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  • Rotta balcanica: i sogni spezzati nella Drina
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Rotta-balcanica-i-sogni-spezzati-nella-Drina-229948

    Nelle acque del fiume Drina, in Bosnia Erzegovina, decine di migranti sono morti nel tentativo di avvicinarsi al sogno di una vita migliore in quell’Europa che li respinge. Volontari del Soccorso alpino di Bijeljina e attivisti sono impegnati nel difficile recupero dei corpi

    • Rotta balcanica : i sogni spezzati nella Drina

      Nelle acque del fiume Drina, in Bosnia Erzegovina, decine di migranti sono morti nel tentativo di avvicinarsi al sogno di una vita migliore in quell’Europa che li respinge. Volontari del Soccorso alpino di Bijeljina e attivisti sono impegnati nel difficile recupero dei corpi.

      “Finora non mi è mai capitato di sognare uno dei corpi ritrovati, non ho mai avuto incubi. Proprio mai. Credo sia una questione di approccio. Soltanto chi non ha la coscienza pulita fa incubi”, afferma Nenad Jovanović, 37 anni, membro della squadra del Soccorso alpino di Bijeljina.

      Negli ultimi sei anni, Jovanović ha partecipato alle operazioni di recupero di oltre cinquanta corpi di migranti nell’area che si estende dal villaggio di Branjevo alla foce del fiume Drina [nella Bosnia orientale], tutti di età inferiore ai quarant’anni, annegati nel tentativo di entrare in Bosnia Erzegovina dalla Serbia, per poi proseguire il loro viaggio verso altri paesi europei, in cerca di un posto sicuro per sé e per i propri familiari.

      “Ogni volta che scoppia un nuovo conflitto in Medio Oriente, in Afghanistan, Iraq o altrove, assistiamo ad un aumento degli arrivi di migranti in cerca di salvezza nei paesi dell’Unione europea. Purtroppo, per alcuni di loro la Drina si rivela un ostacolo insormontabile. Il loro è un destino doloroso che può capitare a chiunque”, spiega Nenad Jovanović.

      Durante le operazioni di recupero dei corpi, Jovanović più volte è stato costretto a gettarsi nel fiume in piena, rischiando la propria vita.

      “Recentemente abbiamo recuperato il corpo di un uomo proveniente dall’Afghanistan. Era in acqua da circa un anno. I pescatori che per primi lo avevano notato non erano nemmeno sicuri che si trattasse di un corpo umano. Potete immaginare lo stato in cui si trovava”, afferma Jovanović.

      Un suo collega, Miroslav Vujanović, si sofferma sull’aspetto umano del lavoro del soccorritore. “A prescindere dallo stato di decomposizione, cerchiamo in tutti in modi possibili di recuperare il corpo nelle condizioni in cui lo troviamo. Nulla deve essere perso, nemmeno i vestiti. Perché siamo tutti esseri umani. Nel momento del recupero di un corpo magari non pensi alla sua identità, cerchi di fare il tuo lavoro in modo professionale e basta. Poi però quando torni a casa e vedi tua moglie e i figli, inizi a chiederti chi fosse quell’uomo e se anche lui avesse una famiglia. È del tutto normale riflettere su queste cose. Sono però pensieri intimi, che tendiamo a tenere dentro”.

      I volontari del Soccorso alpino di Bijeljina hanno partecipato anche alle operazioni di ricerca e assistenza alle popolazioni colpite dal terremoto nella regione di Banovina (in Croazia) nel 2020 e alle vittime del terremoto che l’anno scorso ha devastato la Turchia. In tutte queste operazioni sono stati costretti ad utilizzare le attrezzature prese in prestito o noleggiate, perché le autorità locali non rispettano gli accordi di cooperazione stipulati con altri paesi. Del resto, la Bosnia Erzegovina è il paese delle assurdità. Lo confermano anche i nostri interlocutori, aggiungendo che a volte si sentono incompresi anche dai loro familiari.

      “Mia moglie spesso si chiede come io possa fare questo lavoro. Oppure invito ospiti a casa per la celebrazione del santo della famiglia, e proprio quando stiamo per tagliare il pane tradizionale, mi chiama la polizia dicendo di aver trovato un cadavere nella Drina. Quindi, mi scuso con gli ospiti, chiedo loro di rimanere e vado a fare il mio lavoro. Non è un lavoro facile, ma per me la più grande soddisfazione è sapere che quel corpo recuperato sarà sepolto degnamente e che la famiglia della vittima, straziata dalla sofferenza, finalmente troverà pace”, spiega Nenad Jovanović.

      Recentemente, Jovanović, insieme ai suoi colleghi Miroslav Vujanović e Safet Omerbegić, ha partecipato ad una cerimonia di commemorazione in memoria dei migranti scomparsi e morti ai confini d’Europa. In quell’occasione sono state inaugurate le lapidi delle tombe dei sedici migranti sepolti nel nuovo cimitero di Bijeljina, situato nel quartiere di Hase. Trattandosi di corpi non identificati, ciascuna delle lastre in marmo nero reca incise, a caratteri dorati, la sigla N.N e l’anno della morte.

      Nel cimitero è stato piantato anche un filare di alberi in memoria delle vittime e sono state collocate due targhe commemorative con la scritta: “Non dimenticheremo mai voi e i vostri sogni spezzati nella Drina”. L’iniziativa è stata realizzata grazie al sostegno dell’associazione austriaca «SOS Balkanroute» e di Nihad Suljić, attivista di Tuzla, che da anni fornisce assistenza concreta ai rifugiati e partecipa alle procedure di identificazione e sepoltura dei morti.

      “Per noi è un grande onore e privilegio sostenere simili progetti. Si tratta di un’iniziativa pionieristica che può fungere da modello per l’intera regione. Per quanto possa sembrare paradossale, siamo contenti che queste persone, a differenza di tante altre, abbiano almeno una tomba. Abbiamo voluto che le loro tombe fossero dignitose e che non venissero lasciate al degrado, come accaduto recentemente a Zvornik”, sottolinea Petar Rosandić dell’associazione SOS Balkanroute.

      Rosandić spiega che la sistemazione delle tombe dei migranti nei cimiteri di Bijeljina e Zvornik è frutto di un’iniziativa di cooperazione transfrontaliera a cui hanno partecipato anche le comunità religiose di Vienna. Queste comunità, che durante la Seconda guerra mondiale erano impegnate nel salvataggio degli ebrei, oggi partecipano a diversi progetti a sostegno dei migranti lungo le frontiere esterne dell’UE.

      “Sulle lastre c’è scritto che si tratta di persone non identificate, ma noi sappiano che in ogni tomba giace il corpo di un giovane uomo i cui sogni si sono spezzati nella Drina. Ognuno di loro aveva una famiglia, un passato, i propri desideri e le proprie aspirazioni. Il loro unico peccato, secondo gli standard europei, era quello di avere un passaporto sbagliato, quindi sono stati costretti a intraprendere strade pericolose per raggiungere i luoghi dove speravano di trovare serenità e un futuro migliore”, afferma l’attivista Nihad Suljić.

      Suljić poi spiega che nel prossimo periodo i ricercatori e gli attivisti si impegneranno al massimo per instaurare una collaborazione con diverse istituzioni e organizzazioni. L’obiettivo è quello di identificare le persone sepolte in modo da restituire loro un’identità e permettere alle loro famiglie di avviare un processo di lutto.

      “Questi monumenti neri sono le colonne della vergogna dell’Unione europea – commenta Suljić - non è stata la Drina a uccidere queste persone, bensì la politica delle frontiere chiuse. Se avessero avuto un altro modo per raggiungere un posto sicuro dove costruire una vita migliore, sicuramente non sarebbero andati in cerca di pace attraversando mari, fiumi e fili spinati. Le loro tombe testimonieranno per sempre la vergogna e il regime criminale dell’UE”.

