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  • Lumière sur les #financements français et européens en #Tunisie

    Alors que la Tunisie s’enfonce dans une violente #répression des personnes exilées et de toute forme d’opposition, le CCFD-Terre Solidaire publie un #rapport qui met en lumière l’augmentation des financements octroyés par l’Union européenne et les États européens à ce pays pour la #sécurisation de ses #frontières. Cette situation interroge la #responsabilité de l’#UE et de ses pays membres, dont la France, dans le recul des droits humains.

    La Tunisie s’enfonce dans l’#autoritarisme

    Au cours des deux dernières années, la Tunisie sous la présidence de #Kaïs_Saïed s’engouffre dans l’autoritarisme. En février 2023, le président tunisien déclare qu’il existe un “un plan criminel pour changer la composition démographique de la Tunisie“, en accusant des “hordes de migrants clandestins“ d’être responsables “de violences, de crimes et d’actes inacceptables“.

    Depuis cette rhétorique anti-migrants, les #violences à l’encontre des personnes exilées, principalement d’origine subsaharienne, se sont exacerbées et généralisées dans le pays. De nombreuses associations alertent sur une montée croissante des #détentions_arbitraires et des #déportations_collectives vers les zones frontalières désertiques de l’#Algérie et de la #Libye.

    https://ccfd-terresolidaire.org/lumiere-sur-les-financements-francais-et-europeens-en-tunisie
    #EU #Union_européenne #externalisation_des_frontières #migrations #réfugiés #désert #abandon

    ping @_kg_

  • “Sotto l’acqua”. Le storie dimenticate dei borghi alpini sommersi in nome del “progresso”

    I grandi invasi per la produzione di energia idroelettrica hanno segnato nei primi decenni del Novecento l’inizio della colonizzazione dei territori montani. #Fabio_Balocco, giornalista e scrittore di tematiche ambientali, ne ha raccolto le vicende in un libro. Un lavoro prezioso anche per comprendere l’attuale dibattito su nuove dighe e bacini a favore di agricoltura intensiva e innevamento artificiale

    Un campanile solitario emerge dalle acque del Lago di Rèsia, in Val Venosta, un invaso realizzato per produrre energia idroelettrica. Quella che per i turisti di oggi è una curiosa attrazione, è in realtà ciò che rimane di una borgata alpina sommersa in nome del “progresso”. Quella del campanile che sorge dalle acque è un’immagine iconica che in tanti conoscono. Ma non si tratta di un caso isolato: molti altri abitati alpini furono sommersi nello scorso secolo, sacrificati sullo stesso altare. Soprattutto nel Piemonte occidentale, dove subirono la sorte le borgate di Osiglia, Pontechianale, Ceresole Reale, Valgrisenche, e un intero Comune come Agàro, nell’Ossola. A raccontare queste storie pressoché dimenticate è il giornalista e scrittore Fabio Balocco nel suo recente saggio “Sotto l’acqua. Storie di invasi e di borghi sommersi” pubblicato da LAReditore.

    Balocco, perché ha scelto di raccontare queste storie?
    FB Tutto è iniziato con un’inchiesta per la rivista Alp (mensile specializzato in montagna e alpinismo, chiuso nel 2013, ndr) che feci a metà anni Novanta, incentrata proprio su queste storie dei borghi sommersi per produrre energia. Un fenomeno che caratterizzò soprattutto gli anni Venti e Trenta del Novecento per alimentare le industrie della pianura. Sono sempre stato attratto dalle storie “minime”, quelle dei perdenti, in questo caso le popolazioni alpine sacrificate appunto sull’altare dello sviluppo. È quella che io chiamo “la storia con la esse minuscola”. La nascita del libro è dovuta sia al fatto che siamo sulla soglia del secolo da quando iniziarono i primi lavori e sia dal ritorno nel dibattito politico del tema di nuovi invasi. Infine, penso sia necessario parlarne per ricordare che nessuna attività umana è esente da costi ambientali e talvolta anche sociali, come in questi casi che ho trattato.

    Nel libro afferma che l’idroelettrico ha portato ai primi conflitti nelle terre alte, tradendo la popolazione alpina. In che modo è successo?
    FB I grandi invasi per produzione di energia idroelettrica hanno segnato l’inizio della colonizzazione dei territori montani, che fino ad allora non erano stati intaccati dal punto di vista ambientale e sociale da parte del capitale della pianura. Queste opere costituirono l’inizio della colonizzazione di quelle che oggi vengono anche definite “terre alte”, colonizzazione che è proseguita soprattutto con gli impianti sciistici e le seconde case. Vale poi la pensa di sottolineare che almeno due invasi, quello di Ceresole Reale e quello di Beauregard, in Valgrisenche, comportarono la sommersione di due dei più suggestivi paesaggi delle Alpi occidentali.

    Che ruolo hanno avuto le dighe nello spopolamento delle terre alpine?
    FB È bene ricordare che nell’arco alpino occidentale lo spopolamento era già in atto agli inizi del Novecento in quanto spesso per gli abitanti delle vallate alpine era più facile trovare lavoro oltreconfine. Un caso esemplare è quello della migrazione verso la Francia che caratterizzò la Val Varaita, dove fu realizzato l’invaso di Pontechianale. Le dighe non contribuirono in modo diretto allo spopolamento ma causarono l’allontanamento di centinaia di persone dalle loro case che venivano sommerse dalle acque, e molti di questi espropriati non ricevettero neppure un compenso adeguato a comprare un nuovo alloggio, oppure persero tutto il denaro a causa dell’inflazione, come accadde a Osiglia, a seguito dello scoppio Seconda guerra mondiale. Queste popolazioni subirono passivamente le imposizioni, senza mettere in atto delle vere e proprie lotte anche se sapevano che avrebbero subito perdite enormi. Ci furono solo alcuni casi isolati di abitanti che furono portati via a forza. Questo a differenza di quanto avvenuto in Francia, a Tignes, negli anni Quaranta, dove dovette intervenire l’esercito per sgomberare la popolazione. Da noi il sentimento comune fu di rassegnazione.

    Un’altra caratteristica di queste storie è lo scarso preavviso.
    FB Tutto l’iter di approvazione di queste opere avvenne sotto traccia e gli abitanti lo vennero a sapere in modo indiretto, quasi di straforo. Semplicemente si accorgevano della presenza di “stranieri”, spesso tecnici venuti a effettuare lavori di prospezione, e solo con un passaparola successivo venivano a conoscenza dell’imminente costruzione della diga. Anche il tempo a loro lasciato per abbandonare le abitazioni fu di solito molto breve. Le imprese della pianura stavano realizzando degli interessi superiori e non erano interessate a informare adeguatamente le popolazioni coinvolte. Le opere furono realizzate da grandi imprese specializzate che si portavano dietro il loro personale. Si trattava di lavori spesso molto specialistici e solo per le mansioni di bassa manovalanza venne impegnata la popolazione locale. D’altra parte, questo incontro tra il personale delle imprese e i locali portò a conseguenze di carattere sociale in quanto i lavori durarono diversi anni e questa intrusione portò anche alla nascita di nuovi nuclei familiari.

    Differente è il caso di Badalucco, dove negli anni Sessanta gli abitanti riuscirono a opporsi alla costruzione della diga. In che modo?
    FB Badalucco è sempre un Comune alpino, sito in Valle Argentina, in provincia di Imperia e anche lì si voleva realizzare un grande invaso all’inizio degli anni Sessanta. Ma qui le cose andarono in maniera diversa, sicuramente anche perché nel 1959 c’era stata una grave tragedia in Francia quando la diga del Malpasset crollò provocando la morte di quasi 500 persone. A Badalucco ci fu quindi una vera e propria sollevazione popolare guidata dallo stesso sindaco del Comune, sollevazione che, anche attraverso scontri violenti, portò alla rinuncia da parte dell’impresa. L’Enel ha tentato di recuperare il progetto (seppure in forma ridotta) nei decenni successivi trovando però sempre a una forte opposizione locale, che dura tuttora.

    Il governo promette di realizzare nuove dighe e invasi. È una decisione sensata? Che effetti può avere sui territori montani?
    FB A parte i mini bacini per la produzione di neve artificiale nelle stazioni sciistiche, oggi vi sono due grandi filoni distinti: uno è il “vecchio” progetto “Mille dighe” voluto da Eni, Enel e Coldiretti con il supporto di Cassa depositi e prestiti, che consiste nella realizzazione di un gran numero di piccoli invasi a sostegno soprattutto dell’agricoltura, ma anche per la fornitura di acqua potabile. Poi vi sono invece i progetti di nuovi grandi sbarramenti, come quello previsto lungo il torrente Vanoi, tra Veneto e Trentino, o quelli di Combanera, in Val di Lanzo, e di Ingria, in Val Soana, in Piemonte. Come dicevo, oggi l’esigenza primaria non è tanto la produzione di elettricità quanto soprattutto l’irrigazione e, in minor misura, l’idropotabile. Si vogliono realizzare queste opere senza però affrontare i problemi delle perdite degli acquedotti (che spesso sono dei colabrodo) né il nostro modello di agricoltura. Ad esempio, la maggior parte dell’acqua utilizzata per i campi finisce in coltivazioni, come il mais, per produrre mangimi destinati agli allevamenti intensivi. Questo senza considerare gli impatti ambientali e territoriali che le nuove opere causerebbero. In buona sostanza, bisognerebbe ripensare il nostro modello di sviluppo prima di tornare a colonizzare nuovamente le terre alte.

    https://altreconomia.it/sotto-lacqua-le-storie-dimenticate-dei-borghi-alpini-sommersi-in-nome-d

    #montagne #Alpes #disparitions #progrès #villages #barrages #barrages_hydro-électriques #énergie_hydro-électrique #énergie #colonisation #industrialisation #histoire #histoires #disparition #terre_alte #Badalucco #Osiglia #Pontechianale #Ceresole_Reale #Valgrisenche #Agàro #Beauregard #Ceresole_Reale #Mille_dighe #Vanoi #Combanera #Ingria

    • Sotto l’acqua. Storie di invasi e di borghi sommersi

      Circa un secolo fa iniziò, nel nostro paese, il fenomeno dell’industrializzazione. Ma questo aveva bisogno della forza trainante dell’energia elettrica. Si pensò allora al potenziale rappresentato dagli innumerevoli corsi d’acqua che innervavano le valli alpine. Ed ecco la realizzazione di grandi bacini di accumulo per produrre quella che oggi chiamiamo energia pulita o rinnovabile. Ma qualsiasi azione dell’uomo sull’ambiente non è a costo zero e, nel caso dei grandi invasi idroelettrici, il costo fu anche e soprattutto rappresentato dal sacrificio di intere borgate o comuni che venivano sommersi dalle acque. Quest’opera racconta, tramite testimonianze, ricordi e fotografie, com’erano quei luoghi, seppur limitandosi all’arco alpino occidentale. Prima che se ne perda per sempre la memoria.

      https://www.ibs.it/sotto-acqua-storie-di-invasi-libro-fabio-balocco/e/9791255450597

      #livre

  • Who are the Falun Gong ? | Foreign Correspondent
    https://www.youtube.com/watch?v=QzlMQyM8p74

    Dans ce reportage #Foreign_Correspondent publie des témoignages sur les conséquences pratiques du culte #Falun_Gong sur la vie de ses disciples. On comprend que c’est d"abord une secte religieuse comme d’autres. Le reportage fournit des informations qui soutiennent que c’est aussi une organisation fasciste sans le qualifier ouvertement comme tel. Tous les éléments là dont le soutien que Falun Gong apporte à #Donald_Trump.

    L’idée que les métis sont la conséquence d’intrigues d’extraterrestres semble d’abord risible, mais pris au sérieux par des million de disciples c’est un élément d’idéologie fasciste.

    Avec sa puissance financière, son empire d’organisations et ses activités médiatiques dans le monde entier le gourou fondateur #Li_Hongzhi et ses disciples sont un danger derrière une façade souriante. Leur propagande pour le retour à « la Chine avant le communisme » défend un modële de société sans état de droit, avec les pieds bandés et la punition de l’extermination de l’entière famille des délinquents.

    Nine familial exterminations
    https://en.m.wikipedia.org/wiki/Nine_familial_exterminations

    Histoire de Falun Gong
    https://hub.hku.hk/bitstream/10722/194523/2/Content.pdf

    #Chine #Taiwan #USA #Australie #presse #médias #religion #sectes #fascisme #anticommunisme

  • Espulsioni di #Migranti subsahariani nel deserto: il ruolo dei mezzi e delle politiche Ue
    https://irpimedia.irpi.eu/desertdumps-tunisia-mezzi-ue-respingimenti

    Italia, Spagna e altri Paesi Ue consegnano alle autorità locali gli strumenti protagonisti del sistema delle espulsioni di massa in #Tunisia, #Marocco e #Mauritania. E le istituzioni europee sono informate di tutto, ma non prendono provvedimenti e celebrano queste partnership come modelli che funzionano per fermare i flussi L’articolo Espulsioni di migranti subsahariani nel deserto: il ruolo dei mezzi e delle politiche Ue proviene da IrpiMedia.

    #Diritti #Mediterraneo #Europa #Mare
    https://irpimedia.irpi.eu/wp-content/uploads/2024/05/tunisia-mezzi-ue-nissan.mp4

  • Le bilan du raid palestinien à Jénine s’alourdit à 10 morts
    22 mai 2024 19:36 BST
    https://www.middleeasteye.net/live-blog/live-blog-update/palestinian-death-toll-jenin-raid-increases-10?nid=363631&topic=Israe

    Le bilan du raid israélien sur Jénine, en Cisjordanie occupée, est passé à 10 morts, selon le ministère palestinien de la santé.

