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  • Le barche dei migranti diventano un’orchestra. Alla Scala il primo concerto

    Dal legno delle imbarcazioni arrivate a Lampedusa violini, viole, violoncelli e contrabbassi. Il 12 febbraio suoneranno Bach e Vivaldi a Milano, in uno teatri più prestigiosi del mondo

    E alla fine approdano alla Scala di Milano. Sono violini, viole, violoncelli e contrabbassi costruiti con i legni delle barche dei migranti, arrivate a Lampedusa cariche di vite e di speranze, ma anche di morte e di lamenti. È l’Orchestra del Mare, quella che lunedì 12 febbraio suonerà per la prima volta, e lo farà nel teatro più famoso al mondo, con i suoi strumenti ancora verdi e azzurri e gialli come le assi dei gozzi che erano pochi mesi fa. Legni ben diversi dai pregiati abeti e aceri utilizzati nella liuteria, legni crepati, intrisi di gasolio e di salsedine, eppure casse armoniche in grado di suonare Bach e Vivaldi…

    Così come crepate sono le mani che hanno saputo trasformare le barche in orchestra, mani di uomini detenuti nel penitenziario milanese di Opera – i loro nomi sono Claudio, Nicolae, Andrea, Zurab –, diventati liutai sotto la guida di maestri esperti.

    Non poteva allora che chiamarsi Metamorfosi il progetto che ha dato vita a tutto questo, ideato dalla “Casa dello spirito e delle arti”, la fondazione creata nel 2012 per offrire all’umanità scartata un’opportunità di riscatto attraverso la forza inesauribile della bellezza e i talenti che ciascuno ha, anche in un carcere. «L’idea è nata come nella parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci – sorride Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Fondazione –: nel carcere di Opera da dieci anni funzionava la liuteria, dove il maestro liutaio Enrico Allorto e le persone detenute realizzavano i violini da donare ai ragazzini rom che al Conservatorio di musica non potevano permettersi uno strumento. Ma nel dicembre del 2021 portai nel laboratorio quattro legni delle barche di Lampedusa per fare un presepe e loro invece ne fecero un violino. Rimasi stupefatto, la loro idea si poteva moltiplicare, già mi immaginavo un’intera orchestra, poi – dissi loro – suonerà alla Scala».

    L’unico a credere subito a quella follia è stato Andrea, anni di carcere pesante in Tunisia e poi in Italia, nome d’arte Spaccabarche, perché lui e Claudio smontano i gozzi, Nicolae e Zurab li “rimontano” in violini e violoncelli. «Fu Andrea a darmi l’idea di rivolgermi all’allora ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e chiedere che quegli scafi, fino a quel momento sotto sequestro per essere polverizzati e poi bruciati, venissero invece dati a noi e da “rifiuti speciali” diventassero memoria viva – continua Mosca Mondadori –. I Tir ne hanno trasportate in carcere un centinaio, così com’erano…».

    «Con all’interno scarpe, biberon, vestiti, salvagenti, tutine da neonato – racconta Andrea “Spaccabarche” –, allora ti chiedi chi era quella gente, se si sono salvati, da quale disperazione dovevano scappare, e rifletti su te stesso: c’è qualcuno che sta molto peggio di me e questo ti dà quel po’ di umiltà che nella vita non fa mai male, anche perché è quella che ti consente di continuare a imparare, quindi di cambiare».

    Metamorfosi, appunto. «Si tratta soprattutto di legni di conifere, che usiamo per il fasciame degli strumenti», spiega Enrico Allorto, che con Carlo Chiesa è il maestro liutaio, «mentre per lo scheletro utilizziamo un altro legno più duro di cui non conosco il nome. Sono alberi africani oppure, chissà, di importazione, non sappiamo quelle barche da dove arrivassero. Ovviamente non hanno la resa dei veri legni di liuteria, ma cerco i pezzi più adatti: i più leggeri per simulare l’abete rosso e i più pesanti per imitare l’acero di cui è fatto il fondo. È chiaro che sono legni difficili, hanno addosso la vernice delle barche, le crepe, i buchi: mentre costruiamo gli strumenti ripariamo i danni, ma c’è una sofferenza in questi difetti e il fatto che riescano comunque a suonare scuote emotivamente. Da quei violini esce un Sos, “non lasciateci morire”, anche i musicisti suonando si commuovono».

    E a suonarli alla Scala saranno alcuni tra i più grandi al mondo: i violoncellisti Mario Brunello e Giovanni Sollima e il violinista francese Gills Apap “dialogheranno” con i tredici strumentisti dell’Accademia dell’Annunciata diretti da Riccardo Doni, mentre l’installazione scenografica sarà un dono di Mimmo Paladino, artista di fama internazionale. «Il suono di questi strumenti viene da lontano: lontano al di là del Mediterraneo, e lontano nel tempo, forse di secoli», commenta Mario Brunello, solista abituato ad esibirsi con le orchestre più prestigiose con il suo prezioso violoncello “Maggini” dei primi del ‘600. «Quel legno che ha attraversato il mare ora suona il Terzo Concerto Brandeburghese di Bach e L’Inverno di Vivaldi, poi una pagina di virtuosismo violinistico come il celebre Preludio di Kreisler o l’affascinante White Man Sleeps di Kevin Volans, compositore sudafricano. Chiude il programma Violoncellos Vibrez di Giovanni Sollima», violoncellista che nei teatri si esibisce con il suo “Francesco Ruggeri” del XVII secolo ed è il compositore italiano contemporaneo più eseguito nel mondo.

    In ouverture lo scrittore Paolo Rumiz, triestino che ha nel sangue la poetica della frontiera e del viaggio, leggerà “La memoria del legno”, testo crudo e tagliente in cui l’albero racconta in prima persona le sue metamorfosi, dalla crescita in Africa come patriarca venerabile abitato dalle anime dei trapassati, a quando viene abbattuto da una scure senz’anima e attraverso il deserto arriva al mare. Lì trova mani delicate che lo trasformano in barca per pescatori. Dimenticato sulla spiaggia, è poi violentato da mani di trafficanti e in mare aperto ode le voci del suo carico umano. All’approdo finale è marchiato a fuoco come corpo del reato e verrebbe bruciato se altre mani delicate non lo trasformassero invece in violini. «L’ho scritto in metrica rigorosamente dispari, endecasillabi e settenari – spiega Rumiz – perché il ritmo pari è quello usato per far marciare gli eserciti». “Voi non mi riconoscerete – comincia l’albero – perché quando sono arrivato puzzavo di vomito e salsedine, ma ora vi racconto la mia storia…”.

    Tutti gli artisti prestano gratuitamente i loro talenti per il progetto Metamorfosi: «L’articolo 27 porta il Vangelo nella Costituzione, dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato – ricorda Mosca Mondadori – e niente come un lavoro ricostruisce la dignità delle persone». Tra le carceri di Opera a Milano), Secondigliano a Napoli, Monza e Rebibbia a Roma «diamo lavoro a venti persone con contratti a tempo indeterminato. Le persone cambiano per davvero, ne ho viste passare tante e tutte ce l’hanno fatta grazie al lavoro, sia in carcere che dopo: la misericordia supera i tempi della giustizia». Sembrano sogni, ma sono realtà imprenditoriali che richiedono grande concretezza, «i conti a fine anno devono tornare e ogni mese abbiamo stipendi da pagare, ci sostengono Intesa Sanpaolo e Confcommercio insieme a generose Fondazioni (Cariplo, Peppino Vismara, Santo Versace, Alberto e Franca Riva, Comunità di Monza e Brianza): non sono idee astratte, sono persone, e tu le vedi rinascere».

    Ne sa qualcosa Nicolae, il liutaio che “rimonta” le barche in viole e contrabbassi: «In liuteria mi dimentico di essere in carcere e mi sento utile, se sono in grado di costruire, allora non sono così scarso da non poter fare niente, solo che non ho avuto fortuna né ho trovato i riferimenti giusti nella vita. Non cerco giustificazioni per ciò che ho fatto, dico solo che ho capito che il mondo non è soldi e bella vita, ci sono tante cose piccole che possiamo dare l’uno all’altro – dice accarezzando il pezzo colorato del futuro violino che sta lavorando –. Io do il mio contributo qui dentro, in silenzio, ma poi quando qualcuno suonerà questo violino io spero che muoverà qualcosa nel mondo», assicura commosso. «A rovinarci è la sete di potere, invece la terra è di tutti e alla fine di nessuno: siamo solo di passaggio».

    L’Orchestra del Mare non si ferma qui, presto si aggiungeranno un clavicembalo, percussioni, chitarre, il liuto arabo, vari strumenti del mondo mediterraneo, «tutto ciò che si può costruire con le barche», e magari dopo la Scala arriveranno altri grandi teatri. Dal carcere di Secondigliano escono già mandolini e chitarre, la prima è stata suonata da Sting in persona l’aprile scorso nel carcere napoletano. «Il mio tormento d’amore è sempre stato la necessità di comunicare il mistero dell’Eucarestia, cioè la presenza del Crocefisso e Risorto nell’Ostia – riprende Mosca Mondadori – e questi sono strumenti eucaristici, perché hanno dentro la morte ma anche la speranza, e il loro suono arriva a tutti i cuori, anche se non credenti». Arriverà certamente ai 1.850 spettatori che hanno già fatto il “tutto esaurito” per il 12 febbraio e ai detenuti delle quattro carceri, gli unici che potranno vedere lo spettacolo in streaming nei loro auditorium.

    Solo i detenuti liutai saranno alla Scala ad ascoltare i “loro” strumenti, come fossero figli loro, due addirittura saranno in palco reale assieme al sindaco Beppe Sala, al cardinale Josè Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero vaticano per la Cultura e l’Educazione, alla vicepresidente del Senato Maria Domenica Castellone, al capo del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) Giovanni Russo, al direttore del carcere di Opera Silvio Di Gregorio, tutti lì alla pari. Il perché lo ha spiegato papa Francesco, per il quale nel 2022 ha suonato il primo violino costruito con le barche, quello del presepe mancato: «Quando entro in carcere mi faccio sempre una domanda: perché loro e non io? Avrei potuto agire peggio di loro», che forse sono stati sfortunati, o deboli, o hanno avuto una famiglia difficile. Aiutare i carcerati, ha ricordato Francesco ai volontari della Casa dello Spirito e delle Arti, «è una delle cose che Gesù dice che ci farà entrare in Cielo, ero carcerato e siete venuti a trovarmi. Ma resta quella domanda: perché loro e non io?».

    È la stessa domanda che vale per chi partì su quelle barche diventate orchestra, fossi nato nella loro guerra, piegato dalla loro miseria, non sarei partito anch’io?, conclude Arnoldo Mosca Mondadori. «Se ci fosse mio figlio su quel gozzo, vorrei che fosse rimpatriato in Libia in un campo di concentramento o pregherei perché venisse accolto con umanità nel Paese in cui è arrivato? Questa è la domanda dirimente che, chiunque noi siamo, dobbiamo onestamente farci. Tutta Metamorfosi si riassume in questo unico interrogativo».

    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/se-le-barche-diventano-un-orchestraalla-scala-lo-s
    #mémoire #embarcations #Méditerranée #migrations #réfugiés #naufrages #musique #instruments_de_musique #concert #Lampedusa #Orchestra_del_Mare #bois

    • #Metamorfosi

      Un progetto di progetti per trasformare il dolore in nuova speranza.

      «Metamorfosi» è un progetto della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti in collaborazione con il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria e l’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli.

      Il progetto è reso possibile grazie a Fondazione Cariplo, Intesa Sanpaolo, Fondazione Peppino Vismara, Fondazione della Comunità di Monza e Brianza Onlus.

      Il progetto “Metamorfosi” è stato insignito della Medaglia del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione del 79° Festival del Cinema di Venezia durante il quale è stato proiettato il cortometraggio che racconta il progetto.

      Di fronte alla tragedia contemporanea che vede il Mar Mediterraneo come il più grande cimitero d’Europa e di fronte al dramma a cui stiamo assistendo quotidianamente di milioni di persone in fuga dalla guerra, la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti ha voluto pensare a un progetto culturale e di conoscenza a cui ha dato il nome di «Metamorfosi».

      “Metamorfosi” è innanzitutto un concetto che vuole richiamare l’attenzione verso ogni persona costretta a fuggire dal proprio Paese a causa di guerre, persecuzioni e fame.

      “Metamorfosi” perché la proposta di porre lo sguardo su questi temi avviene attraverso non solo una metafora, ma una vera e propria metamorfosi: quella del legno dei barconi, trasportati dal molo Favarolo di Lampedusa in alcune carceri italiane, che viene trasformato in strumenti musicali e oggetti di testimonianza di carattere sacro.

      «Metamorfosi» affinché le persone e soprattutto i giovani possano conoscere una realtà, quella dei migranti, che viene spesso rimossa, guardata con indifferenza o affrontata e raccontata in modo ideologico.

      “Metamorfosi” perché a trasformare il legno dei barconi provenienti da Lampedusa in oggetti di speranza sono le persone detenute che vengono coinvolte nel progetto.

      Come nasce l’idea

      L’idea del progetto “Metamorfosi” è nata nel dicembre 2021 quando, all’interno del Laboratorio di Liuteria e Falegnameria nella Casa di Reclusione Milano-Opera, progetto istituito dal 2012, la Fondazione ha chiesto al falegname di Lampedusa Francesco Tuccio, di portare dei legni per costruire dei presepi che, nel tempo della pandemia, potessero essere un segnale di speranza per tutti, credenti e non credenti.

      Presepi dunque realizzati, sotto la guida di Francesco Tuccio, dalle persone detenute con il legno di una tragedia contemporanea.

      Nell’ambito di questa iniziativa, con alcuni dei legni è stato costruito un violino, utilizzando una tecnica risalente al 1500, con la quale in Inghilterra venivano costruite le viole da gamba.

      Il violino realizzato produce un suono che ha stupito musicisti e esecutori per la sua limpidezza.

      Il musicista e compositore Nicola Piovani, quando per primo lo ha ascoltato, ha deciso di scrivere una composizione dal titolo “Canto del legno”, che è stata eseguita davanti al Santo Padre dal primo violino dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Carlo Parazzoli.

      Questo primo violino tratto dal legno dei barconi è stato chiamato “Violino del Mare”.

      La collaborazione con il Ministero dell’Interno e con l’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli

      Da qui prende spunto la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti per chiedere all’ex Ministro degli Interni Luciana Lamorgese 60 imbarcazioni provenienti dal molo Favarolo di Lampedusa, affinché potessero essere creati, all’interno della Liuteria del carcere di Opera e di altre liuterie presenti in diverse carceri italiane, strumenti musicali: violini, viole e violoncelli per la nascita di una vera e propria “Orchestra del Mare”.

      Le imbarcazioni, grazie alla collaborazione con ADM, sono state trasportate da Lampedusa all’interno del carcere di Opera.

      Il progetto prevede di far suonare questi strumenti musicali ad orchestre italiane e straniere, portando con essi una cultura della conoscenza, dell’accoglienza e dell’integrazione, attraverso la bellezza e le armonie.

      Nello specifico, nel corso del 2022 sono stati costruiti, dalle persone detenute nelle diverse Case di Reclusione, un secondo violino, una viola e un violoncello; nel corso del 2023 saranno costruiti altri 6 violini e nel corso del 2024 saranno costruiti altri 8 strumenti ad arco.

      A coordinare la formazione e il lavoro delle persone detenute sono esperti liutai, come

      il liutaio Enrico Allorto che sta coordinando la Liuteria nel carcere di Opera.

      Strumenti musicali, Croci e Rosari

      Gli strumenti ricavati dai barconi trasportati nel 2022 da Lampedusa nelle diverse carceri, verranno dunque suonati dalle orchestre che aderiranno al progetto e viaggeranno, come segno di testimonianza, in Italia e all’estero. «L’Orchestra del Mare» è perciò un progetto di adesione e prenderà vita nel momento in cui gli strumenti ricavati dai barconi verranno di volta in volta suonati dalle orchestre che aderiranno al progetto. Un viaggio per testimoniare in Italia e all’estero, attraverso l’armonia, il dramma che vivono quotidianamente migliaia di persone migranti in tutto il mondo. Nel triennio 2022- 2024, insieme agli strumenti musicali che comporranno l’"Orchestra del Mare", nei Laboratori di Liuteria e Falegnameria all’interno delle carceri, verranno costruite migliaia di croci da donare alle scuole italiane. Inoltre, con lo stesso legno dei barconi, nel carcere di Monza e in quello di Rebibbia a Roma e con il coinvolgimento della Casa di Accoglienza Profughi Centro Astalli e l’Opera Cardinal Ferrari di Milano che accoglie persone senzatetto, saranno realizzati rosari che verranno donati al Santo Padre.

      La Rete delle Liuterie e Falegnamerie nelle carceri italiane

      Con l’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli e il Dap, la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti nell’agosto 2022 ha firmato un Protocollo per la creazione di una Rete di Liuterie e Falegnamerie nelle carceri italiane al fine di dare al Paese un forte segnale di testimonianza che ponga al centro la cultura e la dignità della persona.

      Ad oggi, le Case di Reclusione coinvolte sono quelle di: Milano- Opera, Monza, Rebibbia e Secondigliano.

      In ogni laboratorio, attraverso la Cooperativa Casa dello Spirito e delle Arti, sono assunte dalle tre alle cinque persone detenute.

      L’obiettivo comune delle diverse Liuterie e Falegnamerie è, dunque, la creazione di strumenti musicali che andranno a comporre l’”Orchestra del Mare” e di oggetti dal forte significato simbolico e sacro come, appunto, croci e rosari.

      I liutai e i falegnami coinvolti nelle diverse carceri restano in comunicazione tra di loro per coordinare il lavoro delle persone detenute in coerenza con gli obiettivi del comune progetto “Metamorfosi”.

      Il percorso immersivo per gli studenti

      “Metamorfosi” è un progetto anche di conoscenza.

      Il percorso proposto alle scuole e alle Università si svolgerà, a partire dal 2023, nella Casa di Reclusione Milano-Opera, dove tre barconi sono stati posti all’interno del carcere formando quella che è stata chiamata la «Piazza del Silenzio». All’interno di questa piazza situata al centro del Carcere, i giovani potranno partecipare ad una visita guidata, con la testimonianza di persone migranti che hanno vissuto personalmente il viaggio sui barconi.
      Questa esperienza potrà essere replicata, a partire dal 2024, anche nelle altre quattro carceri in collaborazione con le scuole e le Università locali.

      I momenti del percorso

      Ciascuna uscita didattico - formativa è suddivisa in diversi momenti.

      Il primo momento è nella “Piazza del Silenzio”: un narratore introdurrà il tema partendo dall’immigrazione del passato, in particolare dal racconto dell’emigrazione italiana e di come la storia si ripeta con i suoi pregiudizi e i suoi luoghi comuni.

      Dopo questo momento introduttivo, è prevista la testimonianza diretta di una persona migrante.
      I ragazzi sono invitati poi a meditare, ognuno in silenzio su un testo diverso, sulle testimonianze scritte da persone migranti tratte dal libro “Bibbia e Corano a Lampedusa” (La Scuola editore).

      I musicisti della Piccola Orchestra dei Popoli (progetto della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti) accompagnano questo momento suonando gli strumenti realizzati nel Laboratorio, primo tra i quali il “Violino del Mare”.

      Nella seconda parte del percorso, i ragazzi vengono accompagnati nella Liuteria dove possono conoscere le persone detenute mentre lavorano nella costruzione degli strumenti musicali.

      Un ultimo momento del percorso è di carattere teorico e accademico sui temi cardine del progetto a cura del RiRes - Unità di ricerca sulla Resilienza del Dipartimento di psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

      Ai ragazzi infine, è richiesto di restituire le loro emozioni, impressioni e riflessioni attraverso uno scritto personale.

      La Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti curerà una pubblicazione che racconterà l’esperienza, i pensieri e le emozioni degli studenti in collaborazione con l’Associazione Francesco Realmonte e il RiRes.

      Protocollo d’intesa tra la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti e il Museo del Violino di Cremona

      È stato condiviso tra la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti e il Museo del Violino di Cremona, un protocollo di intesa nel quale uno dei violini prodotti nel carcere di Opera, è entrato nella collezione permanente del Museo del Violino e viene utilizzato presso l’Auditorium del Museo, soprattutto per momenti di natura didattica rivolti alle scuole. In queste occasioni, non solo “il Violino del Mare” viene suonato ma viene anche raccontata la sua storia attraverso il racconto delle guide e le immagini che ne testimoniano la storia.

      https://casaspiritoarti.it/it/progetti/metamorfosi

      #douleur #espoir

  • EU grants €87m to Egypt for migration management in 2024

    Over 2024, the EU will provide €87 million and new equipment to Egypt for a migration management project started in 2022, implemented by the UN migration agency and the French Interior Ministry operator Civipol, three sources close to the matter confirmed to Euractiv.

    The €87 million may increase up to €110 million after the next EU-Egypt Association Council meeting on 23 January, two sources confirmed to Euractiv.

    The European Commission is also conducting parallel negotiations with Cairo to make a raft of funding for other projects which regards a wide range of sectors, including migration, conditional under the International Monetary Fund requests for reforms, a source close to the negotiations told Euractiv.

    The €87 million will be dedicated to increasing the operation capacity of the Egyptian navy and border guards for border surveillance and search and rescue operations at sea.

    The EU-Egypt migration management project started in 2022 with an initial €23 million, with a further €115 million approved for 2023, one of the three sources confirmed to Euractiv.

    The funds for 2022 and 2023 were used for border management, anti-smuggling and anti-trafficking activities, voluntary returns and reintegration projects.

    “With these EU funds, IOM [the UN’s migration agency, the International Organisation of Migration] is supporting Egyptian authorities through capacity building activities which promote rights-based border management and the respect of international law and standards, also with regard to search and rescue operations,” an official source from IOM told Euractiv. IOM is involved in the training and capacity building of the Egyptian authorities.

    French operator Civipol is working on the tendering, producing and delivering the search new rescue boats for 2024, one of the three sources confirmed to Euractiv.

    However, according to the EU’s asylum agency’s (EUAA) 2023 migration report, there have been almost no irregular departures from the Egyptian coasts since 2016, with most Egyptian irregular migrants to the EU having departed from Libya.

    At the same time, there has been a significant increase in Egyptian citizens applying for visas in EU countries in recent years, the EUAA report said, mainly due to the deteriorating domestic situation in the country.
    Deepening crisis in Egypt

    Egypt, a strategic partner of the EU, is experiencing a deepening economic and political crisis, with the country’s population of 107 million facing increasing instability and a lack of human rights guarantees.

    In a letter to heads of state and EU institutions last December, the NGO Human Rights Watch asked the EU to “ensure that any recalibration of its partnership with Egypt and related macro-financial assistance provide[s] an opportunity to improve the civil, political, and economic rights of the Egyptian people”.

    “Its impact will only be long-lasting if linked to structural progress and reforms to address the government’s abuses and oppression, that have strangled people’s rights as much as the country’s economy,” the NGO wrote.

    The human rights crisis cannot be treated as separate from the economic crisis, Timothy E. Kaldas, deputy director of the Tahrir Institute for Middle East Policy, told Euractiv. “Political decisions and political practices of the regime play a central role in why Egypt’s economy is the way that it is,” he said.

    “The regime, in an exploitative manner, leverages the Egyptian state. For instance, it forces the making of contracts to regime-owned companies to do infrastructure projects that are extremely costly, and not necessarily contributing to the public good,” Kaldas argued, citing the construction of wholly new cities, or “new palaces for the president”.

    While such projects are making the Egyptian elites richer, the Egyptian people are increasingly poor, and in certain cases, forced to leave the country, Kaldas explained.

    With food and beverage inflation exceeding 70% in Egypt in 2023, the currency facing multiple shocks and collapses reducing Egyptians’ purchasing power and private investors not seeing the North African country as a good place to invest, “the situation is very bleak”, the expert said.

    The independence of the private sector was slammed in a report by Human Rights Watch in November 2018. In the case of Juhayna Owners, two Egyptian businessmen were detained for months after refusing to surrender their shares in their company to a state-owned business.

    Recent events at the Rafah crossing in Gaza, frictions in the Red Sea with Houthi rebels in Yemen and war in the border country of Sudan have compounded the instability.
    Past EU-Egypt relations

    During the last EU-Egypt Association Council in June 2022, the two partners outlined a list of partnership priorities “to promote joint interests, to guarantee long-term stability and sustainable development on both sides of the Mediterranean and to reinforce the cooperation and realise the untapped potential of the relationship”.

    The list of priorities regards a wide range of sectors that the EU is willing to help Egypt. Among others, the document which outlines the outcomes of the meeting, highlights the transition to digitalisation, sustainability and green economy, trade and investment, social development and social justice, energy, environment and climate action, the reform of the public sector, security and terrorism, and migration.

    https://www.euractiv.com/section/politics/news/eu-grants-e87m-to-egypt-for-migration-management-in-2024

    #Egypte #asile #migrations #réfugiés #externalisation #EU #aide_financière #Europe #UE #équipement #Civipol #gardes-frontières #surveillance #technologie #complexe_militaro-industriel #réintégration #retours_volontaires #IOM #OIM

    • L’UE offre à l’Egypte une aide économique contre un meilleur contrôle des migrants

      Les représentants de l’Union européenne signeront dimanche au Caire un partenariat avec le gouvernement d’Abdel Fattah Al-Sissi. Il apportera un soutien de plus de 7 milliards d’euros en échange d’une plus grande surveillance des frontières.

      Après la Tunisie, l’Egypte. Trois premiers ministres européens – Giorgia Meloni, la présidente du conseil italien, Alexander De Croo et Kyriakos Mitsotakis, les premiers ministres belge et grec – et Ursula von der Leyen, la présidente de la Commission européenne, sont attendus dimanche 17 mars au Caire. Ils doivent parapher une « #déclaration_commune » avec Abdel Fattah #Al-Sissi, le président égyptien, pour la mise en place d’un #partenariat global avec l’Union européenne (UE). A la clé pour l’Egypte un chèque de 7,4 milliards d’euros, comme l’a révélé le Financial Times le 13 mars.

      Cet accord survient après l’annonce, au début de mars, d’un #prêt de 8 milliards de dollars (plus de 7,3 milliards d’euros) du #Fonds_monétaire_international à l’Egypte et, surtout, à la mi-février d’un vaste plan d’investissements de 35 milliards de dollars des #Emirats_arabes_unis. A cette aune, l’aide européenne semble plutôt chiche.

      Pour Bruxelles, l’urgence est d’éviter un écroulement de l’économie égyptienne, très dépendante de l’extérieur. Depuis le Covid-19 et la guerre en Ukraine, elle est plongée dans le marasme et les déficits budgétaires s’enchaînent. De surcroît, le pays doit faire face aux conséquences de la guerre à Gaza et, notamment, aux attaques houthistes en mer Rouge, qui ont entraîné une réduction du nombre de cargos dans le canal de Suez et fait chuter les revenus du pays. Enfin, le tourisme, qui avait atteint des records en 2023 avec plus de quinze millions de visiteurs, pourrait pâtir de la guerre aux portes du pays.

      Crainte d’une arrivée massive de Palestiniens

      Dans le détail, la Commission européenne devrait apporter 5 milliards d’euros de soutien budgétaire à l’Egypte, dont 1 milliard déboursé d’ici au mois de juin, selon une procédure d’urgence. Les 4 autres milliards suivront à plus long terme. Le ministre des finances égyptien, Mohamed Maait, a confirmé cette somme, évoquant une aide de « 5 milliards à 6 milliards de dollars » (4,5 milliards à 5,5 milliards d’euros).

      (#paywall)
      https://www.lemonde.fr/international/article/2024/03/16/l-ue-offre-a-l-egypte-une-aide-economique-contre-un-meilleur-controle-des-mi

    • Egitto-Ue, l’accoglienza? Tocca ai Paesi di transito

      La visita di Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen e altri leader nazionali dell’Ue in Egitto rilancia l’attenzione sulla dimensione esterna delle politiche migratorie. In ballo ci sono oltre 7 miliardi di euro di aiuti per il bilancio pubblico egiziano in affanno. Non si tratta di un’iniziativa estemporanea. Il nuovo patto Ue sull’immigrazione e l’asilo definito nel dicembre scorso dedica un capitolo all’argomento, con cinque obiettivi: sostenere i Paesi che ospitano rifugiati e comunità di accoglienza; creare opportunità economiche vicino a casa, in particolare per i giovani; lottare contro il traffico di migranti; migliorare il rimpatrio e la riammissione; sviluppare canali regolamentati per la migrazione legale.

      Le istituzioni europee adottano un linguaggio felpato, ma esprimono una linea politica molto netta: l’Ue intende far sì che i profughi vengano accolti lungo la rotta, nei Paesi di transito. Parla di sviluppo dei luoghi di provenienza, facendo mostra d’ignorare sia l’impatto di guerre e repressioni (si pensi al Sudan e all’Etiopia), sia le evidenze circa i legami tra la prima fase di un processo di sviluppo e l’aumento delle partenze. Insiste molto sui rimpatri, volontari e forzati, e sul reinserimento in patria. Rilancia la criminalizzazione dei trasportatori, assemblati sotto l’etichetta di trafficanti, nascondendo il fatto che per i profughi dal Sud del mondo non vi sono alternative: la lotta ai trafficanti è in realtà una lotta contro i rifugiati. In cambio, le istituzioni europee e i governi nazionali offrono una cauta apertura agli ingressi per lavoro, guardando a paesi amici o presunti tali, come appunto l’Egitto, non paesi in guerra o sotto regimi brutali come la Siria o l’Afghanistan.

      Non si tratta peraltro di una novità. L’Ue ha già sottoscritto numerosi accordi con vari Stati che la attorniano o che sono collocati sulle rotte delle migrazioni spontanee: dalle operazioni di Frontex nei Balcani Occidentali, alle intese con i governi dei paesi rivieraschi, dal Marocco alla Turchia, spingendosi anche all’interno dell’Africa in casi come quello del Niger, posto sulla rotta che dall’Africa occidentale arriva al Mediterraneo. Quando si discute di questi accordi, si fronteggiano due posizioni preconcette: quella pro-accoglienza, secondo cui sono inutili, perché migranti e rifugiati arriveranno comunque; dall’altra parte, quella del fronte del rifiuto, che li saluta con entusiasmo come la soluzione del problema, senza badare alle implicazioni e conseguenze. Cercando di arrecare al dibattito un po’ di chiarezza, va anzitutto notato: l’esternalizzazione delle frontiere, tramite gli accordi, (purtroppo) funziona, quando dall’altra parte i governi hanno i mezzi, una certa efficienza e la volontà politica di compiacere i partner europei. Soprattutto reprimendo i migranti in transito, una politica che non comporta sgradevoli contraccolpi in termini di consenso interno. I casi di Turchia e Marocco lo dimostrano. I viaggi della speranza non cessano, ma diventano più lunghi, costosi e pericolosi. Dunque meno praticabili.

      Occorre però considerare i costi umani e politici di questo apparente progresso. Sotto il profilo politico, l’Ue diventa più dipendente dai gendarmi di frontiera stranieri che ha ingaggiato, e la tolleranza verso Erdogan e ora verso Al-Sisi ne è un’eloquente espressione. Al Cairo solo il premier belga ha speso qualche parola in difesa dei diritti umani. Sotto il profilo umano, tra violenze, ricatti, detenzione e abbandono, i profughi pagano il conto della riaffermazione (selettiva) dei confini e della presunta sicurezza che i governi europei dichiarano di voler difendere. Solo una visione cinica e angusta può inalberare come un successo la diminuzione degli sbarchi: meno persone possono sperare in una vita migliore, molte altre sono destinate a perdere la vita nel viaggio, a languire in una terra di mezzo, a rinunciare a sognare libertà e dignità nel continente che se ne fa paladino.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/egittoue-laccoglienza-tocca-ai-paesi-di-transito

  • #Derman_Tamimou , décédé le 06.02.2019

    Cadavere di un migrante trovato sulla strada del Monginevro : voleva andare in Francia

    Un uomo di 29 anni proveniente dal Togo sepolto dalla neve.

    ll cadavere di un migrante di 29 anni, proveniente dal Togo, è stato ritrovato questa mattina in mezzo alla strada nazionale 94 del colle del Monginevro. Da quanto si apprende da fonti italiane, sul posto è presente la polizia francese. Le abbondanti nevicate degli scorsi giorni e il freddo intenso hanno complicato ulteriormente l’attraversamento della frontiera per i migranti. Si tratta del primo cadavere trovato quest’anno sul confine italo-francese dell’alta Val Susa dopo che l’anno scorso erano stati rinvenuti tre corpi (https://torino.repubblica.it/cronaca/2018/05/25/news/bardonecchia_il_corpo_di_un_migrante_affiora_tra_neve_e_detriti_su).

    https://torino.repubblica.it/cronaca/2019/02/07/news/cadavere_di_un_migrante_trovato_sulla_strada_del_monginevro_voleva
    #décès #mort #mourir_aux_frontières #Tamimou
    #frontière_sud-alpine #asile #migrations #réfugiés #morts_aux_frontières #Hautes-Alpes #mourir_aux_frontières #frontières #Italie #France #Briançonnais #Montgenèvre #La_Vachette

    –—

    ajouté au fil de discussion sur les morts à la frontière des Hautes-Alpes :
    https://seenthis.net/messages/800822

    lui-même ajouté à la métaliste sur les morts aux frontières alpines :
    https://seenthis.net/messages/758646

    • Retrouvé inanimé le long de la RN 94, le jeune migrant décède

      Un homme d’une vingtaine d’années a été découvert en arrêt cardio-respiratoire, cette nuit peu avant 3 heures du matin, sur la #RN_94, à #Val-des-Près. La police aux frontières, qui patrouillait à proximité, a vu un chauffeur routier arrêté en pleine voie, près de l’aire de chaînage. Celui-ci tentait de porter secours au jeune migrant, inanimé et en hypothermie. La victime a été prise en charge par les sapeurs-pompiers et un médecin du Samu. L’homme a ensuite été transporté à l’hôpital de Briançon, où il a été déclaré mort.

      Une enquête a été ouverte pour « homicide involontaire et mise en danger de la vie d’autrui ».


      https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2019/02/07/val-des-pres-un-jeune-migrant-decede-apres-avoir-ete-retrouve-inanime-le

    • Hautes-Alpes : un jeune migrant retrouvé mort au bord d’une route

      Il a été découvert près d’une aire de chaînage en #hypothermie et en arrêt cardio-respiratoire.

      Un migrant âgé d’une vingtaine d’années a été retrouvé mort dans la nuit de mercredi à ce jeudi dans les Hautes-Alpes au bord d’une route nationale reliant la frontière italienne à Briançon, a-t-on appris ce jeudi de source proche du dossier.

      Le jeune homme a été découvert inconscient jeudi vers 3h du matin par un chauffeur routier à Val-des-Près, une petite commune située à la sortie de Briançon. Il gisait près d’une aire de chaînage nichée en bordure de la RN94 qui mène à Montgenèvre, près de la frontière italienne.

      « Il n’a pas été renversé par un véhicule », a précisé une source proche du dossier, confirmant une information du Dauphiné Libéré.
      Hypothermie

      C’est une patrouille de la Police aux frontières (PAF) qui a prévenu les pompiers en découvrant le chauffeur routier tentant de porter secours à la victime.

      Souffrant d’hypothermie et en arrêt cardio-respiratoire, le jeune homme a été pris en charge par les pompiers et un médecin du Samu, mais leurs tentatives pour le réanimer ont été vaines. Il a été déclaré mort à son arrivée à l’hôpital de Briançon.

      Une enquête pour « homicide involontaire et mise en danger de la vie d’autrui » a été ouverte par le parquet de Gap. Elle a été confiée à la brigade de recherches de Briançon et à la gendarmerie de Saint Chaffrey. L’identité et la nationalité du jeune migrant n’ont pas été communiquées.
      « Nous craignons d’autres disparitions »

      En mai 2018, le parquet de Gap avait également ouvert une enquête pour identifier et connaître les circonstances du décès d’un jeune homme noir dont le corps avait été découvert par des promeneurs près de Montgenèvre.

      En décembre, plusieurs associations caritatives, qui dénoncent « l’insuffisance de prise en charge » des migrants qui tentent de franchir la frontière franco-italienne vers Briançon, avaient dit leur crainte de nouveaux morts cet hiver.

      « Plus de trente personnes ont dû être secourues depuis l’arrivée du froid, il y a un mois, et nous craignons des disparitions », avait affirmé l’association briançonnaise Tous Migrants dans un communiqué commun avec Amnesty, la Cimade, Médecins du monde, Médecins sans frontières, le Secours catholique et l’Anafé.

      http://www.leparisien.fr/faits-divers/hautes-alpes-un-jeune-migrant-retrouve-mort-au-bord-d-une-route-07-02-201

      Commentaire sur twitter :

      Le corps d’un jeune migrant mort de froid sur un bord de route retrouvé par la police aux frontières – celle-là même à laquelle il essayait d’échapper. Celle-là même dont la traque aux grands voyageurs accule ces derniers à risquer leur vie.

      https://twitter.com/OlivierCyran/status/1093565530324303872

      Deux des compagnons d’infortune de #Derman_Tamimou, décédé jeudi, se sont vu délivrer des OQTF après avoir témoigné à la BRI sur la difficulté à obtenir du secours cette nuit là.
      Ils nous ont raconté les secours qui n’arrivent pas, les tentatives pour arrêter les voitures , les appels à l’aide le temps qui passe une heure deux heures à attendre.

      https://twitter.com/nos_pas/status/1093978770837553154

    • Hautes-Alpes : l’autopsie du migrant découvert jeudi conclut à une probable mort par hypothermie

      L’autopsie du jeune migrant togolais, découvert inanimé dans la nuit de mercredi à jeudi sur le bord de la RN 94 à Val-des-Prés (Hautes-Alpes), a conclut "à l’absence de lésion traumatique externe et à une probable mort par hypothermie", selon le parquet de Gap. Le jeune homme âgé de 28 ans n’a pu atteindre Briançon, après avoir traversé la frontière entre la France et l’Italie à pied.

      Le procureur de la République de Gap a communiqué les conclusions de l’autopsie du jeune migrant de 28 ans, découvert ce jeudi 7 février le long de la route nationale 94 à Val-des-Prés, entre Montgenèvre et Briançon.
      Absence de lésion traumatique externe et à une probable mort par hypothermie

      "Dans le cadre de l’enquête recherchant les causes et les circonstances du décès du migrant décédé le 7 février 2019, une autopsie a été pratiquée ce jour par l’institut médico légal de Grenoble qui conclut à l’absence de lésion traumatique externe et à une probable mort par hypothermie", détaille Raphaël Balland, dans son communiqué.

      "Le parquet de Gap a levé l’obstacle médico légal et le corps a été rapatrié à Briançon, le temps de confirmer l’identité du défunt et de tenter de contacter des membres de sa famille", poursuit le magistrat de Gap.
      Découvert par un chauffeur routier vers 2 h 30 du matin

      Le corps du ressortissant togolais de 28 ans avait été repéré, jeudi, vers 2 h 30 du matin par un chauffeur routier italien qui circulait sur la RN94. Le jeune homme gisait inanimé sur un chemin forestier qui longe le torrent des Vallons, juste à côté de l’aire de chaînage de La Vachette, sur la commune de Val-des-Prés.

      “A compter de 2 h 10, les secours et les forces de l’ordre étaient informés de la présence d’un groupe de présumés migrants qui était en difficulté entre Clavière (Italie) et Briançon. Des policiers de la police aux frontières (PAF) partaient alors en patrouille pour tenter de les localiser et retrouvaient vers 3 heures à Val-des-Prés, au bord de la RN94, un homme de type africain inconscient auprès duquel s’était arrêté un chauffeur routier italien”, relatait hier Raphaël Balland.

      En arrêt cardio-respiratoire, inanimée, en hypothermie, la victime a été massée sur place. Mais les soins prodigués par le médecin du Samu et les sapeurs-pompiers n’ont pas permis de la ranimer. Le décès du jeune migrant a été officiellement constaté à 4 heures du matin ce jeudi au centre hospitalier des Escartons de Briançon, où il avait été transporté en ambulance.
      Parti avec un groupe de Clavière, en Italie

      "Les premiers éléments d’identification du jeune homme décédé permettent de s’orienter vers un Togolais âgé de 28 ans ayant précédemment résidé en Italie, détaillait encore Raphaël Balland hier soir. Selon des témoignages recueillis auprès d’autres migrants, il serait parti à pied de Clavière avec un groupe d’une dizaine d’hommes pour traverser la frontière pendant la nuit. Présentant des signes de grande fatigue, il était déposé auprès de la N94 par certains de ses compagnons de route qui semblent avoir été à l’origine de l’appel des secours."

      Une enquête a été ouverte pour "homicide involontaire et non-assistance à personne en péril" et confiée à la brigade de recherche de gendarmerie de Briançon, qui "poursuit ses investigations" selon le procureur.

      https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2019/02/08/hautes-alpes-briancon-val-des-pres-autopsie-migrant-decouvert-vendredi-p

      Commentaire de Nos montagnes ne deviendront pas un cimetière :

      Derman Tamimou n’est pas mort de froid il est mort de cette barbarie qui dresse des frontières , des murs infranchissables #ouvronslesfrontières l’autopsie du migrant découvert jeudi conclut à une probable mort par hypothermie

      https://twitter.com/nos_pas/status/1093976365404176385

    • Briançon : ils ont rendu hommage au jeune migrant décédé

      Il a été retrouvé mort au bord d’une route nationale, entre Montgenèvre et Briançon, dans la nuit de mercredi à jeudi. Pour que personne n’oublie le jeune migrant togolais, et afin de dénoncer la politique d’immigration, plusieurs associations et collectifs ont appelé à se réunir, ce samedi après-midi, au Champ de Mars, à Briançon.

      Plusieurs ONG nationales, Amnesty International, la Cimade, Médecins sans frontières, Médecins du monde, le Secours catholique, l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers, ont voulu attirer l’attention sur ce nouveau drame.

      Avec des associations et collectifs locaux, Tous Migrants, Refuges solidaires, la paroisse de Briançon, la Mappemonde et la MJC, l’Association nationale des villes et territoires accueillants... tous se sont réunis au Champ de Mars ce samedi après-midi pour rappeler « qu’il est inacceptable qu’un jeune homme meure au bord de la route dans ces conditions », explique l’un des soutiens de Tous migrants.

      « Ce ne sont pas des pro ou anti-migrants, juste des personnes qui ont envie de protéger d’autres êtres humains »

      Dans la nuit de mercredi à jeudi, vers 2h30, un ressortissant togolais de 28 ans a été repéré par un chauffeur routier italien qui circulait sur la RN 94. La victime gisait inanimée, à côté de l’aire de chaînage de La Vachette, sur la commune de Val-des-Prés. Le décès a été officiellement constaté à 4 heures du matin au centre hospitalier des Escartons où il avait été transporté.


      https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2019/02/09/ils-ont-rendu-hommage-au-jeune-migrant-decede

      #hommage #commémoration

    • Cerca di varcare confine: giovane migrante muore assiderato tra l’Italia e la Francia

      L’immigrato, originario del Togo, aveva 29 anni: è morto assiderato sul colle Monginevro
      Il cadavere di un migrante di 29 anni è stato ritrovato questa mattina in mezzo alla strada nazionale N94 del colle del Monginevro (che collega Piemonte e Alta Savoia), mentre cercava di varcare il confine tra l’Italia e la Francia.

      L’extracomunitario, originario del Togo, è morto assiderato per la neve e le bassissime temperature.

      A notarlo, sepolto dalla neve ai margini della strada, intorno alle tre di note, sarebbe stato un camionista. La Procura ha aperto un fascicolo per «omicidio involontario».

      Le abbondanti nevicate dei giorni scorsi e il freddo rendono ancora più inaccessibili sentieri e stradine della zona e hanno complicato ulteriormente l’attraversamento della frontiera per i migranti.

      Da quanto si apprende da fonti italiane, sul posto è presente la polizia francese: si tratta del primo cadavere trovato quest’anno sul confine italo-francese dell’alta Val Susa dopo che l’anno scorso erano stati rinvenuti tre corpi nelle medesima località di frontiera, un passaggio molto battuto dai migranti.

      http://www.ilgiornale.it/news/cronache/cerca-varcare-confine-giovane-migrante-muore-assiderato-1641573.html

    • Man trying to enter France from Italy dies of hypothermia

      Death of Derman Tamimou from Togo comes as Matteo Salvini ramps up border row.

      French magistrates have opened an inquiry into “involuntary manslaughter” after a man trying to cross into France from Italy died of hypothermia.

      A lorry driver found Derman Tamimou on Thursday morning unconscious on the side of a highway that links Hautes-Alpes with the northern Italian region of Piedmont. Tamimou, 29, from Togo, was taken to hospital in Briançon, but it is unclear whether he died there or was already dead at the scene.

      “The second hypothesis is the most likely,” said Paolo Narcisi, president of the charity Rainbow for Africa. “He was probably among a group of 21 who left the evening before, despite all the warnings given to them by us and Red Cross volunteers about how dangerous the crossing is.”

      Tamimou was found between Briançon and Montgenèvre, an Alpine village about 6 miles from the border.

      Narcisi said his charity was working with colleagues in France to try and establish whether the rest of the group arrived safely. He said they most likely took a train to Oulx, one stop before the town of Bardonecchia, before travelling by bus to Claviere, the last Italian town before the border. From there, they began the mountain crossing into France.

      “Every night is the same … we warn people not to go as it’s very dangerous, especially in winter, the snow is high and it’s extremely cold,” Narcisi said.

      Tamimou is the first person known to have died while attempting the journey this winter. Three people died last year as they tried to reach France via the Col de l’Échelle mountain pass.

      The movement of people across the border has been causing conflict between Italy and France since early 2011.

      Matteo Salvini, the Italian interior minister, on Thursday accused France of sending more than 60,000 people, including women and children, back to Italy. He also accused French border police of holding up Italian trains with lengthy onboard immigration checks.

      Last year, seven Italian charities accused French border police of falsifying the birth dates of children travelling alone in an attempt to pass them off as adults and return them to Italy.

      While it is illegal to send back minors, France is not breaking the law by returning people whose first EU landing point was Italy.

      “Some of the returns are illegal, such as children or people who hold Italian permits,” said Narcisi. “But there are also those who are legally sent back due to the Dublin agreement. So there is little to protest about – we need to work to change the Dublin agreement instead of arguing.”

      https://www.theguardian.com/world/2019/feb/08/man-dies-hypothermia-france-italy-derman-tamimou-togo

    • Message posté sur la page Facebook de Chez Jésus, 10.02.2019 :

      Un altro morto.
      Un’altra persona uccisa dalla frontiera e dai suoi sorvegliatori.
      Un altro cadavere, che va ad aggiungersi a quelli delle migliaia di persone che hanno perso la vita al largo delle coste italiane, sui treni tra Ventimiglia e Menton, sui sentieri fra le Alpi che conducono in Francia.

      Tamimou Derman, 28 anni, originario del Togo. Questo è tutto quello che sappiamo per ora del giovanissimo corpo trovato steso al lato della strada tra Claviere e Briancon. Tra Italia e Francia. È il quarto cadavere ritrovato tra queste montagne da quando la Francia ha chiuso le frontiere con l’Italia, nel 2015. Da quando la polizia passa al setaccio ogni pullman, ogni treno e ogni macchina alla ricerca sfrenata di stranieri. E quelli con una carnagione un po’ più scura, quelli con un accento un po’ diverso o uno zaino che sembra da viaggiatore, vengono fatti scendere, e controllati. Se non hai quel pezzo di carta considerato «valido», vieni rimandato in Italia. Spesso dopo minacce, maltrattamenti o furti da parte della polizia di frontiera.

      Giovedì è stato trovato un altro morto. Un’altra persona uccisa dal controllo frontaliero, un’altra vita spezzata da quelle divise che pattugliano questa linea tracciata su una mappa chiamata frontiera, e dai politicanti schifosi che la vogliono protetta.
      Un omicidio di stato, l’ennesimo.
      Perché non è la neve, il freddo o la fatica a uccidere le persone tra queste montagne. I colpevoli sono ben altri. Sono gli sbirri, che ogni giorno cercano di impedire a decine di persone di perseguire il viaggio per autodeterminarsi la loro vita. Sono gli stati, e i loro governi, che di fatto sono i veri mandanti e i reali motivi dell’esistenza stessa dei confini.

      Un altro cadavere. Il quarto, dopo blessing, mamadu e un altro ragazzo mai identificato.
      Rabbia e dolore si mischiano all’odio. Dolore per un altro morto, per un’altra fine ingiusta. Rabbia e odio per coloro che sono le vere cause di questa morte: le frontiere, le varie polizie nazionali che le proteggono, e gli stati e i politici che le creano.
      Contro tutti gli stati, contro tutti i confini, per la libertà di tutti e tutte di scegliere su che pezzo di terra vivere!

      Abbattiamo le frontiere, organizziamoci insieme!

      Un autre mort. Une autre personne tuée par la frontière et ses gardes. Un autre cadavre, qui s’ajoute aux milliers de personnes mortes au large des côtes italiennes, sous des trains entre Vintimille et Menton, sur les chemins alpins qui mènent en France.
      Derman Tamimou, 28 ans, originaire du Togo. C’est tout ce qu’on sait pour le moment du très jeune corps retrouvé allongé sur le bord de la route vers Briançon entre l’Italie et la France. C’est le 4e corps trouvé dans cette vallée depuis que la France a fermé ses frontières avec l’Italie en 2015. Depuis que la police contrôle chaque bus, chaque train, chaque voiture, à la recherche acharnée d’étrangers. Et celleux qui ont la peau plus foncée, celleux qui ont un accent un peu différent, ou se trimballent un sac à dos de voyage, on les fait descendre et on les contrôle. Si tu n’as pas les papiers qu’ils considèrent valides, tu es ramené directement en Italie. Souvent, tu es victime de menaces et de vols de la part de la PAF (police aux frontières).
      Le 7 février 2019, un corps a été retrouvé. Une autre personne tuée par le contrôle frontalier. Une autre vie brisée par ces uniformes qui patrouillent autour d’une ligne tracée sur une carte, appelée frontière. Tuée par des politiciens dégueulasses qui veulent protéger cette frontière. Encore un homicide d’État. Parce que ce n’est pas la neige, ni le froid, ni la fatigue qui a tué des personnes dans ces montagnes. Les coupables sont tout autres. Ce sont les flics, qui essaient tous les jours d’empêcher des dizaines de personnes de poursuivre leur voyage pour l’autodétermination de leur vie.
      Ce sont les États et leurs gouvernements qui sont les vrais responsables et les vraies raisons de l’existence même des frontières. Un autre corps, le quatrième après Blessing, Mamadou, et Ibrahim. Rage et douleur se mêlent à la haine. Douleur pour une autre mort, pour une autre fin injuste. Rage et haine envers les véritables coupables de cette mort : les frontières, les différentes polices nationales qui les protègent, les États et les politiques qui les créent.
      Contre tous les États, contre toutes les frontières, pour la liberté de toutes et tous de choisir sur quel bout de terre vivre.
      Abattons les frontières, organisons-nous ensemble !


      https://www.facebook.com/362786637540072/photos/a.362811254204277/541605972991470

    • Immigration. Dans les Hautes-Alpes, la chasse aux étrangers fait un mort

      Une enquête a été ouverte après le décès, jeudi, à proximité de Briançon, d’un jeune exilé qui venait de franchir la frontière franco-italienne. Les associations accusent les politiques ultrarépressives de l’État.

      « C ’est la parfaite illustration d’une politique qu’on dénonce depuis deux ans ! » Michel Rousseau, membre du collectif Tous migrants dans les Hautes-Alpes, ne décolère pas depuis l’annonce, jeudi matin, de la mort de Taminou, un exilé africain, à moins de 10 kilomètres de la frontière franco-italienne. Le quatrième en moins de neuf mois... Découvert vers 3 heures du matin, sur une zone de chaînage de la route nationale reliant Briançon à Montgenèvre, le jeune homme aurait succombé au froid, après avoir tenté de passer la frontière. Évitant les patrouilles de police, il aurait pendant plusieurs heures arpenté les montagnes enneigées, avant d’y perdre ses bottes et de continuer en chaussettes.

      « Les premiers éléments d’identification (...) permettent de s’orienter vers un Togolais âgé de 28 ans ayant précédemment résidé en Italie, indique la préfecture dans un communiqué. Il serait parti à pied de Clavières avec un groupe de plus d’une dizaine d’hommes pour traverser la frontière nuitamment. Présentant des signes de grande fatigue, il aurait été déposé auprès de la RN94 par certains de ses compagnons de route qui semblent avoir été à l’origine de l’appel des secours. »

      Une politique ultrarépressive à l’égard des citoyens solidaires

      Postés au milieu de la route, les amis de Taminou auraient tenté de stopper plusieurs voitures, sans qu’aucune s’arrête. Une patrouille de la police aux frontières serait arrivée sur le lieu du drame, deux heures après le premier appel au secours, y trouvant un camionneur en train de venir en aide au malheureux frappé d’hypothermie et en arrêt cardio-respiratoire. Pris en charge par le Samu, le jeune homme a finalement été déclaré mort à son arrivée à l’hôpital de Briançon.

      Une enquête pour non-assistance à personne en danger et pour homicide involontaire a été ouverte par le parquet de Gap. « Les conducteurs des véhicules qui ne se sont pas arrêtés ne doivent pas dormir tranquille », acquiesce Michel, s’inquiétant cependant de savoir qui sera réellement visé par les investigations de la police. « La préfecture pointe régulièrement les maraudeurs solidaires qui tentent de venir en aide aux exilés égarés dans nos montagnes, explique-t-il. À l’image des accusations portées contre les bateaux de sauveteurs en mer, en Méditerranée, on les rend responsables d’un soi-disant appel d’air. »

      En réalité, c’est suite au bouclage de la frontière à Menton et dans la vallée de la Roya que, depuis deux ans, cette route migratoire est de plus en plus empruntée. L’État y mène aujourd’hui une politique ultrarépressive à l’égard des citoyens solidaires et des exilés. En moins d’un an, dans le Briançonnais, 11 personnes ont été condamnées pour délit de solidarité, dont 9 à des peines de prison, et des violations régulières des droits des étrangers y sont régulièrement dénoncées par les associations. Plusieurs d’entre elles, dont Amnesty International, Médecins du monde et la Cimade, ont réuni, samedi, près de 200 personnes sur le champ de Mars de Briançon pour rendre hommage à Taminou, malgré l’interdiction de manifester émise par la préfecture au prétexte de l’ouverture de la saison hivernale.

      Pour elles, c’est au contraire la chasse aux exilés et à leurs soutiens qu’il faut pointer, « les renvois systématiques en Italie au mépris du droit, les courses-poursuites, les refus de prise en charge, y compris des plus vulnérables : ces pratiques qui poussent les personnes migrantes à prendre toujours plus de risques, comme celui de traverser des sentiers enneigés, de nuit, en altitude, par des températures négatives, sans matériel adéquat », accusent les associations.

      Ce mercredi soir, justement, la présence policière était particulièrement importante dans la zone. « Ce drame aurait pu être évité, s’indigne un habitant, qui préfère conserver l’anonymat. Les maraudeurs solidaires étaient sur le terrain. Ils ont vu passer toutes ces personnes et, s’ils ne les ont pas récupérées, c’est soit parce qu’ils se savaient surveillés par la PAF, qui les aurait interpellés, soit parce que les exilés eux-mêmes en ont eu peur, les prenant pour des policiers en civil. » Espérons que l’enquête pointera les véritables responsables de la mort de Taminou.

      https://www.humanite.fr/immigration-dans-les-hautes-alpes-la-chasse-aux-etrangers-fait-un-mort-6677

    • Derman Tamimou e il tema di una bambina di nove anni

      “Le persone che ho visto, tra i migranti, mi sembravano persone uguali a noi, non capisco perchè tutti pensano che siano diverse da noi. Secondo me aiutare le persone, in questo caso i migranti, è una cosa bella”.

      Derman Tamimou aveva 29 anni, era arrivato in Italia dal Togo e, nella notte tra il 6 e il 7 febbraio, ha intrapreso il suo ultimo viaggio nel tentativo di varcare il confine. Un camionista ne ha scorto il corpo semiassiderato e rannicchiato tra la neve ai bordi della statale del colle di Monginevro. Nonostante l’immediato trasporto all’ospedale di Briancon, Derman è morto poco dopo.

      E’ difficile immaginare cosa abbia pensato e provato Derman negli ultimi istanti della sua vita, prima di perdere conoscenza per il gelo invernale. Quali sogni, speranze, ricordi, … quanta fatica, rabbia, paura …

      Potrebbe essere tranquillizzante pensare a questa morte come tragica fatalità e derubricarla a freddo numero da aggiungere alla lista di migranti morti nella ricerca di un futuro migliore in Europa. Eppure quell’interminabile lista parla a ognuno di noi. Racconta di vite interrotte che, anche quando non se ne conosce il nome, ci richiamano a una comune umanità da cui non possiamo prescindere per non smarrire noi stessi. A volte lo ricordiamo quando scopriamo, cucita nel giubbotto di un quattordicenne partito dal Mali e affogato in un tragico naufragio nel 2015, una pagella, un bene prezioso con cui presentarsi ai nuovi compagni di classe e di vita. Altre volte lo ricordano i versi di una poesia “Non ti allarmare fratello mio”, ritrovata nelle tasche di Tesfalidet Tesfon, un giovane migrante eritreo, morto subito dopo il suo sbarco a Pozzallo, nel 2018, a seguito delle sofferenze patite nelle carceri libiche e delle fatiche del viaggio: “È davvero così bello vivere da soli, se dimentichi tuo fratello al momento del bisogno?”. È davvero così bello?

      L’estate scorsa, lungo la strada in cui ha perso la vita Derman Tamimou, si poteva ancora trovare un ultimo luogo di soccorso e sostegno per chi cercava di attraversare il confine. Un rifugio autogestito che è stato sgomberato in autunno, con l’approssimarsi dell’inverno, senza alcuna alternativa di soccorso locale per i migranti. Per chiunque fosse passato da quei luoghi non era difficile prevedere i rischi che questa chiusura avrebbe comportato. Bastava fermarsi, incontrare e ascoltare i migranti, i volontari e tutte le persone che cercavano di portare aiuto e solidarietà, nella convinzione che non voltare lo sguardo di fronte a sofferenze, rischi e fatiche altrui sia l’unica strada per restare umani.

      Incontri che una bambina di nove anni, in quelle che avrebbe voluto fossero le sue “Montagne solidali”, ha voluto raccontare così: “Oggi da Bardonecchia, dove in stazione c’è un posto in cui aiutano i migranti che cercano di andare in Francia, siamo andati in altri due posti dove ci sono i migranti che si fermano e ricevono aiuto nel loro viaggio, uno a Claviere e uno a Briancon. In questi posti ci sono persone che li accolgono, gli danno da mangiare, un posto dove dormire, dei vestiti per ripararsi dal freddo, danno loro dei consigli su come evitare pericoli e non rischiare la loro vita nel difficile percorso di attraversamento del confine tra Italia e Francia tra i boschi e le montagne. I migranti, infatti, di notte cercano di attraversare i boschi e questo è difficile e pericoloso, perchè possono farsi male o rischiare la loro vita cadendo da un dirupo. I migranti scelgono di affrontare il loro viaggio di notte perchè è più difficile che la polizia li veda e li faccia tornare indietro. A volte, per sfuggire alla polizia si feriscono per nascondersi o scappare. Nel centro dove sono stata a Claviere, alcuni migranti avevano delle ferite, al volto e sulle gambe, causate durante i tentativi di traversata. Infatti i migranti provano tante volte ad attraversare le montagne, di solito solo dopo la quarta o quinta volta riescono a passare. La traversata è sempre molto pericolosa, perchè non conoscono le montagne e le strade da percorrere, ma soprattutto in inverno le cose sono più difficili perchè con la neve, il freddo, senza i giusti vestiti e scarpe, del cibo caldo e non conoscendo la strada tutto è più rischioso. Lo scorso inverno, sul Colle della Scala, sono morte diverse persone provando a fare questo viaggio. Anche le persone che li aiutano sono a rischio, perchè solo per aver dato loro da mangiare, da dormire e dei vestiti possono essere denunciate e arrestate. Oggi sette ragazzi sono in carcere per questo. Io penso che non è giusto essere arrestati quando si aiutano le persone. A Briancon, dove aiutano i migranti che hanno appena attraversato il confine, ho visto alcuni bambini e questa cosa mi ha colpito molto perchè vuol dire che sono riusciti a fare un viaggio così lungo e faticoso attraverso i boschi e le montagne. Qui ho conosciuto la signora Annie, una volontaria che aiuta i migranti appena arrivati in Francia, una signora gentile e molto forte, che è stata chiamata 8 volte ad andare dalla polizia per l’aiuto che sta dando ai migranti, ma lei sorride e continua a farlo, perchè pensa che non aiutarli sia un’ingiustizia. Le persone che ho visto, tra i migranti, mi sembravano persone uguali a noi, non capisco perchè tutti pensano che siano diverse da noi. Secondo me aiutare le persone, in questo caso i migranti, è una cosa bella”.

      http://www.vita.it/it/article/2019/02/10/derman-tamimou-e-il-tema-di-una-bambina-di-nove-anni/150635

    • Reportage. In Togo a casa di #Tamimou, il migrante morto di freddo sulle Alpi

      Da Agadez alla Libia, poi l’attesa in Italia. Il papà: «Non aveva i soldi per far curare la madre». Le ultime parole su Whatsapp: «Ho comprato il biglietto del treno e partirò domani per la Francia»

      Il villaggio di #Madjaton si trova tra le verdi colline di Kpalimé, una tranquilla città nel sud-ovest del Togo. Un luogo dalla natura lussureggiante e il terreno fertile. È qui che è cresciuto Tamimou Derman, il migrante deceduto per il freddo il 7 febbraio mentre cercava di superare a piedi il confine tra l’Italia e la Francia. La sua famiglia è composta da padre, madre, tre fratelli, e una sorella. Sono tutti seduti all’ombra di un grande albero in attesa di visite e notizie.

      «Salam aleikum, la pace sia con voi» dicono con un sorriso all’arrivo di ogni persona che passa a trovarli per le condoglianze. L’accoglienza è calorosa nonostante la triste atmosfera. «È stato un nostro parente che vive in Libia a darci per primo la notizia», dice Samoudini, il fratello maggiore di 35 anni. «All’inizio non potevamo crederci, ci aveva spedito un messaggio vocale due giorni prima della partenza per la Francia. Poi le voci si sono fatte sempre più insistenti – continua Samoudini – e le speranze sono piano piano svanite. Ora il nostro problema principale è trovare i soldi per far ritornare la salma».

      Tamimou è la prima vittima dell’anno tra chi, come molti altri migranti africani, ha tentato di raggiungere la Francia dall’Italia attraverso le Alpi. Il giovane togolese era partito con un gruppo di altri venti ragazzi. Speravano di eludere gli agenti di polizia che pattugliano una zona sempre più militarizzata. «Diciamo a tutti i migranti di non incamminarsi per quei valichi in questa stagione – ha spiegato alla stampa Paolo Narcisi, medico e presidente della Onlus torinese, Rainbow for Africa – . È un passaggio troppo rischioso».

      Prima di avventurarsi tra la neve e il gelo, Tamimou aveva appunto lasciato un messaggio alla famiglia. «Ho comprato il biglietto del treno e partirò domani per la Francia – si sente in un audio whatsapp di circa un minuto –. Pregate per me e se Dio vorrà ci parleremo dal territorio francese». Il padre e un amico, uno accanto all’altro, scoppiano a piangere. La mamma, seduta tra il gruppo delle donne, resta immobile con gli occhi rossi. La sorella pone invece il capo tra le ginocchia ed emette un leggero singhiozzo. Per alcuni secondi restiamo in un silenzio profondo, interrotto solamente dalle voci dei bambini del villaggio che rincorrono cani e galline. Ascoltare la voce di Tamimou riporta la famiglia al momento in cui è giunta la notizia del suo decesso, l’8 febbraio.


      «Non volevamo che partisse per l’Europa», riprende Inoussa Derman, il papà, cercando di trattenere le lacrime. «Lui però era determinato. Si sentiva responsabile per le condizioni di salute di mia moglie che, tuttora – racconta il genitore – soffre di ipertensione e per diverso tempo è stata ricoverata in ospedale. Non avevamo i soldi per pagare le cure». La madre, Issaka, fissa il terreno senza parlare. Sembra avvertire il peso di una responsabilità legata alla partenza del figlio. Tamimou si era dato da fare subito dopo la scuola. Aveva lavorato a Kpalimé come muratore prima di trasferirsi in Ghana per due anni e continuare il mestiere. Non riuscendo a guadagnare abbastanza, aveva deciso di partire per l’Europa nel 2015. Con i suoi risparmi e un po’ di soldi chiesti a diversi conoscenti, ha raggiunto la città nigerina di Agadez, da decenni importante crocevia della rotta migratoria proveniente da tutta l’Africa occidentale e centrale. Dopo qualche mese il ragazzo ha contattato la famiglia dalla Libia. «Ci diceva quanto era pericoloso a causa dei continui spari e degli arresti indiscriminati – aggiunge Moussara, la sorella di 33 anni –. Gli abbiamo detto più volte di tornare, ma non ci ha voluto ascoltare».

      Tamimou ha trascorso almeno 18 mesi in Libia in attesa di trovare i soldi per continuare il viaggio.

      «Ci sentivamo spesso anche quando ha oltrepassato il ’grande fiume’ per arrivare in Italia – racconta Satade, un amico d’infanzia, in riferimento al Mar Mediterraneo –. Con i nostri ex compagni di scuola avevamo infatti creato un gruppo su whatsapp per rimanere in contatto con lui».

      Dopo più di 16 mesi in Italia, il migrante togolese raccontava alla famiglia di essere ancora disoccupato. «Non ho trovato niente – spiegava in un altro messaggio vocale –. In Italia ci vogliono i documenti per lavorare e io non riesco a ottenerli». La decisione di partire per la Francia era stata presa con grande sofferenza. Diversi amici avevano assicurato al migrante togolese che al di là del confine sarebbe stato molto più facile trovare un impiego. Ma di Tamimou, in Francia, è arrivato solo il cadavere. Da giorni è ospitato all’obitorio dell’ospedale di Briançon. La famiglia è in contatto con un cugino che vive da diversi anni in Italia e sta seguendo le pratiche. Parenti e amici vogliono riportare il corpo di Tamimou nel caldo di Madjaton, a casa, per seppellirlo secondo le usanze tradizionali. «Gli avevamo detto di non partire – insiste il padre –. Ma non si può fermare la determinazione di un giovane sognatore».

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/in-togo-a-casa-di-tamimou-migrante-morto-freddo-alpi
      #ceux_qui_restent

    • Notre frontière tue : Tamimou Derman n’est plus — Récit d’une #maraude solidaire

      Chaque nuit, des exilé·e·s tentent d’arriver en France par le col de Montgenèvre malgré le froid, la neige et l’omniprésence de la Police. En dépit des maraudes spontanées des habitant·e·s, certain·e·s y perdent la vie. Comme Tamimou Derman, retrouvé mort d’hypothermie la nuit du 6 au 7 février 2019. Cette semaine-là, une vingtaine de membres de la FSGT ont maraudé avec les locaux. Récit.

      D’un mélèze à l’autre, quatre ombres noires glissent sur la neige blanche. Au cœur de la nuit, les ombres sont discrètes, elles marchent sans bruit. Elles traversent les pistes de ski et s’enfoncent vers les profondeurs de la forêt, malgré les pieds glacés, les mains froides et les nuages de leurs souffles courts.

      Les ombres sont craintives comme des proies qui se savent épiées : elles nous fuient.

      Nous les poursuivons sans courir, pour ne pas les effrayer davantage. Nous lançons plusieurs cris sur leur trace, et nous réussissons finalement à les rattraper. Leurs mains sont de glace : nous les serrons et nous disons aux ombres qu’elles ne craignent rien, que nous voulons les sortir du froid et de la neige, que nous sommes là pour les aider.

      Les quatre ombres deviennent des hommes encore pétris de crainte. Leurs yeux hagards demandent : "Êtes-vous la Police ?". Malgré la peur, les ombres devenues hommes montent dans notre voiture. Nous dévalons la route qui serpente entre les montagnes. Les quatre hommes sont saufs.

      Je me réveille en sursaut : ce n’était qu’un rêve.

      Parce qu’hier soir, les quatre ombres se sont enfoncées dans la forêt. Parce qu’hier soir, nous n’avons pas pu les rattraper. Parce qu’hier soir, nous n’avons pas su les rattraper. Parce qu’hier soir, les quatre ombres ont cru voir en nous des officiers de Police venus pour les arrêter.

      Quelques heures après ce réveil agité, la nouvelle tombe.

      Cette nuit, une ombre est morte.

      De la neige jusqu’aux hanches, l’ombre a senti ses frêles bottes se faire aspirer par l’eau glacée. Ses chaussures noyées au fond de la poudreuse, disparues. En chaussettes, l’ombre a continué à marcher entre les mélèzes. L’ombre n’avait pas le luxe de choisir. Épuisée, gelée jusqu’aux os, l’ombre a perdu connaissance. Ses frères de l’ombre l’ont portée jusqu’à la route pour tenter de la sauver, quitte à se faire attraper par la Police. Ils ont appelé les secours.

      L’ambulance est arrivée près de deux heures plus tard.

      L’ombre a été retrouvée sur un chemin forestier, au bord de la route nationale 94, reliant la frontière italienne et la ville de Briançon. L’autopsie confirmera ce que ses frères savaient déjà : décès par hypothermie.

      L’ombre avait dit au revoir à sa famille, puis elle avait peut-être traversé le désert. Elle avait peut-être échappé aux geôles libyennes, aux tortures et aux trafics en tout genre. L’ombre s’était peut-être fait voler ses maigres économies par des passeurs. L’ombre avait peut-être bravé les tempêtes de la Méditerranée entassée avec cent autres ombres sur un canot pneumatique. Et tant d’autres mésaventures.

      L’ombre avait jusque-là échappé aux polices européennes qui la traquaient uniquement parce que ce que l’ombre voulait, c’était arrêter d’être une ombre.

      L’ombre avait traversé la moitié du globe mais son chemin s’est arrêté en France, à quelques kilomètres de la frontière, parce que l’ombre a eu peur de la Police française.

      L’ombre, c’était Tamimou Derman. Tamimou Derman avait notre âge. Tamimou Derman n’était qu’un homme qui rêvait d’une vie meilleure.

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      -- Contexte —

      Dans la nuit du mercredi 6 au jeudi 7 février 2019, j’ai participé à une maraude solidaire dans la station de ski de Montgenèvre avec des amis de la FSGT (Fédération Sportive et Gymnique du Travail), dans le cadre d’un séjour organisé et patronné par cette fédération.

      Ce séjour annuel se concentre habituellement sur les seules activités de loisir de montagne. Cette année, il a été décidé d’organiser cette sortie dans la région de Briançon, à quelques kilomètres de la frontière franco-italienne, afin de montrer notre solidarité envers les locaux qui portent assistance aux personnes qui arrivent en France, au niveau du col de Montgenèvre, situé à 1800m d’altitude.

      Chaque soir, quelques uns et quelques unes de la vingtaine de participants à ce séjour partaient en maraude pour accompagner les gens de la vallée qui eux, toute l’année, sauvent des vies là-haut. La loi ne peut nous considérer comme des passeurs : nous n’avons fait passer la frontière à personne. Nous étions uniquement là pour porter assistance aux personnes en danger de mort sur le territoire français. S’il fallait encore une preuve, Tamimou Derman est mort d’hypothermie, la nuit où j’ai maraudé.

      Bien que légales, ces maraudes semblent être considérées de facto comme illégale par les forces de l’ordre : elles tentent de les entraver par tous les moyens, surtout par l’intimidation. C’est aussi pour cela que j’ai voulu partager ce récit.

      -- #Chasse_à_l'homme

      Dès que les pistes de ski de Montgenèvre ferment, que le soleil se couche et que les vacanciers se reposent, un obscur jeu du chat et de la souris se noue sous les fenêtres de leurs résidences. Une véritable chasse à l’homme.

      Tous les soirs ou presque, des hommes et des femmes tentent de gagner notre pays depuis le village italien de Clavière. À 500 mètres à peine de ce village, de l’autre côté de la frontière, la rutilante station de ski de Montgenèvre. Pour parcourir cette distance ridicule, ils mettent plus de trois heures. Parce qu’ils passent par la forêt, traversent des torrents glacés, parce qu’ils marchent dans le froid et la neige. Enfin, ils tentent enfin de se fondre dans les ombres de Montgenèvre avant d’entamer les 10 kilomètres de chemins enneigés qui les séparent de Briançon.

      « Des témoignages parlent de poursuites en motoneige, en pleine nuit »

      Côté français, par tous les moyens ou presque, la police et la gendarmerie les guettent pour les arrêter : des témoignages parlent de poursuites en motoneige, en pleine nuit, forçant ces hommes et ces femmes à fuir pour tenter se cacher par tous les moyens au risque de tomber dans des réserves d’eau glacées ou des précipices. Des récits parlent de séquestration dans des containers sans eau, ni nourriture, ni chauffage, ni toilettes, ni rien ; tout ça pour les renvoyer quelques heures plus tard en Italie, encore congelés. D’autres attestent que la police et la gendarmerie bafouent les droits élémentaires de la demande d’asile. Toujours d’après des témoignages, la police et la gendarmerie se déguiseraient en civils pour mieux amadouer et alpaguer celles et ceux qui tentent la traversée. À plusieurs reprises, la police et la gendarmerie auraient été aidées par les nazillons du groupuscule fachiste "Génération Identitaire" qui patrouillent eux aussi dans les montagnes. Certains de ceux qui tenteraient le passage se seraient vus déchirer leurs papiers d’identité attestant leur minorité par la police et la gendarmerie, et donc se voir déchirer le devoir qu’a la France de les protéger. Et bien d’autres infamies.

      Tous les soirs ou presque, enfin, des habitants de la région de Briançon sont là pour essayer de secourir ces personnes qui tentent de passer la frontière, même quand il fait -20°c, même quand il neige, même quand la police est en ébullition, partout dans la ville.

      Sur place, impossible de ne pas entendre l’écho de l’histoire des Justes dans le vent glacial.

      -- Ce que j’ai vu —

      Dans la nuit du mercredi 6 au jeudi 7 février, il faisait environ -10°c à Montgenèvre. Plus d’un mètre de neige fraiche recouvrait la forêt. Une vingtaine de personne étaient a priori descendues d’un bus, côté Italien de la frontière. Supposément pour tenter la traversée. Mes compagnons maraudeurs et moi-même attendions dans Montgenèvre, pour essayer d’aller à la rencontre d’un maximum d’entre eux.

      À l’aide de jumelles, des maraudeurs ont alors vu une quinzaine d’ombres se faufiler entre les arbres qui bordent les pistes de ski. Quatre d’entre eux ont été accueillis de justesse par deux maraudeurs.

      Cela faisait vraisemblablement trois heures qu’ils marchaient dans la neige. Ils n’étaient clairement pas équipés pour ces conditions. L’un des quatre avait un centimètre de glace sur chaque main et les pieds congelés. Il était tombé dans un torrent qui avait emporté le reste de ses affaires.
      Les deux maraudeurs lui ont donné des chaussettes de rechange, des gants, du thé chaud et à manger.

      Les maraudeurs racontent qu’à ce moment-là, alors qu’ils les avaient hydraté, réchauffé, nourri et donné des vêtements chauds, les quatre hommes pensaient encore s’être fait attrapés par la police. La peur irradiait le fond de leurs yeux.

      « Nous leur avons crié que nous n’étions pas la Police, que nous étions là pour les aider »

      Précisément à cet instant-là, j’étais ailleurs dans Montgenèvre, avec d’autres maraudeurs. Avec nos jumelles, nous avons vu quatre autres ombres se faufiler entre les mélèzes et traverser les pistes de ski discrètement. Nous savions qu’ils craignaient de se faire attraper par la Police. La nuit, ici, n’importe quel groupe de personnes ressemble à une patrouille de policiers.

      Nous avons décidé de les attendre, un peu dans la lumière, en espérant qu’ils nous voient et qu’ils ne prennent pas peur. Derrière nous, à travers les fenêtres éclairées des résidences, nous voyions les vacanciers regarder la télévision, manger leur repas. C’était surréaliste. Nous avions peur, sans doute moins qu’eux qui marchaient depuis des heures, mais nous aussi nous avions peur de la Police.

      Nous avons choisi de ne pas les aborder de loin, pour éviter qu’ils ne nous prenne pour des flics et qu’ils s’enfuient. Est-ce la bonne solution ? Qu’est-ce qui est le mieux à faire ? Vont-ils courir ? Une dizaine de questions d’angoisse nous frappaient.

      Nous avons attendu qu’ils arrivent non loin de nous. Ils ne nous avaient pas vu. Nous avons attendu trop longtemps.

      Nous avons finalement avancé en leur criant (mais pas trop fort, pour ne pas alerter tout le voisinage — et les forces de l’ordre) que nous n’étions pas la Police, que nous étions là pour les aider, que nous avions du thé chaud et de quoi manger. Les trois premiers n’ont même pas tourné la tête, ils ont accéléré. Nous leur avons crié les mêmes choses. Le dernier de la file s’est retourné, tout en continuant de marcher très vite, et il nous a semblé l’entendre demander : "Quoi ? Qu’est-ce que vous dites ?" Nous avons répété ce qu’on leur avait déjà dit. Mais il était tiraillé entre ses amis qui ne se retournaient pas et notre proposition. Si tant est qu’il l’ait entendue, notre proposition, avec le bruit de la neige qui couvrait très probablement nos voix. Il a préféré suivre ses amis, ils se sont enfoncés dans la forêt en direction de Briançon et nous n’avons pas pu ni su les rattraper.

      Un sentiment d’horreur nous prend. Nous imaginons déjà la suite. Je me sens pire qu’inutile, méprisable.

      Malgré mes deux paires de chaussettes, mes collants, pantalon de ski, t-shirt technique, polaire, doudoune, énorme manteau, gants, bonnet, grosses chaussures, un frisson glacial m’a parcouru le corps. Eux marchaient depuis plus de trois heures.

      « J’étais là pour éviter qu’ils crèvent de froid »

      Nous ne pouvions plus les rejoindre : nous devions rapidement descendre les quatre que les autres maraudeurs avaient commencé réconforter. Nous sommes retournés à notre voiture, le cœur prêt à exploser, des "putain", des "c’est horrible" et d’autres jurons incompréhensibles qui sortait en torrents continus de notre bouche. Mais il fallait agir vite.

      B. et C. sont montés dans la voiture que nous conduisions et nous les avons amenés à Briançon via la seule et unique route qui serpente entre les montagnes. Je n’ai jamais autant souhaité ne pas croiser la Police.