      Suljić ha invitato i cittadini dell’UE che hanno partecipato alla cerimonia di commemorazione a Bijeljina a chiamare i governi dei loro paesi ad assumersi la propria responsabilità.

      “Non abbiamo bisogno di donazioni né di corone di fiori. Vi invito però a inviare un messaggio ai vostri governi, a tutti i responsabili dell’attuazione di queste politiche, per spiegare loro le conseguenze delle frontiere chiuse, frontiere che uccidono gli esseri umani, ma anche i valori europei”.

      Dalla chiusura del corridoio sicuro lungo la rotta balcanica [nel 2015], nell’area di Bijeljina, Zvornik e Bratunac sono stati ritrovati circa sessanta corpi di migranti annegati nel fiume Drina. Stando ai dati raccolti da un gruppo di attivisti e ricercatori, nel periodo compreso tra gennaio 2014 e dicembre 2023 lungo il tratto della rotta balcanica che include sei paesi (Macedonia del Nord, Kosovo, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia) hanno perso la vita 346 persone in movimento. Trattandosi di dati reperiti da fonti pubbliche, i ricercatori sottolineano che il numero effettivo di vittime con ogni probabilità è molto più alto. In molti casi, la tragica sorte dei migranti è direttamente legata ai respingimenti effettuati dalle autorità locali e dai membri dell’agenzia Frontex.

      “La morte alle frontiere è ormai parte integrante di un regime di controllo che alcuni autori definiscono un crimine in tempo di pace, una forma di violenza amministrativa e istituzionale finalizzata a mantenere in vita un determinato ordine sociale. Molte persone morte ai confini restano invisibili, come sono invisibili anche le persone scomparse. I decessi e le sparizioni spesso non vengono denunciati, e alcuni corpi non vengono mai ritrovati”, spiega Marijana Hameršak, ricercatrice dell’Istituto di etnologia e studi sul folklore di Zagabria, responsabile di un progetto sui meccanismi di gestione dei flussi migratori alle periferie dell’UE.

      In assenza di un database regionale e di iniziative di cooperazione transfrontaliera, sono i volontari e gli attivisti a portare avanti le azioni di ricerca di persone scomparse e i tentativi di identificazione dei corpi. Al termine della cerimonia di commemorazione, a Bijeljina si è tenuta una conferenza per discutere di questo tema.

      “Molte famiglie non sanno a chi rivolgersi, non hanno mai ricevuto indicazioni chiare. Finora le istituzioni non hanno mai voluto impegnarsi su questo fronte. Spero che a breve ognuno si assuma la propria responsabilità e faccia il proprio lavoro, perché non è normale che noi, attivisti e volontari, portiamo avanti questo processo”, denuncia Nihad Suljić.

      A dare un contributo fondamentale è anche Vidak Simić, patologo ed esperto forense di Bijeljina. Dal 2016 Simić ha eseguito l’autopsia e prelevato un campione di DNA di circa quaranta corpi di migranti, per la maggior parte rinvenuti nel fiume Drina.

      “Questa vicenda mi opprime, non mi sento bene perché non riesco a portare a termine il mio lavoro. Credo profondamente nel giuramento di Ippocrate e lo rispetto. Le leggi e altre norme mi obbligano a conservare i campioni per sei mesi, ho deciso però di conservarli per tutto il tempo necessario, in attesa che il sistema venga cambiato. La mia idea è di raccogliere tutti questi campioni, creare profili genetici individuali, pubblicarli su un sito appositamente creato in modo da aiutare le famiglie – in Afghanistan, Pakistan, Algeria, Marocco e in altri paesi – che cercano i loro cari scomparsi.

      Lo auspicano anche il padre, la madre, la sorella e i fratelli di Aziz Alimi, vent’anni, proveniente dall’Afghanistan, che nel settembre dello scorso anno, nel tentativo di raggiungere la Bosnia Erzegovina dalla Serbia, aveva deciso di attraversare la Drina a nuoto con altri tre ragazzi. Poco dopo la sua scomparsa, nello stesso luogo da dove Aziz per l’ultima volta aveva contattato uno dei suoi fratelli, è stato ritrovato un corpo.

      Dal momento che non è stato possibile identificare il corpo per via del pessimo stato in cui si trovava, i familiari di Aziz, che nel frattempo hanno trovato rifugio in Iran, hanno inviato un campione del suo DNA in Bosnia Erzegovina. Ripongono fiducia nelle istituzioni e nei cittadini bosniaco-erzegovesi per garantire ad Aziz almeno una sepoltura dignitosa.

      Ai presenti alla conferenza di Bijeljina si è rivolta anche la sorella di Aziz, Zahra Alimi, intervenuta con un videomessaggio. “Non abbiamo parenti in Europa che possano aiutarci e davvero non sappiamo cosa fare. Per favore aiutateci, nostro padre è affetto da un tumore e nostra madre ha sofferto molto dopo aver appreso la triste notizia [della scomparsa di Aziz]. Possiamo contare solo su di voi”.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Rotta-balcanica-i-sogni-spezzati-nella-Drina-229948
      #route_des_Balkans #Balkans #rivière #Bosnie-Hezégovine #migrations #réfugiés #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #Bijeljina #Branjevo #Nenad_Jovanović #Nenad_Jovanovic #Serbie #frontières #commémoration #mémoire #cimetière #tombes #SOS_Balkanroute #Nihad_Suljić #Nihad_Suljic #dignité #monument #responsabilité

  • Dall’esodo a Napoli: la storia del “Rione dei profughi”
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Dall-esodo-a-Napoli-la-storia-del-Rione-dei-profughi-215723

    Un rione di Napoli accolse negli anni ’50 centinaia di famiglie divenute profughe a seguito della Seconda guerra mondiale. Tra questi istriano-dalmati, ma anche persone provenienti da Rodi, Smirne, Corfù

  • Borderline | The Wire

    Harsh living conditions have always brought people together in the Kupa-region on the Croatian-Slovenian border, but today the stream of life is cut in two by a razor wire to keep refugees from entering Slovenia.

    https://player.vimeo.com/video/532174343

    http://www.offworld.be/index.php/film-borderline-wire

    #film #film_documentaire #documentaire #Tiha_Gudac
    #frontières #barbelé #Croatie #Slovénie #Kupa #Balkans #route_des_Balkans #migrations #asile #réfugiés #rivière #clôture #fermeture_des_frontières #frontière_sud-alpine

    ping @isskein

    • Slovenia, Croazia : filo spinato

      «Mi chiedono ’sei pro o contro l’immigrazione?’, ma la domanda non ha senso, non c’è da essere pro o contro, l’immigrazione esiste. Piuttosto, bisogna scegliere come gestirla». Un’intervista a Tiha K. Gudac, regista del documentario Žica, filo spinato

      «Žica », letteralmente “filo spinato”, è il secondo documentario della regista croata Tiha K. Gudac (classe 1982). Dopo aver esordito nel 2014 con «Goli», che ripercorre la storia del nonno internato a Goli Otok, Gudac si occupa questa volte del filo spinato che il governo sloveno ha posizionato sul confine tra Croazia e Slovenia e sull’impatto che questo nuovo muro ha sulle comunità locali. Il film è parte del progetto «Borderline» prodotto da Off World e dedicato a diversi confini europei, raccontati attraverso sei documentari. Žica, uscito nel 2021, ha vinto il premio “Menzione speciale” al RAFF – Rab Film Festival.

      Com’è nata l’idea di un film sul filo spinato tra Slovenia e Croazia?