    Le raid se poursuit depuis mardi, date à laquelle huit personnes ont été tuées. Deux autres Palestiniens ont été tués mercredi.

    Le bilan de l’attaque s’élève désormais à 10 Palestiniens tués et 25 blessés.

    • Jenin: An Eighth Palestinian Killed, 21 Others Injured, Woman Abducted
      May 22, 2024 | IMEMC
      https://imemc.org/article/jenin-an-eighth-palestinian-killed-21-others-injured-woman-abducted

      Since the beginning of the Israeli military incursion on Tuesday morning, the number of Palestinians killed in the northern West Bank city of Jenin and its refugee camp has risen to eight, while the total number of injuries rose to twenty-one, including some seriously.

      Update: The slain Palestinians have been identified as:

      1–Allam Ziyad Jaradat, 48.
      2–Dr. Osaid Kamal Jabarin, 51.
      3–Mahmoud Amjad Hamadna, 15.
      4–Osama Mohammad Hojeir, 16.
      5–Amir Essam Abu Amira, 22.
      6–Moammar Mohammad Abu Amira, 50.
      7–Bassem Mahmoud Turkman, 53.
      8–Jihad Mohammad Taleb, 38.

      At midnight Tuesday/Wednesday, the PRCS confirmed that an eighth Palestinian was found dead in the Al-Hadaf neighborhood, as a result of the Israeli army’s attack on the city and its camp.
      (...)
      Israeli forces have now killed 515 Palestinian civilians, including 127 children, while 20 Palestinians have been killed by illegal paramilitary Israeli colonizers, in various regions of the occupied West Bank, since October 7, 2023.

      #Palestine_assassinée #Jenine

  • CPR di Ponte Galeria – Libero l’educatore algerino a cui è stato revocato lo #Status_di_rifugiato per presunta pericolosità sociale
    https://www.meltingpot.org/2024/05/cpr-di-ponte-galeria-libero-leducatore-algerino-a-cui-e-stato-revocato-l

    S. B. è un educatore algerino titolare di status di rifugiato che vive e lavora in #Italia da dieci anni e che il 16 maggio è stato prelevato da casa sua e portato al CPR di Ponte Galeria (Roma). Tutto è iniziato in seguito ad alcuni suoi messaggi, in chat private, pro Palestina e Hamas, dai quali successivamente ha preso le distanze: dapprima è stato sottoposto a una perquisizione domiciliare alla ricerca di armi ed esplosivi, che non ha dato alcun esito, poi ha ricevuto la revoca dello status di rifugiato motivata con una presunta pericolosità sociale, il contenuto delle

    #Guida_legislativa #Notizie #Lazio_-_Roma,_Ponte_Galeria #Razzismo_e_discriminazioni #Roma #Trattenimento_-_detenzione

  • #campi_bisenzio (FI). Manifestazione antimilitarista alla #leonardo
    https://radioblackout.org/2024/05/campi-bisenzio-fi-manifestazione-antimilitarista-alla-leonardo

    Il 24 maggio maggio, data simbolica per il militarismo italiano, l’Assemblea Antimilitarista #toscana ha indetto una manifestazione alla sede della Leonardo di Campi Bisenzio. Di seguito il loro appello: “Venerdì 24 maggio 2024 manifestazione presidio antimiilitarista per la conversione produttiva della Leonardo da fabbrica di armi di morte a fabbrica di beni di vita. ore […]

    #L'informazione_di_Blackout #antimilitarismo #assemblea_antimilitarista #firenze #guerra
    https://cdn.radioblackout.org/wp-content/uploads/2024/05/2023-05-21-vincenzo-campi-bisenzio.mp3

  • Affaire Luis Bico : la Cour de cassation valide le « permis de tuer » de la police | Flagrant Déni
    https://blogs.mediapart.fr/flagrant-deni/blog/210524/affaire-luis-bico-la-cour-de-cassation-valide-le-permis-de-tuer-de-l

    Pour la première fois, la #justice valide un #tir_policier_mortel, alors qu’il n’y avait pas légitime défense. Luis Bico ne présentait pas de danger immédiat. Mais le policier qui l’a tué, alors que des passants étaient dans sa ligne de mire, échappe à toute poursuite. La CEDH va être saisie.

    Deux pages d’une froideur terrible, pour conclure sept années de combat. Et enterrer un nouveau scandale policier et judiciaire. Mercredi 15 mai, la Cour de cassation a rendu son arrêt dans l’affaire Luis Bico, tué par la police près de Montargis en août 2017. Comme elle le fait habituellement, quand aucun doute juridique n’est possible, la plus haute juridiction s’est bornée à une phrase type, sans aucune argumentation : « la Cour de cassation constate qu’il n’existe, en l’espèce, aucun moyen de nature à permettre l’admission du pourvoi ».

    Un « circulez, y’a rien à voir », en langage judiciaire. Or, cette décision est hautement décisive. Elle valide, de la façon la plus officielle qui soit, le permis de tuer instauré par la loi de 2017 dans l’article L435-1 du Code de sécurité intérieure. Son promoteur, le socialiste Bernard Cazeneuve, s’en défend à qui veut l’entendre : « C’est un texte qui dit : “Vous ne pouvez tirer que lorsque vous êtes en situation de légitime défense” ». Et pourtant, c’est tout autre chose qui est désormais gravé dans le marbre de l’ordre juridique. Car dans l’affaire Luis Bico, la cour d’appel avait à la fois estimé que les conditions de la légitime défense classique ne s’appliquaient pas, mais que le nouvel article, si. La Cour de cassation valide ce raisonnement. L’article L.435-1 est donc bien un cadre plus large que la simple légitime défense.

    Pas de danger immédiat

    Et même beaucoup plus large. Dans l’affaire Bico, la cour d’appel d’Orléans avait relevé que Luis Bico ne menaçait personne au moment où il avait été tué. C’est d’ailleurs pour cette raison qu’il n’y avait pas légitime défense. D’après la cour d’appel, Luis Bico était simplement « susceptible d’attenter à la vie ou à l’intégrité physique d’autrui », s’il parvenait à s’échapper. Un danger très hypothétique donc.
    En revanche, le policier qui a tiré sur Luis Bico, lui, l’a fait en visant pour tuer. Il a en outre tiré alors que des passants se trouvaient juste derrière, en plein dans sa ligne de mire, comme le montrent les images exclusives publiées par Flagrant déni en avril. « Ils visaient en haut, analyse Casimiros Bico, le frère de Luis, et d’ailleurs il y a une femme qui a entendu siffler une balle. Il y a 18 tirs, mais ils n’ont retrouvé que 9 impacts sur la voiture de Luis ». Dans cette affaire, pour un danger hypothétique, la #police a tué une personne, et mis en danger beaucoup d’autres. C’est ce que la Cour de cassation estime légal, sur la base de l’article L.435-1.

    Dossier inaccessible à la famille

    Cette décision est la conclusion d’un long combat, celui de la famille, face au mur aveugle de la justice. « On ne connaissait rien à la justice, donc on a fait confiance aux spécialistes, se souvient Christèle, la belle-sœur de Luis, très amère. On posait des questions, l’avocate nous disait “Ne vous inquiétez pas, c’est juridique”. Il ne fallait pas parler aux journalistes, pour ne pas énerver les juges, ni aux associations. On nous a complètement enfermés, et finalement, voilà le résultat ! ».

    La famille de Luis n’a jamais pu accéder au dossier. Jusqu’au dernier jour. Dans un courrier daté du 15 mai, que Flagrant déni a pu consulter, l’avocate continue de refuser de communiquer le dossier à la famille : « je ne puis m’autoriser à vous remettre un dossier d’instruction ». Dans un dossier conclu définitivement, comme c’est désormais le cas pour celui de Luis, aucun secret n’est pourtant plus en vigueur. « En tout, on en a eu pour 21500 euros de frais d’avocat, calcule Christèle, mais on ne peut toujours pas voir le dossier ».

    Contrôle d’identité de la famille à la sorte de l’audience

    A la Cour de cassation, le 4 avril dernier, la plupart des personnes venues en soutien n’ont pas pu accéder à l’audience, pourtant censément publique. Sous les surplombantes moulures dorées, la famille a dû rester cantonnée derrière une sorte de muret de bois, symbole bien visible de la séparation entre la justice, et les justiciables. Derrière ce muret, une fois assis, il était à peine possible de voir les trois juges installés tout au fond de l’immense salle. L’affaire a été évacuée en quelques minutes, sans suspense. « C’est pas la justice ça, ils n’ont retenu que les faits qui les arrangeaient », peste Casimiros à la sortie de l’audience.

    La famille n’a pas eu la parole, et son avocat n’était même pas présent. La police, en revanche, était bien là. Pour avoir posé quelques instants devant le palais de Justice, à la sortie de l’audience, avec des T-shirt « L.435-1 m’a tué·e » et des pancartes en mémoire de Luis, la famille et la quinzaine de soutiens présents, parmi lesquels de nombreuses victimes et familles de violences policières, ont eu le droit à un contrôle d’identité général.

    Une loi « mal interprétée, mal expliquée, mal conduite »

    L’affaire Luis Bico est aussi la parfaite illustration des ambiguïtés et de la dangerosité de l’article L435-1. L’Assemblée nationale doit rendre un rapport sur « la hausse du nombre de refus d’obtempérer et les conditions d’usage de leurs armes par les forces de l’ordre ». A propos de l’article L435-1, l’un des deux rapporteurs, Roger Vicot, député macroniste, estime que « la formulation de la loi est mal interprétée, mal expliquée, mal conduite ». Depuis cette loi, le nombre de personnes tuées par la police a été multiplié par cinq.
    Steven R., l’auteur des tirs mortels, est à l’époque des faits un adjoint de sécurité, noté comme indiscipliné par sa hiérarchie, et doté de très peu d’expérience. Grâce à la loi de 2017, désormais durement interprétée par la Cour de cassation, il échappe à toute poursuite, définitivement. « On s’y attendait, explique Christèle. On s’en doutait, même s’il y a toujours un petit espoir. Mais on va aller à la Cour européenne, ça c’est certain, le combat n’est pas terminé ». Encore une fois, il va falloir que la CEDH vienne sanctionner la France pour que les choses bougent, peut-être. A moins qu’entre temps, l’Assemblée nationale tire les conséquences de cette loi funeste, et décide enfin de l’abroger ?
    Lionel Perrin

    Comment la police a utilisé son “permis de tuer” sur Luis Bico
    https://www.flagrant-deni.fr/comment-la-police-a-utilise-son-permis-de-tuer-sur-luis-bico
    https://seenthis.net/messages/623282

  • AI takeaways from under-the-radar innovators: Context, creation, and communication
    https://www.emarketer.com/content/ai-takeaways-radar-innovators-context-creation-communication

    4. AI innovators need people skills

    “In a world of large language models (LLMs), just being able to articulate yourself well is really what’s key to be[ing] able to program these models correctly,” said Tim Hwang, author of “Subprime Attention Crisis.”

    Hwang said that because generative AI models are trained on human data, the same standards that apply to communicating with humans, such as being clear, direct, and thoughtful, apply for talking to LLMs. “The hottest new programming language is psychology,” he said, and marketers will need to understand it better than ever to work with generative AI. That’s because generative AI functions like people do, according to Hwang. It responds better when people ask nicely, or tell it to do a good job. Understanding how to work within that framework is the key to using AI.

    #Tim_Hwang #Intelligence_artificielle

  • I luoghi della memoria dell’Italia fascista

    Il territorio di questo paese conserva molte tracce del suo passato fascista sotto forma di edifici, monumenti, ma anche nomi di strade, vie o scuole. In alcuni casi, quando simboli, monumenti e intitolazioni sono presenti nella nostra vita quotidiana senza essere oggetto di commemorazione o ricostruzione memoriale specifica, essi giacciono lì, muti per la maggior parte della popolazione, ma presenti e disponibili a diversi tipi di riattivazione. In altri casi questi luoghi sono invece oggetto di commemorazioni e cerimonie, per lo più presidi di una memoria minoritaria, ma che riappare carsicamente nella storia d’Italia, coltivate da minoranze neofasciste o della nuova destra, che cercano di costruire un ponte che legittimi il presente attraverso la storia del passato fascista, ma anche che permetta di coltivare costruzioni identitarie antidemocratiche.

    Per riflettere su questi fenomeni, l’Istituto nazionale Ferruccio Parri ha avviato un progetto che ha l’obiettivo di mappare e ricostruire progressivamente la storia dei ‘luoghi della memoria’ locale e nazionale del fascismo storico (1919-1945). Obiettivo del progetto è individuare e analizzare i monumenti e le intitolazioni di strade e edifici pubblici che sono stati costruiti come luoghi della memoria del fascismo durante il regime o negli anni successivi alla Liberazione del paese.

    Questa mappatura ha l’obiettivo di verificare la geografia di questi monumenti e di queste intitolazioni ricorrenti; leggerne la stratificazione storica e in ogni caso ricostruire la storia di questi luoghi della memoria, del significato che hanno assunto del tempo e di come sono stati modificati dal tempo o dagli uomini e dalle donne di questo paese. Questa ricerca dovrebbe così permettere di leggere e analizzare i diversi modi in cui nelle composite comunità locali e territoriali la memoria del fascismo è stata preservata e/o ricostruita, come questa costruzione si collochi in relazione con altre memorie politiche e come, nel corso di questi anni, in concomitanza con la rilegittimazione in corso dell’esperienza fascista, queste memorie si siano ridefinite e rialimentate. Questo progetto ha nutrito anche una riflessione scientifica più articolata, che è stata ripresa e riarticolata nel volume curato da Giulia Albanese e Lucia Ceci intitolato I luoghi del fascismo. Memoria, politica e rimozione (Viella, 2022).