      B. et C. n’ont pas beaucoup parlé, je ne leur ai pas non plus posé beaucoup de question. Que dire, que demander ?

      Quand j’ai raconté cette histoire à d’autres, on m’a demandé : "Ils venaient d’où ?" "Pourquoi ils voulaient venir en France ?" Dans cette situation, ces questions me semblaient plus qu’absurdes : elles étaient obscènes. J’étais là pour éviter qu’ils crèvent de froid et je n’avais pas à leur demander quoi que ce soit, à part s’ils voulaient que je monte le chauffage et les rassurer en leur disant qu’on arrivait en lieu sûr d’ici peu.

      Sur cette même route, un autre soir de la semaine, d’autres maraudeurs ont eux aussi transporté des personnes qui avaient traversé la frontière. Persuadés de s’être fait attraper par la Police, résignés, ces hommes d’une vingtaine d’années ont pleuré durant les 25 minutes du trajet.

      « Les ombres avaient toutes été avalées par la noirceur de la montagne blanche »

      Nous avons déposé les quatre au Refuge Solidaire, dans Briançon. Un lieu géré par des locaux et des gens de passage qui permet aux personnes qui ont traversé de se reposer quelques jours avant de continuer leur route. En arrivant, C. a cru faire un infarctus : c’était finalement une violente crise d’angoisse, une décompensation.

      À peine quelques minutes plus tard, nous sommes repartis vers Montgenèvre pour essayer de retrouver la dizaine d’autres ombres qui étaient encore dans la montagne et que nous n’avions pas vu passer. Alors qu’avant, nous n’avions pas vu un seul signe de la Police, une ou deux voitures tournait constamment dans la station. Vers minuit ou une heure du matin, nous nous sommes rendus à l’évidence : nous n’en verrons plus, cette nuit-là. Les ombres avaient toutes été avalées par la noirceur de la montagne blanche. Frustration indicible. Sentiment de ne pas avoir fait tout ce qu’on pouvait.

      Nous sommes repartis vers Briançon. Nous sommes passés juste à côté de l’endroit où Tamimou Derman était en train d’agoniser, mais nous ne le savions alors pas. À quelques minutes près, nous aurions pu le voir, l’amener aux urgences et peut-être le sauver.

      « La nuit du mercredi 6 au jeudi 7 février 2019, une vingtaine de personnes auraient tenté de traverser la frontière franco-italienne »

      En partant de Montgenèvre, une voiture était arrêtée avec les pleins phares allumés, en plein milieu de la petite route de montagne. Nous avons presque dû nous arrêter pour passer à côté. C’était la Police qui surveillait les voitures qui descendaient vers Briançon. Nous sommes passés, notre voiture s’est faite ausculter à la recherche de "migrants".

      Les "migrants", ils étaient dans la montagne, de la neige jusqu’aux hanches et en chaussettes, en train de mourir pour éviter précisément ce contrôle.

      La nuit du mercredi 6 au jeudi 7 février 2019, une vingtaine de personnes auraient tenté de traverser la frontière franco-italienne. Nous en avons accompagné quatre à Briançon. Quatre autres ont eu peur de nous, pensant que nous étions la Police. Ils seraient a priori bel bien arrivé au Refuge Solidaire, à pied. D’autres ont été interceptés par la police et renvoyés en Italie, à l’exception de deux jeunes mineurs confiés au Département. Tamimou Derman, lui, a été retrouvé sur le bord de la route, mort d’hypothermie.

      Le 15 mars prochain, une maraude géante est organisé à Montgenèvre. Pour médiatiser ce qui se passe là-bas. Pour que les chasses à l’homme cessent. Pour que les droits des personnes exilées soient enfin respectés. Et pour que plus personne ne meurt dans nos montagnes.

      Avec d’autres membres de la FSGT, nous y serons.

      https://blogs.mediapart.fr/maraudeurs-solidaires-fsgt/blog/200219/notre-frontiere-tue-tamimou-derman-nest-plus-recit-dune-maraude-soli

    • Hautes-Alpes : un nouveau décès, conséquence tragique des politiques migratoires [Alerte inter-associative]

      Dans la nuit du 6 au 7 février, un jeune homme est mort entre Montgenèvre et Briançon. Il avait rejoint la France depuis l’Italie après avoir passé plusieurs heures dans la montagne.

      Un drame qui alerte nos associations (Anafé, Amnesty International France, La Cimade, Médecins du Monde, Médecins sans Monde, Secours Catholique-Caritas France, Tous Migrants) qui, depuis plus de deux ans, ne cessent de constater et de dénoncer les violations des droits de la part des autorités françaises à la frontière : renvois systématiques en Italie au mépris du droit, courses-poursuites, refus de prise en charge y compris des plus vulnérables. Ces pratiques poussent les personnes migrantes à prendre toujours plus de risques, comme celui de traverser par des sentiers enneigés, de nuit, en altitude, par des températures négatives, sans matériel adéquat.

      En dépit d’alertes répétées, ces violations perdurent. Dans le même temps, les personnes leur portant assistance sont de plus en plus inquiétées et poursuivies en justice.

      Alors que les ministres de l’intérieur de l’Union européenne se sont réunis à Bucarest pour définir une réforme du régime de l’asile et des politiques migratoires, nos associations demandent le respect des droits fondamentaux des personnes réfugiés et migrantes pour que cessent, entre autres, les drames aux frontières.

      Un rassemblement citoyen à Briançon est prévu
      Ce samedi 9 février 2019 à 15h
      Au Champ de Mars
      Des représentants des associations locales seront disponibles pour témoigner

      http://www.anafe.org/spip.php?article518

    • REPORTAGE - Hautes-Alpes : une frontière au-dessus des lois

      Humiliés et pourchassés, des migrants voient leurs droits bafoués dans les Hautes-Alpes.

      Un mort de froid, une bavure et des maraudeurs : le reportage d’Anna Ravix à la frontière avec l’Italie.

      https://www.facebook.com/konbinifr/videos/639237329867456/?v=639237329867456
      #vidéo #mourir_aux_frontières

      Témoignage d’un migrant qui a fait la route avec #Tamimou, trouvé mort en février 2019 :

      « Au milieu des montagnes, on était perdus, totalement. On s’est dit : On ne va pas s’en sortir, on va mourir là. Tamimou, il ne pouvait plus avancer, il avait perdu ses deux bottes. En chaussettes, il marchait dans la neige. Ses pieds étaient congelés, ils sont devenus durs, même le sang ne passait plus. Et puis je l’ai porté, il me remerciait, il me remerciait... Il disait : ’Dieu va te bénir, Dieu va te bénir, aide-moi. En descendant, on a vu une voiture, un monsieur qui quittait la ville. On lui a expliqué le problème. Il a pris son téléphone et il a appelé le 112. Il a dit : ’Si vous ne venez pas vite, il va perdre la vie.’ C’est là qu’ils ont dit qu’ils seraient là dans 30 minutes. Il était 1 heure du matin, ils ne sont pas arrivés avant 3 heures du matin. »

      Tamimou est mort à l’hôpital à 4 heures du matin.

      « La mort du jeune », continue le témoin, « sincèrement, je peux dire que c’est le problème de la police. Le fait qu’on a appelé la police. Si ils étaient arrivés à temps, le jeune serait encore en vie ».

      –-> Le témoin a été interrogé par la police. Et ils ont reçu un OQTF.

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      Témoignage d’un maraudeur :

      Il n’y a pas de RV, on est là. Peut-être il n’y a personne aujourd’hui, je ne sais pas...
      Ce qui n’est pas évident, parce que quand ils nous voient, ils ont tendance à nous prendre pour les forces de l’ordre. ça, c’est quelque chose qu’ils ont mis en place l’été dernier. On a commencé à voir descendre des fourgons de la gendarmerie des personnes en shorts et en baskets. Les migrants, quand ils croisent ces personnes, ils les prenaient pour des randonneurs, ils demandaient des renseignements, et ils tombaient dans le panneau, quoi.

      –-----------------

      Témoignage d’un migrant (mineur au moment des faits), il revient sur des événements ayant eu lieu une année auparavant :

      « On est parti dans la forêt et c’est là que la police nous a attrapés. Ils nous ont obligés à retourner à la frontière de Clavière.
      Après, j’ai fouillé tous mes bagages et je trouvais plus mon argent, plus de 700 EUR. »

      Du coup, il va à la police et il enregistre la conversation. C’était le 04.08.2018
      –> cette conversation avec la police a été recensée ailleurs (sur seenthis aussi). Un policier avait dit :

      « Tu accuses la police de vol, ce soir tu es en garde à vue ici, demain t’es dans un avion »

    • Voir aussi le témoignage de #Marie_Dorléans de Tous Migrants :

      Au-delà de ces personnes qui ont survécu et échappé au pire, on voulait absolument rappeler aussi aujourd’hui celles qui n’ont pas eu cette chance et notamment parce qu’il faut pas s’habituer, parce qu’il ne faut pas que ces gens tombent dans l’anonymat. Le 7 février 2019, Tamimou, un jeune togolais de 28 ans, est mort d’épuisement et de froid au bord de la route nationale que la plupart d’entre vous viennent de monter. »

      Et de #Pâquerette_Forest de SOS Alpes solidaires :

      « Ils marchent quelques fois avec google maps sur le portable, si le portable fonctionne, parce que si il fait trop froid ils n’ont plus de batterie, et au bout d’un moment ça marche plus. Après il y a un peu des traces de gens qui se promènent et du passage quand il y a des gens qui passent tous les jours, donc ça peut aussi les aider. Après ils se repèrent aux lumières des villages. #Tamimou qui est décédé, il a perdu ses bottes au-dessus de La Vachette. Ils ont coupé, et on a bien compris qu’au début ils étaient sur une espèce de piste et puis à un moment ils ont coupé la piste et ils avaient de la neige jusque là [elle montre la hauteur de la neige avec ses mains sur les jambes, on ne voit pas sur la vidéo]. Lui il a perdu ses bottes, après ils ont essayé de le porter, et puis il était épuisé et puis il est mort »

      https://seenthis.net/messages/756096#message777436

    • Extrait du livre de Maurzio Pagliassotti,

      Ancora dodici chilometri

      :

      « Trovato da una camionista lungo la statale, come un cane abbandonato. Si muore così, lungo la rotta apina : si muore sempre così, solo che, a volte,capita che il cadavere finisca come una pietra d’inciampo nel cammino di qualcuno che non può evitarlo, che non può non vederlo. Noi, non vediamo cosa succede in questi boschi la notte, e la natura provvede a nascondere le nostre vergogne, a far sparire le prove della nostra miseria.
      Morto. Nella buia e gelida notte di questo febbraio, mentre l’Italia gioca a far la guerra alla Francia e questa richiama l’ambasciatore a Parigi. Si muore così, lungo la rotta alpina, nel tentativo di una fuga sempre più assurda, e disperata.
      Ventinove anni, dal Togo, si chiamava #Derman_Teminou. Aveva superato il campo da golf, la frontiera presidiata dalla gendarmeria, il paese del Monginevro silenzioso, le piste da sci e gli ultimi nottambuli che uscivano dalle discoteche. Ma non è riuscito a superare il freddo polare che piano piano lo ha stroncato, portandolo ad accucciarsi come un animale ferito in un cantuccio. Chissà cosa ha pensato in quelle ore di marcia da solo, forse da solo, se ha visto lontano il fondovalle da raggiungere, le luci delle città sempre più fioche negli occhi che si spengono, stroncati dal sonno.
      Molta neve è caduta questi giorni, e le montagne si sono trasformate in un mare bianco in cui nuotare. Una distesa farinosa in cui i migranti affondano passo dopo passo, con la coltre bianca che carpisce fino alle ascelle. Si vedono così, in questi giorni : come se fossero caduti nel Mediterraneo, annaspare con le braccia larghe e il collo teso, le bocche spalancate, naufraghi a 2000 metri di quota. I volontari tentano di recuperarli, di avvertirli, le raccomandazioni minacciose di questi bianchi sconosciuti devono suonare vagamente ridicole per chi arriva dai campi di sterminio della Libia.
      La procura di Gap apre un fascicolo per omicidio involontario : chissà cosa vuole dire. Chi sarebbe l’omicida involontario da trovare ? Qualcuno che lo ha abbandonato ? Un militare ? Un governo ? Sui quotidiani esce qualche sparuto articoletto che parla di ‘migrante morto’. Ma l’uomo trovato, ridotto ad essere un pezzo di ghiaccio, non è un ‘migrante’. L’uomo morto questa note, e tutti gli altri che non vengono nemmeno trovati perché dispersi in qualche dirupo o divorati dagli animali di queste foreste, sono fuggiaschi. Uomini, donne e bambini che scappano dall’Italia, che percepiscono, e vivono , come un paese pericoloso e ostile, da attraversare il più velocemente possibile o da abbandonare dopo anni di vita.
      Lo hanno portato all’ospedale di Briançon ancora in vita : ma il freddo gli aveva ormai ghiacciato il sangue e il cuore. Si muore così, lungo la rotta alpina. Lontani da ogni pietà, con i gendarmi che danno la caccia ai fuggiaschi e volontari : gli mancavano nove chilometri di strata lungo la statale. Non poteva farcela, in quelle condizioni, da solo, senza un amico, qualcuno a cui dire l’ultima parola della sua vita.
      Passa qualche giorno, finisco in una cena dove mi raccontano cosa è accaduto realmente la note in cui quell’uomo di ventinove anni è caduto. Uno dei tanti, delle decine di cui non sappiamo nulla dato che valgono solo qualche trafiletto nelle ultime pagine dei settimanali locali.
      Derman Tamimou arriva a Claviere insieme ad altri ‘migranti’ come sempre accade: con l’autobus serale che parte da Oulx e li scarica di fronte alla chiesetta. Sono ventuno : un gruppo imponente. Ma l’ordine di grandezza di questi plotoni che quotidianamente si arrendono e scappano è stabile. Partono e seguono la pista da sci di fondo : dopo circa mezz’ora vengono intercettati dai gendarmi, che ne prendono tredici. Otto riescono a fuggire nei boschi. Superano il piccolo villaggio del Monginevro e si dividono ulteriormente : cinque si gettano lungo la statale, tre rimangono lungo i sentieri che attraversano il ripido pendio che conduce a Monginevro.
      Tra questi tre c’è Darman che, a circa quattro chilometri dalla sua meta, si arrende e si sveste. E’ completamente bagnato, perché la neve da subito si è fatta strada nelle scarpe e nei vestiti. La neve nei piedi che dà un delirio e provoca l’illusione di un senso di calore che uccide passo dopo passo la percezione stessa della morte, che sale dai piedi fino al cuore.
      Si fermano e accendono un fuoco con i pochi legni secchi che trovano nei boschi. Impresa non semplice. Derman si spoglia ed espone al calore delle fiamme i suoi vestiti e il suo corpo. I suoi compagni intanto si gettano lungo la statale alla ricerca di aiuto : e qui accade qualcosa di incredibile. Qualcuno si ferma, ma dato che si tratta di due africani che chiedono aiuto per un loro amico che sta per morire, tutti decidono di proseguire.
      Una letale miscellanea di paura, buio, uominii neri e morte spinge in avanti il tempo senza che nulla accada. Le ore della notte diventano ore dell’alba, e i primi raggi di sole altro non sono che mezze illusioni. Derman si attorciglia su se stesso, ormai lasciato solo a morire nel suo buco. Le fiamme spente, i vestiti ghiacciati e rigidi che pendono da una croce di rami come un Cristo senza dignità. Lo trova un camionista, la corsa all’ospedale, la morte.
      Passano i giorni, si scopre che i suoi compagni vengono intercettati dai gendarmi che mostrano loro le foto di alcuni italiani : ‘Diteci chi vi ha aiutato a passare il confine’, questa la richiesta, che spiega la singlare accusa di ‘omicidio involntario’. Scorrono le foto dei volontari che sul fronte italiano di questa guerra ‘aiutano’ : colpa suprema, peccato totale da cui redenzione non può esistere ».
      (Pagliassotti, 2019 : 172-175)

    • Migranti. L’ultimo viaggio di Tamimou

      Il corpo del giovane morto di freddo sulle Alpi è tornato in Togo. L’articolo che «Avvenire» gli aveva dedicato, facendo visita alla sua famiglia, è stato ripubblicato da un giornale togolese

      Sono le 2:07 di giovedì mattina all’aeroporto internazionale Gnassingbé Eyadema di Lomé. L’aereo della Royal Air Maroc è appena atterrato. All’interno c’è la bara di Tamimou Derman, il migrante togolese morto assiderato tra le Alpi mentre cercava di attraversare a piedi il confine dall’Italia verso la Francia: https://www.avvenire.it/attualita/pagine/migrante-morte-assiderato-tra-italia-e-francia.

      Da oltre tre ore, un gruppo formato da una decina di familiari e amici attende paziente ai bordi della strada. Le guardie dell’aeroporto gli hanno detto di aspettare fuori dalla struttura. Sono solo uomini: padre, fratelli, cugini, zii e qualche amico d’infanzia. Hanno percorso tre ore di strada da Madjaton, il villaggio dove è cresciuto Tamimou. Il furgone bianco noleggiato per il viaggio avrà il compito di riportare indietro il corpo del ragazzo morto a 29 anni. Dopo essersi seduti al tavolo dell’unico bar ancora aperto, il gruppo spiega cosa è successo in queste settimane. «Un nostro cugino che vive in Italia ci ha dato la notizia settimana scorsa», racconta ad Avvenire Samoudine Derman, il fratello maggiore. «Ha raccolto i soldi per rimpatriare Tamimou. Siamo molto contenti – continua Samoudine –, finalmente potremo seppellirlo».

      Il migrante togolese era ancora vivo quando è stato trovato da un camionista lo scorso 7 febbraio sul ciglio della strada statale 94 del Colle del Monginevro. Come altri suoi compagni, Tamimou ha rischiato la vita per raggiungere clandestinamente la Francia dall’Italia. L’ambulanza l’ha trasportato nell’ospedale di Briançon dove il giovane ha però esalato il suo ultimo respiro. «Ringraziamo molto la stampa italiana per aver parlato di Tamimou – afferma Sadate Boutcho, un amico d’infanzia –. Dopo aver recuperato la bara torneremo subito al villaggio per il funerale». La cerimonia è stata annunciata su una radio locale. «Siamo musulmani, abituati a interrare il corpo il prima possibile e a ricevere per giorni le persone che vogliono dare l’ultimo saluto – afferma con un tiepido sorriso Isak, un altro amico e coetaneo della vittima –. Nel caso di Tamimou abbiamo però aspettato quasi due mesi».

      Il 19 febbraio Avvenire aveva pubblicato la storia del migrante intitolata ’Il sogno spezzato di mio figlio’: https://www.avvenire.it/attualita/pagine/in-togo-a-casa-di-tamimou-migrante-morto-freddo-alpi. Lo stesso articolo è stato ripubblicato sul giornale togolese L’Alternative il 22 febbraio. «È preoccupante che a parlare della morte di un nostro fratello sia stata prima la stampa italiana rispetto a quella togolese», ha ammesso Ferdinand Mensah Ayite, direttore della rivista. Nei giorni seguenti, per volere della famiglia Derman, due buste con dentro entrambi gli articoli e una lettera di richiesta di aiuto per il rimpatrio del cadavere sono state consegnate alla presidenza e al ministero degli Affari esteri togolesi. Nel mentre, Ganiou, il cugino di Tamimou residente in Italia, si è occupato delle formalità in Francia. «Abbiamo raccolto almeno 3.500 euro per le spese del trasporto – spiega Ganiou, arrivato a Lomé in anticipo per assicurarsi che tutto andasse a buon fine –. Ho ricevuto sostegno da un’organizzazione francese di cui preferisco non rivelare il nome». Il bar chiude e ci ritroviamo in strada. Ganiou è andato a seguire le ultime formalità. Il tempo continua a passare.

      Nessuno sa cosa stia succedendo con esattezza. Alle 4 e mezza di mattina, il padre di Tamimou, Inoussa Derman, si siede sul marciapiede vicino a un parente. Samoudine e gli altri si addormentano. Solo verso le 10 di mattina viene spedito ad Avvenire un messaggio con la foto della bara nel furgone. «Finalmente abbiamo recuperato il corpo – scrive Sadate –, il funerale è stato spostato quindi alle 3 del pomeriggio». La folla osserva la bara mentre viene calata in una buca scavata nella terra rossa di Madjaton. Il villaggio sprofonda nel silenzio. Potrà la morte di Tamimou arrestare la migrazione dei togolesi verso l’Europa? «Qui non c’è lavoro – aveva spiegato Isak durante l’attesa fuori dall’aeroporto –. Ho studiato da meccanico e, nonostante la drammatica fine di Tamimou, sono pronto a partire verso l’Italia o la Francia».

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/lultimo-viaggio-di-taminou

    • Derman Tamimou e il tema di una bambina di nove anni

      “Le persone che ho visto, tra i migranti, mi sembravano persone uguali a noi, non capisco perchè tutti pensano che siano diverse da noi. Secondo me aiutare le persone, in questo caso i migranti, è una cosa bella”

      Derman Tamimou aveva 29 anni, era arrivato in Italia dal Togo e, nella notte tra il 6 e il 7 febbraio, ha intrapreso il suo ultimo viaggio nel tentativo di varcare il confine. Un camionista ne ha scorto il corpo semiassiderato e rannicchiato tra la neve ai bordi della statale del colle di Monginevro. Nonostante l’immediato trasporto all’ospedale di Briancon, Derman è morto poco dopo.

      E’ difficile immaginare cosa abbia pensato e provato Derman negli ultimi istanti della sua vita, prima di perdere conoscenza per il gelo invernale. Quali sogni, speranze, ricordi, … quanta fatica, rabbia, paura …

      Potrebbe essere tranquillizzante pensare a questa morte come tragica fatalità e derubricarla a freddo numero da aggiungere alla lista di migranti morti nella ricerca di un futuro migliore in Europa. Eppure quell’interminabile lista parla a ognuno di noi. Racconta di vite interrotte che, anche quando non se ne conosce il nome, ci richiamano a una comune umanità da cui non possiamo prescindere per non smarrire noi stessi. A volte lo ricordiamo quando scopriamo, cucita nel giubbotto di un quattordicenne partito dal Mali e affogato in un tragico naufragio nel 2015, una pagella, un bene prezioso con cui presentarsi ai nuovi compagni di classe e di vita. Altre volte lo ricordano i versi di una poesia “Non ti allarmare fratello mio”, ritrovata nelle tasche di Tesfalidet Tesfon, un giovane migrante eritreo, morto subito dopo il suo sbarco a Pozzallo, nel 2018, a seguito delle sofferenze patite nelle carceri libiche e delle fatiche del viaggio: “È davvero così bello vivere da soli, se dimentichi tuo fratello al momento del bisogno?”. È davvero così bello?

      L’estate scorsa, lungo la strada in cui ha perso la vita Derman Tamimou, si poteva ancora trovare un ultimo luogo di soccorso e sostegno per chi cercava di attraversare il confine. Un rifugio autogestito che è stato sgomberato in autunno, con l’approssimarsi dell’inverno, senza alcuna alternativa di soccorso locale per i migranti. Per chiunque fosse passato da quei luoghi non era difficile prevedere i rischi che questa chiusura avrebbe comportato. Bastava fermarsi, incontrare e ascoltare i migranti, i volontari e tutte le persone che cercavano di portare aiuto e solidarietà, nella convinzione che non voltare lo sguardo di fronte a sofferenze, rischi e fatiche altrui sia l’unica strada per restare umani.

      Incontri che una bambina di nove anni, in quelle che avrebbe voluto fossero le sue “Montagne solidali”, ha voluto raccontare così: “Oggi da Bardonecchia, dove in stazione c’è un posto in cui aiutano i migranti che cercano di andare in Francia, siamo andati in altri due posti dove ci sono i migranti che si fermano e ricevono aiuto nel loro viaggio, uno a Claviere e uno a Briancon. In questi posti ci sono persone che li accolgono, gli danno da mangiare, un posto dove dormire, dei vestiti per ripararsi dal freddo, danno loro dei consigli su come evitare pericoli e non rischiare la loro vita nel difficile percorso di attraversamento del confine tra Italia e Francia tra i boschi e le montagne. I migranti, infatti, di notte cercano di attraversare i boschi e questo è difficile e pericoloso, perchè possono farsi male o rischiare la loro vita cadendo da un dirupo. I migranti scelgono di affrontare il loro viaggio di notte perchè è più difficile che la polizia li veda e li faccia tornare indietro. A volte, per sfuggire alla polizia si feriscono per nascondersi o scappare. Nel centro dove sono stata a Claviere, alcuni migranti avevano delle ferite, al volto e sulle gambe, causate durante i tentativi di traversata. Infatti i migranti provano tante volte ad attraversare le montagne, di solito solo dopo la quarta o quinta volta riescono a passare. La traversata è sempre molto pericolosa, perchè non conoscono le montagne e le strade da percorrere, ma soprattutto in inverno le cose sono più difficili perchè con la neve, il freddo, senza i giusti vestiti e scarpe, del cibo caldo e non conoscendo la strada tutto è più rischioso. Lo scorso inverno, sul Colle della Scala, sono morte diverse persone provando a fare questo viaggio. Anche le persone che li aiutano sono a rischio, perchè solo per aver dato loro da mangiare, da dormire e dei vestiti possono essere denunciate e arrestate. Oggi sette ragazzi sono in carcere per questo. Io penso che non è giusto essere arrestati quando si aiutano le persone. A Briancon, dove aiutano i migranti che hanno appena attraversato il confine, ho visto alcuni bambini e questa cosa mi ha colpito molto perchè vuol dire che sono riusciti a fare un viaggio così lungo e faticoso attraverso i boschi e le montagne. Qui ho conosciuto la signora Annie, una volontaria che aiuta i migranti appena arrivati in Francia, una signora gentile e molto forte, che è stata chiamata 8 volte ad andare dalla polizia per l’aiuto che sta dando ai migranti, ma lei sorride e continua a farlo, perchè pensa che non aiutarli sia un’ingiustizia. Le persone che ho visto, tra i migranti, mi sembravano persone uguali a noi, non capisco perchè tutti pensano che siano diverse da noi. Secondo me aiutare le persone, in questo caso i migranti, è una cosa bella”.

      https://www.vita.it/derman-tamimou-e-il-tema-di-una-bambina-di-nove-anni

  • Meloni, accordo con Rama prevede 2 centri migranti in Albania

    “L’accordo prevede di allestire centri per migranti in Albania che possano contenere fino a 3mila persone”. Lo ha detto la premier Giorgia Meloni dopo l’incontro a Palazzo Chigi con il primo ministro dell’Albania Edi Rama. “L’accordo che sigliamo oggi – ha aggiunto - arricchisce di un ulteriore tassello la collaborazione” tra i due Paesi e “quando ne abbiamo iniziato a discutere siamo partiti dall’idea che l’immigrazione illegale di massa è un fenomeno che nessuno Stato Ue può affrontare da solo e la collaborazione tra Stati Ue e Stati per ora extra Ue – per ora - è fondamentale”. “In questi due centri” i migranti resteranno “il tempo necessario per le procedure e una volta a regime nei centri ci potrà essere un flusso annuale complessivo di 36 mila persone”. “L’accordo non riguarda i minori e donne in gravidanza ed i soggetti vulnerabili – precisa – la giurisdizione sarà italiana. L’Albania collabora sulla sorveglianza esterna delle strutture. All’accordo che disegna la cornice, seguiranno una serie di protocolli. Contiamo di rendere operativi i centri in primavera”. (ANSA).

    https://it.euronews.com/2023/11/06/meloni-accordo-con-rama-prevede-2-centri-migranti-in-albania

    #Italie #asile #migrations #réfugiés #Albanie #accord #externalisation #centres

    ajouté à la Métaliste sur l’#accord entre #Italie et #Albanie pour la construction de #centres d’accueil (sic) et identification des migrants/#réfugiés sur le territoire albanais...
    https://seenthis.net/messages/1043873

    –-

    Et ajouté à la métaliste sur les différentes tentatives de différentes pays européens d’#externalisation non seulement des contrôles frontaliers, mais aussi de la #procédure_d'asile dans des #pays_tiers
    https://seenthis.net/messages/900122

    • Migranti, accordo Italia-Albania. Meloni: “Centri italiani nel loro Paese”. Il Pd: “Un pericoloso pasticcio”. Ue: “L’Italia rispetti il diritto comunitario”

      Il premier Edi Rama ricevuto a Palazzo Chigi dove è stato siglato un protocollo d’intesa in materia di gestione dei flussi. Accoglieranno fino a 3mila persone, solo coloro che saranno salvati in mare. Protestano + Europa e Avs

      La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ricevuto a Palazzo Chigi il primo ministro dell’Albania Edi Rama. «Sono contenta di annunciare con lui un protocollo d’intesa tra Italia e Albania in materia di gestione dei flussi migranti. L’Italia è il primo partner commerciale dell’Albania. C’è una strettissima collaborazione che già esiste nella lotta all’illegalità – dice Meloni durante le dichiarazioni congiunte con il collega albanese – L’accordo prevede di allestire due centri migranti in Albania che possano contenere fino 3mila persone. E arricchisce di un ulteriore tassello la collaborazione» tra i due Paesi e «quando ne abbiamo iniziato a discutere siamo partiti dall’idea che l’immigrazione illegale di massa è un fenomeno che nessuno Stato Ue può affrontare da solo e la collaborazione tra stati Ue e stati - per ora - è fondamentale».

      Un accordo contro cui si scagliano le opposizioni e che il Pd definisce “un pericoloso pasticcio”. Mentre da Bruxelles un portavoce della Commissione europea all’Adnkronos dice: «Siamo stati informati di questo accordo, ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate: l’accordo operativo deve ancora essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale».

      L’incontro tra i due primi ministri è stata anche l’occasione per ribadire il sostegno dell’Italia all’ingresso di Tirana in Ue. "L’Albania si conferma una nazione amica e nonostante non sia ancora parte dell’Unione si comporta come se fosse un paese membro e questa è una delle ragioni per cui sono fiera che l’Italia sia da sempre uno dei paesi sostenitori dell’allargamento ai Balcani occidentali”. E ancora. «L’Ue non è un club. Quindi, io non parlo di ingressi ma di riunificazione dei Balcani occidentali che sono Paesi Ue a tutti gli effetti», osserva Meloni. Che ricorda anche come l’Italia sia «il primo partner commerciale dell’Albania. Il nostro interscambio vale circa il 20% del Pil albanese. Ci sono intensi rapporti culturali e sociali. È una strettissima collaborazione che già esiste nella lotta all’illegalità. L’accordo di oggi arricchisce questa collaborazione con un ulteriore tassello», conclude la premier.
      Le reazioni

      Se la destra plaude all’intesa tra l’Italia e l’Albania, le opposizioni insorgono. «L’accordo che il governo Meloni ha raggiunto con il governo albanese sembra configurarsi come un pericoloso pasticcio, parecchio ambiguo. Se infatti si è, come sembra, di fronte a richiedenti asilo, appare assolutamente inimmaginabile compiere con personale italiano e senza esborso di risorse, come annunciato, le procedure di verifica delle domande d’asilo», attacca Pierfrancesco Majorino, responsabile Politiche migratorie della segreteria nazionale del Pd. “Praticamente si crea una sorta di Guantanamo italiana, al di fuori di ogni standard internazionale, al di fuori dell’Ue senza che possa esserci la possibilita’ di controllare lo stato di detenzione delle persone rinchiuse in questi centri"., protesta Riccardo Magi, segretario di Più Europa. E Angelo Bonelli di Alleanza Verdi e Sinisra aggiunge: Quello che il governo ha definito come un ’importantissimo protocollo di intesa’ non è altro che una politica di respingimento mascherata da cooperazione internazionale. Il governo italiano –prosegue - sta delegando la gestione dei migranti irregolari, di fatto esternalizzando le proprie responsabilità, con il rischio di creare campi di permanenza che potrebbero non assicurare standard adeguati di accoglienza e rispetto per la dignità umana".

      Ma il ministro degli Esteri Antonio Tajani replica: «L’accordo rafforza il nostro ruolo da protagonista in Europa ed apre nuove strade di collaborazione nell’Adriatico. Contrasto all’immigrazione irregolare e bloccare la tratta di esseri umani. Queste le priorita’ della nostra politica estera».
      Il protocollo d’intesa

      Il protocollo d’intesa tra Italia e Albania in materia di gestione dei flussi migratori siglato oggi, secondo quanto si apprende da fonti di palazzo Chigi, non si applica agli immigrati che giungono sulle coste e sul territorio italiani ma a quelli salvati in mare, fatta eccezione per minori, donne in gravidanza e soggetti vulnerabili. Le strutture realizzate, viene spiegato, potranno accogliere complessivamente fino a 3mila immigrati, per una previsione di 39mila persone accolte in un anno. L’accordo si pone un obiettivo di dissuasione rispetto alle partenze e di deterrenza rispetto al traffico di esseri umani.

      La giurisdizione dei due centri per migranti in Albania sarà italiana, spiega ancora Palazzo Chigi. I migranti, viene precisato, sbarcheranno a Shengjin e l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un centro di prima accoglienza e screening; a Gjader realizzerà una struttura modello Cpr per le successive procedure. L’Albania collaborerà con le sue forze di polizia per la sicurezza e sorveglianza. L’Albania, sottolinea ancora Palazzo Chigi, già vede un’importante presenza di forze dell’Ordine e magistrati italiani.
      Rama: “Se l’Italia chiama l’Albania c’è”

      “Se l’Italia chiama l’Albania c’è – risponde Rama – Non sta a noi giudicare il merito politico di decisioni prese in questo luogo e altre istituzioni, a noi sta rispondere ’Presente’ quando si tratta di dare una mano. Questa volta significa aiutare a gestire con un pizzico di respiro in più una situazione e difficile per l’Italia". «La geografia è diventata una maledizione per l’Italia, quando si entra in Italia si entra in Ue – spiega il premier Albanese – Noi non abbiamo la forza e la capacità di essere la soluzione ma abbiamo un dovere verso l’Italia e la capacità di dare una mano. L’Albania non fa parte dell’Unione ma è uno Stato europeo, ci manca la U davanti ma ciò non ci impedisce di essere e vedere il mondo come europei».

      https://www.repubblica.it/politica/2023/11/06/news/migranti_meloni_accordo_albania_edi_rama-419723671

      #Gjader #Shengjin #débarquement #identification #screening #premier_accueil #CPR

    • Migrants, accord Italie-Albanie. Meloni : « Des centres italiens dans leur pays ». Adhésion de Tirana à l’UE : « Nous l’avons toujours soutenue »

      Le Premier ministre Giorgia Meloni a reçu le Premier ministre de l’Albanie au Palazzo Chigi Edi Rama. “Je suis heureux d’annoncer avec lui un mémorandum d’accord entre l’Italie et l’Albanie sur la gestion des flux migratoires. L’Italie est le premier partenaire commercial de l’Albanie. Il existe déjà une collaboration très étroite dans la lutte contre l’illégalité – a déclaré Meloni lors de la réunion conjointe déclarations avec son collègue albanais – L’accord prévoit la création de centres de migrants en Albanie pouvant accueillir jusqu’à 3 mille personnes. Et il enrichit la collaboration « entre les deux pays avec une étape supplémentaire » et « lorsque nous avons commencé à en discuter, nous sommes partis du l’idée que l’immigration clandestine de masse est un phénomène auquel aucun État de l’UE ne peut lutter seul et que la collaboration entre les États de l’UE est – pour l’instant – fondamentale”.

      La rencontre entre les deux premiers ministres a également été l’occasion de réitérer le soutien de l’Italie à l’entrée de Tirana dans l’UE. “L’Albanie se confirme comme une nation amie et même si elle ne fait pas encore partie de l’Union, elle se comporte comme si elle en était un pays membre et c’est une des raisons pour laquelle je suis fier que l’Italie ait toujours été l’un des pays qui soutiennent l’élargissement. aux Balkans occidentaux”. Et encore. “L’UE n’est pas un club. Je ne parle donc pas d’entrées, mais de la réunification des Balkans occidentaux, qui sont à tous égards des pays de l’UE”, observe encore Meloni. Il rappelle également que l’Italie est “le premier partenaire commercial de l’Albanie. Nos échanges commerciaux représentent environ 20 % du PIB albanais. Il existe des relations culturelles et sociales intenses. C’est une collaboration très étroite qui existe déjà dans la lutte contre l’illégalité. L’accord d’aujourd’hui enrichit cette collaboration d’une étape supplémentaire”, conclut le Premier ministre.

      Le protocole d’accord entre l’Italie et l’Albanie sur la gestion des flux migratoires signé aujourd’hui, selon ce que l’on apprend de sources au Palazzo Chigi, ne s’applique pas aux immigrants arrivant sur les côtes et le territoire italiens mais à ceux secourus en mer, à l’exception de les mineurs, les femmes enceintes et les sujets vulnérables. Les structures créées, explique-t-on, pourront accueillir au total jusqu’à 3 mille immigrants, pour une prévision de 39 mille personnes accueillies par an. L’accord vise à dissuader les départs et à décourager la traite des êtres humains.

      « Si l’Italie appelle l’Albanie, elle est là – répond Rama – Ce n’est pas à nous de juger du mérite politique des décisions prises dans ce lieu et dans d’autres institutions, c’est à nous de répondre ‘Présent’ lorsqu’il s’agit de prêter un main. Cette fois, il s’agit d’aider à gérer une situation difficile pour l’Italie avec un peu plus de répit.” “La géographie est devenue une malédiction pour l’Italie, quand vous entrez en Italie, vous entrez dans l’UE – explique le Premier ministre Albanese – Nous n’avons pas la force et Nous avons la capacité d’être la solution, mais nous avons un devoir envers l’Italie et la capacité de lui donner un coup de main. L’Albanie ne fait pas partie de l’Union mais c’est un Etat européen, il nous manque le U devant mais cela ne nous empêche pas d’être et de voir le monde en Européens”.

      https://fr.italy24.press/local/1061085.html

    • Migrants: two structures to manage illegal flows, this is what the Italy-Albania #memorandum_of_understanding provides

      Two structures in Albanian territory under Italian jurisdiction which will serve to manage illegal migratory flows. This is the fulcrum of the memorandum of understanding signed today by Italy and Albania and announced by the Prime Minister Giorgia Meloni and the counterpart Edi Rama. Rama’s “surprise” visit was not officially announced until this morning when a brief note from Palazzo Chigi announced that the two heads of government would meet in the afternoon and that they would subsequently make statements to the press. The discretion of the two governments prevailed and, consequently, also the surprise effect at the time of the announcement. “It is an agreement that enriches the friendship between the two nations,” said Meloni at the time of the announcement, subsequently explaining the details of the agreement which focuses on three primary objectives: combating human trafficking, preventing it and welcoming who has the right to protection. “Albania will grant some areas of the territory”, where Italy will be able to create “two structures” for the management of illegal migrants: “they will initially be able to accommodate up to three thousand people who will remain here for the time necessary to process asylum applications and , possibly, for the purposes of repatriation", said Meloni, specifying that the agreement does not concern minors, pregnant women and vulnerable subjects.

      The prime minister also provided details on the areas which will host the two structures which, hopefully, will be ready by spring 2024. “In the port of Shengjin (the seaport located north of Albania) disembarkation and identification procedures will be taken care of, while in another more internal area another structure based on the Repatriation Retention Centers model will be created (Cpr)”, explained Meloni, adding that the Albanian police forces will cooperate to guarantee “the security and external surveillance of the structures”. According to Meloni, the agreement signed today is a further step in the close bilateral cooperation. “Mass illegal immigration is a phenomenon that EU member states cannot face alone and cooperation between EU states and, for now, non-EU states can be decisive,” said the Prime Minister, according to whom Albania confirms itself as a friend not only of Italy but also of the European Union. “Despite not yet being formally part of the EU, Albania is a candidate country but behaves as if it were already a de facto member country of the Union and this is one of the reasons why I am proud of the fact that Italy is has always been one of the greatest supporters of the entry of Albania and the Western Balkans into the Union", added Meloni, who defined the memorandum of understanding “an innovative solution” in the hope that “it can become the model for other agreements of this type”.

      Speaking at the end of Meloni’s statements, Prime Minister Rama – underlining that the idea for the agreement was born during the Prime Minister’s summer holiday in Vlore – he immediately wanted to point out that “when Italy calls, Albania is there”. “Albania is not an EU state, but it is in Europe. It is a European state, and this does not prevent us from seeing the world as Europeans,” said Rama. “We would not have made this agreement with any other EU state. There is an important relationship of a historical, cultural, but also emotional nature, which links Albania with Italy", continued the prime minister. “We can lend a hand and help manage a situation which, as everyone sees, is difficult for Italy. When you enter Italy, you enter Europe, the EU, but when it comes to managing this entry as an EU we know well how things go,” said Rama. “We don’t have the strength to be a solution, but I believe we have a duty towards Italy and a certain ability to lend a hand”, added Rama who then recalled how his country can boast a tradition of hospitality, which began by the thousands of Italians protected after the Second World War. “We have a history of hospitality”, Rama underlined, recalling that Albania welcomed more than half a million war refugees and those fleeing to survive the ethnic cleansing from Kosovo. “We also gave refuge to thousands of Afghan women when NATO abandoned Afghanistan, and to a few thousand Iranians,” added the Albanian prime minister.

      https://www.agenzianova.com/en/news/migrants-two-structures-to-manage-illegal-flows%2C-this-is-what-the-Ita
      #MoU

    • Migranti: Un #Protocollo_d’intesa con l’Albania, opaco, disumano e privo di basi legali

      Con l’ennesimo annuncio propagandistico del govern si apprende che Giorgia Meloni avrebbe concluso con il premier albanese Edi Rama un Memorandum d’intesa , che prevede – la realizzazione in Albania di due centri per il rimpatrio, che dovrebbero ospitare ogni mese fino a 3000 persone definite “irregolari”, ma solo se soccorse nel Mediterraneo da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza. Più precisamente, “l’Albania darà possibilità all’Italia di utilizzare alcune aree del territorio albanese dove l’Italia potrà realizzare, a proprie spese, due strutture dove allestire centri per la gestione di migranti illegali. Inizialmente potrà accogliere fino a 3mila persone che rimarranno il tempo necessario per espletare le procedure delle domande di asilo ed eventualmente rimpatrio”. I naufraghi saranno sbarcati a Shengjin e l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un “centro di prima accoglienza e screening” a Gjader, che di fatto sarà una “struttura modello Cpr” per le successive procedure. I due centri dovrebbero servire per processare in 28-30 giorni le richieste di asilo e per detenere coloro che si vedranno respinta la richiesta di protezione, in vista del rimpatrio nei paesi di origine. Come ha annunciato Giorgia Meloni “Dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”.

      Secondo quanto annunciato dalle stesse fonti governative in un anno si penserebbe addirittura di fare transitare in queste nuove strutture detentive, che dovrebbero essere sotto giurisdizione italiana, ma con “sorveglianza esterna” affidata alle autorità albanesi, circa 36.000 persone. Nulla è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, nè su quali autorità efettueranno i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dello sbarco in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale. Come impone la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese?

      La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi, al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, che si asserisce sarebbero “sotto giurisdizione italiana” potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegno alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi socorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici). In quell’occasione la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea. La stessa considerazione potrà valere in futuro quando le autorità italiane consegneranno alle forze di polizia albanese i cittadini stranieri soccorsi in mare da unità militari italiane, ai fini del loro trasferimento forzato e dell’eventuale rimpatrio. Secondo il premier albanese, “Chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. La prova più evidente della riduzione delle persone a rifiuti da smaltire, la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e da Edi Rama.

      Un progetto impraticabile e privo di basi legali, quanto previsto dal Memorandum sottoscritto dalla Meloni con il premier albanese, alla luce dei tempi previsti per le procedure nei centri di detenzione, e soprattutto a causa delle difficoltà di esecuzione delle misure di allontanamento forzato da tutti i paesi europei, anche per la mancanza di accordi di riammissione tra l’Albania e molti paesi di origine dei naufraghi che, dopo essere soccorsi in mare, dovranno affrontare in stato di detenzione procedure”accelerate” per il riconoscimento di uno status di protezione, ed una possibile deportazione. Senza potere fare valere i diritti di difesa e le garanzie della libertà personale previsti dalla Costituzione italiana (a partire dal’art.13 che impone la tempestiva convalida da parte di un giudice di ogni misura di trattenimento amministrativo attuata sotto la giurisdizione italiana) e dalle norme sovranazionali dettate dalle Nazioni Unite a protezione dei richiedenti asilo, e dall’Unione Europea in materia di rimpatri e procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. E poi, se pensiamo ai migranti soccorsi intercettati nel mare Ionio, ma anche a quelli provenienti dalla Libia o dalla Tunisia, quanti di loro provengono da paesi terzi veramente “sicuri” ? Il governo italiano non può creare una evidente disparità di trattamento tra persone soccorse nel Mediterraneo da navi civili e altre soccorse da navi militari, che per questa sola ragione verrebbero esposte a procedure accelerate in territorio extra-UE, a differenza di quelle sbarcate in Italia,soprattutto se si tratta di persone che non provengono da paesi terzi sicuri, per cui in Italia si prevedono procedure ordinarie e sistemi di prima e seconda accoglienza.

      Non si comprende neppure quali saranno i criteri per “selezionare” i naufraghi soccorsi nel Mediterraneo dalle navi militari italiane, e se queste attività di “trasporto” verso l’Albania riguarderanno anche le navi italiane impegnate nell’operazione europea Eunavfor Med- IRINI, ammesso che svolgano qualche volta attività di salvatagio. Soprattutto non si comprende come le navi militari italiane possano fare fronte, dopo soccorsi di massa in axque internazionali, al trasporto di centinaia di persone verso l’Albania, che rimane alquanto decentrata rispetto alle rotte migratorie che attraversano il Mediterraneo centrale dal nord-africa. Forse si vorranno imporre giorni e giorni di navigazione su imbarcazioni poco adatte al trasporto di naufraghi, o si risoverà tutto nel’ennesimo effetto annuncio ?

      Come è avvenuto anche in passato, il contenuto del Memorandum, e degli accordi che seguiranno, resta avvolto nell’opacità più totale, e tutto sembra rimesso a successive intese operative segrete, che matureranno tra le autorità italiane e quelle albanesi. Ma colpisce immediatamente la portata disumanizzante dell’accordo, se solo si mette in evidenza l’uso pregiudiziale del termine “irregolari”, quando non addirittura “illegali”, per indicare tutte le persone soccorse in mare da navi militari italiane e condotte in Albania, ad eccezione di donne in gravidanza, persone vulnerabili e minori. In palese violazione delle norme interne ed europee che impongono per tutti lo sbarco in un porto sicuro indicato dall’autorità che coordina le attività di ricerca e salvataggio, e comunque riconoscono a tutte le persone, senza differenze a seconda della natura e della nazionalità della nave soccorriitrice, il diritto di chiedere protezione internazionale secondo regole fissate da Direttive e Regolamenti europei, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di asilo, Regole che non possono essere derogate da un Memorandum d’intesa che, come altri che lo hanno preceduto, nel 2016 con il Sudan (governo Renzi), e nel 2017 (governo Gentiloni) con la Libia, neppure sarà portato all’approvazione del Parlamento, come imporebbe l’art. 80 della Costituzione. Approvazione che del resto, anche quando fosse richiesta, sarebbe probabilmente un ennesimo atto di forza della maggioranza, su una opposizione divisa, come in passato, sul tema, oggi ancora più scottante, degli accordi con i paesi terzi per realizzare le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera. Ma per Giorgia Meloni, dopo il fallimento del Memorandum d’intesa tra Unione europea e la Tunisia, le difficoltà nei rapporti con i governi libici ancora in conflitto, e la caduta di qualsiasi ipotesi di collaborazione con i paesi africani, il Piano Mattei per l’Africa, rimasto congelato dopo la crisi in Niger, paese che si pensava di utilizzare come partner per operazioni di deportazione, e infine, per la ventata anti-occidentale che si respira in tutti i paesi del Sahel dopo l’esplosione del conflitto in Palestina, occorreva una dimostrazione di forza. Magari l’ennesimo annuncio, di un piano che dovrebbe andare a regime, secondo le intenzioni dei governi non prima della primavera del 2024, giusto in tempo prima delle elezioni europee.

      Per il ministro per gli affari europei Raffaele Fitto, il Memorandum sarebbe “in linea con la priorità accordata alla dimensione esterna della migrazione e con i dieci punti del piano della presidente della Commissione von der Leyen”. Da Bruxelles, un portavoce della Commissione europea all’Adnkronos ha invece affermato: “Siamo stati informati di questo accordo, ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate: l’accordo operativo deve essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale“. Non si vede come la Commissione europea possa dare sostegno a questo Memorandum d’intesa, anche se l’approssimarsi della scadenza delle elezioni europee potrebbe fare schierare opportunisticamente alcuni leader nazionali(sti) o pezzi della Commisione UE a fianco di Giorgia Meloni. Il riconoscimento dell’Albania come “paese terzo sicuro” non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea, pratiche illegali di privazione dela libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      Appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio. In ogni caso le attività degli assetti militari in mare, con riferimento al soccorso dei naufraghi ed al contrasto dell’immigrazione irregolare, non possono prescindere dagli obblighi imposti dal Regolamento europeo n.656 del 2014. O, forse, le operazioni di ricerca e soccorso si trasformeranno in attività di intercettazione ed “manovre cinematiche di interposizione”, come quelle condotte poste in essere nel 1997 dal comandante di Nave Sibilla, dopo gli accordi di Prodi con il governo albanese di allora, quando la nave militare italiana, nel tentativo di attuare un maldestro blocco navale, speronava un barcone carico di migranti provenienti dall’Albania, mandandolo a fondo? Ci saranno altri casi simili sotto esame da parte dei Tribunali penali italiani?

      La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respjgimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla suddetta Convenzione deve avere una espressa previsione legale (riserva di legge), e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa (riserva di giurisdizione). Si prevede la presenza di giudici italiani nei nuovi centri di detenzione che si vorrebbero aprire in Albania “sotto giurisdizione italiana” ?

      Non sembra che il Memorandum d’intesa firmato dalla Meloni e da Edi Rama, alla caccia di appoggi per l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea, abbia tenuto conto di queste regole che, semmai si riuscisse davvero ad applicare quanto annunciato, potrebbero essere lese dalle autorità italiane sotto la cui giurisdizione resterebbero le persone deportate in Albania. E saranno tutte da verificare quali saranno le conseguenze per il traballante governo albanese di un Memorandum d’intesa che rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati. Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità, che sarebbero meglio contrastate se si garantisse alle persone migranti canali legali di ingresso e il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro per davvero, secondo le regole fissate dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa dell’Unione europea.

      https://www.osservatoriorepressione.info/migranti-un-protocollo-dintesa-lalbania-opaco-disumano-pri

    • Naufraghi e richiedenti protezione. In collisione con i diritti

      È sbagliato evocare Guantanamo e la detenzione extraterritoriale dei sospetti terroristi negli Usa, ma di certo l’accordo a sorpresa tra Italia e Albania per l’accoglienza di una parte delle persone tratte in salvo dal mare è destinato a far discutere. Il governo Meloni aveva bisogno di riprendere l’iniziativa su un dossier identitario come quello della politica dell’asilo, i cui risultati sono finora rimasti lontani dalle promesse elettorali, e ha servito all’opinione pubblica una soluzione che può presentare come “innovativa”. Ma l’innovazione può entrare in collisione con i diritti sanciti dalla Costituzione italiana e dai trattati europei e internazionali.

      Anzitutto, il patto Meloni-Rama ha un sottofondo post-coloniale, come l’accordo britannico con il Ruanda a cui sembra ispirarsi: un Paese del “Primo mondo”, forte delle sue risorse politiche ed economiche, dirotta su un Paese meno fortunato e più bisognoso di appoggi l’onere di accogliere sul suo territorio i migranti sgraditi. Si immagina paradossalmente che Paesi con meno risorse e istituzioni più fragili possano ricevere degnamente i profughi che da noi sono visti come un problema. Infatti, quasi tradendo il sottotesto punitivo dell’accordo, si prevede che vengano esentati dal trasferimento in Albania donne in gravidanza, minori, soggetti vulnerabili. E il governo non ha esitato a parlare di una misura finalizzata alla deterrenza nei confronti di quelli che si ostina a definire come immigrati illegali, al pari del modello britannico.

      In realtà nel 2022 il 48% dei richiedenti l’asilo ha ottenuto uno status legale in prima istanza, e ad essi si aggiunge il 72% di coloro che hanno presentato un ricorso giurisdizionale. Dunque, rischiamo di mandare in Albania delle persone che hanno diritto all’asilo. Proprio l’esempio britannico mostra che le corti di giustizia, nazionali ed europee, l’hanno finora bloccato, e la capacità di reggere al vaglio della magistratura sarà un arduo banco di prova dell’accordo.

      Qualcosa non quadra poi riguardo ai numeri: si prevede di realizzare due strutture sul territorio albanese, una per l’identificazione allo sbarco, l’altra per l’accoglienza temporanea, con una capacità di 3.000 posti complessivi, e si prevede di trattare complessivamente 36-39.000 profughi all’anno. Si lascia intendere che basteranno quattro settimane per decidere della loro domanda di asilo, mentre oggi il tempo medio è di circa 18 mesi, senza contare la possibilità di ricorso. È probabile che i profughi languiranno a lungo in Albania e che i numeri dei casi trattati rimarranno assai più bassi di quelli annunciati.

      Ma i problemi più spinosi riguardano l’integrazione dei “deportati”. Se otterranno la protezione internazionale, averli lasciati in un Paese terzo non avrà di certo preparato la strada per la loro futura integrazione in Italia, sotto il profilo della possibilità di apprendere e praticare la lingua italiana, di conoscere la società in cui dovranno inserirsi, di orientarsi nel mercato del lavoro e nel sistema dei servizi. Se invece riceveranno un diniego, occorre chiedersi che ne sarà di loro. La bassissima capacità di rimpatrio forzato da parte delle nostre istituzioni (4.304 persone nel 2022), peraltro simili in questo agli altri Paesi europei, è un dato ormai noto. Se ne occuperanno le autorità albanesi? Con quale protezione dei loro diritti umani inalienabili, per esempio il diritto alle cure mediche necessarie e urgenti, o a non morire di fame?

      La politica dell’immigrazione ci ha abituato da tempo a dichiarazioni enfatiche – basti ricordare i più volte annunciati accordi con la Tunisia – e presunte soluzioni che si rivelano inattuabili. Anche l’accordo Italia-Albania rischia ora di entrare nella serie. O meglio: se non sarà attuato, sarà l’ennesima pseudo-ricetta venduta all’opinione pubblica; se dovesse essere attuato, anche solo parzialmente, tratterà soltanto una minoranza dei casi e sferrerà comunque una picconata alla già traballante architettura giuridica dei diritti umani fondamentali.

      https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/in-collisione-con-i-diritti

    • Accord migratoire Italie-Albanie : l’#ONU appelle au respect du #droit_international

      L’agence de l’ONU pour les réfugiés (HCR) a appelé mardi au « respect du droit international relatif aux réfugiés » après l’accord signé lundi entre l’Italie et l’Albanie visant à délocaliser dans ce pays l’accueil de migrants sauvés en mer et l’examen de leur demande d’asile.

      « Les modalités de transfert des demandeurs d’asile et des réfugiés doivent respecter le droit international relatif aux réfugiés », a exhorté le HCR dans un communiqué publié à Genève.

      L’accord signé lundi à Rome par la cheffe du gouvernement italien Giorgia Meloni et son homologue albanais Edi Rama prévoit que l’Italie va ouvrir dans ce pays, candidat à l’adhésion à l’UE, deux centres pour accueillir des migrants sauvés en mer afin de « mener rapidement les procédures de traitement des demandes d’asile ou les éventuels rapatriements ».

      Ces deux centres gérés par l’Italie, opérationnels au printemps 2024, pourront accueillir jusqu’à 3.000 migrants, soit environ 39.000 par an selon les prévisions. Les mineurs, les femmes enceintes et les personnes vulnérables ne seraient pas concernés.

      Le HCR, qui dit n’avoir « pas été informé ni consulté sur le contenu de l’accord », estime que « les retours ou les transferts vers des pays tiers sûrs ne peuvent être considérés comme appropriés que si certaines normes sont respectées - en particulier, que ces pays respectent pleinement les droits découlant de la Convention relative au statut des réfugiés et les obligations en matière de droits de l’Homme, et si l’accord contribue à répartir équitablement la responsabilité des réfugiés entre les nations, plutôt que de la déplacer ».

      Un membre du gouvernement italien a précisé mardi que les migrants seraient emmenés directement vers ces centres, sans passer par l’Italie, et que ces structures seraient placées sous l’autorité de Rome en vertu d’« un statut d’extraterritorialité ». Mais de nombreuses questions sur le fonctionnement d’un tel projet restent en suspens.

      L’Italie est confrontée à un afflux de migrants depuis janvier (145.000 contre 88.000 en 2022 sur la même période). Les règles européennes prévoient que d’une manière générale, le premier pays d’entrée d’un migrant dans l’UE est responsable du traitement de sa demande d’asile, et les pays méditerranéens se plaignent de devoir assumer une charge disproportionnée.

      https://www.mediapart.fr/journal/fil-dactualites/071123/accord-migratoire-italie-albanie-l-onu-appelle-au-respect-du-droit-interna

    • Accordo Italia-Albania: un altro patto illegale, un altro tassello della propaganda del governo

      #Fulvio_Vassallo_Paleologo: «Un protocollo opaco, disumano e privo di basi legali»

      “Un’intesa storica”, “È un accordo che arricchisce un’amicizia storica”, “I nostri immigrati in Albania”, “Svolta sugli sbarchi”. E’ un tripudio di frasi altisonanti e di affermazioni risolutive quelle che hanno accompagnato in questi giorni la diffusione del protocollo d’intesa firmato da Meloni e dal primo ministro albanese, Edi Rama, per l’apertura in Albania di due centri italiani per la gestione dei richiedenti asilo. Strutture in cui dovranno essere trattenute persone migranti, ad esclusione di donne e minori, soccorse nel Mediterraneo centrale da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza.

      Alcuni dettagli dell’operazione sono emersi da un testo (scarica qui) di nove pagine scarse e 14 articoli che indicano come funzioneranno e verranno gestiti i centri. L’accordo ha una durata di cinque anni e sarà rinnovato automaticamente a meno che una delle due parti non comunichi il proprio dissenso entro sei mesi dalla scadenza. In un anno dovrebbero essere accolte-trattenute circa 36.000 persone. I costi, dalle spese di detenzione alla sicurezza interna, saranno tutti in capo all’Italia, mentre l’Albania fornirà gratuitamente gli spazi in cui verranno costruiti i centri: uno al porto di Shengjin, circa 70 chilometri a nord di Tirana, e un altro a Gjader, nell’entroterra. I due centri dovrebbero servire per processare entro 30 giorni le richieste di asilo e per trattenere coloro a cui verrà negata la richiesta di protezione, in vista del rimpatrio nei paesi di origine oppure del probabile invio in Italia. Come ha annunciato Giorgia Meloni “dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”.
      L’Italia dovrà farsi carico anche di tutte le spese legate alla costruzione dei centri che dovranno essere aperti per la primavera del 2024. Il Post riporta che il sito albanese Gogo.al ha indicato sommariamente dei costi iniziali (vedi il documento diffuso): “l’Italia verserà all’Albania entro 3 mesi un primo fondo pari a 16,5 milioni. Si prevede che oltre 100 milioni di euro saranno congelati in un conto bancario di secondo livello come garanzia”.

      La presidente del Consiglio doveva battere un colpo, dare un messaggio al suo elettorato e alla maggioranza: il “problema immigrazione”, con gli sbarchi che non accennano a diminuire 1 e il flop dell’accordo con la Tunisia, è sempre una priorità della sua agenda politica, a tal punto che è lei stessa, senza coinvolgere nessun altro ministro, a intestarsi l’operazione e dichiarare il nuovo “punto di svolta”. E’ perciò evidente che questo protocollo si inserisce dentro il solco della narrazione mediatica e normativa, dal decreto Piantedosi sulle Ong, al cosiddetto decreto Cutro, fino alla proclamazione dello stato di emergenza dell’11 aprile e alle altre modifiche ai danni di minori e richiedenti asilo, dove vale tutto per raggiungere l’obiettivo dichiarato di ostacolare gli arrivi delle persone migranti.

      Tuttavia, tutti questi tentativi, dall’esternalizzare le frontiere e le procedure di asilo fino a portare fisicamente le persone in Paesi extra Ue, non sono una prerogativa solo del governo Meloni, ma hanno avuto in questi anni diversi promotori e, pur con delle differenze tra loro, una stessa matrice ideologica anti-migranti: per esempio, i respingimenti a catena dall’Italia alla Bosnia-Erzegovina, non hanno poi uno scopo così diverso dagli accordi tra Inghilterra e Ruanda.

      Secondo l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo si tratta dell’ennesimo annuncio propagandistico del governo in quanto il protocollo d’intesa è «opaco, disumano e privo di basi legali».

      «Nulla infatti – fa notare l’esperto di diritto di asilo e immigrazione – è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, né su quali autorità effettuano i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dello sbarco in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale. Come impone la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese?», si domanda.

      Nel protocollo – si legge nel testo – le autorità italiane avranno piena responsabilità all’interno dei centri, mentre le autorità albanesi dovranno garantire la sicurezza all’esterno dei centri e durante il trasferimento dei migranti: potranno entrare nei centri solo «in caso di incendio o di altro grave e imminente pericolo che richiede un immediato intervento».

      «La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi – spiega l’esperto – al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegnò alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi soccorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici)».

      «In quell’occasione – prosegue Paleologo – la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea. La stessa considerazione potrà valere in futuro quando le autorità italiane consegneranno alle forze di polizia albanese i cittadini stranieri soccorsi in mare da unità militari italiane, ai fini del loro trasferimento forzato e dell’eventuale rimpatrio. Secondo il premier albanese, “chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. La prova più evidente della riduzione delle persone a rifiuti da smaltire, la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e da Edi Rama».

      Anche rispetto la procedura di cosiddetto “sbarco selettivo” tra donne, minori e uomini ci sono diversi problemi di legittimità giuridica in quanto si tratta di una palese violazione delle norme interne ed europee che impongono per tutti lo sbarco in un porto sicuro indicato dall’autorità che coordina le attività di ricerca e salvataggio. Anche su questo punto Paleologo è chiaro: «Il diritto di chiedere protezione internazionale è regolato secondo regole fissate da Direttive e Regolamenti europei, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di asilo. Regole che non possono essere derogate da un Memorandum d’intesa che, come altri che lo hanno preceduto, nel 2016 con il Sudan (governo Renzi), e nel 2017 (governo Gentiloni) con la Libia, neppure se sarà portato all’approvazione del Parlamento, come imporrebbe l’art. 80 della Costituzione. Approvazione che del resto, anche quando fosse richiesta, sarebbe probabilmente un ennesimo atto di forza della maggioranza, su una opposizione divisa, come in passato, sul tema, oggi ancora più scottante, degli accordi con i paesi terzi per realizzare le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera».

      Da Bruxelles, la Commissione UE non esclude del tutto la validità dell’accordo, affermando che il caso è diverso dall’accordo Regno Unito-Ruanda, in quanto si applicherebbe alle persone che non hanno ancora raggiunto le coste italiane. Sempre secondo l’avvocato Paleologo «il riconoscimento dell’Albania come “paese terzo sicuro” non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, pratiche illegali di privazione della libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      Appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio».

      «La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respingimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla suddetta Convenzione deve avere una espressa previsione legale (riserva di legge), e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa (riserva di giurisdizione). Si prevede la presenza di giudici italiani nei nuovi centri di detenzione che si vorrebbero aprire in Albania “sotto giurisdizione italiana”? Non sembra che il Memorandum d’intesa firmato dalla Meloni e da Edi Rama, alla caccia di appoggi per l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea, abbia tenuto conto di queste regole che, semmai si riuscisse davvero ad applicare quanto annunciato, potrebbero essere lese dalle autorità italiane sotto la cui giurisdizione resterebbero le persone deportate in Albania. E saranno tutte da verificare quali saranno le conseguenze per il traballante governo albanese di un Memorandum d’intesa che rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati.
      Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità, che sarebbero meglio contrastate se si garantisse alle persone migranti canali legali di ingresso e il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro per davvero, secondo le regole fissate dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa dell’Unione europea», conclude Paleologo.

      https://www.meltingpot.org/2023/11/accordo-italia-albania-un-altro-patto-illegale-un-altro-tassello-della-p

    • L’accordo Italia-Albania sui migranti? Solo propaganda!

      Il nuovo memorandum d’intesa tra Italia e Albania sulla gestione dei migranti? Probabilmente solo un « ennesimo annuncio propagandistico » secondo Fulvio Vassallo Paleologo che firma su ADIF [1] un dettagliato articolo che analizza l’annuncio di Giogia Meloni ( non il provvedimento perché questo non esiste ).

      In altre parole, « per Giorgia Meloni, dopo il fallimento del Memorandum d’intesa tra Unione europea e la Tunisia, le difficoltà nei rapporti con i governi libici ancora in conflitto, il “Piano Mattei per l’Africa”, rimasto congelato dopo la crisi in Niger, paese che si pensava di utilizzare come partner per operazioni di deportazione, e infine, per la ventata anti-occidentale che si respira in tutti i paesi del Sahel dopo l’esplosione del conflitto in Palestina, occorreva una dimostrazione di forza. Magari l’ennesimo annuncio, di un piano che dovrebbe andare a regime, secondo le intenzioni dei governi non prima della primavera del 2024, giusto in tempo prima delle elezioni europee ».

      Possibile che il giurista abbia ragione, ma è anche possibile che il fine sia creare terrore in chi in Italia è già; I CPR, ancor di più se in Albani, sono strumentali a schiavizzare i migranti.

      L’avvocato e attivista pro migranti Fulvio Vassallo Paleologo, nell’articolo solleva pure una serie di perplessità giuridiche del progetto della presidente del consiglio italiano di realizzare un CPR in Albania.

      Una tra queste: « qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo [e quindi l’Italia, NdR] deve avere una espressa previsione di legge, e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa » [1].

      Come possa assicurarsi, in Albania, la difesa legale del migrante e un procedimento di convalida firmato da un magistrato italiano rappresenta un grande punto interrogativo. « Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese? », scrive infatti il giurista nell’articolo.

      Precisa poi Fulvio Vassallo Paleologo come « il contenuto del Memorandum, e degli accordi che seguiranno, resta avvolto nell’opacità più totale, e tutto sembra rimesso a successive intese operative segrete, che matureranno tra le autorità italiane e quelle albanesi ».

      Il giudizio finale dell’autore rispetto all’annuncio della Meloni non può, quindi, che essere negativo e drastico: « appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio ».

      Tagliente anche il giudizio rispetto alla firma del leader albanese, Edi Rama: « il Memorandum d’intesa rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati. Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità ».

      La differenza tra la verità di Fulvio Vassallo Paleologo e la propaganda della Meloni, tuttavia, la fanno le “visualizzazioni” del sito ADIF rispetto a quelli di Repubblica, La Stampa, Libero, Il Giornale, La Verità, Il Gazzettino, etc dove l’effetto “annuncio” è passato senza commenti critici.

      Fonti e Note:

      [1] ADIF, 7 novembre 2023, Fulvio Vassallo Paleologo, “Un Protocollo d’intesa con l’Albania, opaco, disumano e privo di basi legali”.

      https://www.pressenza.com/it/2023/11/laccordo-italia-albania-sui-migranti-solo-propaganda

    • Un Protocollo d’intesa con l’Albania, opaco, disumano e privo di basi legali

      Con l’ennesimo annuncio propagandistico del govern si apprende che Giorgia Meloni avrebbe concluso con il premier albanese Edi Rama un Memorandum d’intesa , che prevede – la realizzazione in Albania di due centri per il rimpatrio, che dovrebbero ospitare ogni mese fino a 3000 persone definite “irregolari”, ma solo se soccorse nel Mediterraneo da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza. Più precisamente, “l’Albania darà possibilità all’Italia di utilizzare alcune aree del territorio albanese dove l’Italia potrà realizzare, a proprie spese, due strutture dove allestire centri per la gestione di migranti illegali. Inizialmente potrà accogliere fino a 3mila persone che rimarranno il tempo necessario per espletare le procedure delle domande di asilo ed eventualmente rimpatrio”. I naufraghi saranno sbarcati a Shengjin e l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un “centro di prima accoglienza e screening” a Gjader, che di fatto sarà una “struttura modello Cpr” per le successive procedure. I due centri dovrebbero servire per processare in 28-30 giorni le richieste di asilo e per detenere coloro che si vedranno respinta la richiesta di protezione, in vista del rimpatrio nei paesi di origine. Come ha annunciato Giorgia Meloni “Dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”.

      Secondo quanto annunciato dalle stesse fonti governative in un anno si penserebbe addirittura di fare transitare in queste nuove strutture detentive, che dovrebbero essere sotto giurisdizione italiana, ma con “sorveglianza esterna” affidata alle autorità albanesi, circa 36.000 persone. Nulla è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, nè su quali autorità efettueranno i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dello sbarco in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale. Come impone la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese?

      La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi, al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, che si asserisce sarebbero “sotto giurisdizione italiana” potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegno alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi socorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici). In quell’occasione la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea. La stessa considerazione potrà valere in futuro quando le autorità italiane consegneranno alle forze di polizia albanese i cittadini stranieri soccorsi in mare da unità militari italiane, ai fini del loro trasferimento forzato e dell’eventuale rimpatrio. Secondo il premier albanese, “Chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. La prova più evidente della riduzione delle persone a rifiuti da smaltire, la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e da Edi Rama.

      Un progetto impraticabile e privo di basi legali, quanto previsto dal Memorandum sottoscritto dalla Meloni con il premier albanese, alla luce dei tempi previsti per le procedure nei centri di detenzione, e soprattutto a causa delle difficoltà di esecuzione delle misure di allontanamento forzato da tutti i paesi europei, anche per la mancanza di accordi di riammissione tra l’Albania e molti paesi di origine dei naufraghi che, dopo essere soccorsi in mare, dovranno affrontare in stato di detenzione procedure”accelerate” per il riconoscimento di uno status di protezione, ed una possibile deportazione. Senza potere fare valere i diritti di difesa e le garanzie della libertà personale previsti dalla Costituzione italiana (a partire dal’art.13 che impone la tempestiva convalida da parte di un giudice di ogni misura di trattenimento amministrativo attuata sotto la giurisdizione italiana) e dalle norme sovranazionali dettate dalle Nazioni Unite a protezione dei richiedenti asilo, e dall’Unione Europea in materia di rimpatri e procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. E poi, se pensiamo ai migranti soccorsi intercettati nel mare Ionio, ma anche a quelli provenienti dalla Libia o dalla Tunisia, quanti di loro provengono da paesi terzi veramente “sicuri” ? Il governo italiano non può creare una evidente disparità di trattamento tra persone soccorse nel Mediterraneo da navi civili e altre soccorse da navi militari, che per questa sola ragione verrebbero esposte a procedure accelerate in territorio extra-UE, a differenza di quelle sbarcate in Italia,soprattutto se si tratta di persone che non provengono da paesi terzi sicuri, per cui in Italia si prevedono procedure ordinarie e sistemi di prima e seconda accoglienza.

      Non si comprende neppure quali saranno i criteri per “selezionare” i naufraghi soccorsi nel Mediterraneo dalle navi militari italiane, e se queste attività di “trasporto” verso l’Albania riguarderanno anche le navi italiane impegnate nell’operazione europea Eunavfor Med- IRINI, ammesso che svolgano qualche volta attività di salvatagio. Soprattutto non si comprende come le navi militari italiane possano fare fronte, dopo soccorsi di massa in axque internazionali, al trasporto di centinaia di persone verso l’Albania, che rimane alquanto decentrata rispetto alle rotte migratorie che attraversano il Mediterraneo centrale dal nord-africa. Forse si vorranno imporre giorni e giorni di navigazione su imbarcazioni poco adatte al trasporto di naufraghi, o si risoverà tutto nel’ennesimo effetto annuncio ?

      Come è avvenuto anche in passato, il contenuto del Memorandum, e degli accordi che seguiranno, resta avvolto nell’opacità più totale, e tutto sembra rimesso a successive intese operative segrete, che matureranno tra le autorità italiane e quelle albanesi. Ma colpisce immediatamente la portata disumanizzante dell’accordo, se solo si mette in evidenza l’uso pregiudiziale del termine “irregolari”, quando non addirittura “illegali”, per indicare tutte le persone soccorse in mare da navi militari italiane e condotte in Albania, ad eccezione di donne in gravidanza, persone vulnerabili e minori. In palese violazione delle norme interne ed europee che impongono per tutti lo sbarco in un porto sicuro indicato dall’autorità che coordina le attività di ricerca e salvataggio, e comunque riconoscono a tutte le persone, senza differenze a seconda della natura e della nazionalità della nave soccorriitrice, il diritto di chiedere protezione internazionale secondo regole fissate da Direttive e Regolamenti europei, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di asilo, Regole che non possono essere derogate da un Memorandum d’intesa che, come altri che lo hanno preceduto, nel 2016 con il Sudan (governo Renzi), e nel 2017 (governo Gentiloni) con la Libia, neppure sarà portato all’approvazione del Parlamento, come imporebbe l’art. 80 della Costituzione. Approvazione che del resto, anche quando fosse richiesta, sarebbe probabilmente un ennesimo atto di forza della maggioranza, su una opposizione divisa, come in passato, sul tema, oggi ancora più scottante, degli accordi con i paesi terzi per realizzare le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera. Ma per Giorgia Meloni, dopo il fallimento del Memorandum d’intesa tra Unione europea e la Tunisia, le difficoltà nei rapporti con i governi libici ancora in conflitto, e la caduta di qualsiasi ipotesi di collaborazione con i paesi africani, il Piano Mattei per l’Africa, rimasto congelato dopo la crisi in Niger, paese che si pensava di utilizzare come partner per operazioni di deportazione, e infine, per la ventata anti-occidentale che si respira in tutti i paesi del Sahel dopo l’esplosione del conflitto in Palestina, occorreva una dimostrazione di forza. Magari l’ennesimo annuncio, di un piano che dovrebbe andare a regime, secondo le intenzioni dei governi non prima della primavera del 2024, giusto in tempo prima delle elezioni europee.

      Per il ministro per gli affari europei Raffaele Fitto, il Memorandum sarebbe “in linea con la priorità accordata alla dimensione esterna della migrazione e con i dieci punti del piano della presidente della Commissione von der Leyen”. Da Bruxelles, un portavoce della Commissione europea all’Adnkronos ha invece affermato: “Siamo stati informati di questo accordo, ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate: l’accordo operativo deve essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale“. Non si vede come la Commissione europea possa dare sostegno a questo Memorandum d’intesa, anche se l’approssimarsi della scadenza delle elezioni europee potrebbe fare schierare opportunisticamente alcuni leader nazionali(sti) o pezzi della Commisione UE a fianco di Giorgia Meloni. Il riconoscimento dell’Albania come “paese terzo sicuro” non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea, pratiche illegali di privazione dela libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      Appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio. In ogni caso le attività degli assetti militari in mare, con riferimento al soccorso dei naufraghi ed al contrasto dell’immigrazione irregolare, non possono prescindere dagli obblighi imposti dal Regolamento europeo n.656 del 2014. O, forse, le operazioni di ricerca e soccorso si trasformeranno in attività di intercettazione ed “manovre cinematiche di interposizione”, come quelle condotte poste in essere nel 1997 dal comandante di Nave Sibilla, dopo gli accordi di Prodi con il governo albanese di allora, quando la nave militare italiana, nel tentativo di attuare un maldestro blocco navale, speronava un barcone carico di migranti provenienti dall’Albania, mandandolo a fondo? Ci saranno altri casi simili sotto esame da parte dei Tribunali penali italiani?

      La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respjgimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla suddetta Convenzione deve avere una espressa previsione legale (riserva di legge), e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa (riserva di giurisdizione). Si prevede la presenza di giudici italiani nei nuovi centri di detenzione che si vorrebbero aprire in Albania “sotto giurisdizione italiana” ?

      Non sembra che il Memorandum d’intesa firmato dalla Meloni e da Edi Rama, alla caccia di appoggi per l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea, abbia tenuto conto di queste regole che, semmai si riuscisse davvero ad applicare quanto annunciato, potrebbero essere lese dalle autorità italiane sotto la cui giurisdizione resterebbero le persone deportate in Albania. E saranno tutte da verificare quali saranno le conseguenze per il traballante governo albanese di un Memorandum d’intesa che rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati. Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità, che sarebbero meglio contrastate se si garantisse alle persone migranti canali legali di ingresso e il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro per davvero, secondo le regole fissate dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa dell’Unione europea.

      https://www.a-dif.org/2023/11/07/un-protocollo-dintesa-con-lalbania-opaco-disumano-e-privo-di-basi-legali

    • Accordo Italia-Albania sui migranti, la UE chiede i dettagli

      L’Italia realizzerà in Albania due centri per la gestione dei migranti che potranno gestire un flusso annuale di 36mila persone. Lo ha dichiarato oggi la premier Giorgia Meloni in conferenza stampa con il primo ministro albanese Edi Rama. Ne parliamo con Genthiola Madhi, ricercatrice di Osservatorio Balcani e Caucaso, e con Andrea Spagnolo, professore di Diritto internazionale e umanitario all’Università di Torino.

      https://www.radio24.ilsole24ore.com/programmi/luogo-lontano/puntata/trasmissione-7-novembre-2023-160500-2404283315532563

    • Ecco perché l’accordo tra Italia e Albania è illegale: tutte le procedure che violano il diritto europeo

      Rappresenta il punto più estremo dell’esternalizzazione delle frontiere e del diritto di asilo. Le tutele per le persone bisognose di protezione, invece che garantite, vengono ridotte al minimo.

      Il Protocollo stipulato tra Italia ed Albania “per il rafforzamento della cooperazione in materia migratoria” è il punto finora più estremo (ma, come si vedrà, anche incoerente) a cui l’Italia è giunta nel processo di esternalizzazione delle frontiere e del diritto di asilo.

      Trattandosi di un’intesa avente una chiara natura politica, che richiede oneri finanziari, e che altresì riguarda la condizione giuridica degli stranieri, quindi una materia coperta dalla riserva di legge di cui all’art. 10 co.2 della Costituzione, il Protocollo e i suoi atti attuativi devono essere ratificati dal Parlamento ai sensi dell’art. 80 della Costituzione. Prive di alcun pregio mi sembrano le argomentazioni di chi ritiene che non occorre alcuna ratifica trattandosi di una sorta rinforzo ad accordi pre-esistenti.