      Tutto è iniziato nel 2016, quando si è sviluppato il progetto «Borderline», con l’obiettivo di realizzare una serie di documentari sulle frontiere dell’Unione europea. Io ho proposto il confine croato-sloveno e realizzato un primo trailer. Allora c’era qualcosa di davvero macabro nel paesaggio: le autorità slovene avevano posto a terra dei rotoli di «nastro spinato» (razor wire), che è molto più tagliente del normale filo spinato e può incidere la carne fino all’osso. Per questo, si trovavano molti animali morti lungo il confine. La mia idea è stata selezionata e le riprese sono iniziate nel 2019.

      Qual è la situazione al confine croato-sloveno oggi?

      I rotoli di nastro spinato sono stati sostituiti con una recinzione sulla quale è stato collocato il filo spinato. La barriera è più lunga e più resistente, ma perlomeno meno pericolosa per chi ci cammina vicino.

      Nel tuo documentario ti concentri sulle conseguenze che il filo spinato ha nella vita quotidiana di chi ci vive vicino. Da dove sei partita?

      Mi sono concentrata sull’area attorno al fiume Kupa (Kolpa, in sloveno) che divide i due paesi, in particolare, la zona di Petrina (Slovenia) e Brod na Kupi (Croazia). Si tratta di una regione che in Croazia è nota con il nome di Gorski Kotar e dove si registrano gli inverni più rigidi, secondi solo a quelli del monte Velebit. Date queste difficili condizioni di vita, la popolazione locale si è unita, da un lato all’altro del confine, e oggi rappresenta un’unica comunità in cui si parla sia sloveno che croato, e anche una terza lingua dialettale, che è un miscuglio delle prime due.

      L’impressione che si ha, guardando il tuo film, è che l’armonia locale sia stata distrutta da un’agente esterno...

      È così, non si tratta di un’esagerazione. Penso alla storia di Zlatko, uno dei protagonisti del documentario. Lui vive sul lato croato del fiume, ma siccome in quel punto non c’è una strada, lui attraversa la Kupa con una piccola barca per fare la spesa o cercare ciò che gli serve dal lato sloveno del fiume. Tanti altri, invece, hanno la casa da un lato e i campi dall’altro e quindi utilizzano i piccoli ponti per andare dall’altra parte. Ecco, con l’arrivo del filo spinato sono stati chiusi tutti i valichi minori e ora le persone devono fare a volte un giro di 40 km per arrivare dall’altra parte.

      C’è una bella scena nel film, in cui si vede la polizia locale mentre cerca di convincere gli abitanti della necessità del filo spinato...

      Tutti i protagonisti del film si trovano in una situazione in cui non vorrebbero essere. I poliziotti sono persone del luogo che hanno trovato un lavoro sicuro e stabile in un’area in cui non ci sono fabbriche o grandi imprese. Ora si ritrovano a dover posizionare filo spinato e fare respingimenti illegali. La popolazione locale, naturalmente, non ne vuole sapere del filo spinato, perché separa le comunità, impedisce agli animali di raggiungere il fiume ecc. I migranti, infine, arrivano dall’altro capo del mondo e cercano di sopravvivere e di attraversare il confine.

      Il film segue anche le vicende di Omar e Mohammed, due migranti che dalla Bosnia Erzegovina cercano di raggiungere l’Italia. La loro testimonianza dei respingimenti è molto forte...

      Mi ricordo un giorno, durante le riprese, quando ci siamo messi a chiacchierare a Velika Kladuša (Bosnia Erzegovina), facendo finta di avere una conversazione normale. Uno di loro mi ha chiesto quali fossero i miei hobby e quand’è venuto il suo turno ha detto: “Io cammino per la Croazia finché non mi riportano di qua”. Hanno provato ad arrivare in Slovenia 10–15 volte e ogni volta sono stati picchiati e respinti. Il comportamento violento della polizia croata non è solo inaccettabile perché viola i diritti umani di queste persone ma, se vogliamo, è anche irresponsabile nei confronti dei cittadini europei, perché traumatizza delle persone che poi arriveranno in Europa, cariche di paura e di rabbia.

      Che idea ti sei fatta del modo in cui i governi europei stanno rispondendo alla questione migratoria?

      Ho l’impressione che non si voglia vedere la realtà. Si parla di “crisi”, quando in verità le migrazioni non sono un fenomeno passeggero, ma che anzi durerà e, temo, peggiorerà nei prossimi anni. Il focus del mio film era il filo spinato ma inevitabilmente si è allargato all’immigrazione e mi sono resa conto che sul tema la gente ha una visione in bianco e nero. Mi chiedono “sei pro o contro l’immigrazione?”, ma la domanda non ha senso, non c’è da essere pro o contro, l’immigrazione esiste. Piuttosto, bisogna scegliere come gestirla. E siccome si tratta di un fenomeno complicato, serve una risposta articolata e non semplice come un muro o una barriera di filo spinato, che in ultima istanza non serve a nulla.

      Il tuo film è già stato presentato in diversi festival in Germania e nei Balcani. Quali sono state le reazioni finora?

      Il pubblico ne è stupito, perché si parla di luoghi familiari, molto vicini. In Slovenia, tuttavia, il film non è ancora stato proiettato, lo sarà a breve al festival del cinema di Portorose. Ma per quanto riguarda i respingimenti o la violenza sui migranti in generale, non mi sembra che ci sia un vero dibattito pubblico. Ci sono tante inchieste, pubblicazioni, ma quando si guarda alle dichiarazioni dei responsabili politici, c’è solo negazione. E mi dispiace, vorrei che la società reagisse di più, perché altrimenti finisce che ci si abitua pian piano a tutto, come al filo spinato davanti alla propria casa. E se guardiamo agli ultimi dieci anni in Europa, con la scusa del male minore o del male necessario, ci siamo in realtà abituati all’avanzata del fascismo.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Slovenia-Croazia-filo-spinato-212734

  • #Dzyunashogh : ricordi infranti dell’Azerbaijan

    I villaggi di #Dzyunashough, in Armenia e #Kerkenj, in Arzebaijan, sono stati protagonisti alla fine degli anni ’80 di un drammatico scambio di popolazioni, in fuga da violenza e persecuzioni. Un reportage.

    La strada per Dzyunashogh è lunga e difficile. I ricordi degli abitanti di questo villaggio remoto, incastonato tra le montagne dell’Armenia e della Georgia, sono come queste strade tortuose.

    Trent’anni fa, quando Dzyunashogh era popolata da azerbaijani, il villaggio veniva chiamato Qizil Shafaq o «Alba Rossa». Ma con l’acuirsi delle tensioni tra Armenia e Azerbaijan nella regione di Nagorno Karabakh, verso la fine degli anni ’80, gli abitanti del villaggio scelsero di scambiare le loro case con quelle di armeni che vivevano nel villaggio di Kerkenj, in Arzebaijan, distante circa 540 chilometri.

    È a seguito del massacro degli armeni nella città di Sumgayit, in Arzebaijan, nel febbraio del 1988, che si diffuse l’idea di abbandonare il paese, racconta un ex abitante di Kerkenj.

    «Un giorno, mentre stavamo lavorando, un azerbaijano arrivò e disse che dovevamo lasciare il villaggio», spiega il 63enne Sashik Vardanyan. «Non potevamo crederci. Tutto è iniziato dopo Sumgayit».

    L’obiettivo era quello di tenere unito il villaggio. Un comitato informale iniziò quindi a cercare dei luoghi disponibili in Armenia, dove stabilire la comunità. Si sperava nella Valle dell’Ararat, una ricca pianura agricola situata ai piedi del Monte Ararat, un simbolo culturale per gli armeni. Ma quei villaggi erano già stati occupati da altri armeni sfollati dalla capitale dell’Azerbaijan, Baku.

