la madre di uno dei giovani morti di Douala, in Camerun, durante il tributo.

      Le famiglie dei giovani deceduti continuano a chiedere di conoscere la verità su quanto accaduto, chiedendo giustizia affinché queste morti non rimangano dimenticate e senza responsabilità. «Stavano solo cercando una vita migliore per le loro famiglie», ha detto un membro della famiglia.
      Dieci anni senza responsabilità

      A dieci anni dalle morti e dopo otto anni di procedimenti giudiziari, il caso non è ancora arrivato al processo, essendo stato archiviato tre volte dal giudice istruttore. La vicenda giudiziaria del caso Tarajal è stata complessa e prolungata. È iniziata nel febbraio 2015 quando il Tribunale di Ceuta ha convocato 16 agenti di polizia, con le Ong CEAR, Coordinadora de Barrios e Observatori DESC che hanno agito come parti civili.

      Nelle prime due istanze di archiviazione, nel 2015 e nel 2018, il giudice ha concluso che erano stati compiuti tutti i passi investigativi possibili, senza trovare prove di attività sanzionabile nei confronti dei 16 agenti della Guardia Civil coinvolti negli eventi di quella mattina del febbraio 2014. Tuttavia, il Tribunale Provinciale di Ceuta ha ribaltato entrambe le decisioni nel 2017 e nel 2018, incaricando il giudice di identificare i cinque deceduti e di raccogliere le dichiarazioni dei sopravvissuti. Nell’ottobre 2017, la Corte europea dei diritti umani ha condannato la Spagna per pratiche simili a Melilla.

      Il caso è stato nuovamente chiuso nel gennaio 2018, ma dopo i ricorsi, nell’agosto 2018, il Tribunale Provinciale di Cadice ha deciso di riaprire il caso, sottolineando le inadeguatezze dell’indagine. Nel settembre 2019, 16 agenti della Guardia Civil sono stati processati, ma il fascicolo è stato chiuso per la terza volta nell’ottobre 2019, provocando ulteriori ricorsi. Il Tribunale Provinciale di Cadice ha respinto i ricorsi nel luglio 2020.

      Le Ong hanno presentato un ricorso in Cassazione alla Corte Suprema, che è stato respinto nel maggio 2022. Nel luglio 2022 è stato presentato un ricorso per amparo alla Corte Costituzionale 1. Infine, nel giugno 2023, la Corte Costituzionale ha ammesso il ricorso per amparo, aprendo la possibilità di stabilire una dottrina costituzionale che protegga i diritti dei migranti alle frontiere.

      Nonostante si tratti di uno dei casi più mediatici degli ultimi anni, né i giudici né i pubblici ministeri si sono pronunciati pubblicamente durante il processo, limitandosi a fare riferimento alle ordinanze e ai documenti inviati alle parti. Una fonte giudiziaria ha spiegato a questo corrispondente che “si trattava di un caso insolito, in quanto era la prima volta che si trovavano di fronte a un gruppo di assalto marittimo“. Inoltre, ha sottolineato che le questioni legali sono complicate, in quanto bisogna stabilire “se c’è una responsabilità condivisa per i crimini sconsiderati e qual è stata la partecipazione specifica di ciascuna guardia civile“. Questo perché le sanzioni non possono essere applicate a gruppi, il che solleva questioni di natura strettamente legale.

      Cosa è successo nelle prime ore del 6 febbraio 2014 sulla spiaggia di Tarajal a Ceuta

      Nelle prime ore del 6 febbraio 2014, circa 400 persone hanno tentato di attraversare la barriera di confine che separa il Marocco dall’Europa. La Guardia Civil, dispiegata lungo l’intero perimetro del confine, ha cercato di impedire al gruppo di entrare a Ceuta utilizzando attrezzature antisommossa, proiettili di gomma, gas lacrimogeni e detonazioni acustiche.