      Scopo del Protocollo è quello di trasportare coattivamente in Albania cittadini di paesi terzi per “i quali deve essere accertata la sussistenza o è stata accertata l’insussistenza dei requisiti per l’ingresso, il soggiorno o la residenza” (art.1) in Italia. In Albania, in “aree di proprietà demaniale” (art.1) albanesi, quindi in territorio albanese a tutti gli effetti, nel quale i migranti rimarrebbero confinati “al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea e per il tempo strettamente necessario alle stesse” (art.4.3).

      Il testo non esclude che l’ingresso in Albania avvenga anche in via diversa da quella marittima, quindi riguardi anche persone straniere bloccate sulle vie terrestri, magari nei Balcani, purché tale trasporto avvenga “esclusivamente con i mezzi delle competenti autorità italiane” (art. 4.4). Le autorità italiane assicurano “la permanenza dei migranti all’interno delle aree impedendo la loro uscita non autorizzata” (art. 6.5) e il periodo di permanenza in Albania “non può essere superiore al periodo massimo di trattenimento consentito dalla normativa italiana” (art. 9.1).

      Al termine delle procedure le autorità italiane “provvedono all’allontanamento dei migranti dal territorio albanese” (art. 9) ovvero al rientro in Italia. Molta enfasi è stata posta sul fatto che l’accordo sia finalizzato al trasferimento forzato in Albania dei soccorsi in mare al fine di esaminare le domande di asilo dei naufraghi; tuttavia nel protocollo non c’è alcun riferimento alla procedura di asilo né alla protezione internazionale e le uniche parole che richiamano l’asilo riguardano il rinvio a non meglio definite procedure di frontiera.

      Obiettivo non secondario del protocollo, risulterebbe dunque essere l’utilizzo del territorio albanese per farvi dei centri di detenzione amministrativa per stranieri espulsi dall’Italia, ma che verrebbero trattenuti in Albania al fine di eseguire coattivamente il rimpatrio nel paese di origine. Nonostante il ministro Piantedosi si affanni a dichiarare che non si tratterà di CPR (Centri per il Rimpatrio) il testo del Protocollo dice diversamente.

      Emerge dunque evidente il rischio che l’operazione intenda nascondere una strategia per realizzare CPR inaccessibili, lontani da sguardi indiscreti e da inchieste giornalistiche, liberandosi dell’incubo di dover trovare un luogo dove aprirli in Italia, dove nessun amministratore, di qualsiasi colore politico li vuole. Esaminiamo ora l’ipotesi che il Protocollo venga applicato principalmente a persone soccorse in mare che verrebbero portate in Albania al solo scopo di detenerle e di esaminare le loro domande di asilo.

      Nel testo del protocollo si fa riferimento esplicito all’espletamento delle procedure di frontiera previste dal diritto italiano ed europeo. Prima ancora di verificare se gli standard e le garanzie previste dal diritto dell’Unione possano essere rispettate, ciò che bisogna chiedersi è se sia possibile esaminare le domande di asilo presentate da coloro che vengono deportati dal territorio italiano in cui si trovano (le navi ed altri mezzi delle autorità italiane) nel territorio albanese.

      La risposta non può che essere negativa, dal momento che il diritto dell’Unione sull’asilo (o protezione internazionale) si applica nel territorio degli Stati membri, alle frontiere, nelle zone di transito e nelle acque territoriali. Non si applica al di fuori dell’Unione. Un’applicazione extra-territoriale del diritto dell’UE non pare possibile, come del tutto correttamente messo in luce anche dal documento “Preliminary Comments on the Italy-Albania Deal” pubblicato il 9.11.23 dall’autorevole E.C.R.E. (European Council on Refugees and Exiles).

      Analogo ragionamento vale anche per ciò che attiene l’ipotesi di usare i centri per l’esecuzione del trattenimento degli stranieri espulsi regolato dal diritto dell’Unione con la Direttiva 115/2008/CE. Anche in tal caso non ne risulta possibile alcuna applicazione extra territoriale al di fuori del territorio degli stati membri dell’Unione.

      Va sempre considerato che non ci troviamo di fronte alla questione di come consentire l’accesso alla procedura di asilo da parte di uno straniero che si trova all’estero, e di come si possa esaminare, almeno in fase preliminare, la sua domanda di asilo al fine di consentire un suo successivo ingresso nel territorio di uno stato membro: in altri termini, di come creare delle procedure di ingresso protette a persone con un chiaro bisogno di protezione.

      All’esatto opposto, il protocollo tra Italia e Albania configura una situazione nella quale persone che sono già sotto la giurisdizione italiana, per essere stati soccorsi e trasportati da navi dello Stato, vengono subito dopo tradotte in un paese terzo al solo scopo di impedirne l’ingresso nel territorio nazionale e predeterminare delle condizioni di esame delle domande di asilo con garanzie procedurali ridotte al minimo.

      Ammettiamo ora, come mero esercizio, che si possa sostenere che il diritto dell’Unione sia applicabile all’esame delle domande di asilo in Albania ed esaminiamo le principali questioni che si aprono: la consegna dei migranti dalle mani delle autorità italiane a quelle albanesi, allo sbarco e fino all’ingresso nei centri di detenzione, che, nonostante l’asserita giurisdizione italiana, si trovano in territorio albanese, potrebbe configurare un respingimento collettivo vietato dal diritto dell’Unione Europea. Per i respingimenti collettivi attuati con la Libia nel 2009 l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti umani il 23.02.2013 nella causa Hirsi Jamaa.

      Nessuna valutazione sulla condizione delle persone salvate in mare può essere condotta a bordo delle navi italiane, e dunque ogni procedura giuridica dovrebbe iniziare in territorio albanese all’interno di centri sotto la giurisdizione italiana (ma anche albanese). La restrizione della libertà personale di coloro che vi verrebbero rinchiusi, per essere conforme all’art. 13 Costituzione, va convalidato dall’autorità giudiziaria con un esame caso per caso a seguito del quale il provvedimento di trattenimento viene convalidato o meno.

      Come garantire dentro il microcosmo del campo a gestione italiana il corretto funzionamento della procedura, tra cui ovviamente il diritto del richiedente che si intende trattenere di essere assistito da un legale italiano di fiducia? In ogni caso deve essere esclusa la possibilità di un trattenimento generalizzato di tutti i richiedenti asilo perché tassativamente vietato dal diritto dell’Unione che vieta agli Stati di applicare misure di limitazione della libertà personale nei confronti dei richiedenti asilo “per il solo fatto di essere un richiedente” (Direttiva 2013/33/UE articolo 7 paragrafo 1).

      Come noto, il diritto dell’Unione prevede che il trattenimento venga disposto solo in casi molto limitati e “salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive” (articolo 8, paragrafo 2), misure che comunque in Albania non sarebbero mai praticabili.

      La larga maggioranza dei richiedenti asilo, sicuramente tutte le situazioni vulnerabili e i minori, ma anche tutti coloro cui non sarebbe applicabile la procedura accelerata di frontiera, non potrebbero dunque in nessun caso essere trattenuti, ma poiché non possono neppure rimanere in Albania al di fuori dal centro, dovrebbero essere trasportati in Italia immediatamente per continuare l’accoglienza e l’esame ordinario della loro domanda di asilo sul territorio nazionale.

      Nei confronti di coloro che rimarrebbero rinchiusi nei centri in Albania va garantito senza eccezioni l’esercizio dei diritti fondamentali, tra cui il diritto di ricevere “le informazioni sulla procedura con riguardo alla situazione particolare del richiedente” nonché di comunicare con “organizzazioni che prestino assistenza legale o altra consulenza ai richiedenti” (Direttiva 2013/32/UE art. 19).

      In caso di diniego il richiedente deve poter pienamente esercitare il suo diritto alla difesa, costituzionalmente garantito (Cost. articolo 24) e ha diritto ad un “ricorso effettivo” (Direttiva 2013/32/UE art. 46 par.1) che per essere tale deve garantire alla persona la libertà di consultare un legale e di sceglierlo.

      Nell’ambito delle procedure accelerate di frontiera il giudice mantiene la possibilità di concedere la sospensiva nelle more della decisione di merito ovvero “autorizzare o meno la permanenza del richiedente nel territorio dello Stato membro” (art.46 par.6 lettera d). Ma, in caso di autorizzazione il richiedente non si trova affatto sul territorio dello Stato membro (!) bensì in Albania, il che comporta l’immediato trasferimento in Italia del richiedente da parte delle autorità italiane e la prosecuzione dell’iter della domanda in Italia.

      Il Protocollo appare dunque un incredibile coacervo di procedure radicalmente illegittime rispetto al diritto dell’Unione vigente e che comunque non potrebbero essere applicate in modo razionale e rispettoso di garanzie procedurali e di tutela dei diritti fondamentali degli stranieri coinvolti, sia che si tratti di naufraghi prima e richiedenti asilo poi, che di stranieri espulsi e poi trattenuti in Albania.

      https://www.unita.it/2023/11/10/ecco-perche-laccordo-tra-italia-e-albania-e-illegale-tutte-le-procedure-che-vi

    • Ancora lui, ancora Edi

      Periodicamente il primo ministro albanese si occupa dei flussi migratori italiani. Ripassare quali siano le sue motivazioni è utile, anche perché questa volta, forse, ha esagerato. Un commento

      Edi Rama governa l’Albania da più di dieci anni. Le prime elezioni le vinse nel 2013, pochi mesi dopo il “siamo arrivati primi ma non abbiamo vinto” di Pierluigi Bersani. Da noi la sinistra pareggiava con un Berlusconi terminale; sull’altra sponda dell’Adriatico, invece, Edi l’artista, Edi il socialista, l’ex sindaco di Tirana che aveva colorato i palazzi, archiviava per sempre la stagione di Sali Berisha. Voltava pagina. “Come sono avanti questi albanesi”, è il qualunquismo mezzo di sinistra e mezzo di disprezzo che da allora dedichiamo ai nostri vicini. E su questa carenza di conoscenza, da più di un decennio, periodicamente, Edi Rama lucra politica. Non lo vediamo perché per vederlo bisogna considerare l’Albania uno stato. E invece per noi l’Albania è un luogo dell’immaginario, e i sogni non sono portatori di interessi. Non lo vediamo, perché la fiction italo-albanese è utile a mascherare la povertà della nostra politica estera.

      L’ultimo gioco di prestigio Rama lo ha regalato lunedì scorso a Palazzo Chigi, questa volta il complice non è stato l’«amico Renzi» (2014), né l’«amico Di Maio» (2021), siccome siamo nel 2023 è stata «l’amica Giorgia Meloni». Non sono certo che commentare il memorandum (https://www.ilpost.it/wp-content/uploads/2023/11/08/1699429572-Protocollo-Italia-Albania-.pdf?x19465) firmato dai due governi sia utile, non solo perché è evidentemente poco praticabile sul piano pratico e giuridico, ma perché seguo da diversi anni le relazioni tra Italia e Albania e non credo più alle parole che si dicono le due diplomazie. A chi non avesse seguito, basti sapere che nel corso della conferenza stampa (https://www.governo.it/it/articolo/il-presidente-meloni-incontra-il-primo-ministro-della-repubblica-d-albania/24178), la Presidente del Consiglio ha dichiarato che l’Albania “concederà all’Italia alcune zone del suo territorio” (sic!), sulle quali l’Italia potrà realizzare “a proprie spese e sotto la propria giurisdizione” due strutture “per la gestione dei migranti illegali”. Per l’esattezza il governo ipotizza di portare in Albania tremila persone al mese, che dovrebbero rimanere in questi centri durante la domanda di asilo, negata la quale il richiedente verrebbe allontanato dal territorio albanese (non si capisce per andare dove, se si rimpatria dall’Italia o dall’Albania). Flusso complessivo annuale stimato: 36.000 persone. Come alla fine delle pubblicità dei farmaci, Meloni in chiusura ha messo le avvertenze – “Il protocollo disegna la cornice politica, all’accordo dovranno seguire i provvedimenti normativi conseguenti” – e ha fornito una vaga data di inizio progetto: primavera 2024. Tradotto: questo accordo non esiste, è pura propaganda.

      Nulla di nuovo sotto il sole italo-albanese. Qualcosa di simile era già avvenuto nel 2018, quando la crisi della nave Diciotti bloccata da Salvini nel porto di Catania venne “risolta” dai media manager del governo albanese, che promise su twitter l’accoglienza di 20 migranti, venendo immediatamente ripreso dall’account della Farnesina, e quindi da tutte le agenzie stampa. Anche allora i ministri Salvini e Di Maio (il governo era gialloverde) enfatizzarono la condotta del piccolo paese balcanico “più europeo e più solidale degli stati membri”: a sinistra ci si cullò nel sogno di un paese povero ma ospitale, a destra ci si vantò dei frutti dell’intransigenza del ministro degli Interni, che con il suo “no” aveva imposto una redistribuzione, peraltro a un paese che con il suo gesto ripagava finalmente l’accoglienza degli italiani (come se la Lega Nord degli anni Novanta fosse stata accogliente verso gli albanesi). Giorni di dichiarazioni allucinanti e vuote, perché nessun asilante della Diciotti arrivò mai in Albania (https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Nessun-asilante-della-Diciotti-e-mai-arrivato-in-Albania-192453), né alcuna autorità si pose mai il problema che ciò accadesse, essendo illegale il trasferimento di un migrante giunto in Ue in uno stato terzo, fuori dal sistema di asilo europeo.

      Ed è proprio qui che la sparata di Meloni supera quella di Salvini: perché per evitare l’obiezione dell’illegalità di un trasferimento forzato fuori dall’Ue, a questo giro si dice che il porto di Shëngjin e le sue strutture saranno “territorio italiano”, e che da quel territorio i migranti dislocati in Albania potranno chiedere asilo all’Italia. Ammesso e non concesso che sia possibile trasportare i migranti intercettati, poniamo, al largo della Sicilia in un porto a 700 km di mare delle rotte del Mediterraneo centrale (non certo l’approdo più vicino imposto dalle Convenzioni internazionali sul soccorso in mare), davvero non si capisce come sia possibile realizzare una Italia extraterritoriale, capace di organizzare un’accoglienza rispettosa del diritto internazionale fuori dai propri confini. Ma sto contravvenendo al buon proposito di non commentare un memorandum che non diventerà mai operativo. Torniamo alla politica, e in particolare alla politica albanese. Perché, ciclicamente, Edi Rama si occupa delle nostre questioni migratorie?

      Per lo stesso motivo per cui nel 2020 sceneggiò di inviare una squadra di infermieri in Lombardia per aiutare le nostre terapie intensive intasate dal Covid-19 (https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Dare-un-senso-alla-solidarieta-del-governo-albanese-200768): il video sulla pista dell’aeroporto di Tirana (https://www.youtube.com/watch?v=XYtgeZjtIko

      ), con i poveri medici già inscafandrati è degno della Corea del Nord (per la cronaca, si trattava di ragazzi inesperti, come emerse negli ospedali del bresciano dove vennero dislocati, sostanzialmente per apprendere le tecniche di contrasto al virus, nel momento in cui la pandemia divampava anche in Albania). Nel 2018, come nel 2020 come nel 2023, per Edi Rama l’obiettivo è sempre uno solo: entrare nel flusso narrativo delle vicende europee, accreditarsi tra i partner come leader d’area e dipingere presso le opinioni pubbliche l’Albania come membro di fatto dell’Unione europea. Cose che aiutano a far dimenticare che su ogni singolo dossier dei negoziati di adesione il suo paese arranca.

      La conferenza stampa di Rama e Meloni non ha raccontato l’avvenimento di un fatto diplomatico. È essa stessa il fatto diplomatico. Dinanzi agli italiani, Rama ha offerto a Meloni la possibilità di fingere che l’Italia abbia una politica estera assertiva (una funzione che lo stato albanese ha svolto altre volte nella storia d’Italia), dinanzi agli europei, Meloni ha offerto a Rama ciò che tutti i governi italiani garantiscono a prescindere dal colore politico: il certificato di europeità. “Non solo l’Albania si conferma una nazione amica dell’Italia – ha dichiarato la Presidente – ma anche una nazione amica dell’Unione europea. Nonostante sia solo un paese candidato si comporta già come un paese membro dell’Unione”. Insomma, da dieci anni il copione è lo stesso, ma i nostri governi cambiano ed ereditano il discorso dal precedente, mentre Rama resta e continua ad affinare la sua interpretazione: “Preferisco far riposare il traduttore”, dice prima di sfoderare il suo italiano, con lo sguardo umile di chi vorrebbe fare di più. E poi va dritto al cuore, dritto sul senso di colpa della sinistra, dritto sul complesso di superiorità della destra: “Non avremmo fatto questo accordo con nessuno stato Ue. Il debito che abbiamo con l’Italia non si paga, ma se l’Italia chiama l’Albania c’è. Se ci sono domande bene, se non ci sono firmiamo e andiamo in vita dopo aver fatto il nostro dovere”.

      Da dieci anni, Edi Rama governa il suo paese con i media stranieri e il consenso che miete all’estero, da Bruxelles ad Ankara (perché esiste anche un copione “orientalista” consolidato, ma questa è un’altra storia: https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-candidata-all-Europa-o-provincia-ottomana-195112). Oggi in Albania manca una opposizione credibile, sia a livello nazionale che municipale, principalmente perché opporsi non conviene. La criminalità organizzata è scesa a patti con questo nuovo, singolo, potere. La corruzione non dilaga, è endemica, l’unico metodo possibile. Le riforme richieste dall’Ue arrancano, gli albanesi emigrano in massa: senza barconi, ma chiedendo asilo in nord Europa, come gli eritrei della Diciotti.

      Per tutti questi motivi Edi (che è cresciuto a Rai e Mediaset e conosce il potere ipnotico che l’estero esercita sulla periferia albanese e che il ricordo della migrazione albanese esercita su di noi) ogni tanto un giretto in Italia se lo fa. E proprio per questi motivi, proprio perché l’Albania reale, nonostante la nostra cooperazione e le nostre politiche, oggi è un paese così, noi abbiamo bisogno di un’Albania che ci racconti quanto siamo stati bravi. Che ci confermi che stiamo raccogliendo i frutti dell’accoglienza seminata trenta anni fa. Che ci rassicuri sul fatto che sappiamo stare nel Mediterraneo, e che sul Mare Nostrum disponiamo di tavoli e relazioni che ci consentono di farci ascoltare in Europa. Questa volta, forse, l’hanno sparata troppo grossa. La ricorrente bugia italo-albanese è un’impostura morale che interessa a poche persone, ma sta oltrepassando le soglie della sostenibilità. Il risveglio rischia di essere molto brusco.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Ancora-lui-ancora-Edi-228139

    • Albania Agrees to Host Centres Processing Migrants to Italy

      Albanian Prime Minister Edi Rama has signed an agreement in Rome pledging to host centers that will process the claims of thousands of migrants rescued by Italy at sea.

      Italian Prime Minister Giorgia Meloni and her Albanian counterpart, Edi Rama, on Monday in Rome signed an important memorandum of understanding under which Albania has agreed to host centres managing thousands of would-be migrants to Italy rescued at sea.

      “Mass illegal immigration is a phenomenon that no EU state can deal with alone, and collaboration between EU states and non-EU states, for now, is fundamental,” Meloni said.

      “The memorandum has three main goals”, she explained; to combat people smuggling and illegal migration, and to welcome only those that have rights to international protection.

      Under the deal, Italy will set up two centres in Albania, which Meloni said in the end might handle “a total annual flow of 36,000 people”.

      Jurisdiction over the centres will be Italian.

      “Albania will grant some areas of territory”, where Italy will create “two structures” for the management of illegal migrants: “they will initially be able to accommodate up to 3,000 people who will remain there for the time needed to process asylum applications and, possibly, for the purposes of repatriation,” said Meloni, Italy’s ANSA news agency reported.

      One centre will be at the northwestern Albanian port of Shëngjin, which will handle disembarkation and identification procedures and where Italy will set up a first reception and screening centre.

      In Gjader, also in north-western Albania, it will set up a second, pre-removal centre, CPR, structure for subsequent procedures, ANSA added.

      The deal does not apply to immigrants arriving on Italian territory but to those rescued in the Mediterranean by Italian official ships – not those rescued by NGOs. It does not apply to minors, pregnant women and vulnerable persons.

      Albania will collaborate on the external surveillance of the centres. A series of protocols will follow that outline the framework. The plan is to make the centres operational in the spring of 2024, Meloni said.

      Since Meloni’s far-right government came into power, one of its priorities has been to reduce the number of people arriving illegally in Italy through the Central Mediterranean or Western Balkan migration routes.

      This goal explains Italy’s renewed political interest in the Balkans. Several top Italian political figures, including Meloni herself and Foreign Minister Antonio Tajani, have been regularly meeting counterparts in Slovenia, Croatia and Albania in the last months. A central point of these meetings has been migration.

      Data published by the Italian Department of Public Safety show that the number of irregular arrivals in Italy in 2023 until November 1, 2023, was 145,314, a 165-per-cent increase compared to 2021, and 64 per cent higher than 2022.

      Albania’s Rama said Albania could not reach a similar agreement with any other country in the EU, citing the unique connections between Albania and Italy and Italians and Albanians.

      Sa far, Albania has had limited capacities to host migrants, most of whom use it as transit country to reach EU countries.

      Rama added that Albania owes the Italian people a debt for “what they did to us from the first day that we arrived on the shores of [Italy] to find support and to imagine and have a better life”.

      After the fall of communism of Albania in 1991, many Albanians fled to Italy’s southern coasts by boat. According to data published in 2021 by the Italian National Institute of Statistic, 230,000 Albanian citizens have acquired Italian citizenship since 1991.

      https://balkaninsight.com/2023/11/06/albania-agrees-to-host-centres-processing-migrants-to-italy

    • Italy-Albania agreement adds to worrying European trend towards externalising asylum procedures

      “The Memorandum of Understanding (MoU) between Italy and Albania on disembarkation and the processing of asylum applications, concluded last week, raises several human rights concerns and adds to a worrying European trend towards the externalisation of asylum responsibilities,” said today the Council of Europe Commissioner for Human Rights, Dunja Mijatović.

      “The MoU raises a range of important questions on the impact that its implementation would have for the human rights of refugees, asylum seekers and migrants. These relate, among others, to timely disembarkation, impact on search and rescue operations, fairness of asylum procedures, identification of vulnerable persons, the possibility of automatic detention without an adequate judicial review, detention conditions, access to legal aid, and effective remedies. The MoU creates an ad hoc extra-territorial asylum regime characterised by many legal ambiguities. In practice, the lack of legal certainty will likely undermine crucial human rights safeguards and accountability for violations, resulting in differential treatment between those whose asylum applications will be examined in Albania and those for whom this will happen in Italy.

      The MoU is indicative of a wider drive by Council of Europe member states to pursue various models of externalising asylum as a potential ‘quick fix’ to the complex challenges posed by the arrival of refugees, asylum seekers and migrants. However, externalisation measures significantly increase the risk of exposing refugees, asylum seekers and migrants to human rights violations. The shifting of responsibility across borders by some states also incentivises others to do the same, which risks creating a domino effect that could undermine the European and global system of international protection.

      Ensuring that asylum can be claimed and assessed on member states’ own territories remains a cornerstone of a well-functioning, human rights compliant system that provides protection to those who need it. It is therefore important that member states continue to focus their energy on improving the efficiency and effectiveness of their domestic asylum and reception systems, and that they do not allow the ongoing discussion about externalisation to divert much-needed resources and attention away from this. Similarly, it is crucial that member states ensure that international co-operation efforts prioritise the creation of safe and legal pathways that allow individuals to seek protection in Europe without resorting to dangerous and irregular migration routes.”

      https://www.coe.int/en/web/commissioner/view/-/asset_publisher/ugj3i6qSEkhZ/content/id/261934338

    • German Chancellor Scholz to examine Italy-Albania asylum deal

      The German leader has signalled an openness to study Italy’s recent agreement to hold asylum seekers in centers in Albania. The deal has raised human rights concerns, including from the Council of Europe.

      German Chancellor Scholz has said he will look “closely” at Italy’s plans to establish centers in Albania to hold migrants. Speaking on the sidelines of the congress of European Socialists in the Spanish city of Malaga, he noted that Albania is a candidate for EU membership and that challenges like migration needed to be addressed on a European level, reported Reuters.

      “Bear in mind that Albania will quite soon, in our view, be a member of the EU, implying that we are talking about the question of how can we jointly solve challenges and problems within the European family,” Scholz told reporters on Saturday (November 11).

      The Memorandum of Understanding between the Italian and Albanian governments, announced last week, will see tens of thousands of migrants who were rescued in the Mediterranean housed in closed centers in Albania while authorities assess their asylum requests.

      “Such deals, that have been eyed there, are possible, and we will all look at that very closely,” Scholz stated during the briefing, according to Reuters.

      He emphasized that a clear European course in migration policy was needed “to correct things that have not been right in the past (and) to establish a solidarity mechanism so that not each country on its own has to try and master the challenges alone.”
      ’It becomes less attractive for them to pay big money to smugglers’

      If the Italy-Albania deal is implemented, it would be the first time that such an idea would actually be put in place, Ruud Koopmans, a professor for migration studies and advisor to the German Federal Office for Migration and Refugees, BAMF, told DW in an interview. He referred to unsuccessful attempts by Denmark and the UK to try something similar in Rwanda.

      From a legal perspective, the Italy-Albania deal could become problematic if people who are rescued on Italian territory instead of in international waters are sent to Albania, Koopmans noted. “When people from the Sahara come to Italy and are then sent to Albania, there is no prior connection to Albania. This could be legally problematic.”

      Koopmans said that it could also become difficult to send people back who are rejected. “…(T)his is not easy in practice, as home countries often do not cooperate and documents are missing. This is a problem that Albania will also face. But if people know that they will have to wait in Albania if they are rejected, it becomes less attractive for them to pay big money to smugglers,” he said.

      Discussions on finding solutions to increasing asylum numbers are gaining momentum, Koopmans said. “More and more countries are looking for solutions. Denmark, Austria, the Netherlands and Germany are having discussions along these lines.” Deals like the Italy-Albania agreement could present an opportunity for countries neighboring the EU, in that they could help their efforts to join the bloc, he added.

      Deal could undermine human rights safeguards, Mijatović

      Italy’s deal has raised concerns among Italy’s opposition as well as rights groups who see it as an attack on the right to asylum. The NGO Emergency said that the deal is “in reality, ...a way to block migrants from arriving on Italian soil – and therefore European soil – to ask for asylum, as required by European and international law. (This is) yet another attack on asylum rights and the provisions of Article 10 of our Constitution.”

      Concerns were also expressed by Council of Europe Commissioner for Human Rights, Dunja Mijatović. She warned that the deal’s legal ambiguities could undermine human rights safeguards and accountability. “The MoU is indicative of a wider drive by Council of Europe member states to pursue various models of externalizing asylum as a potential ’quick fix’ to the complex challenges posed by the arrival of refugees,” she said in a press release on November 13.

      Mijatović urged member states to focus on improving domestic asylum and reception systems and to prioritize safe and legal pathways for protection in Europe.

      Germany announces streamlined asylum process

      The chancellor’s remarks in Malaga came on the heels of an agreement with Germany’s 16 states on a tougher migration policy and increased funding for refugee hosting capacities.

      Faced with an increase in the number of asylum cases filed in Germany, estimated to reach 300,000 this year, the government has announced it will accelerate procedures.

      At all BAMF offices, the procedure for registering asylum seekers now includes photographing and fingerprinting, allowing for immediate data checks to rule out potential multiple identities. The system allows other agencies involved in the asylum process to access biometric data as well, according to BAMF. Arabic names will be transferred into the Latin alphabet to prevent differences in spelling and other mix-ups.

      Furthermore, mobile phone searches will only be conducted on a case-by-case basis, BAMF said, and queries to the Schengen Information System (SIS) will be reduced: if the last SIS search was within 14 days, an additional inquiry is waived.

      A spokesperson from BAMF said that these specific measures would make procedures more efficient, while maintaining high-security standards. The asylum procedure is meant to last 6.7 months on average. However, when considering negative decisions, administrative court proceedings take on average 21.8 months in the first instance, the spokesperson noted.

      https://www.infomigrants.net/en/post/53194/german-chancellor-scholz-to-examine-italyalbania-asylum-deal

    • Accordo Italia-Albania, ASGI: è incostituzionale non sottoporlo al Parlamento

      La Costituzione italiana prevede che la ratifica di trattati internazionali spetti al Presidente della Repubblica, previa, quando occorra, l’autorizzazione con legge del Parlamento (art. 87, Cost.).

      Tutti i tipi di trattati internazionali costituiscono una delle fonti del diritto internazionale, la cui efficacia nell’ambito nazionale deriva da un ordine di esecuzione dato per effetto della loro ratifica che fa sorgere l’obbligo internazionale della loro attuazione interna.

      Come ha ricordato il Ministero degli affari esteri nella sua circolare n. 2/2021 del 30 luglio 2021 “quale che sia la loro denominazione formale (trattati, accordi, convenzioni, memorandum, etc.), i trattati internazionali possono essere conclusi tramite documenti a firma congiunta, scambi di note, scambi di lettere o altre modalità, essendo riconosciuto dal diritto internazionale il principio della libertà delle forme.”

      Gli atti per i quali l’art. 80 Cost. prescrive la preventiva legge di autorizzazione alla ratifica sono i «trattati che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi».

      La dottrina giuridica afferma che si tratti di una forma di controllo democratico della politica estera e di compartecipazione delle Camere al potere estero del Governo. Anche per tale rilevanza politica complessiva l’art. 72, comma 4 Cost. prescrive che i disegni di legge per la ratifica siano esaminati sempre con procedura legislativa ordinaria.

      Inoltre, è bene ricordare che, in generale, qualsiasi norma non costituzionale deve essere interpretata sempre in modo conforme alla Costituzione, sicché anche questo Protocollo deve essere interpretato in modo conforme all’art. 80 Cost.

      Secondo il Governo, tuttavia, il Protocollo italo-albanese in materia di gestione delle migrazioni non deve essere sottoposto a legge di autorizzazione alla ratifica, perché sarebbe l’attuazione del Trattato di amicizia e collaborazione tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Albania, con scambio di lettere esplicativo dell’articolo 19, fatto a Roma il 13 ottobre 1995, ratificato e reso esecutivo sulla base della legge 21 maggio 1998, n. 170.

      Tesi giuridicamente infondata, perché l’art. 19 del Trattato del 1995 prevede soltanto che Italia ed Albania “concordano nell’attribuire una importanza, prioritaria ad una stretta ed incisiva collaborazione tra i due Paesi per regolare, nel rispetto della legislazione vigente, i flussi migratori” e che “riconoscono la necessità di controllare i flussi migratori anche attraverso lo sviluppo della cooperazione fra i competenti organi della Repubblica Italiana e della Repubblica di Albania e di concludere a tal fine un accordo organico che regoli anche l’accesso dei cittadini dei due Paesi al mercato del lavoro stagionale, conformemente alla legislazione vigente”.

      Dunque, nel Trattato del 1995 Italia e Albania si sono accordate per concludere successivi protocolli in materia migratoria soltanto per l’ipotesi prevista nell’art. 19 comma 2 e cioè per regolare l’immigrazione albanese in Italia (che infatti è stata poi regolata con due successivi accordi firmati in forma semplificata nel 1997 e nel 2008), mentre le norme che si riferiscono genericamente alla regolazione e al controllo dei flussi migratori alludono a materie del tutto vaghe e suscettibili delle più diverse applicazioni, future e incerte.

      Pertanto, la mera indicazione che si tratti di un Protocollo sulla “cooperazione in materia migratoria” e il richiamo a due precedenti trattati e accordi non possono certo essere lo strumento per eludere l’obbligo derivante dall’art. 80 Cost. per il Governo di presentare alle Camere un apposito disegno di legge di autorizzazione alla ratifica del Protocollo e della futura intesa di attuazione.

      Il Protocollo appena firmato prevede disposizioni molto dettagliate che riguardano proprio i casi in cui l’art. 80 Cost. esige la preventiva legge di autorizzazione alla ratifica, perché:

      – comportano oneri alle finanze, sia perché il Protocollo pone espressamente a carico dell’Italia specifici oneri finanziari, per l’allestimento delle strutture (art. 4, comma 5), per l’erogazione di servizi sanitari (art. 4, comma 9), per la realizzazione delle strutture necessarie al personale albanese addetto alla sicurezza esterna dei centri (art. 5., comma 2), per la riconduzione nei centri da parte delle autorità albanesi di eventuali migranti usciti illegalmente dai centri (art. 6, comma 6) e per l’impiego dei mezzi e delle unità albanesi (art. 8, comma 3) e per eventuali risarcimenti del danno (art. 12, comma 2), cioè per la realizzazione e gestione dei centri, per il relativo personale, per il trasporto da e per l’Albania degli stranieri trattenuti e per la loro assistenza anche sanitaria (a cui dovrà aggiungersi anche la copertura degli oneri connessi al gratuito patrocinio per le spese di difesa degli stranieri, per quelle di interpretariato e per quelle sullo svolgimento dell’attività delle commissioni per il riconoscimento della protezione internazionale e dei giudici che convalideranno il trattenimento e che giudicheranno sugli eventuali ricorsi), sia perché il Protocollo prevede specifici contributi, iniziali (16,5 milioni di euro) e una successiva garanzia di 100 milioni di euro, che devono essere erogati dall’Italia all’Albania i cui importi e scadenze sono specificati in un apposito allegato al Protocollo stesso;

      - comportano modificazioni di leggi, perché il Protocolloper essere effettivamente attuato non soltanto prevede espressamente un’intesa successiva (che, dunque, dovrà essere sottoposta alle Camere congiuntamente al Protocollo), ma prevede norme che comportano operazioni amministrative e giudiziarie concernenti stranieri giunti in Italia e che saranno svolte in Albania, cioè norme non previste dalle attuali leggi italiane. Questo significa che il protocollo, per essere attuato, esige implicitamente la modificazione di tante norme legislative vigenti in Italia, che regolano la condizione giuridica degli stranieri che giungono in Italia e che presentano in Italia una domanda per fruire del diritto di asilo nel territorio della Repubblica italiana (e la condizione giuridica dello straniero e le condizioni per il diritto di asilo sono materie coperte da riserva di legge ai sensi dell’art. 10, commi 2 e 3 Cost.). Infatti, in base alle disposizioni del protocollo costoro potranno essere soccorsi da navi italiane, e dunque in territorio italiano, e da qui trasportati poi in Albania per essere sottoposti in territorio albanese a misure restrittive alla libertà personale (e i casi e i modi dei provvedimenti restrittivi della libertà personale sono materie coperte da riserva assoluta di legge e da riserva di giurisdizione previste dall’art. 13 Cost. e dall’art. 5 CEDU); tali restrizioni avverranno mediante provvedimenti disposti e attuati in Albania da autorità italiane in modi che saranno, in tutto o in parte, diversi da quelli già previsti dalle vigenti norme legislative italiane (p. es. occorrerà indicare quale sarà l’autorità di pubblica sicurezza competente dal punto di vista geografico ad adottare i provvedimenti amministrativi di espulsione e i provvedimenti di trattenimento, occorrerà individuare la commissione territoriale competente ad esaminare eventuali domande di protezione internazionale, occorrerà dare una nuova applicazione al concetto di “accompagnamento immediato alla frontiera” di persone che in realtà sono già fuori del territorio italiano, occorrerà stabilire modi e garanzie per interpreti, difensori e stranieri durante lo svolgimento in Albania dei colloqui con le autorità di pubblica sicurezza e con i giudici, occorrerà disciplinare i procedimenti di trasporto degli stranieri da e per i centri albanesi);

      – comportano regolamenti giudiziari che riguardano la giurisdizione italiana, sia relativamente alla sua estensione territoriale e personale (inclusa la regolamentazione di eventuali contenziosi sulla responsabilità civile di ciò che accadrà in Albania che saranno espressamente di competenza dei giudici italiani), sia con riguardo alla effettuazione da parte dei giudici italiani nei centri albanesi dei giudizi di convalida dei trattenimenti e degli eventuali giudizi sui ricorsi contro le eventuali decisioni di diniego e di inammissibilità delle domande di protezione internazionale (occorrerà disciplinare la competenza territoriale del giudice che dovrà giudicare in Albania e le modalità delle notificazioni e dello svolgimento dei giudizi);

      - hanno natura politica, poiché le disposizioni del Protocollo impegnano durevolmente la politica estera italiana, avendo una durata di cinque anni ed essendo state negoziate e stipulate personalmente e pubblicamente dai capi dei Governi dei due Stati e non già da Ministri o da meri funzionari ministeriali, e poiché le premesse del Protocollo espressamente lo motivano con la “comunanza di interessi e di aspirazioni” tra i due Stati e dei due Stati alla prevenzione dei flussi migratori illeciti e della tratta degli esseri umani, e a promuovere la crescente collaborazione bilaterale tra Italia ed Albania “anche nella prospettiva dell’adesione della Repubblica di Albania all’UE”, che è l’evidente interesse principale di tutte le azioni di politica estera del governo albanese. La grande ed evidente politicità dell’accordo è confermata dalle dichiarazioni pubbliche fatte dalla Presidente del Consiglio dei ministri al momento della firma del protocollo davanti al Primo ministro albanese: il Protocollo è stato definito «importantissimo […] che arricchisce un’amicizia storica [e] una cooperazione profonda» tra i due Stati, la «cornice politica e giuridica» della collaborazione tra Italia e Albania e «un accordo di respiro europeo».

      Inoltre, il Protocollo ha per oggetto misure che attengono alle materie della sicurezza e della difesa nazionale. L’attuazione delle disposizioni previste dal Protocollo comporta il trasporto verso l’Albania di stranieri mediante mezzi delle competenti autorità italiane, il che avverrà in modi sostanzialmente forzati, mediante aerei o navi delle Forze armate italiane, le quali hanno già basi in Albania e alle quali il Governo con l’art. 21 del decreto-legge 19 settembre 2023, n. 124 ha affidato la realizzazione dei centri di permanenza per il rimpatrio, dei punti di crisi e dei centri governativi di accoglienza per richiedenti asilo, trattandosi di materie che lo stesso articolo del citato decreto-legge attribuisce espressamente alla materia della difesa e della sicurezza la realizzazione.

      Proprio su queste materie la legge n. 25/1997 (e oggi l’art. 10, comma 1, lett. a) del codice dell’ordinamento militare, emanato con d. lgs. n. 66/2010) ha previsto che tutte le deliberazioni del Governo in materia di sicurezza e di difesa debbano essere sempre approvate dal Parlamento. Ciò comporta che dal 1997 sono sottoposti all’esame delle Camere mediante leggi di autorizzazione alla ratifica anche tutti i tipi di accordi internazionali in materia di sicurezza e di difesa.

      *

      È dunque indispensabile l’esame parlamentare del disegno di legge di autorizzazione alla ratifica di questo protocollo e della sua futura intesa di attuazione e delle norme nazionali che daranno esecuzione nell’ordinamento italiano a questi accordi.

      Va ricordato, infine che:

      – la proposta di legge di autorizzazione alla ratifica non necessariamente deve essere di iniziativa del Governo (la Costituzione non lo prescrive), sicché, come è già accaduto in alcune altre occasioni, in mancanza di una presentazione di un disegno di legge del Governo essa può essere presentata nelle Camere anche da singoli parlamentari;

      – L’Assemblea di ogni Camera ha il potere di presentare alla Corte costituzionale ricorso per conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato.

      In ogni caso qualora questo Protocollo non sia sottoposto a legge di autorizzazione alla ratifica in conformità con l’art. 80 Cost. non potrà mai essere eseguito, né potrà essere considerato vincolante per l’ordinamento italiano, quale obbligo internazionale ai sensi dell’art. 117, comma 1 Cost.

      https://www.asgi.it/notizie/accordo-italia-albania-asgi-illegittimo-parlamento

    • Nell’intesa Italia-Albania, la continuità deve preoccuparci quanto la novità

      L’accordo spinge la pratica di esternalizzare le frontiere verso direzioni preoccupanti. Dubbi sulla sua effettiva applicabilità

      A più di una settimana dall’annuncio dell’accordo tra Italia e Albania in materia di “gestione dei flussi migratori”, la mossa del governo italiano ha attirato diverse critiche in ambienti giuridici e militanti per le sue implicazioni in termini di diritti umani e di rispetto della legislazione italiana ed europea in materia di asilo.

      Nella consueta propaganda del governo, l’accordo (reso noto soltanto a operazione conclusa) è stato presentato come un successo diplomatico, un accordo “storico” e “innovativo”. Di fronte alle preoccupazioni sollevate da varie voci, la Presidente del Consiglio non è entrata nel merito, limitandosi a dichiararsi “fiera” di questa azione pionieristica, che “può diventare un modello per altre nazioni di collaborazione tra Paesi Ue e extra Ue” 1.

      Il protocollo prevede l’istituzione di due centri (paradossalmente definiti da alcuni media “di accoglienza”) in territorio albanese, ma sottoposti alla giurisdizione italiana: uno per le procedure di identificazione e gestione delle domande di asilo, l’altro per i rimpatri, sul “modello” dei CPR. È previsto un termine di 28 giorni per valutare le domande di ogni richiedente: una velocizzazione dei tempi che sicuramente andrebbe a discapito dell’accuratezza delle raccolte delle prove e delle valutazioni. Per quanto riguarda il “modello” del centro per i rimpatri, è ormai noto quanto gli abusi fisici e psicologici verso i detenuti siano frequenti, e quante morti evitabili sono state causate da questo sistema.

      I dubbi sulla legittimità e le possibili conseguenze dell’accordo sono tanti e fondati. E nonostante alcune affermazioni di approvazione da parte di politici europei per l’esperimento “interessante”, diversi giuristi esperti di migrazioni e diritto d’asilo hanno espresso le loro riserve sull’intesa. Una dichiarazione di ASGI sottolinea le ragioni per cui la mancata approvazione parlamentare di un accordo come questo non può ritenersi legittima. L’intesa prevede infatti disposizioni su alcune materie (finanziarie, scelte di politica estera, modifiche all’ordinamento giuridico) di cui dovrebbe necessariamente rispondere la rappresentanza democratica 2. Nel merito dei contenuti si è ampiamente espresso Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato e attivista, descrivendo l’accordo come “privo di basi legali”.

      Un primo elemento di illegittimità è il trasferimento delle persone soccorse dalle navi italiane in territorio extra-europeo. Non si conoscono poi le attribuzioni delle competenze sulle procedure, le modalità dei rimpatri, i criteri per l’attribuzione delle caratteristiche di “vulnerabilità” che impedirebbero il trasferimento di alcune persone tratte in salvo da navi italiane verso l’Albania.

      Critiche sono arrivate anche da alcune organizzazioni non governative. Emergency ha descritto l’accordo come l’ennesimo attacco al diritto di asilo 3. La non appartenenza dell’Albania all’UE significa l’impossibilità di applicare la legge europea all’azione delle autorità albanesi. Inoltre, per i tempi sbrigativi con cui le persone richiedenti asilo sarebbero valutate, potrebbe non esserci spazio per il diritto al ricorso contro la decisione di rifiuto della domanda. In modo analogo, Amnesty International ha condannato l’accordo come “illegale e impraticabile” 4.

      Sia nelle presentazioni istituzionali sia nelle critiche, si è parlato di questo accordo soprattutto in termini di novità, di rottura con il quadro giuridico esistente. Ma è bene anche enfatizzare anche gli aspetti di continuità di questa scelta politica con il passato. Un’opinione autorevole arriva dal Consiglio d’Europa, che nelle parole della Commissaria per i diritti umani Dunja Mijatović esprime la sua preoccupazione per la tendenza crescente in Europa ad esternalizzare le frontiere e le procedure di asilo.

      La dichiarazione mette a punto una serie di fattori ambigui e problematici dell’accordo: “le tempistiche degli sbarchi, l’impatto sulle operazioni di ricerca e salvataggio, l’equità delle procedure di asilo, l’identificazione delle persone vulnerabili, la possibilità automatica di detenzione senza un adeguato controllo giudiziario, le condizioni di detenzione, l’accesso all’assistenza legale e a rimedi effettivi […]. In pratica, la mancanza di certezza giuridica probabilmente comprometterà le garanzie fondamentali per i diritti umani e la responsabilità per le violazioni, determinando un trattamento differenziato tra coloro le cui domande di asilo saranno esaminate in Albania e coloro per i quali ciò avverrà in Italia” 5.

      E sebbene tutte le ambiguità e anomalie implicite nel trattato potrebbero comportarne il fallimento o addirittura l’inapplicabilità, il protocollo d’intesa non fa che aggravare la preoccupante tendenza a esternalizzare le frontiere, ormai consolidata.

      E non è chiaramente una prerogativa esclusiva del governo attuale e delle forze politiche che lo sostengono. Infatti, il memorandum si inserisce perfettamente nel solco di altri accordi, più o meno opachi, che i nostri governi – ma anche altri governi europei e la stessa Unione – sottoscrivono da anni con paesi extra UE. Allora, forse, vale la pena di riflettere su quanto siamo disposti ad accettare, di volta in volta, di sacrificare un pezzo in più dei diritti delle persone in movimento, in una posta al ribasso che ha normalizzato sistemi che producono morte, sfruttamento e torture come inevitabili conseguenze della sacralità dei confini.

      Questa tendenza a esternalizzare tramite accordi con paesi terzi è indice di scarsa democraticità.

      Innanzitutto perché uno strumento come un protocollo d’intesa, o Memorandum of Understanding, è per sua natura “flessibile”. La preferenza sempre più marcata per questo tipo di accordo da parte del governo italiano – si pensi al memorandum con la Libia nel 2017 e con la Tunisia nel 2020 – risponde alle logiche emergenziali con cui sono ormai quasi esclusivamente trattate le questioni legate alle migrazioni.

      Se questo è un vantaggio dal punto di vista del governo, è evidente che la mancanza di controllo sui suoi contenuti e sulla sua eventuale applicazione rappresenta un problema: un memorandum non è legalmente vincolante per le due parti, non è necessariamente sottoposto a ratifiche parlamentare e può essere mantenuto riservato.

      Se si vuole parlare la lingua degli “interessi strategici”, troppo spesso l’unica con cui le istituzioni governative si approcciano alle politiche migratorie, è però una mossa rischiosa e in alcuni casi poco lungimirante. Un paese terzo a cui vengono attribuite determinate prerogative nel controllo dei confini non è un semplice ricettore passivo di politiche neocoloniali. Benché sia evidente che i rapporti di potere sono sbilanciati in favore della controparte europea, è vero anche che accordi di questo tipo hanno dato la possibilità ad alcuni governi di esercitare forme di pressione e influenza. Pressioni che, ovviamente, sono sempre andate a scapito dei diritti delle persone in movimento, usate come merce di scambio per ottenere dei vantaggi. Controlli più serrati si alternano a periodi di “rilascio controllato” dei/delle migranti, a seconda di ciò che il governo appaltante ritiene in quel momento più funzionale ai propri bisogni. È quello che accade ad esempio con Libia, Turchia, Marocco, Tunisia.

      È in questi termini che emerge ancora la continuità con le politiche migratorie degli ultimi decenni. Esternalizzare le frontiere e le procedure permette di sorvolare più di quanto non sia possibile in Italia sulle incombenze giuridiche e burocratiche del sistema di asilo. Ma soprattutto, rende meno visibili le immancabili violazioni associate al sistema di controllo delle migrazioni. Con la creazione di spazi sotto la giurisdizione italiana in un territorio di uno stato terzo, resta da chiarire come sarebbero valutate le responsabilità in caso di carenze gravi nelle strutture, che sono già state riscontrate in moltissime altre strutture europee, e non: sovraffollamento, mancanza di servizi adeguati per i richiedenti, incuria, abusi fisici, somministrazione di psicofarmaci contro la volontà dei soggetti interessati. A chi sarebbe affidata poi la repressione di eventuali rivolte o fughe da parte delle persone detenute?

      Esternalizzare le frontiere ha quindi uno scopo pratico molto preciso: allontanare dal territorio europeo la conoscenza delle sofferenze e degli atti di ribellione delle persone sottoposte al regime delle frontiere, prevenire azioni di monitoraggio e pressioni sul rispetto dei loro diritti da parte della società civile, far svolgere ad altri il lavoro sporco che per cui le istituzioni governative e le forze di polizia europee potrebbero dover essere chiamate a rispondere.

      Sottolineare gli elementi che renderebbero questo accordo illegale e inapplicabile è necessario per prevenire situazioni difficilmente riparabili con gli strumenti a disposizione della legge. Ma potrebbe non bastare: l’esperienza ci ha mostrato come accordi e decreti contrari ad alcuni principi costituzionali e del diritto di asilo abbiano comunque trovato applicazione, soprattutto quando questa è affidata in parte ad autorità di paesi terzi. È fondamentale quindi contestare alle sue radici una gestione emergenziale delle migrazioni, che passa per il solo sistema di asilo senza prevedere canali di ingresso regolari, e che mira a prevenire l’arrivo nel territorio europeo del maggior numero di persone possibile.

      Tweet di Giorgia Meloni: https://twitter.com/GiorgiaMeloni/status/1723027124246708620
      https://www.asgi.it/notizie/accordo-italia-albania-asgi-illegittimo-parlamento
      https://www.emergency.it/comunicati-stampa/laccordo-italia-albania-e-lennesimo-attacco-al-diritto-di-asilo-e-sottende
      https://www.amnesty.org/en/latest/news/2023/11/italy-plan-to-offshore-refugees-and-migrants-in-albania-illegal-and-unworka
      https://www.coe.int/hr/web/commissioner/-/italy-albania-agreement-adds-to-worrying-european-trend-towards-externalising-a

      https://www.meltingpot.org/2023/11/nellintesa-italia-albania-la-continuita-deve-preoccuparci-quanto-la-novi

    • Tavolo Asilo e Immigrazione: appello al Parlamento perché non ratifichi il Protocollo Italia-Albania

      L’accordo getta le basi per la violazione del principio di non respingimento e per l’attuazione di pratiche di detenzione illegittima: alle persone condotte nei centri sarebbe impedito di uscire, senza una chiara base legale e nessuna garanzia del diritto di difesa e a un ricorso effettivo

      Il Tavolo Asilo e Immigrazione chiede che il Protocollo Italia-Albania venga revocato dal Governo e fa fin da ora un appello al Parlamento perché voti contro il disegno di legge di ratifica preannunciato dal Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale durante le odierne comunicazioni alla Camera sull’intesa.

      L’accordo firmato con il governo albanese, violando gli obblighi costituzionali e internazionali del nostro Paese, si pone, come quello con la Tunisia, l’obiettivo di esternalizzare le frontiere e il diritto d’asilo.

      L’accordo Italia-Albania, così come delineato, comporta infatti il rischio di gravi violazioni dei diritti umani. Il testo dell’intesa non chiarisce se i centri da realizzarsi in Albania saranno destinati alle procedure di esame delle domande di protezione internazionale e in particolare alle procedure di frontiera o al rimpatrio, ma alle persone condotte nei centri sarebbe impedito di uscire, subendo di fatto un regime di detenzione automatica e prolungata, senza una chiara base legale. Anche la possibilità di controllo giurisdizionale sembra compromessa, così come il diritto di difesa e a un ricorso effettivo. L’Accordo non chiarisce infatti la competenza a convalidare il trattenimento delle persone, né che cosa accadrà alle persone che hanno chiesto protezione internazionale che non ottengano risposta entro i 28 giorni previsti dalla procedura accelerata.

      Infine, desta preoccupazione la mancanza nel Protocollo di qualsiasi riferimento alle persone maggiormente vulnerabili, minori, donne, famiglie, vittime di tortura, e di come queste sarebbero salvaguardate dall’applicazione dell’accordo, così come era stato invece annunciato nei giorni scorsi.

      Per questi motivi le Organizzazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione ne hanno chiesto oggi la revoca da parte del Governo durante una conferenza stampa alla quale hanno partecipato anche la Segretaria del Partito Democratico Elly Schlein e il Segretario di +Europa Riccardo Magi, il senatore Graziano Delrio, Presidente del Comitato Parlamentare di controllo sull’attuazione dell’Accordo di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione, oltre ai deputati Matteo Mauri, Giuseppe Provenzano e Alfonso Colucci.

      Le associazioni hanno inoltre lanciato un appello al Parlamento perché voti contro il disegno di legge di ratifica preannunciato dal Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale durante le odierne comunicazioni alla Camera.

      Per il Tavolo Asilo e Immigrazione

      A Buon Diritto, ACAT, ACLI, ActionAid, Amnesty International Italia, ARCI, ASGI, Casa dei Diritti Sociali, Centro Astalli, CGIL, CIES, CNCA, Commissione Migranti e GPIC Missionari Comboniani Italia, DRC Italia, Emergency, Europasilo, Fondazione Migrantes, Forum per Cambiare l’Ordine delle Cose, Intersos, Medici del Mondo, Medici per i Diritti Umani, Medici Senza Frontiere, Movimento Italiani Senza Cittadinanza, Oxfam Italia, Refugees Welcome Italia, Save the Children Italia, Senza Confine, Società Italiana Medicina delle Migrazioni, UIL, UNIRE

      Aderiscono inoltre

      AOI, Mediterranea Saving Humans, Open Arms, Rivolti ai Balcani, Sea Watch e Sos Mediterranée Italia

      https://www.asgi.it/primo-piano/tavolo-asilo-e-immigrazione-appello-al-parlamento-perche-non-ratifichi-il-proto

    • Italy: Parliament to ratify Albania deal to process asylum seekers

      Both of Italy’s houses of parliament will be given the chance to ratify the country’s new deal to process asylum seekers in Albania. The motion was approved after a debate in the lower house on Tuesday.

      Italy’s Foreign Minister Antonio Tajani spoke to Italy’s lower house on Tuesday (November 21), explaining the Italy-Albania deal to process asylum seekers in more detail, and promising that the deal would be presented as a DDL (proposal of a law) and that both houses would have the chance to ratify it before it proceeds.

      In his long speech to the lower house, Tajani reminded parliamentarians that other similar deals with countries like Libya had not been subject to the same ratification process. Originally the Italian government said that the Italy-Albania deal didn’t need to be either, since it was not a treaty and only treaties needed to be ratified by parliament.

      However, in what the opposition has dubbed a “complete U-turn,” two weeks after the Italy-Albania deal was signed, Tajani has announced that it would be presented as a subject for debate by parliamentarians. The government hopes that the debates and ratification process will be “as quick as possible,” since the deal is meant to begin in just a few months, by spring 2024.
      Deal ’is just one additional instrument’ to manage migration

      Fighting the traffickers is “an absolute priority” for the Italian government, said Tajani during his speech to parliament. Referring to the death of a two-year-old girl during a rescue operation on Monday (November 20), Tajani said “we won’t and shouldn’t get used to these kinds of tragedies that are unfolding along our coasts.”

      He proposes that the Italy-Albania deal is just “one additional instrument” to help Italy manage migration. Tajani said that Italy has worked hard to make migration a central tenet of EU debate, and says that Italy and other members of the bloc are all working hard to “stop irregular migration, fight traffickers and strengthen the external borders of the EU.”

      Although Tajani admitted that the deal was “no panacea”, he said that Italy had “deep and historic ties with Albania” and already had joint teams to stop the trade in drugs and migrants. For the benefit of the parliament, Tajani outlined once again that the deal would be entirely paid for by Italy and was expected to cost €16.5 million initially. This would cover the two centers, one at the port and one about 30 kilometers away.

      The initial center at the port will be where people are registered and fingerprinted. They will then be moved to the reception center, where they will have their asylum requests examined. Anyone whose request is refused would be repatriated from there.
      Not comparable to UK-Rwanda deal, says Tajani

      This is no offshoring deal, said Tajani, disputing the accusations that it was “Italy’s Guantanamo” or anything like the UK-Rwanda deal. The centers will be entirely staffed by Italian personnel, be managed under Italian law, and they will come under the jurisdiction of the Italian courts, said Tajani.

      Italy’s foreign minister underlined that “no vulnerable people, women or children” would be sent to these centers. It will be exclusively to process the asylum requests of non-vulnerable migrants from safe countries, explained Tajani, or those who have already had one claim refused, or people waiting for repatriation.

      There will never be more than 3,000 people in the centers at any one time, promised Tajani. Italy will pay Albania for police patrols outside the centers and for any hospital visits that are required. Tajani also assured parliamentarians that all rights to healthcare and safety would be respected and that the only asylum seekers brought to Albania would be by Italian official boats. NGO rescue ships would not be disembarking people in Albania.
      Keeping it within the ’European family’

      Tajani said that the European Commission had already confirmed that the agreement did not violate EU law, since, as Tajani explained quoting EU Home Affairs Commissioner Ylva Johansson, the processing will follow Italian law which is fully in line with European law.

      Several MPs in the debate, including Minister Tajani referenced the fact that the German chancellor had said they would be following the agreement closely and thinking about similar models for their country. According to Tajani, the German Chancellor Olaf Scholz said that since Albania will soon be part of the European family, referring to Albania’s European accession process, processing asylum seekers in Albania was about “solving challenges within Europe” and not offshoring.

      Scholz, speaking in Malaga recently, said that the whole bloc was looking to “reduce irregular migration” and said he thought there should be more deals struck like the EU-Turkey 2016 deal, to help Europe manage migration.

      Increasing the legal pathways to Italy

      Nearing the conclusion of his speech, Tajani underlined that any exceptions to adhering to the rule of international law would be straight out “impossible”. Using the Albania agreement as a model, Tajani said the Italian government was seeking to conclude or extend similar deals with other friendly countries, transit countries and countries of origin.

      Tajani promised that the Italian government would also increase the number of legal pathways into Italy. He said in parliament that the new work permits for migrant workers had already been increased to about 150,000 per year from this year to 2025, compared to 82,000 in 2022.

      At the end of the debate in parliament, a majority of 189 to 126 voted to allow the proposal to continue its passage and be put forward as an official proposal of law (DDL), to be examined and ratified by both houses.
      Critics call deal ’illegitimate’ and ask for it to be revoked

      However, the law was not without its critics. During the debate, Riccardo Magi from the Più Europa (More Europe) party said that the deal “did nothing but increase uncertainty and would take away the fundamental right to personal liberty” of people who may be detained under the deal. He added that he didn’t believe that even the ministers proposing the deal believed it would really be doable.”

      On November 20, Amnesty International and 35 other NGOs, which together form the TAI (Tavalo Asilo e Immigrazione – a forum for the discussion of asylum and immigration) have also criticized the deal, calling it “illegitimate” and saying it should be “revoked.”

      The TAI held a press conference on Tuesday (November 21) where they reiterated that in their opinions, the deal violated international obligations and laws. They said that just like the deal with Tunisia, it was an attempt to “externalize the borders and the right to asylum.”

      According to a press release from the TAI, the Italian migration system is “in chaos and continuously violates the law and the rights of welcome and asylum” that under international law they are forced to offer. TAI accuses the Italian government of “making sure it implements practices in the field which just produce emergencies and discomfort.”

      The TAI says that the Italy-Albania deal “risks seriously violating human rights.” They say that once those people are on an Italian boat, they come under Italian jurisdiction, so they can’t then be transferred to another state to have their asylum requests examined.

      The deal, says TAI, goes against the principle of non-refoulement, whereby a person cannot be sent back to a land where they could knowingly be put in danger. The deal also allows for people to be detained illegitimately, claims TAI.

      https://www.infomigrants.net/en/post/53392/italy-parliament-to-ratify-albania-deal-to-process-asylum-seekers

    • In Pictures: Sites Where Refugees Will be Hosted In Albania

      BIRN has taken a look at the sites in Albania where a reception centre and a refugee camp will be built in accordance with the controversial agreement reached between the Albanian and Italian governments.

      The agreement was opposed both in Italy and Albania and one of the biggest critics that it received is related to Albania’s capacities to receive 3000 migrants in a month.

      According to the protocol that has been published, a reception centre for migrants will be built inside the Port of Shengjin, in the Lezha area of northern Albania, which will process and register migrants rescued at sea by Italy.

      A second site, which will serve as a refugee camp, will be built in Gjader, a village where a former military air base was built in the 1970s during the communist era.

      Italy’s plan to build migrant centres in Albania has been criticised in both countries, where activists and human rights lawyers have questioned Albania’s capacities to handle the arrangements.

      While the deal has been criticised by human rights experts, lawyers and civil society groups in Italy, in Albania many see it as Prime Minister Edi Rama’s personal initiative, since it was not discussed previously in public.

      The deal allows Italy to set up facilities on Albanian territory for migrants it has rescued at sea, which will accommodate up to 3,000 people at any one time.

      The agreement, which BIRN has seen, although without its annexes, states: “In the event that, for any reason, the [migrant’s] right to stay in the facilities cease to exist”, Italy must immediately transfer these persons out of Albanian territory.

      “Italy will use the port of Shengjin and the Gjader area to establish, at its own expense, two entry and temporary reception facilities for immigrants rescued at sea, capable of accommodating up to 3,000 people, or 39,000 a year, to expedite the processing of asylum applications or potential repatriation”, the text of the protocol notes, adding that jurisdiction over the centres will be Italian.

      “In Shengjin, Italy will handle disembarkation and identification procedures and establish a first reception and screening centre; in Gjader, it will create a model Cpr facility for subsequent procedures. Albania will collaborate with its police forces, for security and surveillance,” it adds.

      https://balkaninsight.com/2023/11/22/in-pictures-sites-where-refugees-will-be-hosted-in-albania
      #photographie #localisation

    • L’intesa con Tirana costerà oltre mezzo miliardo. 142 milioni di euro solo nel 2024

      «Oltre 142 milioni di euro nel 2024, quasi 645 nei cinque anni di validità (prorogabili). È quanto costerà ai contribuenti italiani l’intesa tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e l’omologo Edi Rama per rinchiudere nei centri di trattenimento in Albania i migranti soccorsi in alto mare dalle navi italiane. Soldi che l’esecutivo è andato a cercare raschiando il fondo del barile degli accantonamenti di quattordici ministeri.»

      https://ilmanifesto.it/tagli-a-universita-e-agricoltura-per-fare-i-centri-in-albania
      #coût

    • The 2023 Italy-Albania protocol on extraterritorial migration management

      In November 2023, the Italian government concluded a Memorandum of Understanding (MoU), or Protocol, with the Albanian authorities envisaging extraterritorial migration and asylum management, including detention and asylum processing, in Albania. This Report examines the Protocol in light of EU, regional and international legal standards, and the main responses that it has attracted so far. It concludes that the MoU can be understood as a nationalistic and unilateral arrangement that, while not involving the EU, covers policy areas falling within the scope of European law. The MoU runs contrary to EU constitutive principles enshrined in the Treaties, including the EU Charter of Fundamental Rights, as well as international law. It should be regarded as a non-model in migration and asylum policies as it is affected by far-reaching illegality and unfeasibility grounds undermining both its rationale and implementation.

      https://www.ceps.eu/ceps-publications/the-2023-italy-albania-protocol-on-extraterritorial-migration-management
      #extra-territorialité #droit_international #droits_fondamentaux

    • Nouvel avatar de l’externalisation : l’accord Italie-Albanie

      Il y a 20 ans, Plein Droit s’inquiétait des projets européens d’installation, dans des pays non membres de l’Union européenne (UE), de « centres de transit » où seraient enfermées, le temps d’instruire leur demande d’asile, les personnes étrangères ayant franchi illégalement les frontières de l’Union. Évoquant un « cauchemar », l’édito dénonçait l’intention des États membres « de se dégager des responsabilités que la Convention de Genève sur les réfugiés fait peser sur eux », ajoutant : « On devine au prix de quelles pressions, économiques ou non, ces pays accepteront ou se feront imposer ces camps de transit, […] on imagine sans mal l’insécurité à laquelle les demandeurs d’asile seront confrontés, les chantages auxquels ils pourront être soumis de la part des pays condamnés par l’Europe à les accueillir à sa place [1] ».

      Si, depuis, l’externalisation de l’asile a été déclinée de multiples façons [2], le projet de #camps_de_détention situés hors de l’UE, mais juridiquement contrôlés par un État membre, ne s’est jamais concrétisé. Sans doute à cause des #obstacles_juridiques que poserait un tel montage, notamment au regard du respect des droits fondamentaux. Mais aussi parce qu’il suppose de trouver où les implanter : jusqu’ici, les tentatives pour convaincre des pays voisins de se prêter au jeu ont échoué. Lorsqu’en 2018 le Conseil européen a exploré la possibilité de créer, hors du territoire européen, des « #centres_régionaux_de_débarquement » pour y placer des boat people interceptés en Méditerranée, il s’est heurté au refus catégorique des États nord-africains et de l’Union africaine [3].

      Aujourd’hui, le #cauchemar est à nos portes. À la veille de l’adoption du Pacte européen qui entend accélérer la procédure frontalière d’examen des demandes d’asile et renforcer la « dimension externe » de la politique migratoire de l’UE, l’Italie a conclu le 6 novembre, avec l’Albanie, un accord visant à y délocaliser l’accueil de migrants secourus en mer et l’examen des demandes d’asile. Il paraît que c’est au cours de ses vacances en Albanie, l’été dernier, que la cheffe du gouvernement italien Giorgia Meloni a posé les bases de cette « pièce importante » de sa stratégie de lutte contre les flux migratoires. Elle y a trouvé l’oreille attentive de son homologue albanais, Edi Rama, prêt à mettre « gratuitement » à la disposition de l’Italie deux zones au nord du pays pour qu’elle y construise les centres sous administration italienne où seront détenus des migrants interceptés en mer par des navires italiens. Le premier, dans une ville côtière, pour y procéder aux premiers soins, aux opérations d’identification, et instruire les demandes d’asile ; le second, sur une base militaire, pour organiser le #rapatriement des personnes qui ne demandent pas l’asile ou ne seront pas reconnues éligibles à une protection. Aux demandeurs d’asile placés dans ces centres qualifiés d’« extraterritoriaux » serait appliquée la procédure accélérée que la loi italienne prévoit pour les requêtes formées à la frontière. Seuls ceux qui obtiendraient une protection seraient admis au séjour en Italie, les autres devant être expulsés.

      L’accord ne pourra cependant entrer en vigueur avant que la Haute Cour albanaise ne se soit prononcée sur sa #constitutionnalité : les membres de l’opposition qui l’ont saisie contestent cette forme de « vente d’un morceau du territoire albanais » qui conduirait, selon un député du parti Più Europa, à la création d’« une sorte de #Guantanamo italien, en dehors de toute norme internationale, en dehors de l’UE [4] ».

      Là n’est pas le seul problème que soulève l’accord, même si Georgia Meloni aimerait que celui-ci devienne « un modèle à suivre ». Un « modèle » qui suscite les réserves du Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR), à aucun moment « informé ni consulté », et que dénonce la Commissaire aux droits de l’Homme du Conseil de l’Europe. Relevant ses « #ambiguïtés_juridiques », celle-ci liste les multiples questions que l’accord soulève en matière d’équité des procédures d’asile, d’identification des personnes vulnérables et des mineurs, de risque de détention automatique sans contrôle juridictionnel, de conditions de détention, d’accès à l’assistance juridique et de recours effectif... Et met en garde contre le recours croissant à l’externalisation, qui pourrait « créer un effet domino susceptible de saper le système européen et mondial de protection internationale [5] ». De leur côté, plusieurs ONG ont déjà mis en évidence l’incompatibilité de l’accord avec la législation européenne – à laquelle l’Italie est tenue de se conformer – en matière d’asile et d’éloignement [6].

      Les institutions de l’UE semblent moins inquiètes. Pas de réaction du côté des gouvernements, sans doute soulagés de voir l’Italie traiter seule le problème des arrivées d’exilé·es sur ses côtes plutôt que d’être rappelés à une « solidarité européenne » à laquelle ils préfèrent se dérober. Quant à la Commission européenne, elle s’est empressée de préciser que « le droit européen n’est pas applicable en dehors du territoire de l’UE » mais que, « étant donné l’appartenance de l’Italie à l’Union et l’adoption obligatoire d’une législation commune, les règles qui s’appliqueront dans les centres albanais seront effectivement de nature européenne et imiteront le cadre qui s’applique sur le sol italien [7] ». Nous voilà rassurés.

      https://www.gisti.org/spip.php?article7170

    • Protocole d’accord Italie/Albanie sur les migrations : une coopération transfrontière contraire au droit international

      La chambre des députés italienne et la Cour suprême albanaise ont approuvé le protocole d’accord sur les migrations conclu en novembre 2023, respectivement les 24 et 29 janvier 2024. Le réseau Migreurop dénonce des manœuvres qui s’inscrivent dans la continuité des politiques de l’Union européenne (UE) et de ses États membres pour externaliser le traitement de la demande de protection internationale.

      Le 6 novembre 2023, l’Italie a conclu un « accord » avec l’Albanie en vue de délocaliser le traitement de la demande d’asile de certain·e·s ressortissant·e·s étranger·ère·s de l’autre côté de ses frontières [1]. Ce protocole, rendu public le 7 novembre, s’appliquerait aux personnes interceptées ou secourues en mer par les autorités italiennes, qui pourraient être débarquées dans les villes côtières albanaises de Shëngjin et de Gjader. Les personnes reconnues « vulnérables » ne seraient pas concernées par cet accord.

      Celui-ci prévoit, d’ici le printemps 2024, la construction de deux camps [2] financés par l’Italie : l’un destiné à l’évaluation de la demande d’asile, l’autre aux « éventuels rapatriements » [3] (autrement dit, aux expulsions). Alors que le Parlement italien n’a pas été sollicité au moment de la conclusion de l’accord [4], ces structures relèveraient pourtant exclusivement de la juridiction italienne. Contre une compensation financière et une avancée dans le processus d’adhésion à l’UE, l’Albanie aurait donné son accord pour « accueillir » 3 000 personnes par mois sur son territoire et assurer une part active dans les activités de sécurité et de surveillance via ses forces de police [5]. Fortement inspiré par le concept australien de « Pacific solution » [6], ce mécanisme placerait les deux camps sous autorité italienne, avec du personnel italien, en vertu d’un statut d’extraterritorialité.

      Certaines institutions européennes se sont dans un premier temps contentées d’appeler au respect du droit national et international. La Commissaire européenne en charge des affaires intérieures a déclaré, une semaine après que l’accord a été rendu public : « L’évaluation préliminaire de notre service juridique est qu’il ne s’agit pas d’une violation de la législation de l’UE, mais que cela est hors de la législation de l’UE » [7]. Une formulation particulièrement ambiguë, qui n’a pas été éclaircie quand elle a ajouté : « l’Italie se conforme à la législation européenne, ce qui signifie que les règles sont les mêmes. Mais d’un point de vue juridique, il ne s’agit pas de la législation européenne, mais de la législation italienne (qui) suit la législation européenne ».

      La Commissaire aux droits de l’Homme du Conseil de l’Europe, a quant à elle rappelé que « la possibilité de déposer une demande d’asile et de la faire examiner sur le territoire des États membres reste une composante indispensable d’un système fiable et respectueux des droits humains », ajoutant que « Le protocole d’accord crée un régime d’asile extraterritorial ad hoc, caractérisé par de nombreuses ambiguïtés juridiques » [8].

      S’il a l’allure d’un accord bilatéral, cet accord s’inscrit dans la continuité de l’externalisation des politiques d’asile menée par les États européens depuis le début des années 2000, se projetant plus ou moins loin des frontières européennes (du Maroc au Rwanda en passant par la Turquie, notamment). De nombreux pays sont en effet tenus de coopérer avec l’UE et ses États membres dans le domaine de l’immigration et de l’asile en échange d’avantages en matière commerciale, de politique étrangère ou d’aide au développement.

      Dans le cas présent, l’Italie, au nom d’un prétendu « partage des responsabilités », pioche dans la mallette à outils à disposition des États pour externaliser le traitement de la demande d’asile. L’Albanie ayant obtenu en 2014 le statut de pays candidat à l’adhésion à l’Union européenne, cette coopération transfrontière représenterait un gage de sa bonne volonté, se donnant ainsi l’image d’être le partenaire-clé des pays européens dans la mise en œuvre de leurs politiques de sélection et de filtrage des personnes étrangères aux frontières extérieures [9]. Cette stratégie utilitariste, mobilisant les personnes en migration comme levier de négociation politique, a déjà été mise en œuvre par le passé à de maintes reprises, et le réseau Migreurop a solidement étayé les effets délétères de tels accords sur les droits des personnes migrantes [10].

      Au-delà de l’opacité et du secret qui a entouré sa conclusion, ce protocole d’accord pose de nombreuses questions :

      Alors même que l’accord ne s’appliquerait pas aux personnes considérées vulnérables, ne peut-on estimer que les personnes rescapées sont de facto vulnérables ? Que le déplacement dans ces centres albanais de personnes rescapées en mer constitue de facto une action qui vulnérabilise ces personnes ?

      Quid du principe de non-refoulement ? En envoyant des personnes en dehors de son territoire, le temps du traitement de la demande d’asile, l’Italie risque de contrevenir au principe de non-refoulement, pourtant énoncé à l’article 33 de la Convention de 1951 relative au statut des réfugiés, qui interdit le retour des réfugiés et des demandeurs d’asile vers des pays où ils risquent d’être persécutés [11].

      En pratique, sa mise en œuvre impactera les droits des personnes selon les conditions du débarquement (qui ne sera donc pas le lieu sûr le plus proche comme le prévoit la réglementation internationale) : qu’en sera-t-il du respect de la procédure de demande d’asile, de l’identification de la vulnérabilité, de l’accès à une assistance juridique ? Elle impactera aussi, ensuite, les conditions dans lesquelles les personnes seront détenues, à l’image de ce qui s’est passé dans les hotspots en Grèce, dans lesquels les personnes étaient prisonnières de camps à ciel ouvert [12].

      Qui sera responsable en cas de violations des droits au sein de ces camps ? Quel droit s’appliquera, le droit italien ou le droit albanais ? Comment pourra être garantie l’effectivité des droits dans un territoire localisé à distance de la juridiction responsable, loin des regards ?

      Selon les termes de cet accord, ni les personnes débarquées par les bateaux d’ONG, ni les personnes arrivées de manière autonome ne devraient être concernées. Comment savoir si les autorités italiennes n’élargiront pas cette procédure à tou·te·s les demandeur·euse·s d’asile ? L’accord ne risque-t-il pas, en outre, de mettre en difficulté les conditions dans lesquelles s’effectueront les opérations de recherche et sauvetage des personnes en détresse en mer ? Le tri entre les personnes reconnues vulnérables et les autres se fera-t-il sur le bateau ou en Albanie ?

      Pour les personnes expulsées, le seront-elles depuis l’Italie ou depuis l’Albanie ? De sérieux doutes se posent au regard des déclarations du Premier ministre albanais affirmant qu’elles incomberaient aux autorités italiennes (alors qu’initialement cette tâche devait être effectuée par l’Albanie).

      La détention aurait lieu durant la procédure frontalière et en vue du retour, mais quid des personnes libérées en Albanie : seront-elles renvoyées vers l’Italie ou un autre État ?

      Cet accord tombe-t-il sous le coup du droit européen ou non ? La Commissaire aux affaires intérieures a laissé planer un doute sur la nature européenne des règles qui s’y appliqueraient. La Commissaire aux droits de l’Homme du Conseil de l’Europe a quant à elle pointé du doigt le risque d’un effet domino « susceptible de saper le système européen » si d’autres États décident eux-aussi de transférer leur responsabilité au-delà des frontières européennes [13].

      Les règles édictées dans l’accord politique sur le pacte européen adoptées le 20 décembre 2023 devront-elles s’appliquer sur le territoire albanais car sous juridiction italienne et donc européenne ?

      Et pour finir, se pose la question du coût exorbitant de ces déplacements de populations, mais aussi celui de l’accord négocié avec l’Albanie pour disposer d’une partie de son territoire national, et du fonctionnement-même de ces camps.

      Pour toutes ces raisons, le réseau Migreurop dénonce un protocole d’accord qui n’aurait jamais dû voir le jour. Et à supposer que le gouvernement italien s’obstine dans cette direction, cela ne peut se faire sans que le droit européen et la protection des droits des personnes soient mis en œuvre et respectés. À commencer par celui de demander l’asile dans de bonnes conditions.

      Les mécanismes d’externalisation à l’œuvre – qui se généralisent – violent le droit international avec la complicité des autorités nationales et la complaisance de certaines institutions européennes. Il est urgent de refuser ce contournement incessant du droit qui, loin des regards, s’inscrit dans la stratégie mortifère de mise à distance des personnes étrangères.

      https://migreurop.org/article3230

  • Libia. Il Consiglio di sicurezza Onu conferma le sanzioni ai guardacoste-trafficanti

    Approvato all’unanimità l’inasprimento delle sanzioni per i boss del traffico di esseri umani, petrolio e armi. Dal guardacoste «#Bija» ai capi della «polizia petrolifera» fino al direttore dei «#lager»

    La Libia non è un porto sicuro di sbarco, e le connessioni dirette tra guardia costiera libica e trafficanti di esseri umani, petrolio e armi, sono il motore della filiera dello sfruttamento e dell’arricchimento. All’unanimità il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha accolto le richieste degli investigatori Onu, che hanno proposto l’inasprimento delle sanzioni contro i principali boss di un sistema criminale che tiene insieme politica, milizie e clan.

    La decisione mette in difficoltà il governo italiano e le direttive Piantedosi, secondo cui le organizzazioni del soccorso umanitario dovrebbero prima coordinarsi con la cosiddetta guardia costiera libica, che invece l’Onu indica tra i principali ingranaggi del sistema criminale. Dopo una lunga discussione interna il Consiglio di sicurezza ha accolto le richieste degli investigatori Onu in Libia a cui è stato rinnovato il mandato fino al 2025. Gli esponenti per i quali è richiesto il blocco dei beni e il divieto assoluto di viaggio sono cinque, ma uno risulta deceduto il 16 marzo di quest’anno in Egitto. Gli altri componenti del «poker libico» sono nomi pesanti, a cominciare da #Saadi_Gheddafi, il figlio ex calciatore del colonnello Gheddafi, che sta tentando di vendere una proprietà in Canada aggirando le sanzioni anche attraverso il consolato libico in Turchia. Il cinquantenne Gheddafi avrebbe viaggiato indisturbato e il 27 giugno 2023, gli esperti Onu hanno scritto al governo turco «in merito all’attuazione delle misure di congelamento dei beni e di divieto di viaggio. Non è stata ricevuta alcuna risposta». Secondo gli investigatori la firma di Gheddafi su una procura depositata in Turchia, costituisce «una prova della mancata osservanza da parte della Turchia della misura di divieto di viaggio».

    Se i Gheddafi rappresentano il passato che continua a incombere sulla Libia, soprattutto per lo smisurato patrimonio lasciato dal patriarca dittatore e mai realmente quantificato, nella lista dei sanzionati ci sono i nuovi boss della Libia di oggi. Come #Mohammed_Al_Amin_Al-Arabi_Kashlaf. «Il Gruppo di esperti ha stabilito che la #Petroleum_Facilities_Guard di Zawiyah è un’entità che è nominalmente sotto il controllo del Governo di unità nazionale», dunque non una polizia privata in senso stretto ma un gruppo armato affiliato alle autorità centrali e incaricato di sorvegliare i principali stabilimenti petroliferi, da cui tuttavia viene fatta sparire illegalmente un certa quantità di idrocarburi che poi vengono immessi nel mercato europeo grazie a una fitta rete di contrabbandieri. «Il gruppo di esperti - si legge ancora - ha chiesto alle autorità libiche di fornire informazioni aggiornate sull’attuazione del congelamento dei beni e del divieto di viaggio nei confronti di questo individuo, compresi i dettagli sullo status attuale e sulla catena di comando della Petroleum Facilities Guard a Zawiyah, nonché sulle sue attività finanziarie e risorse economiche personali». Anche in questo caso le autorità libiche «non hanno ancora risposto».