    Rimaneva disponibile Qizil Shafaq (Dzyunashogh), situata circa 52 chilometri a nord di Vanadzor, terza città dell’Armenia. Come gli abitanti di Kerkenj, anche gli abitanti di Dzyunashogh, azerbaijani, avevano lo stesso desiderio, vivere uniti e in pace.

    A tutte le 250 famiglie di Kerkenj il comitato propose delle abitazioni in villaggi armeni, ricorda la moglie di Vardanyan, Sonia, 58 anni. In seguito ogni famiglia andò a Qizil Shafaq per parlare direttamente con gli abitanti azerbaijani.

    Per entrambi la priorità era assicurarsi la protezione dei cimiteri. Mostrare rispetto per i defunti è una questione di profonda importanza e di onore. Un impegno di responsabilità collettiva preso dai due villaggi, basato sulla fiducia reciproca.

    «Fino ad oggi ci siamo presi cura dei cimiteri e abbiamo spiegato ai nostri figli che anche loro dovrebbero farlo», racconta Sashik Vardanyan.

    Ora un cimitero di abitanti armeni sorge accanto a un cimitero azero abbandonato.

    Lo scambio degli abitanti avvenne in modo pacifico, tra il maggio e l’agosto del 1989. Governo e partito comunista in carica non svolsero nessun ruolo in questo scambio e non espressero nessun interesse al riguardo, spiega un abitante.

    Con poche automobili, lo scambio non fu una questione semplice. Spesso gli abitanti azerbaijani arrivavano a Kerkenj con la stessa macchina presa in prestito che aveva portato gli abitanti di Kerkenj in Armenia, raccontano alcuni abitanti.

    Nel caso della famiglia di Sonia Vardanyan, un giovane di Kerkenj che già si era trasferito in Armenia ha fatto ritorno in Arzebaijan, «ed è con lui alle 2 del mattino che abbiamo lasciato il villaggio», dice. L’ora è stata scelta per motivi di sicurezza. Lo stesso vale per il percorso, invece di attraversare il confine amministrativo azerbaijano con l’Armenia, i migranti viaggiavano a nord verso la Georgia, passando per la regione azerbaijana occidentale di Qazakh e poi a sud verso il nuovo villaggio.

    «Siamo stati gli ultimi a lasciare il villaggio (Kerkenj) e le cose erano già peggiorate», dice Vardanyan. «Non riuscivamo a trovare un’automobile e i nostri bagagli erano già pronti».

    Quando gli abitanti di Kerkenj si trasferirono a Qizil Shafaq il nome del villaggio venne cambiato. Non è chiaro il motivo della scelta di Dzyunashogh.

    I pareri in merito al trasferimento erano divergenti. Il clima sulle montagne dell’Armenia del nord era più rigido rispetto a quello di Karkenj. In Armenia erano bestiame, patate e grano - piuttosto che l’uva - le principali fonti di guadagno.

    Sonia Vardanyan ricorda che quando gli abitanti di Kerkenj arrivarono dall’Azerbaijan trovarono i terreni già coltivati, con patate orzo e grano.

    «Ci siamo dati da fare e chiunque sapesse mungere una mucca lo faceva. Io lavoravo nelle stalle d’inverno e portavo al pascolo il bestiame d’estate, sulle montagne».

    Oggi, le 27 famiglie che ancora vivono qui vendono latte per guadagnare. Solo otto di queste sono originarie di Kerkenj.

    Ma a Dzyunashogh il tempo sembra essersi fermato all’epoca dello scambio. La maggior parte delle case sono in rovina o abbandonate.

    I migranti armeni provenienti da Baku «non sapevano fare nulla, erano ex abitanti di città», racconta Sonia. «Quindi le persone iniziarono ad andarsene dal villaggio, una ad una. Sono andati tutti in Russia». Restarsene qui significava affrontare grandi difficoltà. Nessun trasporto pubblico, nessuna fornitura di gas.

    «C’era il servizio di autobus ma non c’è più,» spiega Sonia. «C’era un negozio dove compravamo il pane, chiuso. Tutto è stato privatizzato e spezzettato».

    I nativi di Kerkenj ora vedono Dzyunashogh come casa loro, ma nutrono ancora nostalgia per il villaggio che hanno lasciato.

    A parte quelle portate dai giornalisti che visitano entrambi i villaggi, raccontano di non aver modo di ricevere notizie da Kerkenj.

    «Abbiamo vissuto fianco a fianco per così tanti anni!» esclama Sonia pensando ai suoi ex colleghi e vicini azerbaijani.

    Ricorda i «veri» matrimoni armeni che ogni fine settimana portavano a Kerkenj persone provenienti da ogni parte delle aree vicine. «Il cantante e il batterista erano del nostro paese, il fisarmonicista e il clarinettista di un villaggio armeno vicino. Diventarono amici e ogni settimana suonavano nel nostro villaggio. Ci riunivamo con i vicini e ci divertivamo molto».

    Sashik Vardanyan ricorda la terra. «Kerkenj significa ’più duro della pietra’ nel dialetto armeno che parlano gli abitanti del villaggio, i cui avi provenivano perlopiù dalla città iraniana di Khoy,» spiega Sashik. «Ma non si trovava nemmeno una pietra là. Tutt’intorno c’erano terra nera, vigneti e acqua dalle sorgenti...».

    Tra gli abitanti resta accesa la speranza che un giorno, in qualche modo, vedranno di nuovo il luogo in cui hanno vissuto in Arzebaijan. Per ora rimangono solo i ricordi a legarli a quello che hanno lasciato.

    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Azerbaijan/Dzyunashogh-ricordi-infranti-dell-Azerbaijan-189760
    #Arménie #Azerbaïdjan #migrations_forcées #échange_de_populations #Qizil_Shafaq #Nagorno_Karabakh #Sumgayit #massacre #cimetière #toponymie #toponymie_politique #montagne #mémoire #toponymie_migrante

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    L’original en anglais :
    Dzyunashogh : Broken Memories of Azerbaijan

    https://www.chai-khana.org/en/story/670/dzyunashogh-broken-memories-of-azerbaijan
    ping @albertocampiphoto
    #photographie

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  • #Lazar_Drljača, il Van Gogh del lago Boračko

    Lazar Drljača fu uno travagante pittore bosniaco, diffidente nei confronti dei ricchi e potenti, vissuto a cavallo delle due guerre mondiali. La sua storia.

    Non c’è un solo libro né dépliant turistico dedicato alla città di Konjic e i suoi dintorni in cui non venga menzionata la leggenda del Boračko jezero (lago Boračko). Secondo il mito, nell’area oggi occupata dal più grande lago naturale della Bosnia Erzegovina, in passato sorgeva una piccola e prosperosa città. Con il passare del tempo, gli abitanti della città divennero miscredenti, disumani e arroganti (c’è bisogno di aggiungere che la ricchezza ha sempre arrecato danni, fin dai tempi di Adamo?). Un giorno un santo, travestito da semplice viaggiatore, si recò nella città cercando riparo, ma nessuno degli abitanti gli offrì qualcosa da mangiare né un posto dove dormire. L’unica ad accoglierlo in casa fu una povera ragazza. La mattina del giorno successivo, prima ancora che sorgesse il sole, il santo disse alla ragazza di caricare i pochi beni che possedeva su un cavallo e di andarsene perché la città sarebbe stata presto punita. Le ordinò di fermarsi là dove il cavallo avrebbe battuto lo zoccolo a terra tre volte e di rimanere a vivere in quel posto, assicurandole che sarebbe stata felice. La ragazza fece come le ordinò il santo. Quando si voltò indietro vide che al posto della città c’era un lago. La città fu sommersa insieme ai suoi abitanti. Fu così che nacque il lago Boračko. La ragazza rimase a vivere in quel luogo dove si era fermato il cavallo, dove poi sorse la città di Konjic [il nome della città deriva dal termine serbo-croato “konj“ che significa appunto cavallo, ndt].