      Almeno 15 persone sono state uccise e molte altre gravemente ferite. Coloro che sono sopravvissuti e sono riusciti a raggiungere il lato spagnolo della spiaggia di Tarajal sono stati immediatamente rispediti in Marocco. La mattina successiva furono ritrovati 14 corpi, 5 in Spagna e 9 in Marocco. Ufficialmente, 23 persone sono state riportate in Marocco e solo una persona è stata dichiarata dispersa.

      Secondo le ONG coinvolte nell’accusa popolare contro le guardie civili, “molte testimonianze di sopravvissuti e testimoni, insieme ai video ufficiali rilasciati dalla Guardia Civil, dimostrano che la delegazione governativa a Ceuta era a conoscenza in ogni momento dell’attivazione del livello massimo di allerta, che prevedeva la mobilitazione di varie unità della Guardia Civil dotate di attrezzature anti-sommossa“. L’allerta è stata attivata per impedire al gruppo di circa 400 persone di entrare in territorio spagnolo. Si trattava di coloro che erano riusciti a eludere i controlli delle forze marocchine nei boschi vicino al confine con Ceuta e a raggiungere la spiaggia, nella zona marocchina, dove si sono gettati in mare. Secondo i testimoni, circa 1.500 persone, per lo più africani subsahariani, hanno cercato di entrare in Europa quella mattina, ma solo 400 sono riusciti ad avvicinarsi.

      La Guardia Civil ha affrontato il gruppo in assetto antisommossa mentre nuotava verso la riva, lanciando candelotti fumogeni e palle di gomma dal frangiflutti. Questa azione non è stata inizialmente riconosciuta dal delegato del governo, Francisco Antonio González, e successivamente dal direttore generale della Guardia Civil, Arsenio Fernández de Mesa, che ha negato l’uso di materiale antisommossa in acqua, attribuendo la responsabilità dei morti alle forze marocchine.
      Le bugie del Ministero degli Interni

      Jorge Fernández Díaz, all’epoca Ministro degli Interni, si presentò una settimana dopo al Congresso ammettendo l’uso di materiale antisommossa come deterrente, ma indicando l’acqua. Queste spiegazioni seguirono la diffusione di immagini che mostravano gli agenti della Guardia Civil utilizzare “145 proiettili di gomma e cinque candelotti fumogeni” per impedire ai migranti di raggiungere la Spagna, sparando verso la posizione in cui stavano nuotando, mentre erano inseguiti da una motovedetta marocchina. Nella stessa occasione, il ministro si è rammaricato per la morte delle 15 persone sulla spiaggia di Tarajal ma, come gli ha chiesto un deputato dell’opposizione, non si è scusato con le famiglie delle vittime in quanto capo della Guardia Civil.

      Il Segretario di Stato per la Sicurezza, Francisco Martínez, al Congresso, ha dichiarato che nessuno dei giovani che hanno raggiunto la riva spagnola è rimasto ferito e che la Guardia Civil ha sparato solo mentre erano ancora in acque marocchine, attenuando l’azione dal frangiflutti. Tuttavia, sono sorte delle domande: “Perché nessuno ha cercato di salvare le persone che stavano annegando? Perché non sono stati allertati i soccorsi marittimi e la Croce Rossa?“.

      Il governo del PP, attraverso il ministro, ha ufficializzato la sua versione dei fatti e ha respinto la richiesta di aprire una commissione d’inchiesta richiesta dall’opposizione, approfittando della maggioranza assoluta di cui godeva nel 2014. Ma le registrazioni e gli audio forniti delle comunicazioni tra gli agenti e il COS mettono in dubbio la versione di Martínez. In una delle comunicazioni, gli agenti hanno avvertito della presenza di migranti che nuotavano e hanno chiesto istruzioni: “Dobbiamo fermarli?“. Dalla centrale operativa hanno risposto con incertezza: “Non sono sicuro, almeno cerchiamo di fermarli dall’avanzare, si stanno dirigendo verso Ceuta“. La risposta è stata: “Non è possibile, hanno attraversato da dietro e l’unica opzione era catturarli o lasciarli proseguire“. Le contraddizioni del delegato del governo a Ceuta e del direttore della Guardia Civil sono venute alla luce, mettendo a nudo la leadership del Ministero degli Interni. Nessuno si è dimesso.