    Collegato a Kashlaf è #Abd_al-Rahman_al-Milad, forse il più noto del clan. Noto anche come “Bija”, ha utilizzato «documenti delle Nazioni Unite contraffatti nel tentativo di revocare il divieto di viaggio - si legge - e il congelamento dei beni imposti nei suoi confronti». Bija si è però mosso trovando appoggi sia «nel governo libico che in interlocutori privati all’interno della Libia», con l’obiettivo di ottenere il sostegno «alla sua richiesta di cancellazione» delle sanzioni. In particolare, gli investigatori Onu sono in possesso «di un documento ufficiale libico, emesso il 28 settembre 2022 dall’Ufficio del Procuratore Generale, in cui si ordina alle autorità responsabili - denunciano gli esperti - di rimuovere il nome di #Al-Milad dal sistema nazionale di monitoraggio degli arrivi e delle partenze». Una copertura al massimo livello della magistratura, che lo aveva già assolto dalle accuse di traffico di petrolio, e che «consentirebbe ad Al-Milad di lasciare la Libia con i beni in suo possesso, in violazione della misura di congelamento dei beni». Il 25 gennaio 2023 «il Gruppo di esperti ha chiesto alle autorità libiche di fornire informazioni aggiornate sull’effettiva attuazione del congelamento dei beni e del divieto di viaggio nei confronti di Al-Milad. La richiesta è stata fatta a seguito della ripresa delle sue funzioni professionali nelle forze armate libiche, compresa la nomina a ufficiale presso l’Accademia navale di Janzour dopo il suo rilascio dalla custodia cautelare l’11 aprile 2021». A nove mesi di distanza, le autorità libiche «non hanno ancora risposto».

    La risoluzione approvata dal Consiglio di sicurezza si basa anche su un’altra accusa del «Panel of Expert» i quali hanno «hanno stabilito che il comandante della Petroleum Facilities Guard di Zawiyah, Mohamed Al Amin Al-Arabi Kashlaf , e il comandante della Guardia costiera libica di #Zawiyah, Abd al-Rahman al-Milad (Bija), insieme a #Osama_Al-Kuni_Ibrahim, continuano a gestire una vasta rete di traffico e contrabbando a Zawiyah». Le sanzioni non li hanno danneggiati. «Da quando i due comandanti sono stati inseriti nell’elenco nel 2018, hanno ulteriormente ampliato la rete includendo entità armate che operano nelle aree di Warshafanah, Sabratha e Zuara». Tutto ruota intorno alle prigioni per i profughi. «La rete di Zawiyah continua a essere centralizzata nella struttura di detenzione per migranti di Al-Nasr a Zawiyah, gestita da Osama Al-Kuni Ibrahim», il cugino di Bija identificato grazie ad alcune immagini pubblicate da Avvenire nel settembre del 2019. Il suo nome ricorre in diverse indagini. Sulla base «di ampie prove di un modello coerente di violazioni dei diritti umani, il Gruppo di esperti ha rilevato - rincara il “panel” - che Abd al-Rahman al-Milad e Osama al-Kuni Ibrahim, hanno continuano a essere responsabili di atti di tortura, lavori forzati e altri maltrattamenti nei confronti di persone illegalmente confinate nel centro di detenzione di Al-Nasr», allo scopo di estorcere «ingenti somme di denaro e come punizione».

    Il modello di #business criminale è proprio quello che Roma non vuole riconoscere, ma che gli investigatori Onu e il Consiglio di sicurezza ribadiscono: «La rete allargata di Zawiyah - si legge nel rapporto - comprende ora elementi della 55esima Brigata, il comando dell’Apparato di Supporto alla Stabilità a Zawiyah, in particolare le sue unità marittime, e singoli membri della Guardia Costiera libica, tutti operanti al fine di eseguire il piano comune della rete di ottenere ingenti risorse finanziarie e di altro tipo dalle attività di traffico di esseri umani e migranti».

    Al Consiglio di Sicurezza è stato mostrato lo schema che comprende «quattro fasi operative: (a) la ricerca e il ritorno a terra dei migranti in mare; (b) il trasferimento dai punti di sbarco ai centri di detenzione della Direzione per la lotta alla migrazione illegale; (c) l’abuso dei detenuti nei centri di detenzione; (d) il rilascio dei detenuti vittime di abusi». Una volta rimessi in libertà i migranti, rientrano nel ciclo dello sfruttamento: rimessi in mare, lasciando che una percentuale venga catturata dai guardacoste per giustificare il sostegno italiano ed europeo alla cosiddetta guardia costiera libica, e di nuovo «trasferimento dai punti di sbarco ai centri di detenzione della Direzione per la lotta alla migrazione illegale; l’abuso dei detenuti nei centri di detenzione; il rilascio dei detenuti vittime di abusi».

    Il rapporto Onu e il voto unanime dei 15 Paesi che siedono nel Consiglio di sicurezza sono uno schiaffo. «Per quanto riguarda il divieto di viaggio e il congelamento dei beni - si legge in una nota riassuntiva della seduta al Palazzo di Vetro -, gli Stati membri, in particolare quelli in cui hanno sede le persone e le entità designate, sono stati invitati a riferire» al Comitato delle sanzioni circa «le rispettive azioni per attuare efficacemente entrambe le misure in relazione a tutte le persone incluse nell’elenco delle sanzioni». Tutte gli esponenti indicati dal «Panel of expert» sono inclusi nell’elenco degli «alert» dell’Interpol. La risoluzione approvata ieri riguarda anche il contrabbando di petrolio e di armi. Il Consiglio di Sicurezza ha prorogato «l’autorizzazione delle misure per fermare l’esportazione illecita di prodotti petroliferi dalla Libia e il mandato del gruppo di esperti che aiuta a supervisionare questo processo».

    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/libia-il-consiglio-di-sicurezza-conferma-le-sanzioni-ai-guardacoste-traffic
    #gardes-côtes_libyens #sanctions #migrations #asile #réfugiés #Libye #externalisation #sanctions #conseil_de_sécurité_de_l'ONU #conseil_de_sécurité #ONU #détention #prisons

  • I dati reali. Dove migrano gli africani ? Solo il 2% di chi si muove va verso l’Europa

    I numeri smentiscono la retorica allarmistica che spesso prevale in Europa . Un fenomeno vasto e anche trascurato. Se violenza e ingiustizia dilagano la situazione peggiora

    Le migrazioni interne all’Africa quanto quelle al di fuori del continente hanno lo stesso obiettivo: cercare un futuro migliore per se stessi e la propria famiglia. Con lo scopo di raccogliere voti, slogan del tipo: “Non possiamo accogliere tutta l’Africa” o “I migranti africani ci stanno invadendo”, non si fa altro che promuove la disinformazione rispetto alla realtà di un fenomeno migratorio di grandi proporzioni ma che va inquadrato diversamente.

    Ci si focalizza sul singolo albero, perché ci riguarda direttamente, senza però osservare l’intera foresta. Sebbene sia difficile ottenere cifre precise, si stima che meno del 2 per cento dei migranti africani più poveri viaggi verso l’Europa dopo anni di riflessione e complicati tentativi attraverso le vie legali. Un’altra parte migra verso Stati Uniti e Canada, sebbene Medio Oriente e Asia siano ormai le destinazioni più favorite. La stragrande maggioranza dei migranti, oltre 40 milioni nel 2022, migra all’interno del continente. In generale, circa l’80 per cento degli africani si muove all’interno del suo Stato d’origine.

    «La migrazione interna africana avviene prevalentemente dai villaggi verso le zone urbane – sottolinea Muhammad Baba Bello, economista all’università Bayero di Kano, in Nigeria –. I poveri delle campagne fluiscono regolarmente verso le capitali o città relativamente più ricche». I dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) mostrano inoltre che la migrazione della manodopera in Africa «è in gran parte interregionale, circa l’80 per cento».

    Escludendo quindi i milioni di migranti che fuggono a causa di conflitti o del cambiamento climatico, e omettendo quelli “qualificati” che si spostano internamente all’Africa per ragioni di carriera, sono decine di milioni i migranti che vivono con pochi dollari al giorno spostandosi tra Stati e regioni del continente africano.

    Nel 2000, prima del conflitto civile, la Costa d’Avorio era la destinazione principale della migrazione interna all’Africa, sostituita poi dal 2017 dal Sudafrica. Nel quartiere di Nyekonakpoé, dove vivo a Lomé, capitale di un piccolo Paese come il Togo, a meno di 200 metri dal confine con il Ghana, sono i nigeriani la comunità più folta. Le strade della zona brulicano di modesti negozi di alimentari e abbigliamento, locande, baretti e atelier di artigiani di vario tipo.

    Molti di loro fanno parte della comunità Yoruba, originaria della Nigeria occidentale. Uno dei residenti più famosi del quartiere è l’ex calciatore Emmanuel Adebayor (ha giocato anche nel Real Madrid), uno yoruba nato da una famiglia nigeriana immigrata in Togo. Famiglie che devono accontentarsi di vivere con meno di due dollari al giorno.

    Gli yoruba sono 37 milioni e solo un milione vive fuori dall’Africa. Questa etnia è nota per essere una delle più feconde al mondo per i gemelli eterozigoti, con un tasso del 4,4 per cento rispetto alle nascite. Gli yoruba da sempre migrano soprattutto verso Benin, Ghana, Togo, e Costa d’Avorio. Nei mercati centrali delle capitali di questi Paesi costieri che si affacciano sul Golfo di Guinea, sono sempre più numerose anche le comunità di migranti provenienti da Stati saheliani come Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad. Commercianti nei settori agricolo, alimentare, tessile e artigianale. Anche i porti africani, sempre più trafficati e sofisticati, rappresentano un polo di attrazione importante per la forza lavoro regionale, non richiedendo particolari competenze professionali.

    Centinaia di migliaia di migranti dell’Africa occidentale vivono in Nord Africa. Molti di essi risiedevano in Libia da decenni prima che scoppiasse la guerra civile. «Ho vissuto a Tripoli per molti anni lavorando come muratore – spiega Kojo, tornato ad Accra, capitale del Ghana, per lavorare come guardiano di un palazzo –. Guadagnavo mille dollari al mese, dieci volte tanto rispetto a quello che mi danno in Ghana per la stessa professione».

    Il Senegal è un altro importante hub per la migrazione interna. Nella capitale, Dakar, impieghi come addetti alle pulizie di abitazioni e uffici, babysitter, tassisti, cuochi, e operai per le costruzioni sono spesso occupati da migranti non-senegalesi. Per costruire la nuova città di Diamniadio sono stati assunti migliaia di migranti da Sierra Leone, Liberia, Gambia, Guinea Conakry, Mali, ma anche da Nigeria e Congo Brazzaville. Nel crescente settore minerario africano, vengono occupati soprattutto migranti burkinabé, maliani, sudafricani, zambiani, e guineani. Anch’essi, come tutti gli altri, spediscono ogni mese gran parte dello stipendio verso il loro Paese d’origine.

    Tanto in Europa quanto in Africa i flussi migratori possono avere conseguenze molto complesse da gestire. L’esempio più lampante è il Sudafrica, dove il tasso di disoccupazione supera attualmente il 32 per cento. Migranti che una volta provenivano quasi esclusivamente dai Paesi limitrofi, ora arrivano da Kenya, Congo, Etiopia, Sudan e Somalia in cerca di un’occupazione che però si fatica sempre di più a trovare.

    Da anni sono però regolari le violenze e discriminazioni dei sudafricani contro i migranti e persino tra le stesse comunità. «Le politiche migratorie in Sudafrica sollevano molti interrogativi – spiegano alcuni esperti del tema -. Le autorità vogliono favorire l’attrazione di manodopera qualificata invece di quella poco qualificata».

    Secondo la Banca mondiale, sono tre i Paesi dell’Africa sub-sahariana dove è più facile avviare un’impresa: Mauritius, Ruanda, e Kenya. Altri studi affermano che tra le principali nazioni che stanno sviluppando buone condizioni di lavoro ci sono Malawi, Nigeria, Zambia, Capo Verde e Eswatini (ex Swaziland), mentre l’ambiente imprenditoriale è «migliorato in modo significativo in Zimbabwe, Congo, Gabon, Niger (prima del colpo di Stato) e Senegal».

    Con la relativa crescita di Juba, capitale del Sud Sudan diventato indipendente nel 2011, folte comunità di ugandesi e keniani si sono riversate oltre confine per fare business investendo quel poco che avevano. Per le stesse ragioni molti sudsudanesi hanno messo radici in Kenya, Uganda e Sudan (prima del colpo di Stato).

    Sudafrica, Costa d’Avorio e Nigeria sono quindi tra le prime cinque destinazioni. Ad eccezione della Costa d’Avorio, con la più grande comunità estera proveniente dal vicino Burkina Faso, i migranti africani rappresentano comunque meno del 5% della popolazione locale. Sono molti anche gli “studenti-migranti” provenienti da modeste famiglie africane che lavorano per finanziare gli studi dei loro figli in università come la Cheikh Anta Diop a Dakar, la Makerere University a Kampala, capitale dell’Uganda, la Nairobi University in Kenya e molti altri aenei in Sudafrica, Costa d’Avorio, Nigeria, Togo, Ghana, e Tanzania.

    Gli studenti hanno pochi soldi, vivono nei dormitori e cercano di lavorare part-time per guadagnare qualcosa. Nel contesto della prematura de-industrializzazione dell’Africa e dell’impatto crescente dell’intelligenza artificiale, la migrazione interna al continente continua a crescere notevolmente. Questo fenomeno, rispetto alle spesso drammatiche migrazioni verso l’Europa, non fa però notizia.

    https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/i-dati-smentiscono-la-retorica-allarmistica-che-sp

    #migrations #réfugiés #migrations_intra-africaines #statistiques #chiffres #Afrique

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    ajouté à la métaliste de documents (surtout cartes et visualisations) qui traitent des #migrations_intra-africaines et qui peuvent servir à combattre les #préjugés de la #ruée vers l’Europe de migrants d’#Afrique subsaharienne...
    https://seenthis.net/messages/817279

  • 11 octobre 2023, verdict en cour d’appel pour le #procès contre #Mimmo_Lucano, ancien maire de #Riace

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    Ce fil de discussion est la suite de celui-ci :
    Le 20.09.2023 la défense de #Mimmo_Lucano a prononcé le plaidoyer final dans le cadre de l’#appel à la condamnation de l’ancien maire de #Riace...
    https://seenthis.net/messages/1018103

    #accueil #migrations #solidarité #asile #réfugiés #Italie #criminalisation_de_la_solidarité #acquittement #justice #Xenia

    • La corte d’appello condanna Mimmo Lucano a 1 anno e 6 mesi

      La sentenza di primo grado aveva fissato la condanna a 13 anni e due mesi, la procura aveva chiesto 10 anni e 5 mesi. I suoi avvocati volevano l’assoluzione. Lucano non ha mai smesso di lavorare nei progetti per l’accoglienza e in una lettera aveva invitato i giudici ad andare a vedere il Villaggio Globale di Riace

      La Corte d’appello di Reggio Calabria ha condannato l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano a 1 anno e 6 mesi: un decimo di quanto chiesto dalla procura. Le accuse sono state fortemente ridimensionate, e l’esito drasticamente ridotto rispetto alla condanna in primo grado a oltre 13 anni.

      La procura generale aveva chiesto per questo secondo grado di giudizio la condanna a 10 anni e 5 mesi di carcere per l’ex sindaco di Riace e principale imputato del processo “Xenia”, nato da un’inchiesta della guardia di Finanza sulla gestione dei progetti di accoglienza dei migranti nel piccolo paese della Locride. Un processo che lo vede alla sbarra insieme ad altre 17 persone. Le accuse erano pesanti: associazione a delinquere e peculato, frode, falso in atto pubblico, abuso d’ufficio e truffa.

      La prima condanna

      Il Tribunale di Locri a settembre del 2021 lo aveva condannato a 13 anni e 2 mesi di reclusione, e 700mila euro di danni per la gestione dei progetti di accoglienza per i migranti (ma c’è anche la gestione dei rifiuti, il mancato pagamento della Siae e altri illeciti amministrativi), nonostante Riace sia stata lodata in tutto il mondo, e gli stessi giudici abbiano descritto i progetti come figli di un’utopia.

      Dal processo è stato dimostrato che Lucano non ha tratto benefici per il suo conto corrente. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado i giudici trovavano la colpa nel «comportamento omissivo, che era stato tenuto per bieco calcolo politico».

      E ancora: «Nulla importa che l’ex sindaco di Riace sia stato trovato senza un euro in tasca», perché, si leggeva, «ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza».

      Per i difensori, Andrea Daqua e Giuliano Pisapia, si tratta di un processo politico, in cui sono stati fatti anche errori. Durante il processo d’appello sono state aggiunte nuove intercettazioni e contestate trascrizioni della guardia di finanza da quelle precedenti. Nelle motivazioni d’appello i due legali avevano parlato di «lettura forzata se non surreale dei fatti».

      Dopo la sentenza di primo grado era scaturito in ambito internazionale un appello firmato dal linguista Noam Chomsky, dall’ex capitana Sea Watch Carola Rackete, fino al leader della sinistra francese Jean-Luc Mélenchon perché venissero ritirate le accuse a suo carico.
      La lettera

      Alle ultime elezioni regionali si era candidato in appoggio a Luigi de Magistris, ma non è stato eletto. Non ha smesso di lavorare. Il 20 settembre l’ex sindaco di Riace ha consegnato una lettera alla Corte: «Come tutti gli esseri umani posso aver commesso degli errori, ma ho sempre agito con l’obiettivo e la volontà di aiutare i più deboli e di contribuire all’accoglienza e all’integrazione di bambini, donne e uomini che fuggivano dalla fame, dalla guerra, dalle torture».

      Lucano ha poi ricordato: «Sono passati cinque anni da quando sono stato arrestato con l’accusa infamante di svolgere la mia attività di accoglienza e integrazione dei migranti per finalità di carriera politica e di lucro. Sono passati due anni da quando mi è stata inflitta la condanna in primo grado a una smisurata pena detentiva quale non tocca spesso ai peggiori criminali».

      Ma non ha desistito, e ha invitato i giudici ad andare a vedere i risultati del suo lavoro: «Ho continuato a dedicarmi a tempo pieno, da privato cittadino, alla riapertura e alla gestione del Villaggio globale di Riace che ha ospitato e continua ad ospitare bambini e persone con fragilità. Non si è interrotta, dunque, quella che considero la missione della mia vita, a prescindere da incarichi pubblici e finanziamenti statali. Altro che associazione a delinquere. Al termine di questo processo vi invito a visitare il Villaggio Globale di Riace, sarete i benvenuti».

      https://www.editorialedomani.it/politica/italia/mimmo-lucano-sentenza-corte-appello-oooeao9j

    • Non reggono in Appello le accuse monstre a Lucano. L’ex sindaco condannato a un anno e 6 mesi
      https://www.youtube.com/watch?v=qBE1GEzNnow&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.corrieredellaca

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      La decisione della Corte nel processo al “modello Riace”: assolti 15 imputati su 17. L’accusa aveva chiesto 10 anni 5 mesi per l’ex sindaco. In primo grado la pena comminata era stata di oltre 13 anni

      L’ex sindaco di Riace Domenico Lucano è stato condannato a un anno e sei mesi (con pena sospesa) dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria, pena sensibilmente inferiore rispetto ai 13 anni e due mesi rimediati in primo grado e rispetto alla richiesta della Procura generale (10 anni e 5 mesi). Oggi assente a Reggio Calabria, l’ex primo cittadino ha atteso l’esito della camera di consiglio durata circa sei ore, nel piccolo borgo del “modello” per molti anni simbolo dell’accoglienza e alla sbarra dopo l’inchiesta “Xenia” della procura di Locri. Dentro e fuori dall’aula applausi e festeggiamenti per la decisione.

      L’accusa, rappresentata dai sostituti procuratori generali Adriana Fimiani e Antonio Giuttari, aveva chiesto per l’ex primo cittadino una condanna di 10 anni e 5 mesi di reclusione. Imputati davanti ai giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria, (presidente Elisabetta Palumbo, giudici relatori Davide Lauro e Massimo Minniti) Lucano e altre 17 persone.
      Si conclude così il secondo capitolo giudiziario scaturito dall’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza che si basa sull’accusa di aver utilizzato i fondi destinati all’accoglienza dei migranti per “trarre vantaggi personali”. Associazione a delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Queste, a vario titolo, le accuse della Procura di Locri che ha attaccato in toto il sistema di accoglienza messo in piedi nel borgo della Locride. In primo grado il Tribunale di Locri aveva condannato Lucano a 13 anni e 2 mesi di reclusione, a fronte della richiesta della Procura a 7 anni e 11 mesi.

      Il dibattimento

      Nel corso del dibattimento i legali di Lucano, gli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia, avevano sottolineato come quella di Lucano fosse una «innocenza documentalmente provata» poiché l’obiettivo dell’ex sindaco di Riace «era uno solo ed in linea con quanto riportato nei manuali Sprar: l’accoglienza e l’integrazione. Non c’è una sola emergenza dibattimentale (intercettazioni incluse) dalla quale si possa desumere che il fine che ha mosso l’agire del Lucano sia stato diverso».
      Nelle motivazioni d’appello i legali avevano sottolineato che in sentenza c’era stato un «uso smodato delle intercettazioni telefoniche, conferite in motivazione nella loro integralità attraverso la tecnica del copia/incolla». Intercettazioni che, in molti casi, secondo gli avvocati, sarebbero inutilizzabili. Nel corso delle arringhe finali i legali di Lucano avevano chiesto alla corte di ribaltare la sentenza di primo grado del Tribunale di Locri che aveva motivato la sentenza in 900 pagine definendo Lucano “dominus indiscusso” del sistema messo in piedi a Riace per l’accoglienza e l’integrazione dei migranti. Tanti i sostenitori di Lucano che hanno atteso la decisione dei giudici dentro e fuori la Corte d’appello di Reggio Calabria, tra loro anche Giuseppe Lavorato.
      In tanti di sono recati anche a Riace e hanno aspettato insieme all’ex sindaco l’esito del processo.

      https://www.corrieredellacalabria.it/2023/10/11/non-reggono-in-appello-le-accuse-monstre-a-lucano-lex-sindaco-

    • Lucano: “Finalmente respiro e ora torno in politica. Sogno un’altra Italia”

      Dopo la sentenza che ha cancellato la condanna a 13 anni e due mesi, parla l’ex sindaco del paese dell’accoglienza. “Riace era avanguardia dei diritti e della speranza, torniamo a esserlo”

      Ora respiro, ora respiro di nuovo». Non è facile parlare con l’ex sindaco dell’accoglienza Mimmo Lucano dopo la sentenza che lo ha assolto dall’accusa di aver trasformato la “sua” Riace in un “sistema clientelare” costruito al solo scopo di “ricavarne benefici politici”, sostenevano i giudici del primo grado. “Che assurdità. Proprio io, che non mi sono mai voluto candidare. Ma adesso la verità è stata ristabilita”, dice l’ex sindaco dell’accoglienza mentre dietro di lui si sente il paese in festa e di tanto in tanto la comunicazione salta perché qualcuno l’abbraccia forte.

      Quando ha sentito il giudice leggere la sentenza che ribaltava quella durissima di primo grado che effetto le ha fatto?

      “In pochi secondi tutti i dispiaceri, l’amarezza, i momenti più duri, quelli in cui non credevo di farcela, tutto è stato cancellato. Mi sono sentito rinascere”.

      È stata dura?

      “È stata dura, è stata lunga, ci sono stati i domiciliari, le misure cautelari che mi hanno tenuto lontano da Riace, poi la sentenza di primo grado, il fango. Ma adesso è come se tutto fosse sparito, in questo momento non pesa più”.

      In questi anni c’è stato qualcosa che è stato più difficile di altre da sopportare?

      «Il sospetto. Quelle ombre che sono state evocate su di me, l’idea che è stata instillata che avessi fatto tutto per un tornaconto personale. Riace era ed è un’idea di umanità, di rinascita per gli ultimi, per tutti. Adesso la verità è venuta a galla».

      I giudici di primo grado dietro quel modello avevano letto un sistema criminale.

      “Assurdo. La contestazione di associazione a delinquere è quanto di più lontano da quello che il villaggio globale, la comunità che qui avevamo costruito, rappresenta.Noi abbiamo sempre lottato per la fratellanza, perché tutti avessero un’opportunità, questa è l’antitesi alle associazioni criminali, che qui significano mafia. E noi l’abbiamo sempre combattuta. I miei primi passi in politica sono stati proprio contro la mafia”.

      A proposito di politica, cade anche l’interdizione ai pubblici uffici. Pensa di candidarsi nuovamente?

      “È presto, la sentenza è appena arrivata, solo adesso inizio a realizzare, ma ci sto pensando. Sicuramente adesso si apre una fase nuova, di rinascita e di speranza”.

      In che misura?

      “Fin dall’inizio della sua storia Riace è stata un’avanguardia in termini di difesa dei diritti umani, anzi dell’umanità. Abbiamo mostrato concretamente che accoglienza non è un problema di ordine pubblico o motivo di allarme sociale, ma occasione per il territorio che la sperimenta, crescita, rinascita per tutti, per chi c’era e per chi viene accolto”.

      E adesso che l’Italia sembra andare in tutt’altra direzione?

      «In questo momento storico così buio, con i decreti Cutro e Piantedosi che criminalizzano i migranti e chi prova a essere solidale, che i giudici cancellino una sentenza che provava a smentirlo trasforma Riace nuovamente in un’avanguardia».

      Di cosa?

      «Della speranza di un’altra Riace possibile, di un’altra Italia possibile, di un altro mondo possibile. Noi abbiamo sempre lottato per questo».

      Nel frattempo però il “paese dell’accoglienza” è stato distrutto

      «In realtà non del tutto. Paradossalmente la sentenza di primo grado ha scatenato un’ondata incredibile di solidarietà. Associazioni come “A buon diritto” hanno promosso persino una raccolta fondi per aiutarmi a pagare la sanzione pecuniaria che mi era stata inflitta. Ma quando il presidente Luigi Manconi mi ha chiamato, gli ho chiesto di usare quei fondi per altro».

      A cosa sono stati destinati?

      «Qui a Riace vivono ancora tante famiglie di rifugiati, quei fondi sono stati utilizzati per dei progetti di lavoro che adesso impiegano tantissime persone anche in strutture come il frantoio, che inizialmente era stato letto come parte di un progetto criminale ed è speranza per chi è arrivato senza più avere nulla».

      Insomma, l’accoglienza a Riace non è morta.

      «Assolutamente no e questo si deve anche a tutte le persone che in questi anni non hanno mai fatto mancare il proprio sostegno né a me, né a Riace. Il mio primo pensiero oggi è stato per loro, per i miei legali, l’avvocato Mazzone soprattutto, il primo a credere in me e che adesso non c’è più».

      Al ministro Salvini che in passato l’ha definita uno zero ha pensato?

      «No, ma so che è uno che guarda il calcio. E a lui che ha usato la mia condanna per criminalizzare l’accoglienza direi che i risultati si commentano a fine partita».

      https://www.repubblica.it/cronaca/2023/10/12/news/lucano_finalmente_respiro_e_ora_torno_in_politica_sogno_unaltra_italia-41

    • Freispruch in Riace

      Dem für gute Flüchtlingsarbeit bekannten italienischen Bürgermeister drohten 13 Jahre Haft. Jetzt hat ihn ein Gericht in zweiter Instanz freigesprochen.

      Mimmo Lucano ist kein Schwerverbrecher. Zu diesem Schluss kam am Mittwochnachmittag das Gericht im süditalienischen Reggio Calabria, das in zweiter Instanz den früheren Bürgermeister der kleinen kalabrischen Gemeinde Riace in fast allen Anklagepunkten freisprach.

      Lucano war mit seiner Politik der ausgestreckten Hand gegenüber Mi­gran­t*in­nen weit über Italien hinaus berühmt geworden, und wurde für sein „Modell Riace“ in den Medien gefeiert und mit Preisen ausgezeichnet, unter anderem mit dem Friedenspreis der Stadt Dresden – bis er im Jahr 2021 in erster Instanz als angeblicher Chef einer kriminellen Vereinigung zu exorbitanten 13 Jahren und 2 Monaten Haft verurteilt wurde.

      Angeblich hatte er, der in den Jahren 2004 bis 2018 Bürgermeister des 1.800-Seelen-Ortes Riace war, sich der Förderung illegaler Einwanderung schuldig gemacht, zahlreiche Delikte wie Betrug, Urkundenfälschung, Unterschlagung begangen, mehr als 700.000 Euro an staatlichen Geldern beiseite geschafft.
      Alles nur Show in Riace?

      Und das Modell Riace? Alles nur Fassade, wenn man Staatsanwaltschaft und Gericht glauben darf, das 2021 in erster Ins­tanz urteilte. Diese „Fassade“ bestand darin, dass Lucano dem Verfall des Dorfkerns von Riace, dem Wegzug jüngerer Menschen etwas entgegensetzen wollte: die Ansiedlung von Migrant*innen, für die Häuser instand gesetzt wurden, und die Schaffung von Arbeit in neu eröffneten Läden und Werkstätten, in denen alteingesessene Bür­ge­r*in­nen gemeinsam mit Neuankömmlingen aus Syrien oder Äthiopien tätig waren. Ende 2017 lebten 470 Mi­gran­t*in­nen in Riace, mehr als ein Viertel der Ortsbevölkerung.

      Doch in den Augen des Innenministeriums in Rom und der Justiz war das alles nur Show. Im Jahr 2017 behauptete der damalige Präfekt von Reggio Calabria, in Riace würden systematisch die staatlichen Zuwendungen für Mi­gran­t*in­nen unterschlagen. 2018 dann erließ das Gericht von Locri Haftbefehl gegen Lucano, der in Hausarrest genommen und seines Amtes enthoben wurde.

      Der damalige Innenminister und Chef der fremdenfeindliche Lega, Matteo Salvini, nutzte diese Steilvorlage, um das Modell Riace von einem Tag auf den anderen zu liquidieren und die dort lebenden Geflüchteten wegzuschaffen.
      Weder persönliche Bereicherung noch politischer Ehrgeiz

      Lucano stand mit 23 Mitangeklagten vor Gericht, und wurde dann zu einer Haftstrafe verurteilt, die eines Mafiabosses würdig gewesen wäre. Dabei mussten auch die Staatsanwaltschaft und das damals urteilende Gericht zugeben, dass auf keinem seiner Konten auch nur ein roter Heller war und ihm keine private Bereicherung nachgewiesen werden konnte. Aber egal: Seine Gegner argumentierten, es sei ihm um „politischen Nutzen“ und den eigenen Ruhm gegangen. Lucano allerdings hatte mehrfach Angebote für Kandidaturen zum Europaparlament und zum nationalen Parlament ausgeschlagen. Viel politischer Ehrgeiz war da nicht zu sehen.

      Zu einer ganz anderen Würdigung kamen denn jetzt auch die Rich­te­r*in­nen in zweiter Instanz. Fast alle Mitangeklagten Lucanos wurden freigesprochen. Er selbst allerdings wurde wegen Urkundenfälschung in einem Verwaltungsakt von 2017 zu 18 Monaten Haft auf Bewährung verurteilt. Dennoch feierten er und seine An­hän­ge­r*in­nen das Verdikt wie einen Freispruch. Die zahlreichen Anwesenden im Gerichtssaal stimmten „Mimmo, Mimmo!“-Sprechchöre an und sangen „Bella Ciao“. Lucano selbst, der das Urteil in Riace abgewartet hatte, brach nach dem Richterspruch in Freudentränen aus. Er sieht seinen guten Ruf wiederhergestellt und erwägt eine Rückkehr in die Politik.

      https://taz.de/Ex-Buergermeister-Mimmo-Lucano/!5962687

    • Mimmo Lucano, ridotta drasticamente la condanna in appello: un urlo liberatorio!

      «La solidarietà non può essere reato»

      La sentenza di appello del processo a carico dell’ex sindaco di Riace, Domenico “Mimmo” Lucano, e dei membri della sua giunta, per un totale di 18 imputati, rovescia completamente il verdetto di primo grado.

      I giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria, infatti, lo hanno condannato a un anno e sei mesi di reclusione, con pena sospesa, contro la richiesta della Procura generale di 10 anni e 5 mesi, stravolgendo la sentenza di primo grado del Tribunale di Locri che gli aveva inflitto 13 anni e 2 mesi di carcere per associazione per delinquere, truffa, peculato, falso e abuso d’ufficio per le iniziative di accoglienza, cooperazione, convivenza pacifica e solidarietà costruite nei tre mandati (tra il 2004 e il 2018) da Sindaco di Riace.

      La Corte ha così assolto Lucano da tutti i reati più gravi e poi tutti gli altri 17 imputati e ha ristabilito una verità dei fatti totalmente diversa da quella, abnorme, disegnata dal primo grado.

      «Ci sarà ora qualcuno che chiederà scusa a Mimmo Lucano per la sistematica attività di diffamazione indirizzata nei suoi confronti» si chiede A Buon Diritto.

      Per il presidente, Luigi Manconi, e per tutta l’associaizone «la soddisfazione per la sentenza di appello è grande».

      «Abbiamo sostenuto fin dal primo momento l’idea di politica dell’accoglienza e dell’ospitalità promossa dalla giunta di Riace e abbiamo sostenuto gli imputati con una sottoscrizione nazionale che ha dato eccezionali risultati. Questa sentenza conferma che eravamo nel giusto quando affermavamo che la solidarietà non può essere criminalizzata», conclude l’associazione alla quale si sono aggiunti in queste ore diversi commenti di personalità e organizzazioni solidali che sono sempre state vicine all’ex Sindaco.

      Intervistato da Repubblica, Mimmo Lucano ha detto: «In pochi secondi tutti i dispiaceri, l’amarezza, i momenti più duri, quelli in cui non credevo di farcela, tutto è stato cancellato. Mi sono sentito rinascere».

      E poi: «È stata dura e lunga, ci sono stati i domiciliari, le misure cautelari che mi hanno tenuto lontano da Riace, poi la sentenza di primo grado, il fango. Adesso è come se tutto fosse sparito, in questo momento non pesa più».

      https://twitter.com/RaffaellaRoma/status/1712154008217854430

      https://www.meltingpot.org/2023/10/mimmo-lucano-ridotta-drasticamente-la-condanna-in-appello-un-urlo-libera

    • C’è un giudice a Reggio Calabria

      Mimmo Lucano, a lungo agli arresti domiciliari e condannato a tredici anni e due mesi dal tribunale di Locri, con una sentenza nella cui motivazione si leggono anche pesanti giudizi etici (un “falso innocente» che avrebbe agito con una «logica predatoria delle risorse pubbliche» per soddisfare «appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica»), ha visto oggi la Corte d’appello di Reggio Calabria assolvere i suoi coimputati (salvo uno) e ridurre drasticamente la condanna a un anno e sei mesi di reclusione.

      Da quel che si può capire dal dispositivo letto oggi in udienza, la condanna dovrebbe riguardare un episodio di abuso d’ufficio per l’affidamento del servizio di raccolta di rifiuti. Un reato che a detta del Ministro della giustizia andrebbe abolito perché inutile e fonte di ritardi e costi processuali (9 condanne su 5.000 processi penali).

      Ovviamente, come si suol dire in queste occasioni, aspettiamo di leggere la motivazione, che probabilmente ci riserverà ulteriori piacevoli sorprese. Ma già il dispositivo giustifica alcune valutazioni.

      L’indagine, nata da ispezioni al Comune di Riace disposte dal Prefetto di Reggio Calabria dell’epoca (successivamente nominato da Salvini capo del dipartimento libertà civili e immigrazione del Viminale) e da indagini della Guardia di Finanza, non ha retto al vaglio del giudizio della Corte d’appello. La difesa di Lucano, sostenuta dagli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia, aveva sostenuto, oltre ad alcuni plateali errori delle indagini (un’intercettazione erroneamente trascritta dalla polizia giudiziaria), l’inconsistenza del quadro probatorio dell’accusa e questa linea è stata evidentemente condivisa dalla Corte. Ma insieme all’accusa giuridica necessariamente dovrebbero essere caduti anche i giudizi morali negativi e le feroci critiche al modello di accoglienza realizzato da Lucano. Il “modello Riace” conosciuto e apprezzato nel mondo, sia nelle aule universitarie che nelle più diverse tribune mediatiche.

      E’ difficile però che quel modello, nell’attuale temperie culturale e politica, possa facilmente essere rimesso completamente in piedi. Non ostante la propria personale sofferenza per le accuse ricevute, Lucano, con l’aiuto concreto di alcune associazioni, ha continuato a praticare nel Villaggio Globale di Riace la sua idea di accoglienza. Non è certo il “modello Riace” che vedeva coinvolto l’intero paese, ma è importante che sia rimasto e rimanga in piedi il suo nucleo etico e culturale.

      https://www.articolo21.org/2023/10/ce-un-giudice-a-reggio-calabria

    • La condanna di Mimmo Lucano è stata ridotta in appello a 1 anno e 6 mesi

      In primo grado l’ex sindaco di Riace era stato condannato a oltre 13 anni per la gestione dei migranti, con una sentenza molto contestata

      Mercoledì la Corte d’appello di Reggio Calabria ha condannato Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, a un anno e sei mesi di reclusione per reati commessi nella gestione dei progetti di accoglienza dei migranti di Riace, in Calabria. Lucano era stato condannato in primo grado a 13 anni e 6 mesi di carcere, quasi il doppio della pena chiesta dall’accusa, con una sentenza assai contestata dato che la sua gestione dei migranti a Riace era stata raccontata in tutta Europa e nel resto del mondo come un modello di integrazione e solidarietà: il cosiddetto “modello Riace”.

      La sentenza d’appello è arrivata dopo diverse ore di camera di consiglio e non si sanno ancora le motivazioni della decisione dei giudici. In primo grado, a settembre del 2021, Lucano era stato condannato per 21 reati che includevano associazione a delinquere e una serie di reati tra cui falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa. Nella sentenza di appello i giudici hanno assolto Lucano da quasi tutti i reati, dichiarato il non luogo a procedere per difetto di querela per altri e concesso la sospensione condizionale della pena.

      Lucano è stato invece condannato per falsità materiale e ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, e comunque limitatamente a un solo atto, delle decine indicate nella sentenza di primo grado, relativo a un contributo ricevuto per l’accoglienza di alcuni migranti. La procura aveva chiesto una condanna a 10 anni e 5 mesi: insieme a Lucano erano imputate altre 17 persone, tutte assolte a parte una.

      La vicenda giudiziaria di Mimmo Lucano era iniziata nel 2016, a seguito di alcune rilevazioni di varie irregolarità amministrative da parte di ispettori della prefettura locale. Due anni dopo era stata avviata un’inchiesta, l’operazione Xenia, che nel 2021 aveva portato alla condanna in primo grado da parte del tribunale di Locri. Lucano era stato invece assolto dalle accuse di concussione e immigrazione clandestina.

      In sostanza, secondo i giudici, il sistema organizzato da Lucano, descritto come un modello per i principi di solidarietà a cui si ispirava, nascondeva invece un’associazione a delinquere responsabile di una serie di reati. A dicembre del 2021 erano state pubblicate le motivazioni della sentenza. Secondo i giudici Lucano li aveva compiuti per arricchirsi e garantirsi una tranquillità economica una volta andato in pensione. Gli avvocati di Lucano avevano ritenuto queste accuse insensate, e avevano sostenuto che Lucano avesse gestito Riace col solo scopo di realizzare un sistema ispirato a valori di accoglienza e solidarietà.

      Le critiche alla sentenza avevano riguardato anche il calcolo della pena: i giudici avevano individuato due separati disegni criminosi, ripartendo quindi in due filoni i reati di cui Lucano era accusato e quindi duplicando la pena, con più di 10 anni di reclusione per il primo e più di 2 per il secondo, raddoppiando, come detto, la pena chiesta dall’accusa.

      Lucano e i suoi avvocati avevano fatto ricorso, e a luglio del 2022 c’era stato un ulteriore sviluppo nella vicenda: la Corte d’appello di Reggio Calabria aveva deciso di riaprire l’istruttoria dibattimentale: significa che la corte aveva ammesso un’integrazione alle prove raccolte durante il processo di primo grado. L’integrazione consisteva in 50 pagine di una perizia cosiddetta “pro veritate”, realizzata da un consulente della difesa di Lucano, Antonio Milicia, perito trascrittore. Il perito aveva trascritto cinque intercettazioni. In quattro di queste c’erano differenze, che la difesa aveva definito «fondamentali», tra il testo che presentava Milicia e quello che venne presentato dal perito del processo di primo grado.

      Prossimamente verranno depositate le motivazioni della sentenza d’appello.

      https://www.ilpost.it/2023/10/11/lucano-appello-ridotta-pena

    • Italie : peine allégée pour le maire qui aidait des migrants

      Condamné en première instance à treize ans de prison pour « association de malfaiteurs aux fins d’immigration irrégulière », il a vu l’essentiel des charges portées contre lui être abandonnées.

      Par un cri de victoire et des embrassades avec ses proches, #Domenico_Lucano, dit « #Mimmo », a célébré l’arrêt de la cour d’appel de Reggio de Calabre, mercredi 11 octobre. Les juges lui ont en effet notifié qu’il n’était plus « que » condamné à dix-huit mois de prison avec sursis, en dépit des réquisitions du procureur. Ancien maire de Riace de 2004 à 2018, petite ville d’à peine 2 000 âmes perchée sur les collines calabraises, Mimmo Lucano avait été condamné en première instance, en 2021, à une lourde peine : plus de treize ans de réclusion pour « association de malfaiteurs aux fins d’immigration irrégulière », « pratiques frauduleuses » et « détournements de biens publics ». « Justice a été rendue à un homme qui a toujours travaillé dans le seul et unique intérêt du bien commun et de la défense des plus faibles », ont réagi les deux avocats de l’ancien élu, à la sortie de la cour d’appel.

      « Il s’agissait d’un #procès_politique, les charges pesant sur lui étaient excessives, souligne Gianfranco Schiavone, président du Consortium italien de solidarité (ICS), une plate-forme qui dispense de l’aide juridique aux demandeurs d’asile. Cet épisode restera comme une page sombre de la justice italienne, celle où l’on a cherché à démolir un homme et un #modèle d’accueil. » Car derrière le maire de Riace, c’est bien l’intégration des migrants qui était mise en cause.

      En 1998, Mimmo Lucano accueille pour la première fois des Kurdes échoués sur une plage voisine, et ne s’arrêtera plus de porter secours aux migrants. En vingt ans, il va faire de Riace une commune connue dans le monde entier pour son #accueil_inconditionnel. Des dizaines d’exilés, venus de Somalie, de Tunisie, d’Afghanistan, trouvent refuge dans la bourgade. Une coopérative sociale est créée, tout comme des boutiques. L’école du village rouvre et fait cohabiter petits Calabrais et migrants.

      Cible de Matteo Salvini

      Le « modèle Riace », perçu comme un modèle d’intégration vertueux par le travail permettant, aussi, d’enrayer le déclin d’une Calabre qui se vide, est vanté dans de nombreux pays. En 2016, le magazine américain Fortune classe l’édile au 40e rang des personnes les plus influentes de la planète. La même année, le pape François lui envoie une lettre dans laquelle il exprime son soutien à ses initiatives en faveur des migrants.

      https://www.lemonde.fr/international/article/2023/10/13/italie-la-cour-d-appel-allege-la-peine-du-maire-calabrais-condamne-pour-avoi

    • Le maire calabrais Mimmo Lucano voit sa peine pour « délit de solidarité » réduite

      En 2021, il avait été condamné, en première instance, à 13 ans de prison et 500 000 euros d’amende, pour délit de solidarité. Le crime de Domenico Lucano, dit Mimmo : avoir mis en place un ambitieux système d’accueil des réfugiés dans le village de Riace, en Calabre, dont il était maire.

      Sa peine a été réduite à un an de prison et 1 400 euros d’amende par la cour d’appel de Locri, en Calabre, qui a rendu son verdict ce mercredi en fin d’après midi. Les 17 autres solidaires assis à ses côtés sur le banc des accusés ont tous été acquittés, alors qu’ils avaient écopé, en première instance, de 1 à 10 ans de prison.

      « C’est une #victoire ! Je viens de l’avoir au téléphone. Il pleurait en remerciant tous ceux qui l’ont soutenu », explique Martine Mandrea, animatrice de son comité de soutien à Marseille.

      https://www.humanite.fr/monde/domenico-lucano/le-maire-calabrais-mimmo-lucano-voit-sa-peine-pour-delit-de-solidarite-redu

    • Cosa insegna la (quasi) assoluzione di Mimmo Lucano

      La quasi-assoluzione in appello di Mimmo Lucano e della sua giunta rappresenta una svolta nella battaglia culturale e politica relativa alla criminalizzazione della solidarietà. La pesante condanna ricevuta in primo grado, oltre tredici anni di carcere, superiore alle richieste della pubblica accusa, appare ora abnorme e immotivata, probabilmente viziata da teoremi pregiudiziali.

      All’ex sindaco di Riace era stata addebitata addirittura l’associazione per delinquere. Già il fatto che magistratura e forze dell’ordine in quel contesto avessero dedicato una quantità ingente di tempo e risorse a indagare sull’accoglienza dei rifugiati, distogliendole necessariamente dalla lotta alla ndrangheta, aveva qualcosa di surreale. Entrando nel merito, nel 2019 la Cassazione aveva criticato la conduzione delle indagini, affermando che poggiavano “sulle incerte basi di un quadro di riferimento fattuale sfornito di significativi e precisi elementi”.

      La vicenda Lucano si aggiunge quindi a una serie di casi giudiziari in cui i protagonisti di iniziative di accoglienza verso profughi e migranti sono stati colpiti non solo da veementi campagne politiche e mediatiche, ma anche da accuse che li hanno costretti a difendersi e non di rado a sospendere la loro attività: basti ricordare Carola Rackete e le molte ong finite sotto processo, con le navi ispezionate e sequestrate, ma mai condannate; padre Mussie Zerai, processato perché impegnato ad aiutare i profughi eritrei suoi connazionali; gli attivisti di Baobab a Roma, che rifocillavano i profughi e li aiutavano a ripartire verso la Francia; i coniugi triestini Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir, che con la loro associazione Linea d’Ombra assistevano i migranti della rotta balcanica.

      Il fenomeno non è solo italiano, giacché, per restare in Europa, in Francia aveva fatto rumore il processo a Cédric Herrou, contadino-attivista che accoglieva in val Roja i profughi provenienti dall’Italia.

      Non è il caso di parlare di un complotto, e tanto meno di rivolgere agli inquirenti accuse di politicizzazione speculari a quelle provenienti, anche in questi giorni, dal fronte della chiusura dei confini. Occorre però vedere in queste ripetute inchieste giudiziarie, quasi sempre destinate al fallimento o a magri risultati, uno dei frutti più tossici di un clima culturale avvelenato: un clima in cui l’accoglienza è esposta al rischio costante di essere scambiata per un atto sovversivo, di attacco alla sovranità statuale e al controllo (selettivo) dei confini. E in cui di fatto si finisce per intimidire e scoraggiare chi si mobilita per soccorrere e aiutare.

      Se vi è un auspicio da trarre da questa vicenda, è che magistratura e forze dell’ordine siano sollecitate a indirizzare le loro energie, non infinite e quindi necessariamente guidate da scelte di priorità, a indagare ben altri luoghi di malaffare, ben altre forme di lesione della legalità, ben altre violazioni della sovranità statuale. E per quanto riguarda noi cittadini, sia lecito sognare un mondo in cui l’accoglienza non sia né di destra, né di sinistra, ma la conseguenza di un’opzione per i diritti umani affrancata da logiche di schieramento.

      https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/mimmo-lucano-assoluzione-criminalizzazione-solidarieta

    • Per Mimmo Lucano ribaltata la sentenza: crollano quasi tutte le accuse

      La Procura generale di Reggio Calabria aveva chiesto 10 anni e 5 mesi di reclusione, mentre per i giudici è rimasto in piedi solo un falso in atto pubblico per un’assegnazione di fondi a cooperative

      Crollano in appello quasi tutte le accuse contestate all’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano. I giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria, infatti, dopo una camera di consiglio di 7 ore, lo hanno condannato ad un anno e sei mesi di reclusione, con pena sospesa, contro la richiesta della Procura generale di 10 anni e 5 mesi, ribaltando la sentenza di primo grado del Tribunale di Locri che gli aveva inflitto 13 anni e 2 mesi di carcere per associazione per delinquere, truffa, peculato, falso e abuso d’ufficio. Assolti altri 16 imputati, collaboratori di Lucano, mentre l’unica altra condanna, a un anno, è per Maria Taverniti.

      Dalla lettura del dispositivo emerge che la Corte, presieduta da Elisabetta Palumbo, ha condannato Lucano solo per il reato di falso in atto pubblico in relazione ad una determina del 2017 relativa all’assegnazione di fondi pubblici alle cooperative, mentre sono state prescritte altre due accuse tra le quali l’abuso d’ufficio per l’affidamento del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti nel Comune di Riace a due cooperative sociali prive dei requisiti richiesti dalla legge.

      Tutti gli atti del processo sono stati trasmessi comunque alla Corte dei Conti. Il resto cade, soprattutto l’accusa di essere il promotore di un’associazione a delinquere finalizzata alla gestione illecita dei fondi destinati ai progetti Sprar e Cas. Lucano non era presenta alla lettura della sentenza e ha atteso l’esito nel suo paese.

      Dentro e fuori dall’aula applausi e festeggiamenti per la decisione che smonta le accuse contenute prima nei durissimi rapporti della Prefettura di Reggio Calabria e poi nell’inchiesta “Xenia” della procura di Locri che nel 2018 aveva portato Lucano agli arresti domiciliari. L’inchiesta della procura di Locri e poi la sentenza di primo grado avevano accusato un modello di accoglienza diventato famoso nel mondo e iniziato nel 1998 quando con un gruppo di amici accolse alcuni curdi sbarcati a Riace, da cui il soprannome “Mimmo u’ curdu”.

      Eletto tre volte sindaco, tra il 2004 e il 2018, quando venne sospeso dopo gli arresti domiciliari. «È la fine di un incubo che in questi anni mi ha abbattuto, umiliato, offeso - ha commentato Lucano -. E che mi ha reso agli occhi della gente come un delinquente. Avrò fatto anche degli errori, ma sono stato attaccato, denigrato, anche a livello politico, per distruggere il “modello Riace”, la straordinaria opportunità creata per accogliere centinaia di persone che avevano bisogno e per ridare vita e ripopolare i centri della Calabria». Ma cosa rimane del “modello Riace”? Nulla o poco più. Non esistono più né Cas, né Sprar.

      Il Comune, a guida leghista dopo la caduta di Lucano, non ha più confermato quel sistema. Il nome di Riace però continua ad attrarre. Arrivano ancora immigrati, lo stesso Lucano aiuta a trovare case, ma è accoglienza improvvisata e non ci sono né lavoro né fondi per attività. E proprio per questo hanno chiuso quasi tutte le botteghe e i laboratori di artigianato. Molti i debiti ancora da pagare e comunque nel paese non si vede più quel turismo solidale di allora. Invece purtroppo a Riace marina è comparsa la prostituzione di donne nigeriane. Non è però finito il modello calabrese di accoglienza.

      Proprio nella Locride non sono pochi i comuni che continuano ad ospitare gli immigrati, ormai realtà consolidate, come a Camini, paese confinante con Riace. O come a Roccella Jonica, anche questo confinante, Comune record per sbarchi dalla rotta turca, e dove si accoglie senza tensione. O ancora a Gioiosa Jonica, Benestare, Caulonia, Ardore, Siderno. Tutte località che ancora ospitano Cas e Sai, pur tra non poche difficoltà. Ma senza problemi di irregolarità o bilanci in disordine. Buona accoglienza silenziosa e poco conosciuta. Senza riflettori politici, positivi o negativi. Solo accoglienza e integrazione. Tutta un’altra storia.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/per-lucano-ribaltata-la-sentenza

    • Mimmo Lucano: «Il modello Riace ha spaventato chi non guarda ai migranti con umanità»

      L’ex sindaco a Telesuonano: «Futuro? Tre possibilità, ma ne preferisco una». L’avvocato Daqua: «Grave errore giudiziario che nessuno ripagherà»

      https://www.youtube.com/watch?v=sw2suusH4H8

      «Il mio sogno? È nato un po’ per caso e ho cercato di realizzarlo in maniera inconsapevole. Mi sono interessato di accoglienza, di solidarietà dopo uno sbarco. Ma è vero, man mano che passavano gli anni, ho immaginato in maniera concreta di riscattare la mia terra, la Calabria. Nonostante i luoghi della precarietà, spesso anche dell’abbandono, del silenzio, dell’omertà, abbiamo trasmesso un messaggio al mondo: che almeno siamo grandi per essere vicini a chi subisce le decisioni di guerra, chi subisce scelte di politiche che hanno depredato i territori del cosiddetto terzo e quarto mondo, abbiamo fatto capire che è possibile costruire alternative umane utilizzando i nostri spazi, i nostri luoghi che sono dei luoghi abbandonati. E non c’è voluto nulla, il modello Riace non è altro che l’utilizzo di case in cui prima abitavano i nostri emigranti che per ragione di lavoro hanno cercato altrove possibilità di un sogno per la loro vita». Ha esordito così, con queste parole semplici ma potenti, Mimmo Lucano, ospite nell’ultima puntata di Telesuonano, il format condotto da Danilo Monteleone in onda su L’altro Corriere tv (canale 75). L’ex sindaco di Riace, da poco reduce dalla sentenza di appello “Xenia” che ha fatto cadere quasi tutte le accuse a suo carico (dai 13 e due mesi inflitti a Lucano in primo grado, si è passati a un anno e sei mesi – con pena sospesa – per una «residua ipotesi di falso su una determina»), ha ripercorso il suo viaggio giudiziario, partendo dall’inizio dell’operazione che lo ha coinvolto.
      Dopo la sentenza

      «Quella mattina è stato l’epilogo di qualcosa di strano. Negli ultimi anni della terza legislatura, che corrispondono al 2015-2016, avevo percepito un atteggiamento ostile soprattutto dalla prefettura di Reggio Calabria, e anche a livello centrale con tentativi così ingiustificati di contrastare quello che invece nel piccolo era stata una soluzione per un problema globale come quello della migrazione. Devo dire che il primo ad avere raccontato al mondo che in Calabria esiste un luogo in cui addirittura l’immigrazione, l’arrivo delle persone, non è solo un problema, ma risolve i problemi delle comunità locali, è stato il regista Wim Wenders. Ha detto “questo è un messaggio per il mondo, è un messaggio globale, è stato fatto a livello locale però va molto al di là di questa prospettiva”. E poi quella mattina, quell’epilogo è stata la fine di una favola, è stato di nuovo scendere nella realtà ed è cambiato tutto. Ricordo le persone che mi sono state vicine in maniera molto lucida. Ancora vivo quei momenti, quelle sensazioni, quel bussare alla porta nelle prime ore del mattino, e poi ho visto l’avvocato Antonio Mazzone, Andrea Daqua che per me non sono stati solo avvocati. Hanno lottato insieme a me per un ideale di giustizia, di rispetto, della dignità, della democrazia della nostra terra. Aspettavo questo riscatto, la mia realtà stava vivendo un paradosso. Monsignor Bregantini è venuto a fare il testimone, partendo con il treno da Campobasso e ha detto: “Attenzione, questa non è una storia criminale, è una storia profetica che indica al mondo un’altra soluzione”». Dopo la sentenza di primo grado c’è stato però qualcosa che è riuscito a dare speranza a Lucano. «È durata solo un giorno quella sensazione di sconforto, perché il giorno dopo, eravamo all’inizio di ottobre, perché la sentenza è arrivata il 30 settembre 2021, ho ricevuto una telefonata che mi ha cambiato completamente lo stato d’animo. Non lo so perché, ho avvertito che c’era quasi un raggio di luce in una storia con tante ombre. Luigi Manconi (sociologo ed ex senatore, ndr), mi chiama e mi dice che c’è un’indignazione generale per quella condanna che è una condanna che non è solo verso una persona, ma verso gli ideali che appartengono alla collettività e soprattutto appartengono anche alla dimensione dei nostri luoghi, della nostra terra. Io l’ho sempre vista sotto questo aspetto, io sono stato il tramite, però quello che volevamo contrastare è quel messaggio che dice attenzione, la soluzione umana prevale su quella disumana. La soluzione disumana non porta a nulla, porta solo a guerre, a odi, a razzismi, a commercio di armi. Manconi in quella circostanza si è fatto promotore di una raccolta fondi che era finalizzata al pagamento della mia multa, perché oltre agli anni di reclusione dovevo pagare anche una sanzione pecuniaria. Io mi sono rifiutato, perché non riconoscevo quella giustizia. Ho detto “questi fondi utilizziamoli per riavviare l’accoglienza” e così è stato. Il villaggio globale ha riaperto l’asilo, ha riaperto la mensa sociale, ha riaperto la scuola, il dopo scuola, la scuola per gli adulti, abbiamo riaperto la fattoria sociale che prima addirittura era stata considerata il luogo del reato penale per quanto riguarda il peculato».

      A chi ha dato fastidio Riace?

      «A chi ha dato fastidio Riace? Qualcuno – ha affermato Lucano – ha voluto sintetizzare dicendo così: “noi siamo Riace, loro sono Cutro”. Ecco, ancora oggi si scelgono i percorsi di deportazione per la soluzione dei migranti, di persone che, non dobbiamo mai dimenticarlo, sono vittime delle politiche dei Paesi occidentali e siamo noi che abbiamo imposto regimi, guerre, vendita di armi, abbiamo depredato quei territori, le persone che arrivano non è vero che arrivano per fare un viaggio perché sono migranti economici». Sul primo percorso ispettivo su Riace del governo, che in quella fase era di centrosinistra, Lucano evidenzia come in quel periodo si diceva che appoggiare Riace significava perdere consensi. «Perché, paradossalmente, i consensi li ha chi propone misure di ordine, di disciplina, di chiusura delle frontiere, di chiusura dei porti. Riace non è stato tutto questo, semplicemente ha proposto una soluzione partendo dai luoghi. Ancora oggi io dico, che rispetto alle deportazioni in Albania (Lucano si riferisce all’accordo Italia-Albania, ndr) la soluzione ideale sarebbe quella di riaccendere i paesi abbandonati della Calabria». «Ci sono tanti disoccupati nei nostri paesi – ha proseguito l’ex sindaco –. Addirittura quando io facevo il sindaco non c’era nemmeno il reddito di cittadinanza. C’è una realtà locale di autoctoni che vive condizioni di difficoltà e qual è la soluzione? Quella di andare via, andando via si desertificano i territori che rimangono dei luoghi dove c’è solo il silenzio. L’arrivo delle persone è stato vissuto con la consapevolezza che invece poteva esserci una rigenerazione dei luoghi, qualcuno l’ha definita un’accoglienza dolce che occupa gli spazi che non sono di nessuno. Se tutte le realtà disabitate, soprattutto le aree interne, le aree fragili calabresi, dessero la disponibilità di numeri piccoli, allora non si parlerebbe più di invasione, ma di una straordinaria opportunità. Una cosa che si sarebbe potuta fare in Calabria? Penso alla legge 18 del 2009 che prendeva spunto da questa economia sociale e solidale che in atto a Riace, poteva essere l’occasione per attuare delle politiche in cui l’Europa sarebbe dovuta stare attenta ad avviare dei processi legati al recupero delle aree abbandonate nelle campagne, per una nuova riforma agraria, per attività sulla zootecnica, su quelle che sono le risorse e le vocazioni dei territori».

      Cosa resta oggi del modello Riace?


      «Oggi a Riace non c’è la scuola – ha ricordato Lucano – non c’è l’asilo, c’è di nuovo quell’atmosfera di oblio sociale che prelude poi all’abbandono. Quando le comunità diventano questo, di fronte agli occhi ti appare solo un deserto, paesi fantasmi. Ecco, il mio impegno di questi anni è andato in questa direzione. Poi è arrivata la storia giudiziaria, il voler dire che non c’è altra soluzione se non quella di chiudere le frontiere, chiudere gli spazi, di considerare l’immigrazione solo come un problema, solo come un’invasione, solo come qualcosa che produce la paura, che giustifica misure di sicurezza. Riace è stato il paese pioniere di una nuova visione che ribalta totalmente il paradigma dell’invasione. E secondo me è qui che bisogna cercare il movente giudiziario che mi ha portato ad essere indagato. Credo che il neoliberismo a livello mondiale non gradisca il senso dell’umanità».
      Il futuro di Mimmo Lucano

      Ma c’è davanti a Mimmo Lucano un ritorno all’impegno politico diretto? «Quello che ho davanti – ha detto ancora l’ex sindaco di Riace – è qualcosa che non riguarda solo me, in tanti hanno sostenuto Riace come un’idea in cui si è ritrovata tutta l’Europa. Io sono stato tante volte in Germania, in Francia, in Spagna. Riace non è qualcosa che riguarda solo me, quello che dovrò fare, ma certamente è un messaggio politico. Io non so quello che farò, ma credo dipenderà dal contributo che potrò dare alla collettività ed è una decisione che prenderò insieme alle tante persone che hanno condiviso il mio percorso di sofferenza. Esistono tre possibilità per dedicarsi all’impegno politico e sociale: la prima è fare il sindaco, l’altra è impegnarsi per la Regione, per la nazione e per l’Europa, e poi c’è la militanza, che non prevede ruoli. È quella che mi affascina di più».

      Dopo Mimmo Lucano, nella seconda parte di Telesuonano, è toccato all’avvocato Andrea Daqua ripercorrere in maniera più approfondita la vicenda processionale dell’ex primo cittadino di Riace. «Cosa ho pensato quando ho sentito pronunciare la condanna a 13 anni e due mesi? Con il collega Giuliano Pisapia (ex sindaco di Milano che nel frattempo era diventato difensore di Lucano dopo la morte del professore Antonio Mazzone che aveva seguito dall’inizio la vicenda, ndr), abbiamo immediatamente qualificato quel dispositivo come aberrante, ma non in riferimento soltanto alla quantità smisurata, sproporzionata della pena, ma perché noi che avevamo seguito il processo, avevamo subito intuito che c’era un contrasto evidente tra quel dispositivo e il dato che era invece emerso dall’istruttoria. Poi questa nostra convinzione si è rafforzata quando abbiamo letto la motivazione che era più aberrante del dispositivo e, soprattutto, quando abbiamo ascoltato fonti autorevolissime del diritto italiano, giuristi di primo livello che erano completamente sganciati dal processo e non conoscevano nemmeno Lucano, che hanno spiegato perché quella sentenza era aberrante». Così Andrea Daqua che ha sottolineato come anche nel caso di Lucano, «le cause scatenanti o determinanti di un determinato processo possono essere molteplici, ma noi abbiamo il dovere di attenerci al dato documentale, al dato processuale e sulla base di questo abbiamo dimostrato che Lucano è stato vittima di un gravissimo errore giudiziario. Poi su come sia nato questo errore giudiziario o sulle motivazioni qua potremmo parlare interi giorni». Un errore giudiziario che, come spesso capita, travolge una persona, i suoi familiari e, nel caso di Lucano, una esperienza. Chi ripagherà questo danno? «Nessuno – ha dichiarato Daqua –, l’unico modo secondo il mio modesto parere per dare un senso a questo danno irreparabile che ha subito una persona perbene come Lucano, è quello di leggere le carte, di leggere il processo, di capire il perché di tante anomalie e studiare i rimedi possibili affinché ciò non accada più, perché quello che è successo a Lucano domani potrebbe succedere a chiunque. Allora qui è necessario che gli addetti ai lavori riflettano su questo procedimento e capiscano come anche alcuni strumenti processuali andrebbero rivisti».

      Il ricordo dell’avvocato Antonio Mazzone

      «La fortuna di Mimmo (Lucano, ndr) – ha detto ancora l’avvocato Daqua – è che è stato seguito all’inizio dal professore Mazzone, scomparso da tre anni. Io appena mi sono laureato sono entrato nello studio del professore Mazzone e non ne sono mai uscito, anche se poi ho aperto il mio studio. Però continuare a collaborare con lui, è stata veramente una fortuna perché dove arrivava lui nessuno di noi era in grado di arrivare. Appena Lucano mi ha fatto vedere la prima relazione prefettizia, che era uno dei supporti investigativi su cui si è appoggiato poi il costrutto accusatorio, io, convinto della bontà del suo modello, della sua onestà, gli ho detto: “sindaco io la aiuto, ma qui c’è qualcosa che va oltre. Noi dobbiamo parlare con il prof. Mazzone”. Cosa che da lì a qualche giorno abbiamo fatto e da quel momento in poi tutta la prima parte l’abbiamo seguita insieme. Mazzone è stato convinto dal primo minuto dell’onestà di Lucano e aveva ragione». Ma cosa avrebbe detto Mazzone dopo aver ascoltato le due sentenze? «Nel primo grado – ha risposto sorridendo Daqua – è meglio che io non lo dica. Nel secondo grado, avrebbe detto che giustizia è stata fatta. E’ chiaro che in questo processo il merito è del professore, perché quando lui è venuto a mancare noi eravamo già in una fase istruttoriale avanzata. Poi è intervenuto il collega Pisapia, che ringrazio per il modo con cui lui si è messo a disposizione».

      La precisazione sulla sentenza in Appello

      Sull’ultima sentenza in Appello, Daqua ci ha tenuto a fare una precisazione. «Sento spesso dire che è stata ridotta la condanna – ha affermato il legale – non è proprio così, Lucano è stato assolto per tutti i reati. Per un reato, che è una ipotesi di falso relativa a una determina, c’è stata la condanna. E anche su questa noi siamo assolutamente rispettosi della decisione della Corte, aspetteremo l’esito della motivazione, perché secondo noi anche quella determina è lecita, però chiaramente aspetteremo la valutazione della corte e poi valuteremo. Comunque, nel complesso, possiamo dire che il castello accusatorio si è sbriciolato, sono caduti tutti i reati che erano gravi come il peculato, l’associazione a delinquere e la truffa. Abbiamo dimostrato che diverse intercettazioni erano assolutamente non rispondenti al contenuto della effettiva dichiarazione». «Le intercettazioni – ha continuato Daqua – costituiscono sicuramente uno strumento processuale, ma va assolutamente rivisto in una prospettiva di rispetto verso il principio costituzionale di presunzione di innocenza».

      https://www.youtube.com/watch?v=NzLgnpZvtTk&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.corrieredellaca

      https://www.corrieredellacalabria.it/2023/11/16/mimmo-lucano-il-modello-riace-ha-spaventato-chi-non-guarda-ai-

  • Michela Murgia : « Il tempo migliore della mia vita »

    Ha scelto un anello nuziale con la rana, animale «ibrido», come la sua famiglia queer, un capolavoro di creatività degli affetti.

    Michela Murgia racconta la sua rivoluzione dell’amore, di un mondo dove ci sono coraggio e impegno, della morte (che non le fa paura). E si dichiara felice. Con un ultimo sogno coreano.

    https://www.youtube.com/watch?v=xklhwR90Djk


    #Michela_Murgia #amour #patriarcat #violence #père_violent #famille_queer #fuite #bible #foi #féminisme #pardon #famille #queer #famille_traditionnelle #couple #responsabilité #femmes #mariage #parentalité #seuil #maladie #tumeur #mort #douleur

    • La ricerca e la fede. Michela Murgia e quella sete di assoluto

      Era credente, e non ne aveva mai fatto mistero. Non le dispiaceva definirsi «teologa». La sua simpatia per papa Francesco non aveva niente di ideologico. Il ricordo di chi l’ha conosciuta da vicino

      L’ultima volta che ci siamo visti, Michela Murgia aveva appena donato a papa Francesco una copia della rivista di cui era stata direttrice per un solo numero. In copertina c’era lei, elegantissima e sorridente come sempre appariva da quando, nel maggio scorso, aveva deciso di rendere pubblica la fase terminale della sua malattia. “Aspetta, ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, aveva detto mentre cercava uno sgabello. Era affaticata ma orgogliosa: di quel giornale che era diventato un manifesto delle sue convinzioni (“La famiglia è di tutti”, annunciava il titolo principale) e del fatto di averlo potuto consegnare nelle mani del Papa che proprio lei, conosciuta come iconoclasta, aveva difeso dalle accuse piovutegli addosso all’indomani dell’elezione (a proposito di titoli, quel “Bergoglio e pregiudizio” scelto per sintetizzare le sue posizioni resta memorabile).

      Michela Murgia era credente e non ne aveva mai fatto mistero. Fin dal suo libro di esordio, Il mondo deve sapere del 2006, non le dispiaceva definirsi teologa, una qualifica poi rivendicata in modo militante attraverso i suoi saggi, in particolare Ave Mary del 2011 e il controverso “catechismo femminista” God Save The Queer del 2022. Non erano mere provocazioni, anche se come tali si è cercato di farle passare. Tutto sommato, anche a Michela Murgia sarebbe convenuto metterla sul piano del paradosso intellettuale, dell’esagerazione argomentativa. Alla peggio, la si poteva buttare in politica, che in certi casi è il modo migliore per chiudere il discorso. Il punto è che la narratrice di Accabadora (il suo libro più celebre e compiuto, pervaso da un’incombenza del sacro per la quale è difficile trovare corrispettivi nella recente letteratura italiana) non si limitava a essere orgogliosa. Era anche una persona esigente, con gli altri e con sé stessa, con la propria scrittura e con le proprie convinzioni, sempre messe alla prova. Prendeva sul serio la fede e proprio per questo si aspettava molto dalla Chiesa.

      La sua simpatia nei confronti di Francesco non aveva niente di ideologico. Era la condivisione intima e istintiva di una dottrina della misericordia dalla quale nessuno, per nessun motivo, può sentirsi escluso. Su questi, che erano i temi che più le stavano a cuore, sapeva essere polemica come sono a volte gli adolescenti, che alzano la voce e sbattono le porte solo per essere sicuri di essere amati nonostante tutto, senza condizioni. A volte esagerano, d’accordo, ma hanno dalla loro la certezza che un amore che ponga condizioni semplicemente non è amore.

      Di tutto il resto si può discutere, ma a questo desiderio di assolutezza non si può né si deve aggiungere nulla. “Ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, diceva Michela Murgia l’ultima volta che ci siamo visti. Ne abbiamo bisogno tutti, sempre, solo che spesso non abbiamo il coraggio di ammetterlo. Lei, invece, non ha voluto nascondere la sua fragilità finale. “Voglio andare avanti così, fino alla fine”, ripeteva. “Riesco a scrivere solo quando mi sento minacciata, quando il cuore mi impazzisce per la paura”, aveva confidato in un’altra occasione. Non so se fosse intenzionale, ma stava citando san Paolo, Seconda lettera ai Corinzi, “quando sono debole, è allora che sono forte”. È una bella definizione della fede. Senz’altro, è la definizione migliore per la fede di Michela Murgia, che sorrideva al Papa e si aspettava tanto – tutto – dalla Chiesa.

      https://www.avvenire.it/agora/pagine/le-sue-idee-1-michela-murgia-e-quella-sete-di-assoluto
      #foi #religion

  • Grèce : au moins 78 morts dans un naufrage, le plus meurtrier de l’année dans le pays

    Au moins 78 migrants se sont noyés mercredi dans le naufrage de leur embarcation en mer méditerranée, dans le sud-ouest de la Grèce, tandis que 104 ont pu être secourus par les garde-côtes grecs. Selon des médias locaux, le bateau transportait au moins 600 personnes. Les recherches se poursuivaient mercredi pour tenter de retrouver d’autres survivants. Il s’agit du naufrage le plus meurtrier de l’année en Grèce.

    Au moins 78 personnes ont trouvé la mort dans un naufrage dans la nuit de mardi 13 à mercredi 14 juin au large de la Grèce. Quelques 104 naufragés ont pu être secourus par les garde-côtes grecs et transférés vers la ville de Kalamata, un port situé au sud ouest du pays.

    Les chaînes de télévision grecques ont montré les images de rescapés, couvertures grises sur les épaules et masques hygiéniques sur le visage, descendre d’un yacht portant l’inscription Georgetown, la capitale des îles Caïmans. D’autres étaient évacués sur des civières. Quatre d’entre eux ont été conduits à l’hôpital de Kalamata en raison de symptômes d’hypothermie.

    D’après les informations délivrées par les autorités grecques, les exilés sont majoritairement originaires d’Égypte, de Syrie et du Pakistan. Selon les premières informations, le bateau aurait quitté Tobrouk, à l’est de la Libye, en direction de l’Italie, vendredi 9 juin.

    600 migrants à bord du bateau

    Le nombre de passagers présents sur le bateau n’a pas été confirmé par les autorités grecques. Mais des médias locaux parlent d’au moins 600 personnes, ce qui laisse craindre la disparition de centaines de naufragés.

    L’opération de sauvetage se poursuivait mercredi après-midi dans les eaux internationales situées au large de la ville grecque de Pylos. Elle implique six navires des garde-côtes, un avion et un hélicoptère militaires ainsi qu’un drone de Frontex, l’agence européenne de surveillance des frontières.

    https://twitter.com/alarm_phone/status/1668913096667144193

    La Grèce a connu de nombreux naufrages d’embarcations de migrants, souvent vétustes et surchargées, mais il s’agit jusqu’ici du bilan humain le plus lourd depuis un précédent le 3 juin 2016 au cours duquel au moins 320 personnes avaient péri ou disparu.

    L’embarcation avait été repérée une première fois mardi par les garde-côtes italiens, qui ont alerté leurs homologues grecs et européens. Les migrants à bord « ont refusé toute aide », selon les autorités grecques. La plateforme d’aide aux migrants en mer, Alarm Phone, a signalé sur Twitter avoir été alertée le même jour par des exilés en détresse, non loin du lieu du naufrage.

    Selon une journaliste basée en Grèce, chaque passager avait payé 4 500 dollars (environ 4 000 euros) la traversée.

    Une année particulièrement meurtrière

    Depuis un an, on observe de plus en plus de départs de bateaux de migrants depuis l’est de la Libye. « Ce n’est pas inhabituel que des bateaux fassent cette route. Les départs depuis l’est de la Libye sont plus fréquents » depuis l’été dernier, expliquait l’an dernier à InfoMigrants Frederico Soda, chef de mission Libye auprès de l’Organisation internationale pour les migrations (OIM). Les exilés prennent désormais la mer depuis cette zone, afin d’éviter les interceptions des garde-côtes libyens, qui se concentrent à l’ouest du pays.

    Mais la traversée n’est pas sans risque. L’est de la Libye est considérablement plus éloigné de l’Italie que la partie ouest, d’où embarquent la majorité des migrants. À titre d’exemple, 1 200 km séparent les deux villes côtières de Tobrouk (à l’Est) et Tripoli (à l’Ouest), situé en-dessous de la Sicile. Un trajet démarré depuis l’est de la Libye est ainsi « beaucoup plus long », précisait encore Federico Soda.

    La route méditerranéenne reste la plus meurtrière au monde. En 2022, 2 406 migrants ont péri dans cette zone maritime, soit une augmentation de 16% sur un an, selon le dernier rapport de l’OIM. Et l’année 2023 risque d’établir un nouveau record : depuis janvier, ce sont déjà 1 166 personnes qui ont péri ou ont disparu dans ces eaux, dont 1030 en Méditerranée centrale. Un tel nombre n’avait pas été observé depuis 2017.

    https://www.infomigrants.net/fr/post/49667/grece--au-moins-78-morts-dans-un-naufrage-le-plus-meurtrier-de-lannee-
    #Pylos #Grèce #naufrage #asile #migrations #décès #morts #tragédie #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #14_juin_2023 #Méditerranée #Mer_Méditerranée #13_juin_2023

    • Après le naufrage en Grèce, les autorités grecques et européennes sous le feu des critiques

      À la suite de l’annonce de la disparition de plusieurs centaines de personnes dans un naufrage survenu mercredi au large de la Grèce, des dirigeants européens ont fait part de leurs condoléances. Ils ont reçu de nombreuses critiques condamnant les politiques migratoires européennes.

      C’est sans doute le naufrage le plus meurtrier depuis 2013. Mercredi 14 juin, vers 2h du matin, un bateau surchargé de migrants a fait naufrage au large de Pylos, dans le sud-ouest de la Grèce. Au moins 78 personnes sont mortes dans le drame et des centaines d’autres sont toujours portées disparues. Selon les témoignages des rescapés, qui ont donné des chiffres différents, entre 400 et 750 exilés se trouvaient sur le bateau parti de Tobrouk, dans l’est de la Libye.

      À la suite de ce drame, de nombreuses personnalités politiques grecques et européennes ont exprimé leur émotion sur les réseaux sociaux. La présidente de la Commission européenne Ursula von der Leyen s’est dit « profondément attristée par la nouvelle du naufrage au large des côtes grecques et par les nombreux décès signalés ». « Nous devons continuer à travailler ensemble, avec les États membres et les pays tiers, pour éviter de telles tragédies », a-t-elle ajouté.

      Ylva Johansson, commissaire européenne aux Affaires intérieures, s’est quant à elle dit « profondément affectée par cette tragédie meurtrière au large des côtes grecques ». « Nous avons le devoir moral collectif de démanteler les réseaux criminels. La meilleure façon d’assurer la sécurité des migrants est d’empêcher ces voyages catastrophiques... », a également indiqué la responsable.

      Les messages de soutien des deux dirigeantes ont entraîné de très nombreuses critiques d’internautes. Des défenseurs des droits des migrants, avocats et journalistes ont notamment dénoncé le « cynisme » des autorités européennes, les accusant de promouvoir une politique migratoire européenne dure.

      « Vies innocentes »

      La classe politique grecque a également réagi au drame. En campagne électorale en vue des législatives du 25 juin, l’ancien Premier ministre conservateur, Kyriakos Mitsotakis, a décidé d’annuler un rassemblement électoral prévu pour la fin de journée à Patras, le grand port de cette région du Péloponnèse, a annoncé son parti Nouvelle Démocratie (ND).

      « Nous sommes tous choqués par le tragique naufrage survenu aujourd’hui dans les eaux internationales de la Méditerranée, au sud-ouest du Péloponnèse. Je suis attristé par la perte de tant de vies innocentes », a-t-il déclaré sur Twitter.

      Ce responsable politique s’est par ailleurs entretenu au téléphone avec le Premier ministre par intérim, Ioannis Sarmas. Il a également décrété trois jours de deuil dans le pays.