    Oltre alla leggenda del lago Boračko, in tutti i libri su Konjic vengono menzionati anche due artisti: lo scrittore di viaggi e caricaturista Zuko Džumhur (1921-1989), nato a Konjic, e il pittore Lazar Drljača (1882-1970), che ha vissuto nell’area di Konjic dai primi anni Trenta fino alla fine dei suoi giorni.
    Drljača, vita e opere

    La vita di Lazar Drljača? Entriamo subito in medias res: la sua vita non trova paragoni nel ricco mosaico delle biografie di pittori slavi meridionali, in cui trovano posto sia figli di nobili che vagabondi, sia rinomati professori che bohémien, sia cittadini modello che artisti poveri, sia snob che morti per suicidio... A prescindere dal loro carattere, nessuno di questi pittori ha mai odiato la civiltà del XX secolo così tanto come Lazar Drljača.

    E le sua opera? Per ora ci limitiamo a dire che nessun pittore jugoslavo ha visto bruciare o scomparire così tante delle sue opere come Drljača.

    Dopo il grande successo riscosso a Roma, dove all’Esposizione universale del 1911 espose ben quattro dipinti, Drljača tenne le sue prime mostre personali a Sarajevo, Mostar e Bosanska Krupa. Descrisse così la sua vita: “Sono nato lungo il fiume Una vicino al monte Brezovača, ricco di selce e piombo. Sono cresciuto a Sarajevo, dove ho iniziato a dipingere. Ho proseguito gli studi in Europa, a Vienna, Parigi, per circa 16 anni. Ho combattuto nelle fila degli Alleati contro le forze dell’Asse. Appena tornato dalla calda Italia nel mio villaggio natio sull’Una mi sono sposato. La mia signora si chiama Miseria. Nella mia terra natia ricca di selce e piombo ho maturato una propensione per l’architettura e ho lavorato come muratore. Tagliavo e cuocevo mattoni. Ho costruito una barca, remavo e scavavo minerali. Sono un fabbro e sono capace di tagliare l’erba e arare la terra. Ho costruito ferrovie e una chiesetta. Durante la guerra mondiale mi hanno portato via i miei colori; ho sopportato lunghi periodi di detenzione in Italia. La miseria, la mia fedele compagna, mi ha consolato, come spesso consola poeti e pittori. Un anno fa ho tenuto una mostra nella mia natia Krupa, senza grandi pretese, cercando di evocare, attraverso i colori, la bellezza delle nostre montagne e dei loro fiumi“.

    E questo non è tutto. Il pittore Drljača, marito della signora Miseria, un architetto mancato, rimase fino alla fine dei suoi giorni in quella parte dell’Erzegovina dominata dalla montagna Prenj. Sarebbe troppo facile dire che Drljača era tanto strano quanto lo è il Prenj. Il clima della montagna Prenj è capriccioso, il sole viene improvvisamente oscurato dalle nuvole, i tuoni squarciano il silenzio della montagna come se fosse un foglio di carta. Povero il viaggiatore che, vestito come se stesse andando a fare un picnic in un parco, decidesse, abbagliato da un cielo senza nuvole, di salire sulle cime della montagna Prenj, superiori ai 2000 metri di altezza, da cui si gode una vista sulle montagne Visočica, Bjelašnica, Bitovnja, Čvrsnica, Velež e Crvanj.

    Le stranezze di Drljača? Come e perché finì per nutrire disprezzo nei confronti della civiltà moderna, le sue città e ricchezze materiali? Grazie alle testimonianze dei suoi contemporanei, piene di aneddoti, sappiamo che fino al 1960 Drljača viveva in capannie sparsi per la montagna. Ormai vecchio e debole, si lasciò finalmente convincere da alcuni amici e rappresentanti dell’amministrazione locale ad accettare aiuto e a trasferirsi a villa Šantić, nei pressi del lago Boračko. Aveva solo un coltello, un cucchiaio e alcune lattine, che usava per cuocere un uovo o qualche patata – il suo unico pasto giornaliero – che non voleva prendere da chiunque, ma soltanto dai contadini di cui si fidava. Nei prati di montagna raccoglieva erbe e piante aromatiche. Pescava nella Šištica, un piccolo fiume che esce dal lago Boračko e si trasforma “in modo spettacolare“ – come si legge nei dépliant turistici – in una cascata che si unisce alle acque del fiume Neretva nei pressi di Konjic. Si cuciva da solo i vestiti, e anche gli opanci [calzature tradizionali]. Non dipingeva ogni giorno, ma solo quando ne aveva voglia. Tuttavia, guardando i suoi quadri, è difficile sottrarsi all’impressione che Drljača contemplasse continuamente le sue opere, accumulandole e intrecciandole dentro di sé in un modo noto solo a lui.

    Durante la Seconda guerra mondiale Drljača subì un grande trauma: il suo capanno, piena di quadri, fu data alle fiamme dai cetnici. Subito dopo la guerra venne distrutta dalle fiamme anche la sua “nuova“ casa di montagna, altro misero capanno, e con esso i suoi quadri. Dicono che dopo questo episodio Drljača smise di dipingere per un lungo periodo di tempo, e finché aveva forza si guadagnava da vivere tagliando il fieno e legna da ardere. E quando tutti divennero compagni, lui rimase signor Lazar, perché non amava nessun potere e odiava tutti quelli usavano il potere a proprio vantaggio.

    Quando giunge alla fine della meravigliosa biografia di Lazar Drljača, scritta dal giornalista Šefko Hodžić, intitolata “Zatočenik ljepote” [Prigioniero della bellezza] – la cui copertina riporta un ritratto fotografico del pittore con la pipa in bocca – il lettore si rende conto di quanto sia difficile comprendere le stranezze dell’artista e il suo costante desiderio di isolarsi dalla società. Quali traumi aveva subito nelle grandi metropoli del mondo? Che cosa aveva sperimentato durante la Grande guerra, che fu costretto a combattere? E durante la Seconda guerra mondiale, in cui fu testimone della miseria e dell’assurdità del conflitto interetnico? C’entrava forse una donna con la sua decisione di isolarsi dal mondo? Della sua vita emotiva non si sa nulla, a parte il fatto che, ormai giunto alla vecchiaia, si innamorava delle giovani insegnanti del villaggio.

    Preferisco non indovinare le vere motivazione alla base delle decisioni più importanti della vita di un uomo e artista che fu servo e allo stesso tempo re di se stesso. Non riconosceva nessun altro re, ma stimava una regina, Jelena Petrović Njegoš, moglie di Vittorio Emanuele III, che apprezzava la sua arte. Quando il re Aleksandar Karađorđević, recatosi in visita a Konjic, inviò un emissario per chiedere a Drljača di venire in città per eseguire un ritratto del re, l’artista gli rispose che non poteva venire subito, ma che sarebbe venuto tra due-tre ore. Quali impegni Drljača dovesse sbrigare proprio in quel momento, sa il Signore, ma quel che è certo è che non dipinse mai alcun ritratto del re Aleksandar. Era sempre diffidente nei confronti dei ricchi e potenti, anche dopo la Seconda guerra mondiale. Non risparmiava critiche nemmeno ai contadini, tra i quali aveva trascorso metà della sua vita. Se dovesse resuscitare oggi, cosa direbbe Lazar, il peccatore, di fronte al riaffiorare del fenomeno che lui stesso, all’epoca della Jugoslavia socialista, aveva definito grabinizam [termine deriva dal verbo serbo-croato “grabiti” che significa arraffare, prendere con violenza]? Cosa direbbe se dovesse sentire il rumore dei camion che trasportano, sfuggendo a ogni controllo, il legname tagliato illegalmente nei boschi della montagna Prenj? E come reagirebbe se dovesse venire a conoscenza del problema dei cavalli selvaggi di quelle zone, che sopravvivono solo grazie all’impegno di alcune buone persone provenienti da altre parti d’Europa?