    Questo progetto è coordinato da Giulia Albanese insieme a un gruppo di lavoro del comitato scientifico del Parri composto da Filippo Focardi (direttore scientifico dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri), Mirco Carrattieri, Lucia Ceci, Costantino Di Sante, Carlo Greppi, Metella Montanari, Nicola Labanca. Questo gruppo, a partire dal 2021, è stato sostituito dai membri del nuovo Comitato scientifico del Parri (2021-2024): Filippo Focardi (Direttore scientifico, Presidente), Laura Bordoni, Lucia Ceci, Annalisa Cegna, Chiara Colombini, Andrea Di Michele, Nicola Labanca, Matteo Mazzoni, Santo Peli, Antonella Salomoni, Giovanni Scirocco.

    Il progetto del sito e del database è stato realizzato da Igor Pizzirusso.
    Antonio Spinelli e Giulia Dodi hanno invece curato redazione, approfondimento scientifico e validazione delle schede (oltre a contribuire con ulteriori segnalazioni).
    Fondamentale è stato il lavoro dei volontari della rete degli istituti per la storia della resistenza che hanno inviato segnalazioni o realizzato il primo censimento, ma anche da studiosi indipendenti che hanno collaborato all’individuazione dei luoghi e alla loro schedatura. Questa ricerca è dunque il frutto di un progetto collaborativo e in progress, ma ciascuna scheda riporta l’indicazione dell’autore della compilazione.

    L’Istituto nazionale Ferruccio Parri ha aperto una collaborazione con Postcolonialitaly.com, per rendere disponibili a quel progetto i luoghi coloniali censiti in questo sito e ricevere le schede di quel sito con riferimento ai luoghi coloniali che sono pertinenti per questo progetto. Nella scheda descrittiva daremo conto di eventuali schede derivate da quel progetto.


    https://www.luoghifascismo.it

    #Italie_fasciste #fascisme #Italie #cartographie #traces #visualisation #mémoire #toponymie #toponymie_politique #toponymie_fasciste

    –-

    ajouté à la métaliste sur l’Italie coloniale (la question coloniale se chevauche avec la question fasciste) :
    https://seenthis.net/messages/871953

    • I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione

      Cosa resta dei monumenti, dei complessi architettonici, delle opere d’arte attraverso cui il fascismo intese esplicitamente celebrare e tramandare sé stesso? Quale uso è stato fatto nell’Italia repubblicana di queste tracce materiali?

      In che modo la memoria dei luoghi del fascismo somiglia a quanto è avvenuto in altri stati con esperienze analoghe?

      Il volume indaga questi temi a partire da alcuni luoghi particolarmente significativi nella storia italiana (presenti in città come Roma, Milano, Latina, Livorno, Padova o in piccoli centri della Calabria) e di alcuni paesi europei (Germania, Spagna, Portogallo). Il lavoro si inserisce in un ampio progetto di ricerca dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri finalizzato alla mappatura dei luoghi della memoria commemorativa del fascismo in Italia.

      https://www.viella.it/libro/9791254691908

      #livre

  • Journée internationale contre l’homophobie et la transphobie, l’occasion pour l’Amicale du Nid de rappeler son engagement contre toutes les formes de discriminations
    + Villa Biron : la parole des victimes entendue

    La journée internationale contre l’homophobie et la transphobie permet à l’Amicale du Nid de rappeler son inscription dans le refus de toute forme de discrimination, de racisme, de sexisme, d’homophobie et de transphobie.

    Si la majorité des personnes victimes du système prostitutionnel sont des femmes et des enfants, les personnes trans sont aussi surreprésentées

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2024/05/21/journee-internationale-contre-lhomophobie-et-l

    #homophobie #transphobie

  • Alternativen zum Spreewald : Insidertipps für Tagestouren und Wochenendtrips in Brandenburg
    https://www.berliner-zeitung.de/ratgeber/alternativen-zum-spreewald-insider-tipps-fuer-tagestouren-und-woche
    Quand la ville de Berlin devient insupportable il faut sortir à la campagne pour décompresser. Faites attention aux fachos du bled, mais si vous êtes blond et ne donnez pas l’impression de faire partie des pauvres il ne vous arrivera rien de dèsagréable. Les sacs à pognon sont le bienvenu partout.

    18.5.2024 von Nicole Schulze - Abseits von Touri-Hotspots findet man im Brandenburgischen Natur, Schönheit, Entspannung und Köstliches. Eine Expertin verrät, wo.

    Der Spreewald mit seinen Fließen und Kanutouren, den süßen Häuschen und hübschen Altstädten ist ein beliebtes Ausflugsziel. Von Berlin aus ist man mit dem Auto in spätestens anderthalb Stunden dort, auch die Bahnanbindung ist in Ordnung.

    Leider jedoch sind die Spreewald-Städte und Dörfer ziemlich überlaufen. Viele Pensionen, Hotels oder Apartment-Anbieter lehnen es – vor allem in der Hauptsaison – ab, Gäste nur für eine Nacht zu beherbergen. Es kommt sogar vor, dass man für eine derartige Anfrage ausgelacht wird.

    Aber zum Glück ist Brandenburg so reich an Natur, so groß und schön, dass man auch an den unbekannteren Orten ein angenehmes Wochenende verbringen kann. Samstagfrüh los, Sonntagnachmittag zurück – und dazwischen gibt es ganz viel Erholung und gute Laune.

    Die gebürtige Cottbuserin Jasmin Mühlebach kennt sich damit gut aus: Seit 2018 betreibt sie mit zwei Freunden die Website und den Instagram-Kanal Rediscoverbrandenburg (mehr als 8000 Follower). Über ihre Insidertipps haben sie gerade ein Buch veröffentlicht (siehe unten).
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    Wenn man wissen will, wo man nett übernachten und gut Kaffee trinken kann, welche Radrouten sich lohnen und wie man Naturerlebnisse mit Komfort verbindet, fragt man also am besten Jasmin Mühlbach. Her sind ihre drei besten Alternativen zum Spreewald.
    Buckow in der Märkischen Schweiz: Seele baumeln lassen

    Quasi vor den Toren Berlins erstreckt sich eine sanft hügelige Landschaft: Die Märkische Schweiz, östlich der Hauptstadt gelegen, ist ein Flecken schönster brandenburgischer Natur, den viele nicht kennen.

    „Seen und Bäche, Laubwälder, Schluchten und Täler, Sölle und Quellen, Moore und Fischteiche, Felder, Wiesen und Hecken – obwohl er der kleinste im Land ist, sind im Naturpark Märkische Schweiz fast alle Landschaftsformen der Mark Brandenburg aufzuspüren“, heißt es auf der Website des Naturparks.

    Nicht zuletzt deshalb ist Jasmin Mühlbach bekennender Fan der Märkischen Schweiz: „Von Müncheberg aus lohnt es sich, mit der dortigen Kleinbahn bis nach Buckow zu fahren. Es kann an den Wochenenden zwar ein bisschen voller sein, aber der ausgesprochen süße Stadtkern lohnt total.“

    Dort befindet sich auch ein Café im Wohnzimmer-Look mit dem schlichten Namen Lokal. Es gibt hausgemachte herzhafte und süße Leckereien, zudem regelmäßig kulturelle Veranstaltungen (u.a. Kneipen Quiz, Dartabend). Die Tagessuppe kostet 4,50 Euro, ein Chai Latte 2,80 Euro.

    Lokal, Königstraße 4 (Ecke Schulstraße), 15377 Buckow. Öffnungszeiten: Freitags von 14 bis 22 Uhr, samstags von 12 bis 19 Uhr, sonntags von 10 bis 18 Uhr.

    Von Berlin nach Müncheberg fährt im Prinzip stündlich ein Regio (RB 26); vom Hauptbahnhof aus braucht man eine Stunde. Die fünf Kilometer lange Strecke mit der Buckower Kleinbahn „macht echt Spaß“, sagt Jasmin Mühlbach. Hin und zurück kostet die Fahrt sieben Euro (hier finden Sie den Fahrplan).

    Angrenzend an Buckow (Märkisch-Oderland) finden Sie auch den 137 Hektar großen Schermützelsee – nicht zu verwechseln mit dem Scharmützelsee, der bei Bad Saarow (Oder-Spree) ist.

    Den weniger bekannten Schermützelsee kann man binnen zwei bis drei Stunden zu Fuß umrunden. „Das sind gut acht Kilometer wunderbarer Waldweg, ganz viel Schatten“, erzählt Jasmin Mühlbach.

    Zwischendurch kommt es vor, dass man über einen umgestürzten Baum steigen muss. Hier ist die Natur nicht aufgeräumt, sondern gewachsen – gute Voraussetzungen, um sich an ihr zu erfreuen und Handy und Hektik einmal zu vergessen. Lassen Sie sich auf die Entschleunigung ein! Mückenspray nicht vergessen …
    Liebste Fahrradtour: Fürstenberg und Lychen

    Wer durch Fürstenberg an der Havel fährt, sagt vermutlich: ‚Hier komm’ ich noch mal her!‘ – ein Gefühl, das auch Jasmin Mühlbach kennt. Die 5800-Einwohner-Stadt darf sich offiziell Wasserstadt nennen, hat aber sehr viele schöne Altbauten, einige DDR-mäßig runtergerockt, andere phänomenal saniert.

    Mit dem Auto braucht man bis nach Fürstenberg (Oberhavel) etwas mehr als eine Stunde; der Ort liegt direkt an der schönen B96. Mit der Bahn braucht man fast zwei Stunden. So oder so: „Am Fürstenberger Bahnhof kann man sich Fahrräder leihen und zu einer sehr reizvollen Tour nach Lychen, also in die Uckermark, starten.“

    Besonders am Wochenende sind die Züge Richtung Norden häufig voll, weshalb die Mitnahme eines Fahrrades nicht unbedingt ratsam ist. Direkt am Bahnhof befindet sich der Radverleih Gleisgazelle (13 Euro pro Tag; Reservierung online oder telefonisch).

    Kleiner Zwischendurch-Tipp: Sieben Gehminuten vom Bahnhof entfernt, ganz in der Nähe vom Marktplatz, befindet sich ein SUP- und Bootsverleih. Von dort aus können Sie über den sehr schönen Baalensee paddeln oder tuckern. Für eine Stunde Stand-up-Paddling zahlt man 15 Euro, jede weitere kostet 5 Euro.

    Aber zurück zur Radstrecke: Die circa 18 Kilometer lange Route führt auch vorbei an Himmelpfort, wohin Kinder in der Adventszeit ihre Wunschzettel für den Weihnachtsmann schicken, sowie am dortigen Moderfitzsee. „Da kann man auch baden“, weiß Jasmin Mühlbach.

    Nach etwa anderthalb Stunden kommt man in Lychen an, der alten Flößerstadt. Wer mag, kehrt in der Mühlenwirtschaft ein, stärkt sich und radelt zurück. Flammkuchen (acht verschiedene Sorten) gibt’s ab 12 Euro, mit Lachs 13 Euro; Wildschnitzel mit selbst geschnibbelten Bratkartoffeln kostet 21 Euro. Auf der Karte stehen auch Puffer mit Lachs (18 Euro), Spiegelei (13 Euro) oder Apfelmus (8 Euro). Alle Gerichte gibt es ebenfalls als Kinderteller.

    Mühlenwirtschaft und Kaffeemühle, Stabenstraße 2, 17279 Lychen. Öffnungszeiten: täglich von 13 bis 20 Uhr, montags geschlossen (Ausnahme: Pfingstmontag).

    „Alternativ kann man der Handwerksbäckerei Lychen einen Besuch abstatten, wo man dem jungen Bäckermeister Julien durch die großen Fensterscheiben beim Teig kneten und formen zusehen kann. Und sowohl das Brot als auch die süßen Teilchen sind unglaublich gut“, so die Brandenburg-Fachfrau.

    Handwerksbäckerei, Stargarder Straße 21, 17279 Lychen. Öffnungszeiten: Freitags, samstags und sonntags von 6 bis 15 Uhr.

    Sofern Sie Lust haben, können Sie in Lychen natürlich auch übernachten – und sogar im mobilen Office arbeiten. „In der Sommerfrische gibt es einen Co-Working-Space und drei Ferienwohnungen. Man hat Blick aufs Wasser, einfach richtig schön“, schwärmt die Influencerin.

    Im angrenzenden Oberpfuhlsee kann man auch baden. Allerdings: „Die Mindestbuchung beträgt bei uns zwei bzw. fünf Nächte“, steht auf der Sommerfrische-Website.

    Die Wohnungen tragen die Namen Wald, Wiese und Wasser, sind zwischen 26 und 73 Quadratmeter groß. Kosten je nach Saison und Wohnung: zwischen 70 und 140 Euro pro Nacht. Im Co-Working-Space zahlt man pro Tag 11,90 Euro (Schreibtisch, Internet, Kaffee inklusive).

    Sommerfrische, Stargarder Straße 6, 17279 Lychen
    Naturabenteuer mit einem Hauch Luxus: Glamping am Gräbendorfer See

    Wenn Sie nicht so wirklich auf Camping stehen, aber irgendwie doch damit liebäugeln, dürfte Glamping etwas für Sie sein. Das Kofferwort setzt sich zusammen aus Glamour und Camping.

    „Am Gräbendorfer See befindet sich so ein Spot“, weiß Jasmin Mühlbach. „Man übernachtet in geräumigen Tipi-Suiten, das sieht aus wie in einem kleinen Dorf. Es gibt eine voll eingerichtete Outdoorküche, eine Bar, Sandstrand und komfortable Sanitäranlagen. Auch für Familien ist das toll.“

    Am Ort kann man sich Fahrräder ausleihen oder auch einfach nichts tun, nur relaxen. „Vor den Zelten stehen Sitzsäcke auf der Terrasse, es hängen überall Lichterketten und Hängematten“, so die Brandenburg-Kennerin. Der Glamping-Platz befindet sich in Casel (Spree-Neiße).