      Sur les réseaux sociaux, l’ancien Premier ministre n’a pas non plus été épargné par des internautes l’accusant d’hypocrisie face au drame de Pylos. Le dirigeant a mené une politique très dure envers les exilés durant ses quatre années à la tête du gouvernement. Athènes a été à de très nombreuses reprises accusée de pratiquer des refoulements illégaux de migrants en mer Égée et dans la région de l’Evros.
      Des bateaux escortés hors des SAR zones

      De nombreux membres d’organisations internationales ont également réagi au drame de Pylos. Vincent Cochetel, envoyé spécial du Haut-commissariat des nations unies aux réfugiés (HCR), en charge de la Méditerranée de l’ouest et centrale s’est dit « très attristé par cette nouvelle tragédie ». Le responsable a également confié son inquiétude « de voir ces derniers mois certains États côtiers escorter des bateaux en mauvais état en dehors de leur zone SAR pour s’assurer qu’ils atteignent d’autres zones SAR ».

      De son côté, Federico Soda, directeur du département des urgences à l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), a plaidé pour la mise en place de « mesures concrètes pour donner la priorité à la recherche et au sauvetage » et de « voies d’accès sûres pour les migrants ».

      L’agence européenne de surveillance des frontières (Frontex) s’est, quant à elle, déclarée « profondément touchée » par le drame. Dans le même message posté sur Twitter, l’agence assure que son avion de surveillance a repéré le bateau le mardi 13 juin au matin et affirme avoir « immédiatement informé les autorités compétentes ».

      Selon les autorités portuaires grecques, un avion de surveillance de Frontex avait effectivement vu le bateau mardi mais il n’est pas intervenu car les passagers ont « refusé toute aide ».

      Les ONG actives dans l’aide aux exilés ont également fait part de leur effroi face au drame de Pylos. Interrogé par Libération, le président de SOS Méditerranée France, François Thomas, a condamné une « nouvelle tragédie insupportable ». « Il n’existe aucune solidarité européenne. Les moyens de sauvetage sont de moins en moins importants, alors que l’Europe a des moyens. Quand est-ce que tout cela va s’arrêter ? », a-t-il dénoncé.

      Médecins sans frontières (MSF), qui intervient en Méditerranée centrale avec son navire humanitaire le Geo barents , a déclaré être « attristé et choqué » par le drame survenu mercredi. L’ONG précise que ses équipes en Grèce se tiennent prêtes à intervenir pour aider autant que possible les rescapés.

      Enquête ouverte

      Enfin, le pape François, très sensible à la thématique migratoire, est « profondément consterné » par le naufrage, a rapporté jeudi le Vatican dans un communiqué.

      « Sa sainteté le pape François envoie ses prières sincères pour les nombreux migrants qui sont morts, leurs proches et tous ceux qui ont été traumatisés par cette tragédie », peut-on lire dans un télégramme signé par le N.2 du Saint-Siège, le cardinal Pietro Parolin, et publié par le Vatican.

      Les opérations de secours se poursuivaient jeudi matin pour tenter de retrouver des survivants. Des moyens aériens et maritimes sont déployés mais les espoirs s’amenuisent à mesure que le temps passe. Jusqu’à présent, 104 personnes ont pu être secourues mais Athènes redoute que des centaines d’autres ne soient portées disparues, d’après les témoignages des survivants.

      Une enquête a été ouverte par la justice grecque sur le sauvetage de l’embarcation. La Cour suprême grecque a également ordonné une enquête pour définir les causes du drame qui a choqué le pays.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/49698/apres-le-naufrage-en-grece-les-autorites-grecques-et-europeennes-sous-

    • “They are urgently asking for help”: the SOS that was ignored

      The Hellenic Coast Guard attributed its failure to proceed to a rescue mission of the migrants before their trawler sunk to their refusal to receive assistance. International law experts, as well as active and former Coast Guard officials, refute the argument. And emails sent by the Alarm Phone group to authorities which are in Solomon’s possession, prove that the passengers of the vessel had sent out an SOS – one that was ignored.

      The first recovered bodies of the people who lost their lives 80 km southwest of Pylos between the 13th and 14th of June are transferred to the cemetery of Schisto. At least 78 dead and hundreds remain missing. 104 people have been rescued so far, while the search for survivors continues.

      But critical questions about possible mishandling by the Hellenic Coast Guard of the tragedy that led to the deadliest shipwreck recorded in recent years in the Mediterranean remain.

      The same goes for the responsibilities of Greece and Europe, whose policies have diverted asylum seekers to the deadly Calabria route, which bypasses Greece (for obvious reasons), while also failing to establish legal and safe routes.
      “Denied assistance“

      In the briefings and timeline of the events leading up to the tragedy, the HCG attributes the failure to rescue the migrants before the sinking of the fishing boat to their repeated “refusal to receive assistance” in their communications with the vessel.

      The HCG had been aware of the vessel since the early morning hours of Tuesday, 13/6, and was, according to its own log, in contact with the vessel from as early as 14:00 local time. But no rescue action was undertaken, because “the trawler did not request any assistance from the Coast Guard or Greece,” the HCG reported.

      The same argument is repeated at 18:00: “Repeatedly the fishing boat was asked by the merchant ship if it required additional assistance, was in danger or wanted anything else from Greece. They replied, “we want nothing more than to continue to Italy”.

      But does this absolve the Coast Guard of responsibility?

      International law experts as well as former and active members of the Coast Guard question the legal and humanitarian basis of this argument, even if there was indeed a “refusal of assistance”. And they point out to Solomon that the rescue operation should have begun immediately upon detection of the fishing vessel. For the following reasons, among others:

      - The vessel was obviously overloaded and unseaworthy, with the lives of the peopled on board, who did not even have life-saving equipment, being in constant danger.

      – Accepting a denial of rescue or other intervention by the HCG could make sense only if the vessel carried a state flag, had proper documents, had a proper captain and was safe. None of these applies in the case of the sunk trawler.

      - Coast Guard officials had to objectively assess the situation and take the necessary actions regardless of how the passengers of the trawler – or, to be precise, whoever the Coast Guard was in contact with- themselves assessed their own situation.

      - The fishing vessel was undoubtedly in a state of distress that mandated its rescue at the latest from the moment the Coast Guard received, through Alarm Phone, an SOS message, which was transmitted to the group by the passengers. This SOS call is not mentioned anywhere in the Coast Guard’s communications.

      Proof the Coast Guard knew of the danger

      In its own chronology of events, Watch the Med-Alarm Phone says it contacted the authorities at 17:53 local GR time.

      The email to the competent authorities, which is available to Solomon, indicates the coordinates where the overloaded vessel was located. It states that there are 750 people on board, including many women and children, and includes a telephone number for contacting the passengers themselves.

      “They are urgently asking for help,” the email reads.

      From this message, it follows also that FRONTEX, the HQ of the Greek Police and the Ministry of Citizen Protection, as well as the Coast Guard in Kalamata, were also informed.

      The message was also communicated to the UNCHR in Greece and Turkey, to NATO, as well as to Greece’s Ombudsman.

      Listen to the interview given to Solomon by Maro, an Alarm Phone member:

      https://www.youtube.com/watch?v=bV4SptggF2U&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwearesolomon.com%2F

      Solomon contacted the Hellenic Coast Guard, asking detailed questions: why was there no rescue operation after the migrants’ distress signal via Alarm Phone? Does a refusal to rescue exculpate the HCG? Why was the vessel (for security and identification purposes) not even checked, given it was not flying a flag? Why was the operation launched only after the vessel sank?

      A spokesman for the HCG did not answer the specific questions but instead referred to the Coast Guard’s press release.

      Solomon also contacted UNHCR, which confirmed receipt of the email.

      “Our Office was indeed notified yesterday (ed. note: 13/06) afternoon in correspondence received from Watch The Med – Alarm Phone, which referred to a vessel in distress southwest of the Peloponnese with a large number of passengers. We immediately informed the competent Greek authorities requesting urgent information about the coordination of a search and rescue operation to bring the people to safety”.

      “Please be informed that Frontex has immediately relayed the message to the Greek authorities,” Frontex responded to Alarm Phone’s message, in an email seen by Solomon.

      “Duty of rescue, not stand by and watch”

      The Coast Guard had to treat the incident as a vessel in distress from the very first moment and take all measures to rescue the people, explains Nora Markard, Professor of International Public Law and International Human Rights at the University of Münster.

      “As soon as the distress call was received via Alarm Phone, there was clearly distress. But when a ship is so evidently overloaded, it is in distress as soon as it leaves port, because it is unseaworthy. Even if the ship is still moving. And when there is distress, there is a duty to rescue, not to stand by and watch.

      International law defines distress as a situation where there is a reasonable certainty that a vessel or a person is threatened by grave and imminent danger and requires immediate assistance.

      “That requires an objective assessment. If a captain completely misjudges the situation and says the ship is fine, the ship is still in distress if the passengers are in grave danger by the condition of the ship,” Dr. Markard explains.

      International law unambiguously states that, on receiving information ‘from any source’ that persons are in distress at sea, the master of a ship that is in a position to render assistance must ‘proceed with all speed to their assistance’.

      In this particular case, the fishing vessel was not flying a flag, so the incident does not even fall under the category of respect for the sovereignty of the flag state.

      “When a ship doesn’t fly a flag at all, as it appears to be the case here, the law of the sea gives other states a right to visit the ship. This includes the right to board the ship to check it out,” says Markard.

      Apart from the distress call itself, the Hellenic Coast Guard, therefore, had the additional authority to examine the situation.

      “All ships and authorities alerted of the distress have an obligation to rescue, even if the ship in distress is not in their territorial waters but at high sea. Search and rescue zones often include waters that belong to the high sea,” explains Markard.

      “If the distress occurs in a state’s search and rescue zone, that state also has an obligation to coordinate the rescue. For example, it can requisition merchant ships to render assistance.”
      Coast Guard officer: “This was the definition of a vessel in distress”

      A former senior officer of the Greek Coast Guard with vast relevant experience seconds this and raises additional questions.

      Speaking to Solomon on condition of anonymity, he explained that the vessel was manifestly unseaworthy and the people on board in danger. Even a refusal to accept assistance was not a reason to leave it to its fate.

      The same official also points out there were delays in the response of the HCG (“valuable time was lost”) and an inadequate force of assets. He confirmed that refusal of assistance would only make sense in the case of a legal, documented, seaworthy and flagged vessel. “This was the definition of a vessel in distress”.

      Similar statements regarding the claims of the Greek Coast Guard were made by retired admiral of the Coast Guard and international expert, Nikos Spanos, to Greece’s public broadcaster ERT:

      “It’s like saying I can just watch you drown and do nothing. We don’t ask the crew on a boat in distress if they need help. They absolutely need help, from the moment the boat is adrift.”

      https://wearesolomon.com/mag/focus-area/migration/they-are-urgently-asking-for-help-the-sos-that-was-ignored

    • Chi c’era a bordo della barca naufragata al largo della Grecia

      Moshin Shazad, 32 anni, era un uomo con l’espressione seria, due figli piccoli, la moglie e la madre da mantenere. Per questo aveva deciso di partire da Lalamusa, una città nel Punjab, in Pakistan. Non riusciva a trovare un lavoro stabile e le bocche da sfamare erano diventate troppe, dopo la nascita del secondo figlio. Voleva raggiungere il cugino, Waheed Ali, che dal 2019 vive in Norvegia.

      È partito con altri quattro ragazzi, quattro amici, tra cui Abdul Khaliq e Sami Ullah. Ha telefonato al cugino poco dopo essere salito sul peschereccio stracarico che è partito da Tobruk, in Libia, ed è naufragato il 14 giugno, a 47 miglia da Pylos, in Grecia. “Diceva che sarebbe arrivato in Italia”, racconta Waheed Ali, che ora sta cercando il cugino tra i 108 sopravvissuti, di cui molti sono stati sistemati in un magazzino abbandonato di Kalamata, in Grecia, mentre una trentina sono stati trasferiti in ospedale. Molti erano in ipotermia. Ma Shazad potrebbe anche essere tra i dispersi.

      Shawq Muhammad al Ghazali, 22 anni, era uno studente originario di Daraa, in Siria, ed era rifugiato in Giordania, dove al momento vivono la sua famiglia e suo zio Ibhraim al Ghazali. Il ragazzo era partito da Amman per la Libia, e da lì, da Tobruk, si era imbarcato per raggiungere l’Europa. “Non ho sue notizie dall’8 giugno, il giorno della partenza dalla Libia”, dice lo zio. Secondo molti familiari, le autorità greche non stanno aiutando le famiglie ad avere notizie dei parenti o a capire se sono tra i vivi o tra i dispersi.

      I superstiti sono per lo più siriani (47) ed egiziani (43), poi ci sono dodici pachistani e due palestinesi, secondo le autorità greche. Tutti uomini. “Non riesco a sapere se è sopravvissuto, sono io che sto dando notizie alla famiglia in Pakistan, ma sono disperato, non riesco a capire e a sapere nulla. Del naufragio ho saputo dalla televisione”, afferma Waheed Ali.

      L’imbarcazione su cui viaggiavano Moshin Shazad e gli altri era partita da Tobruk l’8 giugno, era diretta in Italia, lungo una rotta da cui sono arrivati nel 2023 la metà dei migranti partiti dalla Libia.

      “Secondo le prime testimonianze sarebbe corretta la stima di 700-750 persone a bordo, tra cui almeno quaranta bambini, che probabilmente erano nella stiva. Se questi numeri fossero confermati, si tratterebbe del secondo naufragio più grave avvenuto nel Mediterraneo dopo quello dell’aprile 2015”, racconta Flavio Di Giacomo, dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Settantotto corpi sono stati recuperati finora in mare al largo della penisola del Peloponneso. Ma l’Oim ha affermato di “temere che altre centinaia di persone” siano annegate. Il portavoce della guardia costiera greca Nikos Alexiou ha detto che l’imbarcazione è naufragata, dopo che le persone si sono spostate bruscamente su un lato. L’imbarcazione è affondata in quindici minuti.

      Frontex li aveva avvistati
      Secondo le autorità greche, un aereo di sorveglianza dell’agenzia europea Frontex aveva avvistato la barca il 13 giugno. In un comunicato Frontex ha confermato di avere visto l’imbarcazione in mattinata, alle 9.47 del giorno precedente al naufragio e di averlo comunicato alle autorità preposte al soccorso, cioè alla guardia costiera greca. Anche la guardia costiera italiana e due mercantili avevano segnalato alle autorità greche l’imbarcazione in difficoltà. Ma secondo la guardia costiera greca, i passeggeri dell’imbarcazione “hanno rifiutato qualsiasi aiuto”, perché i migranti si stavano dirigendo verso l’Italia.

      “Nel pomeriggio, una nave mercantile si è avvicinata alla barca e le ha fornito cibo e rifornimenti, mentre i (passeggeri) hanno rifiutato ogni ulteriore assistenza”, ha detto la guardia costiera greca in un comunicato. Una seconda nave mercantile in seguito ha offerto più rifornimenti e assistenza. Ma anche questa volta sono stati rifiutati, secondo i greci.

      In serata, una motovedetta della guardia costiera ha raggiunto la nave “e ha confermato la presenza di un gran numero di migranti sul ponte”, è scritto nel comunicato delle autorità greche. “Ma hanno rifiutato qualsiasi assistenza e hanno detto che volevano continuare in Italia”. Tuttavia le leggi internazionali sul soccorso in mare avrebbero imposto in ogni caso ai greci di intervenire per le condizioni in cui l’imbarcazione stava navigando. Diverse testimonianze contestano la versione delle autorità greche.

      Il motore della barca si è rotto poco prima delle 23 (gmt) del 13 giugno, da quel momento la barca è andata alla deriva. I naufraghi hanno chiesto aiuto, telefonando alla rete di volontari Alarmphone, già dal 13 giugno, dicendo di avere contattato anche “la polizia”. L’attivista Nawal Soufi, che vive in Italia, ha raccontato che i migranti con cui era in contatto telefonico le hanno detto che alcune imbarcazioni si sono avvicinate, distribuendo delle bottigliette di acqua.

      “Il 13 giugno 2023, nelle prime ore del mattino, i migranti a bordo di una barca carica di 750 persone mi hanno contattata comunicandomi la loro difficile situazione. Dopo cinque giorni di viaggio, l’acqua era finita, il conducente dell’imbarcazione li aveva abbandonati in mare aperto e c’erano anche sei cadaveri a bordo. Non sapevano esattamente dove si trovassero, ma grazie alla posizione istantanea del telefono Turaya (telefono satellitare, ndr), ho potuto ottenere la loro posizione esatta e ho allertato le autorità competenti”, scrive Soufi, condividendo la sua ricostruzione su Facebook.

      “La situazione si è complicata quando una nave si è avvicinata all’imbarcazione, legandola con delle corde su due punti della barca e iniziando a buttare bottiglie d’acqua. I migranti si sono sentiti in forte pericolo, poiché temevano che le corde potessero far capovolgere la barca e che le risse a bordo per ottenere l’acqua potessero causare il naufragio. Per questo motivo, si sono leggermente allontanati dalla nave per evitare un naufragio sicuro”, continua l’attivista nel suo post.

      “Durante la notte, la situazione a bordo dell’imbarcazione è diventata ancora più drammatica. Io sono rimasta in contatto con loro fino alle 23 ore greche, cercando di rassicurarli e di aiutarli a trovare una soluzione”. Fino all’ultima chiamata in cui “l’uomo con cui parlavo mi ha espressamente detto: ‘Sento che questa sarà la nostra ultima notte in vita’”, conclude. Il parlamentare greco Kriton Arsenis, che ha parlato con i sopravvissuti a Kalamata, ha confermato la versione dell’attivista Soufi e ha dichiarato che l’imbarcazione si è ribaltata dopo essere stata trainata con delle corde dai greci. Secondo Arsenis, i greci volevano spingere l’imbarcazione di migranti nelle acque di ricerca e soccorso italiane.

      https://www.internazionale.it/notizie/annalisa-camilli/2023/06/15/naufragio-grecia
      #Frontex

    • Grecia, strage di Pylos. «Nessuna pace per gli assassini»

      Mentre il mare inghiotte i corpi e lo Stato rinchiude i sopravvissuti si riempiono le strade delle città greche

      Da tempo, definiamo la politica migratoria europea “necropolitica”, ovvero – seguendo Achille Mbembe – una politica che crea le condizioni strutturali per produrre la morte di un gruppo di persone.

      Un’architettura di morte, che vediamo ogni giorno nel regime europeo del confine, sempre più legale, sofisticata, diffusa. Ci accorgiamo ora che ci hanno tolto anche la morte, nel senso che personalmente e collettivamente – noi “vivi” – le diamo, facendo esperienza di quella degli altri, vicini e lontani. Ci hanno tolto anche la morte perché hanno tolto il lutto a chi ha perso una persona cara, la possibilità di piangere un corpo morto, la possibilità di conoscerne il nome, di sapere chi, dove, quando, quanti.

      Probabilmente non sapremo mai quante persone sono affogate nella strage avvenuta tra martedì 13 e mercoledì 14 giugno ad 80 chilometri al largo del porto di Pylos. Gli stessi migranti, al telefono con l’attivista Nawal Soufi, parlavano di 750 persone a bordo, di cui molti bambini. La Guardia costiera ellenica dice 646. Le foto e le informazioni disponibili fino ad ora confermano quest’ordine di grandezza, ma le cifre sono destinate a rimanere indicative. Il naufragio è avvenuto nella zona con il mare più profondo di tutto il Mediterraneo: circa 60 km a sud-ovest di Pylos si trova la Fossa di Calipso, una depressione che supera i 5.000 metri di profondità. Gli esperti dicono che il recupero dei corpi sarà quindi particolarmente difficoltoso, il mare li inghiottirà per sempre. Ad oggi, sono solo 104 i superstiti, difficilmente questo numero aumenterà.

      Oltre la produzione della morte si situa forse l’annullamento, l’annientamento della persona (della vita). Sono parole che, chiaramente, richiamano il nazismo. Non sapere chi, non sapere quanti, non poter riavere i corpi – massivamente e sistematicamente – è qualcosa che, credo, si avvicina all’annientamento.

      I dettagli che iniziano a trapelare dipingono un quadro dei fatti che non solo seppellisce ogni retorica della “tragica fatalità”, ma svela le responsabilità dirette della HCG (Hellenic Coast Guard) nel causare il “capovolgimento” della barca. Come ricostruito dall’attivista Iasonas Apostolopoulos, sulla base delle dichiarazioni del parlamentare Kriton Arsenis, che ha potuto parlare con i sopravvissuti a Kalamata, la HCG avrebbe legato il peschereccio con delle corde e provato a trascinarlo. Sarebbe stato proprio questo tentativo di rimorchio a far ribaltare la barca. Queste ricostruzioni si allineano con i primi racconti di Nawal Soufi.

      https://twitter.com/ABoatReport/status/1669301668259741696/history

      Evidentemente, la differenza – se esiste – tra uccidere e lasciar morire sfuma: non è “solo” indifferenza complice, non è “semplicemente” girarsi dall’altra parte. L’omissione di soccorso è la punta dell’iceberg di un sistema complesso – quello dei confini europei – progettato per annientare la vita. Sistema di cui la guardia costiera è solo un tassello. Non è l’Europa che finge di non vedere, è l’Europa che, strutturalmente, con delle politiche precise e radicate nel tempo, produce morte.

      La versione ufficiale della HCG descrive invece il capovolgimento come frutto di una maldestra manovra – in mare piatto – del peschereccio stesso. Dall’altra parte, puntano tutto sulla colpevolizzazione delle vittime: “Ripetevano costantemente di voler salpare per l’Italia e di non volere alcun aiuto dalla Grecia”, si ribadisce ossessivamente nel comunicato. Ma è assodato che questo improbabile “non volevano essere aiutati”, secondo il diritto del mare, non giustifica il mancato soccorso, come chiarito dall’ordine degli avvocati di Kalamata – che si è offerto di supportare gratuitamente i sopravvissuti. Così come è assodato che la HCG sapeva tutto dalla mattina di martedì 13 giugno, alla luce dell’avvistamento da parte del velivolo di Frontex e degli SOS diffusi da Alarm Phone – pubblicati da wearesolomon – e inoltrati anche ad UNCHR, NATO, e al difensore civico greco.

      Ma non lasciamo non detti: probabilmente l’HCG voleva trascinare il peschereccio in zona SAR maltese o italiana. Questa volontà è stata più forte di quella di salvare 750 vite umane in evidente pericolo. Forse anche per questo, ai giornalisti è stato impedito di parlare con i sopravvissuti. Dopo delle pressioni, è stato permesso solo ai parlamentari.

      Come da copione, nove di loro, egiziani, sono stati arrestati accusati di traffico di esseri umani ed omicidio 1, mentre la maggior parte (71 persone) è stata trasferita nel campo di Malakasa 2, nel “centro di accoglienza e identificazione”: una struttura chiusa, controllata, isolata, priva di supporto psicologico e assistenza medica adeguata. Sono siriani, egiziani, pakistani e palestinesi. Non devono poter raccontare, devono capire che non c’è pietà, che nulla gli sarà concesso.

      Nel porto di Kalamata, sembra di rivivere i giorni di Cutro: arrivano i familiari da tutta Europa e non solo. Alcuni trovano i propri cari, molti non li troveranno. Nessun aiuto da parte dello Stato, nessuna informazione, dicono. Non c’è pace per i vivi, non c’è pace per i morti. Finora sono stati recuperati ed identificati 78 corpi, saranno trasportati con dei camion frigorifero al cimitero di Schisto.

      Intanto, si riempiono le strade della Grecia. Dal porto di Pylos ad Atene, Salonicco, Patrasso, Karditsa, Kalamata, migliaia di persone si sono messe in marcia. Ad Atene, giovedì sera, una marea umana si è scontrata con i soliti gangster in divisa.

      La risposta dello Stato è sempre la stessa, anche con i solidali. Sono piazze commosse ma piene di rabbia. Una rabbia degna. Puntano chiaramente il dito verso gli assassini: non solo la guardia costiera, ma lo Stato greco, l’Unione Europea, Frontex, questo sistema coloniale e razzista.

      Domenica 18 giugno nel pomeriggio un altro corteo, chiamato dalla Open Assembly Against Pushbacks and Border Violence, si muoverà dal Pireo verso gli uffici di Frontex: l’agenzia europea non potrà giocare la parte dei “buoni” che avevano segnalato per tempo la barca in pericolo.

      Dalle strade, si leva una promessa: non dimentichiamo, non perdoniamo.

    • Did migrants reject help before deadly Greek wreck, or beg for it? Coast guard, activists disagree

      This undated handout image provided by Greece’s coast guard on Wednesday, June14, 2023, shows scores of people covering practically every free stretch of deck on a battered fishing boat that later capsized and sank off southern Greece. A fishing boat carrying migrants trying to reach Europe capsized and sank off Greece on Wednesday, authorities said, leaving at least 79 dead and many more missing in one of the worst disasters of its kind this year.(Hellenic Coast Guard via AP)
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      This undated handout image provided by Greece’s coast guard on Wednesday, June14, 2023, shows scores of people covering practically every free stretch of deck on a battered fishing boat that later capsized and sank off southern Greece. A fishing boat carrying migrants trying to reach Europe capsized and sank off Greece on Wednesday, authorities said, leaving at least 79 dead and many more missing in one of the worst disasters of its kind this year.(Hellenic Coast Guard via AP)

      This much is clear: On June 9, an old steel fishing trawler left eastern Libya for Italy, carrying far too many people.

      As many as 750 men, women and children from Syria, Egypt, the Palestinian territories and Pakistan were on board, fleeing hopelessness in their home countries and trying to reach relatives in Europe.

      Five days later, the trawler sank off the coast of Greece in one of the deepest parts of the Mediterranean Sea. Only 104 people, all men, survived. The remains of 78 people were recovered.

      There are still more questions than answers about what led up to one of the worst shipwrecks in recent Mediterranean history.

      Activists, migration experts and opposition politicians have criticized Greek authorities for not acting earlier to rescue the migrants, even though a coast guard vessel escorted the trawler for hours and watched helplessly as it sank.

      Below is a timeline of events based on reports from Greek authorities, a commercial ship, and activists who said they were in touch with passengers. They describe sequences of events that at times converge, but also differ in key ways.

      The Greek Coast Guard said that the overcrowded trawler was moving steadily toward Italy, refusing almost all assistance, until minutes before it sank. This is in part supported by the account of a merchant tanker that was nearby.

      But activists said that people on board were in danger and made repeated pleas for help more than 15 hours before the vessel sank.

      International maritime law and coast guard experts said that conditions on the trawler clearly showed it was at risk, and should have prompted an immediate rescue operation, regardless of what people on board may have said.

      Much of these accounts could not immediately be independently verified.

      Missing from this timeline is the testimony of survivors, who have been transferred to a closed camp and kept away from journalists.

      All times are given in Greece’s time zone.

      FIRST CONTACT

      Around 11 a.m. on Tuesday, Italian authorities informed Greece that a fishing trawler packed with migrants was in international waters southwest of the Peloponnese. Greece said the Italian authorities were alerted by an activist.

      Around the same time, human rights activist Nawal Soufi wrote on social media that she had been contacted by a woman on a boat that had left Libya four days earlier.

      The migrants had run out of water, Soufi wrote, and shared GPS coordinates through a satellite phone showing they were approximately 100 km (62 miles) from Greece.

      “Dramatic situation on board. They need immediate rescue,” she wrote Tuesday morning.

      Over the course of the day, Soufi described some 20 calls with people on the trawler in a series of social media posts and a later audio recording. The Associated Press could not reach Soufi.

      A surveillance aircraft from the European Border and Coast Guard Agency Frontex spotted the overcrowded trawler at 11:47 p.m. and notified Greek authorities, the agency told AP. On Saturday, Frontex told AP its plane had to leave the scene after 10 minutes due to a fuel shortage but that it had also shared with Greece details and photos of the “heavily overcrowded” trawler.

      DIFFERING ACCOUNTS OF CONDITIONS ON BOARD

      At 2 p.m., Greek authorities established contact with someone on the trawler. The vessel “did not request any assistance from the Coast Guard or from Greece,” according to a statement.

      But activists said that people on the boat were already in desperate need by Tuesday afternoon.

      At 3:11 p.m., Soufi wrote, passengers told her that seven people were unconscious.

      Around the same time, Alarm Phone, a network of activists with no connection to Soufi who run a hotline for migrants in need of rescue, said they received a call from a person on the trawler.

      “They say they cannot survive the night, that they are in heavy distress,” Alarm Phone wrote.

      At 3:35 p.m., a Greek Coast Guard helicopter located the trawler. An aerial photo released showed it packed, with people covering almost every inch of the deck.

      From then until 9 p.m., Greek authorities said, they were in contact with people on the trawler via satellite phone, radio, and shouted conversations conducted by merchant vessels and a Coast Guard boat that arrived at night. They added that people on the trawler repeatedly said they wanted to continue to Italy and refused rescue.

      MERCHANT SHIPS BRING SUPPLIES

      At 5:10 p.m., Greek authorities asked a Maltese-flagged tanker called the Lucky Sailor to bring the trawler food and water.

      According to the company that manages the Lucky Sailor, people on the trawler “were very hesitant to receive any assistance,” and shouted that “they want to go to Italy.” Eventually, Eastern Mediterranean Maritime Limited wrote in a statement, the trawler was persuaded to accept supplies.

      Around 6 p.m., a Greek Coast Guard helicopter reported that the trawler was “sailing on a steady course and heading.”

      But at 6:20 p.m., Alarm Phone said that people on board reported that they were not moving, and that the “captain” had abandoned the trawler in a small boat.

      “Please any solution,” someone on board told Alarm Phone.

      The Greek authorities’ account suggested the trawler stopped around that time to receive supplies from the Lucky Sailor.

      At 6:55 p.m., Soufi wrote, migrants on board told her that six people had died and another two were very sick. No other account so far has mentioned deaths prior to the shipwreck, and the AP has not been able to verify this.

      Around 9 p.m., Greek authorities asked a second, Greek-flagged, merchant vessel to deliver water, and allowed the Lucky Sailor to leave.

      Then, at around 10:40 p.m., a Coast Guard boat from Crete reached the trawler, and remained nearby until it sank. According to the Coast Guard, the vessel “discreetly observed” the trawler from a distance. Once again, the Coast Guard said, the trawler did not appear to have any problems and was moving “at a steady course and speed.”

      THE FINAL HOURS

      According to Soufi’s account, attempts to deliver supplies may have contributed to the trawler’s troubles.

      Shortly after 11 p.m., she wrote that the trawler began rocking as its passengers tried to catch water bottles from another vessel. According to people on board, ropes were tied to the ship, destabilizing it and causing a “state of panic,” she said.

      The report from the Lucky Sailor said no lines were tied to the trawler, and supplies were delivered in watertight barrels tied to a rope.

      “Those on board the boat caught the line and pulled,” the company managing the Lucky Sailor told the AP.

      The other merchant vessel did not immediately reply to the AP’s questions.

      A spokesman for the Greek Coast Guard said late Friday that its vessel had briefly attached a light rope to the trawler at around 11 p.m. He stressed that none of the vessels had attempted to tow the trawler.

      Commander Nikos Alexiou told Greek channel Ant1 TV that the Coast Guard wanted to check on the trawler’s condition, but people on board again refused help and untied the rope before continuing course.

      Soufi’s last contact with the trawler was at 11 p.m. She said later in a voice memo that “they never expressed the will to continue sailing to Italy,” or refused assistance from Greece. “They were in danger and needed help.”

      THE WRECK

      According to authorities, the trawler kept moving until 1:40 a.m. Wednesday, when its engine stopped. The Coast Guard vessel then got closer to “determine the problem.”

      A few minutes later, Alarm Phone had a final exchange with people on the trawler. The activists were able to make out only: “Hello my friend … The ship you send is …” before the call cut off.

      At 2:04 a.m., more than 15 hours after Greek authorities first heard of the case, the Coast Guard reported that the trawler began rocking violently from side to side, and then capsized.

      People on deck were thrown into the sea, while others held onto the boat as it flipped. Many others, including women and children, were trapped below deck.

      Fifteen minutes later, the trawler vanished underwater.

      In the darkness of night, 104 people were rescued, and brought to shore on the Mayan Queen IV, a luxury yacht that was sailing in the vicinity of the shipwreck. Greek authorities retrieved 78 bodies. No other people have been found since Wednesday.

      As many as 500 people are missing.

      https://apnews.com/article/migrants-shipwreck-rescue-greece-coast-guard-c160027a00d1ad2f859b97e3e8e7643

    • Après le naufrage, des survivants dénoncent les gardes-côtes grecs et Frontex

      La version officielle grecque sur l’un des pires naufrages en Méditerranée est mise à mal par les témoignages de survivants. Le rôle de Frontex, l’agence européenne chargée des frontières extérieures, est également pointé du doigt. Une enquête a été ouverte.

      Plus de quatre jours après le naufrage d’un bateau de pêche en provenance de Libye, où s’étaient embarquées jusqu’à 750 personnes – notamment des ressortissantes et ressortissants égyptiens, syriens et pakistanais –, l’espoir est mince de retrouver des survivant·es au large des côtes sud de la Grèce.

      Les questions sont nombreuses en particulier sur l’action des gardes-côtes grecs, accusés par certains témoignages d’avoir provoqué l’accident. La Cour suprême grecque a ordonné une enquête sur les circonstances du drame, l’un des pires naufrages en Méditerranée avec des centaines de morts. Pour l’heure, 104 personnes ont été rescapées et 78 corps récupérés.

      Jeudi après-midi, Kriton Arsenis, ancien eurodéputé, a rencontré des survivants dans le port de Kalamata, sur la péninsule du Péloponnèse, en tant que membre de la délégation de Mera25, le parti de Yánis Varoufákis. « Les réfugiés nous ont dit que l’embarcation a chaviré pendant qu’elle était tirée par le bateau des gardes-côtes », a-t-il raconté.

      « Les survivants nous disent que le bateau a basculé alors qu’il faisait l’objet d’une manœuvre où il était tiré par les gardes-côtes helléniques, a déclaré de son côté Vincent Cochetel, envoyé spécial du Haut Commissariat aux réfugiés pour la Méditerranée occidentale et centrale. Ils nous disent qu’il était tiré non pas vers les côtes grecques, mais en dehors de la zone de secours en mer grecque. »

      Ces témoignages vont à l’encontre de la version officielle, qui, jusqu’à vendredi, expliquait que les gardes-côtes n’étaient pas intervenus.

      La Grèce est régulièrement accusée de refouler des migrant·es en mer, provoquant la crainte, derrière une aide supposée, d’être en réalité éloigné·es du territoire – une pratique illégale au regard du droit international maritime et de la Convention de Genève, qui doivent permettre à toute personne en situation de détresse d’être secourue et acheminée vers un port dit « sûr » et de pouvoir, si elle le souhaite, déposer une demande d’asile dans le pays qu’elle tentait de rallier.

      En mai dernier, des révélations du New York Times ont mis en lumière cette pratique, grâce à une vidéo d’un « push-back » prise sur le fait. Mediapart avait documenté un cas semblable en 2022, qui avait provoqué la mort de deux demandeurs d’asile.
      Le patron de Frontex sur place

      Le rôle de Frontex, l’agence européenne chargée des frontières extérieures, est également mis en question, car selon les autorités portuaires grecques, un avion de surveillance de Frontex avait repéré le bateau mardi après-midi mais les secours ne sont pas intervenus car les passagers ont « refusé toute aide ». Son patron Hans Leijtens s’est rendu à Kalamata pour établir les faits et « mieux comprendre ce qui s’est passé car Frontex a joué un rôle » dans ce naufrage « horrible ».

      « On ne demande pas aux personnes à bord d’un bateau à la dérive s’ils veulent de l’aide […], il aurait fallu une aide immédiate », a affirmé pour sa part à la télévision grecque ERT Nikos Spanos, expert international des incidents maritimes. D’après Alexis Tsipras, le chef de l’opposition grecque de gauche, qui s’est entretenu avec des rescapés, « il y a eu un appel à l’aide ».

      Le HCR et l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), deux agences des Nations unies, se sont félicités des enquêtes « qui ont été ordonnées en Grèce sur les circonstances qui ont conduit au chavirement du bateau et à la perte de tant de vies », tout en rappelant que « le devoir de secourir sans délai les personnes en détresse en mer est une règle fondamentale du droit maritime international ».

      Le HCR et l’OIM ont rappelé vendredi que depuis le début de l’année, au moins 72 778 migrants sont arrivés en Europe (dont 54 205 en Italie), par les routes migratoires en Méditerranée orientale, centrale, et occidentale ou par le nord-ouest de l’Afrique. Dans le même temps, au moins 1 037 migrants sont morts ou portés disparus.

      Neuf Égyptiens ont été arrêtés dans le port de Kalamata. Ils sont âgés de 20 à 40 ans et soupçonnés de « trafic illégal » d’êtres humains. Parmi les suspects, qui devraient comparaître lundi devant le juge d’instruction, figure le capitaine de l’embarcation qui a chaviré, d’après une source portuaire à l’AFP.

      Areti Glezou, travailleuse sociale au sein de l’ONG grecque Thalpo était en première ligne aux côtés des rescapés. Manifestement choquée, elle se souviendra longtemps de certains détails à glacer le sang. « Un homme me racontait qu’il a nagé pendant deux heures au côté de corps d’enfants avant d’être secouru. » Elle s’arrête, reprend son souffle et, les larmes aux yeux, elle poursuit : « Oui, ça, ils me l’ont tous dit, les cales étaient remplies de femmes et d’enfants. » Aucun n’aura été retrouvé vivant.

      Plus de 120 Syriens se trouvaient à bord et un grand nombre d’entre eux sont portés disparus, ont indiqué vendredi à l’AFP des membres de leurs familles et des militants locaux. La plupart sont originaires de la province instable de Deraa dans le sud du pays. Berceau du soulèvement antirégime déclenché en 2011, elle est revenue sous le contrôle des forces gouvernementales en juillet 2018. Plusieurs d’entre eux ont gagné la Libye, d’où était parti le bateau, en transitant par des pays voisins comme le Liban, la Jordanie ou encore l’Arabie saoudite.

      Vendredi matin, on a cependant vu des larmes de joie sur le port de Kalamata. Des deux côtés des barrières qui entourent le hangar où logent les rescapés, deux frères se sont aperçus. Fardi a retrouvé Mohamed vivant. Le grand a retrouvé le petit. Autour d’eux les sourires fleurissent sur les visages. Pour quelques brefs instants, journalistes, humanitaires et hommes en uniformes redeviennent d’abord des êtres humains. Comme un rayon de lumière qui illumine soudain un océan de tristesse.

      Une demi-heure plus tard, des bus viennent chercher les rescapés pour les emmener au camp de Malakasa dans la région d’Athènes. Le hangar est désormais vide.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/170623/apres-le-naufrage-des-survivants-denoncent-les-gardes-cotes-grecs-et-front

    • Naufrage de migrants en Méditerranée : ce que l’on sait sur les responsabilités des garde-côtes grecs

      Depuis le naufrage dramatique qui a fait 78 morts et possiblement plusieurs centaines d’autres mercredi 14 juin, les critiques ciblent l’absence d’intervention préalable des gardes-côtes grecs. Ces derniers rejettent la faute sur les passagers du navire.

      Le naufrage d’un bateau de migrants mercredi 14 juin avec des centaines de personnes à bord, au large de la Grèce, a soulevé de nombreuses questions sur les responsabilités des autorités. Voici ce que l’on sait depuis que ce chalutier vétuste a chaviré et coulé dans les eaux internationales, faisant au moins 78 morts.
      L’opération de sauvetage

      Les garde-côtes grecs ont affirmé mercredi matin « avoir été prévenus mardi par les autorités italiennes concernant un bateau avec à bord un grand nombre d’étrangers ». Des patrouilleurs grecs ont été mobilisés pour le repérer. « C’est un appareil aérien de Frontex [la décriée agence européenne de gardes-frontières, ndlr] qui a le premier repéré le bateau mardi après-midi, puis deux bateaux qui naviguaient dans la zone », selon les garde-côtes.

      Nawal Soufi, une bénévole travaillant pour la ligne téléphonique d’assistance à des migrants en danger Alarm Phone, assure sur son compte Facebook avoir reçu un SOS d’un bateau avec 750 personnes à bord en provenance de Libye.

      A 22 h 40 mardi, le chalutier notifie une panne du moteur. Le patrouilleur à proximité « a immédiatement tenté d’approcher le chalutier pour déterminer le problème », ont noté les garde-côtes. Vingt-quatre minutes plus tard, le patron du patrouilleur a annoncé par radio que le bateau avait chaviré. Il a coulé en quinze minutes.
      La défausse grecque contre les migrants

      Selon les garde-côtes grecs, « il n’y a pas eu de demande d’aide » des personnes à bord du bateau de pêche. « Après de nombreux appels du centre opérationnel des garde-côtes grecs pour les secourir, la réponse du bateau de pêche a été négative », selon le communiqué. « La salle des opérations […] a été en contact répété avec le bateau de pêche. Ils ont constamment répété qu’ils souhaitaient naviguer vers l’Italie », selon la même source.

      Le porte-parole du gouvernement a également expliqué vendredi que « les garde-côtes se sont rapprochés du bateau, ils ont jeté une corde pour le stabiliser, mais les migrants ont refusé l’aide ». « Ils disaient ‘‘No help, Go Italy’’ [’’Pas d’aide, on va en Italie’’, ndlr] », a-t-il ajouté.

      Pour sa part, le porte-parole de la police portuaire Nikolaos Alexiou a souligné qu’on ne pouvait « pas remorquer un bateau avec un si grand nombre de gens à bord par la force, il faut qu’ils coopèrent ».

      Selon un réfugié syrien en Allemagne, Reber Hebun, arrivé en Grèce pour retrouver son frère de 24 ans, survivant du naufrage, « les garde-côtes grecs n’ont rien fait pour les aider au début alors qu’ils étaient près d’eux », a-t-il dit après avoir parlé avec son frère. « Un bateau commercial a donné de l’eau et de la nourriture et tout le monde s’est précipité, le bateau a été déstabilisé à ce moment », selon lui.
      Les critiques envers les garde-côtes grecs

      Des experts et des ONG ont mis en cause les garde-côtes grecs qui auraient dû intervenir quoi qu’il arrive, selon eux. Pour Vincent Cochetel, envoyé spécial du Haut-Commissariat de l’ONU pour les réfugiés (HCR) pour la Méditerranée centrale et occidentale, « l’argument grec selon lequel les personnes ne voulaient pas être secourues pour poursuivre leur route vers l’Italie ne tient pas ». « C’est aux autorités grecques qu’il incombait de procéder ou, au moins, de coordonner une opération de sauvetage, en utilisant soit leurs propres navires de sauvetage soit en faisant appel à tout autre bateau sur zone, y compris à des navires marchands », a-t-il jugé. « Selon le droit maritime international, les autorités grecques auraient dû coordonner plus tôt cette opération de sauvetage, dès lors que Frontex avait repéré ce bateau en détresse », a-t-il poursuivi.

      « On ne demande pas aux personnes à bord d’un bateau à la dérive s’ils veulent de l’aide […] il aurait fallu une aide immédiate », a critiqué pour sa part Nikos Spanos, expert international des incidents maritimes.

      Hans Leijtens, le patron de Frontex, s’est rendu jeudi à Kalamata pour chercher à « mieux comprendre ce qui s’est passé car Frontex a joué un rôle » dans cet « horrible » naufrage.

      Vendredi, l’ONU a demandé des investigations rapides et des mesures « urgentes et décisives » pour éviter de nouveaux drames. « Il doit avoir une enquête approfondie sur les événements qui se sont déroulés au cours de cette tragédie. Et j’espère que nous pourrons trouver des réponses et apprendre de l’expérience », a souligné Jeremy Laurence, porte-parole du Haut-Commissariat aux droits de l’homme.
      Des centaines de personnes à bord

      78 corps ont jusqu’ici été retrouvés en mer au large des côtes de la péninsule du Péloponnèse, selon les garde-côtes grecs, et 104 personnes ont pu être secourues à temps. Mais le bilan serait en réalité bien plus lourd. Le porte-parole du gouvernement grec, Ilias Siakantaris, avait assuré mercredi que des informations non confirmées faisaient état de 750 personnes à bord du chalutier. L’Organisation internationale pour les migrations (OIM) « redoute que des centaines de personnes supplémentaires » se soient noyées « dans l’une des tragédies les plus dévastatrices en Méditerranée en une décennie ».

      Parmi les personnes qui se trouvaient à bord, figuraient notamment plus 120 Syriens, et un grand nombre d’entre eux sont portés disparus, ont déploré vendredi des membres de leurs familles et des militants locaux. La plupart de ces migrants sont originaires de la province instable de Deraa dans le sud de la Syrie. Plusieurs d’entre eux ont gagné la Libye, d’où était parti le bateau, en transitant par des pays voisins comme le Liban, la Jordanie ou encore l’Arabie Saoudite, selon les mêmes sources.

      Les recherches se poursuivent mais les espoirs de retrouver des survivants s’amenuisent, trois jours après le drame. De nombreuses femmes et enfants auraient voyagé dans la cale du navire, qui a sombré dans une zone de la Méditerranée de plusieurs milliers de mètres de profondeur, la fosse Calypso.

      Par ailleurs, 9 personnes de nationalité égyptienne soupçonnées d’être des passeurs ont été arrêtées à la suite du drame.

      https://www.liberation.fr/international/europe/naufrage-de-migrants-en-mediterranee-ce-que-lon-sait-sur-les-responsabili

    • Message de Vicky Skoumbi envoyé sur la mailing-list de Migreurop, le 18 juin 2023 :

      une vidéo glaçante avec un #témoignage de survivants qui fait état de la #responsabilité criminelle des #garde-côtes_grecs, avec la traduction d’un post d’Iasonas Apostolopoulos

      https://www.facebook.com/519820384/videos/5877893008981441

      « Les garde-côtes grecs se sont approchés de nous et nous ont lancé une corde bleue. Ils ont commencé à nous remorquer. La façon dont ils nous tiraient n’était pas correcte. Nous criions. Le navire a alors commencé à prendre de la gîte sur la gauche, les garde-côtes se sont tournés vers le côté opposé et notre navire a commencé à prendre de la gîte sur le côté et à couler.

      Nous essayions de grimper sur le bateau, nous voulions survivre.

      Les garde-côtes ont détaché la corde. Nous criions à l’aide. Ils ont fait tourner leur navire, créant une grosse vague, et notre bateau a complètement chaviré. Les personnes qui se trouvaient sur le côté du bateau se sont retrouvées en dessous. Nous pouvions entendre les gens dans la cale frapper sur la tôle en fer.

      Le bateau a complètement coulé ».

      –—

      Le journaliste Fallah Elias de la chaîne allemande WDR a partagé sur Twitter le témoignage absolument choquant et horrifiant d’un naufragé secouru.

      https://twitter.com/falahelias/status/1670127871170322432

      Dans la vidéo, d’autres survivants pakistanais confirment que les garde-côtes grecs ont fait couler le bateau en le remorquant.

      Ni une, ni deux, ni trois, de nombreux témoignages désignent le gouvernement grec et les garde-côtes comme les seuls responsables du naufrage et de la noyade de centaines de personnes à Pylos. Au lieu de les secourir, ils ont tiré le bateau avec une corde jusqu’à ce qu’il chavire. Probablement pour les faire sortir de la zone de sauvetage grecque.

      Selon certaines informations, une centaine d’enfants figureraient parmi les morts.

      Si tout cela est vrai, il s’agit du plus grand homicide de l’histoire de l’Europe d’après-guerre.

      NE LAISSONS PAS L’AFFAIRE ÊTRE ÉTOUFFÉE !

      https://twitter.com/falahelias/status/1670127871170322432?s=46&t=0dqDdxigZeccg_TvNxhfAA

    • Möglicherweise waren Push-Backs der Küstenwache Schuld am Bootsunglück in Griechenland

      Es gibt Vorwürfe, dass das Boot mit Geflüchteten vor Griechenland wegen Push-Backs der griechischen Küstenwache gesunken ist. WDR-Journalist Bamdad Esmaili berichtet im Interview, was Überlebende des Unglücks erzählen.

      Nach dem Bootsunglück vor Griechenland mit hunderten Toten gibt es schwere Vorwürfe gegen die griechische Küstenwache, das Unglück verursacht zu haben. Die Rede ist von so genannten Push-Backs. Darunter versteht man Maßnahmen, mit denen flüchtende Menschen daran gehindert werden, die Grenze zu übertreten und einen Asylantrag zu stellen. In der EU-Grundrechte-Charta wird das Recht auf Asyl gemäß der Genfer Flüchtlingskonvention allerdings garantiert.

      Die Küstenwache weist den Vorwurf von Push-Backs zurück - jetzt soll die europäische Polizeibehörde Europol ermitteln. WDR-Journalist Bamdad Esmaili ist in Griechenland und hat mit seinem Team mit Überlebenden sprechen können.

      WDR: Es gibt Vorwürfe gegen die griechische Küstenwache. Worum geht es da?

      Bamdad Esmaili: Es geht darum, dass es Vorwürfe gibt, dass die griechische Küstenwache dieses Boot in die Richtung von italienischem Gewässer gezogen hat - dass sie es sozusagen gepushbackt hat. Diesen Vorwurf hatten wir bislang nur gehört, gestern Abend gelang es meinem Kollegen, der arabisch spricht, dann mit ungefähr zehn überlebenden Geflüchteten zu sprechen. Sie haben unabhängig voneinander berichtet, dass dieses Boot tatsächlich gezogen wurde - nicht nur einmal, nicht nur zweimal, sondern insgesamt dreimal. Und dabei ist das Schiff dann ins Wanken gekommen und ist gesunken.

      WDR: Das heißt, das Ziehen dieses Bootes, der Versuch es nach Italien zu ziehen und damit aus der Zuständigkeit Griechenlands herauszuholen, ist für dieses Unglück - so scheint es zumindest im Moment - verantwortlich?

      Esmaili: Das ist der Vorwurf, der im Raum steht. Das muss natürlich erstmal bewiesen werden. Die Griechen lehnen das vehement ab und dementieren das. Sie sagen nach wie vor immer noch, dass sie Hilfe angeboten haben und das Schiff habe diese Hilfe nicht gewollt, weil sie demnach nach Italien wollten.

      WDR: Wir können davon ausgehen, dass es jetzt eine größere Untersuchung geben wird. Wie wird in Griechenland darüber diskutiert, was hören Sie da?

      Esmaili: Das ist zum Politikum geworden, weil nächste Woche Parlamentswahlen in Griechenland sind. Vor allem die Opposition nutzt dieses Thema jetzt aus und kritisiert die Regierung. Und es ist für drei Tage eine Staatstrauer angeordnet worden. Es gibt auch Proteste, Kundgebungen, es gab einen Trauermarsch in Athen, also das ist ein Riesenthema hier in Griechenland.

      WDR: Sie haben erwähnt, dass Sie mit Überlebenden sprechen konnten. Wie haben diese denn die Situation auf dem Schiff beschrieben? Abgesehen von der Frage, ob sie gezogen wurden und damit das Unglück ausgelöst wurde.

      Esmaili: Man muss sich das so vorstellen: Ein Schiff, das 30 Meter lang ist, war völlig überfüllt. Die Überlebenden erzählen uns, dass sie von den Schleppern gehört haben, dass 747 Personen auf diesem Schiff waren. Deswegen ist auch immer von knapp 750 Personen die Rede und die waren überall: Unten, oben auf dem Deck, seit Tagen unterwegs, ohne Nahrung, ohne Wasser. Da kann man sich vorstellen, wie die Stimmung auf dem Schiff war.

      WDR: Das heißt, man muss davon ausgehen, dass das Unglück zu hunderten Toten geführt hat. Was geschieht jetzt mit den Menschen, die gerettet wurden - auch mit denen, mit denen Sie gesprochen haben?

      Esmaili: Wir sind jetzt in Malakasa in der Nähe von Athen und dort sind 71 Personen untergebracht, die kommen ganz normal ins Asylverfahren. Knapp 30 Personen sind noch in Kalamata im Krankenhaus, die werden behandelt und dann kommen sie vermutlich auch ins ganz normale Asylverfahren.

      WDR: Ganz normale Asylverfahren nach dem, was sie erlebt haben, das ist sicherlich auch eine schwierige Situation. Wurde die Suche nach Überlebenden denn inzwischen eingestellt?

      Esmaili: Das kann ich so nicht bestätigen. Wir haben gestern Abend noch gehört, dass noch weiter gesucht wird, aber natürlich kann man nach so vielen Tagen und bei so vielen Menschen davon ausgehen, dass man kaum noch Überlebende aus dem Meer retten kann. Rund 100 Kinder sollen auch mit an Bord gewesen sein.

      https://www1.wdr.de/nachrichten/bootsunglueck-mittelmeer-interview-bamdad-esmaili-100.html

    • Frontex statement following tragic shipwreck off Pylos

      We are shocked and saddened by the tragic events that unfolded off the coast of Greece. The Frontex Executive Director, who travelled to Greece after learning about the tragedy, has offered any support the authorities may need.

      People smugglers have once again trifled with human lives by forcing several hundred migrants on a fishing boat not designed to fit such a number of people. Many were trapped underneath the deck. Our thoughts go out to the families of the victims.

      On 13 June before noon, a Frontex plane spotted the fishing vessel inside the Greek search and rescue region in international waters. The ship was heavily overcrowded and was navigating at slow speed (6 knots) direction north-east.

      Frontex immediately informed the Greek and Italian authorities about the sighting, providing them with information about the condition of the vessel, speed and photos.

      The plane kept monitoring the vessel, constantly providing updates to all relevant national authorities until it ran out of fuel and had to return to base.

      As a Frontex drone was to patrol the Aegean on the same day, the agency offered to provide additional assistance ahead of the planned and scheduled flight. The Greek authorities asked the agency to send the drone to another search and rescue incident south off Crete with 80 people in danger.

      The drone, after attending to the incident south off Crete, flew to the last known position of the fishing vessel. The drone arrived at the scene four hours later at 04:05 (UTC) in the morning, when a large-scale search and rescue operation by Greek authorities was ongoing and there was no sign of the fishing boat. No Frontex plane or boat was present at the time of the tragedy.

      https://frontex.europa.eu/media-centre/news/news-release/frontex-statement-following-tragic-shipwreck-off-pylos-dJ5l9p

      –-
      Commentaire de Lena K. sur twitter :

      This might be important. According to Frontex, they offered a drone to fly over the location of the Pylos shipwreck in the evening of 13th, but the Greek authorities decided to send it to another distress incident south of Crete. Convenient (for both).

      https://twitter.com/lk2015r/status/1670143075040088068

    • Naufrage en Grèce : le bateau dérivait, contrairement à la version des garde-côtes

      Que s’est-il passé dans les heures précédant le terrible naufrage au large du Péloponnèse ? Les garde-côtes grecs affirment que le chalutier bondé faisait route vers l’Italie à une vitesse régulière et n’avait pas besoin d’être secouru. Une enquête de la BBC affirme le contraire : le chalutier était à l’arrêt et nécessitait une aide urgente.

      Version contre version. Depuis le terrible naufrage du mercredi 13 juin au large de la Grèce, qui a coûté la vie à au moins 500 personnes (https://www.infomigrants.net/fr/post/49759/au-moins-200-pakistanais-parmi-les-victimes-du-naufrage-en-grece), les autorités grecques campent sur leurs positions : le chalutier, qui comptait au moins 700 exilés à bord, n’était pas en danger imminent. Du moins, pas dans les heures précédant le naufrage.

      Selon le communiqué officiel du Premier ministre grec (https://www.primeminister.gr/2023/06/14/32002), Kyriakos Mitsotakis, le bateau, parti de Tobrouk en Libye, naviguait en direction de l’Italie. « À 15h35, le navire de pêche a été repéré par l’hélicoptère de la Garde côtière [grecque] naviguant à vitesse régulière », peut-on lire sur le communiqué. Il avait été repéré pour la première fois vers 11h du matin, et depuis, les autorités grecques le surveillait à distance. Pourquoi ne pas le secourir immédiatement ? Parce qu’il ne semblait pas en difficulté, se défendent les Grecs. « Le navire navigu[ait] avec un cap et une vitesse constantes », écrivent-ils dans leur rapport.

      Cette ligne de défense sera la même tout au long de la journée. À partir de 15h30 jusqu’à 21h, les autorités helléniques affirment avoir été à de nombreuses reprises en communication avec le bateau via téléphone satellite. À chaque fois, les garde-côtes notent que le chalutier navigue à vitesse régulière. Et que les exilés ne réclament aucune aide. « Les migrants criaient : ’Pas d’aide, on va en Italie’ », expliquait déjà vendredi 16 juin le porte-parole des garde-côtes grecs, Nikos Alexiou.

      Dans un autre communiqué publié le 19 juin (https://www.hcg.gr/el/drasthriothtes/dieykriniseis-anaforika-me-eyreia-epixeirhsh-ereynas-kai-diaswshs-allodapwn-se-d), Athènes maintient sa position et affirme que le bateau a parcouru une distance de 24 nautiques marins - soit 44 km - depuis le moment où il a été repéré jusqu’à son naufrage.

      « Le navire ne bouge pas »

      Seulement, l’enquête menée par la BBC (https://www.bbc.com/news/world-europe-65942426) contredit la version grecque. Grâce aux coordonnées GPS des autres navires présents dans la zone méditerranéenne, la BBC est arrivée à la conclusion que le bateau n’a pas bougé entre 18h et 21h, mardi 13 juin. Un premier chalutier – le Lucky sailor – s’en est approché, sur ordre des garde-côtes grecs, à 18h pour lui fournir des vivres et de l’eau. Trois heures plus tard, c’est au même point de coordonnées maritimes qu’un second navire – le Faithfull Warrior - s’est rendu pour un autre ravitaillement.

      Et la BBC de continuer. « Une vidéo – qui aurait été tournée depuis le Faithful Warrior – prétend montrer des vivres livrés au navire via une corde dans l’eau. La BBC a vérifié ces images et a découvert que le navire - qui ne bouge pas – correspond à la forme du navire de migrants en détresse. Les conditions météorologiques correspondent à celles signalées à l’époque. »

      Pourtant, dans le dernier communiqué du 19 juin, les Grecs ne parlent pas d’immobilisation du navire. « Dans la soirée, le navire de patrouille côtière [...] est arrivé dans la région et a repéré [le chalutier] se déplaçant par ses propres moyens, à faible vitesse », maintiennent-ils.

      Et d’insister. Lors des deux ravitaillements, le navire a dans un premier temps poursuivi sa route avant de finalement s’arrêter. « Une fois le processus [de ravitaillement] terminé, les occupants du bateau ont commencé à jeter les fournitures à la mer », notent-ils encore dans leur document.

      « Navire secoué par le vent et les vagues »

      Enfin, à 22h40, les garde-côtes affirment s’être approché du chalutier tout en restant « à distance ». Là encore, ils ne détectent aucun problème de navigation. Et proposent de l’aide au navire en difficulté. « [Le chalutier] s’est de nouveau arrêté quelques minutes à l’approche [de la garde-côtière] puis a continué son chemin ».

      Entre le dernier ravitaillement et l’immobilisation du chalutier - à cause d’une panne mécanique -, une distance d’environ 6 mille nautiques (11 km) a été parcouru. À aucun moment, selon Athènes, le navire n’a donc été immobile.

      À l’échelle de la Méditerranée, ces dizaines de mille nautiques parcourus par le chalutier ne signifie pas qu’il naviguait de plein gré, insiste la BBC. Mais plutôt qu’il se déplaçait à peine « ce que l’on peut attendre d’un navire en détresse secoué par le vent et les vagues dans la partie la plus profonde de la mer Méditerranée », explique la BBC. Selon le média, les garde-côtes auraient donc dû procéder au sauvetage.

      Vers 2h du matin, dans la nuit du mardi à mercredi, le bateau fera naufrage. Le bilan provisoire fait toujours état de 78 morts, et des centaines de disparus.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/49764/naufrage-en-grece--le-bateau-derivait-contrairement-a-la-version-des-g

    • Il video di Frontex e quel barcone stracarico in balia del mare

      Nel video di Frontex il barcone stracarico di migranti in navigazione tra la Libia, da dove era partito quattro giorni prima, e l’Europa. Le immagini sono state registrate il 13 giugno alle ore 9.48 Utc. Il naufragio è avvenuto la notte tra il 13 e il 14 giugno.

      https://www.youtube.com/watch?time_continue=1&v=Drz5OVIkWi0&embeds_referring_origin=https%3A%2F%2Fw

      Salgono a 80 le vittime accertate del tragico naufragio avvenuto a sud del Peloponneso, in Grecia, la settimana scorsa. I soccorsi hanno recuperato i corpi di altri due uomini a largo di Pylos. Le persone tratte in salvo sono ancora 104, mentre mancano all’appello almeno 600 persone, tra cui 100 bambini che al momento del naufragio si trovavano nella stiva. I corpi sono stati trasportati nel porto di Kalamata. Proseguono intanto le ricerche della Guardia costiera.

      Il racconto di un sopravvissuto

      «La Guardia costiera greca ci ha detto che ci avrebbe portato in acque italiane, che ci stavano spingendo. Era una nave da guerra. Poi la nostra barca si è ribaltata. Sono finito in mare, urlavo, non hanno fatto nulla per salvarci. Ho cercato di rimanere a galla per mezz’ora poi quando sono arrivate le barche della Guardia costiera mi sono allontanato perchè avevo paura. Ho visto la luce di una nave commerciale in lontananza e l’ho raggiunta». E’ la testimonianza-choc che sta circolando in queste ore su twitter. Si Tratta di un sopravvissuto siriano che racconta cosa è successo quella notte, fra martedì e mercoledì di una settimana fa, quando il barcone, partito dalla Libia, si è inabissando portandosi dietro almeno 600 persone (fra cui 100 bambini).

      La ricostruzione della Guardia costiera greca
      «In totale, il peschereccio ha percorso una distanza di circa 30 miglia nautiche dal momento del rilevamento al momento dell’affondamento» ha dichiarato la Guardia costiera greca in un comunicato. «Il chiarimento», precisa la nota, arriva a seguito delle «pubblicazioni della stampa internazionale e nazionale» secondo cui il peschereccio sovraffollato non si è mosso per almeno 7 ore prima di capovolgersi. «Nelle ore pomeridiane» di martedì 13 giugno, l’imbarcazione dei migranti «è stata avvicinata da una nave cisterna per fornire assistenza», continua il comunicato della Guardia costiera costiera sul naufragio del peschereccio a largo di Pylos. Nel testo si specifica nuovamente che i migranti a bordo avevano fatto resistenza e che poi il peschereccio si è fermato ed «è iniziato il rifornimento di viveri». Dalle ricostruzioni delle autorità elleniche si legge anche che una seconda nave cisterna si è impegnata ad avvicinarsi all’imbarcazione dei migranti per fornire provviste, ma il peschereccio avrebbe fatto resistenza e si sarebbe spostato verso ovest. Alla fine, la nave cisterna ha iniziato la procedura di rifornimento ma al termine di questa i migranti «hanno iniziato a gettare le provviste in mare». «L’intero processo di rifornimento di provviste agli occupanti del peschereccio da parte delle due navi commerciali è durato in totale più di quattro ore e trenta minuti», aggiunge la Guardia costiera, specificando che «nelle ore serali» è arrivata nella zona una loro motovedetta e «ha avvistato il peschereccio che si muoveva autonomamente, a bassa velocità». Secondo la ricostruzione delle autorità elleniche, la motovedetta «ha avviato una procedura di avvicinamento all’imbarcazione per accertarsi delle condizioni attuali del natante e dei suoi occupanti», mentre «la nave si è fermata di nuovo per alcuni minuti durante l’avvicinamento da parte della motovedetta e poi ha continuato la sua rotta».
      «Dal momento in cui è stato completato il processo di rifornimento fino all’immobilizzazione del peschereccio a causa di un guasto meccanico, il peschereccio ha percorso una distanza di circa 6 miglia nautiche» conclude la Guardia costiera greca.

      Islamabad: 300 cittadini pachistani annegati a Pylos
      Più di 300 pachistani sono annegati nel naufragio del peschereccio al largo delle coste greche del Peloponneso: il numero delle vittime è stato reso noto dal presidente del Senato di Islamabad Muhammad Sadiq Sanjrani inviando le condoglianze alle famiglie. Lo scrive la Cnn. «I nostri pensieri e le nostre preghiere sono con voi e preghiamo che le anime defunte trovino la pace eterna», ha detto Sanjrani. «Questo devastante incidente sottolinea l’urgenza di affrontare e condannare l’esecrabile traffico illegale di esseri umani». Le autorità greche non hanno ancora confermato il bilancio delle vittime pakistane.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/naufragio-in-grecia-la-versione-dei-greci

    • A survivor of #Pylos shipwreck shared harrowing details:

      ➡️Two people died from thirst and hunger on the 4th and 5th days of the journey
      ➡️On the 4th day, people started drinking from the boat engine’s water. On the 5th day, a state of “slow death” was announced

      ➡️On 16 June, they started calling for any coastguard as they didn’t know they were in the Greek waters.
      ➡️A luxury yacht provided 4 boxes of water for almost 750 people & this created tension between people due to thirst.

      ➡️A giant Greek ship threw ropes to people & towed the boat. Then, they started throwing water bottles at them leading to an imbalance in the boat
      ➡️The boat started sinking. We started to beg to be rescued and showed them the dead bodies but the ship wasn’t qualified for rescue

      ➡️Around sunset, a Greek military ship with masked people wearing black approached, towed them with only one blue robe & increased their ship’s speed
      ➡️That was when the ship capsized. People started shouting as they sink. People on the Greek military ship were just watching
      Full testimony here:
      https://www.youtube.com/watch?v=IOzLIXa1cQ8

      https://twitter.com/ecre/status/1670739249417560064

    • I superstiti del naufragio di Pylos accusano la Guardia costiera greca

      Nella notte tra il 13 e il 14 giugno le autorità greche avrebbero tentato di trainare il peschereccio partito dalla Libia con a bordo oltre 700 persone, provocandone l’inabissamento. Le testimonianze dei sopravvissuti, confinati subito dopo aver toccato terra, smontano la versione di Atene. Le vittime sarebbero almeno 643

      Secondo diverse testimonianze dei sopravvissuti il peschereccio con oltre 700 persone a bordo è affondato al largo delle coste greche, nelle prime ore di mercoledì 21 giugno, durante un tentativo fallito di rimorchio da parte della Guardia costiera greca. L’accusa è contenuta nelle dichiarazioni rilasciate da alcuni naufraghi all’autorità giudiziaria di Kalamata, città meridionale greca –visionate dall’Ap news (https://apnews.com/article/greece-migrant-shipwreck-smugglers-9daf86915e8bd89a1697dd1ee75504ac) e dal quotidiano ellenico Kathimerini- che smentiscono la versione delle autorità greche secondo cui la barca non sarebbe stata scortata nelle sue ultime ore di navigazione e non ci sarebbe stato alcun tentativo di abbordarla.

      “La nave greca ha gettato una corda ed è stata legata alla nostra prua -ha spiegato Abdul Rahman Alhaz, 24 anni, palestinese che è riuscito a salvarsi-. Dopo hanno iniziato a muoversi e a tirare, per poco più di due minuti. Noi gridavamo ‘Stop, stop’ perché la barca era sovraccarica. Poi ha cominciato a inclinarsi”.

      L’inabissamento del peschereccio partito dalla Libia avrebbe provocato almeno 643 vittime, secondo quanto è stato possibile ricostruire dalle testimonianze dei 104 sopravvissuti. Sarebbero 100 i bambini, sempre secondo i racconti di chi si è salvato dal naufragio, che con le donne erano stipati nella stiva della nave. Sulle dinamiche dell’incidente, però, fin da subito erano emersi versioni contrastanti.

      Un’inchiesta realizzata dalla BBC (https://www.bbc.com/news/world-europe-65942426) mostra che il peschereccio sovraffollato non si è mosso per almeno sette ore prima di capovolgersi mentre la guardia costiera, invece, nel comunicato stampa rilasciato successivamente al naufragio sottolinea che dalle 15.30 all’1.40 la navigazione è proseguita a “velocità e rotta costante”. La versione della BBC si basa sui dati di Marin traffic, che traccia i movimenti delle imbarcazioni nel Mediterraneo, e che confermerebbe che le navi inviate dalle autorità greche per fornire supporto all’imbarcazione carica di naufraghi siano intervenute tutte nella stessa zona e che quindi la nave avrebbe percorso “meno di poche miglia nautiche, come ci si può aspettare da una nave colpita dal vento o dalle onde nella parte più profonda del Mar Mediterraneo”. Inoltre, sempre secondo la testata inglese, la foto dell’imbarcazione pubblicata dai guardacoste ellenici giovedì 15 giugno, riferita a poche ore prima del capovolgimento, dimostra che la nave era ferma e soprattutto smentisce la versione secondo cui le stesse autorità “avevano osservato da una distanza discreta il susseguirsi dei fatti”.

      “Abbiamo lanciato una richiesta di soccorso il giorno prima del naufragio verso le 8 del mattino -ha raccontato un sopravvissuto alla Ong Consolidated rescue group- (https://www.youtube.com/watch?v=IOzLIXa1cQ8

      ). Non sapevamo neanche che fossimo in Grecia”. Alle 9.47 del mattino Frontex, l’Agenzia che sorveglia le frontiere europee, ha comunicato alle autorità italiane e greche la presenza di un peschereccio sovraffollato e la Centrale operativa di Roma intorno alle 11 ha comunicato la posizione della nave, nel Sud del Peloponneso, al centro operativo di Atene. Alle 13.50 da Mitilini si è alzato un elicottero della Guardia costiera greca diretto verso il peschereccio, raggiunto verso le 15.35. Le stesse autorità greche, intanto, stavano chiedendo alle imbarcazioni che navigavano nell’area di cambiare rotta. “Una barca ci ha rifornito di quattro boxes d’acqua da sei bottiglie l’una: le persone si colpivano per prenderla -continua il sopravvissuto-. Questa nave ci ha lanciato una corda per avvicinarci ma ci ha detto che non era loro compito salvarci e che presto sarebbe arrivata la Guardia costiera”. La situazione a bordo era tesa, racconta sempre l’uomo intervistato dal Consolidated rescue group, al quarto giorno di navigazione non c’era né acqua né cibo, due persone erano morte e giacevano sul vascello: al quinto giorno, quello precedente al naufragio, qualcuno beveva dal motore perché l’acqua era finita. Ma anche nel racconto dell’uomo quello che succede al calar del sole di martedì scorso, dopo l’intervento delle navi civili, ripercorre le testimonianze di decine di altri naufraghi. “La Guardia costiera, una volta arrivata, ci ha detto di seguirli così l’Italia ci avrebbe salvato. Lo abbiamo fatto per mezz’ora, poi il motore si è rotto. Erano vestiti di nero e mascherati, senza segni militari. Ci hanno tirati con una corta e poi sono ripartiti, la nave ha perso stabilità e poco dopo è affondata”.

      Da Atene le autorità hanno dichiarato che i naufraghi hanno più volte rifiutato il loro intervento perché volevano proseguire verso l’Italia. Diverse testimonianze dei naufraghi smentiscono questa versione. Nawal Soufi, attivista rifugiata indipendente che quel giorno ha lanciato per prima l’Sos per la barca in avaria, ha dichiarato di essere stata in contatto con le persone sulla barca fino alle 23 di martedì. “L’uomo con cui stavo parlando mi ha detto espressamente: ‘Sento che questa sarà la nostra ultima notte viva’”, ha scritto. Poco prima di mezzanotte il motore si è spento.

      El Pais (https://english.elpais.com/international/2023-06-20/greece-imposes-silence-around-shipwreck-of-overcrowded-migrant-boat.) ha accusato le autorità greche di “imporre il silenzio” ai sopravvissuti al naufragio. Durante la loro permanenza nel porto di Kalamata, i 104 naufraghi avevano infatti mobilità limitata e scarso accesso alle comunicazioni: la Guardia costiera, secondo quanto ricostruito dal quotidiano spagnolo, li avrebbe confinati all’interno di un complesso recintato da cui non è stato permesso loro di uscire. Successivamente, venerdì 16 giugno, sono stati trasferiti a Malakasa, un campo per richiedenti asilo vicino ad Atene. Ma anche in questa nuova sistemazione la possibilità di uscire e avere contatti con l’esterno è risultata limitata

      Intanto martedì 20 giugno il tribunale di Kalamata ha convalidato l’arresto di nove uomini di origine egiziana accusati di essere i membri dell’equipaggio: omicidio colposo, naufragio e partecipazione a un’organizzazione criminale sono i capi d’accusa. L’avvocato Athanassios Iliopoulos, che rappresenta un presunto trafficante di 22 anni, ha dichiarato all’Associated Press che tutti e nove i sospettati hanno negato le accuse in tribunale affermando di essere essi stessi naufraghi. Iliopoulos ha detto che il suo cliente ha riferito di aver venduto il suo camion preso in prestito dai suoi genitori per raccogliere 4.500 euro per il viaggio. Anche in Pakistan, dove è stato proclamato il lutto nazionale per le vittime del naufragio, l’ufficio del primo ministro Shehbaz Sharif ha annunciato che sono state arrestate dieci persone accusate di far parte dell’organizzazione. “Intensificheremo gli sforzi nella lotta contro le persone coinvolte nell’atroce crimine della tratta di esseri umani”, ha dichiarato il capo del governo. Per la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen “è urgente agire”, sottolineando che l’Ue dovrebbe aiutare i Paesi africani come la Tunisia, da cui molte persone partono, a stabilizzare le loro economie. Non ha in questo caso menzionato la Libia, luogo da cui il peschereccio del naufragio è partito.

      La Grecia è stata più volte accusata di violare sui propri confini le norme sul salvataggio in mare e i diritti delle persone in transito. A maggio 2023 un’inchiesta del New York Times ha mostrato, con tanto di video ad alta definizione, le autorità greche riportare indietro verso le coste turche decine di profughi già arrivati sul territorio, tra cui anche bambini, lasciando alla deriva l’imbarcazione. Altro che attività di search and rescue. Il portale di inchiesta Solomon (https://wearesolomon.com/mag/focus-area/migration/just-007-of-819m-border-budget-to-greece-earmarked-for-search-and-resc) ha ricostruito come degli 819 milioni di euro forniti ad Atene all’interno del “Fondo di gestione delle frontiere europee” appena lo 0,07% (neanche 600mila euro) sarà destinato allo sviluppo delle attività di ricerca e soccorso in mare. La maggior parte del denaro riguarda invece l’approvvigionamento di attrezzature di deterrenza come droni, veicoli di ogni tipo, termocamere, elicotteri e sistemi di sorveglianza automatizzati. Tutto ciò che non è servito per salvare 640 persone.

      https://altreconomia.it/i-superstiti-del-naufragio-di-pylos-accusano-la-guardia-costiera-greca

    • Greece shipwreck survivors were ’abandoned for 10 minutes’

      Survivors of the June 14 shipwreck off Greece have made serious accusations against the country’s Coast Guard in witness statements.

      Statements gathered from some of the 104 survivors of a recent shipwreck off Greece contain serious accusations against the Greek Coast Guard.

      Search operations for more corpses continue after the fishing vessel, which is believed to have been carrying up to 800 migrants, capsized last week south of Greece’s Peloponnese.
      Survivors blame Greek Coast Guard

      “When the ship capsized, the Coast Guard cut the rope and continued on its way. It went farther away as we were all screaming. After 10 minutes, they came back with small boats to pick up people but they did not go as far as the ship itself. They only picked up those who managed to swim away,” one survivor told the Greek newspaper Kathimerini, recounting the last minutes of shipwreck that left at least 82 dead and hundreds missing.

      Surviving witnesses have been questioned by the Kalamata port authority.

      Every person interviewed confirmed — with slight variations in their reconstructions — that the shipwreck had been caused by a Greek Coast Guard patrol boat.

      One of the survivors said the Coast Guard’s attempt to tow the overcrowded fishing vessel created turbulence in the water that eventually caused the ship to capsize.

      “They tried to pull it using force for two or three minutes and everyone whistled to try to make them stop, since they were pulling it strongly and creating waves,” one said.

      Another added that, “for the first few minutes we went forward, but then the Coast Guard turned to the right and the ship overturned.”
      Polemics inflame political conflict prior to vote

      These witness statements run counter to the Coast Guard’s official version. Captains aboard the patrol boat say they only hooked up to the vessel for a few minutes to check the situation onboard before the ship wrecked.

      The situation has inflamed political conflict ahead of Greece’s government elections, which will be held Sunday.

      https://www.infomigrants.net/en/post/49846/greece-shipwreck-survivors-were-abandoned-for-10-minutes

    • They knew the boat could sink. Boarding it didn’t feel like a choice.

      The story of how as many as 750 migrants came to board a rickety blue fishing trawler and end up in one of the Mediterranean’s deadliest shipwrecks is bigger than any one of the victims. But for everyone, it started somewhere, and for #Thaer_Khalid_al-Rahal it started with cancer.

      The leukemia diagnosis for his youngest son, 4-year-old Khalid, came early last year. The family had been living in a Jordanian refugee camp for a decade, waiting for official resettlement after fleeing Syria’s bitter war, and doctors said the United Nations’ refugee agency could help cover treatment costs. But agency funds dwindled and the child’s case worsened. When doctors said Khalid needed a bone-marrow transplant, the father confided in relatives that waiting to relocate through official channels was no longer an option. He needed to get to Europe to earn money and save his son.

      “Thaer thought he didn’t have a choice,” said his cousin, Abdulrahman Yousif al-Rahal, reached by phone in the Jordanian refugee camp of Zaatari.

      In Egypt, the journey for #Mohamed_Abdelnasser, 27, started with a creeping realization that his carpentry work could not earn enough to support his wife and two sons.

      For #Matloob_Hussain, 42, it began the day his Greek residency renewal was rejected, sending him back to Pakistan, where his salary helped put food on the table for 20 extended family members amid a crippling economic crisis.

      “Europe doesn’t understand,” said his brother Adiil Hussain, interviewed in Greece where they had lived together. “We don’t leave because we want to. There is simply nothing for us in Pakistan.”

      On Matloob’s earlier journey to Europe, he had been so scared of the water that he kept his eyes closed the whole time. This time, the smugglers promised him they would take him to Italy. They said they would use “a good boat.”

      The trawler left from the Libyan port city of #Tobruk on June 8. Just 104 survivors have reached the Greek mainland. Eighty-two bodies have been recovered, and hundreds more have been swallowed by the sea.

      As the Mediterranean became a stage for tragedy on June 14, a billionaire and several businessmen were preparing for their own voyage in the North Atlantic. The disappearance of their submersible as it dove toward the wreckage of the Titanic sparked a no-expenses-spared search-and-rescue mission and rolling headlines. The ship packed with refugees and migrants did not.