    Prima di morire Lazar Drljača aveva espresso il desiderio che venisse sepolto su una delle cime del Prenj, la cima di Osobac, ovvero che il suo cadavere venisse portato sulla cima e lasciato in pasto agli uccelli. Il suo desiderio non è stato esaudito. La sua tomba si trova nei pressi di villa Šantić sul lago Boračko. Recentemente un gruppo di giovani sarajevesi ha sostituito il tronco di legno con inciso il nome di Lazar Drljača, che segnava la sua sepoltura, con uno stećak [pietra tombale bogomila]. Sì, proprio uno stećak, non è un errore di battitura. Lazar Drljača sosteneva di essere l’ultimo dei bogomili. Tuttavia, con questo stećak, collocato nei pressi di una villa quasi completamente distrutta durante l’ultima guerra in Bosnia – una villa che è un muto, ma vivo testimone della nostra follia fratricida e dell’assurdità delle divisioni post-belliche – , non si chiude la storia della vita e dell’opera di Lazar Drljača.

    Sarajevo, il 2012

    Nel 2012, in occasione dei 130 anni dalla nascita di Lazar Drljača, e a distanza di 50 anni dall’ultima mostra dell’artista organizzata a Mostar, nel Museo della Letteratura e dell’Arte Drammatica di Sarajevo è stata inaugurata una retrospettiva delle sue opere, che è stata anche l’occasione per festeggiare i 110 anni di attività dell’associazione culturale serba “Prosvjeta”. Nella mostra sono state esposte 62 opere di Drljača, poche, ma sufficienti per presentare un artista che si ispirò agli ideali dell’espressionismo e fauvismo, cercando di far coesistere le esperienze delle avanguardie artistiche europee del primo Novecento con il proprio modo di percepire la natura, le persone e le città. Un mio amico di Sarajevo mi ha detto che la summenzionata mostra di Lazar Drljača ha destato così tanto interesse che anche il cortile del museo era troppo piccolo per accogliere tutti i visitatori. Mi ha anche inviato un articolo di un giornale, in cui un giovane giornalista sarajevese ha scritto che l’arte, al pari dell’amore, è l’ultimo bastione di difesa del buon senso.
    Post scriptum

    Il titolo “Il Van Gogh del Boračko jezero” sembra problematico? O ancora peggio, suona troppo patriottico? Ho cercato di esagerare l’importanza dell’artista bosniaco? Van Gogh in vita non vendette nessun quadro, Drljača invece sì; Vincent raggiunse la fama mondiale dopo la morte, mentre Lazar è noto solo nell’area ex-jugoslava; il famoso olandese dipingeva ogni giorno, il pittore bosniaco solo quando ne aveva voglia…

    Quindi?

    Non ho trovato un titolo migliore, e comunque non esistono titoli perfetti! Ma mi sembra che la mia scelta possa essere giustificata dal fatto che sia per Vincent che per Lazar l’arte era vita, la miseria era la loro più fedele compagna, e la natura la loro unica fonte di consolazione.

    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Lazar-Drljaca-il-Van-Gogh-del-lago-Boracko-195842
    #Lazar_Drljaca #art

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    Lazar Drljača sur wiki :


    https://fr.wikipedia.org/wiki/Lazar_Drlja%C4%8Da

    ping @reka

    • #Expo :
      Đuro Janeković. Fotografo Croato, Artista Europeo

      Attraverso le fotografie il visitatore approda con lo sguardo dall’altra parte dell’Adriatico e anche più lontano, nella Zagabria degli anni ’30 del secolo scorso.

      Il lavoro di Đuro Janeković (1912-1989) è rimasto fino a pochi anni fa completamente sconosciuto al contesto fotografico tanto croato quanto europeo eppure Janeković è stato, fra gli anni venti e trenta del XX sec., un protagonista della scena artistica zagrebese, testimone dell’influenza del modernismo europeo a Zagabria. Attraverso le sue fotografie Janeković diventa cronista della vita della sua città ad ogni livello, dalle periferie alle strade eleganti, dalle signore alle ballerine, ai miseri e agli outsiders.

      Gli anni Venti e Trenta rappresentano per il fotogiornalismo, con il fenomeno dell’urbanizzazione, l’avvento della società dei consumi e la diffusione dello sport e degli svaghi di massa, anni di grande creatività. Seguendo l’esempio della tedesca «Berliner Illustrirte Zeitung» anche a Zagabria si inizia la pubblicazione di riviste illustrate come la Svijet (Il Mondo) e Kulisa (La Scena) che offrono alla fotografia una vetrina importante.

      Nel 1933 Janeković diviene uno dei primi fotocronisti professionali della Croazia e le sue numerose fotocronache sono pubblicate proprio sulla rivista «Kulisa» le sue foto notturne di Zagabria sono uniche, scattate con una esposizione lunga o doppia; le prospettive e i punti di vista fotografici di Janeković sono particolarmente intriganti se si collegano a quelli di Aleksander Rodčenko del quale sono, anche per tempo di nascita, paralleli. Le vedute dall’alto e dal basso e le composizioni diagonali dimostrano nei due autori un’eccezionale affinità e una sensibilità comuni.

      In uno stile che ricorda la miglior fotografia tedesca di quel tempo, le sue fotografie sportive si concentrano in prevalenza sul movimento e sull’uso di prospettive trasversali e di angoli di ripresa inusuali. Janeković mostra uno speciale talento per l’azione ed il movimento: cogliendo la palla appena lanciata, il corridore al momento dell’arrivo al traguardo, il saltatore nello stacco. Egli stesso, sportivo appassionato, correva accanto o innanzi al concorrente, ritrovandosi così protagonista e fotografo, con risultati sorprendenti per le possibilità tecniche del tempo.

      https://www.balcanicaucaso.org/Appuntamenti/Duro-Janekovic.-Fotografo-Croato-Artista-Europeo2
      #exposition

  • Armenia : le ragazze delle stelle

    Portano avanti la tradizione dell’Armenia in campo astronomico. E lo fanno trascorrendo se serve notti intere presso l’Osservatorio astronomico di Byurakan. Reportage

    #Hasmik_Andreasyan, 26 anni, si sente a casa quando guarda le stelle. Hasmik è figlia di un astronomo ed è cresciuta a pochi metri dal telescopio più grande dell’Armenia, presso l’osservatorio astrofisico di Byurakan. Oggi segue i passi del padre assieme ad altre otto giovani astronome che lavorano all’osservatorio.

    L’astronomia armena, e in particolare l’Osservatorio di Byurakan, hanno una ricca storia. Grandi scoperte, in particolare nel campo dell’astrofisica, son da ascrivere a scienziati armeni. Una delle leggende della moderna astronomia, Victor Ambartsumyan, era armeno ed è stato lui a fondare l’osservatorio.

    Ma l’astronomia ha faticato a trovare i suoi spazi dalla fine dell’Unione sovietica. Hanno pesato sia la mancanza dei fondi necessari e le riforme del settore scolastico.

    Attualmente sono 43 i ricercatori che lavorano all’osservatorio che si estende su una superficie di 53 ettari. Tra loro vi sono 9 giovani donne.