    Zum Schlafen stehen richtige Betten bereit, inklusive Bettwäsche sowie Handtüchern, es gibt Strom, einen Kühlschrank, Regale, Ventilatoren und Kleiderständer. Eine Übernachtung kostet ab 79 Euro.

    Raus und gut, Am See 4, 03116 Drebkau/Casel
    Psssst: Hier ist der Spreewald noch nicht von Touris überlaufen

    Falls es Sie aber dennoch in den Spreewald zieht, hat Jasmin Mühlbach noch einen Geheimtipp auf Lager: „Straupitz ist sehr schön und nicht so voll wie die anderen Ortschaften im Spreewald!“

    Straupitz (Landkreis Dahme-Spree, LDS), ist eine 950-Seelen-Gemeinde am nördlichen Rand des Spreewaldes; bis Cottbus sind es 23 Kilometer, und Lübben ist nur 16 Kilometer entfernt. „Dort gibt es den Byhleguhrer See, der ganz naturbelassen ist und den man richtig schön umwandern kann“, schwärmt die Bloggerin.

    Der See ist auf natürliche Weise entstanden und liegt mitten im Naturschutzgebiet. Rundherum führt ein etwa sieben Kilometer Weg. „Die Strecke ist abwechslungsreich. Mal läuft man durch den Wald, dann an Feldern vorbei“, erzählt Jasmin Mühlbach. Straupitz selbst hat auch einen Kahnhafen. Fähr-Fans müssen also auch in diesem kleinen Ort nicht verzichten.

    Das Highlight ist aus Expertinnensicht aber das etwas versteckte, familiengeführte Café Mohnamour in einem alten Bahnhofsgebäude.

    „Die machen dort ganz frische Hefeplinsen mit Apfelmus, wirklich köstlich“, so Jasmin Mühlbach. „Bestellen sollte man aber unbedingt den Kuchenteller; das ist ein Angebot, bei dem man von jedem Kuchen ein kleines Probierstück bekommt. Das lohnt sich total.“

    Die Lausitzer Rundschau ist von Puppenstuben-Atmosphäre und dem „unglaublich saftigen Kuchen“ begeistert. Das Quittengelee sei himmlisch und das Preis-Leistungs-Verhältnis unschlagbar. Ein großer Milchkaffee kostet 2,50 Euro, ein kleiner 1,50 Euro; für ein üppiges Stück Kuchen zahlt man ab vier Euro.

    Café Mohnamour, Bahnhofstraße 18, 15913 Straupitz. Öffnungszeiten: donnerstags bis montags von 10 bis 18 Uhr.

    Jasmin Mühlbach, Loic Olmedo, Silvio Olmedo-Paasch: Ganz Wald draußen. Geheimtipps für Brandenburg, Ammian Verlag, 232 Seiten, 20 Euro.

    #Brandebourg #tourisme

  • Modernité et antitsiganisme | Roswitha Scholzet
    https://lundi.am/Waste-to-waste-les-Roms-et-nous

    C’est par l’amer constat que la gauche elle-même n’est pas épargnée par ce racisme systémique que débutait Roswitha Scholz : « L’étude de l’antitsiganisme, c’est-à-dire du racisme spécifique envers les Sintés et les Roms, est marginale, même au sein de la gauche. Certains ne savent même pas ce que signifie ‘‘antitsiganisme’’ ». Cette légèreté ne peut plus perdurer. Source : Lundi matin

  • «Come spazzatura»: il sistema delle espulsioni di massa dei #Migranti nel deserto
    https://irpimedia.irpi.eu/desertdumps-espulsioni-di-massa-tunisia-marocco-mauritania

    La storia di François, una delle vittime di un metodo sistematico e diffuso in #Tunisia, #Mauritania e #Marocco. Ad alimentarlo sono le politiche di esternalizzazione delle frontiere Ue L’articolo «Come spazzatura»: il sistema delle espulsioni di massa dei migranti nel deserto proviene da IrpiMedia.

    #Diritti #Mediterraneo #Europa #Mare
    https://irpimedia.irpi.eu/wp-content/uploads/2030/12/tunisia-francois-02.mp4


    https://irpimedia.irpi.eu/wp-content/uploads/2030/12/tunisia-francois_03.mp4

  • https://www.lemonde.fr/sciences/article/2024/05/20/engagement-des-scientifiques-le-ton-monte-dans-les-labos_6234452_1650684.htm

    #Wolfgang_Cramer
    #Christophe_Cassou
    #Valérie_Masson-Delmotte

    Appel à signature pour une tribune demandant la mise en #faillite_écologique de #Total

    Le vendredi 24 mai prochain, le conseil d’administration de TotalEnergies défendra devant l’AG de ses actionnaires son plan d’investissement prévoyant d’augmenter sa production d’énergies fossiles de 2 à 3% par an sur les cinq prochaines années. La major a donc fait le choix non pas de réduire sa contribution à la catastrophe climatique, mais de l’accélérer.

    Il faut se rendre à l’évidence : #TotalEnergies ne réduira pas sa production fossile parce qu’on le lui demande poliment. Au lieu de cultiver son impuissance, la puissance publique devrait se donner les moyens juridiques et fiscaux d’empêcher des entreprises comme TotalEnergies de menacer les conditions d’habitabilité de la planète. Cette tribune en propose plusieurs, et notamment la notion de faillite écologique qui permettrait à la puissance publique d’envisager le redressement judiciaire d’une entreprise eu égard à sa stratégie climaticide.

    Nous souhaiterions faire publier cette tribune dans un média grand public en amont de l’AG de TotalEnergies, et en lien avec une mobilisation inter-organisations.

    Vous pouvez accéder à la tribune (https://framaforms.org/soutien-a-la-tribune-totalenergies-en-faillite-ecologique-1715944543) et vous joindre aux signataires dans ce formulaire. N’hésitez pas à faire tourner.

    Les #Scientifiques_en_rébellion s’invitent une nouvelle fois à l’#AG des #actionnaires de BNP Paribas

    L’an dernier, au moment où les ONG de L’Affaire BNP annonçaient mettre en demeure BNP Paribas pour ses financements aux énergies fossiles, nous avions appelé la banque, via une tribune dans l’Obs, à cesser tout financement de nouveaux projets pétroliers et gaziers. Nous étions aussi allé.es interpeller BNP Paribas à son Assemblée générale.

    Cette action a eu des effets : #BNP Paribas a annoncé il y a un an de nouveaux engagements à réduire ses financements aux énergies fossiles et elle les a effectivement réduits significativement par rapport à 2022. Depuis cette date, elle n’a plus participé à l’émission d’obligations pour des projets pétro-gaziers. Mais la banque n’a pas formalisé cet engagement ni cessé tout financement aux énergies fossiles.

    C’est pourquoi le 14 mai, nous sommes retourné·es à l’AG de #BNP_Paribas afin d’exhorter la banque à stopper tout financement, direct ou indirect, aux entreprises qui développent de nouveaux projets fossiles (à commencer par TotalEnergies). Notre intervention a de nouveau déclenché les huées des actionnaires, et la direction du groupe refuse toujours de s’engager à stopper de financer la major pétro-gazière française. Le combat continue !

    La vidéo est ici, et vous trouverez plus d’infos dans notre communiqué de presse.

    https://scientifiquesenrebellion.frama.space/s/6BRfL9FHCx6XqSb

  • Comment l’argent de l’UE permet aux pays du Maghreb d’expulser des migrants en plein désert
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/05/21/comment-l-argent-de-l-union-europeenne-permet-aux-pays-du-maghreb-de-refoule

    Comment l’argent de l’UE permet aux pays du Maghreb d’expulser des migrants en plein désert
    Par Nissim Gasteli (Tunis, correspondance), Maud Jullien (Lighthouse Reports), Andrei Popoviciu (Lighthouse Reports) et Tomas Statius (Lighthouse Reports)
    s des droits humains et avec le renfort de moyens européens.
    A Rabat, au Maroc, Lamine (toutes les personnes citées par un prénom ont requis l’anonymat), un jeune Guinéen, a été arrêté six fois par la police, en 2023, avant d’être renvoyé sans ménagement à l’autre bout du pays. En Mauritanie, Bella et Idiatou, également guinéennes, ont été abandonnées en plein désert après avoir été interpellées, puis incarcérées. Leur crime ? Avoir pris la mer pour tenter de rejoindre l’Espagne. En Tunisie, François, un Camerounais, s’est orienté comme il a pu après que les forces de sécurité l’ont lâché, au beau milieu des montagnes, près de la frontière avec l’Algérie. C’était la troisième fois qu’il était déporté en l’espace de quelques mois.
    Ces trois récits de personnes migrantes se ressemblent. Ils se déroulent pourtant dans trois Etats différents du nord de l’Afrique. Trois pays distincts qui ont en commun d’être les étapes ultimes des principales routes migratoires vers l’Europe : celle de la Méditerranée centrale, qui relie les côtes tunisiennes à l’île italienne de Lampedusa ; celle de la Méditerranée occidentale, qui part du Maghreb vers l’Espagne ou encore la route dite « Atlantique », qui quitte les rivages du Sénégal et du Sahara occidental pour rejoindre les îles Canaries.
    Pour cette raison, le Maroc, la Tunisie et la Mauritanie ont aussi en commun de faire l’objet de nombreuses attentions de l’Union européenne (UE) dans la mise en place de sa politique de lutte contre l’immigration irrégulière. Alors que la question migratoire crispe les opinions publiques et divise les Etats membres sur fond de montée de l’extrême droite dans de nombreux pays, l’Europe mobilise d’importants moyens pour éviter que les Subsahariens candidats à l’exil ne parviennent jusqu’à la mer. Au risque que l’aide apportée aux gouvernements du Maghreb participe à des violations répétées des droits humains.
    Depuis 2015, les trois Etats ont perçu plus de 400 millions d’euros pour la gestion de leurs frontières, rien que par l’entremise du fonds fiduciaire d’urgence (FFU), lancé par l’UE lors du sommet sur la migration de La Valette, capitale de Malte. Une somme à laquelle s’ajoutent des aides accordées directement par certains Etats membres ou relevant d’autres programmes. En juillet 2023, l’UE a encore signé un accord avec la Tunisie, qui inclut une aide de 105 millions d’euros pour lutter contre l’immigration irrégulière. Peu de temps avant, le 19 juin, le ministre de l’intérieur français, Gérald Darmanin, en déplacement à Tunis, s’était engagé à verser plus de 25 millions d’euros à Tunis pour renforcer le contrôle migratoire. Plus récemment, le 8 février, la présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen, annonçait de Nouakchott la signature d’un soutien financier pour 210 millions d’euros à destination de la Mauritanie, dont une partie serait allouée à la « gestion des migrations ».
    A travers quelles pratiques ? Au terme de près d’un an d’enquête, Le Monde, le média à but non lucratif Lighthouse Reports et sept médias internationaux partenaires ont pu documenter pour la première fois le recours à des arrestations massives et à des expulsions collectives dans ces trois Etats. Au Maroc, en 2023, près de 59 000 migrants auraient été interpellés sur le territoire par les forces de sécurité, d’après un décompte officiel. Une partie d’entre eux ont été déportés vers le sud et vers l’intérieur du pays comme à Agadir, Khouribga, Errachidia, Béni Mellal. En Mauritanie, plusieurs bus rejoignent chaque semaine les étendues arides de la frontière avec le Mali et y abandonnent des groupes de migrants sans ressources. En Tunisie, ce sont onze renvois collectifs vers les frontières libyenne et algérienne, organisés par les forces de sécurité entre juillet 2023 et mai 2024, que nous avons pu documenter grâce à des témoignages, des enregistrements audio et vidéo. Une pratique aux conséquences dramatiques : au moins 29 personnes auraient péri dans le désert libyen, selon un rapport de la mission d’appui des Nations unies en Libye, paru en avril.
    Des migrants subsahariens abandonnés par la police tunisienne sans eau ni abri, dans le désert, non loin de la ville frontalière libyenne d’Al-Assah, le 16 juillet 2023.
    Interrogé sur le cas tunisien, en marge du discours sur l’état de l’Union devant le Parlement européen, le 15 septembre, le vice-président de la Commission européenne, le Grec Margaritis Schinas, assurait : « [Ces pratiques] ne se déroulent pas sous notre surveillance, et ne font pas partie de nos accords. L’argent européen ne finance pas ce genre de tactiques. » Notre enquête démontre le contraire.
    En Tunisie, des pick-up Nissan utilisés par la police pour arrêter les migrants correspondent à des modèles livrés par l’Italie et l’Allemagne entre 2017 et 2023. Au Maroc, les forces auxiliaires de sécurité, à l’origine de nombreuses arrestations, reçoivent une partie de l’enveloppe de 65 millions d’euros alloués par l’UE au royaume chérifien, entre 2017 et 2024, pour le contrôle de la frontière. En Mauritanie, les Vingt-Sept financent, dans les deux principales villes du pays et pour une enveloppe de 500 000 euros, la reconstruction de deux centres de rétention. Ceux-là mêmes où des migrants sont enfermés avant d’être envoyés dans le désert, acheminés dans des pick-up Toyota Hilux en tout point similaires à ceux livrés par l’Espagne en 2019. Des exemples, parmi d’autres, qui démontrent que ces opérations, contraires à la Convention européenne des droits de l’homme, bénéficient du soutien financier de l’UE et de ses Etats membres.
    Lamine, 25 ans, connaît les rues de Rabat comme sa poche. Le jeune homme, natif de Conakry, est arrivé au Maroc en 2017 « pour suivre une formation » de cuisine, relate-t-il lorsque nous le rencontrons, en octobre 2023, dans le quartier de Takaddoum, devenu le lieu de passage ou d’installation des migrants. Le jeune homme est enregistré auprès du Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR) comme demandeur d’asile, ce qui est censé le protéger d’une expulsion.
    Au fil des années, Lamine s’est habitué aux « rafles » quotidiennes par les forces auxiliaires de sécurité marocaines visant des migrants comme lui. A Takaddoum, nombreux sont ceux qui assurent avoir été témoins de l’une de ces arrestations de ressortissants subsahariens. « Tous les Blacks savent que s’ils sortent entre 10 et 20 heures, ils risquent de se faire embarquer », ajoute Mafa Camara, président de l’Association d’appuis aux migrants mineurs non accompagnés. Une affirmation « sans fondement », selon le ministère de l’intérieur marocain. Sollicité, le HCR confirme qu’« il arrive parfois que les réfugiés et les demandeurs d’asile soient arrêtés ». La suite est également connue : les personnes sont amenées dans des bâtiments administratifs faisant office de centres de rétention, avant d’être transférées dans un commissariat de la ville où des bus viennent les récupérer. Elles sont alors déportées, le plus souvent dans des zones reculées ou désertiques. Ce harcèlement serait un des maillons essentiels de la stratégie du royaume pour lutter contre l’immigration irrégulière. « Le but est bien sûr de rendre la vie des migrants difficile, soutient un consultant requérant l’anonymat. Si l’on vous emmène dans le Sahara deux fois, la troisième, vous voulez rentrer chez vous. » L’homme, qui a participé au Maroc à plusieurs projets de développement financés par l’UE, soutient que les autorités marocaines agissent de la sorte pour justifier les nombreux financements européens qu’elles reçoivent, dont 234 millions d’euros uniquement du FFU. « La relocalisation des migrants vers d’autres villes est prévue par la législation nationale. Elle permet de les soustraire aux réseaux de trafic et aux zones dangereuses », oppose, de son côté, le ministère de l’intérieur marocain.
    Début 2023, Rabat soutenait avoir empêché plus de 75 000 départs vers l’Europe, dont 59 000 sur son territoire et 16 000 en mer. En 2023, Lamine, lui, a été arrêté à six reprises avant d’être envoyé à l’autre bout du pays.
    Pendant plusieurs jours, nous avons suivi et filmé les minivans des forces auxiliaires qui sillonnent les rues de Rabat. Des témoignages, des vidéos et des enregistrements audio réunis par ailleurs attestent de l’ampleur du phénomène de harcèlement des migrants de Tanger à Fès, de Nador à Laayoune. Au cours de notre enquête, nous avons pu identifier deux types de véhicules utilisés pour ces opérations, achetés grâce à des financements européens. Comme ces utilitaires Fiat Doblo, visibles sur une vidéo d’arrestation de migrants, diffusée en mai 2021 à la télévision marocaine, identiques à ceux d’un lot acheté à partir de 2019 grâce au FFU. Ou ces 4 × 4 Toyota Land Cruiser, utilisés lors d’arrestations dont les images ont été diffusées sur les réseaux sociaux, et qui correspondent aux modèles achetés par l’Espagne, puis par l’Europe dans le cadre du FFU.
    Au Maroc, les forces auxiliaires de sécurité, à l’origine de nombreuses arrestations, filmées à Rabat, le 19 octobre 2023.
    Au Maroc, les forces auxiliaires de sécurité, à l’origine de nombreuses arrestations, filmées à Rabat, le 19 octobre 2023.
    Lors de ces arrestations collectives, le mode opératoire est toujours identique : deux minivans blancs stationnent dans un quartier fréquenté par des migrants, tandis que plusieurs agents en civil se mêlent à la foule. Ils contrôlent, puis appréhendent les migrants, avant de les faire monter dans les véhicules. Une vingtaine de personnes, que nous avons interrogées, assurent avoir été témoins ou victimes de violences policières lors de ces arrestations.
    Le 19 octobre 2023 à l’occasion d’une opération que nous avons documentée, un bus des forces auxiliaires a pris la direction de Khouribga, une bourgade à 200 kilomètres au sud de Rabat. En pleine nuit, les officiers ont déposé une dizaine de jeunes hommes à l’entrée de la petite ville. Ces derniers ont ensuite marché vers la gare routière, avant de rejoindre un petit groupe de migrants, eux-mêmes déportés quelques jours plus tôt. Parmi eux, Aliou, un Guinéen de 27 ans, affirme avoir été déplacé de la sorte « près de 60 fois » depuis son arrivée au Maroc, en 2020.