      Persino il presidente del governo della città autonoma, Juan Jesús Vivas, si è spinto a definire “miserabili” sul suo account Facebook le organizzazioni che hanno accusato direttamente le guardie civili di essere responsabili delle morti. L’Ong Caminando Fronteras ha pubblicato un rapporto che includeva i referti delle ferite e le testimonianze dei sopravvissuti, tutti sono concordi nell’affermare che i proiettili di gomma erano diretti contro i migranti. Dopo essere venuto a conoscenza del rapporto, Francisco Antonio González ha consigliato alle guardie civili di sporgere denuncia contro l’organizzazione.
      Il vescovo di Tangeri critica l’azione della Guardia Civil

      L’arcivescovo emerito di Tangeri, Santiago Agrelo, ha criticato le azioni della Guardia Civil durante gli eventi del 6 febbraio 2014 a il Tarajal. “Quel giorno, quei giovani non si sono gettati in acqua contro nessuno: cercavano solo un futuro migliore, al quale sicuramente avevano diritto almeno quanto me“. Ha sottolineato la responsabilità delle forze dell’ordine, affermando che “le forze dell’ordine del Regno di Spagna hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per impedire a quei giovani di raggiungere la spiaggia, un fatto che non solo è stato riconosciuto ma anche rivendicato: hanno fatto ciò che dovevano fare“.

      Nessuno si è assunto la responsabilità e nessuno sa chi abbia dato l’ordine di autorizzare gli agenti spagnoli ad agire sulla spiaggia di Tarajal. A distanza di dieci anni, nessuno a nome dello Stato spagnolo si è scusato con le famiglie delle vittime di quella fatidica mattina del febbraio 2014. La tomba 147 nel cimitero di Ceuta rimarrà in silenzio.

      La mattina di domenica 4 febbraio, la tomba di Roger Nana è stata resa dignitosa. L’associazione ELIN, la Coordinadora de Barrios e alcuni attivisti hanno dedicato un poster che è stato collocato sulla tomba di Nana. Dopo un breve funerale, Javier Baeza, presidente dell’organizzazione di Madrid, ha dedicato alcune parole di omaggio alle vittime. Le altre tombe sono già segnate come “persona non identificata 6 febbraio 2014“.

      https://www.meltingpot.org/2024/02/la-tomba-147-e-linstancabile-lotta-di-giustizia-per-la-strage-del-taraja

      #responsabilité

    • #Ceuta: di tutte le stragi, una Memoria Mediterranea

      A dieci anni dalla strage del Tarajal, in cui furono uccise almeno 14 persone nel tentativo di raggiungere la Spagna a nuoto, Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco, continua a essere tra le frontiere più violente del regime necropolitico europeo: il mare da un lato, la valla di concertina tagliente dall’altro, sistematicamente iper vigilati e militarizzati per impedire il transito delle persone verso l’Europa. Luogo di incessante approccio securitario, Ceuta, come Melilla, in territorio nordafricano, è da anni scenario di morte e negazione della vita umana, non solo delle persone che tentano di sfidarlo ma di tutte coloro che restano dall’altro lato in attesa di verità sui propri familiari.

      Sono trascorsi 10 anni di silenzio sul massacro del Tarajal, quando, all’alba del 6 febbraio 2014, la Guardia Civil spagnola sparava brutalmente centinaia di proiettili di gomma contro un gruppo di oltre 300 persone migranti di origine sub – sahariana provocandone la morte per annegamento e omettendo il loro soccorso e il recupero dei corpi. Decine di persone sono annegate davanti allo sguardo inerme delle guardie che ad oggi continuano impunemente a perpetrare violenza e repressione contro le persone migranti direttamente coinvolte e contro le famiglie a cui viene negato l’accesso per poter raggiungere l’Europa e cercarli.