    Hasmik e #Anahit_Samsonyan, entrambe trentenni, rappresentano la nuova generazione degli astronomi in Armenia. Le due giovani scienziate viaggiano su un piccolo autobus dalla capitale Yerevan all’osservatorio, impiegando 40 minuti, quasi ogni giorno per condurre esperimenti ed osservare il cosmo.

    Hasmik è specializzata in giovani stelle. Anahit studia l’astronomia dell’infrarosso. Hasmik è cresciuta studiando le stelle mentre Anahit ha iniziato ad interessarsene solo durante i suoi studi universitari, quando le capitò in gita di visitare l’osservatorio.

    Entrambe sono scienziate molto legate al loro lavoro ed a volte stanno sveglie tutta la notte ad aspettare che le nuvole si diradino e di poter lavorare. “La nostra professione sembra molto romantica ma in realtà non lo è. La maggior parte del tempo la passiamo davanti al computer a fare calcoli ed esperimenti. Ma la nostra routine quotidiana è molto diversa dai giorni in cui facciamo osservazioni”, sottolinea Hasmik.

    “Il nostro orario di lavoro non si limita alle canoniche otto ore al giorno, cinque giorni alla settimana... A volte nei giorni di osservazioni, se ci sono nuvole, sto sveglia tutta la notte”.

    Durante i giorni di osservazione gli scienziati possono risiedere a Byurakan. Vi sono ancora dormitori in stile sovietico. “Mio padre è u astronomo e io sono di fatto cresciuta a Byurakan. Mio padre aveva un posto dove dormire qui, io andavo a scuola nel villaggio. In questo ambiente non potevo che non amare l’astronomia”, racconta Hasmik.

    Il villaggio, Armenia occidentale, può non essere famoso come Londra o Parigi ma, nel mondo dell’astronomia, è ben conosciuto.

    Molte sono state le scoperte rilevanti fatte nell’osservatorio, fondato nel 1946. I contributi nel campo includono del lavoro apripista relativamente alle associazioni stellari, a fenomeni correlati ai nuclei delle galassie e alla teoria della materia super-densa.

    Attualmente, sottolinea Anahit, gli scienziati armeni hanno accesso a tutti gli ultimi sviluppi e non vi sono limiti su cosa possono raggiungere. “L’astronomia non ha confini. Non mi sento separata dalla comunità scientifica globale. La mia carriera dipende da me e dalle mie ambizioni e non vi sono limiti. Nell’era di internet abbiamo molte possibilità di venire informati di ogni nuova scoperta”, afferma.

    Aggiunge che i giovani astronomi riescono solitamente a fare da tre a quattro viaggi di lavoro all’anno per prendere parte a diverse conferenze e collaborare a lavori scientifici con colleghi stranieri. Anahit sottolinea che, grazie ai contributi dati in passato dall’Armenia all’astronomia, i giovani astronomi sentono l’enorme responsabilità di continuare il lavoro di Ambartsumyan.

    «L’astronomia è una scienza internazionale, in qualsiasi fase della tua carriera puoi continuare la tua formazione all’estero, acquisire nuove conoscenze ed espandere i tuoi orizzonti. Ci sono molte opportunità per questo... L’Osservatorio di Byurakan era uno dei principali al mondo e in questo senso noi ci sentiamo molto responsabili assicurandoci di non restare indietro rispetto agli ultimi risultati dell’astronomia e nell’aiutare ad ispirare giovani scienziati e spingerli ad entrare nel campo».

    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/Armenia-le-ragazze-delle-stelle-193143

    #Arménie #femmes #astronomie #femmes_austronomes

  • Georgia: matriarcato per necessità

    In alcuni villaggi del sud della Georgia l’80% degli uomini emigra ogni anno per lavori stagionali. E una società patriarcale, per sei mesi all’anno, si trasforma in matriarcato


    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Georgia/Georgia-matriarcato-per-necessita-192010
    #Géorgie #matriarcat #patriarcat #migrations #émigrations #femmes #hommes #celles_qui_restent

  • Turkey : the map of violence against women

    An interview with #Ceyda_Ulukaya, journalist and creator of the first map of femicides in Turkey – an original and appreciated data journalism project.

    Ceyda Ulukaya is a journalist and the creator of the first map of femicides in Turkey. The project, realised in collaboration with Sevil Şeten and Yakup Çetinkaya, was among the finalists of the 2016 Data Journalism Awards, in the Small Newsroom section. The map covers the period between 2010 and 2017, in which at least 1,964 women were killed. In addition to providing the date and place of the murders, it features qualitative filters that indicate the demographics of the victims, the relationship they had with their murderers, the “pretext” of the murder, and the outcome for the murderer. According to the journalist, it is almost a war report. We have interviewed her.

    How did the idea for this project come about?

    It was around the end of 2014, when I started dealing with data journalism. I was aware of the Bianet centre and their annual reports on male violence, as I did my internship there much earlier. So I started to examine the Istanbul Convention, which commits the signatory states to collect data on the murders of women. The idea was to create a map that could highlight the gravity of the phenomenon in a simple and immediate manner, especially for those who are not familiar with the issue. I applied to the “Objective investigative journalism” programme of the P24 platform, which funded the work, that lasted a year. The website was then published for the first time on November 25, 2015. I would like to get to cover at least ten years, until 2020, but it is necessary to find new funding.

    Which sources did you use to collect the data?

    At first I had imagined that I could obtain the data I needed by submitting a request to the various ministries, on the basis of the right of access to public information. I was hoping to get even detailed information about the women. Unfortunately, none of my requests was answered. Each interlocutor told me to ask someone else, the ministry of Justice, the gendarmerie, the police station, the ministry of the Interior... In the end, I was told that the required data required additional work and therefore it was not possible to communicate them.

    But do not the ministries have their own data?

    Ministries, especially that of Family Policies, periodically publish statistics on the topic. In 2009, the latter announced that there had been an increase of 1,400% in the murders of women, causing a great fuss. The ministry then continued to update those data, with numbers that have become much more “acceptable”. However, when I applied for access to such information, I was told that there are no such data. So, it is not clear if they actually have it. On the other hand, some women’s organisations and Bianet itself started to count cases of femicide precisely because of this incongruity. So, faced with such difficulties and wanting to adopt the maximum transparency on the issue, the media have become the direct source from which to draw this data.

    Which method did you use for data collection?

    I used Bianet’s bulletins on male violence, which are written in the form of reports – for example, they say that a woman was killed by stabbing in a given city. In particular, in the slightly older cases initials are often used. For each of these cases, when information was missing, I proceeded to do a Google search with the information I had, or imagining the titles that local newspapers could have used. This way, I went back to the news that appeared in the press for every single case. The first mapping included the period between 2010 and 2015, and now covers cases until the end of 2017.

    Do you think that the media fully report the cases of women killed?

    Absolutely not. And that is why in providing the figures we always stress that they represent the lower bound of the number of killed women. Then there are cases in which women are induced to commit suicide. Also this kind of news have been reported from time to time, but there is uncertainty on the subject and it is not possible to tell exactly which and how many cases fall into this picture. Many other murders are silenced. For example, on November 25, 2017 I prepared and sent to several media outlets a video with a statement that included the data on the femicide map. According to the map, Bayburt was the only city where women had not been killed. And the media had reported the news saying that Bayburt was the ideal city for them. However, a few days later, I received an email asking me to rectify this undeserved image I had given to the city, with a link to a report on a crime committed against a woman. There are therefore cases in which the news appears in local newspapers, but does not reach a wider audience and therefore remains in the shadows. At least, however, now there is an additional channel for people to make their reports.

    What is the main pretext of femicides in Turkey?