    C’est une valse incessante qui se joue ce 25 janvier, en fin de matinée, devant le commissariat du quartier de Ksar, à Nouakchott. Des véhicules vont et viennent. A l’intérieur de l’un d’eux – un minibus blanc –, une dizaine de migrants, le visage hagard. A l’arrière d’un camion de chantier bleu, une cinquantaine d’exilés se cramponnent pour ne pas basculer par-dessus bord. Tous ont été arrêtés par la police mauritanienne. Chaque jour, ils sont des centaines à découvrir l’intérieur décrépi de ces petits baraquements ocre. Cette étape ne dure que quelques jours au plus. « Il y a plusieurs bus par semaine qui partent vers le Mali », confirme un visiteur du commissariat faisant office de centre de rétention.
    Sur ces images filmées en Mauritanie, en caméra cachée, plus d’une dizaine de migrants sont sur le point d’être déposés devant le centre de rétention de Ksar, à Nouakchott, avant d’être déportés loin de la ville, le 25 janvier 2024.
    Sur ces images filmées en Mauritanie, en caméra cachée, plus d’une dizaine de migrants sont sur le point d’être déposés devant le centre de rétention de Ksar, à Nouakchott, avant d’être déportés loin de la ville, le 25 janvier 2024. Certains migrants ont été appréhendés dans les rues de Nouakchott. « Le bus des policiers se promène dans les quartiers où vivent les migrants, comme le Cinquième [un quartier à l’ouest de Nouakchott], témoigne Sady, un Malien arrivé en Mauritanie en 2019. Les policiers entrent dans les boutiques. Ils demandent aux gens : “Tu es étranger ?” Puis ils les emmènent. A chaque fois, j’ai vu des gens se faire frapper, maltraiter. On vit avec la crainte de ces refoulements. »
    « Les éventuelles interpellations concernant les étrangers en situation irrégulière se font conformément aux conventions, lois et règlements en vigueur, sans arbitraire ni ciblage de zones ou de quartiers spécifiques », assure le porte-parole du gouvernement mauritanien, Nani Ould Chrougha. Bella et Idiatou ont, quant à elles, été interceptées en mer par des gardes-côtes, lors d’une tentative de traversée en direction des îles Canaries, confettis d’îles espagnoles à plusieurs centaines de kilomètres des côtes africaines. Le traitement qui leur a été réservé est le même que pour les autres migrants, alors qu’elles bénéficiaient d’un titre de séjour mauritanien : une expulsion manu militari vers les frontières sud du pays. « Des expulsions vers le Sénégal et le Mali, sur des bases raciales, ont eu lieu entre 1989 et 1991, souligne Hassan Ould Moctar, spécialiste des questions migratoires. Mais les demandes répétées de l’Union européenne en matière migratoire ont réactivé cette dynamique. »Pour Bella et Idiatou comme pour Sady, la destination finale est Gogui, à la frontière malienne, une zone désertique à plus de 1 000 kilomètres de Nouakchott. « Ils nous ont jetés hors du bus, puis ils nous ont poussés vers la frontière. Ils nous ont chassés comme des animaux et ils sont partis », raconte, révoltée, Idiatou, quand nous la rencontrons au Sénégal, où elle a trouvé refuge. Ce récit, neuf migrants au total l’ont confié au Monde. Sady, qui vivait à Nouakchott grâce à des petits boulots, a été repoussé deux fois. Selon un document interne du HCR, que Le Monde a consulté, plus de 300 personnes dénombrées par le Haut-Commissariat ont fait l’objet du même traitement en 2023. La majorité d’entre elles assurent avoir été victimes de violations des droits humains. Sollicité, un porte-parole du HCR confirme avoir « reçu des rapports faisant état de cas de refoulement vers le Mali » et « plaider auprès des autorités mauritaniennes pour mettre fin à de telles pratiques ». « Les migrants en situation irrégulière sont reconduits aux postes-frontières officiels de leur pays de provenance », se défend le porte-parole du gouvernement mauritanien, selon lequel le procédé est conforme à la loi et réalisé en assurant une « prise en charge totale – nourriture, soins de santé, transport ». La Mauritanie est depuis quinze ans l’un des verrous des routes migratoires qui mènent en Espagne. D’après notre décompte, sans inclure l’argent promis début 2024, plus de 80 millions d’euros ont été investis par l’UE dans le pays depuis 2015, destinés surtout au renforcement des frontières, à la formation des effectifs de police ou encore à l’achat de véhicules. Les groupes d’action rapide-surveillance et intervention (GAR-SI), des unités d’élite financées par l’UE dans plusieurs pays du Sahel à travers le FFU, ont également fait partie du dispositif. En 2019, ils ont ainsi livré à la police mauritanienne 79 personnes appréhendées sur le territoire, d’après un document interne de l’UE. Un rapport non public de l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), daté de février 2022, mentionne qu’une bonne partie de leurs effectifs – plus de 200 hommes – a été déployée à Gogui pour des missions de « surveillance frontalière ».
    En outre, plusieurs véhicules utilisés pour assurer les expulsions de Nouakchott vers le sud du pays correspondent à des modèles livrés par des Etats membres. Comme ces pick-up Toyota Hilux fournis par l’Espagne, « pour la surveillance du territoire ou la lutte contre l’immigration irrégulière ». Depuis 2006 et en vertu d’un accord bilatéral de réadmission de migrants entre les deux pays, une cinquantaine de policiers espagnols sont déployés en permanence à Nouakchott et à Nouadhibou, les deux principales villes du pays. Des moyens techniques, dont des bateaux, sont également mis à disposition. En 2023, près de 3 700 interceptions en mer ont ainsi été réalisées par des patrouilles conjointes, d’après un décompte du ministère de l’intérieur espagnol, consulté par Le Monde. Plusieurs sources policières et un visiteur des centres de rétention mauritaniens attestent de la présence fréquente de policiers ibériques à l’intérieur. Bella et Idiatou assurent avoir été prises en photo par ces derniers au commissariat de Nouakchott. Interrogée sur ce point, l’agence espagnole Fiiapp, principal opérateur de ces projets de coopération policière, a nié la présence d’agents dans le centre de rétention. Les autorités mauritaniennes, quant à elles, ont confirmé l’existence d’« échange d’informations dans le domaine de la lutte contre l’immigration clandestine », mais « dans le respect de la vie privée des personnes et de la protection de leurs données personnelles ». Selon un autre document du HCR, daté de janvier 2023, des migrants rapportent que les Espagnols ont participé aux raids les visant. « Parfois, ils essayaient même d’expulser des gens qu’on avait identifiés comme réfugiés », se souvient un salarié de l’agence, que nous avons interrogé. « Notre équipe de policiers sur le terrain n’est pas au courant de telles pratiques », assure la Fiiapp. Quand le ministère de l’intérieur espagnol se borne à répondre que ses effectifs travaillent « dans le respect des droits de l’homme, et en accord avec la législation nationale et internationale ».
    Un matin de novembre 2023, dans la ville tunisienne de Sfax, Moussa, un demandeur d’asile camerounais de 39 ans, et son cousin sortent d’un bureau de poste lorsqu’ils sont interpellés par les autorités. En quelques heures, les deux hommes se retrouvent à la frontière libyenne, remis aux mains d’une milice, puis enfermés dans l’un des centres de détention pour migrants du pays. Pendant plusieurs mois, ils subissent des violences quotidiennes.
    Selon la Mission d’appui des Nations unies en Libye (Manul), près de 9 000 personnes ont été « interceptées » depuis l’été 2023 par les autorités de Tripoli, à la frontière tunisienne. Dans une note interne que nous avons consultée, la Manul déplore des « expulsions collectives » et des « retours forcés sans procédure », exposant les migrants à de « graves violations et abus des droits humains, avec des cas confirmés d’exécution extrajudiciaire, de disparition, de traite, de torture, de mauvais traitement, d’extorsion et de travail forcé ». « Ils repartent d’où ils viennent, car ils causent des problèmes », justifie, sous le couvert de l’anonymat, un agent de la garde nationale. Sollicité, le ministère des affaires étrangères tunisien réfute les accusations d’« expulsion de migrants d’origine subsaharienne vers des zones désertiques », les qualifiant d’« allégations tendancieuses ».
    Dès le 7 juillet 2023, Frontex, l’agence européenne de garde-frontières, est pourtant informée – selon un rapport interne dont nous avons pris connaissance – de ces « opérations » consistant à « conduire des groupes de ressortissants subsahariens jusqu’à la frontière [de la Tunisie] avec la Libye et l’Algérie, en vue de leur refoulement ». Frontex ajoute que ces opérations sont surnommées sur les réseaux sociaux « ménage de blacks ». Une source européenne anonyme, au fait du dossier, veut croire qu’« aucune ressource provenant de l’UE n’a contribué à ce processus [d’expulsion] », mais reconnaît toutefois qu’il est « très difficile de tracer une limite, car [l’UE soutient] les forces de sécurité ».
    Utilisation de ressources européennes
    Depuis une dizaine d’années, de fait, l’UE participe au renforcement de l’appareil sécuritaire tunisien, d’abord à des fins de lutte contre le terrorisme, puis contre l’immigration irrégulière. Jusqu’en 2023, elle a investi plus de 144 millions d’euros dans la « gestion des frontières », auxquels s’ajoutent les aides directes des Etats membres, permettant l’achat d’équipements comme ​​des navires, des caméras thermiques, des radars de navigation… Près de 3 400 agents de la garde nationale tunisienne ont par ailleurs reçu des formations de la part de la police fédérale allemande entre 2015 et août 2023 ; et deux centres d’entraînement ont été financés par l’Autriche, le Danemark et les Pays-Bas, à hauteur de 8,5 millions d’euros.
    L’enquête du Monde et de ses partenaires montre que certaines de ces ressources ont directement été utilisées lors d’expulsions. Ainsi, Moussa a formellement identifié l’un des véhicules dans lequel il a été déporté vers la Libye : un pick-up Navara N-Connecta blanc du constructeur Nissan – modèle analogue aux 100 véhicules offerts à la Tunisie par l’Italie, en 2022 pour « lutter contre l’immigration irrégulière et la criminalité organisée ». A Sfax, en Tunisie, ces véhicules utilisés par la police lors d’une arrestation collective sont du même modèle que ceux fournis par l’Italie en 2022, comme le montre un document nos équipes se sont procuré.
    En 2017, le gouvernement allemand avait, lui aussi, offert à la Tunisie 37 Nissan Navara, en plus d’autres équipements, dans le cadre d’une aide à la « sécurisation des frontières ». Deux vidéos publiées sur les réseaux sociaux, et que nous avons vérifiées, montrent également l’implication des mêmes véhicules dans les opérations d’arrestation et d’expulsion menées par les autorités tunisiennes dans la ville de Sfax. Contacté, le ministère de l’intérieur allemand s’est dit attaché « à ce que les équipements remis dans le cadre de la coopération bilatérale soient utilisés exclusivement aux fins prévues », tout en estimant que les véhicules décrits par notre enquête sont « très répandus en Afrique ». Les autorités italiennes n’ont pas répondu à nos sollicitations.
    En dépit de la situation, largement relayée par la presse, de centaines de migrants repoussés dans les zones frontalières du pays, l’UE a signé, le 16 juillet 2023, un mémorandum d’entente avec la Tunisie, devenue le premier point de départ des migrants vers le continent. Un accord érigé en « modèle » par Mme von der Leyen. La médiatrice européenne, Emily O’Reilly, a toutefois ouvert une enquête sur ce mémorandum : « Le financement de l’UE (…) ne doit pas soutenir les actions ou mesures susceptibles d’entraîner des violations des droits de l’homme dans les pays partenaires », a rappelé Mme O’Reilly à Mme von der Leyen, dans une lettre rendue publique le 13 septembre 2023.
    « Les Etats européens ne veulent pas avoir les mains sales. Ils sous-traitent donc à des Etats tiers des violations des droits de l’homme, estime, pour sa part, Marie-Laure Basilien-Gainche, professeure de droit public à l’université Jean-Moulin-Lyon-III. Mais, du point de vue du droit, ils pourraient être tenus pour responsables. » La Commission européenne nous informe par la voix d’un porte-parole que « l’UE attend de ses partenaires qu’ils remplissent leurs obligations internationales, y compris le droit au non-refoulement » et que « tous les contrats de l’UE contiennent des clauses relatives aux droits de l’homme permettant à la Commission d’ajuster leur mise en œuvre si nécessaire ». Or, des documents que nous nous sommes procurés attestent de la connaissance que les instances de l’UE ont de ces arrestations et de ces déportations collectives. Une décision de la Commission européenne, de décembre 2019, à propos des financements de l’UE au Maroc, fait par exemple référence à une « vaste campagne de répression » contre des migrants subsahariens, se traduisant par des arrestations et des expulsions « illégales » dans des zones reculées. Dans un rapport finalisé en 2019, la Cour des comptes européenne s’inquiétait, déjà, de l’opacité avec laquelle les fonds attribués par les Vingt-Sept aux autorités marocaines étaient utilisés, ainsi que du manque de « procédures de contrôle ».
    En Mauritanie, plusieurs officiels du HCR, de l’OIM ou des forces de police espagnoles confient avoir connaissance de la pratique d’expulsion en plein désert. Des éléments repris dans un rapport et une recommandation du Parlement européen datés de novembre 2023 et janvier 2024. Alors que le déploiement de Frontex en Mauritanie est en cours de discussion, l’agence rappelait, en 2018, dans un guide de formation à l’analyse de risques, destiné aux Etats africains partenaires dans la lutte contre l’immigration irrégulière, que la « charte africaine des droits de l’homme et des peuples interdit les arrestations ou détentions arbitraires ». En dépit de cette attention, Frontex a ouvert une cellule de partage de renseignement à Nouakchott, dès l’automne 2022, et procédé à la formation de plusieurs policiers. Parmi eux se trouvent plusieurs agents en poste au centre de rétention de Nouakchott. Celui-là même par lequel transitent chaque jour des migrants victimes de déportation collective.