      Le persone che tentano di varcare il confine al costo della propria vita, vengono sottoposte a ripetute umiliazioni e procedure di controllo, trattenimento e maltrattamento propedeutiche allo smistamento e alla loro espulsione, sorte di cui spesso le famiglie rimangono ignare e lontane dalle possibilità di richiesta per verità e giustizia dai territori di origine.

      Dal massacro, il governo spagnolo ha ripetutamente respinto la richiesta dei visti ai familiari delle persone disperse e il prelievo del DNA dai resti recuperati affinché procedessero con l’eventuale identificazione dei corpi, ignorando di fatto la loro richiesta di giustizia e verità.

      Infatti, il caso del 6 febbraio fu ripetutamente archiviato dalle responsabilità di una ennesima strage di Stato, riaperto successivamente e in corso di risoluzione, solo lo scorso giugno 2023, grazie alla pressione delle stesse persone sopravvissute e delle famiglie, alle avvocate e attiviste solidali che con loro sostengono la rivendicazione contro la negazione politica della vita e della morte.

      In accordo con il Marocco – da Rajoy e i successori fino all’attuale Sanchez – lo Stato spagnolo ribadisce da decenni il proprio compromesso sul controllo bilaterale della frontiera elogiando l’impegno sempre più mirato all’esternalizzazione della frontiera sul territorio marrocchino in un’ottica di governance migratoria, disattendendo i principi democratici e i diritti di libertà e dignità per la vita delle persone migranti, in fuga da altrettante situazioni di violenze ed abuso, spesso dipese dalla onerosa precarizzazione economica.

      In questo senso, la violenza di cui Ceuta si fa testimone, la medesima che interessa Melilla e la rotta canaria in Spagna o i luoghi in cui vige la procedura di frontiera sull’intero suolo europeo – da Lampedusa a Ventimiglia e lungo i Balcani – non è rappresentata da “ assalti” ed “invasioni” illegali come mediaticamente cerca di strumentalizzare la difesa politica, ma insita nella rimozione sistematica del diritto a partire, a circolare ed arrivare liberamente, alla possibilità per tutte e tutti di avere riconosciuta un’identità ante e post mortem, il diritto a sapere e al lutto.

      Accordi con paesi terzi come il Marocco, esattamente come accade tra Italia e Libia e Tunisia, ledono ogni diritto umano, in primis quello alla vita, abusata e fatta prigioniera dietro e dentro le mura di cinta, potenziate nel meccanismo di controllo e respingimento in mare, nei dispositivi detentivi e di sorveglianza dei centri per il rimpatrio (In Spagna C.I.E.), luoghi di trattenimento forzato e punitivo senza alcuna condanna, dove però non si spengono manifestazioni per la libertà e la liberazione dalle persone trattenute e recluse, in protesta anche in questi giorni dai vari centri in Italia a seguito del suicidio di Stato di Ousmane Sylla .

      La strage di Tarajal è l’espressione di quanto accade ogni giorno da anni in cui impunità, ingiustizia e violenza assumono le sembianze della lotta alla criminalità e alla sicurezza nazionale. Massacri senza giustizia, tombe senza nome, corpi senza volto, morti senza corpo, non sono che l’espressione ultima.

      Ma non l’unica.

      Alla Frontera Sur, una ‘Marcha por la Dignidad’, organizzata da centinaia di persone migranti, familiari, attivisti e diverse organizzazioni solidali, tra cui @Caravana Abriendo Fronteras e @CarovaneMigranti, continua da 10 anni a reclamare ed esigere verità e giustizia per tutte le persone morte nel massacro di Ceuta e per tutte coloro che muoiono e scompaiono per mano della indifferente violenza sistemica di un regime politico mortifero che vigila e reprime le persone migranti alle frontiere interne ed esternalizzate.