      About half the passengers are believed to have been from Pakistan. The country’s interior minister said Friday that an estimated 350 Pakistanis were on board, and that many may have died. Of the survivors from the boat, 47 are Syrian, 43 Egyptian, 12 Pakistani and two Palestinian.

      Some of the people on the trawler were escaping war. Many were family breadwinners, putting their own lives on the line to help others back home. Some were children. A list of the missing from two towns in the Nile Delta carries 43 names. Almost half of them are under 18 years old.

      This account of what pushed them to risk a notoriously dangerous crossing is based on interviews with survivors in Greece and relatives of the dead in Pakistan, Jordan and Egypt, as the news sent ripples of distress throughout communities from North Africa to South Asia. Some people spoke on the condition of anonymity, because they feared being drawn into government crackdowns on human smuggling networks.

      Rahal’s family said they do not know how he contacted the smugglers in Libya, but remember watching as he creased under the fatigue and shame of having to ask anyone he could for the thousands of dollars they were requesting for safe passage to Italy.

      Thirteen men left from El Na’amna village, south of the Egyptian capital, Cairo, in the hope of achieving the same. Ten miles away in Ibrash, another village, Abdelnasser left the house as he usually did for his 2 a.m. factory shift but joined a packed car to Libya instead, along with 29 other young men and boys. “He told us nothing,” said his father, Amr. “We would have stopped him.”

      Many of the families said the departures caught them by surprise and that local intermediaries working for the smugglers later communicated with relatives in Egypt to gather the requested funds.

      In El Na’amna, several people said the figure was $4,500 per person — a sum impossibly high for most rural Egyptians. In Ibrash, Abdelnasser’s uncle said, two of the delegates who arrived to collect the money were disguised in women’s dress. Another woman did the talking. She collected the money, photographed receipts, and then told the family that the deal was done.

      ‘He said the boat was very bad’

      The time spent waiting in Libya was harder than the migrants expected, said family members who spoke with them throughout that period. The port city of Tobruk had become a transit hub for people, and the migrants reported that the smugglers treated them like goods to be traded. The lucky ones rented cramped apartments where they could wait near the bright blue sea.

      Travelers who had arranged to meet their intermediaries in the city of Benghazi were transported in large refrigerator trucks to the desert. One survivor described a house there “with a big yard and big walls and people at the door with guns.” It was so busy that people slept in the yard outside. Inside, a 24-year-old Pakistani migrant, Bilal Hassan, tried to lighten the mood by reciting Punjabi poetry. He is smiling in the video he sent his family, but other men in the room look tense.

      Some migrants told their families they were getting anxious and didn’t trust their smugglers. Others sent brief messages to reassure and say that they were fine.

      Rahal spoke to his wife, Nermin, every day. A month passed with no news of onward passage and his mood darkened. He worried about Khalid. In Jordan, the boy kept asking when he would see his father again. “I don’t know,” Rahal texted in reply. When one smuggler’s offer fell through, he found another who promised to get the job done faster. In voice messages to his cousin, he sounded tired.

      “I’ll manage to get the money,” he said.

      His last call to his wife was June 8. Men from the smuggling network were yelling at the migrants to pack together as closely as possible in rubber dinghies that would take them to the trawler. Up ahead, the blue fishing boat looked like it was already full.

      Matloob Hussein, the Pakistani who had lived in Greece, called his brother from the trawler. “He said the boat was very bad,” Adiil recounted. “He said they had loaded people on the boat like cattle. He said he was below deck and that he preferred it so he didn’t have to see that he was surrounded by water.”

      When Adiil asked why his brother hadn’t refused to board, Matloob said the smugglers had guns and knives. As the boat pulled out of Tobruk’s concrete port, he told Adiil he was turning his phone off — he did not expect to have a signal again until they arrived.

      After the calls to loved ones stopped, from the foothills of Kashmir to the villages of the Nile Delta, families held their breath.

      It felt, said one relative, like a film that had just stopped halfway through.

      In hometowns and villages, waiting for news

      News of the blue trawler’s capsize trickled out on the morning of June 14. The coast guard’s initial report said that at least 17 people had drowned while noting that more than 100 had been saved. On the Greek mainland, relatives waited for updates in the baking sun outside a migrant reception center. Back in hometowns and villages, some people kept their cellphones plugged into the power sockets so they did not risk missing a call.

      The residents of El Na’amna and Ibrash didn’t know what to do. Police arrested a local smuggler but provided no updates on the whereabouts of the missing. Rumors swirled that most were dead. The mother of 23-year-old Amr Elsayed described a grief so full that she felt as if she were burning.

      A Pakistani community leader in Greece, Javed Aslam, said he was in direct contact with more than 200 families asking for news. Accounts from survivors suggested that almost all the Pakistani passengers, along with many women and children, had been stuck on the lower levels of the boat as it went down.

      Adiil came looking for his brother. He was turned away from the hospital where survivors had been treated, but left his details anyway. Outside the Malakasa reception center, where the survivors were staying, 15 miles north of Athens, several Pakistanis seemed to know Matloob as “the man in the yellow T-shirt.” No one had seen him since the wreck.

      Perhaps it was crazy, Adiil said Thursday, but somehow he still had hope. He had registered his DNA with the local authorities and he had spoken to other families there every day. Now he didn’t know what to do with himself. His eyes were red from crying. He carried creased photographs of his brother in his pocket.

      In one image, Matloob is standing with his dark-eyed daughter, 10-year-old Arfa. Adiil had told the girl that her father was in the hospital, but that fiction was weighing more on him by the day as she kept asking why they couldn’t speak.

      Khalid had been asking for his father, too, but no one knew how to make a 4-year-old understand something they barely understood themselves.

      Nermin, relatives said, was “in bad shape.” She had a funeral to organize without a body. But first she had to take Khalid to the hospital for his biopsy, to learn how far the cancer had spread.

      https://www.washingtonpost.com/world/2023/06/24/greek-migrant-boat-victims

    • ‘If they had left us be, we wouldn’t have drowned:’ CNN investigation raises questions about Greek coast guard’s account of shipwreck tragedy

      The hull of the fishing trawler lifted out of the water as it sank, catapulting people from the top deck into the black sea below. In the darkness, they grabbed onto whatever they could to stay afloat, pushing each other underwater in a frantic fight for survival. Some were screaming, many began to recite their final prayers.

      “I can still hear the voice of a woman calling out for help,” one survivor of the migrant boat disaster off the coast of Greece told CNN. “You’d swim and move floating bodies out of your way.”

      With hundreds of people still missing after the overloaded vessel capsized in the Mediterranean on June 14, the testimonies of those who were onboard paint a picture of chaos and desperation. They also call into question the Greek coast guard’s version of events, suggesting more lives could have been saved, and may even point to fault on the part of Greek authorities.

      Rights groups allege the tragedy is both further evidence and a result of a new pattern in illegal pushbacks of migrant boats to other nations’ waters, with deadly consequences.

      This boat was carrying up to 750 Pakistani, Syrian, Egyptian and Palestinian refugees and migrants. Only 104 people have been rescued alive.

      CNN has interviewed multiple survivors of the shipwreck and their relatives, all of whom have wished to remain anonymous for security reasons and the fear of retribution from authorities in both Greece and at home.

      One survivor from Syria, whom CNN is identifying as Rami, described how a Greek coast guard vessel approached the trawler multiple times to try to attach a rope to tow the ship, with disastrous results.

      “The third time they towed us, the boat swayed to the right and everyone was screaming, people began falling into the sea, and the boat capsized and no one saw anyone anymore,” he said. “Brothers were separated, cousins were separated.”

      Another Syrian man, identified as Mostafa, also believes it was the maneuver by the coast guard that caused the disaster. “The Greek captain pulled us too fast, it was extremely fast, this caused our boat to sink,” he said.

      The Hellenic Coast Guard has repeatedly denied attempting to tow the vessel. An official investigation into the cause of the tragedy is still ongoing.

      Coast guard spokesman Nikos Alexiou told CNN over the phone last week: “When the boat capsized, we were not even next to (the) boat. How could we be towing it?” Instead, he insisted they had only been “observing at a close distance” and that “a shift in weight probably caused by panic” had caused the boat to tip.

      The Hellenic Coast Guard has declined to answer CNN’s specific requests for response to the survivor testimonies.

      Direct accounts from those who survived the wreck have been limited, due to their concerns about speaking out and the media having little access to the survivors. CNN interviewed Rami and Mostafa outside the Malakasa migrant camp near Athens, where journalists are not permitted entry.

      The Syrian men said the conditions on board the migrant boat deteriorated fast in the more than five days after it set off from Tobruk, Libya, in route to Italy. They had run out of water and had resorted to drinking from storage bottles that people had urinated in.

      “People were dying. People were fainting. We used a rope to dip clothes into the sea and use that to squeeze water on people who had lost consciousness,” Rami said.

      CNN’s analysis of marine traffic data, combined with information from NGOs, merchant vessels and the European Union border patrol agency, Frontex, suggests that Greek authorities were aware of the distressed vessel for at least 13 hours before it eventually sank early on June 14.

      The Greek coast guard has maintained that people onboard the trawler had refused rescue and insisted they wanted to continue their journey to Italy. But survivors, relatives and activists say they had asked for help multiple times.

      Earlier in the day, other ships tried to help the trawler. Directed by the Greek coast guard, two merchant vessels – Lucky Sailor and Faithful Warrior – approached the boat between 6 and 9 p.m. on June 13 to offer supplies, according to marine traffic data and the logs of those ships. But according to survivors this only caused more havoc onboard.

      “Fights broke out over food and water, people were screaming and shouting,” Mostafa said. “If it wasn’t for people trying to calm the situation down, the boat was on the verge of sinking several times.”

      By early evening, six people had already died onboard, according to an audio recording reviewed by CNN from Italian activist Nawal Soufi, who took a distress call from the migrant boat at around 7 p.m. Soufi’s communication with the vessel also corroborated Mostafa’s account that people moved from one side of the boat to the other after water bottles were passed from the cargo ships, causing it to sway dangerously.

      The haunting final words sent from the migrant boat came just minutes before it capsized. According to a timeline published by NGO Alarm Phone they received a call, at around 1:45 a.m., with the words “Hello my friend… The ship you send is…” Then the call cuts out.

      The coast guard says the vessel began to sink at around 2 a.m.

      The next known activity in the area, according to marine traffic data, was the arrival of a cluster of vessels starting around 3 a.m. The Mayan Queen superyacht was the first on the scene for what soon became a mass rescue operation.

      A responsibility to rescue

      Human rights groups say the authorities had a duty to act to save lives, regardless of what people on board were saying to the coast guard before the migrant boat capsized.

      “The boat was overcrowded, was unseaworthy and should have been rescued and people taken to safety, that’s quite clear,” UNHCR Special Envoy for the Central Mediterranean Vincent Cochetel told CNN in an interview. “There was a responsibility for the Greek authorities to coordinate a rescue to bring those people safely to land.”

      Cochetel also pointed to a growing trend by countries, including Greece, to assist migrant boats in leaving their waters. “That’s a practice we’ve seen in recent months. Some coastal states provide food, provide water, sometimes life jackets, sometimes even fuel to allow such boats to continue to only one destination: Italy. And that’s not fair, Italy cannot cope with that responsibility alone.”

      Survivors who say the coast guard tried to tow their boat say they don’t know what the aim was.

      There have been multiple documented examples in recent years of Greek patrol boats engaging in so-called “pushbacks” of migrant vessels from Greek waters in recent years, including in a CNN investigation in 2020.

      “It looks like what the Greeks have been doing since March 2020 as a matter of policy, which is pushbacks and trying to tow a boat to another country’s water in order to avoid the legal responsibility to rescue,” Omer Shatz, legal director of NGO Front-LEX, told CNN. “Because rescue means disembarkation and disembarkation means processing of asylum requests.”

      Pushbacks are state measures aimed at forcing refugees and migrants out of their territory, while impeding access to legal and procedural frameworks, according to the Berlin-based European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR). They are a violation of international law, as well as European regulations.

      And such measures do not appear to have deterred human traffickers whose businesses prey on vulnerable and desperate migrants.

      In an interview with CNN last month, then Greek Prime Minister Kyriakos Mitsotakis denied that his country engaged in intentional pushbacks and described them as a “completely unacceptable practice.” Mitsotakis is widely expected to win a second term in office in Sunday’s election, after failing to get an outright majority in a vote last month.

      A series of Greek governments have been criticized for their handling of migration policy, including conditions in migrant camps, particularly following the 2015-16 refugee crisis, when more than 1 million people entered Europe through the country.

      For those who lived through last week’s sinking, the harrowing experience will never be forgotten.

      Mostafa and Rami both say they wish they had never made the journey, despite the fact they are now in Europe and are able to claim asylum.

      Most of all, Mostafa says, he wishes the Greek coast guard had never approached their boat: “If they had left us be, we wouldn’t have drowned.”

      https://edition.cnn.com/2023/06/23/europe/greece-migrant-boat-disaster-investigation-intl-cmd/index.html
      #témoignage

    • Greece shipwreck survivors faced ’unacceptable’ conditions on arrival in country

      NGOs say survivors of sinking are being held in a closed centre with limited access to psychological support

      Survivors of the Pylos shipwreck, which has left an estimated 500 people missing, faced an “unacceptable” reception in Greece and continue to be held in conditions unsuitable for vulnerable people, NGO workers say.

      The overloaded fishing trawler carrying an estimated 750 people capsized and sank in front of the Greek coastguard last week, following an allegedly botched attempt by the coastguard to tow the vessel.

      The survivors, put at 104 and all men - as no women or children are said to have survived the wreck - were taken to Kalamata, a city on the Peloponnese peninsula, where they were kept in a storage warehouse for two to three days before being transferred to an asylum registration facility at Malakasa, north of Athens.

      “We witnessed an unacceptable reception of extremely vulnerable people in Kalamata,” Eleni Spathanaa, a volunteer lawyer for Refugee Support Aegean, an organisation providing legal advice for the survivors of the wreck, told Middle East Eye.

      Survivors slept on mattresses on the warehouse floor, and the area around it was ringed with fencing. A video posted on Twitter showed a Syrian teenager attempting to embrace his brother through the bars.

      According to Spathanaa, in the first few days no concerted effort was made by authorities to facilitate contact with the survivors’ families, although the Greek Red Cross was providing some access to mobile phones.

      A suffocating experience

      The survivors were transported to a registration facility in Malakasa on 16 and 17 June.

      According to Spathanaa, conditions at #Malakasa are not much of an improvement on those at Kalamata. Survivors are housed in shared shipping containers, and, as at #Kalamata, the facility is ring-fenced, with access severely restricted.

      The prison-like conditions came as a shock.

      “We witnessed... people devastated [and in] shock. They could not even understand where they were,” said Spathanaa. "I could not understand why they were put in a closed centre. Of course, these conditions are not suitable for people who have just survived a shipwreck.

      “These people were [contained], after such a suffocating experience - all of them have lost friends, some of them close relatives... they cannot even conceive what has happened.”

      According to Spathanaa, some of the survivors’ basic needs are not being met at the facility, with some reporting that requests for extra clothing to keep warm at night have been refused. Requests for tea, coffee and cigarettes were also reportedly denied.

      Spathanaa and her colleagues also found that, despite suffering from acute distress, the survivors were being “fast-tracked” through the process of registration for asylum applications.

      “This was quite problematic because most of the people [we met] had not even seen a lawyer before passing through this process,” she said.

      Emergency psychological and medical aid at the facility is being provided by the NGO Doctors Without Borders (MSF). “We saw a lot of distress,” MSF head of mission Sonia Balleron told MEE. “The medical team is clear that [the survivors] are all potentially at risk of PTSD [post-traumatic stress disorder].”

      The team have reported treating chemical burns, injuries from exposure to the sun and sea water, as well as hypo-glycaemic shock (the effect of low blood sugar), due to the people aboard the boat being deprived of food for up to six days.

      According to Balleron, many of the survivors are suffering from sleep disorders and night terrors in the wake of the disaster.

      “What we hear mostly... is people [recalling] seeing their friends dying in front of their eyes,” said Balleron. “They also talk about not knowing who survived and who died, which is causing a lot of stress. Families are calling a lot to try to understand if their relatives are among the survivors or not.”
      A political choice

      For Spathanaa, the conditions experienced by the survivors of the wreck on arrival in Kalamata and Malakasa are no accident, but a “political choice”.

      At the end of 2022, the ESTIA accommodation scheme, an EU funded housing programme for vulnerable asylum seekers, was terminated. The programme, which was started in 2015, was intended to assist families with children, people with disabilities and survivors of torture with suitable housing and medical care.

      When it closed on 16 December, vulnerable asylum seekers were transferred from ESTIA accommodation to remote camps with as little as 24 hours’ notice. Human rights groups warned that the curtailment of the scheme could exacerbate isolation of asylum seekers and “re-traumatise” survivors of violence and torture.

      “We have these vulnerable survivors, and we don’t have the option of sheltering them in dignified and suitable conditions,” said Spathanaa. “I don’t think if the shipwreck’s passengers were tourists, that they would treat them like that. They wouldn’t put them in a warehouse.”

      This is not lost on the international community. Social media posts in the wake of the disaster have highlighted the discrepancy in the efforts by the Greek coastguard to prevent last week’s wreck with the resources expended on recovering the missing Titan submarine in the Atlantic Ocean.

      Widespread protests in Greece over the authorities’ inaction to the disaster have also highlighted the inequities that play out in the waters of the Mediterranean: on 18 June, two cruise ships were greeted at Thessaloniki port with a banner reading: “Tourists enjoy your cruise in Europe’s biggest migrants cemetery.”

      https://www.middleeasteye.net/news/greece-shipwreck-survivors-unacceptable-conditions-upon-arrival
      #emprisonnement #survivants

    • On the night of June 14, Captain Richard Kirkby is piloting the Mayan Queen IV, a luxury yacht belonging to a Mexican multibillionaire, through the calm, black waters of the Mediterranean when he receives an emergency call. “Ship sinking. Large number of people. Vessels in the vicinity are requested to initiate search and rescue operations.” The crew hears the screams from people drowning before they can see them.

      The shipwreck that takes place that night would turn out to be the deadliest in the Mediterranean in many years. Around 750 people are thought to have been on board the fishing boat that went down off the coast of the Peloponnese. When the Mayan Queen IV reaches the site at 2:55 a.m., only the lights of another ship can be seen. They belong to the Greek Coast Guard, vessel LS 920 – according to investigation files that DER SPIEGEL and its partners have acquired.

      But the Greeks cannot be reached via radio. So three crew members from the Mayan Queen IV climb into a life boat and start searching for survivors, constantly heading toward the cries for help. They stay as quiet as they can so as not to miss a single voice. Ultimately, they will pull 15 people out of the water.

      Early in the morning, the Greek Coast Guard requests permission to bring additional survivors on board. The Greek vessel is too small to safely bring all the survivors to shore. But the Mayan Queen IV – a ship with four decks, tinted windows and a helicopter landing pad – is large enough. At 7:20 a.m., the yacht sets course for Kalamata. On board are 100 of a total of 104 survivors – migrants wrapped in silver emergency blankets cowering where the super-rich are normally sunning themselves.
      Survivors if the shipwreck in the port of Kalamata: “Ship sinking. Large number of people.”

      Hundreds of refugees don’t survive this night – despite the fact that the Greek Coast Guard arrived at the site several hours before the accident. As early as the morning of the previous day, an Italian agency had sent them a warning and a non-governmental organization had forwarded an SOS from the fishing boat. Even the European Union border control agency Frontex had identified the ship’s plight and offered additional assistance. How can it be that hundreds of migrants died anyway? It is a question that has plagued the Greek Coast Guard for the last two weeks.

      The accusations that survivors have leveled at the Greeks are serious: Did the Coast Guard leave the people to their fate for too long? Were they trying to pull the ship into Italian waters – as some testimony seems to indicate? Perhaps to keep hundreds of migrants from landing in Greece?

      A team of reporters from DER SPIEGEL joined forces with the nonprofit newsroom Lighthouse Reports, investigative journalism consortium Reporters United, the Spanish newspaper El País, the Syrian investigative reporting outlet Siraj and the German public broadcaster ARD to explore these questions. The reporters interviewed survivors, many of whom had already turned to the aid organization Consolidated Rescue Group. They examined leaked investigative reports, videos and geodata and spoke with sources inside Frontex.

      The reporting indicates that, at the very least, the Greek Coast Guard may have made grave errors. Sixteen refugees have accused the Greeks, for example, of causing the fishing boat to capsize, while seven are convinced that Greek rescue attempts were hesitant at best – which would mean they were willing to accept the deaths of hundreds of people. There are also serious doubts about the willingness of Greek authorities to thoroughly investigate the disaster. The leaked investigation reports raise questions as to whether Greek officials may have altered testimony in their favor.

      One of those who survived, we’ll call him Manhal Abdulkareem, tells his story in mid-June from the Greek camp Malakasa. He requests that we not use his real name or even describe him out of fear of how the Greek authorities might react. What he has to say does not paint them in a positive light.

      The Syrian once worked as a stonemason in Jordan. Last spring, he decided to risk the crossing to Italy. He traveled to Libya and boarded the vessel in the port city of Tobruk on June 9. Abdulkareem is one of hundreds of people who crowded onto the vessel, and he was one of the lucky ones: He was able to buy himself a place on deck. Later, it would save his life.

      Other refugees crowded into the boat’s cold storage room. According to survivors, women and children were below decks, many of them from Pakistan. For them, the belly of the ship would turn into a coffin.

      Abdulkareem’s account of the initial days onboard the ship is consistent with the stories told by other survivors. He says that they began running out of water on the third of five days onboard, that the motor cut out on several occasions and that the captain seemed to have lost his orientation. The goal of reaching Italy was more distant than ever.

      The Greek Coast Guard was also aware of the dire situation onboard the fishing boat. On the morning of June 13, they received the first warning from the Italian Coast Guard. Frontex agents filmed the ship from the air at midday. At 5:13 p.m. local time, the non-governmental organization Alarmphone wrote an email to the Greek authorities. The email noted that there were 750 people on the ship. “They are requesting urgent assistance.”

      At the time of the call for help, the fishing vessel was around 80 kilometers (50 miles) off the coast of the Peloponnese. Nevertheless, the Greek Coast Guard sent a ship that was anchored in far-away Crete.

      At least two freighters supplied the fishing vessel with water, but they didn’t take anyone onboard. Abdulkareem and other survivors say that by this point, two passengers on the boat had already died. The Greek Coast Guard ship only arrived at 10:40 p.m.

      There are two versions for what then took place.

      Manhal Abdulkareem reports that the Greek Coast Guard escorted their ship for a time, until the fishing boat’s engine again cut out. Then, he says, the Coast Guard attached a rope to the vessel. “We thought they knew what they were doing,” says Abdulkareem.

      The Coast Guard, he says, towed the vessel at a rapid speed, first to the right, then the left, and then back to the right – and then it capsized. Fifteen additional survivors tell a similar story. Some believe the behavior of the Coast Guard was accidental. Others think it was intentional.

      When the vessel capsized, there were people trapped inside its hull. One survivor says he heard them knocking. Those who were on deck jumped into the water. “People were falling on us,” says one man from Egypt. Some clung to the sinking vessel, while others grabbed in a panic for anything that was floating, including other people.

      “I know how to swim, but that wasn’t enough,” Abdulkareem would later say. He says he had to avoid others so that he wouldn’t be pulled down into the depths. Four survivors say that the Coast Guard put those in the water in even greater danger by maneuvering in such a way that created large waves.

      While still in the water, Abdulkareem began searching for his brother, but was unable to find him. As the vessel was sinking, say survivors, the Greek Coast Guard ship pulled back to a distance of hundreds of meters.

      Abdulkareem and six others accuse the Greeks of delayed rescue efforts and only launching inflatable dinghies after significant time had passed. Some estimate that several minutes passed before they took any action at all. Others say the delay was fully half an hour. “They could have saved many people,” says a survivor from Syria. Abdulkareem’s brother still hasn’t been found.

      The Greek Coast Guard has a competing account for what took place. According to an official log from June 14, their ship reported on the evening prior to the disaster that the refugees were “on a stable course” – a claim that video evidence and tracking data refute. The people on board, according to the official account, rejected assistance because they “wanted nothing more than to continue onward to Italy.” If the Greek Coast Guard is to be believed, the fishing boat capsized shortly after 2 a.m. The first official log provides no cause for the accident.

      Later, the Greek government spokesman said that the Coast Guard had attached a rope to the boat. But only to “stabilize” the vessel. By the time of the accident, the rope had already been cast off, the spokesman said, and the fishing vessel had never been towed. The rope, he insists, was not the cause of the shipwreck. In an interview with CNN, a Coast Guard spokesman speculated that panic may have broken out onboard, leading to the boat listing to one side.

      There is no proof for either version. But doubts about the Greek account are significant, even within Frontex. At the agency’s headquarters in Warsaw, EU border guards can follow in real time what is taking place on the EU’s external borders. In this case, the agents must have realized early on the danger that the migrants were in.

      On two occasions – at 6:35 p.m. and at 9:34 p.m. – they offered to send the airplane back to the ship that the migrants had already seen at midday. It was refueled and ready to take off, according to an internal memo that DER SPIEGEL has obtained. But the Greek Rescue Coordination Center in Piraeus, Frontex says, ignored the offer. The plane remained on the ground.

      The only other available aircraft, a Frontex drone, was initially sent to another distress call, according to Frontex. It only arrived at the scene after the fishing vessel had sunk. In Brussels, hardly anyone believes that the rebuff of Frontex was an accident. Many see a pattern: Greek authorities systematically send away Frontex units, says one Brussels official. That happens particularly often, the official says, in situations that later turn out to be controversial.

      The mistrust with which Athens now finds itself confronted – even from EU institutions – has a lot to do with previous violations of international law on the Aegean. The Greek Coast Guard has repeatedly towed groups of refugees back into Turkish waters – before then abandoning them on life rafts with no means of propulsion.

      Proof for such pushbacks has become so overwhelming that the Frontex fundamental rights officer recently recommended that the organization suspend cooperation with the Greek Coast Guard. The “strongest possible measures” are necessary to ensure that the Greeks once again begin complying with applicable law, reads an internal memo that DER SPIEGEL has obtained. Joint missions can only be resumed once a new basis for trust has been established, the memo continues.

      The skepticism has become so great that Frontex has even sent a team to Greece to question survivors itself. Two Frontex officials say that the results of investigations conducted thus far seem to contradict the Greek version of events. One Greek lawyer is even demanding an official state investigation of the Coast Guard for manslaughter through failure to render aid.

      Most survivors, though, don’t believe that the Greek state will investigate the role played by its own Coast Guard. The treatment they received in the days following the catastrophe was too poor for such optimism.

      Sami Al Yafi, a young Syrian, is one of them. He, too, has asked that his real name not be printed out of fear of the Greek authorities. He accuses the Coast Guard of manipulating his statement. He claims to have clearly testified that the Coast Guard had caused the ship to capsize, but he was unable to find that statement in the transcript of his interview. An additional survivor says that he had a similar experience.

      There are also corresponding inconsistencies in the investigation file. In six instances, according to the file, survivors said nothing about a tow rope in their first interview with the Coast Guard – or at least there is no mention of such in the minutes taken by the Coast Guard. Later, in interviews with public prosecutors, they then accused the Coast Guard of causing the capsizing by towing the vessel.

      Moreover, the minutes taken by the Greek Coast Guard frequently include the exact same formulations. According to those minutes, four survivors used exactly the same words in describing the events – despite the fact that the interviews were led by different interpreters. In one case, a member of the Coast Guard apparently acted as an interpreter.

      When approached for comment, Greek officials said they were unable to comment on the accusations. The accounts, they said, are part of a confidential investigation. They said they were also unable to comment on the actions of the Coast Guard.

      Manhal Abdulkareem, the man who lost his brother, isn’t satisfied. “We are a group of 104 survivors,” he says. All of them know, he says, who caused the boat to capsize.

      On at least one occasion, Greek officials have been found guilty of accusations similar to those that have now been lodged by Abdulkareem and other survivors. It was left up to the European Court of Human Rights to pass that verdict. Last year, the court found that the Greek Coast Guard in 2014 towed a refugee boat until it capsized. Three women and eight children died in that incident. Then, too, the Coast Guard claimed that panic had broken out onboard the vessel and that the refugees themselves had caused the boat to capsize. It is the exact same story they are currently telling.

      https://www.spiegel.de/international/europe/new-accusations-against-the-greek-coast-guard-we-thought-they-knew-what-they

    • Everyone Knew the Migrant Ship Was Doomed. No One Helped.

      Satellite imagery, sealed court documents and interviews with survivors suggest that hundreds of deaths were preventable.

      From air and by sea, using radar, telephone and radio, officials watched and listened for 13 hours as the migrant ship Adriana lost power, then drifted aimlessly off the coast of Greece in a slowly unfolding humanitarian disaster.

      As terrified passengers telephoned for help, humanitarian workers assured them that a rescue team was coming. European border officials, watching aerial footage, prepared to witness what was certain to be a heroic operation.

      Yet the Adriana capsized and sank in the presence of a single Greek Coast Guard ship last month, killing more than 600 migrants in a maritime tragedy that was shocking even for the world’s deadliest migrant route.

      Satellite imagery, sealed court documents, more than 20 interviews with survivors and officials, and a flurry of radio signals transmitted in the final hours suggest that the scale of death was preventable.

      Dozens of officials and coast guard crews monitored the ship, yet the Greek government treated the situation like a law enforcement operation, not a rescue. Rather than send a navy hospital ship or rescue specialists, the authorities sent a team that included four masked, armed men from a coast guard special operations unit.

      The Greek authorities have repeatedly said that the Adriana was sailing to Italy, and that the migrants did not want to be rescued. But satellite imagery and tracking data obtained by The New York Times show definitively that the Adriana was drifting in a loop for its last six and a half hours. And in sworn testimony, survivors described passengers on the ship’s upper decks calling for help and even trying to jump aboard a commercial tanker that had stopped to provide drinking water.

      On board the Adriana, the roughly 750 passengers descended into violence and desperation. Every movement threatened to capsize the ship. Survivors described beatings and panic as they waited for a rescue that would never come.

      The sinking of the Adriana is an extreme example of a longtime standoff in the Mediterranean. Ruthless smugglers in North Africa cram people onto shoddy vessels, and passengers hope that, if things go wrong, they will be taken to safety. But European coast guards often postpone rescues out of fear that helping will embolden smugglers to send more people on ever-flimsier ships. And as European politics have swung to the right, each new arriving ship is a potential political flashpoint.

      So even as passengers on the Adriana called for help, the authorities chose to listen to the boat’s captain, a 22-year-old Egyptian man who said he wanted to continue to Italy. Smuggling captains are typically paid only when they reach their destinations.

      The Greek Ministry of Maritime Affairs said it would not respond to detailed questions because the shipwreck was under criminal investigation.

      Despite many hours of on-and-off surveillance, the only eyewitnesses to the Adriana’s final moments were the survivors and 13 crew members aboard the coast guard ship, known as the 920. A Maritime Ministry spokesman has said that the ship’s night-vision camera was switched off at the time. Court documents show that the coast guard captain gave the authorities a CD-ROM containing video recordings, but the source of the recordings is unclear, and they have not been made public.

      Prime Minister Kyriakos Mitsotakis of Greece defended the coast guard during comments in Brussels this past week, calling its critics “profoundly unfair.” The sinking has brought rare public criticism from officials in the European Union, which has remained silent as the Greek government has hardened its stance toward migrants.

      In Greece, nine Egyptian survivors from the Adriana were arrested and charged with smuggling and causing the shipwreck. In sworn testimonies and interviews, survivors said that many of the nine brutalized and extorted passengers. But interviews with relatives of those accused paint a more complicated picture. At least one of the men charged with being a smuggler had himself paid a full fee of more than $4,000 to be on the ship.

      Collectively paying as much as $3.5 million to be smuggled to Italy, migrants crammed into the Adriana in what survivors recalled was a hellish class system: Pakistanis at the bottom; women and children in the middle; and Syrians, Palestinians and Egyptians at the top.

      An extra $50 or so could earn someone a spot on the deck. For some, that turned out to be the difference between life and death.

      Many of the passengers, at least 350, came from Pakistan, the Pakistani government said. Most were in the lower decks and the ship’s hold. Of them, 12 survived.

      The women and young children went down with the ship.
      Setting Sail

      Kamiran Ahmad, a Syrian teenager, a month shy of his 18th birthday, had arrived in Tobruk, Libya, with hopes for a new life. He had worked with his father, a tailor, after school. His parents sold land to pay smugglers to take him to Italy, praying that he would make it to Germany to study, work and maybe send some money home.
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      “We had no choice but to send him by sea,” his father said in an interview.

      But as the Adriana set sail at dawn on June 9, Kamiran was worried. His cousin, Roghaayan Adil Ehmed, 24, who went with him, could not swim. And the boat was overcrowded, with nearly twice as many passengers as he had been told.

      No life vests were available, so Roghaayan paid $600 to get himself, Kamiran and a friend to an upper deck.

      They were part of a group of 11 young men and boys from Kobani, a mainly Kurdish city in Syria devastated by more than decade of war. The group stayed in dingy, rented rooms in Beirut, Lebanon, then flew to Egypt and on to Libya.

      The youngest, Waleed Mohammad Qasem, 14, wanted to be a doctor. When he heard that his uncle Mohammad Fawzi Sheikhi was going to Europe, he begged to go. On the flight to Egypt, the two smiled for a selfie.

      Haseeb ur-Rehman, 20, a motorcycle mechanic from the Pakistan-administrated Kashmir, felt he had to leave home to help his family survive. Together with three friends, he paid $8,000 and left for Libya.

      He was one of the few Pakistanis who managed to snatch a spot on deck.

      The journey, if all went well, would take three days.

      As early as the second day, survivors recalled, the engine started breaking down.
      Lost

      By Day 3, food and clean drinking water had run out. Some migrants put dried prunes in seawater, hoping the sweetness would mellow the saltiness. Others paid young men $20 for dirty water.

      Unrest spread as it became clear that the captain, who was spending most of his time on a satellite phone, had lost his way.

      When Pakistanis pushed toward the upper deck, Egyptian men working with the captain beat them, often with a belt, according to testimony. Those men, some of whom are among the nine arrested in Greece, emerged as enforcers of discipline.

      Ahmed Ezzat, 26, from the Nile Delta, was among them. He is accused of smuggling people and causing the shipwreck. In an interview, his brother, Islam Ezzat, said that Ahmed disappeared from their village in mid-May and re-emerged in Libya weeks later. He said a smuggler had sent someone to the family home to collect 140,000 Egyptian pounds, or $4,500, the standard fee for a spot on the Adriana.

      Islam said he did not believe Ahmed had been involved in the smuggling because he had paid the fee. He said the family was cooperating with the Egyptian authorities. Ahmed, like the others who have been charged, has pleaded not guilty.
      ‘They Will Rescue You’

      By Day 4, according to testimonies and interviews, six people in the hold of the ship, including at least one child, had died.

      The next day, June 13, as the Adriana lurched toward Italy between engine breakdowns, migrants on deck persuaded the captain to send a distress call to the Italian authorities.

      The Adriana was in international waters then, and the captain was focused on getting to Italy. Experts who study this migratory route say that captains are typically paid on arrival. That is supported by some survivors who said their fees were held by middlemen, to be paid once they had arrived safely in Italy.

      The captain, some survivors recalled, said the Italian authorities would rescue the ship and take people to shore.

      Just before 1 p.m., a glimmer of hope appeared in the sky. A plane.

      Frontex, the European Union border agency, had been alerted by the Italian authorities that the Adriana was in trouble and rushed to its coordinates. There was no doubt the ship was perilously overloaded, E.U. officials said, and unlikely to make it to any port without help.

      Images of the rusty blue fishing boat appeared in the Frontex command center in Warsaw, where two German journalists happened to be touring, a Frontex spokesman said. The Adriana was a chance to showcase the agency’s ability to detect ships in distress and save lives.

      Now that Frontex had seen the ship, which was in Greece’s search-and-rescue area of international waters, the Greek authorities would surely rush to help.

      Two hours later, a Greek Coast Guard helicopter flew past. Its aerial photographs show the ship’s upper decks crammed with people waving their hands.

      Nawal Soufi, an Italian activist, fielded calls from frantic migrants.

      “I’m sure that they will rescue you,” she told them. “But be patient. It won’t be immediate.”
      Mayday

      Around 7 p.m. on June 13, almost seven hours after Frontex spotted the Adriana, the Greek authorities asked two nearby commercial tankers to bring the migrants water, food and diesel to continue their journey, according to video recordings and court documents.

      A crucial part of the Greek authorities’ explanation for not rescuing the Adriana is their claim that it was actively sailing toward Italy. When the BBC, using data from neighboring vessels, reported that the Adriana had been practically idle for several hours before it sank, the Greek government noted that the ship had covered 30 nautical miles toward Italy since its detection by Frontex.

      But satellite imagery and data from the ship-tracking platform MarineTraffic show that the Adriana was adrift for its final seven hours or so. Radar satellite imagery from the European Space Agency shows that by the time the Greeks summoned the commercial ships, the Adriana had already reached its closest point to Italy.

      From then on, it was drifting backward.

      The first tanker, the Lucky Sailor, arrived within minutes. The second, the Faithful Warrior, arrived in about two and a half hours. The captain of the Faithful Warrior reported that some passengers had thrown back supplies and screamed that they wanted to continue to Italy. How many people actually rejected help is unclear, but they included the Adriana’s captain and the handful of men who terrorized the passengers, according to survivors’ testimonies and interviews.

      Others were placing distress calls. Alarm Phone, a nonprofit group that fields migrant mayday calls, immediately and repeatedly told the Greek authorities, Frontex and the United Nations refugee agency that people on the Adriana were desperate to be rescued. Several passengers testified that they had tried to jump aboard the Faithful Warrior. But the migrants said that the frenzy only destabilized the Adriana, so the Faithful Warrior withdrew.

      As night fell, the Faithful Warrior’s captain told the Greek control center that the Adriana was “rocking dangerously.”

      Radio transmission records show that, over five hours, the Greek control center transmitted five messages across the Mediterranean using a channel reserved for safety and distress calls.

      Henrik Flornaes, a Danish father of two on a yacht far from the area, said he heard two mayday relay signals that night. They provided coordinates near the location of the Adriana, he said.

      A mayday relay directs nearby ships to begin a search and rescue.

      But the Greek Coast Guard itself mounted no such mission at this point.
      An End Foretold

      As midnight of June 14 approached, the Greek Coast Guard vessel 920, the only government ship dispatched to the scene, arrived alongside the Adriana.

      The presence of the 920 did not reassure the migrants. Several said in interviews that they were unsettled by the masked men. In the past, the Greek government has used the coast guard to deter migration. In May, The Times published video footage showing officers rounding up migrants and ditching them on a raft in the Aegean Sea.

      The mission of the 920 is unclear, as is what happened after it arrived and floated nearby for three hours. Some survivors say it tried to tow the Adriana, capsizing it. The coast guard denied that at first, then acknowledged throwing a rope to the trawler, but said that was hours before it sank.

      To be sure, attempts to remove passengers might have backfired. Sudden changes in weight distribution on an overcrowded, swaying ship could have capsized it. And while the 920 was larger was than the Adriana, it was not clear if had space to accommodate the migrant passengers.

      But Greece, one of the world’s foremost maritime nations, was equipped to carry out a rescue. Navy ships, including those with medical resources, could have arrived in the 13 hours after the Frontex alert.

      Exactly what capsized the ship is unclear. The coast guard blames a commotion on the ship. But everyone agrees that it swayed once to the left, then to the right, and then flipped.

      Those on deck were tossed into the sea. Panicking people stepped on each other in the dark, desperately using each other to come up for air, to stay alive.

      At the water’s surface, some clung to pieces of wood, surrounded by drowned friends, relatives and strangers. Others climbed onto the ship’s sinking hull. Coast guard crew members pulled dozens of people from the sea. One person testified that he had initially swum away from the 920, fearing that the crew would drown him.

      Waleed Mohammad Qasem, the 14-year-old who wanted to be a doctor, drowned. So did his uncle, who had posed with him for a selfie. The ship’s captain also died.

      Hundreds of people, including the women and young children, inside the Adriana stood no chance. They would have been flipped upside down, hurled together against the ship as the sea poured in. The ship took them down within a minute.

      Haseeb ur-Rehman, the Pakistani motorcycle mechanic on the top deck, survived. “It was in my destiny,” he said from a migrant camp near Athens. “Otherwise, my body would have been lost, like the other people in the boat.”

      Near the end, Kamiran Ahmad, the teenager who had hoped to study in Germany, turned to his cousin Roghaayan. From the migrant center in Greece, the older cousin remembered his words: “Didn’t I tell you we were going to die? Didn’t I tell you we were already dead?”

      Both went into the water. Kamiran’s body has not been recovered.

      https://www.nytimes.com/2023/07/01/world/europe/greece-migrant-ship.html

  • Libia, chiesti 6 mandati di cattura dalla Corte penale dell’Aja

    I nomi sono coperti dal segreto. Per 4 c’è l’ordine di arresto, per altri due si attende il via libera del tribunale. Il procuratore Khan: «Esecrabile spirale di violenza»

    «Posso annunciare oggi che i giudici indipendenti della Corte penale internazionale hanno emesso i quattro mandati d’arresto». Le parole del procuratore internazionale #Karim_Khan segnano un salto in avanti nelle inchieste per crimini contro i diritti umani in Libia. I mandati sono coperti dal segreto allo scopo di proteggere le operazioni investigative che potrebbero portare alla cattura dei ricercati. Ai quattro ordini di cattura convalidati se ne aggiungono altri due chiesti nelle ultime ore e sottoposti al vaglio dei giudici.

    Gli indagati provengono sia da forze affiliate al governo di Tripoli che da milizie legate al generale Haftar, che controlla la Cirenaica fino al confine meridionale con il Sudan. Nei mesi scorsi “Avvenire” aveva rivelato la richiesta d’arresto firmata dalla Procura internazionale, in attesa del vaglio dei giudici (https://www.avvenire.it/attualita/pagine/la-corte-penale-internazionale-in-libia-mandati-d). Ma ieri è arrivato il via libera. A quanto trapela, i destinatari sono nomi noti ai governi europei e a quello italiano, anche per aver cooperato con alcuni gruppi criminali coinvolti nel traffico di esseri umani, petrolio e droga.

    Il rapporto della procura internazionale, pur senza rivelare i nomi degli indagati, circoscrive con precisione i reati per i quali sono perseguiti e conferma come i crimini siano ancora in corso. Sono compresi i crimini commessi a partire dal 2011, dal momento dell’esplosione del conflitto interno al momento della caduta del colonnello Gheddafi fino alle violazioni dei diritti umani «contro libici e non libici che continuano a essere commessi nei centri di detenzione» di tutto il Paese.

    «I crimini contro i migranti continuano a essere diffusi e numerosi in Libia», si legge. Già dal settembre 2022 l‘ufficio del procuratore si era unito a una «squadra congiunta» che indaga «sui principali sospetti responsabili di crimini contro i migranti, tra cui la tratta di esseri umani, il contrabbando di esseri umani, la riduzione in schiavitù, la tortura e l’estorsione». Inizialmente la Corte penale internazionale era stata incaricata dal Consiglio di sicurezza per i soli “crimini di guerra”, ma nei mesi scorsi il procuratore Khan è riuscito a dimostrare che «i crimini contro i migranti in Libia possono costituire crimini contro l’umanità e crimini di guerra». In altre parole, lo sfruttamento degli esseri umani e gli abusi commessi contro le persone sono in connessione diretta con i crimini di guerra poiché a gestire la filiera del traffico di esseri umani sono le milizie nel frattempo inglobate nelle istituzioni ufficiali, che vanno dalla cosiddetta guardia costiera al Dipartimento contro l’immigrazione illegale. «È un obbligo collettivo garantire che i responsabili di tali crimini siano chiamati a risponderne», ha sottolineato il procuratore Khan.

    Uno dei primi risultati della “squadra congiunta” di cui fa parte la Cpi è stato l’arresto di #Tewelde_Goitom, noto anche come #Amanuel_Gebreyesus_Negahs_Walid, estradato dall’Etiopia nei Paesi Bassi, dove sta affrontando un procedimento penale condotto dalla giustizia olandese. Durante l’udienza preliminare, i pubblici ministeri locali «hanno mostrato come diverse famiglie olandesi (di origine subsahariana, ndr) hanno ricevuto telefonate da loro parenti nei campi e nelle strutture di detenzione gestiti da alcuni dei sospettati, mentre i loro congiunti li imploravano di inviare denaro e in sottofondo si sentivano le urla delle vittime di tortura».

    Allo sviluppo delle indagini internazionali hanno contribuito anche inquirenti d i Paesi Bassi, Italia e Regno Unito, «dimostrando la loro determinazione a garantire la responsabilità per i crimini gravi», dice Khan.

    Gli investigatori coordinati dalla procura internazionale «hanno incontrato testimoni che hanno confermato - si legge nel dossier investigativo - la violenza diffusa e sistematica contro i migranti, tra cui torture, stupri e riduzione in schiavitù». Nel suo intervento davanti al Consiglio di sicurezza il capo della procura internazionale ha parlato di «esecrabile spirale di violenza», ricordando come «le violazioni dei diritti umani contro i migranti e i richiedenti asilo contro i migranti e i richiedenti asilo continuano impunemente».

    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/libia-emessi-4-mandati-di-cattura-dalla-corte-penale-dell-aja
    #Cour_pénale_internationale #CPI #Libye #migrations #réfugiés #asile #justice #mandats_d'arrêt #mandat_d'arrêt #droits_humains #général_Haftar #milices #violence

  • Storia. Colonialismo italiano, superare il mito della «brava gente»

    Le radici del razzismo di oggi affondano in un passato violento con cui si stenta a fare i conti. Un saggio di #Francesco_Filippi sfata luoghi comuni e apre una riflessione

    Le radici del razzismo in Italia sono profonde. Si alimentano con una spessa coltre di ignoranza rafforzata dalla rimozione del passato coloniale e dei suoi effetti. Secondo un calcolo di Angelo Del Boca – il giornalista e storico recentemente scomparso che per primo negli anni 60 avviò il revisionismo storico del periodo coloniale – almeno una famiglia italiana su cinque tra militari, coloni e impiegati pubblici ha avuto un componente nell’Oltremare italico. Eppure nel dopoguerra il tema venne espulso dalla pubblicistica e vennero oscurati i coloni rimpatriati. Anche a livello popolare c’è un vuoto. Chi ha mai visto film o fiction sulla guerra d’Etiopia, sulla Libia o sull’Oltremare italiano?

    La vulgata dominante è quella autoassolutoria da cui prende il titolo l’agile saggio di Francesco Filippi, Noi però gli abbiamo fatto le strade (Bollati Boringhieri, pagine 200, euro 12,00), luogo comune che da decenni imperversa in tanti discorsi pubblici e privati sulle colonie italiane d’Africa. Secondo questa versione, quella italiana sarebbe stata un’esperienza diversa, più umana rispetto a quelle francesi, britanniche e belghe perché gli italiani “brava gente” sapevano farsi voler bene dalle popolazioni locali. E il fatto che furono gli inglesi a sconfiggerci e a cacciarci dell’Africa nel 1941, sostiene Filippi, ha agevolato l’opera di rimozione e l’autoassoluzione di nostalgici o neocoloniali. Rimozione evidente nella toponomastica italiana ad esempio. La piazza dei Cinquecento a Roma, davanti alla stazione Termini è dedicata ai soldati italiani morti nella battaglia di Dogali nel 1887, combattuta durante una delle guerre di aggressione condotta contro l’Etiopia. O nei monumenti. Davanti alla stazione di Parma campeggia quello all’esploratore #Vittorio_Bottego, uomo con idee precise sulla superiorità dei bianchi, con due africani in posa sottomessa. La città ne ha discusso la rimozione recentemente.

    Senza spingersi agli eccessi della cancel culture, una riflessione su quella memoria perduta pare necessaria. Il libro di Filippi si fa carico di avviarla. Veniamo da una stagione che ha rivelato incrostazioni razziste mai ripulite dalla società italiana, oggi evidenziate quasi come un merito da discorsi di odio e da montagne di fake news su social e media premianti in termini elettorali. Filippi si è specializzato nella rivisitazione di luoghi comuni e della mitologia fascista dopo aver distrutto le bufale sui presunti progressi del regime e sulla figura del duce come buon governante (vedi il suo Mussolini ha fatto anche cose buone, Bollati Boringhieri). Qui ricostruisce con sintesi efficace e una buona compilazione storica cosa accadde veramente nelle colonie dove l’Italia è rimasta 60 anni, tre generazioni, passando dal tentativo di espansione in Etiopia al relativo disimpegno della Prima guerra mondiale e infine al nuovo impulso fascista che intendeva ricreare i fasti dell’Impero romano. Filippi illustra la definitiva rimozione politica del colonialismo italiano nell’Italia repubblicana dovuta all’imbarazzo per i crimini contro l’umanità commessi in Libia e poi durante l’invasione e l’occupazione dell’Etiopia con l’uso dei gas tossici. E i metodi repressivi spietati di cui poco sappiamo in Libia e in Etiopia per domare i ribelli con stragi, pubbliche esecuzioni, deportazioni e lager. Il 19 febbraio in Etiopia è il giorno del ricordo delle 19mila vittime delle rappresaglie italiane del 1937 sulla popolazione civile per l’attentato al viceré Rodolfo Graziani, che già in Libia si era costruito la solida fama di “macellaio del Fezzan” e al quale Affile, il comune natio, ha pensato bene di dedicare 10 anni fa un discutibile e assai discusso sacrario. Interessante l’analisi della propaganda coloniale.

    Filippi sottolinea che il radicato concetto razzista della missione italiana di andare in colonia a liberare i popoli abissini dalla schiavitù e a conquistare bellezze esotiche dai facili costumi (spesso poco più che bambine vendute per sfamarsi da famiglie in miseria) è prefascista. Fu ideato dai governi dell’Italia liberale per attirare le masse dei territori più depressi in Africa. Gli italiani crearono l’Eritrea che ancor oggi si rifà ai vecchi confini coloniali, ma vi perfezionarono un vero e proprio apartheid. Le leggi razziali del 1938 diedero il colpo di grazia vietando le unioni miste e creando una legione di figli di nessuno, i meticci. Altro tabù, il silenzio sulla voragine provocata nel bilancio statale dall’esperienza coloniale. L’Italia unita volle buttarsi per ultima nella corsa all’Africa spinta dai circoli di industriali e imprenditori nazionalisti per aprire nuovi mercati e dare terra da coltivare alla manodopera in esubero delle campagne creando consenso politico. Meglio il Corno dell’America Latina, recitavano la propaganda liberale e poi quella di regime. Ma non fu molto ascoltata, né le colonie raggiunsero la sostenibi-lità, come diremmo oggi. Anzi.

    Insomma le strade vennero costruite bene, ma per farle usare dagli italiani, conclude Filippi. Non tutto è da buttare, aggiungiamo. È rimasto in Africa un pezzo di cultura italiana, si parla ancora la lingua, esempi di architettura razionalista caratterizzano Asmara, Addis Abeba, scuole e comunità di italiani d’Africa con o senza passaporto resistono anche se non hanno più voce. Molti imprenditori e lavoratori che scelsero di rimanere in Etiopia ed Eritrea soprattutto portarono le loro competenze. La Libia ha una storia più complessa. Resta da indagare l’opera umanitaria in campo sanitario, scolastico e agricolo di missionari e Ong mentre la cooperazione pubblica come sappiamo ha luci e ombre. Ma questa è un’altra storia.

    https://www.avvenire.it/agora/pagine/italiani-in-africa-il-mito-della-bont

    #mythe #italiani_brava_gente #brava_gente #colonialisme #colonialisme_italien #Italie #Italie_coloniale #histoire #violence #racisme #ignorance #passé_colonial #déni #statue #Parme #Parma #mémoire

    –-

    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953
    ping @cede

    • Citation tirée de l’article ci-dessus autour de la statue en l’honneur de Vittorio Bottego à Parme:

      «O nei monumenti. Davanti alla stazione di Parma campeggia quello all’esploratore Vittorio Bottego, uomo con idee precise sulla superiorità dei bianchi, con due africani in posa sottomessa. La città ne ha discusso la rimozione recentemente.»

      –—

      Il consigliere Massari: «La statua di Bottego esalta il colonialismo»

      Nel dibattito, Massari ha chiarito che non intendeva proporre la rimozione della statua.

      Una mozione presentata in Consiglio comunale dal consigliere Marco Maria Freddi a favore dell’istituzione di una giornata a ricordi delle stragi del colonialismo italiano e di una strada intitolata ha fatto emergere una clamorosa proposta del consigliere Giuseppe Massari (Parma protagonista).

      Nel suo intervento, a favore della mozione, Massari ha proposto una riflessione sull’opportunità di togliere dalla sua collocazione il monumento all’esploratore parmigiano Vittorio Bottego “in quanti rappresenta un’esaltazione del colonialismo italiano con la presenza di due guerrieri africani in posizione sottomessa. Personalmente - ha concluso Massari - provo un pugno nello stomaco ogni volta che passo di lì e una riflessione andrebbe aperta”.

      Il presidente Tassi Carboni ha sottolineato che “il monumento andrebbe contestualizzato con una spiegazione , ma non rimosso , perché viene vissuto ormai come parte del paesaggio urbano e non come esaltazione del colonialismo “. Sulla mozione si è diviso il gruppo di maggioranza di Effetto Parma, con il capogruppo Salzano e Bozzani che hanno dichiarato la propria contrarietà e Fornari e Quaranta favorevoli.

      In un successivo intervento di Vito a favore della mozione Massari ha chiarito che “la rimozione del monumento a Bottego capisco sarebbe difficoltosa ma lancia un messaggio di supremazia che andrebbe contestualizzato e quindi spiegato con un cartello il significato della statua”.

      Dopo un intervento di Laura Cavandoli che lo criticava per la proposta di rimuovere la statua di Bottego Massari ha chiarito che non intendeva proporre la rimozione della statua. La mozione è passata con 23 si e 5 no espressi da Lega e dai 2 consiglieri di Effetto Parma Salzano e Bozzani.

      https://www.gazzettadiparma.it/parma/2021/11/23/news/il-consigliere-massari-la-statua-di-bottego-esalta-il-colonialismo-3

      –-

      #pétition:
      Giuseppe Verdi al posto di Vittorio Bottego

      Cari parmigiani

      E se rimuovessimo la statua di Vittorio Bottego dal piazzale della stazione?

      Prima di accusarci di iconoclastia, fermatevi un momento a pensare.

      Cosa rappresenta la statua nel piazzale di fronte alla stazione di Parma?
      La statua ci mostra un trionfante e fiero colonialista, Vittorio Bottego, un bianco, che si erge su due persone abbattute a terra, prostrate ai suoi piedi. Due neri.

      Questa statua celebra e racconta un’epoca del nostro passato relativamente recente, in cui anche noi abbiamo massacrato gli africani, la loro cultura, la loro identità per aumentare ed imporre il nostro potere politico ed economico e la nostra cultura. La nostra presunta supremazia.

      A Bristol, Inghilterra, le manifestazioni per il #blacklivesmatter hanno raggiunto l’apice della protesta simbolica con l’abbattimento della statua in bronzo dedicata ad Edward Colston, politico inglese e mercante di schiavi.

      E la nostra statua dedicata a Vittorio Bottego dove si trova?
      I parmigiani lo sanno: si trova esattamente davanti alla stazione, in piazzale Dalla Chiesa.
      Quella statua è quindi la prima cosa che Parma - città della musica e capitale europea del cibo - offre ai turisti e ai lavoratori che giungono in treno nella nostra città.

      La storia recente, i fatti di ieri e di oggi ci dicono che questo simbolo, questa narrazione che mostra una civiltà annientarne un’altra, non ha più ragione di esistere.

      La società sta cambiando, ed ogni epoca di cambiamento si lega necessariamente a nuovi simboli. I simboli infatti sono strumenti di traduzione di concetti complessi in strumenti di comunicazione e diffusione di tali concetti, semplificati.

      E se a questo momento di cambiamento associamo il fatto che Parma2020, l’evento che vedrà Parma nel ruolo di capitale italiana della cultura, siano state spostate di un anno a causa della pandemia, quale occasione migliore per Parma stessa per trasmettere a tutt’Italia e a tutt’Europa un messaggio dal forte contenuto simbolico?

      Lo proponiamo ufficialmente.

      Togliamo la statua di Vittorio Bottego dal piazzale della Stazione.
      Riponiamola in un museo. La storia non va distrutta.

      Ma la storia va verso il futuro.
      Ed il futuro sta accadendo ora. In tutto il mondo.
      Non perdiamo questo appuntamento con la storia.

      Installiamo una statua dedicata al Maestro Giuseppe Verdi.

      Pensateci.
      Il turista, il visitatore, il lavoratore che giunge a Parma e scende dal treno, appena esce dalla stazione si troverebbe davanti la statua della personalità forse più importante della storia della nostra città.

      Verdi è un simbolo mondiale di musica, cultura, di bellezza.
      Perché non dare il benvenuto a chi viene da fuori con una piazza ed una via a lui dedicata, che conduca i turisti nel cuore di Parma?

      Ci rivolgiamo in primis ai cittadini di Parma.
      Senza di voi, senza il vostro supporto, questa proposta non passerà mai.

      Se invece, come speriamo, dovesse raccogliere adesioni, a quel punto potremo rivolgerci anche al Consiglio Comunale, che crediamo potrebbe accogliere in larga maggioranza questa proposta.

      Quanto sarebbe bello togliere quella statua, simbolo di oppressione e di un passato che ha caratterizzato la sofferenza di milioni di persone, e ridare identità e quindi valore a quella Piazza e alla città stessa?

      «Benvenuti a Parma, città della Musica»
      Non ci sarebbe nemmeno più bisogno di dirlo.
      Qualsiasi turista, di qualsiasi nazionalità, lo capirebbe immediatamente, scendendo dal treno e ritrovandosi davanti non più un simbolo di oppressione, ma un simbolo di cultura universale.

      Si può fare?

      Ci proviamo?

      ParmaNonLoSa

      https://www.change.org/p/consiglio-comunale-di-parma-da-piazza-bottego-a-piazza-giuseppe-verdi?recrui

    • Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie


      Tra i molti temi che infiammano l’arena pubblica del nostro Paese ne manca uno, pesante come un macigno e gravido di conseguenze evidenti sulla nostra vita qui e ora. Quando in Italia si parla dell’eredità coloniale dell’Europa si punta spesso il dito sull’imperialismo della Gran Bretagna o su quello della Francia, ma si dimentica volentieri di citare il nostro, benché il colonialismo italiano sia stato probabilmente il fenomeno più di lunga durata della nostra storia nazionale. Ma è una storia che non amiamo ricordare.

      Iniziata nel 1882, con l’acquisto della baia di Assab, la presenza italiana d’oltremare è infatti formalmente terminata solo il primo luglio del 1960 con l’ultimo ammaina-bandiera a Mogadiscio. Si è trattato dunque di un fenomeno che ha interessato il nostro Paese per ottant’anni, coinvolgendo il regno d’Italia di epoca liberale, il ventennio fascista e un buon tratto della Repubblica nel dopoguerra, con chiare ricadute successive, fino a oggi. Eppure l’elaborazione collettiva del nostro passato coloniale stenta a decollare; quando il tema fa timidamente capolino nel discorso pubblico viene regolarmente edulcorato e ricompare subito l’eterno mito autoassolutorio degli italiani «brava gente», i colonizzatori «buoni», persino alieni al razzismo. Siamo quelli che in Africa hanno solo «costruito le strade».
      Se la ricerca storiografica ha bene indagato il fenomeno coloniale italiano, a livello di consapevolezza collettiva, invece, ben poco sappiamo delle nazioni che abbiamo conquistato con la forza e ancora meno delle atroci violenze che abbiamo usato nei loro confronti nell’arco di decenni.
      In questo libro Francesco Filippi ripercorre la nostra storia coloniale, concentrandosi anche sulle conseguenze che ha avuto nella coscienza civile della nazione attraverso la propaganda, la letteratura e la cultura popolare. L’intento è sempre quello dichiarato nei suoi libri precedenti: fare i conti col nostro passato per comprendere meglio il nostro presente e costruire meglio il futuro.

      https://www.bollatiboringhieri.it/libri/francesco-filippi-noi-pero-gli-abbiamo-fatto-le-strade-9788833937
      #mensonges #amnésie
      #livre

  • Une personne de plus morte aux frontières de l’europe

    Le 2 janvier dernier, le prénom de #Zakaria s’est ajouté à cette liste déjà trop longue d’hommes et de femmes décédées ou disparues dans le Briançonnais en essayant de se rendre en France.

    Zakaria a été retrouvé mort dans les #Alpes, aux alentours de #Modane. Il avait 31 ans et était d’origine Marocaine. Il a certainement traversé la frontière franco-italienne à plus de 2000m d’altitude, de nuit, sous-équipé face à la neige ou les températures qui avoisinent régulièrement -10°C. Cette personne a payé les conséquences de la chasse à l’homme menée jour et nuit par la Police aux frontières, la Gendarmerie nationale et les militaires de l’opération Sentinelle dans cette région, traquant et refoulant des personnes, parfois des familles entières, venues demander l’asile en Europe. Cette militarisation morbide de la frontière pousse les exilé.es à s’aventurer toujours plus loin des sentiers praticables et à prendre des risques toujours plus grands.

    Quelques-lignes dans la presse locale, un appel à témoin de la gendarmerie de Modane sur twitter : Zakaria est mort dans l’indifférence la plus totale. Sa famille attend toujours le rapatriement de son corps, conservé à des fins d’enquête.

    https://cric-grenoble.info/infos-locales/article/une-personne-de-plus-assassinee-aux-frontieres-de-l-europe-2285

    #décès #mort #frontière_sud-alpine #migrations #asile #réfugiés #montagne #Freney #barrage_du_Freney #Fatallah

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    Ajouté au fil de discussion sur les morts à la frontière des Hautes-Alpes :
    https://seenthis.net/messages/800822

    lui-même ajouté à la métaliste sur les morts aux frontières alpines :
    https://seenthis.net/messages/758646

    • Une personne de plus retrouvée morte près de la frontière franco-italienne

      #Fathallah_Belafhail, alias Zakaria, un nom qui s’ajoute à la longue liste des personnes tuées par le régime des frontières européennes. Son corps a été retrouvé le 2 janvier près de Modane, dans le bassin du Freney, après qu’il ait traversé une frontière de plus au péril de sa vie. Chaque jour des personnes meurent aux frontières, en mer, dans les forêts, les montagnes, dans une invisibilité quasi totale.

      https://blogs.mediapart.fr/clementine-seraut/blog/110122/une-personne-de-plus-retrouvee-morte-pres-de-la-frontiere-franco-ita

    • #Fathallah_Balafhail, 31 anni, è stato trovato morto il 2 gennaio 2022 al Barrage del Freney non lontano da Modane dopo aver cercato di varcare a piedi le Alpi. Veniva dal Marocco, anche lui aveva tentato il giro più lungo passando dalla Turchia e aveva attraversato i Balcani. Aveva vissuto per un certo tempo a Crescentino, paese vicino a Vercelli, poi la partenza, due tentativi falliti di arrivare in Francia, passando da Ventimiglia, e infine l’arrivo in Valle di Susa. L’ultimo suo messaggio alla famiglia risale alle 23.54 dalla stazione di Oulx. Forse aveva trovato un passeur per arrivare dall’altro lato del confine con una macchina. Il tentativo non è coronato da successo e forse matura lì la scelta del cammino in montagna, un percorso lungo e pericoloso, già sperimentato in anni passati e in seguito abbandonato per gli evidenti rischi. Rimane un buco di tre giorni prima del ritrovamento del cadavere. Molti particolari rimangono oscuri e inquietanti. I parenti non hanno avuto accesso ai risultati dell’autopsia. Anche il rimpatrio in Marocco è avvenuto frettolosamente senza attenzione alcuna alla sensibilità della famiglia e ai rituali funerari del paese d’origine. Si rimane invisibili anche dopo la morte. Poche righe su un giornale locale francese hanno liquidato il caso. Nonostante la presenza ricorrente di giornalisti in Alta Valle di Susa, il fatto è rimasto sotto silenzio.

      https://openmigration.org/analisi/ritorno-sulla-rotta-alpina-dove-il-confine-continua-a-uccidere

    • Si ritorna a morire alla frontiera Nord Ovest delle Alpi

      Oulx,4 febbraio 2022 – #Fathallah_Balafhail, 31 anni, è stato trovato morto il 2 gennaio 2022 al Barrage del Freney non lontano da Modane dopo aver cercato di varcare a piedi le Alpi. Veniva dal Marocco, anche lui aveva tentato il giro più lungo passando dalla Turchia e aveva attraversato i Balcani. Aveva vissuto per un certo tempo a Crescentino, paese vicino a Vercelli, poi la partenza, due tentativi falliti di arrivare in Francia, passando da Ventimiglia, e infine l’arrivo in Valle di Susa. L’ultimo suo messaggio alla famiglia risale alle 23.54 dalla stazione di Oulx. Forse aveva trovato un passeur per arrivare dall’altro lato del confine con una macchina. Il tentativo non è coronato da successo e forse matura lì la scelta del cammino in montagna, un percorso lungo e pericoloso, già sperimentato in anni passati e in seguito abbandonato per gli evidenti rischi. Rimane un buco di tre giorni prima del ritrovamento del cadavere. Molti particolari rimangono oscuri e inquietanti. I parenti non hanno avuto accesso ai risultati dell’autopsia. Anche il rimpatrio in Marocco è avvenuto frettolosamente senza attenzione alcuna alla sensibilità della famiglia e ai rituali funerari del paese d’origine. Si rimane invisibili anche dopo la morte. Poche righe su un giornale locale francese hanno liquidato il caso. Nonostante la presenza ricorrente di giornalisti in Alta Valle di Susa, il fatto è rimasto sotto silenzio.

      Ullah Rezwan Sheyzad, 15 anni, afgano: come molti aveva lasciato la sua terra prima della frettolosa ritirata occidentale. Anche per lui, bambino, c’è un cammino lungo che lo porta ad attraversare l’Iran, la Turchia e da lì la scelta, perlopiù effettuata dai giovani che viaggiano soli, di attraversare la Bulgaria, la Serbia, la Croazia e la Slovenia fino ad arrivare in Italia. Come nel caso precedente il percorso scelto è quello più veloce, ma anche viabile solo per giovani o per piccoli gruppi. In meno di un anno arriva in Italia, viene fermato e accolto a Cercivento nella comunità Bosco di Museis, indi riprende il cammino e transita per la Valle di Susa: la meta è il ricongiungimento con la sorella a Parigi. Viene trovato il 26 gennaio 2022, travolto da un treno, lungo le rotaie che collegano Salbertrand a Oulx. Un ragazzo di 15 anni è dunque morto sotto un treno anche se poteva per legge valicare il confine e chiedere legittimamente protezione.

      Non sono la montagna e neppure i treni responsabili di queste morti, ma la frontiera con le sue ramificazioni che non si scollano dalla pelle di chi è catalogato migrante e da chi non può più tornare indietro e non ha terra che lo accolga. Nel 2021 possiamo indicare 15.000 presenze a Oulx; senza contare le persone che sono state registrate più volte dopo i respingimenti in frontiera, possiamo azzardare il passaggio di più di 10.000 persone. Da dicembre dello stesso anno al primo mese di gennaio del nuovo sicuramente i flussi sono diminuiti. I confini si sono moltiplicati anche in relazione a una congiuntura complessa. Le temperature artiche e le tensioni politiche nei Balcani, le difficoltà nell’utilizzo dei trasporti e le norme anticovid hanno sicuramente rallentato momentaneamente l’esodo. Soprattutto hanno reso più difficoltosi gli spostamenti per le famiglie numerose. Tuttavia, la tragedia attuale trova ragione nella militarizzazione alla frontiera e nella caccia all’uomo che si scatena ogni giorno sulle nostre montagne. Una farsa tragica che non ferma i passaggi, ma obbliga le persone in cammino a scegliere vie e strategie che mettono a rischio la vita. I più deboli vengono perlopiù respinti: famiglie numerose, donne gravide, nuclei parentali con bambini piccoli o con anziani. Non bisogna però dimenticare la criticità costantemente presente di un’urgenza vitale delle persone di passare nonostante problemi di salute e vulnerabilità. Nel 2021 abbiamo potuto documentare donne incinte al nono mese, persone con una sola gamba e con stampelle, anziani con problemi sanitari pregressi, donne con neonati che non hanno esitato a sfidare ogni rischio pur di continuare il cammino (si vedano i report precedenti di Medu sulla frontiera alpina del Nord Ovest). È inoltre opportuno ricordare le reiterate volte in cui persone, ancora in attesa di referti e di analisi mediche, sono scappate dagli ospedali pur di non prolungare le permanenze.

      In questo primo mese del 2022, coloro che sono morti di frontiera sono però giovani, che proprio in ragione della loro età e della loro prestanza fisica, credono di poter superare le prove più pericolose. Con il dispiegamento militare sul versante francese e la collaborazione tra polizie di frontiera (accordi europei e tra Italia-Francia), il risultato è stato quello di sponsorizzare l’attività degli smugglers (trafficanti), che in questi mesi sono pericolosamente ricomparsi o, addirittura, hanno occupato la scena. Mentre al rifugio “Fraternità Massi” di Oulx diminuivano le presenze, si consolidava la constatazione di nuove vie che si aprivano. Non si fermano i flussi che, come acque sorgive, quando incontrano sbarramento, deviano e trovano nuovi canali. Così la stazione di servizio di Salbertrand sull’autostrada, a sette chilometri da Oulx, è divenuta luogo per imbarcarsi sui Tir che lì sostano. Con ugual prospettiva, vie impervie sulle montagne a partire da Bardonecchia si sono riaperte. Anche la morte del giovane Ullah racconta come in un luogo geograficamente insensato per passare la frontiera si possa morire. Forse dopo un tentativo fallimentare di trovare un passaggio nel non lontano autogrill di Salbertrand, forse per evitare possibili controlli o forse addirittura nascosto sotto un treno merci, così come è uso fare nei Balcani, è maturato il tragico incidente. Di fatto ci tocca prendere atto che la militarizzazione e il moltiplicarsi degli sbarramenti hanno prodotto illegalità e morte.

      Il caso di Ullah apre un’altra questione, forse non nuova, ma di certo poco analizzata. Scappare dalla guerra gettata addosso e sopravvivere alla guerra che poi l’Europa continua ad effettuare contro chi fugge producono disastri a catena. Abbiamo documentato come con i flussi provenienti dai Balcani dal 2020 ad oggi si siano verificati cambiamenti significativi nella composizione di questi popoli in viaggio: famiglie allargate e presenza plurigenerazionale dei nuclei domestici. Il dato trascurato riguarda però la polverizzazione delle reti familiari e la loro disseminazione in tante nazioni. La disaggregazione di questi nuclei durante il cammino è un elemento significativo e aggiunge apprensione e urgenza nelle persone. Per essere più chiari vale la pena riportare un esempio tra i tanti: un padre con il figlio arriva a Oulx e poi dice a una volontaria “Ti affido il mio bambino di 14 anni affinché possa continuare il viaggio come minore, (consegnandosi alla gendarmerie, n.d.r.), e io ritorno in Grecia a prendere l’altra parte della mia famiglia”. Il viaggio può costare ai singoli e ancor di più alle famiglie cifre ingenti. Per esemplificare 8.000 euro per persona dalla Turchia all’Italia in barcone, 4.000 euro dalla Bosnia a Trieste, dai 20.000 ai 50.000 euro per famiglia dall’Afghanistan al nostro paese (la famiglia di Ullah aveva investito 6.000 euro, dato a reti di trafficanti, per permettere la partenza del figlio anche se ancora tanto giovane). Così alcuni passano prima, altri aspettano e confidano nell’aiuto che proviene da chi è arrivato. A volte sono le donne e i più vulnerabili ad aprire il cammino, altre volte può essere un minore che viene mandato fin dalla terra d’origine a cercare un altro orizzonte di vita. Sempre più spesso raccogliamo memoria di persone che arrivano e che hanno lasciato indietro parenti e non sempre il nucleo che approda alle Alpi è composto solo da consanguinei o affini, ma da aggregazioni solidali. Chi parte ha il peso e la responsabilità di una famiglia e non può fermarsi: è un’Odissea senza che si sappia se davvero esista in qualche luogo una Itaca. Così si muore, invisibili al mondo, sotto le ruote di un treno o scivolando in un lago montano.

      Molti sono i minori non accompagnati che scelgono di non presentarsi alla Paf (Polices aux frontieres) con la conseguente protezione umanitaria che a loro spetta per legge e decidono di affrontare la traversata in modo clandestino pur di non perdere l’ausilio dei compagni di viaggio. L’esperienza insegna che non si deve rimanere mai soli. Quando i minori vengono “catturati” in montagna dalla gendarmerie, il respingimento è prassi. Non v’è spazio né volontà per accertamenti. La situazione si complica ancora, quando, così come abbiamo potuto documentare, il minore, nel porto italiano di entrata, viene indotto dalla polizia con maniere minacciose, a sottoscrivere la sua maggiore età, nonostante i suoi documenti provino il contrario. Il caso è stato vagliato anche dallo sportello legale della diaconia valdese in Oulx.

      Non è da sottovalutare il problema dei green pass e delle vaccinazioni. Istituzioni ed anche ONG spesso non affrontano con abbastanza decisione la questione. La mancanza di attestati che dimostrino il vaccino rende complicati i trasferimenti e, soprattutto, induce le persone in cammino ad accelerare il passo, accettando qualsiasi costo o rischio, pur di non rischiare di rimanere intrappolati e bloccati in tempi di attesa, vuoti quanto indefiniti. Rispetto al problema sostanziale dell’essere senza vaccino, tristemente s’afferma la prassi delle vite diseguali, anche quando in gioco non c’è solo la salute del “migrante” ma quella della collettività. Non ci dimentichiamo quando l’Italia era in fascia rossa e ogni assembramento era vietato per legge mentre in un container presso la stazione di Oulx di circa 18 metri quadrati si accalcavano più di 30 persone. Nessuno ha mai pensato di intervenire o di trovare soluzioni. Poi le persone tornavano al rifugio con rischi di contagio per tutti. Oggi vaccini e documentazione relativa sono una necessità inderogabile. Già solo il fatto che si obblighi a livello nazionale alla vaccinazione e ce ne si dimentichi per coloro che sono in cammino è indicativo di quanto con la categoria migrante pensiamo a “non persone”.

      In questo specchio di frontiera –e la valle di Susa ripropone logiche che si moltiplicano dal Mediterraneo al deserto, dai Balcani alla Libia,-scopriamo quanto valgono gli enunciati sui diritti umani, qui a casa nostra. Il reiterarsi di casi tragici lascia senza parole: arriva notizia di altra persona morta carbonizzata a seguito di folgorazione sul tetto di un treno a Ventimiglia: un’altra vittima che si aggiunge a quelle che hanno insanguinato la frontiera del Nord Ovest (https://www.ansa.it/liguria/notizie/2022/02/01/migrante-muore-folgorato-su-un-treno-per-la-francia_a16cb44f-ba45-4e7f-bff0-811; https://www.avvenire.it/attualita/pagine/migrante-muore-folgorato-su-treno-per-la-francia ).

      Medici per i Diritti umani:

      Chiede alle istituzioni e a tutti gli attori presenti in frontiera di intervenire affinché vengano rispettati i diritti umani delle persone in transito e garantita la loro incolumità e sicurezza.

      Auspica una collaborazione allargata per il monitoraggio dei diritti umani in frontiera.

      Denuncia che la condizione dei minori non accompagnati è affrontata non in base alla legge e alle convenzioni internazionali europee ma spesso con prassi tollerate che le violano.

      Chiede che i vaccini e i green pass siano garantiti alle persone migranti. Le istituzioni e tutti gli attori presenti sul territorio devono occuparsi della vaccinazione. La mancanza di questa non deve essere un’altra frontiera.

      https://mediciperidirittiumani.org/si-ritorna-a-morire-alla-frontiera-nord-ovest-delle-alpi

    • Modane, migrante marocchino muore dopo la marcia notturna in montagna per passare il confine

      Aveva 31 anni. Pochi giorni prima un afgano di 15 anni è stato travolto e ucciso da un treno a Salbertrand

      Fathallah Balafhail aveva 31 anni, arrivava dal Marocco. Cercava una nuova vita in Francia ma è stato trovato morto il 2 gennaio al Barrage del Freney, non lontano da Modane. È’ il secondo migrante, nel giro di pochi giorni, trovato cadavere dopo che aveva tentato di attraversare il confine. Fathallah come Ullah Rezwan Sheyzad, che di anni ne aveva 15, veniva dall’Aghanistan ed è morto travolto da un treno a Salbertrand senza che nessuno se ne accorgesse.

       

      Fathallah veniva dal Marocco, «anche lui aveva tentato il giro più lungo passando dalla Turchia e aveva attraversato i Balcani», racconta Medu, l’organizzazione umanitaria Medici per i diritti umani che ha denunciato il fatto. Il migrante aveva vissuto per un certo tempo a Crescentino, in provincia di Vercelli. Aveva provato già due volte ad arrivare in Francia, sempre passando da Ventimiglia, ma era andata male. Stavolta aveva scelto la strada della Valle di Susa, quella dei passi di montagna.

      Ha scritto un messaggio alla famiglia prima di incamminarsi, alle 23.54 del 31 dicembre. Era alla stazione di Oulx. «Forse aveva trovato un passeur per arrivare dall’altro lato del confine con una macchina - ipotizza Medu - Il tentativo non è coronato da successo e forse matura lì la scelta del cammino in montagna, un percorso lungo e pericoloso, già sperimentato in anni passati e in seguito abbandonato per gli evidenti rischi».

       

      C’è un buco di tre giorni prima che il suo cadavere venga ritrovato. «Molti particolari rimangono oscuri e inquietanti. I parenti non hanno avuto accesso ai risultati dell’autopsia. Anche il rimpatrio in Marocco è avvenuto frettolosamente, senza attenzione alcuna alla sensibilità della famiglia e ai rituali funerari del paese d’origine. Si rimane invisibili anche dopo la morte», denuncia Medu.

       

      «Non sono la montagna e neppure i treni responsabili di queste morti, ma la frontiera con le sue ramificazioni che non si scollano dalla pelle di chi è catalogato migrante e da chi non può più tornare indietro e non ha terra che lo accolga», dicono i membri dell’organizzazione. Nel 2021 sono passate 15mila persone a Oulx.

       

      «Abbiamo potuto documentare donne incinte al nono mese, persone con una sola gamba e con stampelle, anziani con problemi sanitari pregressi, donne con neonati che non hanno esitato a sfidare ogni rischio pur di continuare il cammino - dicono da Medu - In questo primo mese del 2022, coloro che sono morti di frontiera sono però giovani che, proprio in ragione della loro età e della loro prestanza fisica, credono di poter superare le prove più pericolose».