    #Covid-19#migrant#migrant#UE#tunie#maroc#mauritanie#espagne#frontex#oim#hcr#droit#sante#refoulement#violence#migrationirreguliere#politiquemigratoire#routemigratoire

  • En Tunisie, des migrants camerounais interceptés en mer et abandonnés à la frontière algérienne
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/05/21/en-tunisie-des-migrants-camerounais-interceptes-en-mer-et-abandonnes-a-la-fr

    En Tunisie, des migrants camerounais interceptés en mer et abandonnés à la frontière algérienne
    Par Nissim Gasteli (Tunis, correspondance)#
    Une longue coque blanche de 35 mètres surmontée d’une cabine à deux étages : François, un Camerounais de 38 ans qui préfère ne pas donner son nom complet, reconnaît immédiatement l’un des douze patrouilleurs de la garde nationale tunisienne, offerts par l’Italie en 2014, et dont la maintenance est toujours assurée par Rome. Le don, d’une valeur de 16,5 millions d’euros, a permis aux autorités tunisiennes de renforcer le contrôle de leur frontière maritime avec l’Union européenne (UE).
    Rencontré dans un appartement de Tunis par Le Monde, qui a enquêté avec le média à but non lucratif Lighthouse Reports et sept médias internationaux sur les violations des droits humains subies par des migrants dans les pays du Maghreb, parfois avec des moyens alloués par des pays de l’UE, François raconte.
    Les yeux rivés sur l’écran d’un téléphone qui affiche une image du bateau, il se souvient s’être retrouvé à bord, avec sa compagne, Awa, et l’enfant de cette dernière, Adam, un matin de septembre 2023, alors qu’ils tentaient de rejoindre l’île italienne de Lampedusa à bord d’un petit rafiot. Des semi-rigides rapides interceptaient des embarcations de migrants avant de les transborder sur le patrouilleur. Celui-ci finissait par revenir au port de Sfax, « pour déposer » les migrants. Débarquée, la petite famille a été abandonnée la nuit suivante par la même garde nationale dans une zone montagneuse et désertique, à la frontière algérienne, avec près de 300 personnes, réparties en petits groupes, toutes ressortissantes d’Afrique. « Lorsqu’ils nous ont déposés, [les agents] nous ont dit : “Là-bas, c’est l’Algérie, suivez la lumière. Si on vous voit à nouveau ici, on vous tirera dessus.” » Le groupe d’une vingtaine de personnes, parmi lesquelles des hommes, des femmes dont deux sont enceintes et un enfant, s’exécute, mais se heurte immédiatement à des « tirs de sommation du côté algérien ». Ils font alors demi-tour.
    Pendant neuf jours, ils sont contraints de marcher à travers les montagnes, de dormir à même le sol, avant de regagner la ville de Tajerouine, dans l’ouest du pays, raconte François, données GPS et photos à l’appui. « Après une semaine sans sommeil, sans manger, vous commencez à perdre l’équilibre, vous êtes proche de la mort », dit-il froidement, évoquant les douleurs « aux articulations, aux pieds, au dos, aux hanches, aux chevilles » et des « hallucinations » à cause de la déshydratation.
    La première fois que Le Monde l’a rencontré, début octobre 2023, dans la localité côtière d’El Amra, François revenait de cet enfer. Depuis, l’homme a encore été expulsé à deux reprises. En novembre, il est arrêté avec d’autres migrants à El Amra. Frappés à coup de « gourdin, de chaîne, de matraque » et dépouillés de tous leurs biens par des agents de la garde nationale, ils sont finalement expulsés au milieu des « dunes de sable », dans le désert du gouvernorat de Tozeur, raconte le Camerounais.
    Revenu dans la région de Sfax quelques jours après, François tente une troisième fois, fin décembre, la traversée vers l’Europe. Mais le même scénario se répète : son bateau est arraisonné par la garde nationale. « Je savais exactement ce qui allait se passer. Le même film recommence : nous sommes ramenés à Sfax, menacés, dépouillés, mis dans des bus. » François et Adam – Awa n’ayant pas réussi à embarquer sur le rafiot – sont à nouveau expulsés, avec des centaines de personnes, réparties en petits groupes, selon ses dires.
    Ils se retrouvent ainsi près de la ville frontalière de Haïdra avec une quinzaine de personnes. Parmi elles, une femme « appelle un de ses contacts » : un homme qui vient les chercher en camionnette pour les ramener jusqu’à Sfax. Mais, à leur arrivée, ils sont déposés dans une maison et faits prisonniers. « Nous nous sommes retrouvés entre les mains d’hommes armés de machettes et de gourdins. Ils nous ont fait comprendre que nous devions payer [pour être libérés]. »
    Profitant de la vulnérabilité des migrants, des groupes criminels composés de Tunisiens et de migrants subsahariens prolifèrent dans le pays, s’enrichissant grâce à l’extorsion : la famille de François a dû verser une rançon de 300 euros, envoyée par une application mobile, pour qu’ils soient libérés, avec l’enfant, au bout d’une semaine. Par la suite, François a de nouveau été enlevé par l’un de ces groupes alors qu’il se trouvait dans un appartement qu’il louait à Sfax. Il a alors subi la torture à « coups de câbles électriques ». Des photos de lui, nu, sont envoyées à sa famille au Cameroun pour la convaincre de payer de nouveau une rançon avant qu’il parvienne à s’échapper par une fenêtre laissée ouverte. Epuisé par tant de souffrances, François a reconsidéré son rêve d’Europe.
    Contacté, le ministère tunisien des affaires étrangères réfute les accusations d’« expulsion de migrants d’origine subsaharienne vers des zones désertiques », les qualifiant d’« allégations tendancieuses » qui « n’engagent que leurs auteurs ». Les autorités italiennes n’ont pas répondu à nos sollicitations.

    #Covid-19#migration#migrant#migrationirreguliere#tunisie#subsaharien#sfax#UE#routemigratoire#desert#droit#violence#sante#algerie#maghreb#refoulement

  • Bluetooth temperature humidity data logger for warehousing

    Warehousing is used for the storage of food, medicine, chemicals, and other items. Many items are sensitive to temperature and humidity, so warehousing generally requires temperature and humidity control and temperature and humidity monitoring. Bluetooth temperature humidity data logger is very suitable for warehouse temperature and humidity monitoring. It can realize real-time understanding of warehouse temperature and humidity changes through mobile apps, detect abnormalities in time, and make temperature adjustments.

    The BlueTag TH30 Bluetooth temperature humidity data logger developed by Freshliance has the characteristics of a small footprint, stable operation, and high accuracy. By connecting the device through the Tkeeper APP provided by Freshliance, you can remotely read real-time temperature and humidity data and historical data on the free APP at any time. Some storage spaces are large. To better monitor the ambient temperature and humidity, multiple Bluetooth temperature humidity sensor are required to monitor and record at the same time. The Freshliacne Bluetooth temperature recorder can connect to countless mobile APPs, and one mobile APP can connect to countless devices. The linkage is stronger and can improve the efficiency of warehousing environment management. The Bluetooth temperature humidity sensor can connect to gateway devices as needed to adapt to more application environments.

    Currently, the Bluetooth temperature humidity data logger provided by Freshliance is widely used in warehouses, hospitals, museums, laboratories, wine cellars, and other places. It can accurately monitor and record environmental temperature and humidity with high accuracy. It can be viewed and generated through the mobile phone during the entire working process. Humidity report, easy to operate and cost-effective.
    #temperaturehumidity #Bluetooth #warehousing

    https://www.wirelesstemplogger.com/bluetag-th30b-th30r-bluetooth-temperature-humidity-data-logger

  • Perché serve mappare i “segni” del fascismo presenti nelle nostre città

    Targhe, intitolazioni e monumenti. I “resti” del regime ancora evidenti sul territorio italiano sono stati raccolti in una piattaforma online dall’Istituto nazionale Ferruccio Parri. Ma tocca alla cittadinanza decidere in che modo agire per dargli un nuovo senso.

    Nell’atrio della questura di Trieste è impossibile non vedere una lapide che ricorda i nomi dei poliziotti caduti nel compimento del proprio dovere. Nell’elenco compare anche quello di Gaetano Collotti e di altri agenti che tra il 1942 e il 1945 avevano fatto parte dell’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza incaricato alla repressione di partigiani e antifascisti. A Corigliano Calabro, in provincia di Cosenza, c’è ancora una via intitolata a Emilio De Bono, gerarca della prima ora e quadrumviro della Marcia su Roma. All’imbocco della galleria ferroviaria tra Ibla e Ragusa (RG) è ancora visibile la scritta: “Duce, i nostri caduti di guerra saranno vendicati”. Per non parlare dell’imponente obelisco all’ingresso del Foro italico di Roma, con le scritte “Mussolini” e “Dux”.