      Anche quest’anno la Marcha, partita dalla sede della Delegazione del Governo di Ceuta, ha raggiunto la spiaggia del Tarajal, dove la commemorazione diviene strumento di lotta non solo per ricordare il Tarajal ma per parlare di tutte le ennesime stragi che si ripetono. Quanto accaduto nel 2014 non è qualcosa di aneddotico ma rigorosamente sistematico, lo abbiamo visto a Melilla, a Nador, ad Ouija, in Tunisia, in Sicilia, a Cutro. Tante, troppe e ininterrotte stragi, in altrettante date del calendario, si verificano nel silenzio politico di turno.

      Ma la lotta per la Memoria viva è un riscatto mediterraneo che unisce la rabbia per trasformare il dolore in un grido collettivo per ogni Memoria negata e inabissata che vive attraverso chi può raccontare, dalle lotte familiari e collettive.

      A dieci anni dalla strage di Ceuta, per tutte le stragi invisibili di cui non si racconta, per ogni persona coinvolta in un massacro rimosso, continuiamo a tessere un’unica Memoria Mediterranea, quella praticata tutti i giorni come strumento di denuncia e di ricerca di giustizia, custode di dignità e resistenza.

      Non lasceremo il Mediterraneo agli abissi, ce ne impossessiamo senza timore per combattere dove si combatte, per elevare la voce dove si protesta, per piantare dove si cerca di seppellire.

      Tarajal, no olvidamos!

      https://memoriamediterranea.org/ceuta-di-tutte-le-stragi-una-memoria-mediterranea
      #mémoire_méditerranéenne

  • Faire justice. #Moralisme_progressiste et #pratiques_punitives dans la lutte contre les violences sexistes

    Là où il est admis que le recours à la #police en cas de violence n’est pas la solution mais plutôt un problème supplémentaire, la tentation est de s’y substituer. Si l’intention est louable, son application l’est moins. Les mesures sont expéditives et les outils pour faire justice sont encore profondément empreints d’une philosophie punitive : menace, exclusion, harcèlement, dénonciation publique et discréditation politique. Comment sortir de cette impasse ? La question est d’autant plus difficile qu’elle surgit au moment où les forces réactionnaires mènent une large offensive contre le wokisme pour mieux protéger ceux qui organisent les violences dans nos sociétés.
    Écrit par une « militante gouine », ce livre propose une critique fine du moralisme progressiste et des pratiques punitives dans les luttes sociales. En se saisissant d’exemples concrets rencontrés au gré de son militantisme et en discutant précisément l’abolitionnisme pénal, elle pose les jalons d’une justice transformatrice inventive, capable de prendre soin des victimes et de transformer les individu.es comme les groupes.
    Endiguer les violences c’est aussi ne plus craindre le conflit, ne plus avoir peur de lutter.

    https://lafabrique.fr/faire-justice
    #justice #justice_transformatrice #livre #VSS #violences_sexistes

    voir aussi :
    https://seenthis.net/messages/1027419

    ping @_kg_

  • « Je ne veux plus parler, je ne veux plus gamberger ; je laisse les jours s’effeuiller, comme les pétales que je brode sur les petits mouchoirs de ces dames, et je me laisse piquer par leurs épines. Bientôt, je verrai la fin de tout cela : je vais être jugée, mon homme a tout fait pour me disculper, les avocats bâtiront leur plaidoirie sur le mode sentimental : j’imagine leur voix lorsqu’ils traceront, à grand renfort de manches noires décrivant l’air, l’esquisse d’un Moi fictif, une pauvre petite femme de truand comme les autres : oui, bien sûr, il s’en va la nuit, mais je ne sais pas où il va, moi je prépare les pantoufles et le café, parce que, voyez-vous, messieurs, je l’aiîîîme. »

    #temps #avocat #justice #moifictif #sexisme #identité