      L’associazione denuncia anche la presenza di trafficanti. Qualche mese fa la Polizia stradale aveva scoperto alcuni passeur che caricavano i migranti nei rimorchi dei tir all’area di servizio di Salbertrand e Rivoli. «La militarizzazione e il moltiplicarsi degli sbarramenti hanno prodotto illegalità e morte», dice l’associazione. Sono cambiati i flussi e la composizione dei gruppi che passano dalla valle di Susa, «famiglie allargate e presenza plurigenerazionale dei nuclei domestici. Il dato trascurato riguarda però la polverizzazione delle reti familiari e la loro disseminazione in tante nazioni. Per essere più chiari vale la pena riportare un esempio tra i tanti: un padre con il figlio arriva a Oulx e poi dice a una volontaria ’Ti affido il mio bambino di 14 anni affinché possa continuare il viaggio come minore, e io ritorno in Grecia a prendere l’altra parte della mia famiglia’».

      https://torino.repubblica.it/cronaca/2022/02/04/news/modane_migrante_marocchino_trovato_morto_voleva_entrare_in_francia

  • Reportage. #Alta_Val_di_Susa, quei profughi ora accolti sulla rotta di neve e gelo

    Accanto alla stazione di Oulx, in nove mesi sono passate 9mila persone: il 60% proveniva dalla rotta balcanica. Don Luigi (Migrantes): dare un tetto a chi viaggia nel freddo

    Non piangono mai i bambini che arrivano all’ultima tappa prima del confine francese. Sono esausti, dormono di continuo, qualcuno ha i piedi morsicati dai topi negli accampamenti di fortuna in Bosnia, eppure non piangono. Lo raccontano commossi gli operatori e i volontari del rifugio per immigrati ’#Fraternità_Massi' nella casa dei salesiani accanto alla stazione di Oulx. Ai piccoli il lungo viaggio sembra un gioco in compagnia dei genitori. Per gli esperti il gioco si chiama ’rotta italiana’ oppure ’terminale della rotta mediterranea’ e anche ’limite occidentale della rotta balcanica’. Comunque la si veda, Oulx dal 2017 è diventata una porta di uscita sempre più battuta dall’Italia verso la Francia e l’Ue, per marciatori della speranza in viaggio da anni. Non temono di andare in mezzo alla neve in scarpe da tennis, ma se vengono al rifugio voluto dalla fondazione ’#Talità_Kum' con i medici di #Rainbow_4_Africa aperto h 24 trovano scarponi, cibo, possono farsi visitare e passare una notte al caldo dopo le 16, quando d’inverno cala subito il buio e la temperatura scende sottozero. A pochi passi dal rifugio in Alta Val di Susa, ironia della sorte, fermano i treni di linea per la Francia e persino il Tgv. Ma il viaggio comodo è roba per chi ha documenti europei e Green pass. Il resto dell’umanità tenta di prendere un bus di linea, se non controllano i ’certificati verdi’, o arriva a piedi fino alle piste di fondo di #Claviere e poi si infila nei boschi per 20 chilometri per passare il Monginevro. Un’impresa al buio col freddo, specie per le famiglie con donne incinte e bambini. Oltretutto la sorveglianza dei gendarmi dotati anche di visori notturni al confine e lungo la statale è continua. Inflessibili anche con i più vulnerabili, non rilasciano il documento di respingimento, il ’refus d’entrée’, contro cui presentare appello. Chi passa, però, in 5 giorni arriva a Parigi e da lì prosegue per Germania, Paesi Bassi, Belgio o Regno Unito, nell’Europa che cerca manodopera.

    Gli scarponi li lasciavano i valligiani quando si è aperta la rotta. Il rifugio prosegue la tradizione solidale, mettendoli nelle rastrelliere. Ogni giorno passano da qui almeno 60 persone, con punte di 100 dall’estate a novembre. Quando si supera quota 50 la Croce rossa sposta i profughi al polo logistico di Bussoleno, 20 chilometri a valle, così che nessuno dorma all’aperto. Da aprile a dicembre sono passate 9mila persone e altre 1.500 sono state portate alla Croce rossa. Il 60% proveniva dalla rotta balcanica, gli altri erano subsahariani sbarcati da poco e tunisini alle prese con disoccupazione.

    «È dura marciare nella neve, ma chi proviene dai Balcani dice che dopo Bosnia e Croazia passare il Monginevro è come bere un bicchiere d’acqua – spiega don Luigi Chiampo, 62 anni, da 10 parroco di Bussoleno, presidente di Talità Kum e responsabile Migrantes della diocesi susina – e da quando abbiamo aperto il centro a Oulx nel 2018 non ci sono più stati morti sulle montagne. Passavano dal Colle della Scala, molto pericoloso. Nel 2021 dalla valle è passato un fiume di circa 15mila persone dirette a Claviere. Arrivano a Trieste e in 72 ore attraversano il nord in treno o bus, oppure vengono dai centri di accoglienza. Il rifugio lo abbiamo aperto per non far dormire più nessuno in mezzo alla strada ed è importante la rete che si è creata e la collaborazione con le istituzioni». I Comuni, al contrario di quanto accade Oltralpe, sono presenti. La Prefettura di Torino contribuirà al nuovo rifugio di fronte alla ’Fraternità Massi’, sempre di proprietà dei salesiani, molto più grande, in cui a giorni si sposteranno le attività. Che comprendono le attività dei medici e infermieri di ’Rainbow for Africa’ e degli operatori legali di Diaconia valdese e Danish refugee Council, che qui hanno un punto nodale del loro osservatorio dei tre confini. Cena e assistenza le offrono la rete solidale di Talità Kum, aperta ad associazioni laiche e nazionali.

    «Prepariamo un piatto di pasta, offriamo un letto caldo – afferma racconta Giorgio Guglielminotti, storico operatore – e se lo desiderano parliamo. Soprattutto diamo le scarpe a chi arriva con i piedi rotti da marce interminabili». I single dormono in uno camerone e le famiglie nei container in cortile. Si resta al massimo 48 ore ad eccezione delle famiglie numerose. Secondo Serena Tiburtini, coordinatrice di programma per Danish refugee council, le famiglie sono soprattutto afghane (il 40%) e iraniane. Poi i pachistani. «Passano da Claviere a piedi – aggiunge – perché sono abituati alla montagna. Sono arrivati i primi evacuati in estate da Kabul, i più ricchi, gli altri li attendiamo nei prossimi mesi. I tempi di ricongiungimento con i parenti sono troppo lunghi. Una ragazza afghana a settembre mi ha detto che non poteva attendere sei mesi per raggiungere la madre in Svezia, mentre poteva farcela in 15 giorni. Un giovane curdo iraniano, rimasto storpio a una gamba, fratturata dalle botte prese in Croazia, non riusciva a passare a piedi. Ma voleva raggiungere moglie e figlioletta in Svizzera. Niente ricongiungimento, alla fine è partito con un passeur».

    «Chi arriva a Oulx dalla rotta balcanica è esausto fisicamente e mentalmente – prosegue Eloisa Franchi dei medici di Rainbow 4 Africa – poi c’è chi arriva con ferite da marcia o con le cicatrici delle torture inferte dai poliziotti croati. Noi offriamo primo soccorso per curare la ’patologia di confine’, uno stress psicofico continuo. Nel nuovo rifugio avremo uno spazio per dare assistenza continuativa».

    A Oulx sono arrivate quest’anno due donne in procinto di partorire: una ci è riuscita, l’altra ha messo al mondo un bambino morto. Era da sola, marito e figlio erano già passati, ma sono tornati indietro per salutare il piccolo e ripartire con lei. Domani si concluderà qui il ’Cammino della Speranza’, staffetta partita da Trieste in bici una settimana fa per ricordare cosa accade ogni giorno da un confine all’altro.

    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/scarponi-per-chi-marcia-nella-neve-la-valle-solidale-e-i-migranti-bambini

    #montagne #Alpes #migrations #asile #réfugiés #Briançon #Oulx #Italie #France #frontières #frontière_sud-alpine #Val_di_Susa

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  • Se questa è l’Europa. Una cortina di ferro per i migranti

    La Polonia costruirà da dicembre una barriera per fermare il flusso di profughi spinti verso il confine dal governo della Bielorussia. Negli ultimi 50 anni costruiti 65 muri di confine

    Non sarà facile, quando toccherà agli storici, spiegare che l’epoca dei muri non è più solo quella del Vallo di Adriano o il tempo del cinese Qin Shi Huang, l’imperatore padre della Grande Muraglia. Epoche in cui le fortificazioni servivano a proteggersi dalle incursioni armate. Non nel 2021, quando miliardi di euro vengono investiti per respingere nient’altro che persone disarmate.

    Il 60% delle nuove barriere è stato voluto per ostacolare le migrazioni forzate. Negli ultimi 50 anni (1968-2018) sono stati costruiti oltre 65 muri di confine. L’Europa (26%) è seconda solo all’Asia (56%). A oltre trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, il 60% della popolazione mondiale (circa 4,7 miliardi di persone) vive in Paesi che hanno costruito un qualche argine contro i flussi di persone.

    Il centro studi ’Transnational Institute’ ha calcolato che solo dal 1990 al 2019 i Paesi Ue dell’area Schengen si sono dotati di oltre mille chilometri di recinzioni. E presto saranno più del doppio. La spesa totale ha sfiorato il miliardo di euro. A cui andranno aggiunti gli stanziamenti per i 508 chilometri di frontiera che la Lituania ha deciso di puntellare con pali d’acciaio e filo spinato. Come la Polonia, del resto, che con i lituani condivide l’affaccio sulla Bielorussia. Ieri la conferma: da dicembre il governo polacco costruirà una nuova barriera al confine. «È sconcertante quanto avviene in più luoghi ai confini dell’Unione. È sorprendente – ha detto ieri il presidente Sergio Mattarella – il divario tra i grandi principi proclamati e il non tener conto della fame e del freddo cui sono esposti esseri umani ai confini dell’Unione» .

    Per venirne a capo bisogna seguire i soldi. Tanti soldi. Si scopre così che il filo spinato e le armi per ricacciare indietro i poveri sono prima di tutto un colossale giro d’affari. A poco servono le inchieste amministrative e quelle penali sulle operazioni condotte da agenzie come Frontex, nata per supportare la sorveglianza dei confini esterni e finita accusata di malversazioni e di aver cooperato nelle operazioni più cruente nei Balcani, nel Canale di Sicilia e nell’Egeo. Entro il 2027 si passerà dagli attuali 1.500 a 10mila effettivi, di cui 7 mila distaccati dalle forze dell’ordine nazionali, e avrà nel bilancio un budget superiore alla maggior parte delle agenzie dell’Unione Europea: circa 5,6 miliardi di euro fino al 2027.

    Direttamente o attraverso consociate, beneficiano dei cospicui investimenti europei le più importanti aziende del comparto difesa: tra cui #Airbus, #Thales, #Leonardo, #Lockheed_Martin, #General_Dynamics, #Northrop_Grumman, #L3_Technologies, #Elbit, #Indra, #Dat-Con, #Csra, #Leidos e #Raytheon. Tra i principali beneficiari degli appalti per i muri le grandi firme dell’industria bellica. C’è #European_Security_Fencing, produttore spagnolo di filo spinato, utilizzato nelle recinzioni al confine con Spagna/Marocco, Ungheria/Serbia, Bulgaria/Turchia, Auanche stria/Slovenia, Regno Unito/ Francia. Poi la società slovena “#Dat-Con” incaricata di costruire barriere in Croazia, a Cipro, in Macedonia, Moldavia, Slovenia e Ucraina.

    E ancora il costruttore navale olandese #Damen, le cui navi sono state utilizzate in operazioni di frontiera da Albania, Belgio, Bulgaria, Portogallo, Paesi Bassi, Romania, Svezia e Regno Unito, oltre che Libia, Marocco, Tunisia e Turchia. I francesi siedono al tavolo dei grandi appalti con “#Sopra_Steria”, il principale contraente per lo sviluppo e la manutenzione del Sistema d’informazione visti ( #Vis), il Sistema d’informazione Schengen (#Sis_II) e Dattiloscopia europea (#Eurodac). Poi di nuovo una compagnia spagnola, la #Gmv incaricata di implementare #Eurosur, il sistema europeo di sorveglianza delle frontiere esterne.

    Prima di oggi le imprese hanno beneficiato del budget di 1,7 miliardi di euro del Fondo per le frontiere esterne della Commissione europea (2007-2013) e del Fondo per la sicurezza interna – frontiere (2014-2020) di 2,76 miliardi di euro. Per il nuovo bilancio Ue (20212027), la Commissione europea ha stanziato 8,02 miliardi di euro al Fondo per la gestione integrata delle frontiere; 11,27 miliardi di euro a Frontex (di cui 2,2 miliardi di euro saranno utilizzati per acquisire e gestire mezzi aerei, marittimi e terrestri) e almeno 1,9 miliardi di euro di spesa totale (20002027) per le sue banche dati di identità e Eurosur (il sistema europeo di sorveglianza delle frontiere).

    Commentando le ultime notizie dalla frontiera orientale, il presidente della commissione Cei per i migranti, il vescovo Giancarlo Perego, ha usato parole che ben riassumono la deriva del continente dei muri: «Una sconfitta dell’umanesimo su cui si fonda l’Europa, una sconfitta della democrazia. L’Europa dei muri è un’Europa che dimostra di cedere alla paura, un’Europa in difesa da un mondo che cammina». Oppure, per dirla con Papa Francesco, le moderne muraglie sono «una cosa insensata, che separa e contrappone i popoli».

    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/una-cortina-di-ferro-per-i-migranti

    #murs #barrières_frontalières #migrations #asile #réfugiés #frontières #complexe_militaro-industriel #business

  • Subappalti e decenza. Lavoro, cosa insegna l’indagine su Dhl

    La presunzione d’innocenza vale anche per le imprese e i loro vertici. Tanto più quando un’indagine si incentra su questioni fiscali, economiche e organizzative, che presentano sempre qualche margine di interpretazione delle norme. Dunque nessuna sentenza anticipata di colpevolezza nei confronti di Dhl, accusata ieri dai pm di Milano di frode fiscale operata tramite cooperative e consorzi che, secondo i sospetti dei magistrati, fungono da «meri serbatoi di manodopera». Tuttavia, l’importanza della multinazionale sotto inchiesta e il ricorrere di alcuni tratti ’tipici’ della somministrazione irregolare di lavoratori, con il loro presumibile sfruttamento, non possono essere ignorati e anzi offrono l’occasione per cercare di illuminare meglio un tratto buio del nostro mercato del lavoro.

    Dhl, infatti, non è una società qualsiasi ma il leader mondiale della logistica, come orgogliosamente ricorda nel suo sito web. Soprattutto è particolare il suo azionariato, controllato dal 2002 dal colosso Deutsche Post, le Poste tedesche, a loro volta sotto il controllo del governo di Berlino. E, come ogni grande azienda tedesca che rispetta la legge sulla cogestione, la Mitbestimmungsgesetz, Dhl ha un Consiglio di gestione (come il nostro Cda) e un Consiglio di sorveglianza, nel quale siedono in numero paritario azionisti e rappresentanti dei lavoratori, con il compito di sorvegliare e indirizzare appunto le attività gestionali. Insomma, un gruppo ’blasonato’ di uno Stato fratello, dal quale tutto ci si potrebbe attendere tranne che anche solo il sospetto di una frode fiscale e un utilizzo illecito della manodopera in un altro Paese dell’Unione Europea. Pur in attesa del giudizio che non spetta a noi anticipare, si può dire che non si tratta semplicemente dell’’incidente’ di un’inchiesta penale, quanto di un imbarazzante caso diplomatico, proprio all’indomani dell’intesa al G7 sulla tassazione minima delle multinazionali.

    C’è però dell’altro, oltre alla presunta frode fiscale. Per dirlo con le parole dell’accusa: «La società committente (Dhl appunto) abusa dei benefici offerti dal sistema illecito, neutralizzando il proprio cuneo fiscale mediante l’esternalizzazione della manodopera e di tutti gli oneri connessi. Ciò comporta l’utilizzo di fittizi contratti d’appalto per prestazioni di servizi che, invero, dissimulano l’unico, reale oggetto del negozio posto in essere tra le parti, ossia la mera somministrazione di personale effettuata in violazione delle norme che ne regolamentano la disciplina».

    Tradotto, significa che il gruppo tedesco, per elevare il suo margine di profitto, avrebbe utilizzato nei propri magazzini lavoratori formalmente assunti da consorzi in appalto – «uno schermo di ben 23 cooperative, 20 delle quali con la medesima sede fiscale » – ma in realtà eterodiretti dalla stessa Dhl. Che avrebbe imposto tariffe irrealistiche a tali cooperative, alle quali non restava altro che frodare lo Stato non versando l’Iva dovuta e parte dei contributi previdenziali di lavoratori sottopagati rispetto ai contratti nazionali, sottraendosi infine ai controlli grazie a cambi di denominazione e trasferendo il personale da una società all’altra. Dhl ha dichiarato che «fornirà agli inquirenti tutta la collaborazione necessaria per chiarire in modo tempestivo e soddisfacente la propria posizione, ritenendo di aver sempre operato nel pieno rispetto della normativa fiscale italiana».

    Ma – sempre in attesa del giudizio – la vicenda mostra comunque quanto sia diffuso (e pericoloso) il subappalto a cooperative spurie – come recentemente il clamoroso caso della #Ceva – rispetto alle quali neppure le novità legislative e i tavoli aperti con aziende e prefetti sembrano aver scongiurato gli illeciti e lo sfruttamento dei lavoratori. Oggi che ancora si discute di come regolamentare la materia nel Pnrr, questa indagine offre allora due indicazioni preliminari importanti. La prima: vanno rafforzati e non allentati i meccanismi che rendono responsabili i committenti di quanto avviene nelle società appaltatrici. La seconda: l’appalto esterno andrebbe sempre proibito per le attività core, tipiche e centrali, di un’azienda. Per non arrendersi alla logica del profitto illecito e della sotto-tutela dei lavoratori.

    https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/subappalti-e-decenza

    #DHL #travail #conditions_de_travail #fraude_fiscale #fiscalité #sous-traitance

  • La via della vergogna Sulla rotta balcanica delle migrazioni

    Il viaggio disperato lungo la rotta dei Balcani, tra violenze e torture inaudite da parte della polizia Centinaia di profughi con diritto alla protezione respinti dall’Italia

    È la schiena curva e livida dei respinti a dire le sprangate. Sono le gambe sanguinanti a raccontare la disperata corsa giù dal valico. A piedi nudi, con le caviglie spezzate dalle bastonate e i cani dell’esercito croato che azzannano gli ultimi della fila. È l’umiliato silenzio di alcuni ragazzi visitati dai medici volontari nel campo bosniaco di #Bihac per le cure e il referto: stuprati e seviziati dalla polizia con dei rami raccolti nella boscaglia. I meno sfortunati se la sono cavata con il marchio di una spranga incandescente, a perenne memoria dell’ingresso indesiderato nell’Unione Europea.

    Gli orrori avvengono alla luce del sole. Affinché gli altri, i recidivi degli attraversamenti e quelli che dalle retrovie attendono notizie, battano in ritirata. Velika Kladuša e il valico della paura. Di qua è Croazia, Europa. Di la è Bosnia, fuori dalla cortina Ue. Di qua si proclamano i diritti, ma si usa il bastone. Oramai tra i profughi della rotta balcanica lo sanno tutti che con gli agenti sloveni e gli sbirri croati non si scherza.

    «Siamo stati consegnati dalla polizia slovena alla polizia croata. Siamo stati picchiati, bastonati, ci hanno tolto le scarpe, preso i soldi e i telefoni. Poi ci hanno spinto fino al confine con la Bosnia, a piedi scalzi. Tanti piangevano per il dolore e per essere stati respinti». Sono le parole di chi aveva finalmente visto i cartelli stradali in italiano, ma è stato rimandato indietro, lungo una filiera del respingimento come non se ne vedeva dalla guerra nella ex Jugoslavia. Certi metodi non sembrano poi cambiati di molto.

    Tre Paesi e tre trattamenti. I militari italiani non alzano le mani, ma sono al corrente di cosa accadrà una volta rimandati indietro i migranti intercettati a Trieste come a Gorizia. Più si torna al punto di partenza, e peggio andranno le cose. Le testimonianze consegnate ad Avvenire dai profughi, dalle organizzazioni umanitarie, dai gruppi di avvocati lungo tutta la rotta balcanica, sembrano arrivare da un’altra epoca.

    Le foto non mentono. Un uomo si è visto quasi strappare il tendine del ginocchio destro da uno dei mastini delle guardie di confine croate. Quasi tutti hanno il torso attraversato da ematomi, cicatrici, escoriazioni. C’è chi adesso è immobile nella tendopoli di Bihac con la gamba ingessata, chi con il volto completamente bendato, ragazzini con le braccia bloccate dai tutori in attesa che le ossa tornino al loro posto. I segni degli scarponi schiacciati contro la faccia, le costole incrinate, i calci sui genitali. Un ragazzo pachistano mostra una profonda e larga ferita sul naso, il cuoio capelluto malridotto, mentre un infermiere volontario gli pratica le quotidiane medicazioni. Un afghano appena maggiorenne ha l’orecchio destro interamente ricucito con i punti a zigzag. Centinaia raccontano di essere stati allontanati dal suolo italiano.

    Una pratica, quella dei respingimenti a ritroso dal confine triestino fino agli accampamenti nel fango della Bosnia, non più episodica. «Solo nei primi otto mesi del 2020 sono state riammesse alla frontiera italo-slovena oltre 900 persone, con una eccezionale impennata nel trimestre estivo, periodo nel quale il fenomeno era già noto al mondo politico che è però rimasto del tutto inerte », lamenta Gianfranco Schiavone, triestino e vicepresidente di Asgi, l’associazione di giuristi specializzati nei diritti umani. «Tra le cittadinanze degli stranieri riammessi in Slovenia il primo posto va agli afghani (811 persone), seguiti da pachistani, iracheni, iraniani, siriani e altre nazionalità, la maggior parte delle quali – precisa Schiavone – relative a Paesi da cui provengono persone con diritto alla protezione ». A ridosso del territorio italiano arriva in realtà solo chi riesce a sfuggire alla caccia all’uomo fino ai tornanti che precedono la prima bandiera tricolore. Per lasciarsi alle spalle quei trecento chilometri da Bihac a Trieste possono volerci due settimane.

    Secondo il Danish Refugee Council, che nei Paesi coinvolti ha inviato numerosi osservatori incaricati di raccogliere testimonianze dirette, nel 2019 sono tornate nel solo campo di bosniaco di Bihac 14.444 persone, 1.646 solo nel giugno di quest’anno.

    I dati a uso interno del Viminale e visionati da Avvenire confermano l’incremento delle “restituzioni” direttamente alla polizia slovena. Nel secondo semestre del 2019 le riammissioni attive verso Zagabria sono state 107: 39 da Gorizia e 78 da Trieste. Il resto, circa 800 casi, si concentra tutto nel 2020. Il “Border violence monitoring”, una rete che riunisce lungo tutta la dorsale balcanica una dozzina di organizzazioni, tra cui medici legali e avvocati, ha documentato con criteri legali (testimonianze, foto, referti medici) 904 casi di violazione dei diritti umani. Lungo i sentieri sul Carso, tra i cespugli nei fitti boschi in cima ai dirupi, si trovano i tesserini identificativi rilasciati con i timbri dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati o dall’Agenzia Onu per le migrazioni. I migranti li abbandonano lì. Testimoniano di come a decine avessero ottenuto la registrazione nei campi allestiti a ridosso del confine balcanico dell’Unione Europea.

    Quel documento, che un tempo sarebbe stato considerato un prezioso salvacondotto per invocare poi la protezione internazionale, oggi può essere una condanna. Perché averlo addosso conferma di provenire dalla Bosnia e dunque facilita la “riconsegna” alla polizia slovena. Anche per questo lo chiamano “game”.

    Un “gioco” puoi vincere una domanda d’asilo in Italia o in un’altro Paese dell’Ue, o un’altra tornata nell’inferno dei respingimenti. «Quando eravamo nascosti in mezzo ai boschi, la polizia slovena – racconta un altro dei respinti – era anche accompagnata dai cani. Qualcuno si era accucciato nel bosco e non era stato inizialmente visto, ma quattro o cinque cani li hanno scovati e quando hanno provato a scappare sono stati rincorsi dai cani e catturati».

    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/lorrore-alle-porte-delleuropa

    #photographie #témoignage #images #violence #violences #Balkans #route_des_Balkans #asile #migrations #réfugiés #frontières #torture #Croatie #game #the_game #viols #Velika_Kladuša #Velika_Kladusa #Bosnie #Slovénie #refoulements_en_chaîne #push-backs #refoulements #réadmission #chiens

    • Violenza sui migranti, in un video le prove dalla Croazia

      Impugnano una spranga da cui pende una corda. Stanno per spaccare ginocchia, frustare sulla schiena, lanciare sassi mirando alla testa dei profughi. Sono soldati croati...

      https://www.youtube.com/watch?v=tacXXCD8UL8&feature=emb_logo

      Non è per il freddo delle gelate balcaniche che gli uomini appostati nella radura indossano un passamontagna. Il branco è lì per un’imboscata. Impugnano una spranga da cui pende una corda. Stanno per spaccare ginocchia, frustare sulla schiena, lanciare sassi mirando alla testa dei profughi. Sono soldati croati. E stavolta Zagabria non potrà più dire che non ci sono prove.

      Ora c’è un video che conferma le accuse di questi anni. Nei giorni scorsi, dopo la ricostruzione di Avvenire e la pubblicazione di immagini e testimonianze di alcune tra le migliaia di persone seviziate dai gendarmi, era intervenuta la commissaria agli Affari Interni dell’Ue, Ylva Johansson. «Abbiamo sentito di respingimenti dagli Stati membri e non è accettabile». Nessun accenno, però, alla violenza. Il governo di Zagabria, infatti, ha sempre respinto le accuse dei profughi respinti a catena da Italia, Slovenia e Croazia. «Nonostante i report lo Stato croato ha negato, mettendo in dubbio la credibilità dei migranti, degli attivisti e dei giornalisti – ricordano i legali del “Border violence monitoring” – citando la mancanza di prove fotografiche». Ora quelle prove ci sono.

      I fotogrammi e i video raccolti sul campo non lasciano spazio a dubbi. La frusta schiocca i primi colpi. Un uomo viene atterrato dopo che l’aggressore lo ha quasi azzoppato. Neanche il tempo di stramazzare tra i rovi che viene centrato in pieno volto. Poco distante, in un fossato che segna il confine con la Bosnia Erzegovina, altri due uomini a volto coperto, entrambi con divise blu scure, afferrano dei grossi sassi e li scagliano contro alcuni ragazzi che corrono per riguadagnare il confine bosniaco, a meno di 30 metri, dove gli aggressori croati sanno di non potere addentrarsi.

      https://www.youtube.com/watch?v=rtEDbuDbqzU&feature=youtu.be

      Le sequenze sono raccapriccianti. Le urla spezzano il fiato. I militari infieriscono ripetutamente su persone inermi. A tutti sono state tolte le scarpe, i telefoni, il denaro, gli zainetti con gli unici ricordi delle propRie origini. Un uomo piange. Il volto gonfio, una gamba dolorante, alcune ferite alla testa, il labbro superiore sanguinante. Nella sua lingua biascica la più universale delle invocazioni: «Mamma mia».

      Le immagini,che risalgono alla fine di marzo, sono state analizzate per mesi da legali e periti di vari Paesi per conto del “Border violence monitoring”, il network di organizzazioni di volontariato attivo in tutti i Balcani. Nel video integrale (sintetizzato da Avvenire in una versione di 4 minuti in questo articolo) si possono vedere i filmati con le ricostruzioni forensi. Oltre alle identità dei feriti è stato possibile riconoscere anche i corpi di appartenenza dei picchiatori: guardie di confine, nuclei speciali della polizia e militari dell’esercito.

      Le forze di sicurezza, come sempre, avevano pensato a impedire che le testimonianze potessero trovare riscontri fotografici. Questa volta, però, un ragazzo afghano è riuscito a beffarli. Poco prima del respingimento altri agenti in un posto di polizia avevano rubato denaro, telefoni ed effetti personali. Con le scarpe e i vestiti avevano fatto un falò. Nella concitazione, da uno degli zainetti è scivolato un telefono. Il ragazzo ha fatto in tempo a nasconderlo nelle mutande. Per consegnarci le immagini della vergogna all’interno dell’Unone europea.

      Dopo una corsa disperata, inseguito dalle sprangate e dalle scudisciate, una volta superato il fossato ha riacceso il cellulare danneggiato durante l’aggressione. C’era ancora abbastanza batteria. Si sente anche la sua voce mentre non riesce a tener ferme le mani: «Mi fa male una gamba, ho troppo dolore». Un altro accanto a lui comprende l’importanza di quegli istanti: «Ti tengo io, devi continuare a riprendere».

      Pochi giorni prima The Guardian aveva pubblicato un inchiesta di Lorenzo Tondo: la polizia croata veniva accusata di segnare i migranti islamici con una croce sulla testa, ma ancora una volta Zagabria aveva negato.

      Le riammissioni a catena, con cui dal confine italo–sloveno «si deportano illegalmente i rifugiati fino in Bosnia, hanno l’effetto di esporre le persone a condizioni inumane e a un rischio di morte: vanno pertanto immediatamente fermate», chiede il Consorzio italiano di solidarietà (Ics). Anche in Bosnia vengono denunciati episodi di violenza ed uso eccessivo della forza da parte della polizia.

      L’11 dicembre, sei giorni dopo la pubblicazione della prima puntata dell’inchiesta di Avvenire (LEGGI QUI), è intervenuta la Commissaria ai diritti umani del Consiglio d’Europa, il consesso che ha dato vita alla Corte europea dei diritti dell’Uomo. In una lettera la bosniaca Dunja Mijatovic parla delle «segnalazioni di gruppi di vigilantes locali che attaccano i migranti e distruggono i loro beni personali», esprimendo preoccupazione «per le segnalazioni di attacchi e minacce contro i difensori dei diritti umani che aiutano i migranti, tra cui una campagna diffamatoria e minacce di morte».

      E non sarà certo la prima neve a fermare le traversate.

      Ieri la polizia serba ha bloccato 300 persone in due distinte operazioni: 170 sono stati trovati nella zona di Kikinda, lungo un sentiero sul confine con la Romania; altri 140 sono stati vicino al valico di Horgos, alla frontiera con l’Ungheria. Sperano così di aggirare la sbirraglia.

      Nicola Bay, direttore in Bosnia del “Danish refugee council” spiega di avere identificato con la sua organizzazione «14.500 casi di respingimenti dalla Croazia alla Bosnia dall’inizio del 2020. Nel solo mese di ottobre, i casi sono stati 1.934, tra cui 189 episodi in cui migranti sono stati soggetti a brutale violenza, e in due episodi anche violenza sessuale, da parte di uomini in uniformi nere, con i volti mascherati». Perciò «non è accettabile che i respingimenti violenti siano utilizzati, di fatto, come strumento per il controllo dei confini dagli stati europei. È giunto il momento di esigere, da parte della Commissione Europea e degli stati membri della Ue, inclusa l’Italia, il pieno rispetto delle più basilari norme del diritto comunitario e internazionale».

      E non è escluso che grazie a queste immagini si apra finalmente una inchiesta giudiziaria per individuare i responsabili, i loro superiori e fermare i crimini contro gli esseri umani commessi nell’Unione Europea.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/torture-su-migranti-al-confine-tra-croazia-e-bosnia-vide-scavo

    • L’inchiesta. Abusi sui migranti della rotta balcanica, scende in campo l’Ue

      Dopo le denunce su violenze e respingimenti, l’Agenzia Ue per i diritti umani: monitorare i comportamenti della polizia. Zagabria: violenze presunte. A Trieste con i volontari che curano le ferite

      https://www.youtube.com/watch?v=uBfEBYHMXXE&feature=emb_logo

      La lavanda dei piedi comincia all’ora del vespro. È il quotidiano rito dei volontari che ogni sera, nel piccolo parco tra la stazione e il vecchio porto, dai loro zaini da studente estraggono garze, cerotti, unguenti. Passano da lì gli impavidi del game, i superstiti della roulette russa dei respingimenti a catena, e a bastonate, verso la Bosnia. Cacciati fuori dai confini Ue.

      Dopo le nuove denunce di queste settimane, qualcosa tra Bruxelles e Zagabria si muove. L’agenzia Ue per i diritti fondamentali è pronta a monitorare i comportamenti delle polizie lungo i confini. Ma manca una data per l’avvio del piano di prevenzione degli abusi.

      Pochi giorni fa a Bruxelles hanno chiuso un rapporto che racconta di vicende sfuggite alle principali cronache internazionali. Sono ancora in corso le indagini per episodi ch si ripetono da anni senza che mai si arrivi a individuare delle responsabilità. Nel novembre 2017 «una bambina afghana di sei anni, Madina Hosseini, è stata uccisa da un treno in transito al confine tra Croazia e Serbia» si legge nel dossier, che precisa: «Secondo il rapporto del difensore civico croato, Madina e la sua famiglia erano arrivate in Croazia e avevano chiesto asilo, quando è stato detto loro di tornare in Serbia». Una violazione delle norme sul diritto d’asilo finita in dramma. La famiglia è stata trasferita «in un veicolo della polizia vicino alla ferrovia e istruita a seguire i binari fino alla Serbia. Poco dopo, la bambina di sei anni è stata uccisa da un treno». D allora non molto è cambiato in meglio.

      Da Kabul a Trieste sono 4mila chilometri. Da qui il villaggio di casa è lontano, la guerra anche. C’è chi l’ultimo tratto lo ha percorso cinque volte. Perché acciuffato dagli agenti sloveni, infine riportato in Bosnia dopo una lezione della polizia croata. E c’è chi a Trieste invece c’era quasi arrivato, ma è stato colto dalla polizia italiana sulla fascia di confine, e poco dopo «riammesso» in Slovenia, come prevede un vecchio accordo tra Roma e Lubiana siglato quando implodeva la ex Jugoslavia.

      Scarpe sfondate, vestiti rotti, le caviglie gonfie e gli occhi troppo stanchi di chi l’ultima volta che s’è accucciato su un materasso era in un qualche posto di polizia. Per Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), è più che «anomalo che la riammissione possa avvenire senza l’emanazione di un provvedimento amministrativo». Anche perché «è indiscutibile che l’azione posta in essere dalla pubblica sicurezza attraverso l’accompagnamento forzato in Slovenia produce effetti rilevantissimi – aggiunge – sulla situazione giuridica dei soggetti interessati».

      Ricacciati indietro senza neanche poter presentare la domanda di protezione, molti passano per le mani delle guardie croate. Anche qui, però, il compatto muro di omertà tra uomini in divisa comincia a incrinarsi. La diffusione di immagini e filmati che documentano la presenza di gendarmi tra i picchiatori di migranti sta convincendo diversi agenti a denunciare anche i loro superiori. Gli ordini, infatti, arrivano dall’alto. Il merito è dell’Ufficio per la protezione dei diritti umani di Zagabria, dotato di poteri investigativi che stanno aprendo la strada a indagini della magistratura, garantendo l’anonimato ai poliziotti che collaborano con le indagini. Il ministero dell’Interno di Zagabria respinge le accuse arrivate nelle ultime settimane da testate come Der Spiegel, The Guardian e Avvenire, riguardo le violenze commesse dalle autorità lungo i confini. Foto e filmati mostrano uomini in divisa armati di spranghe e fruste. «Non si può confermare con certezza che siano membri regolari della polizia croata», si legge in una nota. «La polizia croata protegge il confine dalla migrazione illegale, lo protegge dalle azioni illegali e dai pericoli – aggiunge – che possono portare con sé persone senza documenti e senza identità, e lo fa per fornire pace e sicurezza al popolo croato». Tuttavia «non tolleriamo alcuna violenza nella protezione delle frontiere né (la violenza) è parte integrante delle nostre azioni». Riguardo al filmato e alla ricostruzione di Border Violence Monitoring «concludiamo che non abbiamo registrato azioni in base alla data e al luogo dichiarati nell’annuncio». Quali indagini siano state condotte non è però dato saperlo. «Controlleremo accuratamente i presunti eventi».

      Mentre dal Carso i primi refoli della sera si scontrano con quelli che soffiano dal mare, i volontari appostati nei dintorni della statua della principessa Sissi si preparano a un’altra serata con dolori da alleviare e lamenti da ascoltare. Lorena Fornasier, 67 anni, psicoterapeuta, e suo marito Gian Andrea Franchi, 83 anni, professore di filosofia in pensione, passano spesso di qua. Raccolgono quelli messi peggio. Lo fanno da anni, senza clamore, e si devono a loro le prime denunce sui maltrattamenti subiti dove finiscono i Balcani e comincia la Mitteleuropa.

      «Bisogna portare in tribunale dei casi individuali con l’intento di definire un precedente che sia valido per tutti, per attivare dei cambiamenti normativi che permettano un maggiore rispetto dei diritti fondamentali», osserva Giulia Spagna, direttrice per l’Italia del Danish refugee council, le cui squadre continuano a raccogliere prove di abusi lungo tutta la dorsale balcanica. «Da una parte – aggiunge – si devono offrire soluzioni concrete alle persone che hanno subito soprusi, attraverso supporto legale, oltre che medico e psicologico. Dall’altra usare questi episodi per influenzare le politiche europee e nazionali».

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/a-trieste-tra-chi-cura-le-ferite-reportage-migranti

  • Arriva la protezione speciale. Si chiude la pagina dei decreti Salvini

    Da molti considerata come il necessario segnale di discontinuità tra i governi Conte e il successivo Conte-bis, la revisione dei decreti sicurezza voluti da Matteo Salvini sembra ormai cosa fatta. Il grosso del lavoro, e cioè l’accordo tra le forze interne alla maggioranza, è archiviato. E il nuovo testo sull’immigrazione, come annunciato dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese in un’intervista col direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio, sarà sulla scrivania del premier entro Ferragosto.

    Riconoscimenti in linea con l’Ue Ma cosa cambierà? Di fatto si reintroduce la ’protezione umanitaria’, cancellata con un colpo di spugna dall’ex titolare del Viminale. Si chiamerà probabilmente ’protezione speciale’, ma la sostanza rimarrà la stessa. Va detto però che la ’protezione umanitaria’ era uno status strutturato nell’arco di una decina di anni, sulla base di una vasta giurisprudenza e a partire da uno spazio limitato garantito dalla legislazione originale. Il decreto annunciato proporrà un testo nuovo. L’obiettivo è quello di tornare a una percentuale di soggetti con riconoscimento di protezione (a vario titolo) in linea con la media europea. Perché il nostro Paese, con i decreti Salvini in vigore, era passato da un 40% circa di riconoscimenti complessivi a meno del 20%. Una circostanza deter- minata dal fatto che in Italia la ’protezione umanitaria’ ricopriva un ruolo decisivo, a differenza di altri Stati che possono contare su diversi istituti di riconoscimento dello status dei migranti. Così facendo, gli effetti nefasti dei provvedimenti voluti dall’allora vicepremier leghista saranno disinnescati.

    Accoglienza e integrazione Il decreto Salvini aveva ampiamente ridimensionato i confini del sistema #Sprar, successivamente ribattezzato come ’#Siproimi', escludendo di fatto dai circuiti dell’accoglienza i richiedenti asilo, che invece con il nuovo testo verranno reintrodotti nel sistema. Ci sarà comunque una differenza tra i servizi che saranno loro garantiti rispetto a quelli offerti ai titolari di protezione, così come stabilito da una delibera della Corte dei Conti nel 2018. Il testo imponeva infatti una differenziazione tra chi non ha ancora maturato il diritto di asilo (e potrebbe anche non maturarlo) e chi invece ha già raggiunto lo status. Ad ogni modo il sistema sarà ripristinato, con lo stop alle strutture di massa per irregolari a favore invece di un’accoglienza diffusa, fatta di piccoli gruppi e in grado di facilitare la convivenza con le comunità locali e l’integrazione. La differenza, piccola in realtà, sarà che i titolari di protezione internazionale avranno anche dei servizi di orientamento e formazione al lavoro. Mediazione culturale, studio della lingua, assistenza sanitaria, supporto psicologico, dovrebbero essere invece garantiti a tutti. Salvini, non per decreto, ma attraverso la redazione di un nuovo capitolato d’appalto per la gestione dei centri di accoglienza, aveva tagliato diverse di queste voci. Nel frattempo, ieri, un’apposita commissione presso il Dipartimento per l’Immigrazione del Viminale ha autorizzato la prosecuzione di 499 progetti Siproimi scaduti, per poter garantire la continuità dei servizi di accoglienza da parte degli enti locali che aderiscono alla rete.

    Obiettivo: decongestionare La gestione dei grandi centri di accoglienza (nazionale), resterà una parte importante del sistema di integrazione immaginato dal governo, ma verrà alleggerita dal ritorno dello Sprar. La sinergia delle due dimensioni, statale e territoriale, dovrebbe aiutare la decongestione degli hotspot, dove tra l’altro si sta pensando di introdurre l’utilizzo di tamponi immediati a ogni arrivo per facilitare i trasferimenti in sicurezza. Misure che eviteranno ulteriori pressioni sociali, limitando i tentativi di fuga. Certo, finché la situazione è a rischio, non si possono escludere interventi straordinari. Come la decisione di ieri di inviare l’Esercito a presidiare l’hotspot di Pozzallo, che ha registrato un aumento dei casi di Covid-19 tra i migranti ospiti nella struttura (sono saliti a 73). Anche a Milano è stato disposto un presidio militare dopo che un migrante è risultato positivo nel Cas di via Quintiliano.

    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/migranti-arriva-la-protezione-speciale-si-chiude-la-pagina-dei-decreti-sal
    #fin #décret_salvini #decreto_salvini #asile #migrations #protection_humanitaire #réfugiés #protection_spéciale #accueil_diffus #intégration

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    • Decreto Sicurezza. Lamorgese: entro Ferragosto il decreto sull’immigrazione

      Il processo di revisione dei decreti sicurezza è chiuso, «manca solo il parere dei Comuni, per la loro competenza nella gestione dei centri di accoglienza», annuncia Luciana Lamorgese. «Entro Ferragosto» il testo di quello che chiama «decreto immigrazione » sarà pronto. «Con la maggioranza è stato trovato un testo condiviso. Ovviamente abbiamo preso tutte le osservazioni formulate dalla presidenza della Repubblica e siamo andati oltre, perché abbiamo modificato il sistema di accoglienza prevedendo che anche i richiedenti asilo entrino in un circuito di accoglienza identico a chi è sottoposto a protezione internazionale, ritornando un po’ a com’era prima». La ministra dell’Interno, intervistata dal di- rettore di Avvenire, Marco Tarquinio, interviene nel corso del “Caffeina Festival” che si tiene nella splendida cornice del castello di Santa Severa, posto sull’Aurelia, di fronte al mare. «Adesso aspettiamo il parere dell’Anci – sottolinea – per il sistema di accoglienza che viene un modificato. Parliamo dei centri di accoglienza che dovranno essere gestiti dai Comuni, quelli che erano gli Sprar. Spero di mandarlo a palazzo Chigi prima di Ferragosto, poi vedremo l’iter, se ne parlerà a settembre».

      Sulla gestione del Covid rivendica la bontà della linea del governo, e si rivolge soprattutto ai giovani, per invocare responsabilità. «L’Italia ha fatto bene, altri guardano a noi come modello. Ma stiamo attenti, la curva torna a salire», avverte il ministro dell’Interno. «Ai giovani dico che dobbiamo stare attenti perché la responsabilità che finora ha contraddistinto i nostri comportamenti deve proseguire. Dobbiamo comportarci allo stesso modo anche adesso e non possiamo pensare che siamo in una fase in cui possiamo non mantenere il distanziamento e la mascherina. Dobbiamo essere responsabili anche quando si è fuori al mare a divertirsi: pensare che si possa fare a meno di determinate precauzioni è sbagliato», aggiunge.

      E difende la scelta di estendere l’emergenza a tutto il territorio nazionale: «Oggi col senno di poi è facile parlare. Ma in quel momento era la decisione più idonea, presa ed esempio anche da altri». Si congratula per la convergenza unanime raggiunta sull’assegno unico per i figli: «Finalmente, vuol dire che delle cose insieme si possono fare, bisognerebbe dividersi di meno e andare avanti insieme», auspica. Secca sulla notizia dei cinque parlamentari che hanno chiesto l’assegno per l’emergenza Covid: «Si dovrebbero vergognare», dice. Ancora sull’immigrazione: «Ho preteso che a Lampedusa si facessero i tamponi a tutti. Abbiamo avuto, è vero, 14 mila sbarchi, ma l’aumento si è registrato soprattutto a luglio per la crisi politica ed economica in Tunisia». Molto importante, infine, giudica l’intesa raggiunta sul Recovery Fund, nel Consiglio Europeo: «Ma ora i progetti vanno fatti, per usufruire dei finanziamenti. Noi – annuncia – abbiamo già presentato i nostri. Dalla pubblica sicurezza ai Vigili del Fuoco agli enti locali, abbiamo già inviato le nostre richieste ».

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/lamorgese-entro-ferragosto-il-decreto-sullimmigrazione

  • Rights in route. The “#quarantine_ships” between risks and criticisms

    The use of quarantine ships is one of the measures put in place by the Italian government to deal with the arrivals of foreign nationals in times of pandemic. Almost two months after the start of this experiment, it is possible to make a first assessment of the adequacy and criticism entailed in this measure.

    The first experiment was carried out on board the ship Rubattino, run by the Tirrenia company, which hosted 183 people between the 17 April and the 5 May. On the 19 April, the Ministry of Infrastructure and Transportations launched a procedure for the chartering of vessels for the assistance and “health surveillance” of migrants autonomously arriving on the Italian coasts or rescued in SAR operations. The #Moby_Zazà was then identified as a “quarantine ship” capable of accommodating up to 250 people. 160 migrants, whose Covid-19 test was finally negative, left the ship on the 30 May.

    The issue of the controversial interministerial decree no. 150 of 7 April 2020 gave rise to the redefinition of post-disembarkation procedures. The decree establishes that, during the health emergency caused by the spread of Covid-19, Italian ports cannot be classified as safe places, place of safety, for the landing of migrants.

    On 12 April, Decree no. 1287/2020 of the Head of the Civil Protection Department was published, entrusting the Department for Civil Liberties and Immigration of the Ministry of the Interior with the management of procedures related to the fiduciary isolation and quarantine of foreign citizens rescued or arrived independently by sea. On the basis of this decree, the Ministry of Interior, together with the Italian Red Cross, may use ships for the “health surveillance” period “with reference to persons rescued at sea and for whom it is not possible to indicate the “Place of Safety”. This indication, apparently sibylline, refers to the persons referred to in the decree of 7 April, i.e. persons rescued outside the Italian SAR by ships flying a foreign flag for which Italian ports cannot be considered “safe places”. Migrants arriving autonomously, i.e. not as a result of SAR operations, should in the first instance carry out the quarantine period in reception facilities on the territory and not on ships, unless it is for some reason impossible to identify such facilities, as in fact happened for many people disembarked in Italy in May and June.

    A number of problems arise from use of the so-called quarantine ships. First of all, it is a device for the deprivation of personal freedom which differs clearly from the measures to which foreign citizens who have come to Italy by other means have been subjected during the lockdown. The Interministerial Decree of 17 March provided that persons arriving from abroad, in the absence of symptoms, must report their return to the public sanitary office, prevention department, and undergo isolation and health surveillance for a period of 14 days. It is therefore a formula with markedly discriminatory characteristics.

    With regard to the conditions in which people are inside the ship, the words of the National Ombudsman for the rights of prisoners effectively paint the situation of the Moby Zaza: “the […] playful image painted on the hull, corresponds dramatically to the reality of those who, presumably escaped from wars or imprisonments, await the flow of the, though dutiful, quarantine with a lack of certain information and support against despair”.

    The use of ships for the quarantine also has important symbolic value both for migrants subjected to the measure and in the political debate linked to the issue of disembarkation and the sharing of responsibility among the European member states in the field of migration.

    Finally, no news has been spread about the procedures that are implemented on the ships, about the support that is or is not provided to foreign citizens, about the possible police investigations carried out on board and about institutional and non institutional actors operating on board.

    For this reason, a request for access to the files was sent to the Ministry of the Interior and the Ministry of Health to find out which procedures are implemented on board, how they are carried out and who is involved.

    From the first answers received from the Civil Liberty and Immigration Department, as implementing entity, it is clear only the role of the Italian Red Cross responsible for health care measures, cultural linguistic mediation, social assistance, psychological support and identification of vulnerabilities.

    Finally, particular attention deserves the future of this praxis: migration management policies in recent years teach us that the major innovations have been introduced to manage emergencies. The hotspots themselves were set up in 2015 as an extraordinary measure to deal with a situation where the number of people arriving in Italy and Greece was extremely high. However, this system, having ended “the emergency”, continued to operate and became fully integrated into the ordinary management system of migration, revolutionizing it and introducing serious violations of the rights of foreign citizens.

    It is therefore necessary to ensure that quarantine ships do not become the forerunner of “#hotspot_ships”, “hotspot platforms” or other systems aimed at preventing foreign citizens rescued at sea from disembarking in Italy. The conditions of the ships, their structural isolation, the difficult monitoring and the impossibility of the contacts with civil society, make this formula absolutely inadequate for carrying out the delicate operations of reception, information, definition of the legal status of foreign citizens.

    https://inlimine.asgi.it/rights-in-route-the-quarantine-ships-between-risks-and-criticisms

    #navi_quarantena #hotspot #bateaux_hotspots #frontières_mobiles #Italie #migrations #asile #réfugiés #frontières #navi-quarantena #Méditerranée #mer #bateaux_quarantaine #bateau_quarantaine

    ping @isskein

    • Cosa sono e quanto costano le navi da quarantena per i migranti?

      Le navi da quarantena sono traghetti privati usati per isolare i migranti arrivati in Italia via mare e sono state istituite dal governo il 12 aprile con un decreto della Protezione civile, dopo che era stato dichiarato lo stato di emergenza per l’epidemia di coronavirus. Lo stato di emergenza terminerà il 31 luglio e non è ancora chiaro se le navi da quarantena rimarranno operative. Secondo il decreto, sui traghetti dovrebbero essere trasferite tutte le persone che sono state soccorse dalle imbarcazioni delle ong, tuttavia negli ultimi mesi sono stati confinati su queste strutture anche alcuni migranti che erano arrivati a terra direttamente con delle imbarcazioni di fortuna partite dalla Tunisia o dalla Libia.

      Le navi da quarantena sono sotto accusa da quando, il 20 maggio scorso, un ragazzo tunisino di 28 anni si è buttato in mare per raggiungere a nuoto la costa ed è morto. L’ultimo caso di un trasbordo su una nave da quarantena che ha fatto discutere è quello che ha coinvolto la nave Ocean Viking dell’ong Sos Meditérranée: bloccata per dieci giorni in mare, la notte del 6 luglio ha ricevuto dalle autorità italiane l’autorizzazione ad attraccare a Porto Empedocle, da dove i migranti sono stati trasferiti sulla Moby Zazà, anche se sono risultati tutti negativi al test per il covid-19.

      Come funzionano
      I traghetti Rubattino e Moby Zazà della Compagnia italiana di navigazione (Cin, già Tirrenia) sono le due navi passeggeri usate per la quarantena dei migranti. La Rubattino è stata attiva fino al 7 maggio ed è stata usata per la quarantena di 180 persone soccorse dalla nave della ong Sea Eye, Alan Kurdi, il 17 aprile 2020 e dall’imbarcazione Aita Mari il 19 aprile 2020. La Moby Zazà è diventata operativa il 12 maggio e attualmente il contratto è valido fino al 13 luglio.

      Per il nolo di questa nave la Compagnia italiana di navigazione ha ricevuto una somma che oscilla tra 900mila euro e 1,2 milioni di euro. La sorveglianza sanitaria a bordo è svolta dagli operatori della Croce rossa italiana (Cri). “Le navi non sono ospedali, sono traghetti passeggeri, attrezzati per ospitare circa 250 persone”, spiega la responsabile immigrazione della Croce rossa (Cri) Francesca Basile. “Dal 15 maggio la Moby Zazà ha ospitato 680 persone”, continua Basile, che assicura che sulla nave medici, infermieri e operatori culturali sono protetti da dispositivi di sicurezza e seguono tutti i protocolli sanitari per garantire la salute delle persone.

      Chi risulta negativo al test per il coronavirus rimane a bordo per quindici giorni, chi risulta positivo rimane sulla nave fino al momento in cui il tampone diventa negativo. “Abbiamo riscontrato una trentina di persone positive al test dall’inizio dell’operazione a maggio. Erano tutti asintomatici. Sono stati isolati a bordo della nave in una zona rossa, su uno dei ponti. Finché il tampone non è diventato negativo”, spiega la responsabile della Croce rossa.

      I costi e le criticità
      Alcuni esperti hanno però evidenziato diverse criticità di queste navi, soprattutto dopo che il 20 maggio un ragazzo tunisino si è gettato in mare ed è morto, mentre tentava di raggiungere la costa a nuoto. Valentina Brinis, operatrice legale dell’ong Open Arms, spiega che tenere le persone per lunghi periodi a bordo di una nave provoca un disagio psicologico, che anche in passato ha spinto le persone a gettarsi in mare. “Come Open Arms abbiamo avuto esperienza di quanto sia rischioso tenere a bordo le persone per un periodo di tempo prolungato, come c’è già successo nell’agosto del 2019 nella missione 66”.

      In quel caso le condizioni psicologiche critiche delle persone erano state documentate anche dal procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio che aveva parlato di “grande disagio fisico e psichico, di profonda prostrazione psicologica e di altissima tensione emozionale che avrebbero potuto provocare reazioni difficilmente controllabili delle quali, peraltro, i diversi tentativi di raggiungere a nuoto l’isola costituivano solo un preludio”.

      Per l’operatrice la quarantena andrebbe svolta a terra, nei centri di accoglienza e negli hotspot, perché “sulla nave è difficile mantenere una situazione di calma quando le persone hanno un vissuto molto traumatico”. Spesso tra le altre cose le persone sono fatte scendere a terra per poi risalire a bordo della nave da quarantena, “creando incomprensioni e frustrazioni che possono essere state all’origine del gesto del ragazzo che si è gettato in mare”. Un altro elemento di criticità è la violazione delle leggi internazionali sul soccorso in mare: le Convenzioni internazionali sul soccorso in mare stabiliscono infatti che le persone soccorse debbano essere rapidamente portate a terra e solo una volta arrivate in un place of safety (Pos) i soccorsi sono da ritenersi conclusi.

      Infine non sono chiari i protocolli seguiti a bordo delle navi da quarantena, mentre nei centri a terra ci sono delle normative (i capitolati hotspot) che regolamentano ogni aspetto di questi luoghi in cui le persone sono private temporaneamente della libertà personale. Anche dal punto di vista medico, uno studio coordinato da Joacim Rocklöv, docente di epidemiologia all’Università Umeå, in Svezia, pubblicato sul Journal of travel medicine, ha mostrato che il confinamento delle persone a bordo delle navi (in quel caso si trattava della nave da crociera Diamond Princess) non è efficace per limitare il contagio. Secondo lo studio, l’evacuazione della nave avrebbe portato a un ottavo circa i casi riscontrati al termine della quarantena a bordo.

      Per l’esperto di diritto marittimo Fulvio Vassallo Paleologo anche la conformità alle leggi di questo tipo di navi è dubbia, anche se consentita dalle direttive europee: “Un documento non vincolante della Commissione Europea sembra prevedere, con limiti assai discrezionali, questa vistosa violazione delle regole dettate in materia di prima accoglienza dalle direttive dell’Unione europea, dal diritto internazionale del mare e dall’articolo 10 ter del testo unico sull’immigrazione n.286 del 1998”, afferma Vassallo Paleologo.

      Dopo l’Italia, anche Malta ha adottato questo tipo di navi turistiche adibite a navi da quarantena per gli stranieri

      Secondo la Commissione europea infatti,“per quanto riguarda le condizioni di accoglienza, gli stati membri possono avvalersi della possibilità prevista dalla direttiva 2013/33/UE di stabilire, in casi debitamente giustificati e per un periodo ragionevole di durata più breve possibile, modalità relative alle condizioni materiali di accoglienza diverse da quelle normalmente richieste. Tali modalità devono in ogni caso garantire che si provveda alle esigenze essenziali, compresa l’assistenza sanitaria. Le misure di quarantena o di isolamento per la prevenzione della diffusione della covid-19 non sono disciplinate dall’acquis dell’Unione europea in materia di asilo. Tali misure possono essere imposte anche ai richiedenti asilo conformemente alla normativa nazionale, a condizione che siano necessarie, proporzionate e non discriminatorie”.

      “Rimane dunque da accertare se il trattenimento in quarantena a bordo di navi traghetto ancorate in mare, come la Moby Zazà sia ‘necessario, proporzionato e non discriminatorio’. La prassi del trattenimento su navi traghetto destinate alla quarantena dei naufraghi ha comunque disatteso il chiaro indirizzo fornito dalla Corte di cassazione con la sentenza del 20 febbraio 2020, sul caso Rackete, che ribadisce come le operazioni di soccorso in mare si concludano soltanto con lo sbarco a terra, in conformità del diritto internazionale e della normativa interna”, conclude l’esperto.

      Dopo l’Italia, anche Malta ha adottato questo tipo di navi turistiche adibite a navi da quarantena per gli stranieri. Nelle ultime settimane sono state tenute al largo 425 persone su navi private, per un costo complessivo di 1,7 milioni di euro. “La maggior parte di questi soldi sono stati usati per le 33mila ore di sorveglianza ai migranti”, spiega il quotidiano The Times of Malta, soprattutto per evitare che facessero gesti di autolesionismo o che si gettassero in acqua. Ora La Valletta vorrebbe chiedere i soldi di questa operazione all’Unione europea, che ha già fatto sapere che non li rimborserà.

      https://www.internazionale.it/notizie/annalisa-camilli/2020/07/07/navi-quarantena-moby-zaza

      #coût #Italie #Malte #coronavirus #quarantaine #confinement #covid-19 #décret #protection_civile #ferries #privatisation #sauvetage #Rubattino #Compagnia_italiana_di_navigazione #Cin #Tirrenia #Croce_rossa_italiana (#Cri)

    • Migrant tourist boats operation cost €1.7 million

      The government provides a breakdown of costs as it pushes for EU funding.

      Hosting 425 migrants on four boats out at sea cost taxpayers €1.7 million and discussions to secure EU funds are ongoing, the government said on Monday.

      The vast majority of that cost - €1 million - went to pay for the 33,000 hours of security services needed to keep watch of the migrants.

      They were detained aboard the boats after Malta closed its ports when declaring a public health emergency over the COVID-19 pandemic.

      They were only brought ashore over fears of a takeover on one of them.

      On Monday the government said in a statement that renting the four vessels racked up a bill of €363,440: €3,000 a day for each Captain Morgan boat and €6,500 for one owned by Supreme Travel.

      The sum of €212,646.12 was paid out to 33 companies for the provision of food, drinks, sanitation products and clothes.

      Vessels needed to be rented out to deliver these items, and this cost €87,741. The disembarkation procedure meanwhile cost €10,908.12.

      In the statement the government said that talks with the EU about funding for the costs were ongoing.

      While the government has said that it expects the EU to foot the bill for the operation, the EU has said that Malta’s application for funding is “not eligible for support”.

      https://timesofmalta.com/articles/view/migrant-tourist-boats-operation-cost-17-million.803181

    • Italie : dans les #navires_de_quarantaine, des centaines de migrants enfermés loin des regards

      En raison du Covid-19, des centaines de migrants sont actuellement confinés dans des navires amarrés au large de ports italiens, afin d’observer une quarantaine de plusieurs semaines. La situation à bord est floue, presque aucune information ne circulant sur leurs conditions de vie.

      À leur arrivée à Lampedusa, après avoir traversé la Méditerranée, les migrants ne mettent pas tous le pied à terre. Ils sont le plus souvent transférés dans des ferries afin de limiter la surpopulation du seul centre d’accueil de l’île italienne qui dispose d’un peu moins de 100 places. Enfermés à bord de ces navires amarrés au large de plusieurs ports italiens, les exilés doivent observer une période de quarantaine de 14 jours, dans le but d’éviter la propagation de la pandémie de Covid-19.

      « En théorie, ils restent deux semaines, mais il semblerait que parfois cela dure plus longtemps », signale à InfoMigrants Flavio Di Giacomo, porte-parole de l’Organisation internationale des migrations (OIM).
      Très peu d’informations sur la situation à bord

      Les informations sur les conditions de vie à bord de ces centres flottants sont rares et difficiles à obtenir. Plusieurs centaines de migrants, pour la plupart originaires de Tunisie, vivent actuellement loin des regards dans ces bateaux.

      L’OIM admet avoir peu de détails sur la situation dans ces navires. « Nous n’avons pas d’équipe à l’intérieur de ces structures, donc peu d’informations à ce sujet. Nous ne savons pas combien de personnes y sont retenues, ni quel est leur quotidien », indique Flavio Di Giacomo.

      Selon Majdi Karbai, député tunisien du parti du courant démocratique joint par InfoMigrants, on dénombre environ 700 migrants pour le seul navire Azzura, positionné au large du port sicilien d’Augusta. « Je suis en contact avec des personnes à bord de ce ferry, mais je ne sais pas combien sont enfermées dans les autres navires. Il y en a aussi à Palerme ou en Calabre », précise-t-il.

      https://twitter.com/karbai/status/1311680948073832455

      Le 18 septembre, le député publie sur Twitter une vidéo filmée à bord de l’Azzurra, avec ce commentaire : « Tentative de suicide d’un migrant tunisien ». Les images laissent deviner un homme au sol au loin, entouré de plusieurs personnes. Il sera finalement pris en charge à l’hôpital, explique Majdi Karbai.
      Un migrant disparu après avoir tenté de s’échapper

      Le 1er octobre, il signale sur le même réseau social que cinq Tunisiens ont tenté de s’échapper d’un navire de quarantaine amarré à Palerme, en Sicile. « Deux sont tombés sur le quai et se sont cassés la jambe, trois se sont enfuis avant d’être arrêtés par la police », raconte le député.

      https://twitter.com/karbai/status/1311679465609719813

      Quelques jours plus tard, les médias italiens rapportent une histoire similaire. Dans la nuit du samedi 3 au dimanche 4 octobre, trois autres migrants ont sauté à l’eau depuis le navire Azzura. Deux d’entre eux ont été récupérés par des pompiers mais le troisième a disparu. Les recherches n’ont pas permis de le retrouver, laissant craindre une noyade.

      « Les migrants tentent de s’échapper de ces bateaux car ils redoutent d’être renvoyés en Tunisie », signale Majdi Karbai. Des dizaines de personnes ont en effet été transférées directement depuis ces navires vers des centres de renvoi, en vue d’une expulsion. D’autres ont reçu une obligation de quitter le territoire italien sous sept jours.

      « On ne sait pas pourquoi untel est renvoyé, et un autre écope de ce document. Tout est flou. Certains pourraient bénéficier d’une protection internationale mais ils n’ont eu accès à aucun avocat et n’ont pas pu demander l’asile », souligne le député. « Les droits de ces personnes sont bafoués », déplore encore Majdi Karbai.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/27749/italie-dans-les-navires-de-quarantaine-des-centaines-de-migrants-enfer

      Déjà signalé sur seenthis par @veronique_petit :
      https://seenthis.net/messages/879809

    • Abbandonati nei #CAS quarantena in attesa del rimpatrio

      In questi giorni la campagna LasciateCIEntrare sta raccogliendo diverse testimonianze di cittadini tunisini stritolati all’interno del sistema di controllo e trattenimento a cui sono sottoposti una volta intercettati allo sbarco. Che siano posti su navi quarantena, di fatto diventate luoghi di detenzione illegittima, o immediatamente all’interno di Cas quarantena detentivi, le procedure a cui sono sottoposti sono perlopiù funzionali ad un rimpatrio immediato. In questo dispositivo di trattenimento-rimpatrio non c’è alcuno spazio per la salvaguardia dei diritti fondamentali e per la tutela delle persone.

      «Quali sono gli accordi criminali stipulati tra Tunisia ed Italia? Cos’è questa orribile macchina aspira e sputa uomini?», afferma Yasmine Accardo, referente della campagna che sta inviando segnalazioni al Garante delle persone private della libertà e insieme a LasciateCIEntrare invoca il rispetto dei diritti fondamentali.

      «Si tratta ancora una volta di situazioni di gravità assoluta che ricordano che in futuro sarà anche peggio e che dovrebbero portare ad una denuncia e mobilitazione univoca delle persone e delle organizzazioni che ancora credono che esista un mondo di diritto», continua l’attivista.

      «I nuovi tanto acclamati decreti si inseriscono così perfettamente in questo contesto: lasciate ogni speranza voi che entrate. Noi non ci stiamo! Chiediamo un’immediata mobilitazione perché vengano liberate queste persone trattenute illegittimamente ed in condizioni di trattamenti inumani e degradanti».

      Le ultime testimonianze raccolte provengono da gruppi di persone trattenute in Sicilia a Trapani e Caltanissetta.
      Testimonianze da Trapani

      Arrivati il 19 settembre a Lampedusa, i cittadini tunisini dopo circa 3 giorni sono stati trasferiti in quarantena in un Cas a Valderice a Trapani, chiamato “Villa Sant’Andrea”. Fin dallo sbarco non hanno ricevuto alcuna adeguata informativa. Sono stati letteralmente sbattuti in questo centro e obbligati, per l’emergenza sanitaria Covid-19, a restare in quarantena. Nessuna figura di mediazione, nessuna attenzione per far sì che questo periodo di isolamento, reso necessario di questi tempi, potesse esser compreso come qualcosa a tutela della propria e altrui salute.

      Alcuni fuggono dal centro ed immediatamente si scatena la protesta dei vicini che chiedono maggiori protezioni, con in prima linea il sindaco di Valderice che pretende maggiori controlli. Verranno quindi costruite sbarre e potenziata la sorveglianza.

      La popolazione ha paura ed un «CAS quarantena» non è gradito. Nessun tentativo di portare anche solo un messaggio di vicinanza positiva, di benvenuto. Insulti e rabbia accolgono le persone che arrivano. Ben inteso di questi tempi ognuno di noi (lo sa bene chi è stato o sta in quarantena) viene evitato e guardato come un untore, con pochissimi che si preoccupano della solitudine di chi si trova “internato” o di portare un minimo di conforto anche da lontano.

      La paura è fuori verso chi è imprigionato, e dentro chi è isolato non trova niente di buono, solo polizia, rabbia, insulti in stanze approntate alla bell’e meglio con materassi di gommapiuma per terra e le solite porzioni di cibo freddo ed immangiabile.

      La parola «accoglienza» è qualcosa di profondamente lontano e questo gruppo di tunisini è più “fortunato di altri” perché se non altro non sono costretti a rimanere nelle navi quarantena anche per oltre un mese.

      Il centro che li ospita in questa detenzione strutturata per la quarantena, e che in realtà diventa pre-rimpatrio, è gestito da Badia Grande, perché i re del business dell’accoglienza ovviamente ne hanno approfittato subito anche in questa situazione: tanto i servizi sono ridotti all’osso. Non ci sono nemmeno le coperte. Stanze e materassi buttati a terra. “Minimal reception” mentre c’è sempre un grande guadagno e intanto i diritti sono al ribasso, se non proprio in estinzione. Un lavoro facile facile: quarantena e via. Quarantena e via. Perché qui non ci sono persone. Sole ombre di cui non resteranno nemmeno i resti.

      Ci rimangono le storie come quella di G. che deve essere raccontata perché si sappia ciò che accade.

      Il 24 settembre la polizia entra nelle stanze per prendere un gruppo di uomini per portarli in un altro centro, scopriremmo poi che si tratta del Cpr di via Corelli a Milano. G. è disperato, non vuole essere rimpatriato e si butta dal secondo piano.

      Cade e si rompe entrambe le gambe. Viene condotto al pronto soccorso di Trapani dove farà l’intervento il 7 ottobre. Due giorni dopo è già di nuovo sul materasso di gommapiuma buttato a terra nel centro di Badia Grande. Ha dolore alle gambe e non sa a chi chiedere aiuto.

      Nei giorni di ospedalizzazione aveva detto “non voglio tornare in quel posto orribile! Fatemi restare in ospedale finchè non mi sento bene. Per camminare mi servono le stampelle, ma ora ho troppo dolore”.

      Eppure il medico del reparto in cui G. è rimasto per due settimane ha ritenuto di dimetterlo solo due giorni dopo l’intervento.

      G. è ancora in attesa di poter essere riconosciuto come persona. Persona. Non come richiedente protezione che è un salto troppo lungo, quando nemmeno le basi del diritto esistono più.

      Vorrebbe capire se ci sono diritti dove è arrivato, vorrebbe sapere quali sono le procedure e perché fin dall’inizio è stato trattato come un vestito vuoto. Vuole capire perché qui ha trovato solo restrizioni e dolore.

      Il 9 ottobre hanno rimpatriato 80 tunisini in un giorno.
      Testimonianze da Caltanissetta

      Erano sulla nave quarantena GNV di fronte a Trapani. L’8 ottobre, circa 200 persone sono state trasferite dentro il CARA di Caltanissetta, in un’area posta proprio a fianco del CPR, al momento inagibile.

      Giunti nel centro intorno all’una di notte hanno trovato ad accoglierli materassi per terra in uno spazio circondato da polizia e militari. In condizioni disumane per tutta la notte hanno provato a protestare senza ottenere che parole monche e rimandi.

      Il giorno successivo un unico operatore urlante insieme ad un mediatore ha spiegato a 200 persone, stanche e preoccupate di trovarsi in condizioni così degradanti, quali sono le procedure: se vogliono chiedere la protezione possono farlo e la domanda verrà valutata dalla Commissione in tempi rapidi: 5 gg. Chi non farà domanda verrà rimpatriato.

      Tra di loro vi sono persone vulnerabili con patologie croniche, come il diabete, e da quando sono stati posti in quarantena non hanno ricevuto i farmaci a loro indispensabili. Sulla nave hanno fatto il test per il Covid-19 risultando negativi, si aspettavano dunque di raggiungere un centro di accoglienza degno di questo nome: invece il duro asfalto e materassi in gommapiuma a terra. Le condizioni dei bagni sono ovviamente impressionanti. «Se entriamo ci prendiamo una malattia certamente», ci dicono.

      C’è grande preoccupazione inoltre per il virus. Alla fine del trasferimento gestito dalla Croce Rossa, si sono ritrovati tutti insieme i gruppi provenienti dai piani diversi della nave quarantena. Alcuni di loro ci dicono che al settimo piano avevano messo i positivi: «Qui invece siamo tutti insieme. Tra noi ci sono alcuni positivi. Se eravamo negativi ora ci infetteremo tutti». Altri ripetono: “Ci hanno detto che proprio perché ci sono i positivi meglio che ci rimpatriano presto così non ci infettiamo”.

      E’ il caos totale tra persone in lacrime e chi vorrebbe tentare il suicidio. In una situazione di continui trattenimenti e scarsa informativa dove "ci trattano come schiavi e peggio delle bestie. Può succedere qualsiasi cosa. Siamo tutti spaventati. Quanto manterremo l’equilibrio in questa situazione?”.

      Anche le informazioni relativamente a chi è infetto e chi non lo è derivano da una gestione vergognosamente approssimata, autorità e sottoposti che hanno mescolato persone senza spiegare nulla, come fossero chicchi di mais. Così aumenta la paura e il sospetto e si rischia la caccia all’untore in un gruppo di persone già fortemente provato. Nessuna di loro ha incontrato organizzazioni di tutela delle persone, tenute evidentemente alla larga o conniventi e silenti con quanto sta accadendo.

      https://www.meltingpot.org/Abbandonati-nei-CAS-quarantena-in-attesa-del-rimpatrio.html

      #Trapani #Caltanissetta

    • Italy Has Turned Cruise Liners Into Jails for Migrants

      With Italy’s tourist sector sunk by the pandemic, authorities are now hiring cruise ships as floating jails for refugees. The migrant prisons show capitalism’s ability to restructure in times of crisis — but also the potential resistance to it.

      How do you make a prison?

      We like to imagine things being built from scratch. Perhaps stone and mortar heaped up by little computer game figurines, or Lego building blocks piled high. Most of the time, we have a simple idea of how our world is constructed, falling back on the games we played as children. Maybe this was occasionally the case when colonizers built their outposts. Perhaps they, too, were children once. But today’s world is already too built up for such endeavors — too full of things. Capitalists prefer to use what they find lying around, rather than invest in start-ups.

      On the Mediterranean island of Sicily, the material at hand was the cruise ship — and the prison it has been converted into is the so-called quarantine ship, on which newly arriving immigrants are forcibly kept. These new prisons are the single piece of technology that most succinctly sums up the transformations underway in Italy’s COVID-19 capitalism. Doubtless, other islands and continents have their own landmarks strewn across the landscape of contagion, from the New York hotel rooms packed with the homeless, to the food warehouses of central Nigeria. (And to each monument, its resistance: the lawsuits being filed in US courts, or the looting of stockpiles by Nigerian protesters).

      The Sicilian case can, even so, be used to open up some wider questions about what’s going on in this surreal border moment in history, how capitalism is reacting, and what forms of resistance we are witnessing. For years, working-class Africans and Asians have hammered on the gates of Europe to readdress the balance in global inequalities. The articulate call for freedom that reverberates from the borders is not hard to hear: one need only block out the deafening silence of our current barbarism.

      So, what I will attempt to show, here, is that the resistance to the authoritarianism unleashed by the pandemic does have a side that can be supported by progressive forces — that is, without being dragged into the pitfalls of repudiating scientific evidence, casting aside our masks and our principles. It provides a way to hold onto the thought that perhaps, at the end of all this, our governments might build something other than prisons.
      From Cruise Ships To Floating Prisons

      One of the first media stories that lifted the pandemic beyond China’s borders (a long ten months ago) was the quarantining of the Diamond Princess. This British-owned cruise ship was quarantined at the port of Okinawa, Japan in early February, with almost four thousand passengers and crew on board. Over the following month, one-fifth of the passengers were infected and gradually flown off to their respective countries or disembarked at port (the crew were less fortunate and less mobile). There were fourteen deaths. This was followed by other mass outbreaks on cruise ships: the Rotterdam, the Zaandam, the Ruby Princess, and the Greg Mortimer — all luxury holiday vessels that helped spread the virus around the world. The last of these was probably responsible for half the cases in Australia.

      Alongside the many criticisms made of how the Japanese authorities blocked everyone on board, leading to unnecessary deaths, it quickly became clear that cruise holidays would be one of the first markets to be axed in the name of human survival. Or rather, that the perils were so clear that tourists would soon disappear — and the invisible hand of the market would do its work. The sector sank. The cruise companies had, recently, began to hoist hopes of a new start to their ventures — but the second wave dashed such vanities.

      Leaving aside the glee one may draw from the shipowners’ misfortune, cruise holidays also provide an extraordinary symbol of our contemporary crisis. They bring the generational divide — a far wealthier older generation with expendable capital — into collision with the hypermobile internationalism of contemporary capitalism. The same hypermobility, that is, which brought us just-in-time logistics operations, international art fairs, and (as the Marxist geographer David Harvey has rightly pointed out) the pandemic itself.

      The cruise holiday’s disappearance was marked by a “traumatic” event: holidaymakers being held in quarantine on the ships. Indeed, journalists focused on passengers’ complaints and the sight of the upper classes roughing it onboard, while paying much less attention to the thousands of crew members trapped in cramped conditions. And as the cruise companies went bust and photographs of the new ship graveyards circulated on the internet, replete with the watery tears of the World Economic Forum and Saudi princes, far fewer words have been given over to one of the more peculiar yet indicative ways in which the sector has been rerouted: the “quarantine ship.”

      The Italian government first landed on the idea of using ships to quarantine newly arrived migrants from Africa back in May, when the ferry liner Moby Zazà was sequestered for this purpose and docked near the island of Lampedusa with several hundred people trapped on board. Since then, two cruise companies — GNV and SNAV — have won public tenders to provide a small fleet of cruise ships employed to quarantine hundreds of people at a time. The companies are being paid around €100 per person, per day for this service: over €1 million a month per ship.

      Those on board — mostly from Tunisia, but also Bangladesh, Ethiopia, Libya, Syria, and across West Africa — have experienced widely varying living conditions in isolation. Some of the ships have doctors and lawyers on board. Less fortunate passengers have seen only guards, crew, and police dogs. Newly arriving migrants, having already passed through the hell and high water of the Libyan war and the Mediterranean Sea, are trapped on board for a month or more, in conditions that potentially favor rather than prevent contagion. Even more extraordinarily, several cases have been brought to light of asylum seekers being sent from centers on mainland Italy to the quarantine ships, whether as a prevention against contagion or simply to punish those who rebel.

      Perhaps we might more aptly baptize such vessels “temporary prison ships” or even “floating hot spots.” This last phrase is especially appropriate given that a few years ago the Italian government proposed that the so-called EU border “hot spot” centers (for the mass identification and detention of newly arriving immigrants, experimented on Italian and Greek islands) be set up on ships — naming them “floating hot spots,” no less. The idea was dumped by the EU for infringing on just one too many human rights. But in love, war, and pandemic, anything goes. Here’s a short transcription of a video made by a young Ghanaian man removed by the Red Cross from his refugee hostel in the middle of the night:

      Last Sunday they bring people, say that they want to test us for COVID-19 . . . they tell me, they said I have positive. They take me from Roma to Palermo . . . I was asking my camp people — who tell me I am positive — so tell me, where is my positive document? They couldn’t show me . . . So now everyone in Roma with coronavirus, they are going to collect them on the ship? They quarantine me in Palermo, now we are in the Bari seaport, right now. Since they brought me here, no medicine, I couldn’t see doctor with my face . . . Try your best, and post [this video] to everywhere, so that the Italian leaders can also play it, to hear it, to fight for we the immigrants.

      Luxury Containers

      The use of luxury structures as centers of confinement is familiar to recent immigrants in Italy — and indeed to anyone (of whatever politics) who has followed the development of the Italian asylum system. It is extremely common for asylum seekers to be housed in government-funded (but privately run) hostels in former hotels, whether in the mountains or on the beach. Again, we very often find that these buildings have a lackluster history of Mafia-ish building speculation, rickety funding programs, market failure, and, finally, reconversion into hostels for asylum seekers. Or, to be a little less diplomatic, temporary housing for poor blacks.

      Failed beach resorts and ski chalets were not the only businesses to be propped up: you also find a range of failed old people’s homes, failed foster homes, failed student halls, etc. Furthermore, over the years the hotel-turned-camp has become the unwitting symbol of the far-right’s smear campaign against the African working class. Labeled as feckless, lazy, and presumptuous, for years asylum seekers’ protests for basic amenities (Wi-Fi, decent food, medical attention) were reported under headlines such as “Migrants Refuse 5* Hotel” or “We Want WiFi! Hotel Not Good Enough For Migrants” and similar.