    Sono solo alcuni esempi -piccoli e grandi- dei molti luoghi dove ancora oggi è possibile trovare tracce del passato fascista dell’Italia, raccolti dai ricercatori dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri (che coordina la rete degli istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea in Italia) in una mappa online nell’ambito del progetto “I luoghi del fascismo” e che è possibile approfondire attraverso singole schede dedicate a ciascuna targa, intitolazione o monumento censito. “Il fascismo aveva un’idea molto chiara del fatto che il controllo politico del territorio passava necessariamente anche attraverso l’intitolazione di strade e monumenti -spiega Giulia Albanese, professoressa di Storia contemporanea presso l’Università di Padova e coordinatrice del progetto-. La forza di questo impatto, tuttavia, non è mai stata oggetto di una riflessione ampia da parte della classe dirigente dell’Italia repubblicana”.

    Il progetto affonda le sue radici in una discussione all’interno della rete degli Istituti per la storia della Resistenza rispetto ai simboli del regime ancora evidenti sul territorio. “A innescare questo percorso, nel 2018, fu il dibattito attorno alla possibile istituzione di un museo del fascismo a Predappio -ricorda Albanese-. La mia proposta fu quella di ragionare in maniera complessiva su quali fossero i luoghi commemorativi ancora presenti oggi in Italia e così, pur tra molte difficoltà, abbiamo dato il via alla mappatura”.

    Nel database e nella mappa sono stati inseriti monumenti e lapidi, scritte, intitolazioni di scuole e di vie che commemorano personaggi ed episodi legati al fascismo, sia a livello nazionale sia locale. Per individuarli è stato necessario applicare alcuni criteri: “Il territorio italiano è pieno di opere architettoniche che nel dopoguerra sono state utilizzate per altri scopi: noi abbiamo scelto di includere solo quelle che avevano forti segni commemorativi ancora visibili”, spiega Albanese. Un’analoga selezione è stata fatta per le vie che portano il nome di protagonisti o di luoghi legati al colonialismo italiano: in questo caso la scelta è stata di inserire solo quelle intitolate dopo il 1922, anno della presa del potere da parte di Mussolini. Il lavoro ha portato non solo alla creazione del sito (che può essere costantemente aggiornato ed è possibile inviare le proprie segnalazioni grazie a un apposito form) ma anche alla pubblicazione del volume “I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione” (Viella, 2022): una raccolta di saggi a firma di diversi autori che approfondiscono vari aspetti del tema.

    Da un punto di vista temporale parte di questi monumenti e di queste intitolazioni risalgono agli anni Venti e Trenta del Novecento e non sono stati rimossi con la caduta del regime. “Dopo il 1945 ci sono state alcune indicazioni in tal senso dalla presidenza del Consiglio dei ministri -ricorda Albanese- ma in generale la questione è stata demandata alle autorità, alle sensibilità e alle culture politiche locali. Nel nostro Paese è mancata una riflessione collettiva su che cosa fare con questo patrimonio e come agire per costruire un segno dell’Italia repubblicana sul nostro territorio”. Non solo: anche dopo il 25 aprile 1945 ci sono state nuove intitolazioni. “Questo è legato alla normalizzazione e alla banalizzazione dell’esperienza fascista, soprattutto nell’immediato dopoguerra. Poi, tra gli anni Ottanta e Novanta, assistiamo al ritorno nell’odonomastica di una serie di figure legate alla memoria di quel periodo storico e alla Repubblica sociale italiana, che fino a quel momento erano assenti -riprende Albanese-. Questa fase coincide con l’ascesa politica di Alleanza nazionale che ha fatto sì che alcune figure tornassero in auge. Ma non solo: fu Francesco Rutelli a proporre, nel 1995, di intitolare una strada di Roma a Giuseppe Bottai, già ministro sotto il fascismo. Segno anche di una certa inconsapevolezza di fronte a questi temi del mondo democratico e della sinistra”.

    Che cosa fare, quindi, con questa eredità poco evidente ma decisamente ingombrante? “Il nostro compito, come storici, è stato quello di individuare e mappare i segni commemorativi del fascismo al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica. È arrivato il momento di affrontare questo tema in un’ottica nazionale, superando le polemiche sui singoli episodi come è avvenuto in passato. Accogliere questa consapevolezza, discutere per valutare le opzioni possibili è una scelta politica, che riguarda la polis e il modo con cui questa si relaziona con la propria storia”, sottolinea Albanese. Possibili risposte agli interrogativi su che cosa fare di questi luoghi sono offerte da due episodi di risignificazione. Il primo riguarda l’arco di trionfo costruito a Bolzano nel 1928 per celebrare la “vittoria” italiana della Prima guerra mondiale: nel 2014, contestualmente a un intervento di restauro, è stato inaugurato un percorso espositivo dedicato alla storia della città tra il 1918 e il 1945 che permette agli osservatori di contestualizzare il monumento. Il secondo arriva dal Comune di Palazzolo Acreide (SR) dove nel 1936 venne posta una lapide per ricordare “l’enorme ingiustizia” delle sanzioni comminate all’Italia dalla Società delle Nazioni a seguito dell’invasione dell’Etiopia. “Nel 2014 l’amministrazione comunale ha deciso di non rimuoverla ma di affiancarla a una targa in vetro che esprime la lontananza politica e culturale dagli avvenimenti citati -conclude Albanese-. Questi processi di contestualizzazione storica sono molto efficaci perché aiutano a costruire una condivisione di valori attorno a episodi del passato senza censurarli”.

    https://altreconomia.it/perche-serve-mappare-i-segni-del-fascismo-presenti-nelle-nostre-citta

    #Italie #toponymie_coloniale #toponymie_politique #noms_de_rue

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    ajouté à la métaliste sur l’Italie coloniale:
    https://seenthis.net/messages/871953

  • La memoria rimossa del massacro di Debre Libanos e dell’età coloniale italiana

    Tra il 20 e il 29 maggio 1937 le truppe italiane massacrarono più di duemila monaci e pellegrini al monastero etiope. Una strage che, come altri crimini di guerra commessi nelle colonie, trova spazio a fatica nel discorso pubblico, nonostante i passi fatti da storiografia e letteratura. Con quel passato il nostro Paese non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale.

    “Questo avvocato militare mi ha comunicato proprio in questo momento che habet raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debra Libanos con gli autori dello attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore. Prego farmi assicurazione comunicandomi il numero di essi”.

    È il 19 maggio 1937. Con queste poche parole Rodolfo Graziani, “viceré d’Etiopia”, dà il via al massacro dei monaci di Debre Libanos, uno dei monasteri più importanti del Paese, il cuore della chiesa etiopica. Solo tre mesi prima Graziani era sopravvissuto a un attentato da parte di due giovani eritrei, ex collaboratori dell’amministrazione coloniale italiana, che agirono isolatamente, seppur vicini alla resistenza anti-italiana. La reazione fu spietata: tra il 19 e il 21 febbraio le truppe italiane, appoggiate dai civili e dalle squadre fasciste, uccisero quasi 20mila abitanti di Addis Abeba.

    Le violenze proseguirono per mesi e si allargarono in tutta la regione dello Scioa fino a raggiungere la città-monastero di Debre Libanos, a circa 150 chilometri dalla capitale etiope dove tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo il più grande eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano.

    “Vennero massacrate circa duemila persone tra monaci e pellegrini perché ritenuti in qualche modo conniventi con l’attentato a Graziani -spiega ad Altreconomia Paolo Borruso, docente di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano e autore del saggio “Debre Libanos 1937” (Laterza, 2020)-. Si è trattato di un vero e proprio crimine di guerra, poiché l’eccidio è stato qualcosa che è andato al di là della logica militare, andando a colpire dei religiosi, peraltro cristiani e inermi”.

    Al pari di molte altre vicende legate al passato coloniale italiano, a partire proprio dal massacro di Addis Abeba, anche la tragica vicenda di Debre Libanos è rimasta ai margini del discorso pubblico. Manca una memoria consapevole sulle responsabilità per gli eccidi e le violenze commesse dagli italiani nel corso della loro “avventura” coloniale per andare alla ricerca di un “posto al sole” in Libia, in Eritrea, Somalia ed Etiopia al pari delle altre nazioni europee, vengono ancora oggi occultate dalla coscienza pubblica.

    “La storiografia, a partire dal lavoro di Angelo Del Boca, ha fatto enormi passi avanti. Non c’è un problema di ricerca storica sul tema, quello che manca, piuttosto, è la conoscenza di quello che è avvenuto in quella fase storica al di là dei circoli degli addetti ai lavori”, puntualizza Valeria Deplano, docente di storia contemporanea all’Università di Cagliari e autrice, assieme ad Alessandro Pes di “Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni” (Carocci, 2024).

    Se da un lato è molto difficile oggi trovare chi nega pubblicamente l’uso dei gas in Etiopia, dall’altro è ancora molto diffusa l’idea che le violenze furono delle eccezioni riconducibili alle decisioni di pochi, dei vertici: il mito degli italiani “brava gente”, dunque, resiste ancora a ben sedici anni di distanza dalla pubblicazione dell’omonimo libro di Angelo Del Boca.

    Che l’Italia non abbia ancora fatto compiutamente i conti con il proprio passato coloniale lo dimostrano, ad esempio, le accese polemiche attorno alle richieste avanzate da attivisti e comunità afro-discendenti per modificare e contestualizzare la toponomastica delle nostre città o per una ri-significazione dei di monumenti che celebrano il colonialismo italiano (ad esempio l’obelisco che celebra i cinquecento caduti italiani nella battaglia di Dogali a Roma, nei pressi della Stazione Termini) (https://altreconomia.it/perche-serve-mappare-i-segni-del-fascismo-presenti-nelle-nostre-citta). Temi che vengono promossi, tra gli altri, dalla rete Yekatit 12-19 febbraio il cui obiettivo è quello contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia e che vorrebbe il riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano.

    “C’è un rifiuto a riconoscere il fatto che i monumenti e le strade intitolate a generali e luoghi di battaglia sono incompatibili con i valori di cui la Repubblica dovrebbe farsi garante”, sottolinea Deplano ricordando come fu proprio nel secondo Dopoguerra che si costruì un racconto del colonialismo finalizzato a separare quello “cattivo” del regime fascista da quello “buono” dell’Italia liberale. Una narrazione funzionale all’obiettivo di ottenere dalle Nazioni Unite un ruolo nella gestione di alcune ex colonie alla fine della Seconda guerra mondiale: se l’Eritrea (la “colonia primigenia”) nel 1952 entra a far parte della Federazione etiopica per decisione dell’Onu, Roma ottenne invece l’Amministrazione fiduciaria della Somalia, esercitando un impatto significativo sulle sorti di quel Paese per decenni.

    “Invece ci fu continuità -sottolinea Deplano-. Furono i governi liberali a occupare l’Eritrea nel 1882 e ad aprire le carceri dove vennero rinchiusi i dissidenti eritrei, a dichiarare guerra all’Impero ottomano per occupare la Libia nel 1911 dove l’Italia fu il primo Paese a utilizzare la deportazione della popolazione civile come arma di guerra. Il fascismo ha proseguito lungo questa linea con ancora maggiore enfasi, applicando in Africa la stessa violenza che aveva già messo in atto sul territorio nazionale”.

    Con quel passato l’Italia non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale. Come ricorda Paolo Borruso in un articolo pubblicato su Avvenire (https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta), Graziani venne condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per i crimini commessi in Africa. Le ex colonie ricevettero indennizzi irrisori e persino gli oggetti sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia non furono mai ritrovati.

    “Gli italiani non possono ricordare solo quelle pagine della loro storia funzionali alla costruzione di un’immagine positiva, serve una consapevolezza nuova”, riflette Borruso. Che mette l’accento anche su una “discrasia pericolosa: da un lato la giusta memoria delle stragi nazi-fasciste commesse ‘in Italia’ e dall’altro la pubblica amnesia sulle violenze commesse ‘dall’Italia’ nelle sue colonie in Africa. Questo distacco dalla storia è molto preoccupante perché lascia la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti, aprendo vuoti insidiosi e facilmente colmabili da slogan e da letture semplificate del passato, fino alla riemersione di epiteti e attributi razzisti, che si pensava superati e che finiscono per involgarire la coscienza civile su cui si è costruita l’Italia democratica”.

    Se agli storici spetta il compito di scrivere la storia, agli scrittori spetta quello di tracciare fili rossi tra passato e presente, portando alla luce memorie sepolte per analizzarle e contestualizzarle. Lo ha fatto, ad esempio, la scrittrice Elena Rausa autrice di “Le invisibili” (Neri Pozza 2024) (https://neripozza.it/libro/9788854529120), un romanzo che si apre ad Addis Abeba, durante la rappresaglia del 1937 per concludersi in anni più recenti e che dà voce a uno dei “reduci” dell’avventura coloniale italiana e a suo figlio. “Ho voluto indagare in che modo le memorie negate dei traumi inflitti o subiti continuano a influenzare l’oggi -spiega ad Altreconomia-. Tutto ciò che non viene raccontato continua a esercitare delle influenze inconsapevoli: si stima che un italiano su cinque abbia nella propria storia familiare dei cimeli legati alle campagne militari per la conquista dell’Eritrea, della Libia, della Somalia e dell’Etiopia. In larga parte sono uomini che hanno fatto o, più facilmente, hanno visto cose di cui pochi hanno parlato”.