    In first place we find an “unspecified” pretext. This means that in 22.4% of reported cases the press did not provide information on the cause of the crime. Rows or disputes follow with 16.5%, but this is an extremely vague motive – it is in fact difficult to think that in other cases there was no discussion before the murder. Then we find “suspicion of infidelity”, which is more concrete. However, it must be kept in mind that all this comes from the statements made by the murderers, and many say that they killed on suspicion of infidelity because they hope in this way to reduce the sentence. We do often see life sentences reduced to eight years because the man claims he was provoked, shows up in a tie, and is submissive to the judge. Another common pretext is the woman’s refusal to accept the man’s reconciliation proposal. For example, the man goes to his wife, who has returned to live at her parents’ home, and asks for reconciliation, but he brings a gun to kill her – and sometimes the people who are with her – if she refuses. But sometimes women are killed because they laughed, or did not do the laundry.

    Who are the murderers?

    Mostly the men married (40.6%) or engaged (11.4%) to the victims. The “unknown” aggressor is in eighth place, and accounts for only 3.8% of cases. Those responsible for the murders are almost always men who were part of the daily life of the victim – tragically, we find many first-degree relatives, including fathers, brothers, sons-in-law, and children.

    What about the outcome of the murders?

    In 59.7% of cases, the culprits were arrested. The second most frequent outcome (17.6%) is the murderer’s suicide, followed by surrender to the police (11.5%). In 6.2% of cases, the outcome is “unknown”, because it was not reported by the press. It was not possible for me to follow the whole judicial process of individual cases. There are some women’s organisations that do this. But I kept track of other data – whether before the murder the woman had tried to separate or divorce from the man; whether she had filed a complaint to the authorities; whether there had been previous episodes of violence. The map indicates that at least 246 women had reported threats to the authorities, while 369 murders were preceded by violence or threats.

    What is the overall picture that emerges from this map?

    The press reports these murders as single, tragic events, but when we look at them together, a pattern emerges. These killings all resemble each other, they have similar pretexts and perpetrators, which mostly belong to the family circle of the victims. And this tells us a lot about the roots of the problem and how it could be countered. But this requires commitment. At the local level, in the provinces where there is a higher number of homicides, protection mechanisms could be developed for women, while at the national level more efficient legal measures could be implemented – for example, by removing suspicion of infidelity as a mitigating factor. The Istanbul Convention is a very important instrument, it requires states to count the murders of women, but this is not being done. This map says many things, but only to those who want to listen.


    https://www.balcanicaucaso.org/eng/Areas/Turkey/Turkey-the-map-of-violence-against-women-185984
    #cartographie #visualisation #violence #femmes #Turquie #carte_interactive

    Lien pour accéder à la carte en ligne :
    http://kadincinayetleri.org

  • #Galeb, la nave di #Tito

    La nave Galeb, sulla quale tra il 1953 e il 1979 Tito ha ospitato decine di capi di stato, verrà ristrutturata con fondi europei e trasformata in museo multimediale a Fiume, Capitale europea della cultura 2020


    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Galeb-la-nave-di-Tito-182432
    #Yogonostalgie #ex-Yougoslavie #mémoire #Yougoslavie #musée
    cc @albertocampiphoto


    • bananier, croiseur auxiliaire, yacht d’État, épave, musée,…

      Costruita nei cantieri dell’Ansaldo a Genova, lunga 117 metri e larga 15 la Galeb è fornita di due motori diesel Fiat da 7.200 cavalli. Venne varata nel 1938 con il nome «Ramb III» e destinata al trasporto di banane per conto della Marina mercantile italiana. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale venne convertita a incrociatore ausiliario e utilizzata dalla Regia Marina come unità di scorta tra Italia, Libia, Grecia e Albania. Il 9 settembre 1943, giorno dopo la firma dell’Armistizio, le truppe tedesche ne presero possesso, la rinominarono «Kiebitz» (Pavoncella) e divenne posamine: usando come base il porto di Fiume, in oltre un anno scaricherà in mare più di 5mila mine tra il Quarnero e l’Alto Adriatico. Il 5 novembre del 1944, durante uno dei 27 bombardamenti degli Alleati sulla città avvenuti tra gennaio ’44 e marzo ’45, la Galeb venne colpita e affondata.

      Solo nel 1947 venne recuperata dal fondo marino e rimessa a nuovo per diventare la nave di rappresentanza di Jozip Broz Tito, dal gennaio del 1953 presidente della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. La userà per la prima volta nel marzo del ’53, per navigare fino alle coste del Regno Unito e lungo le acque del Tamigi e arrivare a Londra per incontrare il primo ministro Wiston Churcill.

  • Croatie : le conseil municipal de #Zagreb débaptise la place Tito

    L’extrême droite a réussi son coup de force : dans la nuit de jeudi à vendredi, le conseil municipal de Zagreb a débaptisé la place Tito. C’était le prix du ralliement des partisans de Zlatko Hasanbegović à l’inamovible maire de la capitale croate, Milan Bandić. La décision suscite une vague de protestations.


    https://www.courrierdesbalkans.fr/Croatie-le-conseil-municipale-de-Zagreb-debaptise-la-place-Tito

    #Place_Tito #Tito #toponymie #Croatie #ex-Yougoslavie #mémoire

  • European Data Journalism Network
    http://www.europeandatajournalism.eu

    Welcome to the European Data Journalism Network!
    Starting from October 2017, a new platform for data-driven news on European affairs brought to you in up to 12 languages by a consortium of media and data journalists from all over Europe
    Meanwhile, you can check the stories produced by EDJNet on the Network members’ websites and social media accounts, and follow us on Twitter
    You want to know more or join the Network? Contact us info@europeandatajournalism.eu


    #journalisme #data #datajournalisme #eu #europe #creative_commons

  • La Croazia, i dazi doganali e i numeri dell’agricoltura nel paese

    Nel mese di luglio la Croazia ha moltiplicato per venti - passando indicativamente da 12 a 270 euro - una tassa sui controlli fitosanitari su una serie di prodotti agricoli provenienti da paesi non-Ue.


    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/La-Croazia-i-dazi-doganali-e-i-numeri-dell-agricoltura-nel-paese
    #Croatie #agriculture #statistiques #chiffres

  • Gli albanesi in Italia, in «via d’estinzione»?

    Da alcuni anni il numero dei cittadini albanesi in Italia è in calo. Dopo aver superato il mezzo milione all’inizio del 2014, il loro numero ha cominciato a ridursi gradualmente


    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Gli-albanesi-in-Italia-in-via-d-estinzione-180766
    #albanais #Italie #migrations #statistiques #chiffres #migrants_albanais

  • The testimony. Truth or politics

    A 25 anni dallo scoppio delle guerre jugoslave, è ancora necessario lavorare per integrare le memorie legate a questo capitolo di storia recente nella riflessione sul più ampio spazio europeo della memoria. THE TESTIMONY – TRUTH OR POLITICS si propone di riflettere pubblicamente sulla dissoluzione jugoslava portando al centro le testimonianze individuali di chi il conflitto l’ha vissuto da combattente o invece opponendo resistenza.

    Coordinate dal Centre for Cultural Decontamination di Belgrado , otto realtà culturali di vari paesi collaborano alla rielaborazione artistica di centinaia di audio-interviste, alla realizzazione di una mostra itinerante, di un archivio di memorie interattivo, e vari eventi. OBC Transeuropa porterà la mostra in Italia e pubblicherà una serie di approfondimenti dedicati alla commemorazione delle guerre di dissoluzione jugoslava e al loro significato in ambito europeo.


    https://www.balcanicaucaso.org/Progetti/Testimony-Truth-or-Politics
    #Yougoslavie #guerre #conflit #mémoire #histoire #témoignage #ex-Yougoslavie
    cc @albertocampiphoto