      This kind of conversion of large housing structures from holiday homes/vessels into prisons/sites of confinement — floating or otherwise — represents a moment in what we might call “capitalist restructuring,” in which fixed capital has to be put to new uses. Following the Italian recession of 2012, these hostels and other containers were filled with the proletariat castoff (in one way or another) by the concurrent Arab Spring. The “quarantine ships” provide another moment of such restructuring. This is representative of the kind of response we are seeing, and probably will continue to see, to the global recession of 2020: not cuts and austerity, but active investment and reconversion of industries, in spurts of booming and busting that follow the contractions and spasms of waves of contagion. So much for the ways of capital.

      The question hanging over all of this, however, is to what extent this new world of things can be reshaped toward greater freedom, and not less. Mothballed factories can often be reopened, so long as the appropriate use is found. Moments of restructuring are not maneuvered by divine forces, but by ideas and the capacity of human beings to act upon those ideas. In the quarantine ships, we find the enactment of a particular idea of containment and the reconversion of luxury capital to those ends. It privileges containment as prison, over containment as community.

      But what if the capital of luxury could be converted into a common luxury? What if the rusty wreckage of today could become the raw material of tomorrow’s visionary futures? The very idea around which these prisons are being formed is the kernel of revolutionary thought: isolation, exodus, the commune. For every Robinson Crusoe (isolated by accident), there is a Maroon community (isolated by choice!). There was and still is a choice about the direction that the current moment of restructuring takes.

      The fixed capital of old sectors now laid into the waste bin of history — luxury cruise ships, packed shopping malls, packed anything really — can be put to new uses of many kinds. What we have seen with the “quarantine ships” is the expression of an authoritarian tendency that has prevailed over a utopian one. The idea of isolation has been interpreted as a prison rather than a holiday, as Lord of the Flies rather than Never Never Land.

      Michel Foucault noted these two opposing tendencies some four decades ago when he wrote: “The exile of the leper and the arrest of the plague do not bring with them the same political dream. The first is that of a pure community, the second that of a disciplined society.” And what if — as the Zapatistas have suggested in their reaction to the pandemic — the disciplined society was not that of an authoritarian disciplining, but rather one in which we ourselves have taken responsibility? What if instead of trying to force people to stay in a place of violence, we could instead make a site of quarantine so full of care, of luxury, of fulfilled desires, that no one wanted to leave it?

      The type of society I am alluding to is one that we have mentioned already: the holiday resort. OK, perhaps not the holiday resort as such — not Princess Cruises or the Four Seasons. Maybe capitalism still hasn’t managed to provide us with a true holiday. But perhaps even this minute form of utopia, the utopia of not working, of minibars and sun loungers, of exotic locations and intimate company, contains a small, tarnished vision of freedom.
      Diving for Freedom

      Perhaps it seems fanciful, even in bad taste, to discuss the utopian potential of containment amid a pandemic. Even more so to ponder such possibilities for Europe’s most exploited and least free population, the recently arrived working-class Africans and Asians aboard these ships. But the drive for freedom is there — rearing its head despite all the odds.

      Migrants have broken out and evaded every prison designed to contain them. People have run away from quarantine centers on land, leading to manhunts for Arabs in the forests of Sicily’s mountain ranges. There have been mass breakouts at the militarized “hub” in Villa Sikania, where an Ethiopian man was killed by a speeding car as he ran from the gates. They have fought with the police on board the quarantine ships, they — “the Tunisian heroes” as a Moroccan comrade has dubbed them — have burnt their beds in the detention centers. They have swallowed razor blades to protest their watery imprisonment and impending deportation. Like the young Ghanaian man quoted above, they have reached out to leaders and formed alliances with activists.

      Some have even dived overboard to reach dry ground. At least one man on board the Moby Zazà, the very first quarantine ship, died in the effort — if we needed reminding that the flight from containment can be a fight to the death.

      This is not the first time that people rescued from the Mediterranean route have later drowned at sea, desperately trying to reach the shore or another ship. There can be few examples so horrendous of the fatality of freedom, of the sheer necessity of breaking away. But the tragedy and desperation of these deaths remove nothing from the impulse for freedom that they express. It is a recognition of what is at stake in this moment of capitalist restructuring.

      Calls for freedom during the pandemic — and movements against the restrictive measures imposed by governments — have been dominated by a very different tone. Every country (or at least the ones I am familiar with) has its own version of the movement against lockdowns, enforced mask-wearing, and so on. Is this the same impulse for freedom? Do such movements represent the same acknowledgment of capital’s new turn? Is resistance to the quarantine ships the same as resistance to bans on alcohol sales or mass consumption in shopping malls?

      I think not. Not so much for any of the “political” connotations of the no-mask movement in the United States (associated with Trumpism), nor because one urges a return to a bland consumerism while the other sheds light on the darker, carceral corners of European civilization. But rather, because they deal with very different levels of freedom, with different consequences for people’s lives.

      In a society characterized by an authoritarian turn, everyone moves down a step on the scale of human rights. Those who had all their rights recognized and guaranteed find themselves with a few small tears at the edges of their personal constitutional charter. Those who were further down the ladder perhaps find themselves less free, crammed into makeshift lodgings, forced to renege on aspects of their autonomy. Those who were already clasping to the bottom rung of the ladder, however, now find themselves cast into gray zones of legality, their every freedom arbitrarily removed without reason or rhyme. And it is in these gray zones that capital makes its earliest advances when it restructures. It begins here, and works its way up.

      Forget the mask-dodgers and their irrationality: the resistance we should be looking at is that of the fugitives from our new prisons.

      https://jacobinmag.com/2020/11/italy-migrants-cruise-lines-ships-prisons-coronavirus

    • Navi quarantena, due operatori umanitari raccontano “quel sistema sbagliato che sospende il diritto”

      Il racconto dall’interno dei ragazzi che erano a bordo insieme ad Abou, il ragazzo di 15 anni morto una volta sceso a terra. Senso di frustrazione, burn out e rabbia. “L’isolamento è impossibile. Una scelta solo mediatica, è ora di cambiare”

      Il primo forte senso di frustrazione è arrivato quando Abou,15 anni, non ce l’ha fatta. Il ragazzo è peggiorato in fretta, in pochi giorni, l’evacuazione medica non l’ha salvato. Sul caso è stata aperta un’inchiesta ma il dubbio che a incidere pesantemente su quella morte sia stato anche il “sistema delle navi quarantena” resta. E sapere di non aver fatto abbastanza, di non essersi opposti a una gestione sbagliata, tormenta le notti. E’ per questo che per la prima volta alcuni operatori che erano a bordo della nave Allegra hanno deciso di parlare con Redattore Sociale e raccontare cosa succede su questi spazi galleggianti, che il Governo italiano ha pensato come luoghi di isolamento temporaneo per i migranti. Abbiamo raccolto le loro testimonianze, i nomi che riportiamo sono di fantasia ( i ragazzi hanno chiesto di mantenere l’anonimato) ma ne abbiamo verificato le identità e il ruolo.
      Effetto burn out: “Dopo l’esperienza sulle navi quarantena ho avuto un crollo”

      “Dopo la morte di Abou non ho rinnovato la mia missione, dovevo stare un altro mese ma ho preferito scendere. Non volevo più lavorare, mi sono presa del tempo. Ora faccio altro” racconta Martina, che ha iniziato a fare l’operatrice umanitaria a 25 anni. “Ora ne ho 37 e per me è ancora una scelta di vita. E allora cosa ci facevo là sopra? Quale era il mio ruolo in un luogo come quello?”. Chi si occupa di cooperazione internazionale lo chiama il “dilemma umanitario”: curare è sempre un imperativo categorico, ma in certi contesti la presenza degli operatori umanitari rischia di avallare scelte improprie. Di contro, non esserci vuol dire lasciare le persone senza un supporto necessario. Eppure l’idea di essere complice di un sistema che sospende il diritto e calpesta, in nome di una emergenza sanitaria, la dignità di persone in fuga, a Martina ha fatto venire il primo attacco di panico della sua vita. Così ha lasciato la collaborazione con Croce Rossa, ha smesso di lavorare per qualche mese e ora presta servizio in un ospedale, nelle sale di rianimazione dove sono curati i pazienti con il Covid-19.

      “Quando sono salita sull’Allegra avevo già una titubanza iniziale, era l’ultimo posto in cui volevo stare - spiega -. Sarei voluta scendere il giorno stesso, ma mi sono detta: proviamo a vedere. Se scendiamo tutti lasciamo sole queste persone, se restiamo cerchiamo almeno di fare qualcosa dall’interno: proviamo a umanizzare questa situazione”. Ma col passare dei giorni Martina capisce che il sistema non funziona. “Era tutto agghiacciante: le energie venivano a mancare, l’impegno era h24, eppure per quelle persone, fatte salire lì senza sapere neanche perché, la condizione non cambiava. Quando poi è successo di Abou ho avuto un tracollo emotivo. Dopo uno scontro coi nostri responsabili è arrivato il momento del burn out e il primo attacco di panico”.

      La condizione stessa della nave non ha aiutato. “Non potevi isolarti, non potevi scendere, eri sempre lì a vivere in una condizione assurda con pochi medici e infermieri per tutte quelle persone - aggiunge. Da lì capisci che le navi non risolvono nulla, non garantiscono neanche una vera quarantena. Le persone rimangono insieme anche se in settori separati. Spesso chi si negativizza si trova a stare con chi è positivo e l’isolamento diventa infinito”. Le persone salvate insieme ad Abou dalla Open Arms il 10 settembre scorso erano state fatte salire direttamente sulla nave Allegra. Il 29 settembre le condizioni del ragazzo sono talmente gravi da richiedere un’evacuazione medica, morirà in ospedale qualche giorno dopo.

      “Dopo la morte di Abou mi aspettavo che cambiasse qualcosa, che ci fosse una sollevazione, bisognava parlare, denunciare, e invece nulla - conclude-. La sua morte è stata strumentalizzata da tutti: il povero ragazzo migrante che non ce l’ha fatta. No, era un ragazzo che stava dove non doveva stare, non è stato trattato come una persona. Meritava un’assistenza diversa”.
      Dov’è l’indipendenza dell’aiuto umanitario?

      Anche Marco è stato per 45 giorni sulla nave quarantena Allegra. Anche Marco era a bordo insieme ad Abou. Anche Marco oggi vive la stessa frustrazione. “L’impotenza che si sente di fronte a questa situazione è altissima. Soffrivamo noi a stare in mare, potendo muoverci e sapendo di avere una data di fine operazione, figuriamoci i migranti, portati lì senza che sapessero il motivo - spiega -. Le necessità di base venivano assicurate, il cibo, l’acqua, le mascherine. Ma l’assistenza non è solo questo. Ho sempre pensato che fosse tutto un grande teatro, una messa in scena: si potevano isolare meglio le persone a terra, assicurandogli anche assistenza. E invece no, dovevano stare in mezzo al mare. E’ un isolamento mediatico, teatrale”.

      Marco ricorda il via vai di persone di ogni età, dalle famiglie con bambini (anche di pochi mesi) ai minori che viaggiano soli, non accompagnati. “Ci sono state diverse proteste delle associazioni di tutela ma i minori continuano a restare a bordo, è un problema non risolto - aggiunge -. Di prassi i non accompagnati dovrebbero entrare in un circuito di accoglienza e tutela diverso. Invece salgono sulle navi senza aver mai parlato con un tutore o un garante. Alla fine, anche se dormono in stanze separate, si ritrovano in una situazione di promiscuità con gli adulti”. Ma è il sistema nave quarantena a creare questa situazione: “E’ difficile anche accompagnare le persone con bisogni particolari, come le vittime di tratta e chi ha subito abusi e torture. Il personale a bordo spesso non è preparato. L’ambito volontaristico è virtuoso, le persone danno il massimo a bordo ma in certi casi non basta - afferma -. Non è una nave ospedale, e così anche l’assistenza sanitaria non è quella che si può avere a terra. Quando è arrivato il gruppo della Open Arms abbiamo fatto i tamponi a bordo e separato le persone nel migliore dei modi. Ma non bastava ovviamente: capitava che le persone si muovessero negli spazi comuni, il contagio era sempre possibile”.

      L’operatore ha assistito anche all’arrivo in piena notte dei pullman con gli ospiti dei centri di accoglienza, mandati a fare l’isolamento sulle navi. “Scene davvero pietose: vedevamo queste famiglie che aspettavano sulla banchina alle due di notte, mamme con bambini, persone stremate - ricorda -. Non gli avevano spiegato nulla, abbiamo fatto noi l’informativa. Tutti temevano di salire sulla nave per essere rimpatriati, una cosa assurda”.

      Dopo le proteste delle organizzazioni, le denunce di Arci e Asgi e l’interrogazione parlamentare di Erasmo Palazzotto, il trasferimento dai centri è stato interrotto. Ma le anomalie non si sono fermate. Marco racconta, per esempio, della lista dei tamponi da fare con priorità alle persone che dovevano essere rimpatriate. E si chiede: “Dov’è l’indipendenza di un operatore umanitario in questo caso? Noi dovremmo essere autonomi, indipendenti, non siamo questurini, dobbiamo curare tutti: dal peggiore dei migranti al più virtuoso. Il nostro obiettivo è la cura delle persone, trattiamo tutti allo stesso modo. E allora, noi nemmeno lo dovremmo sapere chi abbiamo davanti. Dobbiamo assicurare a tutti il trattamento migliore”.

      Così non è stato e ora anche lui ha questo grande rimorso di essere stato parte di un sistema dove il diritto è sospeso e le ragioni politiche contano più di quelle sanitarie. “Oggi la mia denuncia la faccio non solo come operatore umanitario ma come cittadino italiano, vorrei che chi opera nel settore aprisse un dibattito serio sul sistema delle navi quarantena, un modello che non funziona e che va cambiato”.

      https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/navi_quarantena_due_operatori_umanitari_raccontano_quel_sistema_sba

    • Navi e #bus, la «quarantena» dei migranti

      La navi da quarantena per i migranti sono state istituite dal governo lo scorso aprile, per far fronte all’emergenza sanitaria legata al coronavirus. Sono navi private, per passeggeri, adibite all’assistenza e alla sorveglianza sanitaria. Da subito la misura ha suscitato perplessità.

      La navi da quarantena per i migranti sono state istituite dal governo lo scorso aprile, per far fronte all’emergenza sanitaria legata al coronavirus. Sono navi private, per passeggeri, adibite all’assistenza e alla sorveglianza sanitaria dei migranti soccorsi in mare o giunti in Italia con barche autonome, prima dello sbarco in un porto sicuro. La decisione è legata all’impossibilità di indicare un “place of safety” in Italia per tutta la durata dell’emergenza sanitaria, per i casi di soccorso effettuati da parte di navi battenti bandiera straniera al di fuori dell’area Sar italiana.

      Da subito la misura ha suscitato perplessità. A partire dal Garante delle persone privati della libertà, Maura Palma, che, nei giorni immediatamente successevi alla decisione del governo, ha chiesto che non si creino zone di “limbo giuridico”, ribadendo la necessità che ogni persona sia messa nelle condizioni di esercitare i diritti fondamentali ed essere tutelata se vulnerabile, come le vittime di tratta. Duro anche il giudizio delle associazioni.

      La morte di Abou Dakite, quindicenne originario della Costa d’Avorio, dopo lo sbarco d’urgenza dalla nave quarantena “Allegra”, a Palermo, ha tragicamente riportato alla ribalta del dibattito mediatico la questione della presenza di minori sulle navi. Lo sbarco immediato e il collocamento in strutture idonee, in applicazione della legge Zampa, è stato chiesto dal Garante infanzia di Palermo e dai 200 tutori del distretto di Palermo, Agrigento e Trapani, mentre alcune associazioni hanno depositato esposti alle Procure presso i Tribunali per i Minorenni di Palermo e Catania.

      A centro di una interrogazione parlamentare il caso di alcuni trasferimenti dai centri di accoglienza alle navi quarantena di richiedenti asilo positivi al coronavirus. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha risposto in un question time alla Camera, facendo sapere che ci sono ora altre 25 strutture a terra, con una ricettività totale di 2700 posti per migranti

      Più in generale la condizione dell’accoglienza dei migranti ai tempi del Covid è analizzata in un rapporto della Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (Cild), in cui si fa il punto su quanto avvenuto nei luoghi di transito o di privazione della libertà e si analizzata la situazione verificatasi da febbraio a fine giugno nei Centri di permanenza per il rimpatrio, negli hotspot e nelle navi quarantena.

      Inoltre, nei mesi di lockdown il Tavolo Asilo e il Tavolo immigrazione e salute hanno realizzato un monitoraggio in 200 strutture di accoglienza che evidenza come, in mancanza di linee guida nazionali, solo il buonsenso abbia evitato l’esplosione di focolai. Ora le organizzazioni chiedono indicazioni precise per non trovarsi di nuovo impreparate. In particolare si chiede l’istituzione di strutture ponte, per l’isolamento fiduciario dei migranti.

      Il caso #Udine

      Tra le soluzioni improvvisate c’è quella dei #bus_quarantena a Udine: le persone in arrivo dalla rotta balcanica sono state portate su alcuni pullman posteggiati davanti al #parco_Sant’Osvaldo. Il prefetto di Udine parla di una scelta obbligata per la difficoltà di reperire sul territorio posti per l’accoglienza e per l’isolamento fiduciario dei migranti. Dopo la protesta delle associazioni e dell’Unhcr i migranti sono stati fatti scendere e portati in apposite strutture di accoglienza.

      https://www.redattoresociale.it/article/focus/navi-bus-la-quarantena-migranti

    • Migranti. Bus quarantena a Udine, “condizioni deprecabili, a bordo anche minori”

      Dopo giorni di polemiche e proteste continua la pratica dell’utilizzo dei pullman per l’isolamento fiduciario dei migranti, in attesa dello screening. Un consigliere comunale in visita: “Un pullman non può diventare un centro di prima accoglienza, è inaccettabile”

      Qualcuno ha sistemato a terra dei cartoni e delle lenzuola per passarci la notte. Il caldo è insopportabile e dentro al bus non si riesce a stare. Così c’è chi preferisce accamparsi sotto gli alberi del giardino di Sant’Osvaldo. Dopo giorni di polemiche e proteste a Udine continua la pratica dei “bus quarantena”: qui, da due settimane, vengono portate le persone che arrivano in città per i controlli anti Covid19, come se si trattasse di un centro di prima accoglienza. In realtà, è un normale autobus, davanti al quale sono stati montati tre bagni chimici. Per lavarsi i migranti possono utilizzare una pompa dell’acqua. “Le condizioni sono deprecabili sia dal punto di vista umano che sanitario, da quello che ci raccontano alcuni dormono sul pullman altri a terra. E’ una situazione vergognosa”, spiega Federico Pirone, consigliere di opposizione a Udine. Pirone per due volte ha fatto visita al bus quarantena: la prima due settimane fa, l’ultima ieri. “Su trenta persone circa, una sola era a lì da dieci giorni, gli altri ruotano, alcuni restano quattro o cinque giorni. Arrivano qui, fanno lo screening e poi vengono trasferiti - spiega -. Mentre eravamo sul posto è arrivata una nuova corriera con a bordo persone, che si sarebbero trasferite sul bus quarantena. Tra loro c’erano anche tre ragazzi, minori non accompagnati”. Secondo il consigliere è necessario “essere in grado di dare una risposta europea a questo fenomeno: per ragioni umanitarie questa situazione deve cessare, bisogna rimettere al centro il rispetto delle persone - aggiunge -. Un bus non può diventare un centro di prima accoglienza, non è accettabile, ci sono strumenti di legge che consentono di operare in maniera diversa. E vanno applicati”.

      I bus per l’isolamento fiduciario sono stati posteggiati davanti al parco Sant’Osvaldo il 5 settembre scorso. Il prefetto di Udine parla di una scelta obbligata per la difficoltà di reperire sul territorio posti per l’accoglienza e per l’isolamento fiduciario dei migranti. In una lettera inviata il 14 settembre 2020 al Prefetto di Udine e al Capo del Dipartimento della Protezione Civile, le associazioni ActionAid, Asgi, Intersos e numerose sigle del territorio hanno ricordato che con il Decreto Cura Italia, in vigore dal 17 marzo 2020, i Prefetti hanno acquisito poteri straordinari al fine di assicurare la possibilità di ospitare persone in isolamento fiduciario nel caso in cui queste non potessero farlo presso il proprio domicilio. Nel testo è specificato che il Prefetto può requisire “strutture alberghiere, ovvero di altri immobili aventi analoghe caratteristiche di idoneità, per ospitarvi le persone in sorveglianza sanitaria e isolamento fiduciario o in permanenza domiciliare, laddove tali misure non possano essere attuate presso il domicilio della persona”. Per ora però le organizzazioni non hanno ricevuto risposta. La prossima settimana dovrebbe esserci un incontro anche con i responsabili del ministero dell’Interno.

      Intanto anche l’Unhcr sta seguendo con attenzione la situazione. “Ci auguriamo che venga al più presto trovata una soluzione adeguata per la quarantena. Siamo al corrente delle difficoltà, tuttavia quella attuale non consente di ospitare le persone in quarantena secondo standard accettabili- sottolinea Carlotta Sami portavoce di Unhcr -. Sappiamo che il territorio in questo momento è sotto pressione per l’aumento degli arrivi dai Balcani e che ci sono problemi a trovare posti in accoglienza, ma è necessario individuare strutture adeguate per far fare l’isolamento fiduciario ai migranti in ambienti idonei”. Cesare Fermi, responsabile Unità Migrazione di Intersos ricorda che “non esistono motivazioni di sicurezza o di ordine pubblico o di problematica logistica che possano giustificare in nessun modo una misura come quella di far pernottare degli esseri umani all’interno di un pullman in uno spazio aperto. Siamo assolutamente sconcertati dalle soluzioni che ultimamente in Italia si stanno cercando, dalle navi ai pullman".

      https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/bus_quarantena_a_udine_condizioni_deprecabili_a_bordo_anche_minori_

    • Les bateaux quarantaine, ou comment l’Italie enferme en haute mer

      On publie ici une réflexion sur une nouvelle forme de retention administrative qui est apparue et s’est développée depuis un an aux frontières méridionales de l’Europe, et en Italie notamment. Avec l’excuse de la pandémie, les Etats européens n’arretent pas de tester des nouvelles formes de controle des frontières, d’enfermement et d’expulsion. Mais ceux et celles qui les subissent y résistent tous les jours, meme lorsqu’iels sont enfermé.e.s dans des « CRA flottants ». A nous de soutenir leurs luttes.
      Depuis bientôt un an, un nouvel dispositif d’enfermement pour personnes étrangères existe au large des côtes d’Italie – et pas que. Les bateaux quarantaine, ferries de croisière désaffectés en raison de la pandémie et réaffectés à la quarantaine des migrant.e.s, rendent la guerre menée par l’Etat italien contre ceux et celles qui passent les frontières encore plus efficace et chirurgicale. Si en théorie ces bateaux servent à « assurer la santé » de ceux et celles qui y sont enfermé.es, ils se sont transformés en véritables centres de tri et d’expulsion.
      État d’ugence et bateaux quarantaine
      Tout commence en avril 2020, lorsque la pandémie du coronavirus explose partout et que les frontières des états européens ferment. Le 7 avril 2020, on déclare que les ports italiens ne sont pas ‘place of safety’, c’est-à-dire des endroits sûrs où faire débarquer les personnes qui viennent de la Méditerranée (1). Par conséquent, le 12 avril, l’Etat décide de louer des bateaux de croisière à des compagnies privées. L’appel d’offre est signé par la Protection civile italienne, et souscrit par le Ministère de l’Intérieur et celui des transports. À bord des ferries travaille le personnel de la Croix Rouge. Au début, ces bateaux sont conçus pour la contention des personnes sauvées en mer par les ONG – mais par pour celles et ceux qui débarquent de façon autonome sur les côtes italiennes. Le fonctionnement est apparemment simple : tout le monde est soumis à un test, celles et ceux qui sont négatif.ives sont mis.es en quarantaine pendant 15 jours, au bout desquels ils.elles sont libéré.es. Les autres restent à bord jusqu’à ce que leur test soit négatif. Évidemment dans les espaces fermés d’un bateau il est très difficile de contrôler la diffusion de la maladie, ce qui mène à enchainer des quarantaines qui ne se terminent jamais. Au départ on compte deux ferries, mais très rapidement, à la fin de l’été cinq bateaux mouillent au large des côtes italiennes. Ironie du sort : un des premiers bateaux loué à cette fin, le ‘Raffaele Rubattino’ de la Compagnie de Navigation Italienne, porte le nom de l’amiral qui acheta la baie d’Assab en 1870 au nom du royaume d’Italie, débutant l’aventure coloniale italienne en Afrique orientale qui sera ensuite poursuivie par le régime fasciste.

      Au fil du temps, la situation sur la terre ferme s’empire et il n’y a littéralement plus de place pour enfermer dans les centres d’accueil, les centres de rétention et dans les hotspot (2), à cause également de la fermeture des frontières. On commence alors à transférer sur les bateaux les personnes qui se trouvent déjà sur le sol italien. Les bateaux quarantaine deviennent des véritables hotspot flottants : les personnes y sont amenées sans recevoir aucun type d’information juridique sur leur situation – à bord il n’y a que le personnel de la Croix Rouge qui ne fournit pas de suivi juridique -, souvent on leur fait signer des papiers sans traduction et une fois qu’elles descendent elles sont amenées directement dans les CPR (3). Au cours de l’été, il arrive même que des migrant.es en voie de régularisation mais testé.es positif.ves au coronavirus soient amené.es sur un bateau, et qu’à cause de l’isolement et du manque d’information, ils et elles soient exclu.es du parcours d’accueil (4). Cette situation provoque l’indignation des associations humanitaires qui se décident enfin à prendre la parole et à dénoncer ce qui se passe dans ces lieux d’enfermement.

      Entre temps, le tri et les expulsions continuent : en particulier, les personnes tunisiennes passent souvent du bateau à l’avion, ou sont même expulsées par bateau (5). Ceci est permis par les accords entre la Tunisie et l’Italie – signés entre autres par la même ministre de l’intérieur italienne qui est une des signataires de l’appel d’offre pour la location des ferries de quarantaine. Ces traités autorisent le rapatriement forcé des citoyen.es tunisien.nes arrivé.es en Italie, ainsi que l’enterrement des déchets italiens en sol tunisien, en échange d’importantes sommes d’argent (6). Ordures et êtres humains : ce que l’Etat italien pense des personnes tunisiennes qui arrivent par mer est assez évident. En septembre, à la fin d’un été qui a vu reprendre la circulation touristique et les expulsions depuis l’Europe vers de nombreux pays d’Afrique et du Moyen Orient, un deuxième appel d’offre est lancé par la Protection civile (7). Cette fois une seule compagnie remporte l’appel d’offre, l’entreprise GNV (Grandi Navi Veloci), tandis que la Croix Rouge reste prestataire de service à bord des bateaux. Depuis, on compte 9 bateaux quarantaine à bord des côtes de la Sicile, de la Calabre et des Pouilles, où l’on continue d’enfermer, trier et expulser les migrant.es.
      Lutte et résistance sur les bateaux
      Ce qui est intéressant à remarquer, c’est le lien qui existe entre ce qui se passe sur les bateaux et ce qui se passe dans le hotspot de Lampedusa, d’où viennent la plupart des personnes enfermées en mer pendant l’été. Le 11 août une manifestation coordonnée a lieu dans le centre de l’île et sur le bateau Azzurra de GNV, pour dénoncer les conditions inhumaines de détention. Quelques semaines après, ce sera à cause des menaces du maire de Lampedusa, qui annonce une grève générale sur l’île, que le gouvernement décide de louer un nouveau ferry destiné à la quarantaine des personnes migrantes (8).

      Par ailleurs, la manifestation du 11 août n’est pas un acte isolé : des résistances collectives et individuelles existent depuis la création des bateaux quarantaine. Les moyens de révolte sont divers, comme c’est le cas dans les centres de rétention : automutilation, grève de la faim, incendie, et aussi quelques belles tentatives d’évasion. Le 21 novembre dernier, alors que le bateau accoste au port pour se réapprovisionner, un groupe des personnes arrive à s’évader du ferry Rhapsody de la GNV, profitant d’une échelle en bois et de l’absence de la police (9). La dernière manifestation remonte au 15 mars dernier, lorsqu’un groupe de personnes tunisiennes enfermées sur un bateau de la GNV bloque un des ponts du ferry et fait circuler une vidéo qui montre les conditions d’enfermement (10).

      La répression est aussi violente dans ces lieux, même si la police n’est pas présente à bord. Souvent par contre elle est présente au moment où le bateau accoste pour ‘gérer’ le débarquement des personnes enfermées. Il n’y a plus seulement les centres d’accueil et les hotspot qui sont militarisés, surveillés H24 par des militaires, face à la rage montante de celles et ceux qui y sont enfermé.es sans soin et sans information. En septembre, lorsque plusieurs centaines de migrant.es sont censé.es débarquer au port de Bari à la fin de leur quarantaine, suite au test positif d’une personne, on empêche à tout le monde de descendre. Les gens, à bout après plusieurs semaines sans aucun soin réel, s’enragent et essaient de débarquer. Ils et elles sont chargé.es par la police qui rentre jusque sur les ponts pour matraquer ceux et celles qui veulent descendre (11). Depuis leur mise en place, les bateaux quarantaine ont déjà tué trois personnes : au mois de mai, une personne tunisienne se suicide en se jetant depuis le pont du bateau Moby Zaza ; en septembre Abdallah, un mineur migrant, meurt à l’hôpital de Palerme de tuberculose, suite au manque de soins à bord du bateau où il était enfermé, tandis que quelques semaines plus tard, en octobre, Abou, âgé de 15 ans, meurt au bout de 15 jours de quarantaine à bord du bateau Allegra, à cause du manque de soins (12). Encore une fois, les frontières et les Etats tuent, quel que soit le dispositif qu’ils décident d’employer.
      La détention administrative “off-shore”
      Il faut dire que cette idée ne vient pas de nulle part, mais qu’elle a des précédents dans l’histoire d’Italie et plus en général de l’Europe et du monde. La détention administrative offshore est de fait pratiquée en Australie, où existent des véritables île-prison pour les immigré.es (13). En Italie, en 2016, le ministre de droite Alfano propose de construire des centres de détention offshore, mais l’Union Européenne déclare que cette proposition viole les droits humains (14). Il aura fallu une autre ministre seulement quatre ans après pour convaincre l’Europe de cette bonne idée et pour le faire réellement… D’ailleurs, on ne peut pas dire que des formes de détention administrative offshore ‘informelle’ n’étaient pas déjà pratiquées avant dans la Méditerranée. Il suffit de penser au blocus des ports pour les ONG en 2019, qui a mené des centaines de personnes à passer des semaines enfermées sur des bateaux au large des côtes italiennes. Ou encore à la répression de la piraterie somalienne par les empires européens, qui a permis d’expérimenter et ensuite de transformer en lois un arsenal répressif permettant la détention offshore. Entre 2009 et 2011, plusieurs pirates arrêtés par les armées italienne, française et anglaise coordonnées au sein de l’opération européenne Atalanta ont été détenus pour de longues périodes sur des bateaux militaires, dans l’attente de décider dans quel tribunal ils allaient être jugés. Suite à cette guerre à la piraterie, la France passe une loi en 2011 qui crée un « un régime sui generis pour la rétention à bord » des pirates sur le modèle de la détention administrative, et qui autorise la privation de liberté sur les avions, bateaux etc., qui deviennent ainsi des zones de non-droit (15).

      De lieux d’isolement sanitaire à prisons flottantes, les bateaux quarantaine permettent à l’Etat italien, et par conséquence à l’Europe, d’externaliser encore plus ses frontières, et d’affiner la machine à expulser. Ce n’est pas un hasard s’ils ont été mis en place en Italie, et plus précisément dans le sud de l’Italie, à Lampedusa, et que quelques mois plus tard deux bateaux quarantaine ont fait leur apparition à Malte et à Lesbos (16) : des lieux périphériques, aux frontières de l’Europe, des endroits clés pour le contrôle des mobilités. Comme les camps en Libye, ces ferries relèvent d’une gestion néocoloniale des migrations et des frontières. Parallèlement à la mise en place de ce dispositif, l’agence européenne Frontex a annoncé qu’à partir de janvier 2021 la mer Méditerranée sera surveillée par des drones… achetés à Israël, un état envahisseur et colonisateur.

      Encore une fois, ceux qui font de l’argent sur les corps de prisonnier.es sont les entreprises privées, et la Croix Rouge, professionnels de l’enfermement des migrant.es. C’est vers eux que va toute notre haine. En Italie comme partout, le seul intérêt de l’Etat est de mieux contrôler et enfermer. Les résistances des prisonnier.es, sur les bateaux quarantaine comme dans les CRA, nous montrent la seule voie face à la machine des expulsions : la détruire.

      (1) https://www.avvenire.it/attualita/pagine/italia-porto-non-sicuro-approdo-migranti
      (2) Les hotspot sont des lieux d’enfermement servant à identifier, enregistrer et prendre les empreintes digitales des migrants arrivant.
      (3) CPR, centres de permanence pour le rapatriement, équivalent italien des CRA.
      (4) https://www.imgpress.it/attualita/illegali-e-discriminatori-i-trasferimenti-coercitivi-sulle-navi-quarantena-
      https://www.tvsvizzera.it/tvs/migrazione-e-covid_navi-quarantena-anche-per-gli-immigrati-residenti-in-italia/46137554
      (5) https://ilmanifesto.it/navi-quarantena-per-i-tunisini-sono-lanticamera-dei-rimpatri
      (6) https://www.nigrizia.it/notizia/italia-tunisia-e-quellaccordo-fantasma
      (7)https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2020/09/10/migranti-nuovo-bando-navi-quarantenaanche-per-arrivi-terra_65a0eb84-10cc-43e5-8
      (8)https://www.corriere.it/cronache/20_agosto_30/migranti-lampedusa-viminale-annuncia-trasferimenti-imminenti-altre-3-navi-q
      (9) https://www.secoloditalia.it/2020/11/porto-empedocle-migranti-fuggono-dalla-scaletta-della-nave-quarantena-
      (10) https://www.facebook.com/107635584259867/videos/1413214879039905
      (11)https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/home/1253758/bari-rivolta-sulla-nave-di-migranti-oltre-50-positivi-a-bor
      (12)https://ilmanifesto.it/navi-quarantena-i-minori-che-hanno-perso-la-vita-sono-due
      (13)https://www.infomigrants.net/en/post/25711/eu-trying-to-replicate-australia-s-offshore-detention-centers-refugee-
      (14)https://www.repubblica.it/politica/2016/05/18/news/sicurezza_alfano_nel_2015_il_minor_numero_di_reati_rispetto_all_ultimo_de
      (15)https://www.senat.fr/rap/r11-499/r11-499_mono.html
      (16) http://www.vita.it/it/article/2020/05/22/malta-e-italia-quei-migranti-nelle-navi-quarantena-tenuti-lontani-da-n/155580

      https://abaslescra.noblogs.org/les-bateaux-quarantaine-ou-comment-litalie-enferme-en-haute-mer

  • Petrolio e migranti. Il « patto libico »

    Decine di navi e depositi per il contrabbando attraverso Malta e i clan siciliani. Business da oltre un miliardo. Ispettori Onu e Ue: a comandare sono i boss del traffico di esseri umani.

    «Oil for food» la chiamavano in Iraq. Export di petrolio in cambio di cibo. Era l’unica eccezione all’embargo. Le milizie libiche hanno cambiato i fattori: «#Oil_for_migrants ». Dovendo rallentare la frequenza dei barconi, hanno ottenuto cospicui “risarcimenti” mentre imbastivano un colossale contrabbando di petrolio. « Oil for migrants ». A tutto il resto pensano i faccendieri maltesi e la mafia siciliana.

    Le ultime tracce della “Libia connection” sono del 20 gennaio. In Sicilia, per questioni di oro nero, sono finiti indagati in 23, tutti vicini ai clan di mafia catanesi. Il 5 dicembre 2019 la Procura di Bologna aveva messo i sigilli a 163mila litri di carburante. Solo due giorni prima i magistrati di Roma avevano arrestato 16 persone e bloccato 4 milioni di litri di gasolio. Abbastanza per fare il pieno a 80mila utilitarie. Secondo la procura di Trento, che aveva chiuso un’analoga inchiesta, nel nostro Paese l’evasione delle imposte negli idrocarburi può arrivare a 10 miliardi di euro. L’equivalente di una legge finanziaria.

    Per venirne a capo bisogna ficcare il naso a Malta, che «rappresenta anche uno snodo per svariati traffici illeciti, come quello dei prodotti petroliferi provenienti dai Paesi interessati da una forte instabilità politica», si legge nell’ultima relazione al parlamento della Direzione investigativa antimafia. L’episodio chiave è del 2017, quando la procura di Catania porta a termine l’operazione “Dirty Oil”, che ha permesso «di scoprire – ricorda sempre la Dia – un traffico di petrolio importato clandestinamente dalla Libia e che, grazie ad una compagnia di trasporto maltese, veniva introdotto sul mercato italiano sfruttando il circuito delle cosiddette pompe bianche». In mezzo, però, c’è l’omicidio di Daphne Caruana Galizia. La reporter maltese era stata eliminata con una bomba il 16 ottobre 2017, due giorni prima della retata che da Catania a Malta avrebbe confermato tutte le sue rivelazioni sui traffici illeciti tra la Libia e l’Europa via La Valletta. Messo alle strette, il governo dell’isola aveva chiesto sanzioni internazionali contro i boss del contrabbando di petrolio. Ma è a questo punto che accade un imprevisto. Uno di quegli inciampi che da solo permette di comprendere quale sia la misura e l’estensione della partita. Ad agosto 2019 il Cremlino, a sorpresa, annuncia di voler porre il veto al provvedimento con cui il Consiglio di Sicurezza Onu si apprestava a disporre il blocco, ovunque nel mondo, dei patrimoni della gang di maltesi, libici e siciliani. Un intrigo internazionale in piena regola. Un anno prima il Dipartimento del Tesoro Usa aveva disposto l’interdizione di tutti gli indagati da ogni attività negli Stati Uniti.

    Tra le persone che Malta, dopo l’uccisione di Caruana Galizia, avrebbe voluto vedere con i sigilli ai conti corrente ci sono l’ex calciatore Darren Debono e i suoi associati, tra i quali l’uomo d’affari Gordon Debono e il libico Fahmi Bin Khalifa. Nomi che tornano spesso. I tre, con il catanese Nicola Orazio Romeo, sono sotto processo perché ritenuti responsabili di un ingente traffico di gasolio sottratto ai giacimenti libici sotto il controllo della milizia Al-Nasr, quella del trafficante-guardacoste Bija e dei fratelli Kachlav. Dallo stabilimento di Zawiyah, il più grande della Libia, praticamente a ridosso del più affollato centro di detenzione ufficiale per migranti affidato dalle autorità ai torturatori che rispondono sempre a Bija, l’oro nero viene sottratto con la complicità della “ Petroleum facility guard”, un corpo di polizia privato incaricato dal governo di proteggere il petrolchimico. Ma a capo delle guardie c’è proprio uno dei fratelli Kachlav. Il porto di Zawyah è assegnato alla “Guardia costiera” che, neanche a dirlo, è comandata sempre da al Milad, nome de guerre “Bija”, nel 2017 arrivato con discrezione in Italia durante il lungo negoziato per fermare le partenze dei migranti.

    A sostenere la connessione tra smercio illegale di idrocarburi, traffico di armi ed esseri umani sono gli esperti delle Nazioni Unite inviati in Libia per investigare. Il gasolio «proviene dalla raffineria di Zawiyah lungo un percorso parallelo alla strada costiera», si legge nell’ultima relazione degli ispettori Onu visionata da Avvenire. Molte foto ritraggono proprio Bija alla guida di gruppi combattenti o impegnato su navi cisterna. Le conclusioni confermano inoltre che l’area di Zuara, dove spadroneggia il clan Dabbashi – a seconda dei casi alleato o in rotta di collisione con i boss di Zawyah – «è stata la principale piattaforma per le esportazioni illecite via mare di prodotti petroliferi raffinati». Nei dintorni ci sono almeno 40 depositi illegali di petrolio. Da questi impianti «il carburante – si legge ancora – viene trasferito in autocisterne più piccole fino al porto di Zuara, dove viene caricato in piccole navi cisterna o pescherecci con serbatoi modificati». A disposizione dei contrabbandieri c’è una flotta ragguardevole: «Circa 70 imbarcazioni, piccole petroliere o pescherecci da traino, sono dedicate esclusivamente a questa attività». Dalle stazioni di pompaggio i trafficanti utilizzano condutture che trasportano il carburante alle navi che sostano «tra 1 e 2 miglia nautiche al largo».

    I nomi dei vascelli sono noti e riportati in diversi documenti confidenziali. Impossibile che in Libia nessuno veda. In totale «esistono circa 20 reti di contrabbando attive, che danno lavoro a circa 500 persone», spiegano gli esperti Onu. Manodopera da aggiungere alle migliaia di libici arruolati dagli stessi gruppi per controllare il territorio, gestire il traffico di esseri umani, combattere per le varie fazioni.

    Le inchieste, però, non fermano il business. Il catanese Romeo, indagato nel 2017 per l’indagine etnea “ Dirty Oil”, in passato era stato ritenuto dagli investigatori in contatto con esponenti della famiglia mafiosa Santapaola–Ercolano. Ipotesi, in attesa di un pronunciamento dei tribunali, sempre respinta dall’interessato. A confermare l’interesse di Cosa nostra siciliana per le petroliere sono arrivati i 23 arresti di gennaio. Tra gli indagati vi sono ancora una volta esponenti dei clan catanesi, stavolta della famiglia Mazzei, tornata ad allearsi proprio con i Santapaola– Ercolano. «Abbiamo riscontrato alcuni collegamenti con personaggi coinvolti nell’indagine Dirty Oil, dove era emersa proprio l’origine libica del petrolio raffinato», ha commentato dopo gli arresti il procuratore aggiunto di Catania, Francesco Puleio. Alcuni degli indagati hanno anche «cercato nuovi canali di fornitura e sono entrati in contatto con l’uomo d’affari maltese Gordon Debono, coinvolto nell’indagine Dirty Oil».

    Il collegamento tra mafia libica e mafia siciliana per il tramite di mediatori della Valletta è confermato da un’altra rivelazione contenuta nel dossier consegnato al Palazzo di Vetro a fine 2019. A proposito della nave “Ruta”, con bandiera dell’Ucraina, sorpresa a svolgere attività di contrabbando petrolifero, gli investigatori Onu scrivono: «Secondo le indagini condotte dal Procuratore di Catania», il vascello è stato coinvolto in operazioni illegali, compreso il trasferimento di carburante ad altre navi, «in particolare la Stella Basbosa e il Sea Master X, entrambi collegati alla rete di contrabbando di “Fahmi Slim” e, secondo quanto riferito, ha scaricato combustibile di contrabbando nei porti italiani in 13 occasioni ». Quello di “Fahmi Slim” altro non è che il nome di battaglia di Fahmi Musa Bin Khalifa, il boss del petrolio di Zuara, in affari con Mohammed Kachlav, il capo in persona della milizia al Nasr di Zawyah.

    A ostacolare il patto tra mafie dovrebbe essere l’operazione navale europea Irini «che ha già dimostrato l’utilità in termini di informazioni raccolte, e per l’effetto deterrenza anche sul contrabbando di petrolio», ha detto nei giorni scorsi il commissario agli affari Esteri Josep Borrel. E chissà se l’aumento del 150% delle partenze sui barconi sia solo una coincidenza o non sia uno degli effetti di «Oil for migrants».

    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/petrolio-e-migranti-il-patto-libico
    #pétrole #migrations #Libye #pacte #extractivisme #accord #Malte #Italie #contrebande #mafia #Libia_connection #Dirty_Oil #Daphne_Caruana_Galizia #Darren_Debono #Gordon_Debono #Fahmi_Bin_Khalifa #Nicola_Orazio_Romeo #Al-Nasr #Bija #Kachlav #Zawiyah #Petroleum_facility_guard #gardes-côtes #Dabbashi #Zuara #Zawyah #Romeo #Santapaola–Ercolano #Cosa_nostra #Mazzei #Ruta #Stella_Basbosa #Sea_Master_X #Fahmi_Slim #Fahmi_Musa_Bin_Khalifa #Mohammed_Kachlav #Irini

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    voir aussi :
    https://seenthis.net/messages/849512

    ping @isskein @albertocampiphoto @wizo

  • Latest Tactic to Push Migrants From Europe ? A Private, Clandestine Fleet

    The government of Malta enlisted three privately owned fishing trawlers to intercept migrants in the Mediterranean, and force them back to a war zone, officials and a boat captain say.

    With the onset of the coronavirus, Malta announced that it was too overwhelmed to rescue migrants making the precarious crossing of the Mediterranean Sea, where the tiny island nation has been on the front line of the maritime migration route over the past decade.

    In secret, however, the Maltese authorities have worked hard to make sure no migrants actually reach the island.

    It dispatched a small fleet of private merchant vessels in April to intercept migrants at sea and return them by force to a war zone in Libya, according to information provided by the captain of one of the boats, a senior commander in the Libyan Coast Guard, and a former Maltese official involved in the episode.

    The three repurposed fishing trawlers are privately owned, but acted on the instructions of the Armed Forces of Malta, the captain and the others said.

    The clandestine operation, which some experts consider illegal under international law, is just the latest dubious measure taken by European countries in recent years to stem the migration from Africa and the Middle East that has sown political chaos in Europe and fueled a populist backlash.

    Since 2017, European states, led by Italy, have paid the Libyan government to return more migrants to Libya, hassled the private rescue organizations that try to bring them to Europe, and asked passing merchant vessels to intercept them before they enter European waters.

    But Malta’s latest tactic may be among the most egregious, maritime experts say, because it involved a designated flotilla of private vessels, based in a European port, that intercepted and expelled asylum seekers from international waters that fall within the responsibility of European coast guards.

    “Against a pattern of increased abuses against asylum seekers in recent years, this newest approach stands out,” said Itamar Mann, an expert in maritime and refugee law at the University of Haifa in Israel. “Its methods chillingly resemble organized crime, and indeed the operations of people smugglers, which European policymakers so adamantly denounce.”

    “The facts available raise serious concerns that we are seeing the emergence of a novel systematic pattern, such that may even put Maltese state officials in danger of criminal liability, at home or abroad,” Dr. Mann added.

    The Maltese government did not respond to multiple requests for comment.

    The activity was first documented on the evening of April 12, when three aging blue trawlers left the Grand Harbour in Valletta, the Maltese capital, within an hour of each other. The three boats — the Dar Al Salam 1, the Salve Regina and the Tremar — departed at the request of the Maltese authorities, according to the captain of the Tremar, Amer Abdelrazek.

    A former Maltese official, Neville Gafa, said he was enlisted by the government that same night to use his connections in Libya to ensure the safe passage of the first two boats to Libya.

    The boats did not submit paperwork to the immigration police, and switched off their satellite tracking devices soon after leaving port, maritime databases show.

    But their mission had already been determined, said Mr. Gafa, who said he had been asked by the Maltese prime minister’s chief of staff, Clyde Caruana, to help coordinate the operation. Mr. Caruana did not respond to requests for comment, but a government spokesman told The Times of Malta that Mr. Gafa had been asked to liaise with Libya on a separate matter that was unconnected to the episode.

    The trawlers were sent to intercept a migrant vessel attempting to reach Malta from Libya — and which had been issuing mayday calls for some 48 hours — and then return its passengers to Libya, Mr. Gafa said.

    The stricken migrant vessel was still in international waters, according to coordinates provided by the migrants by satellite phone to Alarm Phone, an independent hotline for shipwrecked refugees. But it had reached the area of jurisdiction of Malta’s armed forces, making it Malta’s responsibility under international maritime law to rescue its passengers and provide them with sanctuary.

    Two of the trawlers — the Dar Al Salam 1 and the Tremar — reached the migrant vessel early on April 14, guided by a Maltese military helicopter, Mr. Abdelrazek said. Several of the migrants had already drowned, according to testimony later gathered by Alarm Phone.

    The roughly 50 survivors were taken aboard the Dar Al Salam 1, Mr. Abdelrazek said.

    The Dar Al Salam 1 and the Salve Regina sailed to Tripoli on April 15, the former carrying the migrants and the latter carrying several tons of food and water, as a show of appreciation to the Libyan government, Mr. Abdelrazek and Mr. Gafa said. The Tremar waited in international waters, Mr. Abdelrazek said.

    The Maltese authorities told their Libyan counterparts that the Dar Al Salam 1 was in fact a Maltese vessel called the Maria Cristina, said Commodore Masoud Abdalsamad, who oversees international operations at the Libyan Coast Guard. To further obscure its identity, the boat’s crew had also painted over the ship’s name and flew a Maltese flag to confuse the Libyan Coast Guard.

    Though based physically in Malta and owned by a Maltese shipowner, the vessel is legally registered in Tobruk, a port in east Libya controlled by opponents of the authorities in Tripoli. The crew did not want to risk upsetting the Tripoli government by broadcasting its links to Tobruk, leading it to hide its name and home port, Mr. Abdelrazek said.

    After disembarking, the migrants were taken to a notorious detention center run by a pro-government militia, where migrants are routinely tortured, held for ransom or sold to other militias. The detention cells stand close to an arms depot, and the surrounding area was hit by shelling in December.

    Conditions at the detention center are “utterly appalling,” said Safa Msehli, a spokeswoman for the International Organization for Migration, an arm of the United Nations. “People are caged in overcrowded hangars with barely any access to food or sanitation facilities.”

    “Many tell us of the abuse they endure and the inhumane ways in which they are exploited,’’ Ms. Msehli added. ‘‘Reports of migrants being used to load weapons, and the detention center’s proximity to a military facility, raise serious concerns over the safety of people detained there arbitrarily.”

    After departing Tripoli, the Dar Al Salam 1 turned its satellite identification system back on, and the boat resurfaced off the coast of Libya on the evening of April 15, data provided by Marine Traffic, a maritime database, shows.

    The owner of the Salve Regina, Dominic Tanti, declined to comment through an intermediary, and the owner of the Tremar, Yasser Aziz, did not return a message seeking comment.

    The owner of the Dar Al Salam 1, Carmelo Grech, did not to respond to multiple requests for comment sent by text, voice message and a letter hand-delivered to his apartment. But he has confirmed his boat’s involvement to a Maltese newspaper, and several outlets have already highlighted its role, including the Italian newspaper, Avvenire, and the Maltese blogger Manuel Delia.

    Mr. Grech and his boat have colorful histories, raising questions in Malta about why the government involved them in a state-led operation.

    Mr. Grech has previously recounted how he used the boat, then known as the Mae Yemanja, to bring supplies to Libyan rebels during the Libyan revolution in 2011. In 2012, court records show it was impounded after Mr. Grech was accused, though later acquitted, of smuggling contraband cigarettes from Libya to Malta.

    In 2015, Mr. Grech was detained by a Libyan faction for several days for what he later described as a misunderstanding over his visas.

    Maltese ship records obtained by The Times show that Mr. Grech canceled his boat’s registration in Malta last February, before repainting it to show it had been re-registered in Tobruk, for undisclosed reasons.

    Mr. Abdelrazek also has a criminal history, having been convicted in 2014 of forging documents, court records show.

    After appearing briefly in Malta last week, the Dar Al Salam 1 and the Salve Regina returned again to sea on Sunday.

    Their satellite trackers were once again switched off shortly afterward.

    https://www.nytimes.com/2020/04/30/world/europe/migrants-malta.html
    #privatisation #asile #migrations #réfugiés #frontières #contrôles_frontaliers #Malte #Méditerranée #push-backs #refoulement #refoulements #Libye

    –—

    Commentaire de @isskein via la mailing-list Migreurop :

    Depuis avril fonctionne une méthode pro-active : une #flotte_privée de 3 bateaux qui se chargent d’arrêter les bateaux de migrants et de les renvoyer vers la Libye.

    Un ancien officiel maltais, #Neville_Gafà, a été engagé par le Premier Ministre pour monter l’affaire avec ses contacts libyens

    il est entre autres responsable de la #tragédie_de_Pâques : le gouvernement a ignoré durant 48h un bateau qui se trouvait dans sles eaux internationales (mais dans la juridiction des Forces armées maltaises) , puis envoyé sa flotte privée, qui a pris à son bord 51 migrants dont 8 femmes et 3 enfants, à bord 5 cadavres ; 7 migrants s’étaient noyés auparavant. Ils ont été ramenés à Tripolii
    voir https://timesofmalta.com/articles/view/the-faces-and-names-of-a-migration-tragedy.788723

    #mourir_en_mer #morts #décès

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    Dans le mail reçu via la mailing-list Migreurop, Conni parle de #hotspot_mobile :

    Yesterday we got news from the Maltese media about a new strategy of the authorities to keep rescued migrants out: a floating hotspot on a cruise ship off their coast:
    https://www.maltatoday.com.mt/news/national/102051/rescued_migrants_to_be_kept_on_captain_morgan_vessel_outside_territor

    https://www.tvm.com.mt/en/news/rescued-migrants-will-remain-on-vessel-13-miles-outside-maltese-territorial-

    via @isskein

    • Rappel de Sara Prestianni sur l’utilisation des #hotspots_mobiles en #Italie (via mailing-list Migreurop, 01.05.2020) :

      The “hotspot boat” is the same system , used by Italy from April 17 , only for migrants have been intercepted by ships flying foreign flags, as decided in the inter-ministerial decree of 7 April.
      On board of the ship “hotspot” Rubattino - positioned in front of Palermo - there are at this moment almost 200 migrants, of the two rescues carried out by the ships Alan Kurdi and Aita Mari. All of them were negative to the Covid test, but it is not clear how long they will have to stay on the ship and where they will be transferred (at the beginning of the procedure there was talk of a relocation to Germany).
      Yesterday the Guarantor for the Rights of Italian Prisoners, in his bulletin, expressed concern about the establishment of these “floating” hotspots.
      http://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl

      “The implementation of quarantine measures in extraordinary and exceptional places cannot lead to a situation of ’limbo’: migrant people are under the jurisdiction of the Italian State for the purposes of the health measures imposed on them, but at the same time they do not have the possibility - and for a period of time not indifferent - to exercise the rights that our country recognizes and protects. They cannot apply for asylum, they are not de facto - and at least temporarily - protected as victims of trafficking or unaccompanied foreign minors, nor can they have timely access to procedures for family reunification under the Dublin Regulation. - procedures which, moreover, have their own intrinsic deadlines.”
      The Guarantor also indicated that the experience of the ship “Rubattino” would not seem to remain an isolated case as the Ministry of Infrastructure and Transport launched on 19 April a procedure for the chartering of vessels to be used for the assistance and health surveillance of migrants rescued at sea or arrived on the national territory as a result of autonomous boats.

      –---

      –-> sur les hotspots mobiles, voir aussi : https://seenthis.net/tag/hotspot_mobile

    • Abela admits coordinating private boats that returned migrants to Libya

      PM says Easter manoeuvre was a ’rescue’ not a pushback.

      Prime Minister Robert Abela has admitted commissioning a boat that returned migrants to war-torn Libya on Easter weekend but has insisted it was a rescue mission and not a pushback.

      A boat commissioned by Maltese authorities picked up a group of migrants in the search and rescue area earlier this month and returned them to the North African country.

      It is a crime under international law for states to return asylum seekers to a country where they are likely to face persecution.

      Speaking publicly about the controversy for the first time on Friday, Abela admitted the manoeuvre and defended the government’s actions.

      "There was no pushback,"he said.

      "There was a rescue of migrants. Had the Maltese government not coordinated, tens of lives would have died, because a [EU coastguard] Frontex plane just flew overhead and kept on going.

      “Malta’s ports are closed but it coordinated this rescue and ensured that the irregular migrants were taken to the port that was open.”

      The country, along with Italy, closed its ports, citing concerns about the spread of coronavirus.

      Former OPM official Neville Gafa claimed under oath this week that he had coordinated the pushback.

      Asked Gafa’s involvement, Abela said his only involvement was liaising with a contact he was claiming to have in Libya so that the rescue could be facilitated. He said Gafa was not paid or promised anything.

      Abela defended using a private boat, saying that a Search and Rescue convention stipulates the legal obligations of individual states that are not obliged to carry out the actual rescues but to coordinate such rescues.

      The obligations also state that countries can use their own assets or else send private assets to rescue boats in distress, he said.

      This week, Malta has commissioned a Captain Morgan tourist boat Europa II, to house migrants until a solution for their disembarkation is found.

      “We are ready to do anything to save lives. We have nothing to be ashamed of,” Abela said, adding that the cost for the Captain Morgan boat being used to temporarily house migrants outside Maltese waters will come from aid by the EU.

      “Malta’s position is clear and we know what our obligations are. We are going to remain firm on this. We are not a safe port and we cannot guarantee our resources for rescues.

      "We are duty bound to stick to this position. It is counterproductive to close port and airports to tourists but then open ports for irregular migrants. There are hundreds of thousands of people on the Libyan coast wanting to leave there and come to Lampedusa and Malta. We are obeying international rules,” he insisted.

      He said the migration problem should not be “Malta’s alone” and called for the EU to intervene.

      Earlier on Friday, Foreign Minister Evarist Bartolo told Times of Malta that “the EU was responsible for a huge push back of migrants to Malta”.

      He said its failure to set up an effective and fair solidarity mechanism to share the burden of welcoming irregular migrants means that Malta had borne a huge burden over the years.

      He quoted a letter from a United Nations official to him in which he admitted that Europe needed to adopt a more principled migration policy that will serve European needs, that does not penalise those seeking to cross, and that does not leave countries like Malta, which are trying to do the right thing, on their own.

      “If we continue to fail, more people, Libyans and non-Libyans, will be compelled to seek safety on the European side” because of the ongoing war and the economic consequences of Covid-19.

      Bartolo said that in the first three months of the year, 3,600 irregular migrants left the Libyan coast through the Central Mediterranean route. This is over 400 per cent more than in the same period in 2019. Some 1,200 came to Malta.

      He said Malta’s centres were “overflowing” and there is no room for more migrants.

      https://timesofmalta.com/articles/view/abela-admits-coordinating-private-boats-that-returned-migrants-to.7893

    • Malte a affrété des navires privés pour renvoyer les embarcations de migrants vers la Libye

      Une enquête du New York Times révèle que les autorités maltaises ont affrété, depuis le mois d’avril, une flotte de navires privés afin d’empêcher les migrants d ’atteindre l’île et les renvoyer en Libye. Selon plusieurs experts, cette action est illégale.

      En pleine pandémie de coronavirus, Malte fait tout pour empêcher les embarcations de migrants d’atteindre l’île. A tel point que le gouvernement a discrètement dépêché en avril une flotte de navires marchands privés pour intercepter les migrants et les renvoyer en Libye, a révélé une enquête du New York Times publiée jeudi 30 avril.

      Selon le quotidien américain - qui s’appuie sur les témoignages d’un capitaine de l’un de ces bateaux, commandant en chef des garde-côtes libyens, et d’un ancien responsable maltais impliqué dans l’opération - les trois chalutiers de pêche affrétés appartiennent à des particuliers mais ont agi sur les instructions des forces armées maltaises.
      Une opération sur ordre du Premier ministre maltais

      L’opération a été documentée pour la première fois dans la soirée du 12 avril, écrit le New York Times, quand trois chalutiers ont quitté le port de la Valette, la capitale maltaise, sur ordre des autorités. Un ancien responsable maltais, Neville Gafa, a déclaré qu’il avait été enrôlé par le gouvernement le soir même pour utiliser ses relations en Libye et assurer le passage en toute sécurité des deux premiers chalutiers vers les ports libyens.

      Le Dar As Salam 1 et le Tremar, ont ainsi été envoyés pour intercepter une embarcation de migrants présente dans les eaux maltaises - qui avait émis des appels de détresse depuis deux jours - afin de les renvoyer en Libye, a précisé Neville Gafa. A bord du canot, se trouvait cinq cadavres.

      Le 15 avril, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) avait pourtant affirmé que les migrants avaient été interceptés par un navire marchand puis remis à des garde-côtes qui les avaient alors amenés au port de Tripoli.

      Le troisième chalutier, le Salve Regina, a quant à lui navigué vers Tripoli le 15 avril, transportant plusieurs tonnes de nourriture et d’eau, en guise de remerciement au gouvernement libyen, assure au quotidien américain le capitaine du Tremar, Amer Abdelrazek.

      Devant la justice maltaise, à la suite de la plainte lancée par plusieurs ONG contre le Premier ministre sur sa responsabilité dans la mort des cinq migrants, Neville Gafa a déclaré sous serment qu’il avait agi sur ordre du cabinet du Premier ministre.

      Une opération illégale

      « Dans une tendance à l’augmentation des abus contre les demandeurs d’asile ces dernières années, cette nouvelle approche se démarque », déclare au New York Times Itamar Mann, expert en droit maritime et des réfugiés à l’université de Haïfa, en Israël. « Ces méthodes ressemblent de façon effrayante au crime organisé, aux opérations de passeurs, que les décideurs européens dénoncent avec tant de fermeté », continue le chercheur pour qui cette opération est illégale eu égard au droit international.

      En effet, comme écrit le quotidien américain, une flotte de navires privées, basée dans un port européen, qui intercepte et expulse des demandeurs d’asile des eaux internationales relèvent de la responsabilité des garde-côtes européens.

      Cette opération « pourrait mettre les fonctionnaires de l’Etat maltais en danger de responsabilité pénale, dans le pays ou à l’étranger », signale encore Itamar Mann.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/24485/malte-a-affrete-des-navires-prives-pour-renvoyer-les-embarcations-de-m

    • Malta-Libya #deal sets up centres ’against illegal migration’

      Coastguard, UN centres, EU help among items discussed

      Malta and Libya will be setting up units to coordinate operations against illegal migration, the government said on Thursday.

      These centres are expected to start operating within the coming weeks, however, the government provided no additional information.

      The announcement followed an unannounced trip by Prime Minister Robert Abela, Home Affairs Minister Byron Camilleri and Foreign Affairs Minister Evarist Bartolo to Tripoli, where they discussed migration with the Libyan government.

      The three met Fayez al-Sarraj who heads the UN-backed Government of National Accord as well as Mohammed Sheibani, deputy minister responsible for migration at the meeting in Tripoli.

      It was Abela’s first trip to war-torn Libya as prime minister.

      Sources said the meeting was held on the back of a new wave of Malta-Libya relations, and a change in approach.

      Discussions revolved around the need to push the EU to help Libya to train its coastguard, obtain funding for reception camps manned by the UN, as well as to build a realistic strategy to slow down the flow of migrants into Libya.

      “It was a positive meeting, though of course that doesn’t mean we’ve resolved the migration issue,” a source told Times of Malta.

      “Malta could be Libya’s bridge to the EU. We need to stop human trafficking as well as save lives at sea,” the source said.

      Valletta, diplomatic sources say, has been trying to build new bridges with the Libyan authorities to stem the tide of migrants leaving the North African coast.
      800,000 migrants in Libya

      In a statement issued later on Thursday, the government said that during the meeting Abela reiterated Malta’s position on the need to address and stop human trafficking. Malta, he added, was facing unprecedented and disproportionate flows and burdens.

      Meanwhile, al-Sarraj said that 800,000 migrants were currently in Libya and the country needed an effective long-term and holistic approach.

      Both leaders spoke about the need to strengthen cooperation to ensure that lives are not lost at sea and to combat human traffickers on the ground and at sea.

      According to Abela, the solution lies in concrete action on Libyan shores and its southern border. This would be done through addressing and stopping human trafficking, rather than focusing just on relocation of migrants to other countries.

      Signing a #memorandum_of_understanding, Malta and Libya agreed to set up a coordination unit in each country to assist in operations against illegal migration.

      The agreement also stipulates that Malta supports Libya when it comes to financial assistance through the upcoming Multiannual Financial Framework.

      https://timesofmalta.com/articles/view/abela-ministers-return-from-libya-after-positive-migration-talks.79484

      #accord #centres

    • Mer méditerranée : Malte renforce sa coopération avec la Libye pour lutter contre « l’immigration illégale »

      Malte a signé un accord avec le gouvernement d’union nationale (GNA) libyen dans le but de renforcer « la lutte contre l’immigration illégale » en mer Méditerranée. Le texte prévoit la création de « centres de coordination » à Tripoli et La Valette qui seront opérationnels dès le mois de juillet.

      Malte tente par tous les moyens de limiter le flux de migrants qui débarquent sur ses côtes. Pour ce faire, les autorités maltaises et libyennes viennent d’acter la création de « centres de coordination » à Tripoli et à La Valette.

      Ces deux centres « offriront le soutien nécessaire à la lutte contre l’immigration illégale en Libye et dans la région méditerranéenne », selon un protocole d’accord entre Malte et le gouvernement d’union nationale (GNA) de Fayez al-Sarraj, et présenté au Parlement maltais mercredi 3 juin (https://www.independent.com.mt/file.aspx?f=206640).

      Financé par le gouvernement maltais, ces structures seront chacune dirigées par trois fonctionnaires et limiteront leur travail « au soutien et à la coordination », indique cet accord valable pour trois ans. Les centres devraient voir le jour dès le mois de juillet.
      « L’UE a la responsabilité de parvenir à un accord global avec la Libye »

      Malte, le plus petit État de l’Union européenne (UE), de par sa taille et sa population, se plaint depuis longtemps d’être obligé d’assumer à lui seul l’arrivée des migrants en provenance de la Libye, pays en guerre.

      Actuellement, plus de 400 migrants secourus en Méditerranée sont bloqués sur quatre navires touristiques affrétés par Malte juste à la limite de ses eaux territoriales, La Valette exigeant qu’ils soient ensuite pris en charge par d’autres pays européens.

      Le ministre maltais des Affaires étrangères, Evarist Bartolo, a déclaré au Parlement mercredi que « l’UE a la responsabilité de parvenir à un accord global avec la Libye afin de limiter l’immigration clandestine ».

      « Le nombre d’immigrants arrivant à Malte est disproportionné par rapport aux autres pays européens », a insisté le ministre. Selon lui, depuis 2005 l’Europe n’a accueilli que 1 700 migrants, tandis que 22 000 sont arrivés à Malte - seuls 8% des migrants en situation irrégulière sur l’île ont été relocalisés dans d’autres pays européens.

      Selon le protocole d’accord, Malte proposera à la Commission européenne une augmentation du soutien financier pour aider le GNA à sécuriser ses frontières sud et à démanteler les réseaux de trafiquants d’êtres humains.

      La Valette proposera également le financement de « moyens maritimes supplémentaires nécessaires » pour contrôler et intercepter les passeurs de migrants en Méditerranée.


      https://www.infomigrants.net/fr/post/25175/mer-mediterranee-malte-renforce-sa-cooperation-avec-la-libye-pour-lutt

    • Accordo Malta-Libia: insieme daranno la caccia ai migranti. Con i soldi Ue

      Centrali operative e pattugliamenti congiunti. Fonti Onu: è una regolazione dei respingimenti illegali. Intanto Frontex smentisce l’inchiesta di Malta sulla “#Strage_di_Pasquetta

      Dopo la scoperta degli accordi segreti con Tripoli, siglati tre anni fa, Malta ha deciso di uscire allo scoperto negoziando un memorandum siglato dal premier Robert Abela, fresco di archiviazione per le accuse di respingimento, e il presidente libico Fayez al Sarraj.

      I due Paesi daranno insieme la caccia ai migranti nel Mediterraneo, ma con nuovi fondi Ue da destinare a Tripoli.

      SCARICA QUI IL DOCUMENTO COMPLETO: https://www.avvenire.it/c/attualita/Documents/MOU%20with%20Libya.pdf

      E’ prevista la creazione di «centri di coordinamento» nel porto di Tripoli e a La Valletta che saranno operativi da luglio. In realtà le operazioni congiunte andavano avanti da anni, ma adesso sono state ufficializzate. Le strutture congiunte «forniranno il sostegno necessario alla lotta contro l’immigrazione clandestina in Libia e nella regione del Mediterraneo», si legge. Inizialmente Malta finanzierà interamente l’attivazione delle centrali operative, ognuna delle quali sarà guidata da tre funzionari dei rispettivi governi. Fin da subito, però, il premier Abela si impegna a ottenere dall’Ue fondi aggiuntivi da destinare alla cosiddetta Guardia costiera libica, che verrà ulteriormente equipaggiata.

      Nessuna menzione si fa riguardo alla necessità di ristabilire il rispetto dei diritti umani nei campi di prigionia libici. L’unico scopo, come del resto è sempre stato in questi anni anche per Italia e Ue, è quello di trattenere i profughi in cattività, a qualunque costo. «L’UE ha la responsabilità di raggiungere un accordo globale con la Libia», c’è scritto nell’accordo che, di fatto, appalta a Malta e Libia il controllo dell’intero Canale di Sicilia, ad esclusione delle ultime 12 miglia territoriali dalla costa di Lampedusa. Malta, lo stato più piccolo dell’Unione Europea (Ue) per dimensioni e popolazione, si è lamentato da tempo di essere costretto ad assumere da solo la responsabilità dell’arrivo dei migranti dalla Libia, un paese in guerra che secondo l’Onu in alcun modo può essere ritenuto un “porto sicuro”.

      Nelle settimane scorse una nuova serie di inchieste giornalistiche internazionali ha permesso di accertare che non solo Malta ha messo in mare da tempo una flottiglia di “pescherecci fantasma” incaricati di intercettare i barconi e ricondurli in Libia, ma che spesso le Forze armate dell’isola equipaggiano i gommoni, anche con motori nuovi, affinché raggiungano le coste siciliane.

      Nei giorni scorsi il Tribunale dell’isola aveva archiviato il procedimento contro il premier laburista Robert Abela e il capo delle forze armate, accusati della morte di 12 migranti nella “strage di Pasquetta”. Forte di questa “assoluzione”, Abela si è recato a Tripoli per sigillare l’intesa con il presidente al-Sarraj. Ma proprio uno dei punti chiave utilizzati dal giudice Joe Mifsud per cestinare le accuse, ieri è stato categoricamente smentito dall’agenzia Ue Frontex che ha risposto per iscritto alle domande di Avvenire. Secondo il magistrato, infatti, il coordinamento dei soccorsi in qualche misura era attribuibile non a Malta ma a Frontex che aveva individuato con un suo aereo i barconi. Da Varsavia, rispondendo con una nota ad “Avvenire”, l’agenzia ha precisato che “è il centro di salvataggio appropriato, non Frontex, a decidere se chiedere assistenza a qualsiasi nave della zona. E Frontex non aveva navi vicino a quest’area”. La responsabilità di intervenire, dunque, era di innanzitutto di Malta che invece per giorni ha ignorato gli Sos e ha poi inviato un motopesca quando oramai 7 persone erano affogate e altre 5 sono morte di stenti durante il respingimento dalle acque maltesi verso la Libia.

      Nel fine settimana di Pasqua l’aeroobile Eagle 1, tracciato e segnalato dal giornalista Sergio Scandura di Radio Radicale “stava svolgendo - spiegano da Frontex - una missione di sorveglianza ben al di fuori dell’area operativa dell’Operazione Themis di Frontex”. Nella nota un portavoce dell’agenzia Ue precisa poi che “Frontex gestisce operazioni congiunte, nonché la sorveglianza pre-frontaliera, che veniva eseguita dall’aereo in questione”. Secondo questa ricostruzione, che avrebbe meritato maggiore puntiglio investigativo anche per accertare eventuali responsabilità esterne a Malta, “in linea con il diritto internazionale, Frontex ha avvisato i centri di soccorso competenti dell’avvistamento di una nave che riteneva necessitasse di assistenza”, si legge ancora. Parole che hanno un significato preciso e costituiscono un’accusa verso chi era stato informato e doveva prestare quell’assistenza negata per giorni. Le autorità italiane hanno apposto il segreto alle comunicazioni intercorse. Silenzio che potrebbe essere presto scardinato da indagini giudiziarie. Lo stesso per Malta, che neanche nell’atto conclusivo dell’inchiesta ha voluto rendere pubbliche le comunicazioni con Roma e con Frontex che a sua volta ribadisce ad Avvenire che “è il centro di salvataggio appropriato, non Frontex, a decidere se chiedere assistenza a qualsiasi nave della zona. Tuttavia, desidero sottolineare qui che Frontex non aveva navi vicino a quest’area”.

      Il memorandum sta creando non poco dibattito nei vertici della Marina militare italiana. A Tripoli, infatti, si trova la nave Gorgona, ufficialmente incaricata di assistere la cosiddetta guardia costiera libica per conto di Roma. E certo i marinai italiani non vogliono finire a fare gli addetti alla manutenzione delle motovedette donate dall’Italia ma che tra pochi giorni si coordineranno con Malta. «Mentre l’obiettivo dichiarato nell’accordo vi è il benessere del popolo libico e di quello maltese, il benessere delle principali vittime, cioè migranti, richiedenti asilo e rifugiati, non viene mai menzionato», ha commentato sul portale cattolico Newsbook il giudice maltese Giovanni Bonelli, già membro della Corte europea dei diritti dell’uomo. «Si potrebbe pensare - aggiunge - che questo memorandum si riferisca all’estrazione di minerali, non a degli esseri umani».Fonti delle Nazioni Unite contattate da “Avvenire” hanno reagito a caldo considerando l’intesa come una «regolamentazione di fatto dei respingimenti illegali».

      Negli anni scorsi più volte Avvenire ha documentato, anche con registrazioni audio, il collegamento diretto tra la Marina italiana e la Guardia costiera libica. Ma ora Malta si spinge oltre, ufficializzando una alleanza operativa che inoltre rischierà di causare conflitti con l’operazione navale europea Irini a guida italiana. Fonti delle Nazioni Unite contattate da Avvenire hanno reagito a caldo considerando l’intesa come una “regolamentazione di fatto dei respingimenti illegali”.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/accordo-malta-libia-respingimento-migranti

    • Malta: Illegal tactics mar another year of suffering in central Mediterranean

      The Maltese government has resorted to dangerous and illegal measures for dealing with the arrivals of refugees and migrants at sea, which are exposing countless people to appalling suffering and risking their lives, Amnesty International revealed today in a report “Waves of impunity: Malta’s violations of the rights of refugees and migrants in the Central Mediterranean”. As Amnesty is launching this new report, despair is growing aboard the Maersk Etienne, which has been denied a port to disembark for over a month, after rescuing 27 people on a request from Maltese authorities

      The Maltese government’s change in approach to arrivals in the central Mediterranean in 2020 has seen them take unlawful, and sometimes unprecedented, measures to avoid assisting refugees and migrants. This escalation of tactics included arranging unlawful pushbacks to Libya, diverting boats towards Italy rather than rescuing people in distress, illegally detaining hundreds of people on ill-equipped ferries off Malta’s waters, and signing a new agreement with Libya to prevent people from reaching Malta.

      “Malta is stooping to ever more despicable and illegal tactics to shirk their responsibilities to people in need. Shamefully, the EU and Italy have normalized cooperation with Libya on border control, but sending people back to danger in Libya is anything but normal,” said Elisa De Pieri, Regional Researcher at Amnesty International.

      “EU member states must stop assisting in the return of people to a country where they face unspeakable horrors.”

      Some of the actions taken by the Maltese authorities may have involved criminal acts being committed, resulting in avoidable deaths, prolonged arbitrary detention, and illegal returns to war-torn Libya. The authorities also used the COVID-19 pandemic as a pretext to declare that Malta was not a safe place to disembark – to discourage people from seeking safety and a decent life in Europe.

      The abusive practices by Malta are part and parcel of wider efforts by EU member states and institutions to outsource the control of the central Mediterranean to Libya, in order that EU-supported Libyan authorities might intercept refugees and migrants at sea before they reach Europe.

      People are then returned to Libya and arbitrarily detained in places where torture and other ill-treatment is highly likely. From the beginning of January to 27 August 2020 7,256 people were ‘pulled back’ to Libya by the EU-supported Libyan Coast Guard, which was often alerted of the presence of boats at sea by airplanes engaged in Frontex and other EU operations.

      The Easter Monday pushback

      The case of the “Easter Monday pushback” illustrates the desperate lengths to which the Maltese authorities are willing to go to prevent people arriving on their shores.

      On 15 April 2020, a group of 51 people, including seven women and three children, were unlawfully returned to Tripoli after being rescued in Malta’s search and rescue region by the commercial fishing boat Dar Al Salam 1.

      The boat, which had been contracted by the Maltese government, took those onboard back to Libya and handed them over to the Libyan authorities, exposing refugees and migrants – who had just survived a deadly shipwreck – to further risks to their life.

      Five people were dead when the vessel reached Libya, and the survivors reported that a further seven people were missing at sea. Survivors reported that those on board were not given medical assistance. In an official statement the Maltese authorities confirmed they had coordinated the operation.

      Lack of accountability in Malta

      While a magisterial inquiry into the case was conducted, it left many questions unanswered. It is still unknown how the 12 people died and how 51 were returned to Libya despite it being illegal to transfer people there. The magistrate conducting the inquiry did not hear the testimonies of the 51 people transferred to Libya, nor probe the chain of responsibility to contract the Dar El Salam 1 and instruct it to transfer people to Libya.

      The NGO Alarm Phone has evidence that other pushbacks by Maltese authorities may also have occurred in 2019 and 2020, which have not been investigated.

      EU and Italian cooperation with Libya

      Italy in particular has worked closely with Libya, having provided support to Libyan maritime authorities by providing vessels, training and assistance in the establishment of a Libyan SAR region to facilitate pullbacks by the Libyan coastguard.

      Despite intensifying conflict and the arrival of COVID-19 threatening the humanitarian situation of refugees and migrants in Libya, Italy has continued to implement policies to keep people in Libya. These include extending its Memorandum of Understanding on Migration with Libya aimed at boosting Libyan authorities’ resources to prevent departures, for another three years, extending its military operations in the region focusing on supporting Libya’s maritime authorities, and maintaining legislation and practices aimed at the criminalization of NGOs rescuing people in the central Mediterranean.

      The central Mediterranean is the latest border on which Amnesty International is highlighting abuses by EU member states authorities. In 2020, Amnesty International has also documented abuses on the borders between Croatia and Bosnia, and Greece and Turkey. The EU urgently needs an independent and effective human rights monitoring system at its external borders to ensure accountability for violations and abuses.

      “The European Commission must turn the page when they launch the New Pact on Migration and Asylum after the summer and ensure European border control and European migration policies uphold the rights of refugees and migrants,” said Elisa De Pieri.

      “The horrors faced by people returned to Libya must caution European leaders against cooperating with countries which don’t respect human rights. By continuing to empower abusers and to hide their heads in the sand when violations are committed, those EU leaders share responsibility for them.”

      https://www.amnesty.eu/news/malta-illegal-tactics-mar-another-year-of-suffering-in-central-mediterranean/#:~:text=The%20Maltese%20government%20has%20resorted,Malta's%20violations%20