    A confermare queste osservazioni, Paolo Borruso richiama il suo ultimo saggio “Testimone di un massacro” (Guerini 2022) (https://www.guerini.it/index.php/prodotto/testimone-di-un-massacro), relativa al diario di un ufficiale alpino che partecipò a numerose azioni repressive in Etiopia, al comando di un reparto di ascari (indigeni arruolati), fino alla strage di Debre Libanos, sia pur con mansioni indirette di sorveglianza del territorio: una testimonianza unica, mai apparsa nella memorialistica coloniale italiana.

    Un altro filo rosso è legato alle date: l’invasione dell’Etiopia da parte delle truppe dell’Italia fascista ebbe inizio il 3 ottobre 1935. Quasi ottant’anni dopo, nel 2013, in quello stesso giorno più di trecento profughi, in larga parte eritrei ed etiopi, perdevano la vita davanti all’isola di Lampedusa. Migranti provenienti da Paesi che hanno con l’Italia un legame storico.

    E se oggi la migrazione segue una rotta che va da Sud verso Nord, in passato il percorso è stato inverso: “Come il protagonista del mio romanzo, anche il mio bisnonno è partito per l’Etiopia, ma non per combattere -racconta-. Migliaia di persone lasciarono l’Italia per lavorare in Etiopia e molti rimasero anche dopo il 1941. Anche in quel caso a partire furono persone che si misero in viaggio alla ricerca di condizioni migliori di vita per sé e per i propri figli. Ricordare anche quella parte di storia migratoria italiana significa riconoscere la radice inconsapevole del nostro modo di guardare chi oggi lascia la propria terra per compiere un viaggio inverso”.

    https://altreconomia.it/la-memoria-rimossa-del-massacro-di-debre-libanos-e-delleta-coloniale-it
    #colonialisme #Italie_coloniale #colonialisme_italien #massacre #Debre_Libanos #monastère #Ethiopie #histoire_coloniale #Rodolfo_Graziani #fascisme #Scioa #violence #crimes_de_guerre #mémoire #italiani_brava_gente #passé_colonial #toponymie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #déportations

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    • Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia

      Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All’eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant’anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858141083
      #livre #Paolo_Borruso

    • Storia. Su Debre Libanos il dovere della memoria è conquista di civiltà

      Dal 21 al 27 maggio 1937 il viceré Graziani fece uccidere duemila etiopi. Un eccidio coloniale a lungo rimosso che chiede l’attenzione delle istituzioni e della storiografia.

      Il nome di Debre Libanos è tristemente legato al più grave crimine di guerra italiano, ordinato dal viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani come rappresaglia per un attentato da cui era sfuggito. È il più antico santuario cristiano dell’Etiopia, meta di pellegrini da tutto il paese. Il 12 Ginbot (20 maggio) ricorre la memoria della traslazione, nel 1370, dei resti di san Tekla Haymanot – fondatore nel XIII secolo della prima comunità monastica in quel sito –: è la festa più sacra dell’anno, particolarmente attesa a Debre Libanos non solo tra i monaci, ma da tutti i cristiani etiopici provenienti da ogni parte del paese. È il giorno di massima affluenza di persone nel monastero. Ed è il motivo che spinse il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani ad una cinica pianificazione fin nei minimi dettagli. Tra il 21 e il 27 maggio 1937 i militari italiani, sotto la guida del generale Pietro Maletti, presidiarono il santuario e prelevarono i presenti, caricandoli a gruppi su camion verso luoghi isolati, dove ebbero luogo le esecuzioni, ordinate ai reparti coloniali musulmani per scongiurare possibili ritrosie degli ascari cristiani di fronte a correligionari. Nonostante le 452 esecuzioni dichiarate da Graziani per cautelarsi da eventuali inchieste, le indagini più recenti attestano un numero molto più alto, compreso tra le 1.800 e le 2.200.

      Sono passati 86 anni da quel tragico episodio, che andò molto al di là di una strategia puramente militare. Un «crimine di guerra», appunto, per il quale i responsabili non furono mai processati. Nel dopoguerra Graziani fu condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per le violenze inflitte in Africa, e scontò solo quattro mesi in seguito ad amnistia, divenendo nel 1952 presidente onorario del Movimento sociale italiano, erede diretto del fascismo.

      Nell’Italia del dopoguerra, le esigenze del nuovo corso democratico spinsero a rimuovere memorie e responsabilità di quella violenta e imbarazzante stagione, potenziali ostacoli ad una sua collocazione nel campo occidentale auspicata da Usa e Inghilterra. Dei risarcimenti previsti dai trattati di pace del ‘47, fu elargita una cifra irrisoria, oltre i termini temporali stabiliti di dieci anni; i beni e arredi sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia, mai ritrovati; unica restituzione, il noto obelisco di Axum, avvenuta nel 2004 (dopo quasi 60 anni!). Paradossalmente, la copertura dell’episodio parve una scelta obbligata anche per l’Etiopia di Haile Selassie, in nome di una ripresa del paese, dopo la fine dell’occupazione coloniale e della guerra mondiale, e di una inedita leadership internazionale negli anni della decolonizzazione, nonostante la persistenza di una ferita profonda mai rimarginata.

      Solo negli anni settanta, a partire dagli studi di Angelo Del Boca, l’«assordante» silenzio attorno ai «crimini» dell’Italia in Africa ha cominciato a dissolversi, decostruendo faticosamente il mito dell’«italiano brava gente». La storiografia ambiva divenire un polo di interlocuzione importante per la “memoria” pubblica del paese ed apriva la strada a nuove relazioni con l’Etiopia. Ne fu un segnale la visita ad Addis Abeba del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nel 1997, il quale richiamò il tributo di sangue versato dal popolo etiopico durante la dolorosa esperienza dell’occupazione fascista e la necessità di quella memoria per rilanciare proficui rapporti di pace e cooperazione. Ricordo, successivamente, la proposta di Del Boca, nel 2006, di istituire una “giornata della memoria” per le vittime del colonialismo italiano, ma neppure fu discussa in parlamento, e quindi fu archiviata. È qui che la storiografia è chiamata a consolidare gli anticorpi di fronte rimozioni e amnesie che rischiano di erodere rapidamente la coscienza pubblica. È il caso del monumento in onore del maresciallo Graziani, eretto nel 2012 ad Affile, nel Lazio, con i fondi della Regione, ultimo eclatante atto di oscuramento della memoria, suscitando immediate reazioni della comunità scientifica e dell’associazionismo italiano.

      A partire dal 2016, alcuni articoli apparsi sulla stampa, tra cui ripetuti interventi di Andrea Riccardi, e lo sconcertante film documentario Debre Libanos, realizzato da Antonello Carvigiani per TV 2000, hanno richiamato l’attenzione su quell’eccidio fascista. Un riconoscimento pubblico venne esplicitato in quell’anno dal presidente Mattarella ad Addis Abeba, quando in un eloquente “silenzio” depose una corona di fiori al monumento della vittoria Meyazia 27, in piazza Arat Kilo, in memoria dei caduti della resistenza etiopica dell’epoca e salutò uno ad uno ex partigiani etiopici, ormai anziani. Sotto queste sollecitazioni, l’allora ministero della difesa emanò un comunicato stampa, che richiamava la tragica rappresaglia con cui «il regime fascista fece strage della comunità dei copti; monaci, studenti, e fedeli del monastero di Debra Libanos. L’eccidio durò vari giorni, crudele e metodico. In Italia con il silenzio di tutti, durante il fascismo ma anche dopo, l’episodio era stato dimenticato […]», e si assumeva l’impegno ad approfondirne le dinamiche storiche con la costituzione di un’apposita commissione di studiosi, militari ed esperti. Altre urgenze, tuttavia, s’imposero nell’agenda politica e l’iniziativa non ebbe seguito.

      L’attuale disattenzione da parte delle istituzioni dello Stato italiano chiama nuovamente in causa la storiografia per la sua funzione civile di preservazione della memoria storica. C’è, qui, una discrasia da colmare: a fronte degli eccidi nazifascisti sul territorio italiano – oggi noti, con luoghi memoriali di alto valore simbolico per la storia nazionale –, il massacro di Debre Libanos è accaduto in Africa, fuori dal territorio nazionale, in un’area rimasta, per decenni, assente anche sul piano storiografico, le cui responsabilità sono ascrivibili direttamente all’Italia e non possono essere negate né oscurate. Occorre, in questo senso, allargare i confini della memoria storica, rinsaldando il rapporto tra storia e memoria come un argine di resistenza fondamentale per la difesa di una cultura civile, oggi provata da un crescente e preoccupante distacco dal vissuto storico. Lo smarrimento del contatto con “quel” passato coloniale, e con quella lunga storia di rapporti con l’Africa, rischia di lasciare la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti e discriminatorie, potenziali o in atto.

      https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta

  • #SNCF is stopping sales of most international tickets – a decision rooted in incompetence, and communicated with malevolence

    If you want to travel on 22nd May 2024 from Paris to Berlin (Germany), Verviers (Belgium) or Luzern (Switzerland), the app and website for SNCF ticketing, #SNCF_Connect, will show you prices and sell you a ticket. Try the same on 24th May 2024 and it will not. Here are the screenshots to prove it:

    Even connections to towns just the other side of the border – like Mouscron (Belgium) or Rastatt (Germany) are no longer available for purchase:

    As this explanation page on the SNCF website outlines, from 23rd May only a very limited selection of international tickets are available for sale from SNCF. There’s also a map listing what is available that looks like it was made in MS Paint.

    Let’s not play down the significance of this.

    SNCF Connect could until now sell you a ticket to any station in Netherlands (now reduced to just Amsterdam, Schiphol and Rotterdam), any station in Belgium (now just Antwerpen, Bruxelles, Liège), any station in Germany (now just the few stations directly served by cross border ICEs and TGVs), any station in Switzerland (now just anything served by TGV Lyria), any station in Italy (now just Ventimiglia, Torino, Milano) and any high speed station in Spain (now just Barcelona, Girona, Figueres).

    What the website of course does not say is why the change happened.

    So I set about getting to the bottom of the issue.

    On Monday 13th May I was travelling through Strasbourg so headed to the Grandes Lignes ticket office to ask. These conversations were in French, translated into English here.

    Me: “I want to take a train from Strasbourg to Berlin in mid-June, but I cannot get a price in SNCF Connect, can you help me?”
    SNCF employee: “It’s not possible any more”
    Me: “Really? Why is that?”
    SNCF: “It’s the fault of Deutsche Bahn!”
    Me (somewhat surprised at this point): “But other railways manage to sell Deutsche Bahn tickets still.”
    SNCF: “It’s Deutsche Bahn”

    I tried again at Grandes Lignes at Paris Austerlitz on Friday 17 May.

    Me: “I cannot manage to book a ticket on SNCF Connect from Paris to Berlin in June”
    SNCF: “It’s not possible any more. You will have to try with Deutsche Bahn or Trainline”
    (bit of a jaw drop here – Trainline, SNCF’s main ticket sales competitor?)
    Me: “Sorry, but I would like to know why this is.”
    SNCF: “It’s Europe’s fault”
    Me: “So please tell me this. If Deutsche Bahn can still sell SNCB tickets, ÖBB can still sell Trenitalia, but SNCF cannot sell any of these any more, then how can it be Europe’s fault that SNCF cannot sell these tickets?”
    SNCF: “But it is international agreements!”

    And that was then I broke, and told the employee what the actual reason is. Because Le Figaro has the gist of it, and I have had this confirmed to me by sources in other rail firms. SNCF’s IT system for these sales – #Résarail – is outdated and being closed down, and the new system is not yet available. And in the meantime sales of these tickets are simply not possible. Incompetence in other words. There is a financial consequence too – it is rumoured that railways receive a 10% commission on these sales amongst themselves. Bang goes that income for SNCF.

    But the communication about why this is the case crosses over into malevolence. Rather than facing up to the problem, SNCF resorts to finger pointing – at Deutsche Bahn, Europe, and international agreements. None of which are the reason.

    Also what SNCF is doing here is precisely the opposite of what it says it wants to do in its European Parliament election manifesto (full PDF here): “To attract more passengers, we are constantly seeking to improve the quality of our service and are investing heavily in all aspects of customer satisfaction. We have also made a joint commitment with our European partners to improve international ticketing“. If we are to believe the Community of European Railways – of which SNCF is a member – it is only a matter of time before state owned railway firms in Europe sort out these cross border ticketing headaches – while the actual behaviour of one of Europe’s largest railway companies is precisely the opposite.

    The likes of Trainline, Omio, SNCB International and Deutsche Bahn will pick up most of the slack, but not all. Passengers unable to book online and who previous relied on purchasing these tickets at ticket offices in France will be left stuck.

    None of this is clever or sensible, but sadly that is what you get from SNCF when it comes to anything international.

    https://jonworth.eu/sncf-is-stopping-sales-of-most-international-tickets-a-decision-rooted-in-i
    #France #mensonge #incompétence #chemins_de_fer #international #billets_internationaux #technologie #on_marche_sur_la_tête

    via @freakonometrics

  • Scienza è #guerra: voci da Palazzo nuovo, #fisica e #Polito occupati@0
    https://radioblackout.org/2024/05/scienza-e-guerra-voci-da-palazzo-nuovo-fisica-e-polito-occupati

     A una settimana dall’inizio delle occupazioni, a #torino la mobilitazione non si ferma. Dopo il corteo di sabato che ha visto migliaia di persone scendere in strada, facciamo il punto della situazione dal fronte bellico-scientifico, con l’auspicio che la lotta possa estendersi in città ben al di là delle mura universitarie. Palazzo Nuovo: […]

    #L'informazione_di_Blackout #unito #università
    https://cdn.radioblackout.org/wp-content/uploads/2024/05/palazzonuovo.mp3